devinis n. 83 settembre-ottobre 2008

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DE Vinis PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL ’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - [email protected] Anno XV - n. 83 - 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postal e - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, DCB Mil ano LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE Settembre / Ottobre 2008

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Pubblicazione Ufficiale dell'Associazione Italiana Sommelier

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DEVinis

PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - [email protected]

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LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ,LA CUL TURA, IL PIACERE,

I PROTAGONISTI DEL BERE BENE

Settembre / Ottobre 2008

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Rieccoci: terminate le ferie l’agenda dell’Associazione italiana som-meliers è tornata ad essere piena di impegni, di iniziative e di mani-festazioni. Siamo partiti in settembre con la Giunta esecutiva nazio-

nale, i premi e le borse di studio; si prosegue in ottobre col Congressonazionale in Sicilia per arrivare poi ai grandi eventi della WorldwideSommelier Association.Tra le novità c’è la collaborazione con il mensile “A Tavola” che prossi-mamente vi verrà inviato come supplemento. Avverrà la stessa cosa conil nostro bimestrale “DeVinis” che in edicola accompagnerà la rivista.Sarà una sinergia preziosa e interessante per tutti gli appassionati dienogastronomia. È uno dei modi per avvicinarci alla gente. Un temache ci sta a cuore perché significa divulgare la cultura del vino e l’edu-cazione al bere consapevole ad un numero sempre maggiore di persone.Sarà il nostro esame di maturità. Belle parole, diranno alcuni di voi. Ma come metterle in pratica? Nelleultime settimane abbiamo già cominciato a lavorare in questa direzio-ne. Una delle cose da fare sarà coinvolgere il ministro dell’IstruzioneMariastella Gelmini per portare i sommeliers nelle aule scolastiche: inquesto modo sarà possibile spiegare che degustare vino è equilibrio e

riflessione, che si beve (poco) e solo davan-ti ad un piatto, che gli eccessi sono daevitare così come i beveroni di scarsissi-ma qualità che provocano gli incidenti

stradali, che quella dello “sballo” non è cul-tura ma barbarie.

In quest’ottica coinvolgeremo anche un altroesponente dell’esecutivo, il ministro dei Beniculturali Sandro Bondi, per organizzareeventi, rassegne e manifestazioni che met-tano in evidenza il nostro grande patrimo-nio enologico, che fa parte della storia edella cultura del nostro Paese. Sono gliobiettivi che ci siamo prefissati per i pros-

simi mesi. Non sono campati in aria: si fon-dano sulla volontà, sulla preparazione e sulla

professionalità dei nostri associati. Nessunopuò rubarcele. Al massimo tenteranno di copiar-

le. Ma non sarà la stessa cosa.

La cultura

dell’Aistra la gente

di Terenzio Medri

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Anno XV settembre-ottobre 2008Associazione Italiana Sommeliers Editore

Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, [email protected] redazionale | Francesca Cantiani, [email protected] e impaginazione | Media 95, [email protected] la pubblicità | Roberto Pizzi [email protected] tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 – 20121 Milano Traffico pubblicità | Emanuele Lavizzari, [email protected] - tel. +39 02/2846237

Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - [email protected]

Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, [email protected]

Hanno collaborato | Fernando Araújo-Coelho, Silvia Baratta, Luisa Barbieri, Roberto Bellini, Francesca Cantiani,Luigi Caricato, Luca Carosi, Alessandro Franceschini, Fabrizio Franchi, Natalia Franchi, Luca Gardini, SalvatoreGiannella, Lorenzo Giuliani, Emanuele Lavizzari, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Antonello Maietta, DinoMarchi, Angelo Matteucci, Davide Oltolini, Cesare Pillon, Paolo Pirovano, Camillo Privitera, Alessandra Rotondi,Daniele Urso, Franco Ziliani.

Fotografie | Archivio AIS, Alessandro Franceschini, Maurizio Maestrelli, Angelo Matteucci, Urbano SintoniFoto di copertina di Alfio GarozzoPer “Le Interviste Impossibili” a firma Salvatore Giannella si ringraziano Vanni Dolcini, Leopoldo Veronesi e ilGrand Hotel RiminiPer gli articoli “Vendemmia: Italia batte Francia” e “Il lungo viaggio delle anguille” foto di Mauro Icicli. Si ringrazia ilRistorante Lidò – Lido delle Nazioni (FE)Per l’articolo a firma Luigi Caricato foto di Giuseppe PenninoPer l’articolo a firma Angelo Matteucci foto di Giandomenico Pozzi

Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001

Associato USPI

Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA 20,00 euro ESTERO 35,00 euroDa effettuarsi mediante versamento o bonifico su c/c postale 000058623208Banco Posta ABI 07601 CAB 01600 CIN Kintestato a: Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9, 20125 MilanoTramite Bonifico Bancario: Banca Intesa, Via Costa 1/A, Milano c/c 625008307992 ABI 03069 CAB 09442 CIN H IBAN IT26H0306909442625008307992 - specificando il motivo del versamento.

Chiuso in redazione il 29-08-2008Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio MilanoCopie di questo numero | 40.000

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La quota associativa è di 80 euro ecomprende l’abbonamento annuo allarivista ufficiale AIS e la GuidaDuemilavini edizione 2009.

Rinnovo quota associativa

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La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene.

AIS Associazione Italiana SommeliersPresidente | Terenzio MedriVicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella RomaniMembri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, LorenzoGiuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.

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6 In Sicilia anche la natura è storiaUN’ISTANTANEA DELLA REGIONE CHE OSPITERÀ IL CONGRESSO NAZIONALE

15 Le interviste impossibili: Federico FelliniPER IL GRANDE MAESTRO DEL CINEMA UN VINO BUONO È COME UN BEL FILM

29 Le parole nel vinoCOME COMUNICARE CON IL LINGUAGGIO DELLA DEGUSTAZIONE

36 Dop non significa dopingTRA UN ANNO DOC E DOCG VERRANNO RIFORMATE: QUALI LE PROSPETTIVE?

58 Vendemmia: Italia batte FranciaIL DERBY ENOLOGICO EUROPEO È STATO VINTO DAL NOSTRO PAESE

68 Il gusto di regalare vino

All’interno

ENOTECA LONGO: LA VETRINA DELLE ECCELLENZE

84 Ais for AfricaI SOMMELIER HANNO ADOTTATO UN VILLAGGIO DI ORFANI NEL CONTINENTE NERO

62 Mappamondo IN ARGENTINA UN VINO PARLA ITALIANO

72 Olio L’OLIVICOLTURA EROICA PUÒ RILANCIARE IL COMPARTO

74 Birra UNA SORGENTE NELLE DOLOMITI

76 Distillati IL SAPORE CARIOCA DELLA CACHAÇA

78 Acqua CON LE CARNI DEV’ESSERE LEGGERA

86 Enopassione IL VINO DEL DOCUMENTARISTA

96 Sullo scaffale LE NOVITÀ EDITORIALI

98 Io non ci sto! LA BISCHERATA DEGLI EUROBUROCRATIIN COPERTINA: LA SICILIA

E L’ETNA

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La Sicilia è da sempre punto diarrivo e di partenza per nuoviluoghi, terra di accoglienza

come di emigrazione, un po’ come lastoria. E’ quindi ovvio che nella suacultura, nelle sue architetture, comenelle sue abitudini e tradizioni alimen-tari vi sia di tutto e di più, compresaquella stanchezza che spesso assaleuna terra che ne ha viste tante e checontinua ad essere luogo d’apprododi molte umane vicissitudini. Dovetutto può essere poco ma anche tanto.Dove si può essere duri, ma anchevisceralmente affettuosi e generosi.Dove la natura è fotocopia del carat-tere siciliano: tumultuosa, focosa, vio-lenta ma anche straordinariamentenobile e dolce. Pur nelle avare descrizioni e testi-monianze dell’antichità conosciamodalla “Tavola di Alesa”, del primo seco-lo a.C., la frammentazione del terri-torio in piccoli possedimenti chiusi

da muriccioli, percorsi da una minutarete di irrigazione, cosparsa di unamiriade di edifici, alberi, arbusti a for-mare il tipico giardino mediterraneo. Da questo dipende che, ancor oggi, diun fondo coltivato ad agrumi, inSicilia, si dice comunemente: un giar-dino di aranci, un giardino di limoni.La Sicilia, “laboratorio” della civiltàumana, dove le lunghe e varie espe-rienze dell’uomo abitante e organiz-zatore dello spazio isolano si sonosovrapposte fino ai nostri tempi, il pae-saggio e l’ambiente sono derivati dal-l’azione e dalle influenze dirette e indi-rette dell’uomo nel tempo.

��� IL TERRITORIO SICILIANOLa Sicilia, con le isole circostanti, è laregione più estesa d’Italia con unasuperficie di 25.707 chilometri qua-drati. Essa è uno dei territori più ete-rogenei del bacino del Mediterraneocon una ricchezza ambientale e bio-

In Siciliaanche la natura

è storiadi Camillo Privitera Presidente Ais Sicilia

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logica straordinaria, risulta tra i ter-ritori a più alta diversità biologica econ una elevata presenza di varietàendemiche.In Sicilia esistono oltre 3.000 speciedi piante. Questa varietà è stata deter-minata dalla posizione geografica del-l’isola e dalla conformazione del ter-ritorio.I litorali nord-orientali sono di carat-tere ciottoloso o sabbioso-ciottoloso,quelli del versante nord-occidenta-le e sud-orientale sono prevalente-mente rocciosi spesso alternati a inse-nature sabbiose, il versante sud-occi-dentale presenta litorali sabbiosi conformazione di dune con depressionisalmastre verso l’interno.La Sicilia è si montuosa, ma soprat-tutto collinare. L’Istat classifica il 60%del territorio come collina e il 25%come montagna.La struttura geolitologica delle mon-tagne è diversa: abbiamo i Peloritanicon rocce silicee, con gneiss, scisti egraniti; mentre nei Nebrodi si hannoaree scistose e calcaree e sulleMadonie si ha l’alternanza di calca-

ri, dolomie del Mesozoico e argille mar-nose. Il clima siciliano è mediterraneoma si presenta abbastanza differen-ziato. Infatti solo in parte è mite, suglialtipiani e sui rilievi l’influsso medi-terraneo si attenua parecchio.Le precipitazioni non mancano e siconcentrano in un breve periodo e sidistribuiscono irregolarmente nei variterritori. Il paesaggio agrario è forma-to prevalentemente da colture arbo-ree, da vigneti e da agrumeti.Le aree più interne dell’isola sonocaratterizzate da colture erbacee, edin particolare del grano duro.Il paesaggio delle colture arboree ècaratterizzato dalle tipiche colturemediterranee: olivo, mandorlo, noc-ciolo, pistacchio e carrubo.L’olivo, pianta millenaria, si coltiva indiverse varietà da alcune delle qualisi produce olio di eccellenza: Nocellaradel Belice, Nocellara Etnea, TondaIblea e ancora Santagatese, Ogliarolamessinese e Minuta.Il mandorlo è maggiormente presen-te nelle province di Agrigento eCaltanissetta. La coltura del nocciolo

è presente nelle zone montane deiNebrodi e dell’Etna nel comune diSant’Alfio, mentre la coltura del pistac-chio, particolarmente rinomata quel-la del versante sud dell’Etna, è pre-sente anche nelle province di Agrigentoe Caltanissetta.Il carrubo, invece, caratterizza forte-mente il paesaggio dell’altopiano ibleo,insieme al bianco dei muretti a seccoche delimitano i vari possedimenti.Altre colture di importanza margina-le sono quella del pero e del melo dif-fusa nei paesi etnei, il pesco aLeonforte e Bivona, il fico d’india a SanCono e Caltagirone, kaki e nespolo delgiappone lungo le zone costiere set-tentrionali.Lungo la fascia costiera meridionale,ed in particolare nella provincia diRagusa, il paesaggio è caratterizzatodalla presenza di numerose serre perproduzioni ortofloricole e di uva datavola. Le colture agrumicole sono pre-valentemente diffuse nelle pianure inprossimità delle coste, come la Concad’Oro, la Piana di Catania e nella pro-vincia di Siracusa.

� Il panorama mozzafiato di Lipari, Isole Eolie

� Pantelleria, vigneti di Zibibbo

� Il tramonto su Lipari, Isole Eolie

I crateri fumanti dell'Etna

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��� LA VITICOLTURARicopre un ruolo importante nel set-tore agricolo dell’isola ed è al primoposto a livello nazionale per estensio-ne del territorio coltivato a vigneto con158.000 ettari.La Sicilia è stata da sempre una clas-sica terra produttrice di vini, princi-palmente da taglio, che andavano arinforzare i vini settentrionali. Già nel1960 ebbe inizio una larga e vastariconversione tecnica dei vigneti, pun-tando sui terreni più freschi e portain-nesti vigorosi, su sistemi colturali apiù grande espansione con la conse-guente contrazione dell’allevamentoad alberello. Negli anni ‘90 con la riduzione dellaproduttività per ettaro, per aumenta-re il livello qualitativo dei vini ottenu-ti e favorirne la commercializzazio-ne, grazie all’aumento degli investi-menti, provenienti anche da altre partid’Italia, e alla forza trainante del set-tore enologico a livello internaziona-le, c’è stato un’ulteriore passo in avan-ti ed è proprio in questo periodo chesi è cominciato a parlare in Italia e nelmondo dell’enologia sicilia-na e delle grandi potenzia-lità dell’isola.Il volto del risorgimentovitivinicolo è di tanti gio-vani produttori, e fra que-sti di moltissime donne,che hanno riscoperto ilvalore della terra, oltre cheda accorte politiche sullaviticoltura che hannovisto impegnato l’IstitutoRegionale della Vite e delVino e l’attenzione dialcuni uomini politici,primo fra tutti l’On.Giuseppe Castiglione, oggi Presidentedella provincia di Catania, nella suaqualità di assessore regionale all’agri-coltura e di eurodeputato.Possiamo quindi parlare di una moder-na viticoltura con una grande tradi-zione alle spalle che oggi conta unaproduzione di 22 d.o.c. e una d.o.c.g.I vigneti sono posizionati in collina

per il 53,74%, il 38,9% in pianura e il7,4% in montagna, quest’ultima rap-presentata quasi totalmente dalla zonaetnea, dove la coltivazione della vitegiunge fino e oltre i 1000 m di altitu-dine. Molti i vitigni autoctoni.I vitigni autoctoni più importanti sono,per quanto riguarda quelli a bacca bian-ca: la famiglia dei Catarratti, il Grillo,

l’Inzolia, Grecanico, Damaschino,Carricante, Moscato Bianco, Zibibbo,Malvasia delle Lipari. Per quanto riguar-da i vitigni autoctoni a bacca nera sono:Nero d’Avola, Nerello Mascalese,Frappato di Vittoria, Perricone eAlicante.In questi ultimi anni si è assistito all’introduzione di vitigni internazionali,come Merlot, Cabernet, Syrah eChardonnay, Viogner, Sauvignon. La produzione dei vini ancora undecennio fa vedeva il 75% di produzio-ne a bacca bianca, oggi scesa al 65%.La Sicilia orientale vede, oggi, una pro-duzione di uve nere al 90%, mentre lazona occidentale vede la produzione

di uva a bacca bianca per il 70%.La forma di allevamento più diffusa èla spalliera con una percentualedell’80%. E’ in calo l’impianto ad albe-rello, arrivato in Sicilia con i Greci,che oggi vede ancora grandi estima-tori, soprattutto per la coltivazione divitigni come il nerello mascalese, maè in diminuzione a causa degli alticosti di esercizio.Ricordiamo, infine, che la Sicilia è laprima regione per ettari destinati allaviticoltura biologica.Per completare il panorama del terri-torio siciliano, aggiungo che la Siciliapuò vantare quattro parchi naturali,circa novanta riserve naturali, che com-plessivamente sottopongono a tutelae a fruizione controllata circa 250.000ettari di superficie, corrispondente adoltre il 10% del suo territorio e infinesono attive sul territorio dodici Stradedel vino.

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L’asfalto scivola via veloce mentre percorriamo l’autostrada che daPalermo conduce al mare. Verso quel tratto di costa che unisceMazara del Vallo a Trapani. Questa è l’Autostrada del Sale, gran-

de opera costruita dopo il terremoto del Belice nel 1968 e arteria che pren-de il nome dalle saline sparse sulla costa. Miniere che per secoli hannoprodotto il “bianco oro” di Sicilia. Nei pressi della cittadina di Capaci, dal maggio 1992, questa strada èdiventata tristemente famosa per la morte del giudice Falcone in una dellepagine più buie della lotta alla mafia. Ma ora l’Autostrada del Sale sipercorre in cerca di serenità, tradizioni, sapori e vino.Perché questa è la terra enoicamente resa famosa dal Marsala, ma nonsolo. A cavallo delle province di Palermo e Trapani, la Doc Alcamo pro-duce rossi, bianchi e rosati di pregio. Perfino qualche spumante. A Sudc’è la Doc Delia Novelli e poi Salaparuta, Moscato, Menfi ed Erice, dovela brezza marina accarezza le colline ai piedi dell’omonimo monte e scivo-la tra i vicoli dell’antico borgo medievale. Senza dimenticare che nella lon-tana Pantelleria si produce un grande Passito. Ricca di vino e uva la Siciliaoccidentale. Qui trovano fortuna vitigni autoctoni come l’onnipresenteNero d’Avola, il Perricone (molto amato però anche nelle province diAgrigento e Messina) noto anche come Pignatello, il Moscato di Alessandria,giunto probabilmente con gli Arabi che lo chiamavano Zabib (l’uva passa)e che ora conosciamo come Zibibbo. E poi il Grecanico dorato che per alcu-ni ricorda il Sauvignon, l’Inzolia, il piu’ antico vitigno siciliano, e il resi-stente Catarratto che copre la maggiore superficie vitata della provinciatrapanese. Infine ci sono quelli nati altrove, ma che in questa terra hannotrovato una seconda casa. Chi arriva da vicino, come il Grillo originariodella Puglia, e chi invece è un giramondo, come l’onnipresente Cabernet,il Merlot, lo Shiraz e lo Chardonnay.Tanti vitigni per tanti vini: quelli bianchi, legati alla tradizione vitivinico-la siciliana, e quelli rossi, che amano sole, terra e vento.

Intuizione inglese ma animo siciliano

Ma se vagabondiamo per queste terre, non possiamo dimenticare che l’in-dustria del vino nel Trapanese deve la propria originaria fortuna all’intui-zione di un inglese. La leggenda vuole, infatti, che sia stato nel 1773 sirJohn Woodhouse, commerciante della portuale Liverpool, il padre delMarsala, celeberrimo vino liquoroso prodotto ovunque tranne che nelcomune di Alcamo e nelle isole piu’ piccole (Pantelleria, Favignana, Levanzoe Marittimo). Nel loro vagabondare per il Mediterraneo i Britannici cer-cavano un sostituto del Madera portoghese, vino dell’omonima isola chedurante la“Guerra coloniale anglo-francese” e quella dei “Sette Anni” eranodiventate difficili da raggiungere. Approdato nel 1770 a Marsala, Woodhouse fece conoscenza con i vini dellazona trovandoli simili a quelli spagnoli e portoghesi, di gran voga nellaGran Bretagna di Giorgio III. Nella zona, all’epoca, il vino prodotto conuna miscela di uve Grillo, Catarratto, Inzolia e Damaschino veniva fatto

Sicilia, uno scrigno

di sapori e di sorpresedi Daniele Urso

� Vigneti a Marsala

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invecchiare in botti di legno, rabboccando con la nuova vendemmia la vec-chia produzione (in perpetuum), così da conservarne le caratteristiche.Per aumentare la gradazione alcolica e conservare il vino durante ilritorno in patria, Woodhouse aggiunse nelle 70 “pippe” (tradizionali bottisiciliane da circa 455 litri) dell’acquavite. La prima esportazione dell’antenato del Marsala (1773) fu un tale succes-so che il commerciante britannico tornò in Sicilia e sulla sua scia giun-sero altri connazionali. Nel 1806 Benjamin Ingham applicò per primo ilmetodo “soleras” (già utilizzato per Porto e Sherry) al Marsala: cinque bottidi legni differenti (dieci per il Soleras Stravecchio) una sopra l’altra, contravasi annuali partendo dall’alto fino ad arrivare a quella posta al suolo(“solera”) con il prodotto finito. Chi però fece del Marsala quello che conosciamo oggi fu Vincenzo Florio,ricco imprenditore che nella prima metà dell’800 dall’industria del tonnoe delle saline si allargò a quella vitivinicola, portando i propri vini asuperare per qualità e produzione quelli dei concorrenti britannici. E il resto, come si suol dire, è storia.Una storia fatta di uve a bacca bianca (Grillo, Inzolia, Catarratto eDamaschino) e più recentemente anche a bacca nera (Pignatello, Nerod'Avola e Nerello Mascalese) per il rubino. Una storia di cottura del mostoin caldaie a rame e di un proliferare di tipologie legate ai metodi di pro-duzione. Tra Ambra, Oro, Rubino, Soleras, Stravecchio, Riserve varie,Secco, Semisecco e Dolce, ci sono etichette e vini per tutti i gusti. Da quel-li per una serena meditazione, fino agli abbinamenti più azzardati. Insommaa ognuno il proprio Marsala.

La storia nel piatto

In una zona come questa non poteva esserci che varietà. Il Trapanese hasubito le piu’ svariate influenze in secoli di commercio e occupazioni.Ritroviamo così il “couscous”, cuore della cucina berbera del Maghreb chea Trapani è convolato a giuste nozze con il pesce. La dominazione araba ha portato anche il sapiente utilizzo delle spezie edelle erbe, che fa della cucina di queste zone un sofisticato bouquet di pro-fumi e sapori. Senza scordare che la Cassata, “codificata” durante la domi-nazione normanna, ha nella sua etimologia la radice araba “qas’at” (baci-nella). I dolci della zona sono però soprattutto quelli dei conventi di clau-sura e delle monache di Erice. I dolci della “Badia” come la frutta martora-na, o quelli a base di pasta reale, ricotta, mandorla, cedro e altro ancora. Parole e nomi che racchiudono sapori ma anche sorprese, come quella delMataroccu, che alcuni chiamano pesto di Favignana. Se chiedete a un tra-panese cosa significhi il termine, vi risponderà che in antico dialetto ilMataroccu era una “junta” (aggiunta) di pietanza fatta di zucca ammac-cata. Non stupitevi se però nel vostro piatto non ci sarà traccia di zucca,ma un pestato di prezzemolo, aglio, pinoli, sedano, pomodori maturi, basi-lico, olio, sale e pepe (anche se di varianti ne troverete diverse). Misterisiciliani, misteri trapanesi.

� Cannoli siciliani

� CassataLe radici della cassata risalgono alla dominazione araba in Sicilia (IX-XIsecolo). Gli arabi avevano introdotto la canna da zucchero, il limone, il cedro,l'arancia amara, il mandarino e lamandorla. Nel periodo normanno, a Palermo presso il convento dellaMartorana, fu creata la Martorana, un impasto di farina di mandorle e zucchero, che, colorato di verde con estratti di erbe, sostituì la pasta frollacome involucro. Gli spagnoli introdusseroin Sicilia il cioccolato e il pan di Spagna.Durante il barocco si aggiungono infine i canditi.

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L’azienda agricola Marabino èuna realtà abbastanza recen-te nel panorama vitivinicolo

siciliano, questa struttura produtti-va vanta tuttavia una solida esperien-za nel settore agricolo. I suoi titolari,imprenditori di successo del gruppoIrservice, operavano infatti nel com-parto agricolo già da diversi anni attra-verso Natura Iblea, una modernaazienda biologica nata a sua volta dal-l’incorporazione di una società ope-rativa in questo settore dal 1988. L’assetto operativo di Natura Iblea èstato fin dall’inizio orientato essen-zialmente verso la commercializza-

zione e la produzione ortofrutticolabiologica, ma la passione di MarioSaraceno e di Sebastiano Messinaporterà in tempi successivi alla pro-duzione di Olio Extra Vergine di Oliva,anch’esso biologico, utilizzando le solecultivar locali Moresca e Verdese, rac-colte da ulivi plurisecolari all’internodella sottozona Val Tellaro della DopMonti Iblei. Nel 2002 il gruppo sposta le sueattenzioni al settore vitivinicolo conl’acquisizione di una tenuta di circa30 ettari all’interno di un compren-sorio di particolare pregio, posto acavallo tra le aree di produzione delle

Eureka, il vino

di ArchimedeL’OMAGGIO DI

UN’AZIENDA SICILIANA

DI NOTO AL GENIO

CHE CON LE SUE

INVENZIONI

ARRICCHÌ IL MONDO

DI SCIENZA E SAPERE

di Antonello Maietta

La tenuta dell'azienda

Marabino

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LA BIOGRAFIA DELLO SCIENZIATO CHE HA ISPIRATOI VITICOLTORI SICILIANI

Astronomo, matematico, fisico e ingegnere, guida e maestrodi tutti gli scienziati. Archimede nasce nel 287 a.C. a pochichilometri dalle terre del Nero d’Avola, a Siracusa. Secondo leopere conservate e le testimonianze dell’epoca si occupa ditutte le branche delle scienze matematiche a luicontemporanee (aritmetica, geometria piana e solida,meccanica, ottica, idrostatica, astronomia) e di parecchieapplicazioni tecnologiche.Nell’immaginario collettivo il ricordo di Archimede èindissolubilmente legato a due aneddoti divenuti leggendari.Vitruvio racconta che avrebbe iniziato a occuparsi diidrostatica perché il sovrano Gerone II gli aveva chiesto,temendo di esser stato ingannato dal suo orafo, dideterminare se una corona fosse stata realizzata con oro puroo utilizzando invece all’interno altri metalli. Archimedeavrebbe scoperto come risolvere il problema mentre facevaun bagno, notando che immergendosi provocava uninnalzamento del livello dell’acqua. Questa osservazionel’avrebbe reso talmente soddisfatto che si sarebbe alzato inpiedi esclamando: «Eureka! Ho trovato!». Un altro episodioche ha avuto altrettanta fortuna è connesso al suo interesseper la costruzione di macchine capaci di spostare grandi pesi con piccole forze. Secondo una storiatramandata da Simplicio, lo scienziato, entusiasmatosi per le possibilità offerte dalla nuova meccanica,avrebbe affermato: «Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo».La popolarità di Archimede nell’antichità è legata, più che alle sue opere difficilmente divulgabili, alricordo dei suoi straordinari ritrovati tecnologici. Parte notevole della sua fama deriva dal contributo alladifesa di Siracusa contro l’assedio romano durante la Seconda Guerra Punica. Gli storici del tempodescrivono macchine belliche di sua invenzione, tra le quali la manus ferrea, un artiglio meccanico ingrado di ribaltare le imbarcazioni nemiche, e armi da getto simili a catapulte. Avrebbe usato anche icosiddetti “specchi ustori”, ovvero lamiere metalliche concave che riflettevano la luce solareconcentrandola sui nemici, incendiandone addirittura le navi.Tra i suoi molteplici apparecchi non si può tralasciare quello che riproduce la volta del cielo su una sfera eun altro che predice il moto apparente del sole, della luna e dei pianeti, equivalente a una sorta dimoderno planetario. Tra le sue eredità vi sono gli studi sulla misura del cerchio, la quadratura dellaparabola, le spirali, la sfera e il cilindro e parecchi trattati, tra cui l’opera con cui ha fondato la scienzadell’idrostatica. Archimede è morto a 75 anni, trafitto dal gladio di un soldato romano durante il sacco diSiracusa del 212 a.C.

(E. L.)

ARCHIMEDE, IL CAPOFILA DEGLI INVENTORI

due Doc Eloro e Moscato di Noto. Daquel momento parte un’intelligenteopera di reimpianti che ha privilegia-to i vitigni tradizionali della zona, Nerod’Avola, Insolia e Moscato bianco,verso i quali la vocazione aziendale èprevalentemente rivolta, senza tra-scurare un’adeguata presenza di viti-gni internazionali quali Chardonnay,Syrah e Cabernet Franc, ma favoren-do contestualmente l’attenta ricon-versione della superficie vitata pree-sistente ad una filosofia di maggiorrigore qualitativo ed enfatizzando almassimo le peculiarità del territo-rio. I nuovi impianti sono stati realiz-

zati in maniera tecnologicamenteavanzata, sfruttando al meglio l’irrag-giamento solare e i venti dominantidella zona. Il fiore all’occhiello della tenuta ècostituito dalla “Vigna di Archimede”,una parcella di vigneto di oltre tren-t’anni, con un’estensione di circa treettari, impiantato con Nero d’Avola eallevato ad alberello “pachinese”, conceppi bassi contorti, tipici della varie-tà, che producono grappoli molto pic-coli ma di una qualità straordina-ria. Nel 2002 da queste uve nasce illoro primo vino, dedicato appuntoal grande scienziato siracusano, come

tributo ad un territorio ricco di fasci-no e di storia.Quasi in contemporanea con questoprogetto si inserisce il percorso pro-fessionale di Pierpaolo Messina, figliodi Sebastiano. Proprio in quel perio-do infatti si trasferisce a Siena perfrequentare l’Università. Vivere perqualche anno in Toscana, ma soprat-tutto in un contesto ambientale cosìfortemente radicato alla tradizionevitivinicola, non poteva non condizio-nare le sue scelte future. E cosìPierpaolo di giorno segue le lezionidel suo corso di laurea in Scienzedell’Amministrazione e alla sera fre-

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quenta il corso dell’Ais, nel 2007 sidiploma sommelier e, quando tornaa casa, diventa il coordinatore delleattività vitivinicole del gruppo.Attualmente il profilo produttivo del-l’azienda prevede una gamma di viniben variegata e rappresentativa delterritorio. La nostra degustazione ini-zia con Eureka 2006, ulteriore omag-gio ad Archimede ed al suo famosogrido appassionato che arricchì ilmondo di scienza e sapere. Si trattadi un Igt Sicilia che nasce da uveChardonnay in purezza. Ha un bel-lissimo colore paglierino intenso dailuminosi riflessi dorati ed un naso diammiccante personalità modulatosulle note di gelsomino, foglioline dimenta, scorza di pompelmo e mieledi tiglio. Di ampio volume poi inbocca, rotondo e vellutato, bilancia-to da un adeguato contributo di sapi-dità. E’ vinificato esclusivamente inacciaio e si abbina perfettamente congrigliate di pescato nobile e crostaceial vapore. Con il Rosa Nera 2007, un Igt Siciliada uve Nero d’Avola vinificate con unaparziale macerazione sulle bucce,siamo alla prima uscita sul mercato.Di colore rosa antico, delicato e tra-sparente, offre una dotazione olfatti-va dai richiami immediati di ciliegiae lampone ed un palato di frescaimpronta. La vinificazione è condot-ta esclusivamente in acciaio e trovail suo adeguato connubio con la tar-tare di tonno e le verdure ripiene.Don Pasquale 2006 è invece un Nerod’Avola in purezza ottenuto, a diffe-renza del vino precedente, dalla vini-ficazione tradizionale in rosso. Sfoggiain etichetta il vessillo della Doc Eloroe si offre alla vista con un bel rubi-no intenso con riflessi viola. All’olfattoricorda i piccoli frutti rossi maturi con

lievi accenni floreali di viola mammo-la; ha un palato di lunga persisten-za, caldo ed avvolgente, con tanninisetosi, e si dispone con slancio adaccompagnare piatti di buona strut-tura come la faraona al forno ed ilconiglio farcito.Per trovare un connubio tra vitignidella tradizione e vitigni internazio-nali, nel nostro caso Nero d’Avola 70%e Syrah 30%, dobbiamo invece pas-sare al Don Paolo 2004, con il suo belrubino solido e consistente ed unnaso molto complesso di confetturadi mora, china, rabarbaro e speziedolci, retaggio dei quattro mesi tra-scorsi in barrique. L’impianto gusta-tivo è poi disposto su una pronuncia-ta dotazione calorica, ben mitigata datannini vivi e ben espressi, per dareconforto a piatti importanti come ilcinghiale in umido o l’agnello al forno. Ma la tradizione ritorna prepotentecon Archimede 2005, vino simbolodell’azienda. E’ un Eloro Doc cheprende vita da uve Nero d’Avola vini-ficate in purezza in cui il passaggionei legni piccoli si protrae per circasei mesi. Nel suo rubino denso edimpenetrabile, con sfumature chevirano lente al granato, apre la stra-da ad un olfatto dai netti riconosci-menti di ribes nero, amarena candi-ta e tabacco Kentucky, con delicatiaccenni di vaniglia e ad un palatocaldo con tannini in piacevole eviden-za. Da provare con carni rosse allabrace e formaggi di pecora lungamen-te stagionati.Il nostro percorso sensoriale chiudealla grande con il Moscato della Torre2006, si tratta di un Moscato di NotoDoc frutto di una sensibile opera-zione di recupero di un vino figlio dellatradizione, da cui del resto l’aziendanon si poteva sottrarre, non fosse

altro che per la responsabilità mora-le di trovarsi in una contrada che sichiama Buonivini! La torre che cam-peggia in etichetta e dà origine alnome è l’antica torre medioevale dicontrada Marabino, la costruzionepiù antica del territorio tra Pozzalloed Ispica, oggi trasformata in unmagnifico relais. Il lento appassimen-to delle uve sui graticci e la succes-siva vinificazione condotta esclusiva-mente in acciaio ci consegnano unvino dalla bella veste oro lucente conrapidi riflessi ambra; nella sua riccacomplessità olfattiva al tipico varie-tale dell’uva di provenienza fanno ecopiacevoli sentori di arancia candita,caramella d’orzo e miele di acacia. Inbocca è dolce, di agile dotazione calo-rica e lunga persistenza. Insomma,un classico per cannoli alla sicilianae dolci a base di pasta di mandorle.A completare l’ospitalità della canti-na, che offre già di per sé un vastoprogramma di visite guidate e didegustazioni, c’è appunto TorreMarabino, un relais d’eccellenzaimmerso nella bellezza della campa-gna iblea ma vicinissimo alle costedorate della Sicilia. Da antica torre diavvistamento contro le incursionisaracene, divenne in seguito il fulcrodelle attività della nobiltà locale inoccasione della raccolta del grano.Trasformata in attività ricettiva, offreil massimo confort senza rinunciarea sentirsi parte integrante del terri-torio agreste in cui è immersa.

Società Agricola MarabinoContrada Buonivini

96017 Noto (Siracusa)Tel. 335.5284101 [email protected]

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Ferragosto 2008. Il cronista entra nel GrandHotel di Rimini, storico albergo della Rivieraadriatica, inaugurato il primo luglio 1908

e ancora in festa per il suo centenario. Sulla fac-ciata dell’albergo progettato dall’estroso architettosudamericano Paolo Somazzi, vengono proiettateimmagini di Federico Fellini e dei suoiprincipali film. Il grande regista di origi-ne riminese ha dato fama mondiale altempio delle vacanze di monarchi e prin-cipi, artisti e scienziati, attori e statisti,frequentandolo nelle sue incursioni roma-gnole (la sua stanza era la numero 315, alterzo piano) e immortalandolo in moltedelle sue pellicole, a partire da “Amarcord”,in cui il Maestro ne riproduce le atmosfe-re inimitabili e travolgenti. Nella sala da pranzo tutti i tavoli sonooccupati meno uno, quello a destra del-l’entrata, con il muro alle spalle e unavista d’insieme sul salone e su parte dei4 mila metri quadrati di parco. “E’ iltavolo di Fellini”, mi spiega il direttore,Leopoldo Veronesi, il più antico “ser-vitore” dell’albergo (ci lavora dal 1981).“Lui amava avere le spalle coperte ela migliore visuale sull’ingresso, propriocome il mitico John Wayne, che quando entrava neisaloon dei suoi film western si metteva con le spal-le al muro e controllava l’ingresso per motivi disicurezza. Chissà perché, da quando lui è morto,

quindici anni fa, nessuno ha mai voluto prendere quelposto. Guardi, non si tratta di superstizione. Direi, peruna questione di rispetto...”.“Direttore, credo di non mancare di rispetto a Fellini sescelgo di sedermi a quel tavolo. Lei che lo ha conosciutobene, che cosa ordinava?”.“Guardi, non era un mangione, bastava poco per saziar-

lo, preferiva quei pasti che loriportassero all’infanzia riminese:adorava i primi, i passatelli inbrodo, le tagliatelle, gli strozzapre-ti, i cappelletti con ripieno di Morraromagnola. Di secondo una soglio-lina dell’Adriatico o una tagliata dicarne o una porzione di cosciottodi maialino in porchetta con due-tre patate arrosto. Chiudeva rara-mente con un dolce (potrà assa-porare stasera una mela artusia-na così come piaceva a lui) con unsorbetto al limone o al cedro. Tantaacqua, un sorsetto di vino rossoSangiovese, qualche volta sostituitoda un mezzo bicchiere di biancoTrebbiano. Fellini a tavola era un “gourmet congli occhi”, un francescano che gode-

va del piacere di veder mangiare gli altri”. Parole chenon mi sorprendono. Le avevo più o meno lette in unaconfessione di Paolo Villaggio, superbo interprete della fel-liniana “Voce della luna”: “Verso mezzogiorno io e Fellini

FEDERICO FELLINI, INTERVISTATO DA DEVINIS, SOSTIENE CHE DURA UN ISTANTE, TI LASCIA IN BOCCA

UN SAPORE DI GLORIA ED È NUOVO A OGNI SORSO

di Salvatore Giannella

Un sorso di vino buono

è come

un bel film

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andavamo a mangiare daCesarina, vicino a Via Veneto.

E lì faceva il guardone. Certo,il guardone al ristorante.

Invecchiando, per via della salu-te, era diventato controllatissimo

sul cibo. Però faceva mangiare glialtri. Ordinava: prendi questo;

assaggia questa scheggia di parmi-giano con aceto balsamico. Gli dice-

vo: ma tu non la vuoi? E lui: macché!Magari! Poi, mentre mangiavo, mi con-

templava con occhio avido. Era un voyeurdel godimento altrui col cibo”.

Li ordino anch’io, al Grand Hotel, i saporidella Romagna felliniana, questa terra dove

il cibo entra in tutto e condiziona la vita. Unavecchia ballata narra la lite di due innamo-

rati: “La mia morosa mi ha detto gnocco, e ioci ho detto: brutta crescentona”. Do un’occhia-

ta alla guida “La mia Rimini”, dove Fellini ricor-da così lo storico albergo: “Il Grand Hotel era la favola della ricchezza, dellusso, dello sfarzo orientale. Quando le descrizio-ni nei romanzi che leggevo non erano abbastanzastimolanti da suscitare la mia immaginazione, allo-ra ricorrevo al Grand Hotel”.Sto per inforcare il primo cappelletto quando miappare proprio Lui, Fellini. Si è servito da solo, rac-cogliendo pochi cappelletti in un piatto dal tavolocentrale.”Posso accomodarmi?”, chiede con genti-lezza. GIANNELLA Questo tavolo fu e resta ancora Suo.Prego, sono onorato della Sua compagnia, Maestro.O preferisce che la chiami dottor Fellini?. FELLINI Dottor Fellini è tecnicamente sbagliato. Nonsono laureato e quelle volte che mi furono offertele lauree honoris causa le rifiutai.

GIANNELLA Oh, questa è bella. Da chi le venneroofferte? Quando? E perché le rifiutò?FELLINI Fu un’idea dell’allora Rettore Magnificodell’Università di Bologna, Fabio Roversi Monaco.Eravamo nel 1992 e io, pur capendo il senti-mento di generosità che muoveva i professoridell’ateneo più antico del mondo, mandai duerighe di rinuncia. “Mi sento come Pinocchio

decorato dal Preside e daiCarabinieri per essermi diver-tito nel Paese dei Balocchi...mi creda, Rettore, sono giàpremiato dall’aver fatto i miei

film perché mi sono divertito a farli”. Roversi Monaco capìe mi concesse la sua silenziosa approvazione. Un’altravolta scontentai il professor Carlo Bo, Rettore a Urbino,che ebbe a rimbrottarmene con affettuosa e intelligentebonomia.

GIANNELLA La sua presa di posizione, Maestro, ha anti-cipato di anni quella di un ministro dell’Università, FabioMussi. Che nel 2007 si è opposto alla proliferazionedelle lauree honoris causa attraverso un comunicato rivol-to ai Rettori delle Università italiane: il ministro non avreb-be più esaminato ulteriori proposte di candidature avan-zate dalle Università. A differenza del suo originale pre-stigio, negli ultimi anni la laurea honoris causa (“titoloaccademico conferito come riconoscimento di meriti ecce-zionali” secondo la definizione del dizionario Devoto-Oli),sarebbe stata, al contrario, troppo spesso assegnata adiverse personalità, anche leggere, dello star-syster nostra-no, della politica, dello sport, del cinema, del mondo delleimprese, della letteratura. FELLINI La cosa mi è sfuggita. Sa, non leggo più i giornalicome un tempo, quando facevo una scorpacciata di let-tura ogni mattina.

GIANNELLA Allora le è sfuggita la notizia di qualche orafa. E’ morta, in una casa di cura vicino a Chicago la donnache recitò nel ruolo di “gigantessa” del “Casanova”. SandyAllen era la donna più alta del mondo, se la ricorda?Due metri e 32 centimetri. Malata e da diverso tempocostretta su una sedia a rotelle, Sandy, 53 anni, si erarivolta al Guinness dei primati, che ne aveva riconosciu-to il record, per chiedere di trovarle un compagno «allasua altezza». FELLINI Mi dispiace per Sandy, ne conservo un bel ricor-do. Guardi, a tutti noi dell’Emilia Romagna, la morte nonfa paura. Pensi che a Goro la domenica, ai miei tempi eritengo che la consuetudine sia ancora oggi rispettata,prendono una seggiola e vanno al cimitero, davanti a unatomba: riferiscono al defunto i fatti della settimana. C’èsempre un legame con quaggiù. A me non fa paura, l’ine-sorabile falciatrice, a differenza del mio amico ToninoGuerra, che ha scritto anche una poesia sull’argomento:“A me la morte / mi fa morire di paura / perché moren-do si lasciano troppe cose / che poi non si vedranno maipiù: / gli amici, quelli della famiglia, i fiori / del viale chehanno quell’odore / e tutta la gente che hai incontrato/anche una volta sola...”.

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� L'immagine di Felliniproiettata sulla facciatadel Grand Hotel inoccasione del centenariodi vita del cinque stellepioè famoso del mondo

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GIANNELLA Lasciamo que-sti argomenti tristi, Maestro.Intanto, le verso un po’ divino buono? E’ Sangiovese,il vino da Oscar dellaRomagna. Lo ricordano per-fino nelle canzoni: “Evvivala Romagna, evviva ilSangiovese” si canta anco-ra oggi nelle balere dellaRiviera, al ritmo della cele-bre canzone scritta neglianni '70 da Raul Casadei, atestimonianza di quantoquesto vino faccia parte del quotidiano di ogni romagno-lo doc.FELLINI L’assaggio volentieri un dito di Sangiovese. Un buonvino è come un buon film: dura un istante e ti lascia inbocca un sapore di gloria; è nuovo a ogni sorso e, comeavviene con i film, nasce e rinasce in ogni assaggiatore.

GIANNELLA Pur non essendo un gran bevitore, sarà con-tento dei passi avanti fatti dai vini romagnoli...

FELLINI Effettivamente questotentativo serio di fare viniromagnoli buoni mi pare chesi possa dire riuscito. Noi nonsiamo stati terra di grandivini, però siamo dignitosi,perché noi il vino siamo capa-ci di berlo. Si ricordi che c’èun modo di dire: quando unoha sete tu romagnolo non glioffri un bicchiere d’acqua mauno di vino. L’Albana diRomagna, che si è aggiudi-cata l'Oscar 2008 nella cate-

goria vini dolci, all' interno di «Squisito» a San Patrignano,il Pagadebit, il Trebbiano, e soprattutto il Sangiovese. Aproposito, lo sa perché si chiama così?

GIANNELLA Non ho le idee molto chiare. Una volta mihanno accennato che c’entrino i vigneti piantati su unmonticello vicino a Rimini...FELLINI Esatto. Le prime notizie storiche sul vitigno, autoc-tono, risalgono al 1600 e la tradizione vuole che la sua

� Il Grand Hotel disegnato da Fellini

1920: Fellini nasce a Rimini il 20gennaio. La madre Ida fa lacasalinga, il padre Urbano è unrappresentante di commercio.Frequenta il liceo classico dellacittà e inizia fin da ragazzino alavorare come caricaturista per ilgestore del cinema Fulgor, chegli commissiona i ritratti degliattori più famosi per appenderliin sala.1937: fonda insieme al pittoreDemos Bonini la bottega 'Febo',dove i due eseguono caricatureper i turisti. Nel frattempo,comincia a collaborare comevignettista per alcune riviste equando, subito dopo il diploma,si trasferisce a Roma, inizia alavorare per il 'Marc'Aurelio'. Inquesti anni Fellini frequenta ilmondo dell'avanspettacolo edella radio e scrive copioni,collaborando con Aldo Fabrizi,Erminio Macario e MarcelloMarchesi.1943: incontra una giovaneattrice, Giulietta Masina, che allaradio interpreta Pallina,personaggio ideato proprio daFederico, nella commedia 'Le

avventure di Cico e Pallina'. Idue si sposano a ottobre erestano insieme per tutta la vita.Nel cinema, intanto, Federicocollabora alla stesura di moltesceneggiature, lavorando conRossellini, Germi e Lattuada. 1951: con Lattuada esordiscealla regia con "Luci della città". 1952: presenta al Festival diVenezia il suo primo film, "Losceicco bianco", snobbato. Ma ilriscatto arriva prestissimo. 1953: al Lido di Venezia, grazie a"I vitelloni", Federico conquista ilLeone d'Oro.1954: con "La strada", conGiulietta Masina nei pannidell'indimenticabile Gelsomina,arriva anche il primo Oscar.1955: "Il bidone" ripropone inparte le atmosfere de "I Vitelloni",ma in uno scenario diverso: laperiferia romana.1957: conquista il suo secondoOscar con "Le notti di Cabiria".1959: con "La dolce vita", Palmad'oro al Festival di Cannes, Fellinirealizza il suo capolavoro.Racconta la crisi dei valori nellasocietà moderna.

1963: realizza "8 e mezzo",premio Oscar per il miglior filmstraniero e per i costumi.Seguono "Giulietta degli spiriti"(1965), "Satyricon" (1969), "Iclown" (1970), e "Roma" (1972). 1973: con "Amarcord" vince ilquarto premio Oscar e rendeomaggio alla sua città, con unostraordinario viaggio nei ricordi enella provincia riminese deglianni Trenta.1976: più tetra è l'atmosfera de"Il Casanova", seguito poi da"Prova d'orchestra" (1979) e da"La città delle donne" (1980). 1983: dirige "E la nave va", poicostruisce un'aspra polemica neiconfronti della società e inmodo particolare del ruolonegativo della Tv, con "Ginger eFred" (1985).1990: il suo ultimo film è l'amaroe intenso “La voce della luna”(1990), con Paolo Villaggio eRoberto Benigni.1993: pochi mesi dopo averricevuto a Hollywood il suoquinto Oscar, questa volta allacarriera, il 31 ottobre muore aRoma.

FEDERICO FELLINI, UNA VITA IN POCHE DATE

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denominazione deri-vi da Monte Giove(l'allora Collis Jovis),la collina su cuisorge Santarcangelodi Romagna: qui ifrati cappuccini, checoltivavano la vite, ungiorno ospitarono un

illustre personaggio chegradì moltissimo la

bevanda. Interrogati sulnome, i cappuccini, che

fino ad allora non glieneavevano mai dato uno,

coniarono prontamente quel-lo di Sanguis Jovis, trasfor-

matosi poi negli anni in Sanguedi Giove e in Sangiovese. Quello

Doc è un vino rosso da tavola:nasce dai vitigni presenti in diver-

si comuni delle province romagno-le, che concorrono a formare nella

nostra terra una squadra di cinqueSangiovese diversi per carattere e per-

sonalità: il Cesenate, il Forlivese, ilRiminese, il Faentino e l'Imolese. E poi,

lo sa che il Sangiovese, sparso da questocolle, dà linfa a molti vini italiani? Anche

i più nobili vini toscani sono in gran partefatti di Sangiovese. La storia dei vini, come

vede, riserva tante sorprese.

GIANNELLA D’ora in poi quando mi capiterà diandare all’osteria Sangiovesa, guarderò in modo

diverso la strada cheporta in cima al colle diSantarcangelo. La sentomolto preparato sui temienogastronomici. FELLINI Le confesso che, seavessi potuto cambiaremestiere, avrei fatto il pro-duttore. Non di film, da diolio e di vini. E non lo dicosolo perché Lei scrive per“De Vinis”. L’ho messo nerosu bianco in una lettera ditanti anni fa all’amicoBernardino Zapponi, ilgiorno dopo una visita allaproprietaria dell'aziendache produce il Brunello di Montalcino. Volevo mandare una cassa a Bernardino, ma costa-va troppo, 50mila lire a bottiglia, quello d'anna-ta, e così gliene portai soltanto una bottiglia perfesteggiare il nostro incontro. Tutta la sera, quel-la sera in Toscana, ho ascoltato dei raccontimeravigliosi sul vino. Non sapevo che quandobevi un sorso di vino pregiato bevi il frutto diuna serie di operazioni basate su conoscenze

che abbracciano quasi tutto il sapere umano: geologia,meteorologia, astrologia eppoi un'infinità di altre nozionied esperienze e riti e metodi tramandati da secoli... Erabellissimo ascoltare questa bella donnona che da sempresbevazza i suoi tre o quattro litri al giorno per assaggia-re, consigliare, controllare, correggere, degustare. Era pro-prio la moglie di Bacco. Avrei voluto registrare tutto quello che ha raccontato, forsei vari Veronelli, Soldati lo hanno già fatto un libretto contutte queste storie sul vino, certo che sarebbe stato pro-prio piacevole proporle a un lettore. Comunque, torniamo a noi e alla mia mitica Casa rimi-nese, gioiello liberty che dal 1994 è stato vincolato dalleBelle Arti e che quest’anno ha compiuto cento anni. Lovedo come il simbolo di noi romagnoli, intraprendenti,curiosi, ospitali: pensi che risale al XIII secolo la Colonnadelle Anella di Bertinoro, simbolo dell’accoglienza del pas-sato, quando i signori del posto facevano a gara perospitare i forestieri di passaggio. A proposito del GrandHotel, ha visto come il nuovo proprietario, Antonio Batani,lo sta riportando al suo antico splendore? E spero che pre-sto riesca a coronare il sogno preannunciato ai giornali-sti: ricostruire le due cupole in stile orientale che l'edifi-cio aveva sul terrazzo prima dell'incendio del 1920 e cheospitavano due magnifiche suite.

GIANNELLA Fu proprio lei a segnalare a uno dei preceden-ti proprietari, il mitico commendator Pietro Arpesella, letracce di quelle misteriose cupole. Lei pensa che ce la faranno a ricostruirle?FELLINI Sono molto ottimista sulle capacità dei miei con-cittadini riminesi. E glielo spiego con un solo dato. Rimini,dopo Cassino, era la città più distrutta alla fine dell’ulti-ma guerra mondiale. Aveva avuto il 99 per cento delle caseabbattute. E’ una prova delle nostre capacità positive:

mettersi insieme efare. Per vincere lenuove sfide, bisognatornare tutti insiemea sognare, tutti insie-me a innamorarsi diquesta inimitabileRiviera e della suaumanità, quella cheMarino Moretti elogia-va per il cuore gene-roso e la luminosasaggezza. Bisogna tor-nare a guardare laluna seduti su unpedalò in spiaggiasenza sentire una

voce poco amica che, puntandoti una pila negli occhi, tidice: è vietato.

L’intervista è finita. Il Maestro si alza, saluta e se ne va.Resto solo io a vedere il secondo piatto sul tavolo e nelgesto rituale del cameriere che sparecchia togliendo soloil mio piatto mi accorgo di aver avuto l’esclusivo onore dicondividere con il Maestro due cappelletti e un bicchieredi buon vino.

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Emilia Romagna, terra di tra-dizioni, cultura e brandy. Lastoria del brandy italiano è

legata alla famiglia bolognese Zarried ha inizio nel 1954, anno in cuiLeonida Zarri, acquista una azien-da di Murano, la Pilla, che produceottimi liquori. Nel dopoguerra ilmagnanimo Leonida Zarri trasferi-sce la produzione dell’azienda Pillaa Castel Maggiore e rileva l’omoni-ma villa che venne ceduta in uso allaCroce Rossa. Da allora la Villa hacambiato più volte abito ed oggi imembri della famiglia Zarri portanoavanti proprio qui, in una cornicesospesa tra passato e presente l’at-tività di distillazione di brandy eproduzione di liquori di qualità edindubbia personalità.Ma torniamo alla storia. Fu il giova-ne Guido Fini Zarri che seguendoil nonno e il padre in questa attivi-tà, aveva maturato la certezza chesi potesse, anche in Italia, produr-re Brandy superiore e da qualcheanno impiegava tempo ed energienel tentativo di “ricostruirne” le fon-damenta. Dalla vendemmia 1986utilizza l’alambicco Charentais perla distillazione di vino Trebbiano,imboccando così per primo la stra-da della qualità.Spinto dagli ottimi risultati del lavo-ro condotto sulla qualificazione delvino in Italia, e col desiderio di divul-

gare la cultura del Brandy, nel 1987promuove un convegno specifico digrande successo su “Il Brandy ita-liano d’origine”Il 1989 è l’anno della nascita di VillaZarri e nel 1990 Guido Fini Zarripresenta la prima bottiglia di BrandyVilla Zarri, prodotto completamen-te naturale derivato dalla distillazio-ne con metodo discontinuo di vino

Zarri, diciotto anni

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di Luca Gardini

� Guido Fini Zarri

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Trebbiano Romagnolo e Toscano,secondo un rigoroso disciplinare diproduzione che si ispira a quellofrancese di Cognac. Il risultato è unbrandy che non teme confronti, diqualità superiore e grande stile.

Prima di procedere insieme alladegustazione dei capolavori di casaZarri, per toccare con mano le sen-sazioni organolettiche e per divertir-ci a capire o semplicemente a pren-dere consapevolezza delle caratteri-stiche salienti dei prodotti degusta-ti, ci soffermiamo sulla filosofia diVilla Zarri e sull’importanza che ilsuo disciplinare di produzione hasia nella distillazione, sia nella fasedel successivo affinamento.La filosofia produttiva di Villa Zarriè frutto di un’accurata sperimen-tazione e di una precisa ricercascientifica che ha come obiettivo laqualità.Proprio per questo motivo la mate-ria prima deve essere ineccepibilee quindi bisogna partire da un vino“organoletticamente” perfetto. Nellospecifico quello scelto è il TrebbianoRomagnolo e Toscano, coltivatosecondo le metodologie lavorative divigna necessarie alla realizzazionedi buon vino. Caratteristiche salienti di questevarietà sono la poca aromaticità, labassa gradazione alcolica e la buonaacidità fissa, peculiarità conservatesoprattutto se coltivato nell’ umidae fertile campagna emiliana ed evi-denziate da una vendemmia legger-mente anticipata.Le uve vengono pigiate con un siste-ma soffice e il mosto ottenuto è

messo a decantare a bassa tempe-ratura, in modo che le parti solidesi depositino sul fondo, successiva-mente travasato nel recipiente di fer-mentazione ed inoculato con lievitiselezionati, senza aggiunta di con-servanti e solforosa.La distillazione avviene nei mesi disettembre – ottobre appena la fer-mentazione alcolica del vino è com-piuta ed il metodo adottato è quel-lo discontinuo tradizionale, realiz-zato con alambicco Charentais. Daquesta attenzione nelle fasi produt-tive traspare tutto l’impegno cheGuido dedica alla realizzazione deisuoi distillati. La scelta dell’alambic-co è fondamentale e si tratta di unprocesso molto lento che necessitadi esperienza, tecnica e pazienza.Solo in questo modo è possibile otte-nere una elevata concentrazione diquelle meravigliose fragranze e aromicaratteristici del vino ed allo stessotempo selezionare gli alcoli più purieliminando le teste e le code deldistillato. L’incantevole liquido che scaturiscea questo punto dall’alambicco è inco-lore, raggiunge un valore alcolico dicirca 72° ed è proprio ora che sientra nella fase produttiva che con-ferisce ai prodotti di Villa Zarri l’uni-cità che li contraddistingue: l’affina-mento.Il primo aspetto che ci preme sot-

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��� BRANDY ITALIANO 10 ANNI VILLA ZARRIOro antico con riflessi topazio tendenti al mogano limpido. Nel bouquet complesso e fine riconosciamoorzo perlato, liquirizia dolce e banana essiccata. Nell’evolversi dell’ossigenazione sensazioni di pinoli tosta-ti e caramella mou con chiusura vanigliata. In bocca l’ingresso è dolce e morbido. Sensazioni gustativeche richiamano il miele di corbezzolo; l’arancia candita con finale persistente e pulito. Brandy di estremafinezza.

��� BRANDY ITALIANO 16 ANNI VILLA ZARRIColore topazio intenso e luminoso con sfumature caramello; Brandy ricco e complesso. Emergono sensa-zioni dolci di albicocca confit; spezie come cannella e pepe rosa. Al secondo naso tabacco dolce e lievitratti di polvere di caffè e cocco. Al gusto pieno e rotondo si aggiunge la grande personalità; in un retro-gusto di frutta secca e pasta di mandorle. Finale lungo e fine. Brandy elegante e raffinato.

��� BRANDY ITALIANO 18 ANNI VILLA ZARRI MILLESIMATO “1987”Mogano chiaro brillante su sfondo luminoso e riflessi nocciola. Al naso esplosivo, aromi ampi e numerosi incui riconosciamo miele di castagno, marzapane e cumino. Nella seconda fase emerge la complessità,giocando su sentori di cuoio, torrone, fichi secchi, su finale basato su tè affumicato e cioccolato bian-co. Il gusto racchiude potenza ed eleganza, il tutto esaltato da una grande morbidezza ed equilibrio diquesto raffinato brandy. Nel retrogusto il ritorno di biscotto secco su lungo finale di burro d’arachidi.

��� BRANDY ITALIANO 20 ANNI MILLESIMATO “1986”“Gold” è il nome di questo brandy di estrema eleganza e raffinatezza ultima novità della distilleria Zarri. Sindal colore si percepiscono complessità e qualità del prodotto. Mogano scuro di grande profondità,intenso e luminoso con riflessi oro ambrato . L’olfatto offre netti e persistenti profumi di datteri e carruba.L’ossigenazione sprigiona una miriade di profumi che vanno dal tabacco da pipa, cacao, zucchero fila-to, noce secca e panettone. Finale con nuances candite e ranciò. La bocca rispecchia il naso, comples-sità e morbidezza in evidenza, suadente il palato, dove le sfumature cremose e rotonde terminano conuna chiusura grassa e resinata.

��� BRANDY ITALIANO 18 ANNI CON SELEZIONE DI TABACCO TOSCANO VILLA ZARRIOro antico intenso e sfumature ramate luminose. All’olfatto si apre con profumi delicati e persistenti discorza d’arancio, confetto e alloro lasciando spazio alla raffinata sfumatura di tabacco toscano e mieled’acacia in chiusura balsamica. Fine assaggiandolo denota la sua grande morbidezza e tipicità risaltan-do la freschezza e le spezie come zenzero e coriandolo. Finale persistente di caffè e incenso.

DEGUSTAZIONI

tolineare prima di approfondire lalogica produttiva è il clima che carat-terizza l’azienda Villa Zarri, la natu-ra che cinge l’azienda ed il suomicroclima. Caratterizzato da esta-ti caldo umide ed inverni freddi enebbiosi, sottopone il Brandy adun’escursione termica che favoriscela maturazione Anche le scelte del produttore sonofondamentali per realizzare un bran-dy dalla spiccata personalità e comeprevisto dal disciplinare di produ-zione Brandy Villa Zarri il distillatoottenuto è immediatamente trasfe-rito in botti di legno di rovere da 350litri, provenienti dalle forestedell’Allier e del Limousin dove reste-rà per un anno.

Trascorso questo tempo, il distilla-to, al quale è stata aggiunta gradual-mente acqua distillata per raggiun-gere la gradazione di consumo, vienetrasferito per un invecchiamentominimo di 10 anni in botticelle giàutilizzate. La tipologia del legno dellebarrique è molto importante, si trat-ta infatti di un legno a grana gros-sa con una certa porosità e una sta-gionatura ben specifica (36 mesi),caratteristiche fondamentali percedere al distillato profumi, colore,tannini e permettere nella secondafase di affinamento i processi di ossi-dazione necessari per il raggiungi-mento del bouquet finale.Durante il periodo di affinamentol’alcool del distillato evapora in una

misura pari al 3.5/4% medio annuoe questa evaporazione, che rappre-senta un costo molto alto è indispen-sabile per il miglioramento qualita-tivo del Brandy e per il suo ammor-bidimento.Solo al termine del processo di affi-namento il Brandy di Villa Zarri rag-giunge la gradazione di 44 gradi edevidenzia equilibrio di gusto e pro-fumo in modo del tutto naturale esenza aggiunta di aromatizzanti,additivi e coloranti.La produzione di Villa Zarri non silimita solo ai Brandy ma annoveratra i suoi prodotti anche unaAcquavite di Chardonnay, un noci-no biologico, lo Sherry brandy ed illiquore brandy e caffè.

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L’anno scorso, durante un viaggio in Mosella per degustazioni diRiesling, ho osservato che alcuni produttori usavano il tappo a vitecome sistema di chiusura per una parte delle denominazioni. Pochi

mesi dopo leggo una pagina di opinione dove Jean-Robert Pitte parla dellevirtù del tappo di sughero. Così, all’inizio di quest’anno ho deciso di effet-tuare una prima ricerca per “fare il punto della situazione” riguardo ai siste-mi di chiusura. Vi presento qui il risultato di questo “passaggio” preliminare. L’articolo trat-terà esclusivamente delle chiusure che vengono applicate alla tradizionalebottiglia di vetro - lasciando per ora da parte i contenitori non-tradiziona-li (come la bottiglia simil-vetro in PET-polietilene tereftalato).

La chiusura è uno degli elementi del packaging, elemento essenziale nelrapporto con il consumatore. L’apertura è un rituale e costituisce, insie-me all’aspetto della confezione stessa, un fattore che influenza in modoimportante l’apprezzamento complessivo del prodotto.

Per quanto riguarda il packaging tradizionale, anche la capsula ha un ruolodi immagine importante, oltre a quello di assicurare la protezione della chiu-sura. Il materiale più utilizzato oggi è lo stagno ma si stanno diffondendoanche le capsule in polilaminato (con un film metallico, di solito allumi-

Chiusure, ambiente ed evoluzione

del vino“È L’OSSIGENO

CHE FA IL VINO, È GRAZIE

ALLA SUA INFLUENZA

CHE SI AFFINA”

(Louis Pasteur, 1873)

di Fernando Araújo-Coelho

Quercia da sugheroProcedimenti di cura ed estrazione

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nio, racchiuso tra due strati di polimero). Si usano anche capsule di solopolimero. In alcuni mercati, tra cui quello americano, si trovano confezio-ni dove la capsula è stata eliminata e sostituita con dischi di cartone o ceraapplicati sulla sommità della chiusura.

L’introduzione di sistemi di chiusura alternativi al tappo di sughero è prin-cipalmente dovuta ad un aumento del cosiddetto “difetto di tappo” verifi-catosi a partire dalla metà degli anni 80, difetto che ha causato una sostan-ziale tensione nei rapporti tra l’industria del vino e quella del sughero. Sonocosì diventati disponibili, in particolare, i tappi a vite e quelli sintetici.

Il numero totale di chiusure usate all’anno è di 20 bilioni, dei quali 16 bilio-ni (80%) in sughero naturale, 2.5 bilioni (12,5%) i tappi sintetici e 1.5 bilio-ni quelli a vite (7.5%).

LE TIPOLOGIE

Nel sec. XVII gli Inglesi inventano la bottiglia di vetro grosso, che inizial-mente ha una forma a cipolla e viene tenuta in piedi. Rifornendosi di vinoa Porto, hanno l’opportunità di riscoprire il sughero, già usato in Egitto enell’antica Grecia come sistema di chiusura delle anfore. L’efficacia deltappo permette la conservazione orizzontale della bottiglia e questa evolveverso la forma cilindrica che viene a permettere l’accatastamento.

Così, il tappo di sughero ha creato le condizioni per il lento invecchiamen-to del vino, che ammorbidisce i tannini e può portare allo sviluppo di aromidi straordinaria raffinatezza. Ed è stato il tappo di sughero, nota Pitte, chespiega l’invenzione a Londra dello champagne frizzante.

La quercia da sughero (Quercus suber L.) è diffusa in Portogallo, dove vienelavorato ca. il 70% della produzione mondiale. Seguono - in ordine decre-scente dell’area forestale a sughera - Spagna, Algeria, Marocco, Francia,Tunisia e Italia.

La gestione della quercia da sughero è un’impresa ancora a più lungo ter-mine rispetto a quella dalla vigna: la sughera ha una vita media di 170 anni(può raggiungere i 200 anni) e l’elemento chiave della qualità è la gestioneforestale accurata. La prima estrazione avviene ai 25 anni e successiva-mente ogni 9 anni. Più vecchio è l’albero, maggiore è la produzione. Ogniettaro di foresta produce in media 230kg di sughero (del quale soltanto il40% ca. è adatto alla produzione di tappi).

Il “difetto di tappo” può essere dovuto a composti organici presenti nel sughe-ro, il più significativo dei quali il 2,4,6-tricloroanisolo (TCA). L’effetto del“difetto di tappo” nel vino si manifesta come tracce di ammuffito, cartonebagnato o cane bagnato, con riduzione dell’elemento fruttato e della persi-stenza. Basta una presenza insignificante di TCA per causare il difetto, datoche la soglia di percezione nel vino è di ca. 3-4 ng/l.

È ormai stabilito che l’origine della manifestazione del “difetto di tappo” puòessere motivata anche da altri composti, come il TBA (2,4,6-tribromoani-solo) ed il TeCA (2,3,4,6-tetracloroanisolo), sempre riconducibili all’ambien-te circostante, specialmente quello di cantina. Sono state identificate comeorigini potenziali di contaminazione primaria le strutture in legno e palet-te di legno trattate chimicamente, pittura ed elementi plastici. Il “difetto ditappo” può così provenire da altre origini oltre che dai tappi (può quindiessere trasmesso al vino attraverso l’eventuale contaminazione seconda-ria del sughero). Paradossalmente, uno studio recente dell’AWRI ha stabi-lito che il sughero può a volte assorbire il TCA ed altri cloroanisoli dal vinocontaminato.

Il maggiore produttore mondiale di tappi di sughero, AMORIM, ha svilup-pato un sistema per la rimozione del TCA: un processo di distillazione avapore controllata, utilizzato dal 2003/2004. l’ENOMAQ di Zaragoza ha nel

Cortecce di sughero

Tappi di sughero naturale

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2007 attribuito il premio all’innovazione tecnologica alla versione ulterior-mente perfezionata di questo processo (ROSA Evolution). Lo stesso produt-tore sottopone tutti i lotti prodotti ad analisi chimica attraverso la croma-tografia gassosa per rivelare l’eventuale presenza di TCA prima dell’im-missione in commercio.

TAPPI DI SUGHERO

1. TURACCIOLO NATURALE Raccomandato per vini riserva e vini destinati a lungo invecchiamento inbottiglia, è 100% naturale e prodotto per rispondere alle più alte aspetta-tive. Il sughero di miglior qualità è quello che visivamente presenta menosegni. Di solito vengono usati tappi più lunghi per i vini a più lungo poten-ziale di invecchiamento. La scelta accurata del diametro del tappo rimane l’elemento essenziale dellaperformance di lungo termine: dovrebbe superare di almeno 6mm il dia-metro interno del collo della bottiglia in modo da non provocare una com-pressione del tappo superiore al 33%.

2. TAPPI TECNICI DI SUGHEROOffrono l’omogeneità tipica dei prodotti industriali, pur mantenendo inal-terati gli attributi del sughero quanto a efficacia ed estraibilità.

2.1 Tappo Twin TopAdatto ai vini fruttati, consigliato quando non previsti lunghi periodi dimaturazione in bottiglia. Provvisto delle proprietà del turacciolo di sughe-ro naturale, è costituito da un disco di sughero naturale ad entrambe leestremità e da un corpo in agglomerato.

2.2 Tappo SparkUsato per vini effervescenti, tra i quali lo Champagne e gli Spumanti, pre-senta elevate performance fisiche, chimiche ed enologiche, eccellente com-portamento meccanico e facilità in fase d’imbottigliamento.

2.3 Turacciolo T-CorkTuracciolo naturale con svariate capsule in plastica, legno ed altri materia-li, concepito per l’imbottigliamento di vini fortificati e altre bevande alcoli-che. Permette una tappatura efficace, facile estrazione manuale e succes-siva riutilizzazione. Di sughero naturale o colmatato.

2.4 Tappi NeutrocorkI più recenti tappi tecnici. Grande stabilità strutturale come caratteristicaprincipale, sono consigliati per vini da consumare giovani ma di una certacomplessità.

2.5 Turacciolo Colmatato Turaccioli naturali di maggior porosità, sono oggetto di un’operazione “este-tica” che migliora aspetto visivo e performance nell’imbottigliamento.

2.6 Tappo AgglomeratoUsato per vini di rapido consumo in cui la relazione prezzo/qualità è ilfattore determinante.

LE ALTERNATIVE

1. SINTETICII tappi sintetici sono costituiti da polimeri. Nella produzione di NOMACORCviene usato un procedimento di co-estrusione in due fasi: inizialmente lematerie prime sono miscelate, fuse ed estruse creando un cilindro di schiu-ma che costituisce il cuore del tappo; quindi, un secondo processo di estru-

� Tappi AMORIM di sughero naturale

� Tappi sintetici

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sione applica una guaina flessibile termosaldata al cilindro interno. La formaviene raffreddata ad acqua prima del taglio a misura.

Usando polietilene a bassa densità, questo produttore immette sul merca-to quattro tipi di tappi, dal “Premium”, che permette la conservazione delvino fino a sei anni, fino al “Light”, adatto a vini destinati al consumo entro12 mesi dall’imbottigliamento. A Settembre del 2007 NOMACORC ha iniziato un progetto con l’UniversitàDavis della California (conclusione prevista Agosto 2009) con l’obiettivo diidentificare l’ingresso ottimale di ossigeno per specifici vitigni e stili di wine-making.

SUPREMECORQ fabbrica tappi ad iniezione con materiali elastomerici ter-moplastici. Il “SUPREMECORQ Original” è offerto in due dimensioni pervino e in versione “T-Top” per distillati e liquori. Il “SUPREMECORQ X2”(anch’esso in due tipologie) è pubblicizzato come prodotto che offre una bar-riera anti-ossigeno due volte superiore a quella del modello Original. Secondoil fabbricante garantisce una chiusura efficace “a lungo termine”, senzaspecifica indicazione.

Sia NOMACORC che SUPREMECORQ cercano di riprodurre il sughero natu-rale nell’aspetto e al tatto. Entrambi i produttori offrono anche tappi inun’ampia varietà di colorazioni.

KORKED è ancora un altro tappo sintetico, tecnicamente una chiusuradotata di un canale che, attraverso l’interposizione di una membrana per-meabile idrofobica ha l’obiettivo di permettere una micro-selezione quan-titativa del passaggio di ossigeno.

2. A VITEInventato negli Stati Uniti alla fine del sec. XIX, il tappo a vite ha avuto scar-sa penetrazione in questo Paese, dove i tappi sintetici sono più popolari,ma è il sistema usato per il 90% della produzione della Nuova Zelanda eper il 50% di quella australiana. Usato prima per i vini di bassa qualità, si sta assistendo ad una certarivalutazione di questa scelta. Le guarnizioni (liners) possono essere di varitipi - con diversi gradi di permeabilità all’ossigeno - per soddisfare esigen-ze applicative diverse. Sono anche disponibili capsule in alluminio che nascondono all’interno unavite in plastica in modo da presentare una superficie esterna liscia, esteti-camente più attraente.

In questa categoria i tappi STELVIN, in quattro diverse tipologie, prodottida ALCAN.

KORKED ha introdotto di recente anche dei tappi a vite provvisti di mem-brana a permeabilità controllata (KORKED SPIN e SPIN+).

3. IN VETRO E ALLUMINIO Il sistema VINO-LOK prodotto da ALCOA è costituito da un tappo in vetrocon guarnizione e da una capsula in alluminio che assicura una protezio-ne meccanica e funge da sigillo. Consente una chiusura riutilizzabile piùvolte. Il tappo si toglie a mani nude, ruotando semplicemente la capsulain alluminio di 360°, poi con una leggera pressione si toglie il tappo in vetro.

� NORMANCORC � SUPREMECORQ � KORKED

� STELVIN

� VINO-LOK

� KORKED SPIN

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4. IN POLIETILENE E ALLUMINIO Di origine Australiana, ZORK è una chiusura composta da tre parti: unacapsula di polietilene ha la funzione di racchiudere la parte del tappo nelcollo della bottiglia; un foglio di alluminio è posizionato all’interno del tappocon la funzione, equivalente a quella di un tappo a vite, di evitare il passag-gio di ossigeno all’interno; uno stantuffo di polietilene, parte interna deltappo, è fissato al foglio di alluminio. È quest’ultimo che provoca il “pop” almomento dello stappo e serve per richiudere la bottiglia dopo l’uso.

Negli ultimi anni è andato avanti un dibattito tecnico sulle chiusure,qualche volta molto acceso, dove l’elemento centrale è stato l’OTR (OxygenTransfer Rate, o Tasso di Permeabilità all’Ossigeno) di ciascuna delle opzio-ni. A Ottobre dello scorso anno in un dibattito al COPIA a Napa Valley, doveè intervenuto come moderatore George Taber, il Dr. Pascal Chatonnet hasottolineato il fatto che tutte le chiusure possono presentare specifici pro-blemi: rapida ossigenazione nei tappi sintetici, TCA nel sughero naturalee riduzione nei tappi a vite. Strettamente associato allo sviluppo della conoscenza dell’evoluzione delvino in bottiglia, il dibattito continuerà. Segnala però Paul J. White in unrecente articolo nella rivista della Federazione delle Associazioni Enologispagnola, il focus dell’attenzione si sta spostando verso l’aspetto ambien-tale: la chiusura verrà associata sempre di più a considerazioni di soste-nibilità e l’impronta di carbonio diventerà un’esigenza fondamentale delladistribuzione stessa. Il Mediterranean Programme Office, a Roma, è il braccio del WWF per lazona del Mediterraneo. Due anni fa ha divulgato un’analisi dell’impattoambientale, economico e sociale dell’evoluzione del mercato dei tappi. AMORIM è stato il primo gruppo a certificare tutta la produzione a normaFSC ed alla fine dell’anno scorso ha pubblicato una prima Relazione diSostenibilità. NOMACORC sta per annunciare la sua impronta di carbonio(per una comparazione del profilo ambientale delle diverse alternative vd.

world-aluminium.org). Il Dr. Alan Limmer è un pro-duttore ed enologo neo-zelandese di Hawke’s Bay.Fa vino da 25 anni ed ha delle qualifiche inusua-li: è anche uno scienziato, con un PhD in Chimica.Pubblica regolarmente e partecipa a conferenzeinternazionali. È stato responsabile del program-ma nazionale di ricerca dell’Associazione Produttoridella Nuova Zelanda, ha ricevuto l’Ordine al Meritodel governo nel 2004 per servizi all’industria vini-cola ed è, dal 2005, Fellow dell’Istituto Neozelandesedi Chimica. Ho voluto contattarlo per chiederglicosa pensa in questo momento sulle chiusure.Ha molto gentilmente risposto con il seguente com-mento, che Vi lascio come conclusione, in attesadi tornare al tema in una prossima opportunità:

“Il tappo a vite ha portato ad una seria revisionedel modo in cui tappavamo i vini (…). Ha forzato iproduttori di sughero a conoscere meglio il loroprodotto e ha spinto il controllo di qualità ad unlivello mai esistito in precedenza. (…) [Riferendosiagli ultimi test che ha effettuato con tappi di sughe-ro naturale, tecnici e a vite, ribadisce:] Pensoche l’evoluzione del vino sia in generale migliorecon il tappo di sughero, e che sia difficile replicar-la in qualsiasi altro modo. Al contrario, i vini sot-toposti a basso ingresso di ossigeno [tappo a vite]sembrano soffrire moltissimo di riduzione post-imbottigliamento (accumulo di solfuro). Questo hal’effetto di alterare la struttura del vino al palato,di ridurre la persistenza e di introdurre degli ele-menti spigolosi invece di indurre una tessituramorbida e rotonda. (…) Sarebbe prematuro in que-sto momento concludere che le chiusure a bassoingresso di ossigeno possano costituire la soluzio-ne definitiva per l’invecchiamento del vino.”Dr. Alan Limmer, Stonecroft Wines (Nuova Zelanda)

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Il vino è una bevanda idro-alcolica fermentata, otte-nuta unicamente dalla

fermentazione, totale o par-ziale, dell’uva, pigiata o non,oppure del mosto d’uva. Lasua composizione chimicaracchiude tutte quellesostanze capaci di interes-sare, ai vari livelli, i degu-statori professionisti (tra cuii sommeliers) e i consuma-tori del quotidiano.Queste sostanze sono inter-cettate dai nostri organi sen-soriali, sono elaborate dalnostro cervello, filtrano attra-verso le conoscenze acquisite esbocciano in descrizioni, in frasi,in racconti più o meno estesi: iltutto rappresenta, a vario titolo,le parole nel vino, che diventeran-no le parole del vino nel momento incui la verbalità prenderà il sopravven-to sul pensiero. In quel preciso istante leparole nel vino diventano le parole del vino,essendo le prime intrise nella natura del prodot-to e le altre espressione di un racconto, di una rap-presentazione, di una visibilità.Le parole del vino, inseguendosi le une con le altre, costrui-scono il linguaggio della degustazione, che altro non è cheun sistema di simboli sensoriali e di regole gestuali progettua-lizzate per comunicare il vino in modo diverso, a seconda dell’in-dirizzo e della destinazione, diversificandosi se mirate a com-prendere la potenzialità e il difetto (è il caso del wine-maker); adinteressare il lettore (il wine-writer); a sviluppare una penetrazione nelmercato (è il caso del venditore), a sviluppare la conoscenza e l’appren-dimento come i docenti nei corsi di tecnica della degustazione.Per questo motivo ogni parola nel vino e del vino ha un proprio signifi-cato, che risulta molto condizionato nel contenuto dalla logica, dalla psi-cologia, dalla dottrina della comunicazione, dalla sintesi stilistica e ulti-mo, ma non meno importante, dalla filosofia complessiva del linguag-

Le parole

nel vinoIL LINGUAGGIO

DELLA DEGUSTAZIONE

È UN SISTEMA

DI SIMBOLI SENSORIALI

E DI REGOLE GESTUALI

PER COMUNICARE

IL PRODOTTO IN MODO

DIVERSO A SECONDA

DELL’INDIRIZZOE DELLA DESTINAZIONE

di Roberto Bellini

� David Gleave, relatore al Master di Montecatini

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gio: ovvero frase vocale e testo letterario.Nel vino i linguaggi sono vari; questo è prepotentemente emer-so, e in parte lo si sapeva già, nella recente sessione anglofo-na di approfondimento e di studio sulla degustazione, sul ter-roir, sui nuovi mercati e sui nuovi gusti del vino, tenutasi aMontecatini Terme il 13 e 14 giugno 2008.L’occasione è stata veramente ghiotta perché ha dato la pos-sibilità ai partecipanti di confrontarsi con un linguaggio bendistante (però non del tutto diverso) da quello ormai inter-nazionale della sommellerie AisL’interscambio didattico è avvenuto con David Gleave,Master of Wine di lungo corso, ideatore e creatore di LibertyWine in Londra, azienda leader nell’import e nella comu-nicazione del vino nel mercato anglosassone.Gleave è un personaggio molto distante dal modo di par-lare con sussiego, gradisce il coinvolgimento e il connu-bio completo, tutti devono assimilarsi nel vino e esprime-re le loro considerazioni organolettiche: non sono consi-derabili come degli errori le conclusioni supportate da undiscorso logico.Le giornate, in sintesi, sono trascorse parlando di vino, didescrizioni organolettiche, di terroir, di marketing e di valo-re economico del prodotto: molto stuzzicante è stata la partedi tradurre in prezzo il valore analitico della degustazione.I passaggi più significativi delle diversità di linguaggio tra il Masterof Wine e il Sommelier sono imperniate nei concetti di sintetici-tà e analiticità, ovvero breve, ma concisa, spremuta organoletti-ca verso una analiticità che genera più o meno poesia, (poetic).Ecco un esempio di degustazione analitico poetica. “Aroma intensa-mente fruttato, franco nella sua espressione, ci induce a pensare a poten-zialità d’affinarsi, di certo i piccoli frutti a bacca rossa (soprattutto la cilie-gia che in questo momento sprizza di freschezza), lasceranno la scena a unapregiata speziatura, dolce e concentrata (vaniglia) in questo stadio, però anti-cipatrice di complessità quando il prodotto maturerà. Impatto gusto olfattivodilagante in un tannino avvolgente, ma non aggressivo, crea un volume sapi-do e corroborante, il lungo finale si completa con una minuziosa temprabalsamica”Ora un esempio di sinteticità anglosassone. “Fruttato, pulito: frutti rossi;speziato, tannino equilibrato, acidità bilanciata, ben costruito nella struttu-ra, lungo e pregiato nel finale di gusto”.In tutti e due i casi si descrive lo stesso vino con due linguaggi diversi,essi sembreranno distanti e differenti solo a coloro che ancora non pos-siedono un metodo di degustazione. Questa sinteticità è ben comprensibile dai sommeliers, che sono riusciti aintegrare e acquisire immediatamente, con un’ottima perfettibilità, i con-cetti di equilibrio anche all’interno delle singole espressioni delle durezze,soprattutto nell’acidità e nel tannino e confrontarle con l’equilibrio dell’al-cool. Molto interessante e coinvolgente è stata la parte deduttiva, dove avva-lendosi delle esperienze maturate e delle conoscenza acquisite, si cerca diMontecatini

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costruire un ragionamento per individuare il vitigno o il blende la zona di provenienza; per arrivare infine a una situazioneveramente innovativa per la filosofia degustativa dei somme-liers: l’individuazione del prezzo d’acquisto per identificare ilprezzo di vendita.Questa è realmente la differenza tra il metodo di degusta-zione dei sommeliers Ais e quello dei Master of Wine; essihanno un occhio più focalizzato nel mercato, scevro da con-dizionamenti di tradizioni territoriali, di affezioni storiche oamicali, quasi a voler significare che in questo mercato glo-bale il valore del vino si consolida in una costante presenzanelle wine-lists della catena Horeca, senza tralasciare le pos-sibilità offerte dalla Grande Distribuzione.Interessanti sono i dati di un’indagine anglosassone in meri-to al valore medio della vendita del vino (escluso spumantie vini fortificati): in Germania è di sterline 1,34; in Inghilterra1,95; negli Usa di sterline 2,68. Altro dato interessante, eda un lato forse preoccupante, è l’analisi di chi acquista ilvino in Inghilterra, solo il 2% dei consumatori compra vinoal di sopra di 7,5 sterline, mentre l’80% acquista vini con unprezzo tra 3,50 e 4,75.Il confronto tra il sommelier e il Master of wine, in fatto di

degustazione, è scandito anche dalla propensione del secon-do a ricercare uno sbocco di mercato dei prodotti, accompa-

gnandolo e abbellendolo di quelle peculiarità di marketing e disupporto alla vendita, che includono anche una caratterizzazio-

ne delle specificità del profumo e del gusto del vino. La specializza-zione potrebbe, in futuro, non consistere nel concentrarsi nella com-

prensione della qualità di un valore assoluto nel vino, esempio untop wine; sarà forse più vantaggioso sezionare e cogliere le minimalità

organolettiche di quei vini qualitativamente lontano dai vertici, ma peri-colosamente vicini alle barriere della marginalità del profitto aziendale.Il meeting ha evidenziato queste differenti visioni degli sbocchi degustativi,entrambi hanno la stessa linea di partenza, il traguardo dei sommeliers èperò quello di combinare il match tra il cibo e il vino e solo da qualche annoè timidamente approdato sulla sponda della comunicazione del vino.Un aspetto, a detta di tutti i partecipanti, s’è rafforzato, ed è quello di averconstatato che la didattica degustativa dell’Associazione Italiana Sommelierssi situa in una posizione paritaria al confronto con quella dei M.W., a loropuò mancare un approfondito esame del mariage con il cibo, alla nostraquella di un più rigoroso controllo del ripetitivo e non concluso esame delrapporto qualità-prezzo.Incontri del genere sono interessanti e proficui, servono per aumentare lo“skill”, quel connubio di abilità e talento che consente al degustatore di vinodi immedesimarsi e di appropriarsi delle complessità enologiche, estrapo-larne la criticità, comporre una sequenzialità di parole descrittive, fino aprodurre quel linguaggio comprensibile ed adatto a quella particolare situa-zione di comunicazione del vino; o più maliziosamente, come dicono le scuo-le di degustazione francesi: dare voce al mutismo.

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Nel cuore della provincia orien-tale di Venezia si snoda unodegli itinerari enogastronomi-

ci più affascinanti del Veneto: laStrada Vini doc Lison Pramaggiore. A pochi chilometri dalla Serenissimae dalle località balneari di Bibione eCaorle, si trova il territorio noto all'epo-ca della Repubblica Serenissima cometerra dei “Vini dei Dogi”, ancor primascelto dai Romani per la produzioneenologica: il Lison Pramaggiore. Oggi questo comprensorio è attraver-sato dalla Strada dei Vini Doc, unpercorso ricco di sorprese: dagli iti-nerari alla scoperta delle testimonian-ze storiche della vite, che risalgono apiù di 2500 anni fa, a quelli enoga-stronomici fino alle escursioni allaricerca dei paesaggi dove la natura èancora protagonista assoluta.Un’area tanto affascinante e ricca distoria che, per la prima volta, è dive-nuta protagonista del progetto cheha visto la collaborazione fra laSoprintendenza ai Beni Archeologicidel Veneto, il Dipartimento di Scienzedell’Antichità dell’Università diPadova e l’Istituto Sperimentale perla Viticoltura di Conegliano. Fruttodi questa collaborazione è il volume“Dalla Vite al Vino”, studio completosul vino e sulla sua cultura nell’areadella Venezia Orientale.Un po’ di storia. Grazie alla sua posi-zione strategica tra le Alpi e l’Adriatico,

la presenza dell’uomo in quest’areaha origini antichissime. Già abitatanella preistoria, dopo i Veneti furo-no i Romani a dare al territorio lanotorietà. Proprio i Romani introdussero la col-tivazione della vite e le testimonian-ze sono ancora visibili nei principa-li scavi archeologici: vasche di pigia-tura e follatura, statue che ritrag-gono fasi della vita in cantina, addi-rittura i vinaccioli di vite romana…Già Plinio chiamava “helos” il vinoprodotto fra Opitergium (la modernaOderzo) e Julia Concordia (oggiConcordia Sagittaria).

Il vino era per i Romani una delleprincipali merci di scambio e per que-sto crearono importanti strade, primafra tutte la Via Annia, i cui segni sonogiunti fino a noi. Oltre alle vie di terra, vi erano le vied’acqua, i fiumi, primo fra tutti ilLemene.E se in epoca romana il centro prin-cipale era Julia Concordia, in quellamedievale Aquileia e Sesto al Reghenaassunsero un ruolo di primariaimportanza.La coltivazione della vite nel territo-rio fu ulteriormente incrementataverso il 735, quando fu eretto il

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VENEZIA HA UN CUORE VITIVINICOLO

CHE PULSA DA PIÙ DI 2500 ANNI: LISON PRAMAGGIORE

di Silvia Baratta e Dino Marchi

Tra storia e naturaun territorioda scoprire

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IN GITA TRA IL SENTIERO INCANTATO E IL BOSCO DELLE FATE

La Strada dei Vini Doc Lison Pramaggiore è attiva fin dal 1986 maha ottenuto il riconoscimento ufficiale grazie alla legge Regionaledel Veneto (17/2000) nel 2002. Si snoda idealmente lungo il percorsodella romana Via Annia, da Venezia fino al confine con il Friuli. Il sim-bolo del Leone di S. Marco guida il visitatore nel riconoscere i pro-duttori, le botteghe, gli alberghi e i ristoranti che compongono l'of-ferta turistica. Non si propone solo come zona di produzione di Vinia denominazione di origine controllata, ma vuole essere anche utilestrumento per la valorizzazione dell'area nel suo complesso.Attraverso la Strada dei Vini doc Lison Pramaggiore il turista entra inluoghi di produzione che garantiscono la qualità dell'accoglienzaaccompagnandolo alla scoperta di un territorio ricco di risorse uni-che, di storia e di paesaggi.

La vasta area che si trova nella parte più orientale del Veneto, tra ifiumi Livenza e Tagliamento, è stata suddivisa dalla Strada dei Vini inquattro zone e altrettanti itinerari all'insegna dei sensi: il gusto saràsoddisfatto dalla varietà e qualità dei prodotti di questa terra, l’ol-fatto sarà stupito dal profumo armonico e fruttato del vino, la vistasarà sopraffatta dai colori forti del paesaggio, l’ udito tornerà adascoltare i rumori della natura: il canto degli uccelli, il fruscio dellefitte chiome degli alberi, lo sciabordio delle acque...

IL SENTIERO INCANTATOTocca l’area di Lison Pramaggiore, cuore della produzione dei viniDoc. Pramaggiore ospita l’enoteca regionale del Veneto ed è statainsignita del titolo di “Città del Vino”. Spostandosi più a sud, si incon-tra l’antico borgo di Stagninbecco, attuale città di Belfiore, cheospita il Museo Etnografico “Villa dalla Pasqua” dedicato al pane eal vino.

LA STRADA DELLE ANTICHE CITTÀ SOSPESE TRA I VITIGNIPortogruaro, una città gioiello, famosa per il suo centro storico tuttoporticato e per i numerosi e pregevoli palazzi di epoca medievale erinascimentale. Summaga, altro centro importante per la gastrono-mia e la storia, merita infatti una sosta sia per la produzione di lattee formaggi, sia per la splendida Abbazia Benedettina del XIII sec.

ATTRAVERSO IL BOSCO DEGLI ELFI E DELLE FATESan Stino è la cittadina di riferimento per questo itinerario. Ricopertaanticamente da grandi boschi secolari, era attraversata dallafamosa Via Annia che collegava Roma ad Aquileia. Il paesaggionaturalistico è segnato dalla presenza del fiume Livenza quasi inte-ramente navigabile e molto pescoso: tra i prodotti ittici più tipici sisegnalano l’anguilla e lo storione.

IL RIFUGIO SEGRETO DI BACCO DORMIENTEQui il riferimento è un’altra Città del Vino, Annone Veneto che pren-de il nome da "Ad Nonum lapidem", cioè “luogo posto al nonomiglio della strada romana”, riferendosi alla via Postumia, l'anticastrada consolare romana costruita per congiungere Genova adAquileia, attraversando la pianura padano-veneta. Un territorio ricco di risorse, quello di Lison Pramaggiore, dove la cul-tura del vino è strettamente legata alla storia e all'ambiente. Unazona unica e tutta da scoprire, fra terra e mare...

Per informazioni: Strada Vini Doc Lison Pramaggiore Via Cavalieri di Vittorio Veneto 13/B 30020 Pramaggiore (Ve) - Tel. 0421.200731 www.stradavinilisonpramaggiore.it [email protected]

monastero di Santa Maria in Silvisa Sesto al Reghena, i cui abati ave-vano potere sui centri come Cinto,Annone e Gruaro. Risale a questo periodo anche il cen-tro storico di Portogruaro, una dellecittadine più caratteristiche delVeneto, con il suo municipio mer-lato, i suoi portici, le ruote dei muli-ni sul Lemene. Nei pressi della cit-tadina si trova l’importante abbaziabenedettina di Summaga, sortaintorno al Mille, attorno alla quale,dopo le invasioni dei barbari, si rein-trodusse la coltura della vite.I Veneziani giunsero nel XV secolo ei principali centri si arricchirono dichiese e palazzi. Il territorio diven-ne quindi la “Terra dei vini dei Dogi”,qualifica ancor oggi usata per iden-tificare il territorio. Pramaggiore inparticolare, con il borgo di Belfiore,divenne il “Vigneto della Serenissima”perché vocato alle produzioni di altaqualità. Dopo la crisi della viticoltura dovu-ta alla caduta della Serenissima, conl'avvento degli Asburgo si cataloga-rono le varietà di vini e fu l'IstitutoRegio della Corte di Vienna ad isti-tuire nel 1823 un 'Catalogo delleVarietà di viti del Regno Veneto' checomprendeva alcune centinaia divarietà di viti presenti sul territorio.Alla fine del XIX secolo gli sforzi deiproduttori di Lison Pramaggiore furo-no orientati a selezionare le varietàpiù adatte al territorio e verso il 1950si arrivò all’individuazione delle varie-tà più idonee, molte delle quali fannoparte ancor oggi del patrimonio viti-colo di Lison Pramaggiore. La viti-coltura contribuì a risollevare il ter-ritorio dopo la Prima GuerraMondiale e negli anni Trenta unavasta azione di bonifica e di moder-nizzazione della produzione agrico-la e vinicola rese l'area di LisonPramaggiore all’avanguardia nellaproduzione vitivinicola.

L’uomo e la natura: un binomioinscindibile. Se gli abitanti del ter-ritorio da un lato domarono la natu-ra per renderla più ospitale per lecoltivazioni, essi si impegnarono dal-l’altro nella tutela dell’ambiente eoggi l’area vanta oggi oasi naturali,dune e corsi d’acqua. Il rispetto perl’ambiente ha portato anche i pro-duttori a introdurre per primi l’agri-coltura biologica. Nel 1988 le primetre aziende avviarono in via speri-mentale la coltivazione biologica equesta negli ultimi anni ha avuto unnotevole sviluppo. Oggi la coltivazio-

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ne biologica è divenuta un fenome-no imprenditoriale di tutto rispetto,capace di soddisfare un mercato incontinua crescita. Grazie a questo impegno attualmen-te il territorio Lison Pramaggiore ospi-ta l'isola di viticoltura biologica piùgrande d'Italia omogenea all'internodi una Doc, che conta circa 400 Ha. Una sfida coraggiosa perché produr-re vino biologico significa non uti-lizzare prodotti chimici e questo com-porta un controllo maggiore sulvigneto ed in azienda, con interven-ti molto frequenti eseguiti esclusiva-mente a mano o con l’ausilio di mezzimeccanici. Per l’area di LisonPramaggiore la coltivazione biologi-ca è un plusvalore che rafforza laqualità del prodotto.“Oggi i vini biologici stanno sulloscaffale in vendita alla pari dei vini“convenzionali” spiega il Presidentedella Strada dei Vini Doc LisonPramaggiore Daniele Piccinin e tito-lare dell’azienda Le Carline. “La dif-ferenza sostanziale è che i vini bio-logici non contengono sostanze chi-miche, sono più genuini, caratteri-stici e rispecchiano di più la diffe-renza varietale. Hanno poi un valo-re aggiunto: rispettano e salvaguar-dano l'ambiente ed il consumatore.Contengono infine più sostanze utiliper l'organismo umano, come adesempio il resveratrolo che numero-se ricerche scientifiche hanno dimo-strato essere un protettivo per ilsistema cardiocircolatorio. Il vinobiologico oggi deve essere propostoaccanto ai grandi vini”. ConcludeDaniele Piccinin “bisogna sfatare

l’anacronistico pregiudizio che siadi qualità inferiore. Oggi è un vinodi qualità, con un ottimo equilibriorapporto qualità prezzo e il fatto chesia biologico diventa valore aggiun-to.” Questo è già stato capito neinuovi mercati, dove il consumato-

re è divenuto più esigente e attentoalla salute propria e del pianetacome dimostrano i moltissimi premiassegnati ai produttori di vini biolo-gici di Lison Pramaggiore in occasio-ne dei numerosi concorsi enologiciinternazionali.

L’area Lison Pramaggiore è perantonomasia la Doc di Venezia. Il territorio di produzione compren-de gran parte dei comuni delVeneto Orientale e si estende daiterreni vicini al mare fino ai confinicon le province di Treviso e diPordenone. La Denominazione d'origine con-trollata viene attribuita oggi alleproduzioni di 14 vitigni e ad altri 4vini prodotti nell'area, che ilConsorzio Vini Doc Lison Pramaggiore promuove etutela. Le uve destinate alla pro-duzione dei vini LisonPramaggiore devono essere pro-dotte nella zona comprendente,nelle rispettive province, i territoricomunali di:

Provincia di Venezia: AnnoneVeneto, Cinto Caomaggiore,Gruaro, Fossalta di Portogruaro,Pramaggiore, Teglio Veneto eparte del territorio dei comuni diCaorle, Concordia Sagittaria,Portogruaro, San Michele alTagliamento, Santo Stino diLivenza.Provincia di Treviso: Meduna diLivenza e parte del territorio diMotta di Livenza.Provincia di Pordenone: Chions,Cordovado, Pravisdomini e partedei territori di Azzano Decimo,Morsano al Tagliamento, Sesto alReghena.

Si fregiano della Doc le tipologie:Bianco

RossoLison o Tocai Italico (da Tocai friulano)

Pinot biancoChardonnay Pinot grigioRiesling italico Riesling (da Riesling Renano)

SauvignonVerduzzoMerlotMalbechCabernetCabernet francCabernet sauvignonRefosco dal peduncolo rossoClassicoNovello Frizzante Spumante Riserva

LE ZONE DI PRODUZIONE

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Una grande opportunità si profila oggi per il vino italiano: il riordinodelle norme sulle denominazioni d’origine, che tutti dicono indispen-sabile ma che nessuno ha cercato finora di affrontare sul serio, viene

adesso indirettamente sollecitato dal nuovo corso dell’Unione europea. Dalprimo agosto è entrata infatti in applicazione la riforma dell’Ocm,l’Organizzazione comune di mercato. E l’Italia, come tutti i Paesi membri,ha tempo un anno per allineare alle nuove regole la propria normativa sulleindicazioni geografiche: dal primo agosto 2009 tutta la materia finirà sottol’ala di Bruxelles. Perché allora non rivedere l’intero impianto anziché limi-tarsi a qualche adeguamento burocratico?I tempi sono stretti, ma l’occasione è allettante. “Oggi siamo avvantaggiati”, è infatti la convinzione del neo-presidente diFedervini, Lamberto Vallarino Gancia. “Sappiamo già che tra un anno cisarà una rivoluzione nel sistema delle denominazioni. Non dobbiamo farealtro che tenerne conto e agire di conseguenza. Non farlo potrebbe esseretroppo tardi”. Ha perfettamente ragione, il mancato rispetto del disciplinare del Brunellodi Montalcino, reato per il quale sono indagate dalla magistratura alcuneaziende, non è il solo campanello d’allarme che segnala l’urgente necessi-tà di un mutamento di rotta. La prima constatazione da cui è necessario partire è che le Docg e le Doc(che con le nuove norme europee saranno inglobate tra le Dop, Denominazionid’origine protetta) sono troppe. Bisogna avere coscienza che nell’era dellaglobalizzazione si entra in competizione con le denominazioni varietali usatedai Paesi nuovi produttori, denominazioni che non hanno bisogno d’esse-re spiegate a nessuno perché i consumatori di tutto il mondo le conosco-no: Cabernet sauvignon, Merlot, Chardonnay... Quante possono essere:venti, trenta? Esageriamo pure: cinquanta? Quali possibilità ha l’Italia disostenere il confronto senza soccombere, complicata com’è da 472 deno-minazioni geografiche, alcune delle quali del tutto sconosciute perfino agliitaliani? E’ vero che le Denominazioni d’origine rappresentano la più importante

Dopnon significa

dopingTRA UN ANNO

DOC E DOCG

VERRANNO INGLOBATE

TRA LE DENOMINAZIONI

DI ORIGINE PROTETTA:ALCUNE, COME IL

BRUNELLO, SONO CAVALLI VINCENTI

DA CAVALCARE. A PATTO PERÒ

DI NON DOPARLI

di Cesare Pillon

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chance per sottrarre la produzione vinicola europea all’omologazione, ma316 Doc sono un’esagerazione. Che ha però una giustificazione: quandosono nate non avevano una valenza qualitativa, erano semplicemente il cen-simento dei vini esistenti. Era inevitabile perciò che il loro numero cresces-se tumultuosamente all’insegna della casualità. Ma che dire delle 38 Docg,che sono state approvate successivamente, quando si sapeva benissimoche quella “g” aggiunta avrebbe dovuto garantire che si trattava del megliodel meglio? Sono una quantità assurda, una miscela caotica dell’ottimo edel mediocre che è stata gonfiata spensieratamente fino alle inclusioni del-l’ultima ora. Nove, di queste 38 Docg, sono state infatti istituite recente-mente dall’appena scaduto Comitato vini, cioè dall’ente del Ministero dellePolitiche agricole ch’era preposto alla gestione delle denominazioni. Fra le nove Docg appena create c’è per esempio la prima attribuita a unvino del Lazio: il Frascati? Il Marino? no, il Cesanese del Piglio, prodottoin un piccolo territorio di 150 ettari in Ciociaria. Nessuno ne mette indubbio le potenzialità qualitative, ma come può essere credibile una clas-sificazione che premia con la Docg questo vino che non è mai andato al dilà del consumo locale, mentre attribuisce avaramente una Doc a due tra icapolavori enologici italiani più apprezzati nel mondo come il Sassicaia el’Ornellaia? Bisognerebbe avere perciò il coraggio di usare il machete per sfoltire que-sta giungla, creata da orgogli campanilistici e dall’interessato attivismo diparlamentari a caccia di voti. Poche Dop al posto di 354 tra Doc e Docg per-metterebbero di cogliere due piccioni con una fava: diventerebbe possibilefarle conoscere meglio, soprattutto all’estero, mediante una promozione piùmirata, senza disperdere inutilmente risorse; e diventerebbero più facili icontrolli, che potrebbero finalmente appuntarsi sulla qualità, con funzio-ne preventiva, più che, repressivamente, sul rispetto delle regole. Non bisogna però nascondersi dietro un dito: in Italia bisogna essere deitemerari per tentare di abolire dei diritti acquisiti. Togliere la Doc o la Docga vini che l’hanno già ottenuta è un’impresa suicida: chi oserebbe prender-si la responsabilità di decidere quale vino va depennato? Un setaccio perseparare il grano dal loglio, tuttavia, non dovrebbe essere impossibile tro-varlo. 150 anni fa i funzionari di Napoleone III classificarono i crus delBordolese sulla base di un’unità di misura che nessuno era in grado di con-testare: il prezzo che avevano spuntato nel corso degli anni. Non è possi-bile fare altrettanto? Basterebbe decidere che un vino in commercio da sem-pre al disotto di una certa cifra non può avere le caratteristiche qualitati-ve per fregiarsi della Dop. Il declassamento a cui esso verrebbe sottoposto, d’altronde, sarebbe di mini-ma entità: i vini scartati come Dop potrebbero essere accolti fra le attuali118 Igt, che dal primo agosto 2009 diventeranno Igp, Indicazioni geografi-che protette. Non è mica un disonore: a Igt, cioè a Indicazione geograficatipica, sono attualmente quasi tutti i SuperTuscans che si sono conquista-ti il favore dei mercati d’esportazione, compresi due archetipi di straordi-nario prestigio come Solaia e Tignanello (certo, un riordino serio e radica-le dovrebbe spostare questi vini, orgoglio del made in Italy, nella categoriasuperiore, quella delle Dop). La materia, insomma, è piuttosto scottante: non c’è quindi da farsi sover-chie illusioni sulle possibilità che un severo repulisti possa essere attuatoper davvero. Anche perché l’attenzione di tutti gli addetti ai lavori, preoc-cupati dall’intervento della magistratura nei confronti del Brunello diMontalcino, è oggi accentrata sui disciplinari di produzione. In una inter-vista di fine luglio alla Stampa, Lamberto Vallarino Gancia ha ammesso che“si parla di rivederne qualcuno”, sostenendo però che non si ha questaintenzione “solo perché ci sono stati dei problemi”. Il motivo invece è pro-prio quello, perché l’unica ipotesi che ha affacciato è quella di prevedere“un minimo di tolleranza dove è previsto il 100% di un vitigno”. I produt-tori che lui rappresenta, ha spiegato però, “in linea di massima sono d’ac-cordo, ma non vogliono farlo ora perché, dopo il caso del Brunello, sareb-be un cambiamento esercitato sotto la pressione psicologica e mediaticadi quel ch’è avvenuto”. Nella sua posizione, Vallarino Gancia non poteva probabilmente direqualcosa di diverso. Però di fronte alla possibilità di fare addirittura unarivoluzione, offerta dall’applicazione delle nuove norme europee, i pruden-ti propositi manifestati a nome della Federvini appaiono piuttosto ridutti-vi. Ben altre bordate ha sparato in luglio l’enologo Vittorio Fiore, uno deiprotagonisti del Rinascimento del vino italiano, in un vibrante intervento

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sul Corriere Vinicolo, contro i disciplinari delle denominazioni d’origine,accusandoli di aver creato “una specie di museo degli orrori”. Il loro vizio d’origine, sostiene Fiore, è quello inoculato nei loro testi dallalegge n. 930 del 1963, alla quale erano tenuti ad ispirarsi. Tutto nascevada un “presupposto clamorosamente sbagliato”, e cioè che i vini prodotti inItalia negli anni ‘60 fossero “il massimo del potenziale qualitativo che sipotesse raggiungere”, per cui non c’era niente da modificare. Ecco perché,

spiega, i disciplinari erano stati inzeppati di “rego-le, regolette (la maggior parte delle quali assurde eanacronistiche), luoghi comuni, lacci e lacciuoli vari”:lo scopo era di mantenere lo status quo, “come se daquella specifica zona di produzione non si potesseottenere niente di meglio”.Non c’era stata neanche l’umiltà di andare a vedereche cosa avevano fatto “i nostri cugini d’Oltralpe nei150 anni che hanno preceduto la nascita delle deno-minazioni d’origine in Italia”, protesta Fiore, sugge-rendo la lettura del disciplinare del BordeauxSuperieur, che in un solo articolo detta tutte le normeche servono a produrre qualcosa come 5 milioni diettolitri di un vino del massimo prestigio. Molto istrut-tiva, segnala poi, “la semplicità del punto primo del-l’allegato, per cui il produttore può scegliere fraben 17 differenti varietà principali (per cui non se neescludono nemmeno altre) quella/e che più gli aggra-da/no e stabilire liberamente le percentuali di uti-lizzo”. La conclusione da trarre non può essere che una: idisciplinari delle Doc e Docg italiane dovrebbero esse-re riscritti da cima a fondo, eliminando le pastoie chelegano le mani a produttori e tecnici e cancellando ivincoli che condannano i vini a diventare simili areperti archeologici. Poche regole, quindi, e massi-ma libertà di sperimentazione. Si tratta però di avereidee precise su quali debbano essere le poche norme,quelle sì, inderogabili. Il modello del BordeauxSuperieur citato da Fiore, per esempio, va benissi-mo per tutti i vini che nascono da un uvaggio, manon è adatto al Brunello di Montalcino, che è moltopiù simile ai vini di Borgogna, i quali sono fatti conun solo vitigno al 100% (Pinot nero per i rossi eChardonnay per i bianchi).Vittorio Fiore, invece, sostiene che non si può pre-tendere con intransigenza che il Brunello sia fattocon il 100 per cento di Sangiovese perché esistonotre cause esterne che possono compromettere la vini-ficazione in assoluta purezza: nel vigneto può esse-re stata impiantata per errore qualche vite di varie-tà diversa; durante la vendemmia a Montalcino, dovecoesistono quattro denominazioni di vini rossi, nonsi può escludere che qualche carrello con i grappo-li di un altro vitigno finisca inavvertitamente nellalinea di lavorazione del Brunello; e infine il profiloantocianidico del vino, assunto dall’Ispettorato con-trollo qualità come prova inconfutabile del manca-to rispetto del disciplinare, può essere stato altera-to, a suo parere, dall’uso di cloni di Sangiovese del-

l’ultima generazione, dalle condizioni fitosanitarie delle uve, dalle tecnichedi vinificazione e di affinamento. Troppi elementi di incertezza e di aleatorietà, conclude, per non concede-re una soglia di tolleranza a quel 100% di Sangiovese.

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Sono obiezioni di cui è giusto che i magistrati tengano conto: ma è neces-sario modificare la norma oppure è sufficiente applicarla con buon senso,interpretando le analisi di laboratorio con un ragionevole margine di tolle-ranza? Il fatto che una delle aziende indagate, la Antinori, sia uscita dall’occhio delciclone declassando una parte del vino posto sotto sequestro, dimostra chele indagini non sono condotte con cieca inflessibilità. In ogni caso, quelliavanzati da Fiore sono dei dubbi, mentre ciò che sconsiglia di ammorbidi-re le regole è una certezza: qualunque percentuale di errore fosse ricono-sciuta ufficialmente nel disciplinare aprirebbe un varco attraverso cui fini-rebbero per passare abusi sempre più gravi. Non è un problema di percentuali: si tratta di decidere se il Brunello diMontalcino debba restare un vino di monovitigno o diventare un vino diassemblaggio. Il punto è tutto lì. La decisione può essere presa però soloavendo chiare quali conseguenze provocherà: se si rimuovono tutti i vinco-li che impediscono al Brunello di rinnovarsi (imponendogli per esempio iltempo in cui deve maturare in botte) gli si permetterà finalmente di evol-versi scegliendo senza indebiti condizionamenti le strade che più gli con-vengono, ma se si cambia la norma che impone di produrlo vinificando ilSangiovese in purezza si cancella la sua originalità, che risiede nella suanatura monovarietale, per farlo diventare come la maggior parte dei vinitoscani d’oggi. Nel suo appassionato intervento, Vittorio Fiore rievoca un evento in cui haavuto lui stesso un ruolo di primo piano: la “nascita dei SuperTuscans, vininati in Toscana ma divenuti ben presto alfieri di tutta la produzionenazionale, che costituirono un j’accuse dei produttori e dei tecnici piùpreparati imprenditorialmente e tecnicamente contro le assurde normeadottate nella produzione dei vini a Doc e Docg che, secondo le miglioriintenzioni, avrebbero dovuto traghettare il comparto vitivinicolo italianoverso una posizione di primato qualitativo a livello internazionale e che inve-ce costituivano una vera e propria palude normativa, che veniva ripudiatadagli stessi produttori”. In quella circostanza, però, produttori e tecnici non modificarono nasco-stamente il Chianti Classico per farne un vino moderno: utilizzarono per leloro creazioni le uve che ritenevano più adatte, le vinificarono con tecnolo-gie più evolute, ed affinarono il vino ottenuto in una piccola botte che nonavevano mai utilizzato per questo scopo, la barrique. Ma giunto il momen-to di commercializzare quelli che sarebbero poi stati chiamati SuperTuscans,ebbero l’onestà di porli in vendita come semplici Vini da Tavola, e l’auda-cia di farli pagare più cari delle Riserve di Chianti Classico Doc. Con il Brunello di Montalcino, se le accuse della Procura di Siena sarannoconfermate, è successo esattamente il contrario: invece di essere propostocome Igt, il vino tagliato con Merlot è stato spacciato per Brunello autenti-co, fatto col 100% di Sangiovese. Perché non è stato commercializzato conla sua vera identità? Se era davvero migliore, i consumatori lo avrebberopreferito, così come avevano preferito i SuperTuscans negli anni Ottanta.Ma mentre negli anni Ottanta quella del Chianti era una Doc in crisi pro-fonda, e quindi conveniva restarne fuori, nei nostri anni la Doc del Brunelloè quella che può vantare lo sviluppo più entusiasmante: è un cavallo vin-cente che conviene cavalcare. A patto però di non doparlo.

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Non è davvero facile orientarsi, con tutte queste tipologie, denomi-nazioni e sottodenominazioni, Soave Doc, Soave Colli Scaligeri Doc,Soave Classico Doc, Soave Superiore Docg, (cui vanno poi aggiun-

te la Docg Recioto di Soave e la Doc Soave Spumante), nell’universo delSoave, nel “sistema Soave”, come ama definirlo l’attivissimo Consorzio, cheha splendidamente collaborato (e colgo l’occasione per ringraziarlo) allarealizzazione della mia degustazione. Una sessantina di campioni da cuiho tratto il meglio costituito da 25 vini, anche se avrei potuto selezionar-ne, restando su livelli di buonissima qualità, almeno altri venti. Eppure se si analizza con un minimo di attenzione questo sistema, basa-to su una conformazione a piramide, alla base il Soave Doc (3.788 ettarivitati per una produzione 2007 di 398 mila ettolitri), quindi a seguire ilSoave Colli Scaligeri (306 ettari e 30 mila ettolitri), poi a salire l’area sto-rica del Soave Classico (1.233 ettari per 121 mila ettolitri), per arrivare infi-ne al Soave Superiore Docg (nemmeno 40 ettari per una produzione di2.729 ettolitri), si capisce benissimo come la produzione abbia un suo ordi-namento logico, che teoricamente porta da produzioni e rese più ampie aproduzioni e rese più selettive e ad ambizioni qualitative superiori. Bene, io non credo più di tanto nelle classifiche e nei numeri, però se que-sta degustazione mi ha insegnato qualcosa, oltre a testimoniare una qua-lità diffusa ed un livello davvero importante (non so in quante altre deno-minazioni storiche e non in bianco si possano trovare tanti vini così vali-di e che invogliano decisamente a bere), è che il meglio non si trova solo –ed è normale – nell’ambito del Soave classico, ovvero la zona che compren-de i rilievi collinari dei comuni di Soave e Monteforte d'Alpone, nei qualisi trova l’area originaria più antica, detta “zona storica”, che presentaterreni tufacei di origine vulcanica con importanti affioramenti calcarei, ein qualche caso nell’ambito del Soave Superiore, ma anche in quella piùvasta, la base della piramide appunto, del semplice Soave Doc. In questouniverso che solo gli stupidi o i disinformati possono giudicare monodi-mensionale, ma che è invece estremamente variegato, sfaccettato, ricchis-simo di sfumature, pieno di angoli e scorci emozionanti paesaggisticamen-te parlando, una vera e propria distesa di cru, terroir, microclimi, situa-zioni ambientali incredibili, (oggetto di un eccellente lavoro, Il Soave oltrela zonazione. Dalla ricerca ai cru, realizzato dal Consorzio di tutela Soave),agiscono un vastissimo numero di protagonisti.

Il poliedrico e multiforme universo

del

di Franco Ziliani

Soave

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La cosa interessante, che dimostra la vitalità e la forza di questa zona ela sua intelligenza nell’aver trovato in una grande uva come la Garganegail proprio ubi consistam, la leva d’appoggio per concepire il progetto di ungrande vino bianco veneto e italiano, (Garganega che spesso agisce in soli-tudine e qualche volta è corroborata da un pizzico di Trebbiano di Soavee solo raramente sostenuta dal contributo, superfluo, dei cosiddetti viti-gni migliorativi), è rilevare come nell’areale del Soave coesistano direi paci-ficamente realtà produttive molto diverse. La mia selezione dei “Soave Top”o molto più semplicemente quelli che all’atto dell’assaggio (fatto rigorosa-mente alla cieca) mi sono piaciuti di più e hanno maggiormente corrispo-sto alla mia idea di piacevolezza/tipicità, dimostra ampiamente come accan-to a realtà produttive di piccole dimensioni, di recente storia, emergenti osemi-debuttanti, coesistano realtà più importanti, cantine private e can-tine cooperative, che propongono ottimi Soave anche in centinaia di miglia-ia di esemplari, pur non flettendo di una virgola quanto a qualità. Idee e modus operandi diversi, i loro, rispetto all’agire di piccoli vignaioliche enfatizzano e sfruttano al massimo il concetto di cru (e l’area del Soaveè decisamente una delle zone vinicole italiane dotate della maggiore varia-bilità legata a posizione e tipo di terreno, oltre che all’età del vigneto), erealizzano vini di grande personalità e dalle caratteristiche peculiari, maun agire che comunque, visto dalla parte del consumatore, porta grandirisultati, perché mette a disposizione ottimi vini situati in una fascia diprezzi molto interessanti, anche se sorprendentemente molto bassi, in alcu-ni casi. Ci sono validi Soave per tutti i gusti e per tutti i portafogli dunque,vini più solari, ampi, caldi, giocati su una certa esplosività e succulenzadel frutto, larghi, di grande soddisfazione e ampiezza al gusto, e vini, forsequelli che preferisco e m’intrigano, anche intellettualmente, di più, dovegrazie alla particolare natura dei terreni, vulcanici, ma anche calcarei, svet-ta una sottile, insinuante componente minerale, con un’incisività, una fre-schezza, un nerbo, e una sorprendente capacità di evolvere nel tempoche non hanno proprio nulla da invidiare ad un Riesling. Ecco perché vale la pena, oggi più che mai, compiere un’esplorazione atten-ta nell’universo multiforme del Soave, meglio ancora percorrerne le colli-ne, in un alternarsi di scenari, di vigneti anche scoscesi, di paesaggi bel-lissimi e verdeggianti che gratifica non solo gli occhi, ma il cuore e la mente:l’emozione è assicurata…

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Soave Classico Superiore Contrada Salvarenza Vecche Vigne 2005 Gini

Colore paglierino-oro brillante, luminoso e splendente, mostra un naso fitto ed elegante,con note di fiori bianchi, mandorla, anice, sambuco, confetto ampie e fragranti e moltonitide con un lieve accenno di miele d’acacia e anice stellato. La bocca è ricca, consisten-te e ampia, con grande equilibrio, perfetta maturazione del frutto salda struttura e ric-chezza con un perfetto bilanciamento tra dolce e sapido. Ancora giovane, con notevolepotenziale di evoluzione nel tempo.

Soave Classico Il Roccolo 2007 Le Mandolare

Garganega 100% provenienti dalle colline di Brognoligo, nel cuore della zona del SoaveClassico, da vigneti coltivati a pergola veronese per questo ottimo Soave la cui fermenta-zione avviene per il 30% in legno di rovere e il 70% in acciaio, con successiva maturazio-ne sui lieviti fino a primavera. Colore paglierino intenso brillante mostra un naso caldo,ampio e solare, con note di pesca nettarina, mandorla, cedro e miele. In bocca grande ric-chezza, gusto pieno e succoso, con polpa, nerbo carattere e complessità e finale sapidocon acidità calibrata e pieno di sapore.

Soave Classico 2007 Pieropan

E’ “solo” il base, prodotto in qualcosa come 200-250 mila esemplari e non i celebrati cruCalvarino e La Rocca, ma che bontà questo Soave (90% Garganega e un 10% di Trebbianodi Soave) proveniente da vigneti della zona classica posti su terreni di origine vulcanica!Colore paglierino oro intenso brillante, naso solare mediterraneo molto ampio, conaromi fragranti di agrumi, salvia e mandorla in evidenza, pieno, vivace sapido, incisivo eben articolato in bocca, piuttosto lungo e persistente con un finale salato e fresco.

Soave Doc 2007 Tamellini

Azienda di recente storia, solo dieci anni, quella dei fratelli Tamellini e la vocazione a lavo-rare solo con la Garganega ottenendo vini di stile moderatamente moderno. Lo confermaquesto Soave “base”, da vigneti con ottime esposizioni posti su terreni calcarei, che si pro-pone con colore paglierino brillante verdognolo, naso molto sapido, incisivo e mineralecon note spiccate di fiori secchi, dalla buona densità e ricchezza succosa al palato, pieno,carnoso eppure di notevole freschezza e sapidità.

Soave Classico Monte Alto 2006 Cà Rugate

Garganega in purezza raccolta a surmaturazione, da vigneti diversi posti su terreni di ori-gine vulcanica, ricchi di microelementi a struttura calcarea e in parte argillosa situati nellazona di Monteforte d’Alpone per questo Soave fermentazione in barrique dove il vino rima-ne ad affinarsi sui suoi lieviti anche fino a 6-8 mesi. Il risultato un colore paglierino orobrillante con riflessi verdolini, bel naso intrigante con una piacevole vena di anice e di spe-ziato, oltre ad agrumi e fiori bianchi, incisivo, nervoso pieno, molto sapido con una spic-cata vena minerale e una grande piacevolezza.

Soave Superiore Castellaro 2006 Cantina di Monteforte

Accidenti se lavora bene sul Soave questa Cantina Sociale di Monteforte! Svariati i Soavedi diverse tipologie prodotte e tutti vini di spiccata personalità come questa selezione diGarganega in purezza, da un vigneto super cru, prodotta purtroppo in un quantitativoinferiore alle diecimila bottiglie. Colore paglierino verdognolo splendente, naso grasso dibella complessità e fittezza, con note di fiori bianchi, fieno, agrumi e un tocco minerale,bocca di grande freschezza con acidità calibrata e finale sapido, lungo, pieno articolato.

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Soave Classico Staforte 2006 Pra

Ancora una volta Garganega in purezza, da vigneti con esposizione sud – altitudine postia 150-200 metri di altezza su suoli vulcanici ed il sistema di allevamento della classicapergola veronese, con vigne di 30-40 anni alla base di un grande vino come questa sele-zione. Bella intensità di colore, paglierino oro vivo, naso ampio, solare, mediterraneo connote di fiori secchi e cedro candito, attacco sapido e nervoso, bel frutto succoso, ampio,gustoso di buona freschezza e piacevolezza.

Soave Classico Il Vicario 2007 Cantina di Monteforte

Inserito nella linea “I Vini del Chiostro”, il Soave Classico “Il Vicario”, in ricordo delgoverno dei vescovi a Monteforte è diventato ormai un classico con la sua formula cheprevede Garganega in purezza da vigneti posti sulle colline di origine vulcanica, pergolecon esposizione sud-est. Parte del mosto viene fatto fermentare in barrique per sei mesi.Colore paglierino verdognolo di buona brillantezza, ha naso ampio, effusivo solare, connote di agrumi fiori bianchi mandorla e miele. In bocca é sapido nervoso scattanteessenziale di grande nerbo minerale lungo e preciso. Ottimo potenziale d’evoluzione.

Soave Doc 2007 Corte Moschina

Azienda familiare posta ai piedi dei Monti Lessini tra Roncà e Terrossa, l’azienda agrico-la Corte Moschina conta su 15 ettari vitati di una trentina d’anni d’età posti su terrenid'origine vulcanica, con la presenza di varie tipologie di tufi e alcune zone calcaree. IlSoave Doc, da uve Garganega in purezza si propone con un giallo paglierino dorato di bellaintensità, con naso pieno, solare, maturo molto sul frutto, con note di ananas pesca eagrumi in evidenza, bocca ricca piena e consistente di buona articolazione e lunghezza einteressante dinamismo.

Soave Classico 2007 Mainente

Azienda di recente storia produttiva quella di Ugo Mainente a Soave, eppure un SoaveClassico, il loro, di notevole personalità e carattere. Colore paglierino verdognolo brillan-te luminoso si propone con un naso solare e caldo, con note di agrumi, fiori bianchi, pescae mandorla a costituire un bouquet ampio. La bocca è ricca, piena, succosa, con gustolungo e ampio di notevole persistenza ed una buona freschezza e vivacità nel finale.

Soave Classico 2007 Monte Tondo

Venticinque ettari di vigneto distribuiti nell’area del Monte Tenda, di Monte Foscarino eMonte Tondo per questa azienda. Il Soave Classico Monte Tondo nasce da vigneti postinell’omonima zona, posta su terreni calcarei ed è a base di Garganega in purezza. All’esamegustativo si presenta con un paglierino vivace di bella intensità e brillante, con profumiampi, caldi, maturi e mediterranei, con agrumi, fiori bianchi, nocciola in evidenza. In boccaè pieno, molto strutturato, di buona compattezza e complessità, con un finale lungo e pre-ciso di grande polpa e consistenza.

Soave Doc 2007 Vicentini

Quattordici ettari di vigneto per questa azienda familiare ed un vino snello, sapido di note-vole vivacità, sintesi di Garganega e Trebbiano di Soave. Colore paglierino dorato di bellaintensità e brillantezza, mostra un naso molto elegante, compatto, variegato, dove spic-cano note di mandorla, fiori bianchi e agrumi. La bocca è ricca e piena ed il vino si fa nota-re, e apprezzare, per il bel nerbo salato, l’acidità viva, la notevole lunghezza e persisten-za molto articolata e dinamica nel finale.

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Soave Superiore Classico Castelcerino 2006 Cantina di Soave

Oltre cent’anni di storia e dimensioni decisamente rilevanti per questa Cantina sociale eparecchie linee di produzione per tanti Soave per ogni gusto. Nella linea Rocca Sveva spic-ca il Castelcerino da un vigneto di 50 ettari posti nell’omonimo vigneto posto in ambitocollinare a 250-300 metri, dove la Garganega, maggioritaria, è completata da una quota(20 per cento) di Trebbiano di Soave. Il risultato è un vino di stampo classico, color paglie-rino verdognolo brillante, che mostra una vena citrina precisa e sapida sin dal primoimpatto, corredata da sfumature floreali e di agrumi. In bocca il vino é sapido, ben arti-colato e incisivo, con acidità scattante, nerbo, carattere petroso verticale di lunga persi-stenza e sapidità.

Soave Classico I Cerceni 2007 Cambrago

E’ l’area (molto vocata) di Costeggiola di Soave l’origine di questa selezione Cérceni del-l’azienda Cambrago, 14 ettari posti nella zona classica in larga parte su terreni di origi-ne vulcanica. Garganega in purezza, un vigneto di oltre 30 anni coltivato a pergola vero-nese, una raccolta tardiva effettuata a fine ottobre all’origine di questo vino che si presen-ta colore paglierino oro di media intensità, intensi aromi di agrumi anice e nocciola, niti-do, incisivo, molto elegante e sapido al gusto, con un frutto pulito e succoso di buona per-sistenza, molto succoso, solare e godibile sul finale lungo.

Soave Classico Terre Monteforte 2007 Cantina di Monteforte

Secondo vino selezionato per la Cantina sociale di Monfeforte e livelli qualitativi elevatianche per questo Terre Monteforte Garganega in purezza. Colore paglierino metallico moltobrillante con una leggera ramatura, mostra un naso essenziale molto secco essenziale ediretto con note di fiori secchi in evidenza. In bocca buona vivacità e freschezza, sapido,con acidità scattante e nervosa e finale lungo e verticale molto piacevole.

Soave classico 2007 Pra

Secondo vino selezionato anche per Pra ed un plauso per la buona qualità ed il prezzocalibrato per il Soave classico base, da uve Garganega in purezza, colore paglierino bril-lante di buona intensità, naso complesso con striature di anice, fiori bianchi, fieno e man-dorla sapido e nervoso dal primo sorso, ben secco, deciso, incisivo, di grande sapore e per-sistente con personalità e ricchezza da vendere.

Soave Classico Grisela 2007 Tessari

Da uve Garganega in purezza, da vigneti (Costalta, Castellaro e Magnavacche) postisulle colline di Monteforte d'Alpone, su terreni di tipo vulcanico e argilloso con un suolobasaltico, ricchi di sostanze minerali questo Soave Classico. Il risultato è un vino, colorepaglierino ramato, dal naso sottile e floreale secco ed incisivo non di grande ampiezza,sapido, nervoso preciso verticale, lineare ma ricco di sale e nerbo con bella lunghezza ver-ticale e grande facilità di beva.

Soave Superiore Monte di Fice 2006 I Stefanini

Realtà produttiva molto recente (prima annata commercializzata il 2003) ma da tenerein attenta considerazione, con venti ettari vitati, tutti a Garganega, posti su terreni vul-canici tufacei nell’area collinare del Monte Tenda di Costalunga di Monteforte d'Alpone.Molto buoni il Soave Selese, il Soave classico Monte de Toni, ma il gioiellino è questo Montedi Fice, 90 quintali ettaro da vigne di 25 anni, che si propone con una grande intensità,colore paglierino-dorato, naso intrigante, intensamente minerale, con note dominanti dipietra focaia, cedro, macchia mediterranea, fiori bianchi ed una leggera speziatura. Algusto è ben strutturato, fresco, succoso, con una vena incisiva, scattante, petrosa moltopersistente e sapida, ed una persistenza lunga, verticale precisa, di grande sapore e nerbo.

Soave Classico Monte Fiorentine 2007 Cà Rugate

Garganega in purezza, da vigneti posti nell’area del Monte Fiorentine a nord del colleRugate, a Brognoligo di Monteforte d’Alpone, e una lunga fermentazione in acciaio il “segre-to” di questo Soave Classico prodotto in circa 50 mila esemplari. Colore paglierinometallico traslucido, naso molto diretto secco essenziale, con note di mandorla e fiori sec-chi ed un accenno agrumato, molto sapido al gusto, con una vena di mandorla precisache caratterizza il finale lungo, nervoso e persistente. Vino ancora giovane, con bella fre-schezza e acidità e già grande piacevolezza.

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Soave Classico Monte Carbonare 2007 Suavia

Dodici ettari di vigneto di 30-35 anni d’età distribuiti nelle due celebri microzone Fittà eCastellaro, posti a 250 metri d’altezza su terreni vulcanici la “carta d’identità” di Suavia eGarganega in purezza, dal cru Carbonare (microzona Fittà), esposizione a sud est e resainferiore ai 90 quintali ettaro per il Monte Carbonare. Colore paglierino oro squillante sipropone con un naso sapido minerale nervoso essenziale, profumato di mandorla, cedroe fieno, di media consistenza al gusto, ma sapido e nervoso, con una bella acidità che spin-ge ancora e denuncia la giovinezza ed il potenziale di affinamento nel tempo del vino.

Soave Doc 2007 Corte Farfarini

Storia produttiva recente (tutto inizia dal 2004) per questa azienda di 12 ettari vitati situa-ti nel cuore del pregiato cru Castelcerino su terreni vulcanici posti a 350 metri d’altezza.Il risultato è un Soave (90% Garganega, 10% Trebbiano di Soave) di grande equilibrio epiacevolezza, colore paglierino scarico traslucido, naso molto in sé asciutto e un po' rigi-do, con freschi accenni floreali, una buona consistenza di frutto rotondo e succoso.

Soave Doc Fontana 2007 Tenuta S. Antonio

Ben nota e celebrata per i suoi Amarone e Valpolicella Superiore questa bella azienda dioltre 50 ettari vitati di proprietà, ma da prendere in considerazione anche per i bianchied i Soave, come questo Fontana, da uve Garganega al 90% più una quota di Trebbianodi Soave e Chardonnay, prodotto in oltre centomila esemplari. Colore paglierino intenso,naso ricco e solare in cui spiccano agrumi e fiori bianchi, sapido, nervoso, di bella pienez-za succosa in bocca, largo pieno consistente, solo un po' frenato nel finale dove un pizzi-co di acidità e freschezza in più non sarebbero state male.

Soave Classico Superiore Le Caselle 2006 Tenuta Solar

Solo sei ettari nell’area di Monteforte d’Alpone, su terreni basaltico-vulcanici per questaaziendina in società tra Egidio Bolla e Ennio Santi ed una produzione, suddivisa tra dueSoave Classico e un Soave Classico Superiore da tenere in considerazione. Molto riusci-to anche se ancora piuttosto giovane il Superiore Le Caselle, colore paglierino verdogno-lo traslucido, naso floreale preciso con note di pesca noce, mandorla, agrumi, sambucoanice di bella freschezza, molto diretto, asciutto nervoso un po' semplice al gusto ma digrande piacevolezza e beva.

Soave classico 2007 El Vegro

Posso dire ben poco di questa piccola cantina di Monteforte d’Alpone se non che sono viti-coltori da tempo e conferitori di uve a cantine ben più grandi. Il risultato è un vino moltoconvincente e piacevole, colore paglierino oro intenso, naso “dolce” caldo ed effusivo conuna nota di mela cotogna ben precisa, bocca molto vivace, sapida e articolata conun'acidità scattante e un bel finale largo e persistente.

Soave Superiore La Broia 2005 Roccolo Grassi

Tra le aziende protagoniste della Valpolicella Roccolo Grassi, grazie all’azione intelligentedel suo giovane artefice, Marco Sartori, esprime vini di buona personalità anche nella zonadel Soave. Lo dimostra questo Superiore La Broia, Garganega in purezza. Colore paglie-rino oro verdolino brillante, naso fitto, complesso, maturo, su note di fieno e fiori secchie anice, bocca ricca consistente importante, di buona lunghezza e consistenza, carentesolo un po' di nerbo e freschezza.

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Otri, vasi, brocche. E’ questoche si vede entrando in unqualunque museo archeolo-

gico. Da che mondo è mondo l’uomoha sempre amato gustare il vino egodere del sapore, del profumo e del-l’ebbrezza del succo degli dei, per que-sto, anche, gli antichi, greci e roma-ni, hanno sempre tentato di conser-vare il vino e poi, anche, di traspor-tarlo. A testimonianza delle civiltà cirimangono vasi e brocche magari nau-fragate in qualche tempesta, oppurebarattate al mercato o, ancora, sem-plicemente, conservate nella dispen-sa di qualche villa o tempio. E’ col vino

che avviene la Comunione. Ecco per-ché, dopo aver visitato a lungo i museidel cibo, dal pane, alla pasta, passan-do per la cioccolata, è venuto ilmomento, ora, di raccontare quei luo-ghi che in Italia sono sorti per conser-vare e promuovere la cultura che stadietro e dentro una bottiglia di vino.

I MAGNIFICI VENTI Verrebbe da dire che in Italia il vinoè sempre stato primus inter pares. E’stato il vino, infatti, a dare il “la” nelnostro Paese alla scoperta della ric-chezza enogastronomica che abbia-mo. La comunicazione del vino è par-tita almeno un decennio, se non due,prima rispetto alla comunicazione delterritorio e dell’agroalimentare in gene-re. Di qualità del vino si è parlatoquando ancora di cultura e di quali-tà del cibo non parlava. Per questo ilvino ha un primato, quello di esserestato il primo. Il primo a dire che dietro e dentro aduna bottiglia c’erano il lavoro e la tra-dizione di uomini e di donne che dallaterra traevano gusto e cultura, il primoa dimostrare che oltre a quella spre-muta di uva c’era molto di più, un ter-

ritorio, per esempio, delle storie, deisapori, ma anche e soprattutto, deisaperi. Sono proprio questi saperi chevengono raccontati nei musei del vino;ne esistono oltre venti, in Italia. Alcuni, molti, nascono come esposi-zioni di attrezzi del lavoro agricolo epoi, nel tempo, si specializzano ediventano stanze nelle quali viene rac-contata un po’ della immensa varietàdi cultivar, uvaggi, modelli produttivie tecniche cantiniere, di cui possiamovantarci. Per raccontare la varietà ela diversità di questi musei dovrem-mo fare un lungo viaggio che ci por-terà più o meno in tutte le regioni dellostivale. È il Piemonte, non stupirà, adavere il primato dei musei del vino. Nevanta almeno otto, tutti in rete e tuttitestimoni di prodotti d’eccellenza e diqualità. A questi musei dedicheremo una pun-tata speciale del nostro viaggio. Cosìcome agli altri musei importanti cheesaltano, con la loro esistenza, le sto-rie di altrettanti luoghi di produzione:penso ai musei che sorgono inToscana, per esempio, o a quelli vene-ti. Il viaggio inizia, però col racconta-re la realizzazione di un sogno.

Andiam per musei

DOPO AVER PARLATO

DELLE VETRINE DI PANE,PASTA E CIOCCOLATO,ECCO UNA PANORAMICA

DEDICATA AL VINO

di Letizia Magnani

Di recente nascita, il Museo dell’Olivo e dell’Olio, siaffianca dal 2000 al Museo del Vino. L’impostazione el’interesse rimangono però analoghi. In mostra si posso-no vedere pezzi tecnici e meccanici, gioielli archeolo-gici ed artistici, ma anche pannelli didascalici con lastoria dei sistemi di coltivazione e lavorazione dell’olivoe le tecniche produttive. Il tutto è raccontato in un per-corso di dieci sale che raccolgono pezzi che travolgo-no per la loro semplice bellezza. E’ il caso della lucerna di marmo greca del VII secoloa.C., ma anche dell’oliera “Suemare” in ebano, avorio,acciaio e cristallo firmata Cristophle anno 1925. Inmostra, può stupire, c’è persino un telaio umbro del XXsecolo. L’olio, nei suoi molti usi, veniva infatti impiegato,fino a non moltissimi anni fa, per ingrassare le fibre nelprocesso di lavorazione della lana. La vera particolari-tà del museo è la sua collocazione: un ex frantoio.Tramite una esperienza sensoriale, che pesca inevita-bilmente nella vista e nell’olfatto, si ripercorre la storia

dell’olio, da sempreimpiegato in cucina,ma anche nell’illumina-zione, nella cosmesi ein medicina. Del resto la pianta del-l’olivo e il prodotto deri-vato dal suo frutto nel-l’immaginario collettivohanno da semprevalenze simboliche,propiziatorie e curative,molte delle quali sono ormai largamente confermatedalla scienza.

Museo dell’Olivo e dell’OlioVia Garibaldi, 10 - 06089 Torgiano (Perugia)tel: 075/9880300 - fax 075/9880300-985486e-mail: [email protected] - www.lungarotti.it

OLIO E OLIVO IN MOSTRA

� Nel Museo dell'Olio sono conservate preziose tele che raccontano la storia dell'olivo in Italia

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Nel mondo dell’enogastronomia, come negli altri, si può discutere ditutto, ma il silenzio del rispetto cala quando si nomina Luigi Veronelli. E’al suo nome che si legano battaglie storiche del settore. Grazie al suolavoro incessante e alla sua passione, grazie alla sua caparbietà e allasua tenacia, oggi si parla di cibo e di vino come gesti e prodotti cul-tuali, ma solo trent’anni fa le cose non stavano così. E’ a lui, dunqueche dobbiamo lo sdoganamento degli argomenti che tutti noi amia-mo. Prima di lui, mi verrebbe da dire, c’erano il succo d’uva e i vigna-ioli, dopo di lui c’è la cultura del vino e del bere bene per la quale Ais lavora e si batte da anni. E proprio aLuigi Veronelli è dedicato il Museo Nazionale del Vino, che dal 1990 sorge a Caltanissetta, grazie all’intuizio-ne e al lavoro del regista e scrittore Mino Saetta e dei suoi collaboratori. Dentro vi sono raccolte oltre 3.000bottiglie di vino, donate dai più importanti produttori del mondo del vino italiano. Il museo promuove inizia-tive ed eventi di turismo enologico, per valorizzare il territoriod’appartenenza e vanta alcune collezioni uniche, come quel-la delle bottiglie contemporanee e storiche, delle bottiglied’asta e di quelle provenienti da collezioni private. Tra le curio-sità c’è la collezione di Magnum, unica in Italia, e di bottiglie digrappa e liquorosi. Ogni anno il museo, che ha anche un riccoarchivio, promuove e inventa eventi dedicati alla cultura eno-logica.

Museo Nazionale del Vino, Luigi Veronelli Via Xiboli, 400/b - 93100 Caltanissetta (CL)Tel: 0934/566407 - 566017 - Fax: 0934/566407e.mail: [email protected] www.museodelvinoluigiveronelli.com/html08/index.php Aperto tutto l’anno, su prenotazione.

IL SOGNO DI VERONELLI

Da Caltanisetta risaliamo lo sti-vale fino a Torgiano, inUmbria, dove ha sede uno deipiù vecchi musei dedicatiinteramente al vino, il MuseoLungarotti. Voluto e realizzato da GiorgioLungarotti con la moglie MariaGrazia, il Museo del Vino èstato aperto al pubblico nel1974 ed è oggi gestito dallaFondazione Lungarotti.Attraverso venti stanze si pos-sono scoprire oltre 2.800manufatti che raccontanocon intensità la storia del vino. Reperti archeologici (brocchecicladiche e vasi hittiti, ceramiche greche, etrusche eromane, vetri e bronzi), attrezzi e corredi tecnici per laviticoltura e la vinificazione, contenitori vinari in cera-mica di età medioevale, rinascimentale, barocca econtemporanea, incisioni e disegni dal XV al XX seco-lo, edizioni colte di testi su viticoltura ed enologia,manufatti di arte orafa, tessuti ed altre testimonianzedi arti minori documentano infatti l’importanza delvino nell’immaginario collettivo dei popoli che hannoabitato nel corso dei millenni il bacino delMediterraneo e l’Europa continentale.A partire dal mondo antico, vite, uva e vino, elementiportanti nella economia agricola di quei popoli,hanno alternato a valenze puramente economicheusi e significati religiosi e profani. Dai tempi più remotifino ad oggi, il loro ricorrere nelle arti e nei mestieri ècostante, sia come spunto iconografico, sia a scopoproduttivo. Dalla vite al vino, passando per l’uomo, il passo èbreve e così il museo Lungarotti ha il pregio di propor-re il tema vitivinicolo e bacchico come filo conduttoreper la lettura delle vicende storiche. Fra le curiositàspicca la collezione di ceramiche della cultura artisti-ca umbra, come la grande hydria del XIV secolo con

centauro leontiforme e sirenae la fiasca da parata urbina-te, proveniente dalla bottegadi Orazio Fontana, che pre-senta nell’ornato una esem-plare “composizione” di sog-getti tratti da Raffaello e GiulioRomano.

Il museo presenta anche una sezione interamentededicata al tema vino-medicina, con vasi da farma-cia ed edizioni d’epoca di testi medici. Si tratta di vererarità. Non mancano poi pezzi moderni, con cerami-che firmate da Joe Tylson e da Nino Caruso, maanche con altre opere d’arte ispirate al vino.La collezione di incisioni, per esempio, racconta laparte emotiva del vino, come avviene nel Baccanaledi Andrea Mantegna (XV secolo), un ciclo allegoricoche mostra lo svolgersi del tema dionisiaco.Per chi all’arte preferisce la concretezza degli attrezzida lavoro, a Torgiano ci sono belle sorprese, è il casodell’imponente torchio eugubino a trave, della tipolo-gia detta “di Catone”.

Museo del Vino LungarottiC.so Vittorio Emanuele, 31 06089 Torgiano (Perugia)Tel: 075/9880200 - Fax: 075/9880300-985486e-mail: [email protected] tutti i giorni dell’anno (chiuso il 25 dicembre)Estate: 9-13;15-19 / inverno: 9-13;15-18Ingresso a pagamento

DAL VINO ALL’OLIO: IL MUSEO LUNGAROTTI � La Fondazione

è l’espressione culturale della Cantina Lungarotti e gestisce il Museo del Vino ed il Museo dell’Olivo e dell’Olio

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Raccontando l’Italia dei musei del vino non si può che fare un passaggioin Toscana, dove sono i filari delle viti ad accogliere, nel paesaggio lunaredelle dolci colline senesi e poi fiorentine e pratesi il visitatore. E così, perparlare davvero di vino, dobbiamo ripartire da Adamo ed Eva, anzi,meglio, dagli Etruschi e dalle necropoli di Montalbano, in Toscana. E’ lì chesono stati trovati alcuni dei reperti più antichi per l’Italia, che parlano divino. E se in vino veritas, la Toscana deve il suo primato enologico al lonta-no Medioevo, con l’introduzione della mezzadria, che cambia, radical-mente, il paesaggio, ma anche il modo di produrre il succo degli dei.Rimanendo in Toscana, poi, arrivano i Medici, che, col Granduca CosimoIII de’ Medici, nel 1716, si inventano addirittura la denominazione d’origine.A tavola come nella vita, la storia viene sempre da lontano e così per ripe-scare un po’ di questa storia, tutta da bere, non si può che fare una sostaal museo di Carmignano.

DALLA VITE AL VINOIl Museo della Vite e del Vino, oggi in gestione alla Pro Loco, è stato inau-gurato nel 1999 da un progetto già avviato nel 1992. Si sviluppa su cinquesale che mettono in scena il cambiamento della produzione della vite edel vino a Carmignano, nel pratese. Sembra quasi che da queste parti la storia si faccia liquida, nel vero sensodella parola e così il percorso non può che iniziare con un dipinto, la ripro-duzione di un filare di una vigna seicentesca ad opera di Bartolomeo Bimbi(l’originale si trova nella villa medicea di Poggio a Caiano), che con que-st’opera ha voluto fare una sorta di censimento delle viti. Da quella “fotografia” seicentesca ad oggi molte cose sono cambiate.Alcune di quelle viti, molte, non esistono più, altre invece si sono evolute oincrociate. Nella parte inferiore, alcuni cartigli denominano e numerano itipi di uve, sarebbero almeno 37 o 38 diversi quelli che si sviluppavano daqueste parti. La prima sala, ed altre del museo, occupano gli spazi untempo appartenenti alle cantine Niccolini. Il visitatore entra così nella stan-za dedicata alla produzione vinicola locale, grazie all’esposizione di alcunipezzi della collezione di Federigo Melis, profondo conoscitore dei vini italia-ni ed europei, al quale appartengono più di 800 bottiglie conservate nelmuseo. In esposizione si trova un po’ di tutto, dalle bottiglie, appunto, aireperti etruschi, bellissimo il cratere per mescere il vino, ma anche conteni-tori più recenti, come il fiasco che usavano i nostri nonni. La storia è raccontata non solo coi manufatti, ma anche con tecnologi-che postazioni Internet, che, con cd e riproduzioni multimediali, spieganoanche ai bambini il mistero e il fascino della produzione vinicola. Il museo di Carmignano non dimentica mai di mettere in evidenza l’impor-tanza dei cambiamenti tecnologici e così si può toccare con mano comee quanto l’introduzione della mezzadria abbia cambiato i profili dei campie delle colline, ma anche quelli delle teste delle persone e quindi, inevita-bilmente della produzione vitivinicola. Non a caso la terza sala è dedicataall’etnologo svizzero Paul Scheuermeier che tra il 1919 e il 1930 raccolseimmagini e racconti sulla cultura contadina, sui costumi del luogo e sugliutensili. Oggi nel museo sono esposte le riproduzioni di alcune foto da luiscattate, che ritraggono i cicli di produzione del vino, alcuni disegni realiz-zati da Paul Bosch e gli attrezzi di comune uso nelle nostre campagne. D’altronde il grande vino toscano non esisterebbe se la campagna nonfosse cambiata nel corso del tempo e così, a testimonianza del cambia-mento, troviamo le foto scattate, in epoca più recente, da VittorioCintolesi tra il 1980 e il 1990, che mostrano il tramonto del mondo mezzadri-le. In mezzo c’è un altro pezzo di storia legato al Granduca Cosimo III de’Medici, che stabilì severe e precise regole sulla produzione del vino che luitanto apprezzava, anticipando di tre secoli i contenuti delle odierne Doc eDocg, che Carmignano ha conquistato nel 1975 e 1990. Come a dire, chetutto torna e che, tutto, in fondo, rimane, racchiuso nel bicchiere.

Museo della Vite e del Vino di Carmignano Piazza Vittorio Emanuele, 2 - 59015 Carmignano (Po) Tel: 055/8712468 - Fax: 055/8711455 www.carmignanodivino.prato.it Sempre aperto, ma con orari diversi durante l’anno. E’ meglio telefonare o visitare il sito prima di andarci.

TAPPA IN TOSCANA, CARMIGNANO

� Museo di Carmignano,una vecchiaimbottigliatrice

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Può accadere che proprio dal bicchiere a volte esca-no voci ed esperienze che superano luoghi e tempodiventando marchio, sinonimo di festa e di stile. E’ il caso del Martini, la cui storia viene da lontano ed èraccontata in un museo che merita sicuramente unavisita. Si tratta del Museo di Storia dell’Enologia Martini& Rossi, sorto nel lontano 1961 a Pessione di Chieri, frale Langhe, in una delle aree più suggestive delPiemonte. Dentro non ci trovate George Clooney, senon in foto, mala visita, semprepossibile e gra-tuita, vale vera-mente doppio.Anche perchénegli anni, dalMuseo di Storiadell’Enologia,che nasce nellevecchie cantinee che raccontaancora unavolta semplice-mente la passio-ne per la vinifi-cazione e per ilterritorio, è natauna secondaala, si potrebbedire un secondomuseo (il“MondoMartini”, appun-to), che racco-glie il mitoMartini, narrato,inevitabilmente, attraverso prodotti, tecniche produtti-ve, ma, anche, pubblicità e campagne di comunica-zione.

PARTIAMO DALLA STORIA Inaugurato nel 1961 a Pessione, il Museo è nato dallavolontà di Lando Rossi di Montelera di dedicare unmuseo al vino. Le sedici sale che lo compongono sonostate ricavate dalle cantine originali della palazzinasettecentesca, sede dei primi stabilimenti della Martini& Rossi. I pezzi esposti sono più di seicento, organizzatisecondo un ordine tematico. Antichi oggetti rituali esimbolici, anfore e vasi, grandi torchi in legno, carri peril trasporto di uve e botti, cristalli e argenti preziosi si sus-seguono lungo le diverse sale della struttura. Il viaggio è una vera avventura che porta a scoprireuna storia millenaria, quella della vite, a cui ha fattoseguito una seconda avventura, non meno ricca dipassione, quella della vinificazione. Sarà il luogo in cuisiamo o l’abitudine, ormai, ad immergerci nell’emozio-ne che deriva da queste storie, ma sembra che qui,davvero non manchino le sorprese. Tutto comincia a Torino, il primo luglio del 1847. Quelgiorno, nella vivace capitale del regno sabaudo ormaipronta a guidare il risorgimento italiano, quattro com-mercianti fondano una “Distilleria nazionale di spirito divino all’uso di Francia”, nonché “deposito di rhum,absinthe, kirsch, cognac, curaçao” e rivendita di vini diBordeaux. I loro nomi sono Clemente Michel, Carlo Re,Carlo Agnelli ed Eligio Baudino e dalla loro impresa haorigine la Martini & Rossi. Fanno infatti parte dell’organi-co di quella prima Società due personaggi che necambieranno profondamente le sorti: Teofilo Sola eAlessandro Martini. Nel 1950, dopo varie vicissitudini, laMartini & Rossi si trasforma in Società per Azioni. Si apreun’epoca densa di progetti e iniziative legate all’im-magine: durante gli anni Cinquanta e Sessanta vengo-no create le Terrazze Martini, destinate a diventare miti-

che, a Parigi (1957), Milano (1958) e poi, tra il ’60 e il’65, Barcellona, Bruxelles, Londra, San Paolo del Brasilee Genova; a Pessione, nel ’61, viene inaugurato ilMuseo Martini di Storia dell’Enologia, nel 1970 nasceMartini Racing. Qualche anno dopo avverrà l’incontroe quindi il sodalizio con un gruppo multinazionale dimatrice americana, la Bacardi Limited, da cui nasce ilGruppo Bacardi-Martini, che unisce due aziende tantolontane geograficamente quanto vicine per tradizionifamigliari, cultura industriale e sviluppo storico. Le radicidi Bacardi, e del suo fondatore don Facundo Bacardi,sono a Santiago di Cuba nel 1862, quelle della Martini& Rossi nella Torino del 1863. Attualmente il Gruppo è ilterzo a livello globale nel settore del beverage, unarealtà da 800 milioni di bottiglie all’anno e 6000 dipen-denti. E’ questa una porzione di cultura che si scoprevisitando le sale dei due musei, che però raccontanoanche molto altro, come la cultura della vite, dall’epo-ca antica ai giorni nostri, la prestigiosa agricoltura pie-montese, che è sempre stata avanguardia per il restodel Paese e molto altro ancora. Il visitatore viene infatti

guidato nellecantine sette-centesche,veramentemirabili, attra-verso il MuseoMartini di Storiadell’Enologia,che espone in16 sale più di2000 anni ditestimonianzein campo eno-logico oltre adalcune impor-tanti elementidi archeologiaindustriale del-l’azienda stes-sa, per poigiungere allagalleria perma-nente di storiaaziendale“MondoMartini”, dovesi percorre l’af-fascinantecammino dalleorigini fino adoggi di uno deimarchi piùfamosi almondo. Disala, in sala e,è il caso didirlo, di emo-zione in emo-zione, il viaggionon può cheterminare conil tradizionale

aperitivo, nato come rito sociale e ora diventato mito,nella Terrazza Martini, nella quale, calice in mano, tuttisi sentono un po’ divi.

Visitor Center Martini & Rossi: Mondo Martini e MuseoMartini di Storia dell'EnologiaPiazza Luigi Rossi 210023 Pessione di Chieri (Torino) - Italy Tel. 011/94191 - Fax 011/9419324 e-mail: [email protected] [email protected]

IL MUSEO DI STORIA DELL’ENOLOGIA

� La sala dei Torchi e l’ingresso laterale del Museo Martini

� Manifesti pubblicitari storici inesposizione al Museo Martini e lapalazzina storica a Pessione,frazione di Chieri (TO)

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Gocce

uando enologia fa rima con poesia: premiatoTonino Guerra “Il vino, in fondo, è poesia in bot-tiglia”, amava ripetere lo scrittore scozzese RobertLouis Stevenson. Partendo da questa idea il geno-

vese Claudio Pozzani e i collaboratori del circolo Viaggiatorinel Tempo hanno ideato il premio “Poesia in bottiglia”che, nella sua prima edizione, è stato ritirato a Genova daTonino Guerra, poeta e sceneggiatore di fama internazio-nale (ha firmato i testi di 125 film, tra i quali il capolavorofelliniano “Amarcord”). “Mi fa piacere ricevere questo pre-mio”, ha detto Tonino Guerra durante la cerimonia, “per-ché ho un debole per il vino. Solo mi dispiacerebbe resta-re chiuso in una bottiglia perché ne vorrei uscire spu-meggiante come questo nettare prelibato”. “C’è un legametra vino e poesia”, spiega Pozzani, “un legame fatto di espe-rienza e creatività, misura e tecnica. Con il premio a Toninonon abbiamo solo voluto conferire un riconoscimento al poetacome autore di versi ma, soprattutto, all’essere umano e alsuo approccio creativo e poetico alla vita e all’arte. Ancheper questo, non è stato scelto un vino qualsiasi, ma un vinospeciale: il Grignolino d’Asti, vino piemontese prezioso e raro,come il suo colore rosso rubino e i suoi profumi intensi”. Persaperne di più su Tonino Guerra e le sue nuove creazionisuggeriamo il sito ufficiale dell’Associazione a lui dedicata:http://www.toninoguerra.org.

L’ Europa taglia i vignetiIl consumo di vino in Europa sta diminuendo. In Italia siè passati da 60 a 47 litri annui pro capite. I vitigni inveceabbondano. L’ Unione Europea ha dunque deciso di rista-bilire l’equilibrio tra domanda e offerta offrendo incentivi achi estirpa i vigneti. Ma è polemica. (“Notizia in due minu-ti”, Corriere della Sera, 1° agosto 2008).

«La grappa in casa? Un’arte da salvare»Foresto Sparso, quella che era (e forse ancora è) la capita-le della grappa bergamasca, è davvero un borgo «sparso»sulla collina dietro il lago d’ Iseo, ai suoi piedi Villongo, allespalle la Val Cavallina. Alberto Piccioli Cappelli è stato sin-daco (leghista) di Villongo per due mandati consecutivi, èancora nella giunta come assessore alla Cultura: «Concordocon il disegno di legge presentato da due senatori leghistidi legalizzare la grappa fatta in casa, purché in quantitàlimitata (30 litri all’anno), in un contesto agricolo e incondizioni di sicurezza igienica. Si tratta di riconoscereun patrimonio storico e culturale, quello di saper costrui-re alambicchi, di saper produrre grappa. Basta che restiun’ attività artigianale, l’ industria non c’entra nulla, si trat-ta di valorizzare un prodotto del territorio». Al Corriere dellaSera racconta di quella volta che «arrivò il parroco nuovosu a Foresto. Nel suo primo giro del paese incontrò uno cheaveva una pancia grossa e guardandolo pensò: questoqui non sta bene, guarda come è gonfio. Due giorni dopoincontrò di nuovo il tipo. La pancia era miracolosamentescomparsa, il prete per poco non si fece il segno della crocelì sui due piedi, in pratica era un miracolo. Poi gli disseroche di quei miracoli ne succedevano a centinaia, in paese,dove la grappa la mettevano nelle camere d’aria, quelle dellebiciclette, se le avvolgevano intorno alla pancia e andava-no nei paesi vicini a venderla». Piccioli Cappelli con la grap-pa ha visto crescere Villongo e un po’ ci è cresciuto anche

lui: «Farla è un’arte e come tutte le arti si tramanda. Nonè che ci fai i soldi. Da un quintale di vino va bene se ti sal-tano fuori 10 litri di grappa. Serviva per arrotondare e sbar-care il lunario». Distillare grappa in casa oggi è reato. Ildecreto legislativo 504 del 1995 prevede «una pena fino a3 anni di carcere e multe non inferiori a 15 milioni di lire».

L’ agricoltura ha messo il turboIn un’Italia dall’economia ferma, c’è un settore che ha messoil turbo. È l’agricoltura, che nel primo trimestre 2008 è cre-sciuta del 6,9% rispetto ai tre mesi precedenti, mentre l’industria ha registrato un aumento dello 0,6% soltanto ei servizi un misero 0,2%. A confermare la performancedel settore primario sono arrivati i dati preliminari Istat.Tiene botta solo l’agricoltura, che conferma la crescita delsuo valore aggiunto e, dopo anni duri, ha ritrovato la forma.Ma qual è il segreto? «Negli ultimi anni è cambiato l’ impren-ditore agricolo, che ha capito di doversi occupare anchedi trasformazione e commercializzazione», è il parere diFederico Secchioni. Per il presidente di Confagricoltura, ilcambiamento è avvenuto soprattutto nei settori vitivinico-lo, lattiero-caseario, e orto-frutta. La «svolta» dell’impren-ditore agricolo è stata analizzata anche da una recente inda-gine del Censis. In Italia, dice il Centro studi investimentisociali, esiste un nucleo vitale di imprenditori che sta pro-iettando in avanti l’ agricoltura e che costituisce una «mino-ranza trainante» portatrice di una cultura moderna del fareazienda. Innovazione, orientamento al mercato e ottimiz-zazione dei fattori produttivi e dell’organizzazione sono gliingredienti necessari per essere un agricoltore moderno. IlCensis ha individuato cinque protagonisti di questa nuovafase: tra questi c’ è anche la nota azienda vitivinicola CastelloBanfi. Anche Coldiretti ha la sua classifica di agricoltori «top», sele-zionati dalla sezione giovani. Il concorso si chiama «OscarGreen» e premia le esperienze migliori di innovazione. Trai vincitori di quest’anno Roberta Creta di Pietravairano(Caserta) è stata premiata per aver creato prodotti inno-vativi come la gelatina di vino Aglianico. Secondo i dati diColdiretti, l’agricoltura italiana ha conquistato due leader-ship europee: del biologico, con quasi 50 mila imprese eoltre un milione di ettari, e dei prodotti tipici con 171 pro-dotti a denominazione o indicazione di origine protetta rico-nosciuti dall’ Unione europea. Senza dimenticare il ruolodi primissimo piano in campo enologico, con 487 vini adenominazione di origine controllata (Doc), controllata egarantita (Docg) e a indicazione geografica tipica (Igt).

I racconti viaggiano sulla bottiglia di vinoUn buon bicchiere e un buon libro. 4.000 battute possono bastare per mostrare la propria abi-lità di scrittore, come basterà una bottiglia per far circola-re in modo insolito, come una comune controetichetta, ilbreve testo. Si tratta del concorso letterario che vede uniteLibrerie Feltrinelli e cantine Santa Margherita (proprietàMarzotto) in un progetto divertente che promuove la cul-tura del leggere e quella del vino. I racconti dovranno esse-re inviati per posta o via internet per essere giudicati da unagiuria di esperti. Tutte le indicazioni su www.lettiinunsorso.ito su www.santamargherita.com nella sezione “Letti in unsorso”.

Un sorso di culturadi Salvatore Giannella

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Cortona, incastonata nella parte sud-est dellaToscana, è di origine antichissima, tappa obbli-gata della civiltà etrusca sulla direttrice Chiusi-

Bologna e si può fondatamente ritenere che la coltiva-zione della vite e la produzione del vino abbiano avutogià a quei tempi un ruolo importante.Da un passo della “Naturalis Historia “ di Plinio il Vecchio(23-79 a.C.) nelle campagne Aretine e Cortonesi sonocoltivate numerose varietà di viti di cui tre citate (“Arretiotalpona et etesiaca et consemina…”).Notevole importanza , anche come documento di tec-nica enologica, rivestono i palmenti romani ritrovati in

questo territorio “municipia di Cortona” che servivanoper la pigiatura (calcatio pedibus) in muratura e mono-liti, di maggiore capacità lavorativa i primi, e quindi, pre-sumibilmente destinati ad un impiego a carattere indu-striale. I due tipi sono stati palmenti per uve bianche eper uve nere.L’origine geologica dei terreni del comprensorio di Cortonaè riconducibile a periodi del Miocene inferiore, delPliocene superiore e del Miocene. Dal punto di vista lito-logico, il territorio è caratterizzato da arenarie marne escisti, con presenza di depositi fluvio-lacustri, di argil-le di detriti di falda.

Cortona, la sfida del nuovo

di Lorenzo Giuliani

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Tipicamente idonee alla coltivazione della vite sono lezone degli antichi terrazzi fluviali ed alluvionali non-ché quelle di raccordo fra le aree di sommità ed i siti pia-neggianti. In tale assieme, i terreni, generalmente pococalcarei, presentano un ottimo equilibrio rispetto allefrazioni granulometriche costituite da argille, limo, sab-bie grosse e fini.Per noi sommeliers aretini vivere gli avvenimenti che sisono succeduti in questi ultimi quindici anni nel territo-rio cortonese ci riempie di gioia e di orgoglio per i risul-tati raggiunti, dai nostri produttori, nella qualità dei vinicon conseguenti riconoscimenti da intenditori e critica;come non ricordare i primi anni Novanta, quando impren-ditori illuminati, con consulenza di eminenti personaggidel settore, tentavano le prime sperimentazioni con viti-gni alloctoni, sfruttando la presenza di un gran numerodi viti di trebbiano innestandoci (per accelerare i tempiesperienziali) vitigni di Gamey o Sirah (Fratelli D’Alessandrodell’allora fattoria di Manzano), oppure a metà deglianni Novanta la caparbietà di alcuni personaggi nel cer-care di fare gruppo e progetto tra i vari produttori o azien-de (Professor Domenico Petracca preside dell’IstitutoAgrario Vegni, sommelier prematuramente scomparso,artefice con altri produttori del disciplinare Doc Cortona).E infine l’arrivo di aziende di grande prestigio nazionalee internazionale sanciscono la vocazione e la potenziali-tà di questo territorio per generare vini unici nel caratte-re delle più svariate tipologie, con capacità di enfatizza-re le aspettative del più poliedrico gourmet.Oggi come ieri (Vin Santo Occhio di Pernice Avignonesi)la ricerca del nuovo, la sfida del voler andare oltre è rap-presentata da numerosi produttori. Tra questi RiccardoBaracchi dopo il successo nell’Hotellerie (Relais Chateau

Il Falconiere) anche produttore di vini, ci parla delle suesfide sulle tipologie di prodotto tradizionale del terri-torio e su quello innovativo.“Al di là dei prodotti che stanno dandoci grandi soddi-sfazioni in Italia e all’estero, parlo del Cortona Doc san-giovese ‘Smeriglio’, del Cortona Doc Merlot ‘Smeriglio’ edell’Igt Ardito, abbiamo due ‘vezzi’, uno già rodato, Astore,voluto con caparbietà, perché abbiamo sempre pensa-to che si può fare un grande trebbiano anche qui aCortona, naturalmente con tantacura in vigna, un’assistenza con-tinua che prosegue durante la fer-mentazione macerazione (8-10 gg)fino ad ottenere un vino di gran-de equilibrio e nerbo. L’altro l’ab-biamo assaggiato con molti amici,uno spumante con rifermentazio-ne in bottiglia a base di Sangiovesedi un rosato acceso di grande lumi-nosità, profumi freschi, aromi com-positi eleganti, sapori marcati, volu-minosi. Ne siamo contenti”. L’intervista scivola poi su temi cariai sommeliers, quelli relativi alla divulgazione e al lororuolo nel mondo enologico. “Dico solo che in famigliasiamo in tre ad aver fatto i corsi: Silvia, mia moglie,Benedetto, mio figlio ed io. Come produttore penso chel’Ais debba interpretare e suggerire le tendenze di gusto,cosa che accade puntualmente da qualche anno a que-sta parte. Mi piace anche la sfida di questa Ais per lacostituzione dell’associazione internazionale (Wsa) dimo-strazione di dinamismo e intraprendenza sulla comu-nicazione di uno stile tutto italiano”.

Consorzio di Tutela dei Vini a Denominazione d'Origine Controllata Cortona

Via Guelfa, 40 – 52044 Cortona (AR)Tel. 0575 [email protected]

� Degustazione nel chiostro di Sant'Agostino

� Cortona. Le antiche mura della città si confondono nella fitta vegetazione

� Riccardo, Silvia e Benedetto Baracchi

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Azienda Baracchi Riccardo Igt Toscana “Ardito” 2005

La cittadina di Cortona si rispecchia nelle vetrate dell’antica limonaia dependance dellavilla seicentesca, oggi adibita a ristorante, che fanno un tuttuno con i vigneti circostanti.Terreni da sempre vocati per viti e olivi, di natura sabbiosa su un sottostrato di marna are-naria (bisciaio). Le singole uve vengono fermentate e fatte macerare per 24 giorni in bar-rique esauste senza controllo di temperatura, successivamente assemblate in tino diacciaio e travasate in barriques per una sosta di circa due anni con sosta in bottiglia peraltri 12 mesi. Uvaggio: Syrah 50% , Cabernet 50%.Colore rosso rubino con riflessi porpora intenso con una ottima trama. Consistente all’ol-fatto, è intenso e complesso con sentori fruttati di confettura di mirtillo e mora, seguononote e speziati di tostatura, vaniglia, pepe nero. Si evolve poi in un balsamico con noteminerali, grigliate e vegetali, scia finale di incenso. In bocca è pieno e di grande strutturae potenza con tannino di pregevole nobiltà. Nel finale il frutto lascia spazio a vena vege-tale-balsamica .

Giannoni Fabbri Doc Cortona Cabernet Sauvignon 2004

A sud di Cortona ad altitudine variabile 280/400 metri sul livello del mare con ottimaleluminosità e ventilazione i vigneti a densità di 5500 viti/ha sono posti su terreni prevalente-mente sabbiosi con scheletro di rocce arenarie. Colore rosso rubino intenso di buona limpidezza e consistente. All’olfatto è fruttato e flo-reale con sentori di mora, ribes nero, ciliegia matura, si smorza in uno speziato di vaniglia epepe con scia vegetale.Al gusto è pieno con una buona struttura, avvolgenza calorica ben smorzata da tanninofine rafforzato da una freschezza acida ben manifesta con finale sapido. Il finale dibuona persistenza è però caratterizzato da note sapido amaricanti.

Giannoni Fabbri Doc Cortona Syrah “amato” 2007

Colore rosso rubino con riflessi porpora profondo e impenetrabile con una ottima consi-stenza. Al profumo ricordi di frutta rossa e nera macerata, su cui si riscontra nota tostataed eterea.Al gusto è potente con una forza delle componenti morbide non perfettamente contrap-poste dalle dure; i tannini seppur esuberanti sono levigati. Il finale è fruttato con bocca disi-dratata.

Giannoni Fabbri Cortona Vin Santo “Trebbiano Toscano” 2002

Colore giallo ambrato, consistente. Olfattivamente fruttato di noci erbe macerate in alcol,agrumato di buccia d’arancio essiccata, biscotteria caramellata. In bocca manifesta giu-sta dolcezza, contenuta la vena acetale che compositamente concorre ad un gradevolebilanciamento di componenti. Lunga PAI, finale di dolce e sapido alternato dalla frequen-za della nostra suzione.

Faralli Juri Doc Cortona Sangiovese “Novantadieci” 2004

Da Cortona in direzione Montepulciano ad altitudine 300 m.s.l.m su terreno di medio impastocon inclinazione tufacea e microclima regolato dai laghi limitrofi si ottengono uve che vinifica-no in tini di acciaio inox (fermentazione/macerazione 15 giorni). Affinamento 6 mesi in bottiglia.Uvaggio: Sangiovese 90%, Merlot 10%, Colore rosso granato intenso e consistente. All’olfatto è intenso e nettamente fruttato con sfumature di prugna ciliegia marasca emora di rovo; leggera spezia di liquirizia e chiodo di garofano e minerale tostateAl gusto è equilibrato con una gradevolezza denotata da componente acido-sapida bencontrapposta alle sostanze morbide con un tannino interessante. Il finale con una buonasapidità e un tannino vivo.

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Istituto Agrario Vegni Doc Cortona Merlot 2004

L’Istituto, scuola superiore di Agricoltura Istituto Agrario “Vegni” in località Centoia produ-ce i suoi vini da vigneti su terreno prettamente argilloso con viti a cordone speronato, affi-namento in grandi botti di rovere e successivo passaggio in barriques. Colore rosso rubinointenso con una buona trama e profondità. Al profumo è fruttato di piccoli frutti di boscoe confettura di ciliegia, spezie dolci con note di vaniglia. Al gusto è morbido con sensazio-ne calorica contrapposta ad un tannino dolce ed evoluto. Il finale è asciutto con notefruttate evolute.

Istituto Agrario Vegni Doc Cortona Sangiovese 2004

Colore rosso granato limpido e buona vivacità . All’olfatto denota una complessità deli-cata con frutto evidenziato in riconoscimenti di lampone, ribes e susina con sfumatura divioletta e cardamomo. Chiude olfattivamente con una leggera nota speziata di liquirizia.In bocca si mostra pieno con buon equilibrio e un’appagante sapidità. Chiusura conbocca fruttata e asciutta.

Azienda Mezzetti Stefania Doc Cortona merlot “Selvans” 2005

Al confine del comune di Cortona in un ambiente regolato dalle brezze del lagoTrasimeno su un terreno alluvionale profondo e fresco, l’alloctono portabandiera delPomerol da un vino che fermenta in acciaio e affina 18 mesi in barriques. Colore rossorubino profondo e consistente. All’olfatto è intenso con buona complessità fruttata, florea-le e speziato, con una netta franchezza di profumi che ricordano la ciliegia matura e pic-coli frutti neri, geranio e spezie dolci; balsamico di mentolato ed eucalipto. Al gusto èpieno di suadente e manifesta morbidezza, equilibrato con buona interazione sapido tan-nica. Il finale è lungo ed interessante riproponendo le sensazioni olfattive e soporifere.

Avignonesi Doc Cortona Merlot “Desiderio” 2005

Nei pressi di Cortona tra le colline del Chiuso della Valdichiana sorge l’ottocentesca fatto-ria Le Capezzine nelle cui cantine vinificano e affinano i vini dell’azienda. Questo vino èottenuto da Merlot 85% e Cabernet Sauvignon 15%, con viti allevate a cordone speronatoed alberello su terreno di medio impasto tendente all’argilloso. Affina per 18 mesi in barri-ques e nove mesi in bottiglia. Colore rosso rubino intenso con riflessi porpora con unaricca pigmentazione di buona vivezza. Al profumo spicca un bouquet armonioso di pre-gevole finezza, pourriture di fioriture rosse di campo che ritorna frutti di bosco spezie enota di rabarbaro, biscotteria e tabacco. Finale piccante di pepe bianco.Al gusto si mostra pieno con una esuberanza calorica ed avvolgenza polialcoli che smor-zano un tannino abbondante e di setosità ancora un po’ increspata. Finale di lunga persi-stenza e di appagante saporosità.

Fattoria Il Castagno Doc Cortona Syrah 2006

Nel circondario di Cortona su un terreno con prevalenza di galestro con viti tenute a cor-done speronato con densità di 5000 viti/ha, matura in carati di rovere Allier per 12 mesi e 6mesi in bottiglia questo vino da Syrah.Colore rosso rubino con riflessi porpora di buona vivacità e fittezza.Al naso è intenso e complesso con riconoscimenti di frutta (piccoli frutti rossi macerati difragola, lampone, ribes)e spezie e note di tostatura e finale di tabacco giallo.Al gusto è pieno, caldo con prevalenza di note morbide e sensazione acido-tannicaancora non completamente affinata e un finale di buona PAI ingentilito da piacevole frut-tuosità.

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Tenimenti D’Alessandro Doc Cortona Syrah “Il Bosco” 2005

A pochi chilometri da Cortona in località Manzano su terreno argilloso di medio impastocon vigneti a densità di 7000 viti/ha si è trovato un ambiente ideale per un ottimale adat-tamento dei vitigni del Rodano. Syrah 100%, affinamento 18 mesi in barriques 1° e 2° pas-saggio e nove mesi in bottiglia. Alla vista appare di colore rosso rubino vivo. Consistente.Al naso si presenta di appagante complessità e di armonioso effluvio di profumi, un bou-quet composto da florealità che riporta a cenni di cioccolato tabacco e un finale spezia-to di cannella, pepe e un elegante balsamico di anice stellato e miele di castagno. Inbocca è di eccellente suadenza, equilibrato, con tannini eleganti e saporiti; l’acidità sor-regge e ingentilisce la struttura del vino. Vino di una importante persistenza. Il finale èasciutto con ritorno di frutti e balsamicità.

Tenuta la Braccesca Cortona Syrah “ Bramasole” 2003

In un terreno di natura alluvionale calcareo-marnoso in località Pietraia con viti a cordonesperonato si ottengono delle uve di Syrah che macerano per circa 15 giorni ad una tem-peratura non superiore a 30° C. Affinamento di circa 14 mesi in barriques nuove (Alliers eTroncais) e un anno di bottiglia.Colore profondo di un rubino che volge al granato, consistente. Al naso frutti di sottobo-sco su cui spicca riconoscimento di ribes nero, ritorno di spezie forti, macis, pepe nero epinoli tostati. Palatale morbido, caldo, compatto con tannini eleganti, saporiti, con azioneespansione-contrazione del volume di bocca perfettamente polimerizzati e freschi. Lungala persistenza e finale amaricante.

Tenimenti D’Alessandro Doc Cortona Syrah 2006

Colore rosso porpora con una buona intensità. Al naso è intenso con sfumature floreali efruttate che ricordano fragola lampone e la viola, nota agrumata che ricorda buccia dicedro. Al gusto è di buon corpo con un buon timbro sapido e tannini non esuberanti confreschezza acida ben marcata. Il tutto è reso elegante da gradevole equilibrio.

Billi Edda Doc Cortona Syrah “Il Fitto” “2006

Sui dossi collinari di natura alluvionale miocenici a sud ovest di Cortona in un ambienteideale per l’uva principe della Cote Rotie si ottiene il seguente vino: Syrah 100%, affina-mento 15 mesi in barriques e 6 mesi in bottiglia. Colore rosso rubino con riflessi porporaintenso. All’olfatto è fruttato e floreale con riconoscimenti di lampone e ribes, nota spezia-ta di pepe. Al gusto è pieno e di corpo, buona sapidità e un tannino ben compattatoancora da evolvere. Il finale di bocca è asciutto e piacevolmente fruttato.

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Il match enologico tra Italia eFrancia nel 2008 è stato vinto dalnostro Paese. La raccolta dell’uva,

che ha già preso il via in alcune regio-ni, segnerà uno storico sorpasso:secondo la Coldiretti, i viticoltori tran-salpini dovranno fare i conti con lavendemmia più povera dal Duemilaa questa parte. Rispetto alla mediadegli ultimi cinque anni i Francesiregistrano un calo di produzione deldieci per cento, mentre in Italia l’in-cremento è del cinque per cento, paria 47 milioni di ettolitri di vino. Il primato italiano nel settore vitivi-nicolo si aggiunge a quello di altri pro-dotti dell’agricoltura come riso, frut-ta e ortaggi freschi. Quando si parla di quantità a nostroparere occorre tuttavia non dimenti-care la qualità. I dati raccolti nelle ulti-me settimane dall’Osservatorio sulvino dell’Associazione italiana som-meliers parlano chiaro. La vendem-mia 2008 viene definita complessiva-mente ottima: il settanta per centodella produzione sarà infatti etichet-tata come Docg (Denominazione diorigine controllata e garantita), Doc(Denominazione di origine controlla-ta) che dal primo agosto 2009 per unadirettiva dell’Unione europea saran-

no Dop (Denominazione di origine pro-tetta) e Igt (Indicazione geografica tipi-ca). Secondo la Coldiretti i due terzidella produzione sono targati Veneto,Emilia-Romagna, Puglia e Sicilia,regioni che hanno avuto condizioniclimatiche favorevoli. Intanto l’intero comparto continua asorridere: nel primo quadrimestre diquest’anno il valore delle esportazio-ni delle eccellenze italiane è aumen-tato del dieci per cento. Segno posi-tivo, +2,6 per cento, anche nelle ven-dite dentro i confini della penisola,dove le famiglie italiane continuano

a preferire le Doc e le Docg nostra-ne alle “agguerrite” produzioni delNuovo Mondo, non sempre all’altez-za dei gusti raffinati degli enonauti.Mentre in alcune zone la raccolta ècominciata a fine agosto, in altre lavendemmia è stata medio-tardiva: èuna tendenza che riguarda soprat-tutto il Nord Italia dove le premessesono comunque buone. Insomma, se ci concedete la battuta,l’Italia batte la Francia ai calci di rigo-re. Ma stavolta non c’entrano néZidane né Materazzi.

(T.M.)

Duemila e più chilometri di Gusto ealimeuD molihcùip suGidirte ots

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uando ho ricevuto il diploma di somme-lier mi sono detta: ‘Adesso posso finalmen-te partire per New York’. Avevo pianificatoil mio trasferimento da tempo, ma dovevo

aspettare il famoso ‘pezzo di carta’ per esercitare la pro-fessione. In realtà quel diploma è stato molto di più diun lasciapassare per una carriera professionale: è statoil riconoscimento che anni di studio ed approfondimen-to, a volte maniacale, premiano e che l’investimentofatto nello scegliere il corso Ais, il più completo, lungoed impegnativo, ha portato frutti”.Parla con entusiasmo Alessandra Rotondi, apprezza-ta sommelier nella Grande Mela. Un entusiasmo con-tagioso, che scaturisce dalla sua passione per il vinoe la sommellerie, una passione che riesce a trasmet-tere ai suoi interlocutori.

Cosa fa una Sommelier Ais a New York?Innanzitutto si adegua. Il servizio del vino è molto diver-so da come viene insegnato in Italia. I ristoranti conCarte dei Vini sono moltissimi e funzionano tutti. Quisi privilegia la ‘praticità’. Una bottiglia di vino, anchenei ristoranti di etichetta, viene aperta in piedi, senzaguéridon, spesso muovendola vistosamente. Il tappoviene lasciato quasi sempre al cliente che sennò recla-ma. Il bicchiere si riempie di più e diventa difficile degu-stare tecnicamente. Se viene ordinata la seconda bot-tiglia di uno stesso vino, si cambiano tutti i bicchieriche devono essere ‘fresh’ cioè puliti. Si tende a decan-tare molto. Un po’ perché la cerimonia affascina, soprat-tutto se si usa la candela, ma anche perché il clientemedio considera che un vino con più di 5 anni abbiabisogno di aprirsi e respirare come se fosse un granderosso da collezione.

A livello di cultura del vino, qual è la preparazio-ne del cliente newyorkese?In Italia più o meno tutti abbiamo una buona culturadel vino, se non altro perché tutti abbiamo avuto unpadre, uno zio, un nonno con un pezzo di vigna chefaceva il vino. Qui invece il vino rappresenta per molti

un argomento tutto da scoprire. Siamo in una cittàmoderna e multietnica, molto lontani dalle aree ame-ricane vocate alla viticoltura. L’attenzione viene foca-lizzata più sui punteggi delle riviste come Wine Spectatoro dei vari Robert Parker, che sul vino vero e proprio. Seil punteggio è alto, il vino piace. Non necessariamentesi deve sapere di più. Guardiamo l’incredibile succes-so del Pinot Grigio: qualche decennio fa una famosaazienda italiana ebbe la felice intuizione di spiegare incampagna pubblicitaria che ‘questo bianco viene da uverosate…’, evocando quasi della magia. Naturalmente,molti sono gli esperti, gli appassionati ed i collezioni-sti, ed allora il discorso cambia. È emozionante la curiosità che i Newyorkesi hannoverso tutto ciò che non conoscono bene. Poiché ‘puòsempre essere utile nella vita’, desiderano sempre saper-ne di più. Ma le tecniche di vinificazione, le tempera-ture controllate, la malolattica o l’uso di barrique, primoo secondo passaggio, sono argomenti che possono esse-re trattati solo ed esclusivamente durante seminari econvegni ad hoc. In tale contesto, gli iscritti al semina-rio, anche se non necessariamente coinvolti nel WineBusiness, ascoltano interessati per ore tutto lo scibilesul vino, pagando ingressi molto costosi. Ma in risto-rante, al sommelier è richiesta meno tecnica e molta

Un’ italianaa New York

di Daniele Urso

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Con Fabio e Vittorio, proprietari di Cognac e Decanter

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più passione. Deve comunquesapere rispondere al cliente esper-to che, soprattutto se riconoscel’origine italiana, adora metterlo allaprova.

Personalmente come hai usato ilDiploma Ais nel lavoro a NewYork?Sono Sommelier-Consulente Vini peralcuni ristoranti di Manhattan, tracui 6 locali del mitico marchio italia-no Serafina (carta dei vini prevalen-temente nazionale); uno giapponesemolto glamour, Geisha, con vini fran-cesi ed internazionali: ed una brasse-rie, Cognac, di recente apertura, la cui carta vini è al90% d’oltralpe (a New York ‘i cugini’ dettano spessolegge), con anche 102 etichette di cognac in selezione,motivo di attenzione costante da parte dei media. Oltrea creare le Carte, faccio partecipare il ristorante allecompetizioni e lo rappresento; curo i rapporti con leaziende distributrici ed assaggio dalla mattina alla sera.Collaboro con le istituzioni italiane e conduco nei loroeventi degustazioni in cui abbino il vino alla culturaitaliana in senso lato, letteratura, poesia, musica, moda.Infine, presento i miei personali ‘Wine Seduction Tasting’nei locali più esclusivi della città, dove propongo il vinocome ‘strumento di seduzione’. Ma di questo parliamoun’altra volta.

New York è il simbolo del glamour. Che ruolo ha ilvino con “tutto quanto fa spettacolo”?Il vino è indissolubile dall’evento glamour. Ogni giorno,in qualche albergo a 5 stelle c’è una degustazione dacosti proibitivi che fa il tutto esaurito. Ma il vino non èla bevanda che viene immediatamente richiesta entran-do in un locale. La serie Sex and the City ha promos-so molto la moda del drink. La vodka e la birra hannoconsumi altissimi. Ma durante una cena, fortunata-mente, si pasteggia a vino.

Di cosa sei più orgogliosa come som-melier negli States? L’Ais con la sua incessante attività hasempre offerto incontri con le aziendee con i produttori. Io non ne ho persouno. Portavo un vistosissimo apparec-chio di ortodonzia, che mi causavaspesso un ‘sentore di ferro’ in bocca.Ciò nonostante ero sempre lì, a par-lare con tutti ed a prendere bigliettida visita che, dopo tanti anni, avreiriutilizzato a New York. In questa città

mi muovo bene e conosco molti personaggi famo-si. Ivana Trump, la prima moglie del magnate multi-miliardario Donald, mi ha nominato sua Wine Consultantin occasione del suo nuovo matrimonio svoltosi a PalmBeach, Florida, nella tenuta da sogno Mar-a-Lago. Hopreteso di portare solo vino italiano e ho puntato al mas-simo per avere 2 aziende come sponsor. Ho lavorato daNew York ininterrottamente per circa 5 giorni con tele-fono ed e-mails, chiamando personalmente tutte le azien-de conosciute in Italia, per avere 1000 bottiglie di bian-co e 1000 di rosso da far arrivare in Florida. È statoemozionante: tutti si ricordavano di me. Alcuni devonoaver pensato che fossi pazza, ma da parte di tutti horicevuto disponibilità ed interesse e, soprattutto, ci sonoriuscita: il vino italiano, in sponsor è stato bevuto datutti quei vip i cui nomi riempiono le riviste patinate. Glisposi volevano anche uno Champagne. Pur non cono-scendo personalmente i titolari delle cantine diChampagne ho chiamato direttamente le Maison edho fatto loro la stessa proposta. Alla fine sono riuscitaad avere 1300 bottiglie di champagne a metà prezzo. ‘Gli Italiani il vino ce l’hanno nel sangue’ si dice sempre.Nel mio, c’è sempre stato, viste le mie origini di SanGusmè, Chianti Classico. Ora, cerco di farlo scorrereanche tra i Newyorkesi e, parola di Sommelier Ais, cisto riuscendo!

Alessandra Rotondi con Ivana Trump Con Marta Marzotto e Sirio Maccioni, proprietario di ''Le Cirque'' di New York

� Matrimonio Ivana Trump, menu dei vini

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Dagli Appenninialle Ande

NELLA PROVINCIA

DI MENDOZA, IN ARGENTINA,

VIENE PRODOTTO

UN MALBEC

CHE PARLA ITALIANO

di Emanuele Lavizzari

Nel 1502 una spedizione porto-ghese, di cui fece parte il“nostro” Amerigo Vespucci,

scoprì l’estuario del fiume poi battez-zato dai conquistadores lusitani Rioda Prata (Rio de la Plata in spagnolo,cioè il “fiume dell’argento”). Quattordicianni più tardi i sopravvissuti a unnaufragio, guidati da Juan Díaz deSolís, furono accolti dalle popolazio-ni indigene che offrirono agli ibericidoni in argento. Insomma, l’originedel nome di questo Paese è chiara:non dal portoghese prata né dallo spa-gnolo plata, ma dal latino argentum.Anzi, dalla nostra lingua direttamen-te, perché furono proprio gli italiani aconiare il termine Argentina, comedimostra una mappa geografica vene-ziana del 1536, su cui per la primavolta compare questa indicazionetoponomastica.Dalle prime migrazioni di fineOttocento fino a quelle del secolo scor-so, si calcola che circa tre milioni emezzo di italiani abbiano attraversa-to l’Atlantico per cercar fortuna lag-giù. E oggi su una popolazione di qua-ranta milioni di abitanti circa venti-cinque milioni di argentini hannoalmeno un antenato di origine italia-na. Usi, costumi, tradizioni e persinoinfluenze nello spagnolo parlato inArgentina derivano proprio dal grup-po etnico più numeroso che ha segui-to le rotte esplorate cinque secoli fadai conquistadores salpati dal nostrocontinente. Se qualcuno pensa chel’emigrazione dal Bel Paese versol’Argentina si sia interrotta negli anniCinquanta, dopo il secondo conflitto

mondiale, però si sbaglia. C’è statoancora qualcuno che ci ha provato.Nel 1995 l’enologo toscano AlbertoAntonini e Antonio Morescalchi, gio-vane e intraprendente imprenditore,partirono per un viaggio nel SudAmerica. Lo scopo? Conoscere le regio-ni viticole di quell’angolo del mondo.Furono impressionati dalle caratteri-stiche e dalla personalità del Malbecdi Mendoza, provincia centro-occiden-tale dell’Argentina, forti della certez-za di aver trovato ciò che stavano cer-cando. Organizzarono quindi unsecondo viaggio e acquistarono 216ettari nel dipartimento di Luján deCuyo. Successivamente alcuni amicidi vecchia data, entusiasti dell’idea,si unirono a loro: Attilio Pagli, enolo-

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IL VITIGNO DEI DUE MONDIIl Malbec è un vitigno francese, conosciuto anche con il

nome di Cot o Auxerrois, caratteristico della zona diCahors e impiegato anche a Bordeaux come

varietà secondaria. Introdotto in Argentina versola metà del XIX secolo dall’agronomo franceseMichel Pouget, ebbe immediatamente una fan-tastica diffusione in questa regione, raggiungen-

do un massimo di 50.000 ettari coltivati. La varietàè particolarmente delicata e ha bisogno di condi-

zioni specifiche per esprimersi pienamente.La singolare situazione ambientale, climatica e del suolo

della provincia di Mendoza, unita al sistema di coltivazio-ne tradizionale con irrigazione per inondazione, permise-ro a questo vitigno di salvarsi dall’attacco della filosserae a diffondersi senza necessità di innesti.Il risultato enologico della varietà in Argentina è bendistinto dal suo omologo francese. La sua caratteristica èun intenso color purpureo tendente al violetto con tanni-ni morbidi, dolci e avvolgenti. I sentori più citati sono diciliegia maraschino, frutta rossa e anice. Ovviamente sipresta a essere conservato, anche se uno straordinariogusto lo caratterizza fin da giovane.

go toscano, già socio in altre attivitàdi Antonini; Marco De Grazia, il piùautorevole importatore di vini italianisu larga scala; Alan Scerbanenko, con-sulente svizzero e coordinatore azien-dale; Antonio Terni, produttore italo-argentino. Così nasce Altos LasHormigas.

��� L’ATTIVITÀL’Argentina è il quinto produttoremondiale di vino, superata nel NuovoMondo solo dagli Stati Uniti. Ma all’ori-gine di quest’avventura la sua realtàenologica era sconosciuta a molti, per-ché tradizionalmente orientata al con-sumo interno ai confini nazionali..La provincia di Mendoza è la primadel Paese per la produzione di vino. Ilcapoluogo, che dà il nome all’interaarea amministrativa, è situato ai piedidelle Ande, non molto distante dallavetta più alta della Cordigliera: il mas-

siccio dell’Aconcagua, che sfiora i7.000 metri di altitudine e colloca lacatena andina al secondo posto sul pia-neta dietro solo all’Himalaya. La pro-vincia ha circa un milione e mezzo diabitanti dei quali 700 mila nell’areaurbana del capoluogo. La regione èdesertica e semidesertica con terrenodi origine alluvionale. Già gli aborige-ni coltivavano utilizzando l’acqua deifiumi Mendoza e Tunuyán e furono icoloni europei a sviluppare nel corsodegli anni un imponente sistema di irri-gazione che permette a quest’area diessere una delle principali dell’AmericaLatina per la coltivazione di frutta eortaggi oltre naturalmente alla vite. Lazona gode di caratteristiche climatichecaratterizzate da temperature diurnecalde e notti molto fresche e la presen-za di acqua per l’irrigazione provenien-te dai disgeli andini.Altos Las Hormigas domina il dipar-timento di Luján de Cuyo, su un pen-dio con un’altitudine media di 800metri, in una zona semidesertica postainnanzi alla Cordigliera, protetta versoest da un rilievo minore. Si estendesu 225 ettari, di cui 40 a vite. L’unica

� I vigneti di Malbec e sullo sfondo le vette andine

Il Malbec di Mendoza

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varietà che si coltiva è il Malbec, conuna densità di oltre 4.000 piante perettaro. Al centro della tenuta c’è la cantina.Costruita nel 2001, occupa duemilametri quadrati e può ospitare fino a16.000 ettolitri oltre a un migliaio diettolitri in botti di rovere francese. Lastruttura è stata edificata integran-dola al paesaggio e rispettando la tra-dizione architettonica locale. Al suointerno si sono create le condizionitecniche ottimali di isolamento termi-co, igiene e qualità del processo pro-duttivo. Sobrietà e funzionalità sonostati i criteri di riferimento per ogniprogetto.«La nostra missione – affermano inostri connazionali – è costruire qua-lità attraverso un lavoro paziente. AMendoza abbiamo trovato il posto checercavamo, un ambiente dove i valo-ri tradizionali del vino possono esse-re rafforzati con un approccio moder-no per giungere a un prodotto singo-lare e contemporaneo. Crediamo cheil nostro compito qui sia di continua-re a costruire, mentre questo terroirrisponde al nostro lavoro e lo ricom-pensa con le sue bellezze».“Un lavoro da formica” si dice da que-ste parti, ma è un’immagine che non

lascia adito a fraintendimenti, un’ideache esprime un’opera lunga e impe-gnativa, condotta con dedizione epazienza. Perciò la formica è diventa-ta il simbolo e l’amuleto portafortunadi questa cantina. «Lavoriamo congrande orgoglio – hanno aggiunto –ma siamo coscienti di dover mante-nere una mentalità aperta, quantobasta per restare umili e sempredisposti a imparare nuove lezioni. Èil segreto per crescere come personee come produttori».Altos Las Hormigas rappresental’esplorazione di antiche e nuove meto-dologie per produrre il vino. Si studiala tradizione con la finalità di inno-vare. Il metodo di lavoro è il continuosforzo di affiancare attenzione e appli-cazione dell’artigiano italiano delSeicento alla conoscenza cosmopolitadelle tecniche e alle scoperte del pro-gresso tecnologico e scientifico. Tuttoquesto per ottenere un vino che espri-ma purezza, intensità, freschezza eautenticità del Malbec di Mendoza.«Pensiamo che il vino sia prodotto inparte dalla ricchezza della natura edall’altra dal talento dell’uomo. Infondo, il frutto delle nostre fatiche puòveramente rappresentare un esempiodi armonia tra l’uomo e la natura».

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I colori dell'autunno e sullo sfondo la cantinaI vigneti di Altos Las Hormigas

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CASA VINICOLA MEROTTO sncvia Scandolera, 21 - 31010 Col San Martino (TV)

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LA VENDEMMIA DELLE MISS

In Argentina la FiestaNacional de la Vendimia sisvolge ogni anno la primasettimana di marzo aMendoza, capoluogo dellaProvincia che porta il suonome. L’eventorappresenta la principalericorrenza del Paese in

onore al vino. È costituita da una serie dimanifestazioni congiunte che si tengono inognuno dei 18 dipartimenti che formanoquesta provincia durante i mesi di gennaioe febbraio per culminare nella grandefesta nazionale di inizio marzo. Ognidipartimento durante la propria festaelegge una reina, la regina locale che poicompeterà per il trono nella finalissima.La sera che precede il primo sabato dimarzo ha luogo la Vía Blanca de lasReinas, una sfilata per le strade diMendoza, in cui ogni dipartimentopresenta il proprio carro allegoricodecorato con motivi legati allavendemmia, al paesaggio e alleparticolarità della zona. I cortei sonol’occasione per far conoscere la bellezzadi tutte le “regine”, aspiranti alla conquistadello scettro nazionale.L’appuntamento centrale del sabato serasi svolge nell’anfiteatro Frank Romero Daye rappresenta la principale attrazione dellafesta. Ogni anno viene offerta unafantastica esibizione artistica di danze, lucie suoni con centinaia di attori e ballerini. Lospunto è sempre dato dalla vendemmia edal vino e nel corso degli eventi si rendeomaggio alla Virgen de la Carrodilla,protettrice dei vigneti. Le celebrazioni sichiudono con l’elezione della ReinaNacional de la Vendimia (la ReginaNazionale della Vendemmia), incoronatadalla miss uscente, e con un grandespettacolo pirotecnico a ritmo di musica.

� La ''Reina 2008'', Florencia Moreno Tous del dipartimento di Tupungato

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Ritorna anche in questa stagione un appuntamentoormai tradizionale: l’edizione 2008 del Concorso MigliorSommelier d’Italia al cui vincitore verrà assegnato il

Trofeo Guido Berlucchi, accompagnato da un concreto esostanzioso premio, previsto anche per gli altri due finalisti.Più volte nel corso delle passate edizioni l’Ais e la Berlucchihanno sottolineato i comuni obiettivi: diffondere e amplia-re la cultura e le conoscenze di enologia, migliorando le capa-cità di chi si dedica professionalmente all’attività di somme-lier, perché possa diventare il tramite, sempre più autore-vole, tra il mondo della produzione e gli amanti del buonbere. L’azienda franciacortina, che mette a disposizione ipropri prodotti durante le prove, con l’assegnazione dei premiai migliori classificati contribuisce alla loro crescita profes-sionale e dunque all’integrazione tra chi produce il vino, chilo serve e chi lo consuma.Certo non è facile aggiudicarsi il concorso, perché sono neces-sari volontà, studio e approfondimento di conoscenze e nozio-ni inerenti la realtà che appassiona ogni sommelier profes-sionista e che lo vede impegnato quotidianamente. Ma indub-biamente costituisce un’occasione unica per ampliare la pro-pria tecnica e le proprie competenze. La vittoria del titoloderiva da un grande impegno e rappresenta un’affermazio-ne prestigiosa, ma di certo sarà utile e qualificante per lacarriera futura del sommelier, oltre a rappresentare una con-ferma di autorevolezza e autostima e un’indiscussa vetrinacon un’enorme visibilità in patria e all’estero.Le prove di selezione hanno definito i migliori sommeliersche daranno spettacolo nell’edizione 2008. La finalissima èprevista per sabato 18 ottobre presso l’auditorium dell’exMonastero dei Benedettini a Catania, sede del 42.moCongresso Nazionale Ais.«Il Trofeo Guido Berlucchi - Miglior Sommelier d’Italia è unpremio importantissimo che apre al vincitore le porte al suc-cesso professionale in Italia e nel mondo» spiega il presiden-te nazionale, Terenzio Medri. «Un titolo che ha sempre por-tato fortuna a chi se l’è aggiudicato e che dimostra, renden-doci orgogliosi, l’elevato livello di preparazione di tanti som-meliers che escono dai nostri corsi. A tutti i partecipanti alconcorso non posso che indirizzare il mio più caloroso inco-raggiamento!».

Trofeo Guido Berlucchi 2008:tutti ai nastri di partenza

� I tre finalisti della passata edizione: Cristiano Cini, NicolettaGargiulo e Nicola Bonera

� Nicoletta Gargiulo premiata da Franco Ziliani

� Nicoletta Gargiulo, Miglior Sommelier d'Italia 2007, con il presidente Medri

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Papà Longo mai avrebbe imma-ginato che quella rivendita divini a San Giorgio su Legnano

che aveva aperto 40 anni fa, quandodalla Puglia arrivò in Lombardia,sarebbe stata fonte di una fortunaincalcolabile, quella che i suoi tre figli,Osvaldo, Paola e Giovanni hannosaputo mettere a frutto, intuendo cheil futuro risiedeva nel vino di quali-tà. E così, da un semplice negozietto divini pugliesi e piemontesi, passopasso, prima con un locale in corsoMagenta, a Legnano, inaugurato nel1983, poi, due anni e mezzo fa, conquello definitivo, in via XXV aprile3|A, ecco nascere una delle enote-che più prestigiose d’Italia, l’EnotecaLongo, premiata nel 2000 sia con ilPremio internazionale del vino

dell’Associazione Italiana Sommelier,sia col Leccio d’Oro del Consorzio delBrunello di Montancino. Un posto accogliente, due locali perun totale di 100 metri quadri, dovesi degusta solo in occasioni partico-lari, quando qualche produttore chie-de di presentare qui le sue chicche.Già, perché l’idea è quella di dedicar-si esclusivamente alla vendita di bot-tiglie di qualità, italiane e straniere. “Il senso - dice Osvaldo, 49 anni, deitre figli, quello che si occupa di comu-nicazione - è di vivere questo localecome negozio, come fu per mio padre,certo con l’eleganza e la sobrietà cheun’offerta di livello inevitabilmenteregala. Non è una falsa cantina, pro-segue, né una gioielleria, ma un luogodove proporre il meglio, andandoincontro al cliente di oggi, quasi sem-

pre molto sicuro riguardo a ciò chevuole”. La gamma va dai 6-7 euro, questesono le prime bottiglie che si vedonodalla vetrina sulla strada, per arriva-re a prezzi vertiginosi che riguardanole bollicine più esclusive. Tutto, volen-do, da associare a prodotti gastrono-mici altrettanto ben selezionati, comepaste sopraffine tipo quelle in arrivodal pastificio pugliese Morelli o daquello di Torre Annunziata, il Separo,l’unico rimasto su quel territorio,caratterizzato da lavorazioni artigia-nali che puntano su una essiccazio-ne della pasta lentissima. Ed ecco poi specialità alimentari sot-t’olio, con carciofini e cicoriette sel-vatiche e pomodorini essiccati.Splendidi gli extra vergine di oliva, inarrivo da Toscana, Umbria, Sicilia e

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L’e

note

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Il gusto di regalare

vinoLA STORIA DELLA

FAMIGLIA LONGO CHE

DA UNA SEMPLICE

RIVENDITA

HA CREATO UNA

VETRINA DI ECCELLENZE

DELL’ENOGASTRONOMIA

ITALIANA. UN’ATTIVITÀ

CHE PRESTO VARCHERÀ

I NOSTRI CONFINI

di Luisa Barbieri

� Da sinistra Paola, Osvaldo e Giovanni Longo

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Lago di Garda, da farassaggiare con un tester,una grossa oliva d’acciaioche porta il prodotto allatemperatura giusta, dota-ta di un’apertura superio-re dove introdurre l’olio edi un beccuccio per versar-lo. Da segnalare, fra que-ste meraviglie, il Pianogrilloe il Chiaramonte Gulfi,nati dagli uliveti della pro-vincia di Ragusa. E poi imieli, le confetture diMoreno Cedroni e i suoisughi confezionati: arrab-biate o amatriciane di pesce. Tuttiprodotti selezionati da Giovanni; aPaola, la regina del locale, perfettasommelier, il compito di presentarequeste delizie, associando vini mera-vigliosi. Subito pronti per esseredegustati grazie al chiller, l’adattato-re di temperatura che in 5 minutiporta spumanti, champagnes, bian-chi e rosati alla temperatura giusta.Tra le molte proposte, la sottolinea-tura va comunque a certe nuove pro-duzioni, sfide su cui la famiglia Longopunta molto. Parliamo del Solus diPianirossi, in Maremma, o del Sapaiodi Bolgheri. Prezzi contenuti, la media è del 10%in meno rispetto al prezzo di listino,diventano possibili grazie agli introi-ti garantiti dall’azienda di regalisticadei Longo: 5 mila metri quadri, nellazona industriale, con 120 persone

che lavorano su tre turni per produr-re confezioni belle esteticamente, fattecon le delizie esposte in enoteca edotate di vademecum per capire cosasi degusta, imparando. 34 mila circale spedizioni annue in Italia e nelmondo, con offerte da catalogo chevanno dai 12 euro per tre stecchedi torrone, morbido, alla mandorla esiciliano, agli 800 euro del foie grasassociato a champagnes e altremagnifiche squisitezze. Un vero suc-cesso, nel settore: l’azienda è la primain Italia, e rappresenta un modelloper tutto il mondo. Ed ecco affacciar-si l’ultima ambizione…“Oggi il sogno - dice Osvaldo - è quel-lo realizzare oltreconfine, inGermania, Olanda e Belgio la nostraattività, ispirati da una semplice filo-sofia: esportare il gusto del regalo,facendo conoscere ovunque l’eccel-

lenza dei prodotti italiani.Presto ci misureremo conquesta nuova avventura”. Intanto, tutto quel che finoad oggi li rappresenta, ifratelli Longo hanno deci-so di pubblicizzarlo sulloro sito. Preziosi suggeri-menti arrivano anche nellaguida che curano perso-nalmente, Fuoricasello,consultabile anche viaInternet: 370 locali dovemangiare bene, a 5 minu-ti dai caselli autostradali.Indicazioni di cui fidarsi

ciecamente, raccolte da gente che inquei locali ci lavora o ci ha lavorato. Loro, anche l’idea di dar vita a even-ti speciali di gran lustro: splendida laserata, raccontata nel link Album deiRicordi del sito dell’enoteca, organiz-zata nel settembre 2006 all’hotel FourSeason di Milano dove un migliaio diclienti ha potuto assaporare le deli-zie di quattro Chef Restaurateur pre-parate sotto i loro occhi in quattrodiversi angoli del ristorante, degu-stando 200 bottiglie di Franciacorta.E ancora a Roma, tre anni fa: unaserata simile, questa volta all’Hilton. Tutto col benestare di papà. A lui sideve l’originaria passione per le bol-licine, trasmessa, assimilata ed ela-borata. E se i risultati sono questi,speriamo che i fratelli Longo prose-guano così, di generazione in gene-razione…

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Pubblicazioni, guide, rubriche televisive, corsi e sem-pre tanto più viene fatto per comunicare un ciboo un vino (che sempre di cibo trattasi), le sue

tecniche di preparazione e soprattutto gli abbinamentipossibili.La platea a cui mi rivolgo conosce a pieno questi aspet-ti ed è sempre più sensibile a questo argomento tantoche “Tecniche di abbinamento cibo-vino” viene propostocome materia del corso di sommelier nel terzo livello;poter fornire all’aspirante sommelier la formazione e laconoscenza per valutare le caratteristiche di ogni ali-mento e quelle del vino da proporre in abbinamento sonoormai regole indiscutibili. Se alla magica fusione di “eno”e “gastronomia” anteponiamo la parola “fumo” pren-de origine la “fumenogastronomia”: arte e scienza dipreparare i cibi più raffinati ed accompagnarli con il vinopiù adeguato lasciando il finale ad un sigaro che sia ingrado di esaltare il tutto. E’ ovvio che non mi riferisco ad un sigaro qualsiasi, delquale non si conosce bene la composizione del ripieno ofiller, ma del sigaro Toscano. Il nostro sigaro è “mono-cultivar” (solo linea di tabacco Kentucky utilizzata perla produzione, dalla fascia esterna al ripieno), “natura-le” (nella composizione del sigaro Toscano non sono pre-senti elementi diversi dalla materia prima utilizzata) erisponde a tutti i requisiti della tracciabilità. Caratteristiche che fanno di questo sigaro un autenti-co fuori classe capace di seguire passo dopo passo il per-

corso del vino, dalla terra al bicchiere. Ecco solo alcunipassaggi che accomunano vino e sigaro Toscano.

��� TERROIR E CLIMARegioni italiane più vocate alla produzione vinicola chevantano numerose denominazioni di vini di qualità rap-presentano i migliori terroir e clima ideale anche per lacoltivazione del tabacco Kentucky, la materia primadel sigaro Toscano. A partire dal nord con il Veneto(Recioto di Soave e Amarone sono abbinamenti insosti-tuibili al sigaro Toscano Classico e all’Antico Toscano),al centro con la Toscana (Vin Santo del Chianti Classico,Brunello di Montalcino e Nobile di Montepulciano cheadorano il sigaro Toscano Extravecchio) e l’Umbria (dalMuffato della Sala al Torgiano rosso Riserva al biancoCervaro della Sala davanti al Toscano Antica Riserva)fino a sud col territorio campano (Aglianico e Taburnoda non perdere davanti al sigaro Antico Toscano e per ipalati più soft davanti ad un sigaro Toscano Garibaldi oToscano Soldati).

��� SELEZIONE DELLA MATERIA PRIMALe fasi di evoluzione naturale della pianta, i cosiddettifattori biologici perché legati alla terra e clima, sono estre-mamente importanti perché determinano la formazionedel carattere di un vino ma anche del sigaro. Per evita-re le componenti che possono incidere negativamentenell’analisi gustativa si deve procedere subito all’elimi-nazione del troppo verde, cioè tutte quelle componentilegnose che rilascerebbero in entrambi i casi un ecces-sivo amaro in bocca. Così come i raspi vengono tolti dal-l’uva attraverso la macchina diraspatrice, nel tabacco

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di Fabrizio Franchi

Dalla terra al bicchiere

davanti a un puff

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viene eseguita un’operazione molto simile con la sco-stolatura. Il risultato è il lembo fogliare diviso in due,lembo destro e sinistro, che saranno pronti ad entrarenelle mani delle sigaraie e fasciare il sigaro Toscano.

��� LA MIGLIORE ANNATASettembre e ottobre sono mesi che possono offrire gran-di emozioni per chi si trova a passare nelle aree ad altavocazione tabacchicola e quindi vinicola (vedi sopra).Ancora oggi è possibile vedere trattori con rimorchi cari-chi di ceste di uva e tabacco. Quindi stessi tempi di rac-colta e quel che conta è il momento giusto. Con la rac-colta dell’uva ci sono più variabili visto che gli obbietti-vi da raggiungere sono diversi. Se si vuol fare un vinorosso, magari più alcolico, si deve vendemmiare in ritar-do, lasciando che si accumuli una buona quantità dizuccheri. Con il tabacco Kentucky non si scherza: varaccolto con molta attenzione, evitando rotture perchél’integrità è il primo requisito se vogliamo ricavare daqueste foglie una buona fascia.

��� UTILIZZO DEL LEGNOToscano barricato? Certo! Chi pensa però che il nostrosigaro acquisisca profumi, speziature e bouquet con l’in-

vecchiamento nell’humidor o magari in barrique, ovvia-mente si sbaglia. Prima di trasformarsi in sigaro Toscanoil tabacco viene “tostato” con legno pregiato e aromati-co (faggio, leccio o quercia) per trasmettere quelle carat-teristiche uniche di qualità che si riscontrano poi nelcolore, nell’aspetto olfattivo, tattile e gustativo del nostrosigaro italiano. L’utilizzo di legno e tostature per il vinoè ben noto anche se ultimamente l’utilizzo della barri-que sembra essere destinato ormai solo a quei vini diserie A (le produzioni Doc e Docg) perché è stato auto-rizzato anche nel Vecchio Mondo l’utilizzo dei truciolidi legno “chips” per l’invecchiamento del vino.

Davanti alle numerose novità lanciate dalla globalizza-zione, come le nuove regole imposte dal Nuovo Mondo(Stati Uniti, Australia e numerosi altri Paesi) per miglio-rare il gusto attraverso i numeri e il marketing, è giun-to il momento di lanciare un appello a tutta l’AssociazioneItaliana Sommelier che sta operando con la neo nataWorldwide Sommelier Association: far conoscere il siga-ro Toscano equivale a valorizzare un prodotto del madein Italy che è capace di esaltare il patrimonio nazionalenel bicchiere, dal vino ai distillati! Per ulteriori infor-mazioni: [email protected]

“Conoscere il sigaro Toscano” è iltitolo del nuovo programma diemozionanti appuntamentiproposti dal Club Amici delToscano su richiesta di ristoranti,enoteche, alberghi, associazioniculturali e tabaccherie per chiarirei mille dubbi che attanagliano gliappassionati del sigaro ToscanoDurante gli incontri saranno illustratii percorsi dalla coltivazione deltabacco alla produzione delsigaro e dalla conservazione alladegustazione con analisiorganolettica e sensoriale.Verranno messi a disposizione perla degustazione accendini etagliasigari oltre a due tipologie di

sigari Toscano per l’abbinamentocon i più prestigiosi vini, vini dameditazione e distillati italianiselezionati dal Fumenogastronomoin collaborazione conl’Associazione Italiana Sommelier. Non solo l’abc del sigaro Toscano,quindi, ma anche le basifondamentali di un’autenticacultura materialefumenogastronomica.Un’opportunità in più con tantesorprese per i gestori di importantiristoranti, enoteche, alberghi,tabaccherie ecc. che voglionomostrare il loro locale al Club Amicidel Toscano. Gli incontri saranno guidati dal

fumenogastronomo FabrizioFranchi, esperienza quasiventennale nel settore deltabacco e sommelierprofessionista che rilasceràattestati di partecipazionepersonalizzati e spillette tricolori aforma di sigaro Toscano.

Per richiedere appuntamenti didegustazione colFumenogastronomo occorronominimo 25 partecipanti e & 18,00 di quota di partecipazione. Per ulteriori informazioni contattarenumero verde tel. 800.853335oppure scrivete [email protected].

I NUOVI SEMINARI E CORSI SUL TOSCANO

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L’olivicoltura eroicapuò rilanciare il comparto

L’Italia olearia si sta sfaldando. Sta perdendo isuoi pezzi migliori uno alla volta. Ormai è notoa tutti che i grandi marchi storici stanno pren-

dendo altre strade, che conducono verso Paesi più reat-tivi e dinamici. Anzi, a dire il vero, la strada è una sola,e porta diritti verso la Spagna, una potenza ormai mon-diale per quanto concerne l’olio di oliva. Piaccia o meno,è così: la Spagna ha saputo mettere in ombra il nostroPaese. Stiamo arretrando. E non si dica, in forma con-solatoria, che i cugini iberici non facciano la qualità:non è così, realizzano sia grandi volumi, sia qualità. Lacolpa è nostra colpa. Lo sostengo da anni, ma non acca-de nulla. C’è stata l’ingerenza della politica che ha creato dannienormi. Un abuso e uno spreco di fondi, italiani e comu-nitari, che ha sottratto importanti risorse destinateall’olivicoltura. Non ci credete? Aspettatevi il peggio,siamo sulla buona strada. Ecco un promemoria. Anno1994: Romano Prodi ha dismesso brand e strutture delcalibro di Bertolli, Cirio e De Rica. E’ la multinaziona-le anglo-olandese Unilever ad acquisire Bertolli. Nel2004 la Minerva alimentare cede invece il marchio Sassoal gruppo Sos Cuetara. Nel 2006 è la volta di Carapelli,con il gruppo Sos sempre protagonista della scena. Nonfinisce qui: anno 2007, sei frantoi tra Puglia e Calabria,oltre a cinquanta aziende olivicole ubicate in alcunearee rinomate del Paese, diventano proprietà di azien-de spagnole. L’avanzata non conosce soste. Dopo la cessione diCarapelli e Sasso, anziché riprenderci un brand comeBertolli, che Unilever ha rimesso nel frattempo sul mer-cato, il gruppo spagnolo Sos Cuetara, della famigliaSalazar, lo acquisisce per 630 milioni di euro. I marchiitaliani dell’olio sono d’altra parte molto appetibili da chiintende farsi largo con successo e disinvoltura sui ghiot-

ti mercati esteri: vince l’Italian style. Volendo fare il puntodella situazione, ad oggi i marchi Carapelli, Sasso, Bertolli,Dante e San Giorgio parlano spagnolo. A noi resta benpoco. Si riducono le grandi famiglie dell’olio: restano iFontana, con i marchi Sagra e Filippo Berio, quindi lafamiglia Monini e la fratelli Carli. A seguire, vi è poi tuttauna serie di altre aziende, le quali, tuttavia, pur avendoquote di mercato significative, incidono poco nell’econo-mia generale. Per il resto, invece, insistono sul territoriouna quantità incredibile di aziende. Resta dunque attiva, almeno finché resiste, un’olivicol-tura fatta di piccole e medie aziende agricole, così minu-scole da non scalfire però il mercato. A queste si aggiun-gono circa sei mila frantoi: un numero spropositato.L’Unaprol, la massima associazione di produttori delPaese, riferisce l’esistenza di un milione e 400 milaaziende olivicole! Realtà senz’altro importanti, non tantoper il mercato, quanto per il mantenimento del terri-torio, in difesa del paesaggio, contro il rischio di ero-sione dei suoli e a tutto vantaggio del germoplasma oli-vicolo che ad oggi conta su un patrimonio documen-tato di 538 cultivar di olivi. In questo quadro entra inscena la cosiddetta “olivicoltura estrema”, nelle areemarginali in cui è improbabile coltivare altre pianteda reddito. Esiste pertanto il respiro di una olivicoltu-ra che possiamo definire “eroica”, perché ci vuole ungrande coraggio e un’infinita pazienza nel perseverarea produrre in condizioni difficili e impervie. Da qui, peresempio, una zona poco nota rispetto alla grande famaguadagnata negli ultimi anni dalla Sicilia. E’ l’area delMonte Etna, là dove l’olivo si coltiva ad alta quota. Comeper esempio a Linguaglossa, dove un’azienda ha pen-sato bene di denominare il proprio olio “1068”, perchéè a tale altezza che ricava le olive da cui estrarre l’olio,pura bontà. Ed è proprio da questo esempio di olivicol-tura eroica che si dovrebbe ripartire per risalire la china.Senza dimenticare che occorrono anche i grandi volu-mi, e soprattutto il rientro dei grandi marchi storici inItalia, prima che l’arretramento del comparto diventiinarrestabile.

I MARCHI ITALIANI DELL’OLIO

SONO ASSAI RICERCATI

DA CHI INTENDE FARSI LARGO

CON SUCCESSO E DISINVOLTURA

SUI GHIOTTI MERCATI ESTERI: MOLTE DELLE NOSTRE “FIRME” ORMAI PARLANO SPAGNOLO

E A NOI RESTA BEN POCO.

di Luigi Caricato

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GLI ASSAGGI1068 da olive Brandofino.

Nel bicchiere Verde dai riflessi dorati, è limpido alla vista. Al naso hasentori fruttati puliti e freschi, dalle connotazioni erbacee, con riman-di alla foglia di pomodoro. Al palato ha buona fluidità e armonia,gusto vegetale e punte amare e piccanti progressive e persistenti. Inchiusura mandorla e note speziate.

L’abbinamento Crema di avena, porri e semi di finocchio; pasta allezucchine e menta; tagliata di manzo con salsa di capperi.

Frantoio Le Valli dell’Etna, via Roma 369, 95015 Linguaglossa(Catania); tel. 095.643004, [email protected]

CONSOLI Dop Monte Etna, è un blend di olive Nocellara Etnea(65%), Moresca e Ogliarola Messinese.

Nel bicchiere Giallo oro e limpido, al naso ha note fruttate di mediaintensità, con chiari sentori vegetali di carciofo ed erbe di campo. Algusto è armonico, con richiami alla mandorla verde, lieve percezio-ne dell’amaro e toni piccanti nella media. In chiusura il ritorno dellasensazione piccante, toni erbacei e note di frutta bianca.

L’abbinamento Spaghetti al pesto di pistacchio; verdure crude consalsa verde; cozze gratinate al limone e nocciole.

Frantoio oleario Pasquale Consoli & Fratelli, c.da Giordano SS 284 Km28,50, 95031 Adrano (Catania); tel. e fax 095.7601517, [email protected], www.olioconsoli.it

ARCOBIO da agricoltura biologica, è un blend di olive NocellaraEtnea e Moresca.

Nel bicchiere Giallo chiaro e limpido, si apre al naso con note frutta-te medio-leggere e sentori vegetali di carciofo. Al gusto si percepi-sce morbido e vellutato, con l’amaro e il piccante lievi, la fluiditànella media, una lieve astringenza e una netta sensazione di carcio-fo. In chiusura la mela matura e la mandorla.

L’abbinamento Sformatini di ricotta con pomodori arrosto; insalata difagiolini con funghi e groviera; quaglie con miele e uva bianca.

Azienda agricola Pietro Arcoria, via S. Giovanni Galerno 6, 95030Gravina di Catania (Catania); tel. 095.397000, [email protected],www.arcobio.it

SCIARA VIVA Dop Monte Etna, da agricoltura biologica, ricavato daolive Nocellara Etnea.

Nel bicchiere Giallo oro, è limpido alla vista. Al naso ha profumivegetali di media intensità con sentori di erba, pomodoro e carciofo.Al gusto un tocco di dolce al primo impatto, salvo poi aprirsi con unapunta amara progressiva e un piccante netto ma equilibrato, anchein chiusura, unitamente a delle connotazioni erbacee.

L’abbinamento Crema ai porri con salvia; linguine con zucchine,capperi e menta; filetti di maiale al marsala e finocchio.

Azienda agricola biologica Mario Nicolosi, c.da Canfarella, viaNicolosi, 95030 Ragalna (Catania); tel. 095.620259, [email protected], www.sciaraviva.it

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Buone notizie nel campo della birra italiana. Vedonoprotagonista la storica Fabbrica di Pedavena, inprovincia di Belluno, ovvero uno degli stabilimen-

ti birrari di maggior prestigio, salvato in tempi recentida un infausto abbandono. Della storia recente diPedavena molto si sa: dall’acquisizione degli impianti daparte della friulana Birra Castello, rarissimo caso diincorporazione tutta italiana in questo settore, alla volon-tà di tutti - imprenditori, dipendenti e autorità locali -di rilanciare il marchio e le ottime birre, fino ad arriva-re al desiderio di non far finire quel clima di serenità chesi respira nel celebre “Biergarten”, quasi sempre affol-latissimo di persone di tutte le età e di qualsiasi condi-zione sociale che rendono il punto vendita tra i primiposti per volume di birra consumata ogni anno. La notizia è apprezzabile anche dal punto di vista “orga-nolettico”: la birra in questione è assai gradevole, benequilibrata e non priva di una certa personalità.Birra Dolomiti è il risul-tato di un meritevolesforzo collettivo che pre-mia una filosofia direcupero di un territo-rio, di valorizzazionedelle produzioni locali,di ripristino di una filie-ra agricola ancorataalla tradizione e allepeculiarità di quell’areache si estende nel Parconazionale delle DolomitiBellunesi. Un territorio dove l’orzo,il cereale base e privile-giato per la produzione brassicola, è sempre stato colti-vato ma che, in tempi non lontani, ha dovuto cedere ilpasso alla più redditizia, almeno in quella fase storica,coltivazione del mais. Tuttavia, visto che la natura nonsempre segue le leggi del mercato, il terreno di queste val-late del bellunese è sempre stato poco generoso nei con-fronti del mais. L’orzo, che è invece uno dei cereali più adattabili allecondizioni geologiche e climatiche, si esprimeva meglioe con maggiore resa. Il nuovo corso della Pedavena,che già impiega per tutte le sue birre l’acqua sorgiva delleDolomiti, non poteva non accorgersi del potenziale cheaveva a due passi. Il progetto, avviato nel 2006, si è con-cretizzato con la prima birra nel corso 2008. Con la collaborazione della provincia di Belluno, dell’Ente

Parco nazionale Dolomiti Bellunesi, della Cooperativaagricola La Fiorita e l’appoggio della Regione Veneto, sonostati impiantati circa sessanta ettari a orzo nell’area delParco e si è ottenuto un raccolto di circa 500 quintalid’orzo avviati alla malteria e, da lì, agli impianti diPedavena.La Birra Dolomiti (una “doppio malto” da 6,7% vol.) haterminato il processo produttivo a febbraio 2008, goden-do di lunghi tempi di fermentazione e, soprattutto, dimaturazione a basse temperature, il doppio rispetto allamaggior parte delle birre industriali. Nel calice si presenta di un bel colore dorato intenso,una notevole intensità olfattiva, quasi insospettabile peruna birra pastorizzata, con note fruttate e floreali. Inbocca il corpo è pieno, armonioso con un discretamen-te pronunciato finale piacevolmente amaro. Insomma,una birra proprio godibile da concedersi in abbina-mento a taglieri di affettati dal sapore non troppo mar-

cato, formaggi di lattevaccino e di media sta-gionatura, ma anchecarni rosse alla griglia.Ma è anche una birrache si beve bene dasola, sia in compagniadi un buon libro siadavanti alla televisione.Rilancio economico delterritorio, italianità quasitotale del prodotto(manca solo il luppolotricolore per raggiun-gere lo scopo e non èdetto che non arrivi nei

prossimi anni), significato culturale, sociologico ed eco-compatibile (nessun fertilizzante chimico viene utiliz-zato per le coltivazioni di orzo) sono qualità che finisco-no nel bicchiere e che contribuiscono ad arricchire unprodotto che a chi scrive è piaciuto parecchio e cherispetto alla sempre eccellente Centenario Pedavena,non pastorizzata acquistabile solo in loco, ha il vantag-gio di essere reperibile in tutta Italia, visto che graziead un accordo con due catene distributive la Dolomitiè oggi presente in più di 150 punti vendita sparsi nellaPenisola. Un primo, buon risultato che contribuisce a dare speran-za a un progetto firmato da un gruppo di avveduti quan-to intraprendenti imprenditori italiani e portato a com-pimento da un pugno di piccole aziende agricole locali.

L’ORZO COLTIVATO

NEL PARCO NAZIONALE

DELLE DOLOMITI BELLUNESIDÀ VITA AD UN PRODOTTO

CHE PREMIA LA FILOSOFIA

DI RECUPERO DEL TERRITORIO

E LA VALORIZZAZIONE

DELLE ECCELLENZE LOCALI

di Maurizio Maestrelli

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Andando alla scoperta di superalcolici particolari che si distinguonoper le loro peculiarità e sono conosciuti come prodotti di chiaraimpronta del Nuovo Mondo, troviamo in Brasile un distillato di

autentica origine sudamericana. Ci riferiamo alla cachaça prodotta conla distillazione del succo di canna da zucchero locale.Il Portogallo, come le altre nazioni colonialiste, a partire dalla prima metàdel Cinquecento incoraggiò la coltivazione della canna da zucchero inBrasile allora proprio territorio. La necessità di manodopera alimentò unodei più grandi flagelli mondiali, la tratta degli schiavi, che procurò ai pro-prietari delle piantagioni lavoratori a bassissimo costo ma a condizionidisumane. In Brasile si produsse una nuova acquavite distillando la “pinga”, unabevanda prodotta con melassa (sottoprodotto della canna da zucchero)miele e succo di lime principalmente bevuta dagli schiavi. Il succo di cannaera chiamato dai coloni portoghesi “cachaça” o cagassa. Notiamo ancorache i distillati non invecchiati come grappa, gin, vodka, tequila, rum ecachaça furono utilizzati come sostentamento per i più umili (contadini agiornata, soldati o schiavi) durante la loro difficile e pesante vita. Oggiquesti prodotti, sensibilmente migliorati, sono apprezzati anche dai con-sumatori più esigenti.Nel 1630 la Dutch East India Company, mirando a conquistare il nord estbrasiliano vi si stabilì per coltivare la canna, elemento essenziale per laproduzione dello zucchero e fonte di guadagno molto importante. Nel 1654la Compagnia sopraccitata fu espulsa e si trasferì nelle Indie Occidentalidove si sviluppò notevolmente. La via marittima più breve dal Caribeall’Europa rispetto al Brasile fu uno delle ragioni essenziali della “cadu-ta” del mercato dello zucchero brasiliano.Sorsero accanto alle raffinerie delle piccole distillerie operate dagli alam-biqueros che si arricchirono alle spalle degli schiavi. Tra il 1647 ed il 1660

Il sapore carioca

dellaCachaçadi Angelo Matteucci

� Cachaça

� Caipirinha

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le autorità di Lisbona cercarono di intralciare lo sviluppo della cachaça che ostacola-va l’esportazione in Brasile della bagaceira, l’acquavite di vino portoghese. Nè le leggi promulgate, nè le richieste di tasse sulla produzione ebbero l’effetto volu-to dai portoghesi. I distillatori brasiliani, malgrado le avversità, non smisero mai diprodurre cachaça che nel 1817 divenne il simbolo del nazionalismo contro l’oppres-sione della monarchia e del governo portoghese. Dal 1994 è per legge definita “pro-dotto culturale rappresentativo della cultura e del popolo brasiliano”. Nel 2003 ilGoverno brasiliano ha presentato al World Trade Organization le specifiche sulla pro-duzione della cahaça per ottenere il suo riconoscimento come bevanda nazionalebrasiliana con la relativa denominazione d’origine. Oggi il Brasile è il più grande coltivatore con oltre 290 milioni tonnellate di cannada zucchero. Una buona parte viene distillata per produrre 16 miliardi di litri dialcool utilizzato parzialmente come combustibile unito al petrolio. La cachaça dalle sue origini ha avuto un notevole miglioramento della qualitàgrazie all’attenzione dei produttori. Molte distillerie si trovano in aree di produ-zione di selezionata canna da zucchero altamente qualificata per la produzionedi alcol di qualità. La raccolta avviene due volte l’anno con l’eliminazione dellefoglie così come la parte inferiore, vicina alla terra e la parte superiore vicina alfiore. In pianura la raccolta è svolta con macchine mentre in piccoli appezza-menti o in terreni scoscesi il taglio avviene manualmentecon machete. In molti casi prima del taglio si bruciano le

foglie delle canne direttamente sul tronco spegnendoimmediatamente le fiamme per evitare che il raccoltovada in fumo. La bruciatura conferisce al succo carat-teristiche sensoriali molto interessanti. Il tronco, taglia-to in pezzi è pressato per l’estrazione del succo conun contenuto zuccherino di circa il 14% .Intervengono quindi i lieviti che possono essere

spontanei oppure selezionati in forma liofilizzata ofreschi conservati in contenitori asettici a bassa tem-peratura. La fermentazione varia tra 36 e 72 ore inbase al contenuto zuccherino, alla temperatura edalla quantità e qualità dei lieviti. Frequente è il siste-ma “sour mash” (infuso acido) con l’utilizzo di partedel prodotto fermentato di fresco per iniziare la fer-mentazione di una nuova partita di succo di canna.La distillazione avviene principalmente in distilla-tori a colonna per l’industria con un grado alcolicodi circa 85° ed in alambicchi tradizionali in rame afiamma diretta per le distillerie definite “artigiana-li” dove si raggiungono 70° alcolici.La maggior parte della cachaça è ridotta a 38/40° mediante aggiunta diacqua demineralizzata ed è bevuta giovane, bianca.Alcune distillerie sperimentano invecchiamenti di piccole quantità di cacha-ça da uno a tre anni in botti o tini di legno di rovere dalla capacità chevaria tra 300 e 30.000 litri. Si utilizzano quercia bianca statunitense oppu-re alcune qualità di quercia brasiliana quali amendoin, balsamo, ambu-rana e jequitibà. La cachaça gialla, come è chiamato il prodotto invecchia-to, è normalmente imbottigliato a 45-48°.La cachaça viene utilizzata in un cocktail famoso in tutto il mondo che hamoltissime versioni, particolarmente piacevoli. Ci riferiamo alla “caipirin-ha” la bevanda tropicale per eccellenza. Il suo nome deriva da caipira chesignifica abitante di campo, contadino, uomo semplice. Di fatto il cock-tail caipirinha è tra i più semplici da preparare e da apprezzare ed è com-posto, nella versione classica da cachaça, zucchero e lime. Un’altra bevanda popolare soprattutto in Brasile è la “batida” che signi-fica battitura o anche “Bossa Nova”. La più conosciuta è composta dacachaça, latte di noce di cocco (che può essere sostituito da succo di frut-ta tropicale) e zucchero di canna. E’ il cocktail fresco, preparato al momen-to sia da venditori ambulanti sulle spiagge di Rio de Janeiro, sia nel piùpiccolo bar del più remoto angolo del Brasile. Tra le marche di cachaça che hanno conquistato il mondo citiamo Mullerde Bebidas con Pirassununga 51 che ha il 33% del mercato estero. Ladistilleria è circondata da piantagioni di canna così come Pitù. La distil-leria Ypioca fondata nel 1843 utilizzò inizialmente un alambicco in cera-mica. La cachaça più venduta in Italia è Nega Fulo con la sua caratteri-stica bottiglia impagliata.

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Dopo aver trattato, su questestesse pagine, il tema dell’ab-binamento acqua – cibo per

quanto riguarda gli antipasti, i primipiatti, nonché i secondi di pesce, con-tinuiamo l’approfondimento di que-sto affascinante argomento rivolgen-do la nostra attenzione ai secondipiatti a base di carne. Come abbia-mo più volte ricordato, acque cheappaiono piacevoli da bere a tuttele ore del giorno acquistano un par-ticolare interesse se correttamenteabbinate: ampliando ed esaltando lapiacevolezza che regalano al palato. Fra le molteplici acque attualmentereperibili sul mercato ve ne sono,infatti, alcune in grado di valorizza-re al meglio le peculiari caratteristi-che organolettiche delle differenticarni presenti, ogni giorno, sullenostre tavole. Queste ultime posso-no essere, innanzitutto, distinte incarni rosse ed in carni bianche, peressere poi ulteriormente differenzia-te a seconda delle modalità con lequali sono state cucinate. Esistono, infatti, cotture relativamen-te semplici, come quelle alla griglia,ovvero a fuoco diretto, che non pre-vedono l’impiego di grassi aggiunti,ed altre molto diverse come i bollitimisti e le fritture. Troviamo, poi, lepiù diffuse carni cotte in padella edal forno, ma anche quelle sottopostea cotture più “importanti” come i bra-sati e gli stufati. Ai fini della ricercadell’abbinamento ottimale con leacque è necessaria, come accade perl’accostamento al vino, un’attentadisamina delle peculiarità del cibo,

effettuata attraverso l’esame visivo,olfattivo e, possibilmente, gustativodi quest’ultimo. E’ naturalmente indispensabile, daparte del sommelier, la consapevo-lezza dei “meccanismi” che consen-tono un abbinamento equilibrato delcibo non solo con le varie referenzeenologiche, ma anche con le differen-ti tipologie di acque, locali, nazio-nali o internazionali, disponibili sulmercato. Il sommelier, inoltre, comeaccade per il vino, dovrebbe avereuna certa familiarità con le caratte-ristiche di queste ultime, ottenuta,almeno, attraverso un’attenta lettu-ra delle etichette che ha a disposizio-ne presso il locale in cui opera, sianoesse solamente una o due, oppure inquantità sufficiente alla compilazio-ne di una specifica “Carta delleacque”.Vanno considerati anche gli

aspetti organolettici, nonchèquelli “dietetico – terapeutici”,anche molto diversi fra le oltre300 tipologie di acque attual-mente commercializzate nellanostra penisola (“digestive”,“ricostituenti”, “purgative”,“fluorate” etc.). A questi siaggiungono anche le specifichetecniche di servizio delle acque,che presentano alcune peculia-rità proprie, nonché le nozioniinerenti le temperature alle qualivanno proposte in tavola. Taliconoscenze, oltre ad aumentareil proprio bagaglio professionale,permettono un approccio al clien-te da parte del sommelier sicu-

ramente più sereno e consapevole.Anche per quanto riguarda i secon-di di carne le peculiarità dell’acquache andremo a valutare, ai fini delcorretto accostamento con il cibo,sono la mineralizzazione, cioè la tipo-logia dei sali in essa disciolti ed il resi-duo fisso, ovvero la loro quantità, maanche la percentuale di anidride car-bonica presente nella stessa. Per lacarne, invece, prenderemo in consi-derazione, come per gli altri alimen-ti, gli stimoli meccanici, quali l’un-tuosità, quelli chimici, spesso dovu-ti anche alla speziatura ed ovviamen-te quelli gustativi, cioè i sapori pri-mari: dolce, salato, acido, amaro edumami, quest’ultimo sempre mag-

Acqua: con le carni

dev’essere leggeradi Davide Oltolini

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giormente considerato nel mondodella degustazione. In linea di mas-sima con le carni potrebbe risultareottimale l’impiego di una mineralecosiddetta di collina, tipologia cheidentifichiamo con un’acqua “legge-ra” dal limitato contenuto di calcio ecarbonio. Entrando maggiormente nel merito,ma sempre limitandoci, come è ovvio,all’indicazione di concetti di caratte-re generale, andremo ad orientarel’abbinamento in funzionedella disponibilità dicarni bianche

piuttosto che di carni rosse. Per que-ste ultime potremmo optare per delleacque dal residuo fisso, comunquesuperiore ai 300 mg/l, leggermenteeffervescenti o effervescenti, perquanto riguardo il contenuto in ani-dride carbonica. Ben più ampio lospettro di possibilità di accostamen-to in riferimento alle carni biancheche ben si sposano, a seconda dellemodalità di esecuzione, con buona

parte delle acqueoligominerali (oleggermentemineralizzate)

e mediominera-li e, indicativa-

mente, con quelleche presentano un

residuo fisso tra i 200 edi 1.000 mg/l. A differenza

delle carni rosse, inoltre, lecarni degli animali da corti-le, e comunque galline, cap-poni, polli, anitre, tacchini,

faraone, oche, piccioni e coni-gli possono essere validamente

degustati anche con acque piat-te, ovvero senza l’aggiunta di ani-dride carbonica, né rinforzate conil gas della sorgente. Prendendo inesame i diversi abbinamenti in rife-rimento alle differenti modalità dicottura, con una bistecca di manzoai ferri, che presenta un’avvertibiletendenza dolce determinata dal gras-so e dal sangue ed una leggera sapi-dità, potremmo, ad esempio, optareper un’acqua oligominerale legger-mente effervescente, dal residuo fissoche non deve, però, essere inferiore

ai 350 mg/l. Per un bollito misto, dalmaggiore tenore in grasso e dallaminore sapidità, sceglieremo unamediominerale leggermente efferve-scente, con un residuo fisso, comun-que, vicino al limite inferiore previ-sto da questa tipologia. Con una cotoletta alla milanese, ricet-ta regina della cucina ambrosianache prendiamo in considerazione inqualità di vero e proprio emblemadelle fritture di carne, ci orienteremosempre verso un’acqua mediomine-rale la quale, in riferimento al conte-nuto in anidride carbonica, dovrà,però, essere effervescente. Questoper contrastare adeguatamente lecaratteristiche organolettiche datedalla panatura e, soprattutto, dallafrittura nel burro, ovvero una rile-vante tendenza dolce accompagnatada una notevole quantità di grassiaggiunti. Tali sensazioni potranno, infatti,essere mitigate dal, seppur lievissi-mo, livello di acidità della bevanda,ma anche dalla pungenza di quest’ul-tima, da ricondursi, appunto, allapresenza di CO2. Grande variabilitàpresentano, poi, le cotture di carnein padella ed al forno e, conseguen-temente, i relativi accostamenti conle acque che valuteremo di volta involta, seguendo le regole generali pre-cedentemente espresse. Per i bra-sati, gli stufati, i piatti a base di sel-vaggina in genere e le preparazioniche, comunque, richiedono grandicotture ci orienteremo verso un’ac-qua effervescente, dal residuo fissorigorosamente “importante”.

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Di tutti gli alimenti c’è ne è unosolo che si lega indissolubil-mente al vino. Questo è l’an-

guilla. Da Comacchio a Tokyo, infat-ti, la tradizione vuole che, per uccide-re l’anguilla, venga fatta prima forte-mente ubriacare (meglio se nellaMalvasia, dice qualcuno!). Di tutti ifigli (e le figlie) della Terra da mangia-re l’anguilla è decisamente la più par-ticolare. Simile ad una biscia, ma dallecarni bianche e prelibate, l’anguilla èl’unico pesce che viene portato a casaancora vivo. Nelle campagne di quasitutte le regioni d’Italia, fatta eccezio-ne forse solo per la Liguria, che vantaaltre tradizioni culinarie, fino a nonpochi anni fa c’era una tinozza nellecucine che serviva proprio a mante-nere in vita l’anguilla, sgusciante, finoa pochi attimi prima di essere immer-sa nell’alcol, per farla stordire, per poiucciderla, con un taglio netto del collo. L’anguilla va scuoiata viva. E su que-sto particolare, su cui è bene soffer-

marsi almeno qualche riga, si sonodisputate diverse discussioni colte,come quella fra Spallicci, OlindoGuerrini, e il padre della cucina ita-liana, Pellegrino Artusi. Guerrini, nellelettere all’Artusi, scrive infatti: “icomacchiesi spellano (scorzano dico-no loro) le anguille grosse, ma lascia-no la buccia alle minori, contentan-dosi di lavarle e di strofinarle per levar-ne lo smegma fastidioso che le rive-ste e così fanno pressoché tutti gli abi-tanti dei luoghi poverissimi delle valli.Non nego che l’anguilla mezzana o pic-cola, non spellata, rimane più sapo-rita, ma di quel sapore speciale cheai comacchiesi, abituati, non ripugna.E’ come l’odore di selvatico di cui moltiamano anche l’eccesso. Quanto a me,preferisco spellare anche le anguilleminori” (Meldini, in G. Pozzetto,L’Anguilla, Panozzo Editore, pag. 130).Ma su questo torneremo. L’altro motivo per cui l’anguilla si legadecisamente al vino è la sua ricchez-

Il lungo viaggio

delle anguilleNASCONO NEL

CARAIBICO MAR DEI

SARGASSI, POI

PERCORRONO SEIMILA

CHILOMETRI TOCCANDO

LE COSTE

DELL’AMERICA,DELL’AFRICA E INFINE

QUELLE DELL’EUROPA.

di Letizia Magnani

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IL LAVORIERO: ECCO COME FUNZIONAIl lavoriero è la struttura fondamentale dell’attività di pesca nellevalli lagunari. Nel lavoriero tradizionale particolari incannicciate(grisole), infisse nel fondo lagunare e sostenute da un’intelaiaturadi pali e pertiche, delimitano un perimetro cuneiforme nel qualeuna serie di bacini triangolari, come punte di freccia, comunicantifra loro, consentono la cattura differenziata del pesce. Nel corsodel tempo dal lavoriero primitivo di canna si è passati a quellomoderno in cemento e metallo, più facile e rapido da costruire.In autunno l’acqua del mare viene fatta entrare in valle permezzo dell’apertura delle chiaviche poste sui canali di comuni-cazione. L’istinto riproduttivo stimola i pesci sessualmente maturidelle valli a risalire, lungo i canaletti interni detti covole, le correntidi acque marine affluenti, più calde e ossigenate di quelle vallive,per raggiungere il mare. Nella sua migrazione il pesce s’imbatte nei lavorieri allestiti nellestazioni di pesca e, attraverso le aperture A e B del botteghino(come indicato nell’immagine), passa nel colaùro vero. Il pescebianco (cefali, orate, spigole) e le anguille s’introducono, attraver-so la bocca di cento, nella baldresca. Le anguille, grazie all’assen-za delle scaglie, incuneandosi per la coda riescono ad attraver-sare il fitto cannicciato della baldresca, giungendo nella cogolarae, successivamente, attraverso le aperture C arriva nelle otele:Qui il cannicciato del lavoriero, spesso fino a trenta centimetri, neimpedisce la fuga. La funzione del lavoriero, quindi, non è soloquella di intrappolare i grossi contingenti di pesci in migrazione,ma serve anche a separare il pesce bianco, che si ferma nellabaldresca, dalle anguille, raccolte nelle otele.

za di grasso. Per questo dopo averlamangiata, cucinata nei più vari modipossibili che la tradizione, soprattut-to di valle, ci ha lasciato in dono, ser-virà bere un bicchiere di vino in gradodi ripulire la bocca. E anche in que-sto caso il territorio aiuta. Partiamoquindi dal territorio.

IN VIAGGIO A COMACCHIO, LA PICCOLA VENEZIA Da queste parti, nella bassa, sfocia ilPo, ed è qui che, per magia, sono nativini di terreno, come quelli del BoscoEliceo doc, che hanno la peculiaritàdi pulir la bocca dai cibi grossi e gras-si di cui questo spicchio di mondo èricco. Si tratta di pesci di palude dalsapore forte e di anguille, che passa-no molti anni della loro vita nei fon-dali melmosi delle valli, ma si trattaanche di uccelli che migrano qui e chequi prendono il sapore di selvatico cheli contraddistingue.Siamo a Comacchio, nel ferrarese,dove ha origine il Fortana, un vinorosso, piacevole, grasposo, perfettocon questi cibi, perché, come direbbeil maestro Veronelli, con essi fa un“matrimonio d’amore” ma perfetto,anche e soprattutto, perché sgrassan-te. Ma potremmo essere tranquilla-mente anche e Lesina, in Puglia, inSardegna o perfino in Toscana, ovun-que, infatti, l’anguilla si lega a viniacidi di terreno, che sanno, primaancora che dissetare, pulire. Tutto daqueste parti, vino compreso, nasce trale nebbie, che sono spesse e frequen-ti, grigie e penetranti. Anche la vitadell’anguilla è legata alla nebbia. Lasua storia viene da lontano, nel verosenso della parola. L’anguilla nasceinfatti nel caraibico Mar dei Sargassi,dove vive, ancora piccolissima (dapochi millimetri ad alcuni centimetri)per due o tre anni. Poi si dice che sentail “richiamo del mare” e che per que-sto lo voglia attraversare tutto. Così,inizia il suo viaggio per la maturazio-ne. E tocca le coste dell’America, poiquelle dell’Africa, infine quelledell’Europa. Ci sono almeno tre ceppidi anguille, ognuna poi prende la suastrada e alcune, molte, raggiungono lenostre coste, dove si annidano dentroalle valli. In Francia, nella Camargue,per esempio, ma anche in Sardegnae in Toscana e poi, naturalmente, nellevalli del Po, nell’area veneta, più anord, e infine a Comacchio. Qui leanguille vivranno per almeno diecianni e diventeranno mature, scure,grosse e lunghe come bisce, masoprattutto mature sessualmente. Daqui, infatti, dopo dieci o quindici anni,tenteranno di scappare, uomo per-

1 - BOTTEGHINO

2 - COLAÙRO VERO

3 - BOCCA DI CENTO

4 - BALDRESCA

5 - COGOLARA

6 - OTELE

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mettendo, per ritornare al mare. Solonel Mar dei Sargassi, infatti, a circa6 mila chilometri dalla piccola Veneziale anguille possono deporre le uova percontinuare la specie e poi morire. Sitratta di una storia di avventura e disperanza a cui è legata un’altra storia,quella del ciclo vitale dell’uomo.

VITA E MORTE IN VALLE Nella valli veneziane e più giù, nellapiccola Venezia, l’intera vita è scandi-ta dai tempi della valle, dai suoi umori,dai suoi colori. I casoni sono ancoralà, fermi nel tempo, a testimoniare,oggi che il turismo è arrivato ancheda queste parti e che la produzioneindustriale, anche delle anguille, hapreso il sopravvento su quella natu-rale, che fino a non molti anni fa eranoproprio i tempi della natura a scandi-re la vita. In mezzo alle valli, infatti,stavano per mesi gli uomini, il cuiunico sostentamento era pescare leanguille, impedendo loro il ritornoverso il mare. Sono molti e ingegnosii marchingegni inventati per impedi-re a queste “bisce d’acqua” di torna-re in mare aperto. Si chiamano lavo-rieri e sono reticoli e steccati di legnoche fanno in modo di imprigionare persempre in valle le anguille. La valle è quindi, per le anguille e pergli uomini, il luogo della vita, ma ancheil luogo della morte. Infiocinate nottetempo, durante “lo scuro” di luna, ilmomento che precede il novilunio,quando aumenta l’afflusso di acquamarina nel bacino di acqua prevalen-temente dolce, le anguille venivanoportate nei casoni, dove le donne, aritmo continuo, le sgozzavano e le infil-zavano nei lunghi spiedi di metalloche poi venivano fatti cuocere nei forni,sempre caldi. Poi avveniva la marina-tura e la salatura, con alloro e sala-moia, altre spezie, poche, e l’aceto o ilvino, per la conservazione. Chi ruba-va veniva punito con la vita. Le teste,anche quelle, venivano mangiate, per-ché dell’anguilla, come del maiale, sidice da queste parti, non si butta vianiente.

LA ZUPPA COI BECCHI D’ASINOE’ per questo che il brodetto (o lazuppa) da queste parti si chiama anco-ra “coi becchi d’asino”. Perché ai pove-retti venivano date solo le teste e lorole facevano bollire a lungo, con aglioe cipolla abbondanti, fino a che nonne usciva un succulento e corposobrodetto, nel quale galleggiavano, conironica e spesso macabra espressio-ne, le sole teste delle anguille, chesembravano, appunto, tanti “becchid’asino”. Non era questo il solo mododi cucinare l’anguilla. L’Italia è riccainfatti di ricette della tradizione. Lamarinatura è sempre molto leggera,per non rovinare la carne, delicata ebianchissima, ma anche ricca di gras-so. Più importante è invece la cottu-ra, che viene consigliata a fuoco vivo,sulla brace, al forno, perché questecarni, che hanno in sé qualcosa di dia-bolico, vengano spurgate completa-mente. Fra le prelibatezze più grandi,che hanno fatto sognare, addirittura,principi, re e papi (Papa Pio V adora-va le anguille e le voleva “ubriache”,uccise cioè nel vino) ci sono l’anguil-la con polenta, che trasuda tuttala ricchezza di questo piatto sen-suale e corposo e l’anguilla frit-ta, tagliata a tocchetti, natural-mente con la pelle che “scoc-chia” sotto i denti. E’ così che aComacchio viene ancora servital’anguilla nei ristoranti, ora pienidi turisti, nei quali, però, si riesceancora a mangiare come insegna latradizione. A differenza del passatooggi non si friggono più le lische, chei vecchi chioggiotti e comacchiesi defi-niscono ancora “prelibate”, vere lec-cornie di tempi in cui era la fame aparlare, così come non si ricopronopiù gli zoccoli di legno con la pelle del-l’anguilla, anche perché ormai la vitain valle è molto cambiata, come è cam-biata quella dell’anguilla. L’industrializzazione infatti è arrivataanche da queste parti e ha violenta-to i ritmi e i riti di un società che nonc’è più. Ma se l’anguilla riesce a cre-scere in cattività, allevata con mangi-

mi sintetici (anche se questo ne peg-giora di molto il sapore, visto che l’ali-mentazione naturale prevede unadieta a base di piccoli gamberetti divalle e di altri pesci il cui sapore e lacui corposità è il segreto della parti-colarità delle carni dell’anguilla), nelchiuso degli allevamenti non riesce ariprodursi, perché per farlo, ha biso-gno di riattraversare i mari e di anda-re lontano, lontano, fino a giungerenel Mar dei Sargassi, nelle cui profon-dità avviene da sempre il miracolodella sua vita e della sua morte.

L’ANGUILLA SECONDO GRAZIANO POZZETTO All’anguilla Graziano Pozzetto, un eno-gastronomo romagnolo, che ha in que-sti anni descritto e classificato la cul-tura culinaria della nostra comunedolce e solatia terra natia con decinedi opere di grande spessore, ha dedi-cato un volume intero che raccoglie,

storie e ricette, più di cinquecento, daltitolo forse non molto originale, machiaro “L’anguilla (Anguilla anguilla)”,edito da Panozzo Editore. Si tratta diun libro importate e curioso, che rac-conta la tradizione culinaria, regioneper regione, legata all’anguilla e chemette in evidenza come la modernitàabbia talvolta grandi responsabilitànel cambio dei gusti, come nel casodell’anguilla, che, scrive Pozzetto, vaassolutamente tutelata, perché baci-no del gusto, ma anche della cultura.

� Un casone di valle � Le Valli di Comacchio

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A850 chilometri da Dar Es Salaam, in Tanzania, c’è Mtwango, unvillaggio immenso nel cuore della savana africana. Qui vivono, madire sopravvivono è forse più appropriato, decine di bambini molti

dei quali orfani. Malattie e denutrizione sono le principali cause di morteper questi bimbi. Da quattro anni l’Associazione italiana sommeliers, unitaal generoso contributo di alcuni privati, porta ai piccoli di Mtwango assi-stenza medica, medicinali, generi alimentari, giocattoli e un sorriso. In que-sta regione dell’Africa, infatti, manca l’indispensabile e ogni più piccola esi-genza quotidiana rappresenta spesso un problema insormontabile che,senza un aiuto, sarebbe impossibile risolvere. Ecco allora che grazie a “Karibu insieme per crescere O.n.l.u.s.”, associa-zione di volontariato nata con lo scopo di aiutare questi bambini, è statocostruito un edificio in cui i piccoli orfani vengono vaccinati e visitati ognigiorno da un medico che li cura e con una adeguata prevenzione li strap-pa a malattie e sofferenze. L’Ais sostiene direttamente questa iniziativa:tutti noi sappiamo infatti quanto sia importante la solidarietà in generale.Lo è ancora di più quella mirata e diretta, dove cioè si può toccare con manoil frutto dell’aiuto offerto dalla collettività. Ciò che per noi occidentali è scontato, nel cuore della savana africana è unqualcosa di sconosciuto: un medicinale, un semplice pallone, una biciclet-ta, con cui i bambini possono giocare e dimenticare per un attimo i moltiproblemi che li affliggono. Ma parliamo anche di generi alimentari, di acqua potabile, di un trattore

con rimorchio per trasportare i bimbi da unpunto all’altro del villaggio. Parliamo della loroistruzione, delle decine di volontari che ognianno si alternano a Mtwango per aiutare chiè meno fortunato e che una volta tornati inItalia conservano vive le immagini e le emo-zioni di quegli occhi, di quei sorrisi, dei bam-bini cui anche un piccolo gesto può salvare lavita o dare la possibilità di affrontare il futu-ro con speranza e dignità. Un sostegno eco-nomico serve a fare sentire questi bimbi menosoli. Per vedere il lavoro fin qui svolto dal pro-getto di beneficenza, è possibile consultare ilsito www.karibu-insieme.com mentre l’indi-rizzo e-mail è info@karibu-insieme-com. L’Aisnon si ferma, ma prosegue su questa stradaed ogni aiuto che si aggiungerà al nostro con-tributo sarà certamente ben accetto. Grazie!

Ais for Africadi Francesca Cantiani

� Le conchiglie dell'OceanoIndiano diventano articoli da regalo

� Uno dei piccolissimi orfani� Una visita nell’ambulatorio � Grazie al contributo dell'AIS è stato assunto un medico locale

� A Mtwango può capitare che un elefante ti attraversi la strada

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� L'ingresso dell'ambulatorio

� Nella fase di costruzione del dispensario sono stati coinvolti anche gli uomini del villaggio

� Una casa di paglia e fango

� I bambini di Mtwango

� Il dispensario a lavori ultimati � Il dispensario è una struttura ''polivalente'' e viene utilizzata anche per celebrare la messa alla domenica

� I piccoli alunni di Mtwango. Molti dei loro genitorisono stati vittime dell'AIDS

� Per giocare a calcio ci si organizza con palloni di fortuna

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La frase è uno dei classici che condiscono una serata fra amici o maga-ri una discussione fra parenti: “Lo sapete che vi dico, va a finire chemollo tutto e me ne vado a far vino in Toscana!”. Carla Benini ed Edoardo

Ventimiglia, moglie e marito, forse non l’hanno neanche detto, di sicuro l’han-no fatto…Lui documentarista nella vecchia azienda romana di famiglia (suo nonno erastato il primo cameramen di Alfred Hitchcock), lei agronoma trentinaimpegnata fra lavori di rappresentanza e di ufficio, nel 1990 sono arrivatinel vasto entroterra di Grosseto ed hanno fondato la loro azienda, “sasso-tondo”, in un terreno di 72 ettari situato in una zona caratteristica dellaToscana, fra i comuni di Sorano e Pitigliano. In quest’area “marginale”della Maremma a dominare tutto è il tufo, materia leggera e particolarissi-ma il cui continuo modellarsi ha creato profili scoscesi, un susseguirsi diterre alte intercalate da autentici strapiombi scavati da corsi d’acqua inco-stanti.In meno di vent’anni Carla e Edoardo hanno trasformato una tenuta semiab-bandonata in un’impresa modello, condotta da subito con i metodi dell’agri-coltura biologica, dove alle colture permanenti – vite e olivo – si affiancanoi seminativi, i pascoli, il bosco. In particolare i vigneti occupano oggi una

superficie complessiva di circa 10 ettari: 8 ettari a baccarossa (con prevalenza di ciliegiolo, sangiovese e merlot) edue ettari a bacca bianca (trebbiano, greco e sauvignon).Se vogliamo una scelta coraggiosa in una zona, quella diPitigliano, con una radicata tradizione di bianchi prodot-ti in cantine cooperative.Nel 1997 la prima vendemmia nella cantina appena ristrut-turata, seguita con altrettanta emozione dalla prima bot-tiglia. Da allora un impegno continuo nello sviluppo e nellacommercializzazione, con l’aiuto di pochi e fidati collabo-ratori, a partire dall’amico ed enologo Attilio Pagli.Assolutamente caratteristica è la cantina sotterranea delsassotondo, completamente scavata nel tufo in una balzadei terreni aziendali. Nell’ultima stanza, a circa 14 metrisotto terra e 30 dall’ingresso, c’è il bottaio che gode così dicondizioni di umidità e temperatura ideali.

La laurea in agraria e l’esperienza professionale di Carla ha portato da subi-to, come detto, all’adozione dei metodi di coltivazione biologica. Una sceltache adesso può non stupire più di tanto ma che appena dieci anni fa eraaddirittura pionieristica. Ovviamente ad essere biologico non è il vino, che

Il vinodel documentarista

EDOARDO VENTIMIGLIA E

LA MOGLIE CARLA

BENINI, AGRONOMA,HANNO DECISO

DI CAMBIARE VITA

PER TRASFERIRSI

IN TOSCANA, DOVE HANNO FONDATO

UNA CANTINA APPREZZATA

ANCHE

DAL MERCATO STRANIERO

di Luca Carosi

L’azienda Sassotondo si estende su un terreno di 72 ettari situato in Toscana fra i comuni di Sorano e Pitigliano

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BIANCO DI PITIGLIANOUvaggio: Trebbiano 70%,Sauvignon 15%,Greco 10%, altre5%. Le uve vengono dai vignetidi Sovana allevate a cordone ea Guyot su terreni fortemetetufacei. Le uve vengonoraccolte e selezionatemanualmente e vinificateseparatamente. Il pigiatosubisce una macerazione afreddo con le bucce di circa 12ore. Una piccola parte delleuve è fatta fermentare inbarriques; le altre fermentano inacciaio a temperaturacontrollata intorno a 16º. Altermine della fermentazione ilvino viene lasciato sui lieviti percirca 1 mese e quindiassemblato. Viene posto incommercio dopo circa duemesi di affinamento in bottiglia.

CILIEGIOLOUvaggio: Ciliegiolo 90%,Alicante 10%. Le uve vengonodai vigneti di Sovana e diPitigliano; vigneti in partevecchi (35 anni) in parte nuovi,allevati a Guyot con sesto diimpianto che varia da 3000 a4500 piante per ettaro. Le uvesono raccolte e selezionatemanualmente. Lafermentazione avviene senzal’aggiunta di lieviti e dura,compresa la macerazione, tra i15 e i 20 giorni. Matura peralcuni mesi in acciaio e vieneposto in commercio dopo 3mesi di affinamento in bottiglia.

SOVANA ROSSOSUPERIOREUvaggio: Sangiovese 60%,Ciliegiolo 30%, Merlot 10%. Leuve vengono dai vigneti diSovana e di Pitigliano; vigneti inparte vecchi (35 anni) in partenuovi, allevati, i vecchi a Guyotdoppio con sesto di 2500/3500piante per ettaro, i nuovi acordone speronato e alberellocon 6000 piante per ettaro. Leuve vengono raccolte eselezionate manualmente ed idiversi vitigni vengono vinificatiseparatamente. Lafermentazione avviene senzal’aggiunta di lieviti e dura,compresa la macerazione, tra i25 ed i 30 giorni. I vini maturanoparte in acciaio e parte, per8/12 mesi, in barriques.Successivamente assemblatoed imbottigliato, il vino è postoin commercio dopo almeno seimesi di affinamento in bottiglia.

I VINI DI SASSOTONDO

è il prodotto trasformato, ma l’uva dalla quale lo si ricava. Quest’ultima insassotondo cresce senza il ricorso a fitofarmaci o altri prodotti di sintesi,come ricorda una piccola ma importante annotazione sulle etichette. Cinquantamila bottiglie: a tanto ammonta la produzione tipo anno per anno,con una destinazione che riflette la vocazione cosmopolita di questa azien-

da. “Da subito – ci spiega Edoardo Ventimiglia – abbiamocreduto nell’attività all’estero, e dopo oltre un decennio possodire che abbiamo avuto ragione, anche se la situazione èmolto più complessa di quanto non dicano le cifre, a comin-ciare da quella più indicativa, vale a dire il rapporto fra ilvenduto dentro e fuori dall’Italia”.Al momento il 40% delle bottiglie prende strade oltre con-fine, “una proporzione paradossalmente simile a quella cheavevamo alla fine degli anni Novanta. Paradossalmente per-ché il mercato è invece cambiato completamente. Nei primianni della nostra attività esisteva un vero e proprio climadi euforia intorno al vino italiano ed era persino difficile sod-disfare le richieste che giungevano dall’estero. Ad assorbi-re la produzione c’erano soprattutto il mercato americanoe quello tedesco, ricordo che nel Duemila quasi la metà dellanostra vendemmia finì coll’uscire dall’Italia”.

Poi sono arrivati momenti più difficili, un po’ per le difficoltà dell’economiaa livello globale, un po’ per ragioni molto più specifiche. “Negli ultimi anni –racconta Carla Benini - si sono affacciati sul mercato produttori molto agguer-riti di altre nazioni, penso a Cile e Sudafrica, ma anche ad Argentina ed

� Carla Benini ed Edoardo Ventimiglia

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Australia. Un’offerta basata su una qua-lità a volte discreta e prezzi spesso moltobassi che ha inevitabilmente influito sulmercato, compreso quello di aziendecome la nostra”.Il risultato è stato una diversa localizza-zione del commercio estero: “La geo-grafia delle nostre esportazioni è cam-biata con la costante del mercato statu-nitense. È invece diminuita di molto l’at-tività in Germania, dove c’è stata unagenerale contrazione del consumo di vinoitaliano. In compenso si sono aperti spazimolto promettenti nell’Est europeo, acominciare dalla Russia, mentre regi-striamo un crescente interesse anche inpaesi come la Gran Bretagna, la Svizzerae la Danimarca. Voglio però dire – sotto-linea Carla – che per restare competiti-va un’azienda piccola come sassotondoha dovuto sempre e comunque batteresul tasto della qualità del prodotto, l’uni-co biglietto da visita che ti garantiscela presenza sul mercato a prescinderedai momenti e dalle mode”.Per Est non si intende solo quello delnostro continente ma anche il gigante-sco Estremo Oriente… “La Cina – diceEdoardo – è indubbiamente un merca-to di potenzialità sconfinate anche per ilvino, però non intendiamo certo ripete-re gli errori che sono stati compiuti negliultimi anni. Penso alle costose spedizio-ni propagandistiche senza avere poi dellesolide basi sul territorio per la com-mercializzazione del prodotto, una retedi diffusione necessaria dappertutto edaddirittura indispensabile in una realtàchiusa come quella cinese, dove il bido-ne è spesso dietro l’angolo. Per quantoci riguarda seguiamo una politica di pic-coli passi, con l’individuazione di uno opiù referenti locali totalmente affidabili.Una volta raggiunto questo primo risul-tato, passare dalle poche bottiglie attua-li a volumi molto più elevati diverrà unaprospettiva finalmente concreta”.

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Dall’ “Abbadia Bianca”, proba-bilmente identica alla fran-cese “Ugni Blanc” al

”Zuzzumanello nero” di Brindisi, pas-sando per la “Caccionella” abruzze-se o ancora per il “Rossolo”, uva perla quale l’autore dice: “La trovai cita-ta fra le uve di Bergamo e delComasco. Ma credo di poco meri-to”. Sono 3666 le varietà di viti cono-sciute sino al 1877, anno nel qualevenne pubblicata la prima cataloga-zione dei vitigni a livello mondiale acompimento di un lungo e faticosolavoro di studio nel campo dell’am-pelografia da parte di Giuseppe deiConti di Rovasenda. Un lavoro incredibile, di ricerca e cata-logazione, che l’autore svolse con ilpiglio del collezionista, attraverso viag-gi, ma soprattutto sperimentazioni aVerzuolo, a pochi chilometri daSaluzzo nel cuneese, sua terra natia,dove nella proprietà “La Bicocca” col-tivò personalmente più di 3600 varie-tà provenienti da tutto il mondo. Traqueste anche l’Arneis – Corneglianod’Alba che per la prima volta fa il suoingresso all’interno dell’ampelogra-fia ufficiale, come ricorda LucianoBertello, Presidente dell’EnotecaRegionale del Roero. Il risultato fu unsaggio dal titolo: “Saggio di unaAmpelografia Universale” che oggi,edito dall’Artistica Editrice diSavigliano (Cn), ha rivisto la luce attra-verso una ristampa anastatica, chevuole, quindi, essere il più conformepossibile all’originale.L’iniziativa è stata incentivata e forte-mente voluta dal Centro per le RaritàAmpelografiche Cuneesi, intitolatoproprio all’autore del saggio in que-stione, nato ad inizio 2007 a Castigliadi Saluzzo, con l’obbiettivo di salva-

guardare le biodiversità ampelografi-che del territorio saluzzese e cunee-se insieme (vedi De Vinis Marzo-Aprile2007).L’Italia, lo si dice spesso quando siparla di ampelografia, possiede unavarietà di uve pressoché sterminata,croce e delizia della nostra vitivinicol-tura, in grado, quindi, di mostrareuna ricchezza non comune ed altempo stesso di disorientare appas-sionati e consumatori dei vini delnostro paese. Come nota lo stessoautore: “tutte le regioni anche ristret-te ad un piccolo territorio hanno gene-ralmente uve diverse tra loro”. Doveva essere proprio questa unadelle ragioni che spinsero l’autore, afine ottocento, a cercare di fare ordi-ne e chiarezza all’interno del panora-ma ampelografico nazionale ed inter-nazionale, per far si che un patrimo-nio di grande valore non si disperdes-se nei tanti, troppi, sinonimi che desi-gnavano degli stessi vitigni. A questoproposito, Giuseppe di Rovasenda,all’inizio del proprio saggio, se la pren-de, in particolare, con quelli che chia-ma “pepinieristi”, dal francese “pépi-niériste”, cioè vivaisti, che avevano,a suo dire: “la mania di impinzare iloro cataloghi di nomi diversi”, pro-babilmente in male fede così che abu-sando della fiducia dei compratorimettevano “nomi nuovi a piante vec-chie”. L’autore, da sempre conside-rato un grande ampelografo, non arri-vò subito allo studio ed alla ricercain questo campo: come ricorda nel-l’introduzione a questa nuova edizio-ne la pronipote Maria Lucrezia Melzid’Eril, si dedicò prima alla vita pub-blica come diplomatico dello StatoSabaudo tra Vienna, Costantinopolie Firenze, nonché alla passione per

Il primo elenco mondiale dei vitigni è targato

Saluzzodi Alessandro Franceschini

� Un'illustrazione d'epoca

� Il frontespizio del libro

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Il Molino di Grace loc. il Volano-Lucarelli - 50020 Panzano in Chianti (FI) Italia - Tel. +39 055 8561010 Fax +39 055 8561942 - www.ilmolinodigrace.com - [email protected]

Dalle Terre

di Panzano

I grandi vini

del Chianti

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l’alpinismo e, solo in seguito, si riti-rò tra le sue terre saluzzesi proprioper coltivare questa passione, conmeticolosità e precisione tali da farlodiventare membro del comitato cen-trale ampelografico italiano.Non un semplice “Catalogo genera-le delle uve”, per usare le parole delsuo autore, ma uno spaccato deglistudi di fine ottocento di grandeimportanza ancor oggi, sia per glioperatori del settore sia per i sempli-ci appassionati. La sezione del libro denominata“Ragione dell’Elenco” è, infatti, riccadi spunti e considerazioni che, a piùdi cento anni di distanza, fanno anco-ra riflettere. Si sottolinea in più punticome lo stato di confusione regni siain Italia sia all’estero circa la cono-scenza dei vitigni coltivati, tanto che“in parecchie regioni italiane edanche straniere, non solo molti pro-prietari terrieri ignorano le principa-li e le migliori uve della propria regio-ne, ma gli stessi vignaiuoli e mezza-dri non ne conoscono molte fra quel-le che coltivano”. Ecco perché, secondo l’autore, sicorre il rischio di dedicare sforzo edattenzione ad uve di non eccelsa qua-lità e di tralasciare, magari, quelle

che potrebbero dare i migliori risul-tati. I viticultori, quindi, non dovreb-bero più concentrarsi nell’allevamen-to di viti “non meritevoli” perché“sappiamo che i vigneti più rinoma-ti per la squisitezza dei vini prodot-ti, constano tutti di poche qualità diuve”.Questa preoccupazione, più volteribadita nel libro, viene accentuataanche tenendo in considerazione ilflagello che si stava abbattendo inEuropa in quel periodo: la famosa etanto citata su qualsiasi testo di viti-cultura, filossera. Una ragione in piùper evidenziare l’utilità del suo lavo-ro e dell’ampelografia in generale:“perché, almeno, se viene il naufra-gio, si sarà arrivati a conoscere qualisiano gli oggetti più preziosi che sidovrà cercare di salvare nella fieraburrasca che ci minaccia”. Ecco perché ritiene fondamentaleconoscere quali siano, con chiarez-za e sgombri da errori di dicitura, imigliori vitigni da coltivare e succes-sivamente innestare sui vitigni ame-ricani, poiché “a quanto pare”, sono“la principale tavola di salvamen-to”. Giuseppe di Rovasenda tralascia,dichiarandolo, da questo primo cata-logo dei vitigni mondiale, volutamen-

te, le tantissime varietà americanesegnalate ai tempi, nonostante l’uti-lità per combattere la filossera, poi-ché “se non ci costringerà il malan-no della filossera, dobbiamo sperareche in Europa non avremo mai a fareuna estesa pratica conoscenza conqueste ceppaie”. Sono infatti certamente molto resi-stenti e robuste, ma “sono lungi dal-l’eguagliare le nostre quanto a bontàdel prodotto”. Insomma, un plausova sicuramente rivolto a tutti coloroche hanno fatto sì che non si disper-desse questo corposo ed importan-tissimo lavoro che può tranquilla-mente essere considerato come unodei capisaldi all’interno degli studiampelografici mondiali.L’opera (206 pagine, prezzo di coper-tina 35 euro) è divisa in tre parti: laprima è l’elenco generale dei vitignicon le ragioni che lo hanno generato;la seconda fornisce una spiegazionedel quadro di classificazione, mentrela terza fornisce uno schema delmetodo proposto per la classifica-zione delle uve. Il volume, inoltre, èstato arricchito con le tavole di 8 viti-gni tratte dal volume "Ampélographie.Traité Générale de Viticulture" a curadi Viala-Vermorel.

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Il salutoad un amico

Ha abbandonato tutti improvvisamente senza concederci iltempo di salutarlo.A fine luglio Gianni Masciarelli, 52 anni, fondatore dell’aziendavitivinicola abruzzese che porta il suo nome, ci ha lasciato men-tre si trovava a Monaco di Baviera per lavoro.Da sempre vicino alla nostra associazione, Gianni ha reso la suacantina, nata nel 1981, tra le più note e apprezzate d’Italia. Dicerto non siamo i soli a considerarlo uno degli emblemi della viti-coltura abruzzese: la sua instancabile attività ha infatti portato ilnome della regione in ogni angolo del mondo.L’Associazione italiana sommeliers è vicino alla moglie, MarinaCvetić e ai tre figli. Siccome la memoria è l’unico Paradiso da cuiè impossibile essere cacciati, lo ricordiamo con le parole della“Guida Duemilavini 2008” che per l’ennesima volta gli ha conferi-to i “5 Grappoli”.

«Cosa dire ancora di questo vulcanico personaggio,abbonato ormai da anni a un posto in prima fila nel pano-rama dell’enologia italiana e non solo? A lui va il merito,insieme a una ristretta cerchia di illuminati produttori, diaver saputo promuovere la viticoltura abruzzese a livelliqualitativi prima inimmaginabili, conquistando consensi dipubblico e critica in tutto il mondo. Alla radice di questisuccessi, una convinzione riassunta nelle sue stesse parole:“Il vino è la linfa della mia vita”. Così, l’amore autenticoper la propria terra e per il proprio lavoro, la selezione delgiusto connubio vitigno-terroir all’interno di splendide tenu-te dislocate nelle zone più vocate d’Abruzzo sono stati gliingredienti alla base della rivincita del Montepulciano e,soprattutto, del Trebbiano nei confronti di altri vitigni piùblasonati. Nei vini di Masciarelli troviamo l’esaltazione delterritorio perfettamente coniugata a un sapiente uso dellegno, in una sintesi dalla grande personalità e longevità,di cui risultano i massimi rappresentanti il MontepulcianoVilla Gemma e il Trebbiano Marina Cvetic, annoverati –ancora una volta – nell’Olimpo dell’eccellenza».

Gianni, grande amante del Pinot Noir, riposa ora nella sua terrad’Abruzzo, quella stessa terra che l’ha affiancato nella produzio-ne delle eccellenze che tutti conosciamo.

� Gianni Masciarelli

� I vigneti di Masciarelli a San Martino sulla Marrucina, Chieti

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Rinnovato l’accordo tra Pasqua e Riva YachtPasqua, fra le principali aziende vinicole veronesi, ha rinnovato anche per il 2008 l’accordo con RivaYacht, storico cantiere nautico di proprietà del gruppo Ferretti.Grazie all’intesa, Pasqua, quale unico partner merceologico, accompagna e partecipa con i proprivini ai maggiori eventi e agli esclusivi raduni nautici degli Armatori Riva in alcune delle più suggestivelocalità del mondo.I vini Pasqua hanno già partecipato a prestigiosi appuntamenti come il Riva Trophy USA, che si è svol-to in febbraio a Miami e il Riva Trophy Europe, che si è tenuto a Palma de Mallorca lo scorso giugno.Nel frattempo, Riva è stato tra gli ospiti d’onore dello spazio Pasqua & Friends durante il Vinitaly, pre-sentando alcuni modellini delle famose imbarcazioni.I vini dell’azienda veronese hanno chiuso in bellezza la stagione dei raduni con l’annuale “Cena degliArmatori” svoltasi lo scorso 6 agosto all’esclusivo Yachting Club di Porto Cervo. Per l’occasione, ai circa 400 invitati sono stati serviti alcuni vini dell’Azienda Agricola Cecilia Beretta,punta di diamante della produzione della Famiglia Pasqua, e il nuovo Le Soraie, rosso veronese pro-dotto con uve appassite.Pasqua e Riva sembrano due mondi in apparenza lontani. Tuttavia condividono la stessa passioneper la bellezza, credono in valori come storia, tradizione e innovazione e nella capacità delle perso-ne di entusiasmarsi ed emozionarsi ancora.L’iniziativa, nata da una vera e propria passione di famiglia per il marchio Riva e le sue elegantiimbarcazioni, conferma la filosofia dell’azienda veronese di voler dare risalto alle scelte di qualità e dieccellenza e di coinvolgere un target prestigioso ed esclusivo.

Ritorna il Gran Premio del Sagrantino

Riparte la collaborazione tra Consorzio di TutelaVini Montefalco e l’Ais. Dopo la grande prova delSagrantino Day International, lo scorso 21 aprilecon 33 degustazioni in 25 città italiane e 8 metro-poli straniere in contemporanea, adesso i produt-tori umbri e i sommeliers lanciano un’altra iniziati-va di grande valore. Si tratta della seconda edi-zione del Gran Premio del Sagrantino, una sfidaprofessionale tra sommeliers per aggiudicarsi leborse di studio che il consorzio ha istituito per svi-luppare la conoscenza tecnica dei vini prodottinell'area di Montefalco: la Docg Sagrantino diMontefalco e la Doc Montefalco Rosso. Come per il 2007 sono stati istituiti tre premi: di

duemila, di mille e di cinquecento euro al primo,al secondo e al terzo classificato. Tutti i dettaglisono consultabili sul sito internet www.consorzio-montefalco.it. Sono previste due prove, una di degustazione,l'altra scritta, e potranno partecipare tutti i som-meliers che hanno fatto richiesta di iscrizione alconcorso per il Miglior Sommelier d'Italia 2008. Lagiuria del Gran Premio Sagrantino sarà formatadal presidente di Ais Umbria, Gabriele RicciAlunni, da due membri designati dalla giuntanazionale Ais di Milano, da un membro designatodal Consorzio di Tutela Vini Montefalco e dal pre-sidente del Consorzio stesso, Lodovico Mattoni.

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Fa bene all'ambiente il vino biologico, prodottoda vitigni coltivati con fertilizzanti naturali elavorati per lo più a mano: l'impatto ambienta-le per produrlo è esattamente la metà di quel-lo legato alla produzione di vino coi metodiclassici.Lo dimostra uno studio di Valentina Niccoluccidell'Università di Siena condotto su due azien-de produttrici di Sangiovese in Toscana, unacoi metodi standard, l'altra con colture biologi-che.L'impronta ecologica del primo è doppia diquella del secondo, hanno calcolato gli espertiin un lavoro pubblicato sulla rivista Agriculture,Ecosystems and Environment e riportato dalmagazine scientifico britannico New Scientist.L'impronta ecologica per produrre ilSangiovese biologico è risultata di 7,17 metriquadri contro un'impronta doppia, di 13,99metri quadri per il Sangiovese classico.L'impronta ecologica è una misura usata perconoscere l'impatto di una certa attività pro-duttiva umana sull'ambiente. Per calcolarla gliesperti senesi hanno misurato tutte le risorsenecessarie a produrre i due tipi di Sangiovese.Nel caso del biologico le operazioni sono com-piute quasi tutte a mano, la vigna è trattatasolo con sostanze naturali; nel caso delSangiovese classico tutte le operazioni, dalvigneto al consumatore, sono meccanizzate erichiedono quindi più risorse e più terra, con unmaggior impatto biologico. Questo è il primostudio che dimostra che un cibo da agricolturabiologica inquina meno e potrebbe aprire lastrada al diffondersi di produzioni vinicole ami-che dell'ambiente. (Francesca Cantiani)

Biologicofa rima con ecologico

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Dopo una lunga e significativa presen-za presso la Fiera di Vicenza, nel 2008 ilSalone Nazionale del Vino Novello“passa” a Verona e diventaAnteprima Novello, secondo un nuovoprogetto di rilancio del prodotto cheprevede: posizionare il Novello su unlivello di comunicazione e di mediati-cità rivolto agli operatori professionalied al pubblico degli appassionati; unevento e non un Salone; costruireintorno al prodotto un’atmosfera divivacità e di appeal ri-creando quelvalore aggiunto cancellato quasitotalmente negli anni da una politicaproduttiva, comunicativa e commer-ciale “spenta”, non caratterizzata enon caratterizzante; ricreare il “rac-conto del Novello” attraverso il recu-pero della sua storia e delle tradizioniad esso legate; recuperare attenzionee consenso sul prodotto da parte deimedia, degli opinion leader, delmondo delle enoteche e della ristora-zione.L’evento si svolgerà a Verona dal 4 al6 novembre presso il Palazzo dellaGran Guardia, nella storica e centralis-sima Piazza Bra.Alla mezzanotte del 4 novembre latradizionale festa del déblocage, incollegamento audio/video con unapiazza romana dove verrà organizzataun’altra festa con testimonial produt-tori, protagonisti della ristorazione edell’editoria.

Il Novellosbarca a Verona

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“Destagionalizzati per darsi un piacere tutto l’anno”. E’ questa la sentenza del mercato degli spumanti chediventa il leitmotiv del Forum Spumanti 2008, giunto alla sua quarta edizione nella nuova formula (45.ma edi-zione da quando nacque la Mostra Nazionale degli Spumanti). Molte le novità nell’edizione svoltasi ad iniziosettembre in Villa dei Cedri e nelle principali vie e piazze di Valdobbiadene, in provincia di Treviso.Gli obiettivi del direttore Giampietro Comolli sono quelli di spingere l’acceleratore sugli aspetti della culturadel bere e dell’attenzione verso il consumatore: «Un forum sempre più osservatorio di mercato e dei consu-mi, sempre più impegnato a far conoscere le differenze fra uno spumante Docg e uno Doc , fra un metodoclassico e un metodo charmat. Il Forum diventa, inoltre, sempre più istituzione super partes grazie alla colla-borazione con il Ministero delle Politiche Agricole – Dipartimento sviluppo informazione e tutela del consu-matore. In cantiere ci sono parecchie novità che non mancheranno di stupire e portare nuovi proseliti adinteressarsi del favoloso mondo delle bollicine». Il mercato, intanto, fa registrare una spinta alla destagionaliz-zazione degli spumanti. Negli ultimi 5 anni le bottiglie spedite sono passate da 230 milioni a 300 milioni (da16 milioni a 22 milioni quelle a metodo classico) come conseguenza dell’evoluzione della cultura del consu-mo dello spumante a tutto pasto.

Un piacere “evergreen”

Sottoscritto sui Colli Berici, il protocollo di intesa che dàvita al marchio Qualithos. I firmatari sono le aziendeagricole Le Pignole di Brendola, Piovene Porto Godi diVillaga e Dal Maso di Montebello, a cui si aggiunge ladistilleria Fratelli Brunello in qualità di azienda partnerper la produzione della grappa di Qualithos.Giocando sul termine “Lithos”, con cui in greco anticosi indica la pietra, Qualithos rimanda alla natura delsottosuolo dei Colli Berici, in cui convivono l’origine vul-canica e la sedimentazione marina, e all’influenzaesercitata dalla componente minerale nel terroir deiColli Berici. L’ammonite fossile diverrà così il marchiocomune con il quale i tre principali produttori presente-ranno i loro Tai Rosso (nuovo nome per il Tocai Rosso):tre vini che presentano una maggior struttura e una piùricca complessità gusto-olfattiva, rispetto alla versionepiù scarica e di pronta beva maggiormente diffusa.«Sono il frutto della nostra filosofia produttiva – spiegaper tutti Tommaso Piovene – che prevede un’attentascelta dei terreni, basse rese in vigneto, maturazioneottimale e un attento uso del legno in fase di affina-mento». Per promuovere questo approccio al vitigno Tai le treaziende si danno ora un codice di autodisciplina chefissa i principi agronomici e le pratiche di lavorazione incantina necessari a pervenire ai risultati conosciuti eapprezzati. Tra i requisiti indicati vi è l’utilizzo dell’affina-mento in legno e il periodo minimo di un anno dallavendemmia prima dell’imbottigliamento. «Il nostrointento – continua Paolo Padrin dell’azienda Le Pignole– è quello di unire le competenze per migliorare ulte-riormente i nostri prodotti, che già oggi non temono ilconfronto con i grandi vini ottenuti da uve Grenache

(di cui il Tai è stretto parente) come gli Châteauneuf-du-Pape della Côte du Rhône o i vini del Priorat inSpagna». Le tre aziende si impegnano inoltre a promuovere laconoscenza e la diffusione del Tai Rosso, in Italia e nelmondo. «È un'espressione assolutamente unica del ter-ritorio dei Colli Berici – conclude Nicola Dal Maso –che merita di essere valorizzata». A tale scopo organiz-zeranno un appuntamento annuale di promozione estanno valutando ulteriori forme di integrazione dellerispettive reti commerciali per favorire la penetrazionesui mercati internazionali.L’intesa è stata sottoscritta anche dalla distilleriaBrunello di Montegalda che realizzerà in esclusiva lagrappa di Qualithos, mentre i tre soci fondatori si dico-no pronti ad accogliere altre aziende vinicole che vor-ranno unirsi all’iniziativa.

“Qualithos”: nuovo marchioper l’eccellenza del tai rosso

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La quinta edizione del Catalogo capsule italiane- compendio sinergico delle nozioni dell’autore,del direttivo del Club collezionisti capsule e deisoci, maggiori competenti in materia - si presen-ta con una rinnovata ed elegante veste tipogra-fica oltre a 650 nuovi inserimenti.In linea con francesi e spagnoli, il cui numero diappassionati collezionisti sfiora i cinquantamila,anche in Italia la capsula ha conosciuto livelli dinotorietà di tutto rispetto (cinquemila i collezio-nisti nostrani). In undici anni di vita il Club haottenuto risultati di rilievo, inclusa la capacità diindurre le Case di Spumante ad aggiornare le cap-sule e a crearne sempre di nuove.

Si stima che nel mondo siano ben duecentomi-la le persone sedotte dal fascino delle capsule.Gli inizi di questo curioso collezionismo si devo-no ai francesi e risalgono ai primi anni Ottanta.

Grandi bevitori di champa-gne, i cugini transalpinivennero rapiti dalla comu-ne pratica dei produttori diapplicare sui tappi dellebottiglie capsule multico-lori, decorate con marchi,stemmi, che ben solletica-vano l’innato senso esteti-co dei più attenti consuma-tori.

Ma come nasce la capsu-la? I produttori di champa-gne erano afflitti da un pro-blema: nella bottiglia il pre-

zioso liquido subiva una seconda fermentazio-ne dovuta ai lieviti naturali e allo zucchero dicanna aggiunti per ottenere l’effervescenza cheben conosciamo. La pressione (6 atmosfere!) cau-sava l’espulsione del tappo. Dobbiamo ad AdolpheJacquesson, titolare di una Maison di Champagneapprezzata anche da Napoleone Bonaparte, l’in-venzione dell’odierna capsula con gabbietta, rima-sta pressoché identica dal 1844 ad oggi.

Originale e valida alternativa alle collezioni di farfalle.

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Catalogo generale CAPSULE ITALIANEdi spumanti e vini frizzanti Quinta edizione

Autore: A cura di Renato Procacci in collaborazione con il Club collezionisti capsule

Editore: AgraPrezzo: 18,00 euro

SULLO SCAFFALE di Natalia Franchi

Un gradito ritorno ai banchi di scuola senza l’assillo deilibri di testo, un tuffo nella storia più appetibile e curio-sa: l’antica Roma e i fasti dell’Impero raccontati attraver-so le abitudini culinarie del tempo. Un excursus moltocolto quello propostoci da StanislaoLiberatore, docente di Storia dell’alimen-tazione nel corso di laurea in dietisticapresso l’Università D’Annunzio di Chieti,in questo godibilissimo e pluripremiatovolume (Premio Selezione Bancarelladella cucina 2007 e Premio CulturaAbruzzo Wine “Città di Pescara”).

Primo bisogno da soddisfare per lasopravvivenza, l’importanza del ciboresta invariata nei secoli, lasciando allasua scelta il potere di distinguere clas-si e gerarchie sociali. Cibi ricchi e disostanza caratterizzavano le smodateabitudini culinarie degli imperatori e delloro entourage; opulenza ed eccessoerano l’espressione più efficace del pote-re. Una dicotomia – quella tra i ricchi che dissipavano e ipoveri nullatenenti e malnutriti – il cui tragico stridorel’Italia odierna per fortuna non conosce più.

Il volume prende le mosse dal De re coquinaria, unico trat-tato sulle regole del buon mangiare giunto integro ai nostrigiorni, contenente poco meno di 500 ricette, attribuitoad Apicius, esattore dei tributi ed esperto gourmet dellacucina patrizia, vissuto durante i regni di Tiberio e Caligola.

Amanti degli abbinamenti più azzardati (funghi cotti nelmiele e pesce mescolato alle albicocche, solo per fare unpaio di esempi), i Romani dei ceti più elevati rendevano mani-festa la propria posizione sociale attraverso l’ospitalità delbanchetto e il lusso delle portate. In tal modo affermavanoe rigettavano i modelli di identità, decretando l’oggettivabontà di alcuni cibi a scapito di altri. Nella rappresenta-zione socio-culturale costituita dal banchetto, alcune pre-parazioni assurgevano a cibo eletto. Un esempio tra tutti, ilgarum (in fondo al volume troverete alcune ricette tra-mandate da Apicius, ma non quella del garum, di cui siignorano le corrette dosi), una specie di salsa – la Cleopatradelle salse – fatta con sangue e interiora di pesce azzurrolasciati per mesi sotto sale, utilizzata per condire e insapo-rire ogni genere di piatto. Il garum era detto anche liqua-men e questo la dice lunga sul sapore che avrà avuto …..

Cibo senza tempo.

CIBI E LUXUS DI ROMA IMPERIALE Sapori, vizi e misteri delle libagioni dei Cesari

Autore: Stanislao LiberatoreEditore: Edizioni QualevitaPrezzo: 14,50 euro

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Curioso destino quello delle donne: devote piùo meno volontariamente ai fornelli, ma estra-nee agli onori gastronomici, appannaggio esclu-sivo dei maschi. E pensare che cucinare harappresentato la seconda causa di morte fem-minile dopo il parto, almeno fino all’invenzio-ne del forno. Insomma, donne in sala e uomi-ni in cucina. Nelle cucine che contano.

Ma esistono luogo e tempo in cui la ribalta culi-naria cambia genere: a Lione, negli anni Trenta,un gruppo di autorevoli e spericolate donneabbandona i fornelli di casa per cucinare neinegozi di vino dei mariti, facendone ristoran-ti stellati Michelin e decretando così la nasci-ta dell’alta gastronomia in Francia. Les mèresè l’appellativo con cui venivano chiamate. Unpo’ per la familiarità che accordavano al clien-te, un po’ per il piglio energico che le connota-va. Da loro trassero linfa vitale anche alcunigrandi chef, tra cui il padre della NouvelleCuisine Paul Bocuse. Ad Alessandra Meldolesi va dato atto di averrealizzato un affascinante affresco di un ango-lo importante della gastronomia, supportatoda una accurata ricerca storica.

Protagonista del mani-polo di coraggiose,Eugénie Brazier, dive-nuta addirittura la“santa dei gastrono-mi”, che riuscì ad otte-nere ben sei stelleMichelin, tre in cia-scuno dei suoi duelocali lionesi in rueRoyale e sul Col de laLuère – dal 1933 al1939 – chiamati “Lamère Brazier”.

Chiudono il volumealcune ricette delle

Mères, ricette di cucina semplice, ben pian-tate nel territorio. Ricette che l’autrice con ogniprobabilità rimpiange, in tempi di cucina mole-colare.

Orgoglio femminile.

EUGÉNIE BRAZIER E LE ALTREStorie e ricette delle Madri dell’alta cucina

Autore: Alessandra MeldolesiEditore: Le LetterePrezzo: 16,50 euro

Terra di contrasti, la Liguria: mare, alture, clima variega-to e atavica preferenza per la piccola e più sicura pro-prietà. Nulla si conquista senza combattere e la coltivazio-ne della vite non fa eccezione. Dura lotta anche quella

dei vitigni del Ponenteligure. L’imperialismodell’olivo determinainfatti qui, più chealtrove, il crollo drasti-co dello sviluppo vitico-lo tra Sei e Settecento.A ciò si aggiunga l’ef-fetto involutivo edemarginante della fil-lossera, che decretò larovina improvvisa deivitigni di queste terre.

La rinascita partì da unlento e faticoso percor-so di reinnesto delle vitinostrane, che si trasci-nerà fino ai primi quin-dici anni del Novecento.

Un percorso rievocato con dovizia di particolari dagli auto-ri del volume, in un nostalgico ricordo della realtà ampe-lografica del Ponente, che in un lontano passato non face-va mai mancare i suoi moscatelli sulle tavole della clien-tela ricca, nobile ed esigente.

Alla riscossa dell’attività orto-floro-frutticola specializza-ta si assiste nella seconda metà dell’Ottocento, grazie alrisanamento del territorio e all’apertura della ferrovia lito-ranea. L’eccellenza del Pigato si impone nella produzio-ne del settore.

La situazione odierna? Nonostante l’impegno di molti pro-duttori verso un’offerta di buon livello, la vitivinicolturaligure è assolutamente minoritaria rispetto alla realtà ita-liana. La Liguria si sta ritagliando un proprio spazio all’in-terno di un ristretto segmento di mercato di qualità, ali-mentato da estimatori o turisti d’élite. Conosciamoli, allo-ra, questi vini, e facciamo nostre le schede ampelografi-che proposte dal volume, perché si sa che la qualità… pre-mia.

La seduzione della produzione di nicchia.

ATLANTE DEI VITIGNI DEL PONENTE LIGUREProvincia di Imperia e Valli Ingaune

Autore: Alessandro Carassale e Alessandro Giacobbe

Editore: Atene EdizioniPrezzo: 20,00 euro

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Io n

on

ci

sto

Lo so che non è facile, né popolare, in un’Italia chesi vanta essere, come la vulgata dominante e poli-ticamente corretta prescrive, europeista, dare prova

di euro-scetticismo. Il che non significa unicamente spa-rare a zero sulla moneta unica rimpiangendo i tempiaurei(!) della nostra povera e svalutata liretta, ma moltopiù onestamente palesare, quando necessario, perples-sità e riserve su determinate misure decise dai solerti espesso pasticcioni euro-burocrati di Bruxelles. Così, quando il primo agosto mi sono imbattuto nel-l’edizione on line del Corriere della Sera, nella euronewstitolata “Addio Docg, Doc e Igt, così cambieranno le eti-chette delle bottiglie. Nuove regole europee tra un anno.I produttori: ”C'è il rischio di banalizzare le zone di pre-gio”, non ho potuto, parafrasando il motto “PerdidaAlbione” riferito all’Inghilterra coniato durante laRivoluzione Francese e poi utilizzato dalla propagandafascista, che esplodere in uno stentoreo “Perfida Europadi Bruxelles”! Ma come, mi sono detto, ci abbiamo messo degli anni etanta fatica per tentare, non sempre riuscendoci, di crea-re e fare funzionare un sistema delle Doc che avesse unminimo di senso (e spesso non l’ha avuto, vista la proli-ferazione di Doc inutili, e la mancata piena applicazione,a oltre tre lustri di distanza, della legge sulla nuova disci-plina delle Denominazioni d’origine n° 164 del 1992), abbia-mo tentato di spiegarlo agli stranieri, aiutandoli a destreg-giarsi tra Doc, Docg e Igt spesso dai nomi astrusi e impro-nunciabili, e ora, poffarbacco, arriva l’Europa a dirci, allaBartali, che “l'é tutto sbagliato, l'é tutto da rifare”? Il Corriere della Sera riferiva difatti che “esattamentetra un anno, il primo agosto 2009, perderanno di valorela Denominazione di origine controllata, l'Indicazione geo-grafica tipica e la Denominazione di origine controllata egarantita che contraddistinguono i vini italiani di quali-tà. Se, fino a oggi, erano gestite a livello nazionale, in futu-ro sarà Bruxelles a riconoscere ufficialmente le denomi-nazioni. Che saranno uniformate a livello europeo” e quin-di la solerte Commissione Europea “organizzerà il siste-ma sulla falsariga di quanto è previsto per gli altri pro-dotti alimentari, cioè con i marchi Dop (Denominazionedi origine protetta) e Igp (Indicazione geografica protet-ta)”. Va bene semplificare – in Italia abbiamo persino unministero per la Semplificazione legislativa… - e dare “unamatrice comune a tutti i vini europei”, coordinare cen-tralmente le procedure legate alle denominazioni d’origi-ne, ma si sono chiesti a Bruxelles che razza di proble-

mi, per le aziende innanzitutto e poi per i consumatori,potrà creare questa misura da loro annunciata? Se le nostre Doc-Docg-Igt verranno di fatto “normaliz-zate” e sottoposte al regime delle Dop e Igp, che distin-zione ci sarà, se ci sarà ancora, tra Doc e Docg e qualesalvaguardia ci sarà per gli antichi nomi, Barolo,Valpolicella, Fiano d’Avellino, Frascati, con i quali que-ste denominazioni si sono fatte conoscere nel mondo? Non c’è il fondato rischio, abbandonando un sistema per-fettibile ma collaudato, di banalizzare, di rendere moltodifficile la riconoscibilità dei vini, di arrivare ad una mas-sificazione della produzione, resa possibile anche attra-verso un’ipotetica Igp Italia, con o senza indicazione divitigno, di cui potrebbero fare disinvolto uso imbottiglia-tori non solo fuori zona, ma fuori Italia? E che dire diquell’altra “geniale pensata” che prevede, nel nome delrinnovamento, la possibilità di usare il nome del vitignoda solo, senza più il legame geografico, equiparando difatto, a livello di etichetta, un vino prodotto con uve col-tivate in territori vocati ad un altro vino prodotto con ilmedesimo tipo di uva, ma coltivata in una zona di scar-so pregio? Una solenne “bischerata”, direbbero in Toscana!Insomma di fronte ad una prospettiva del genere ci sareb-be da disperare e da sospettare che a Bruxelles lavorinonell’oggettivo interesse dei produttori di vino del NuovoMondo, che su un sistema di denominazioni come il nostronon possono contare, se, come extrema ratio, non pen-sassimo di poter contare su quella grande, antica, soli-da risorsa che è la Francia. Com’è possibile, difatti, che nella terra delle molte e glo-riose micro Appellations comunali, dei Gevrey-Chambertin, dei Margaux, dei Banyuls e dei Puligny-Montrachet, dei Pommard e dei Pouilly-Fuissé, possanoaccettare di veder annullato, nel nome di una semplifi-cazione legislativa di un allineamento di Aoc, Doc, Do alleDop e Igp utilizzate (in maniera non certo impeccabile)in campo alimentare, un patrimonio di Appellations checostituisce il vero tesoro, la pietra angolare del sistemavinicolo francese? Impossibile crederlo. Parafrasando LeoLonganesi, che in un celebre pamphlet si chiedeva “Cisalveranno le vecchie zie?”, come non chiedersi pertan-to se saranno i Francesi, l’orgogliosa Francia del vino, asalvarci dalle grinfie di Bruxelles? Con questa speranzaal mondo del vino italiano, francese, spagnolo, portoghe-se non resta che pronunciare una ferma risposta ai fumo-si progetti presentati dagli euroburocrati. Quattro soleparole, ma dette a muso duro: Io non ci sto!

La bischeratadegli euroburocrati

di Franco Ziliani

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