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lettera a Creative Commons, 559 Nathan Abbott Way, Stanford,

California 94305, USA.

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Ad Andrea

(e ai suoi genitori, Claudio ed Angela)

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA” UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA”

FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE

CATTEDRA DI TEORIA E TECNICHE DEI NUOVI MEDIA

TESI DI LAUREA

SSPPAAZZII PPUUBBBBLLIICCII DDIIGGIITTAALLII Dal digital divide agli usi comunitari delle nuove tecnologie

CANDIDATO CANDIDATO

Fabrizio Nasti

RELATORE CORRELATORE RELATORE CORRELATORE

Prof. Alberto Marinelli Prof. Giuseppe Anzera

- A.A. 2003/2004 – SESSIONE INVERNALE -

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Contenuti

Introduzione vii

Ringraziamenti xi

Capitolo I

Critica della Società dell’Informazione 1

1. Le origini della “società dell’informazione” 4 1.1 La matematizzazione della realtà 4 1.2 La razionalizzazione della sfera pubblica 6 1.3 L’organizzazione scientifica di produzione e consumo 8 1.4 La società disciplinare e il totalitarismo 11

2. Dalla “società dell’informazione” alla “società in

rete” 15 2.1 Informazionalismo e globalizzazione: Manuel Castells

e la ristrutturazione del capitalismo 16 2.2 Il “capitalismo culturale” di Jeremy Rifkin 22 2.3 Postfordismo e informazionalismo:

i saperi al lavoro fra subordinazione e liberazione 24 2.3.1 Marx, il “general intellect”

e il capitalismo cognitivo 25 2.3.2 Esodo dalla “società del lavoro”? 29

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Contenuti ii

2.4. L’etica hacker e lo spirito dell’informazionalismo 32 2.4.1 La criminalizzazione dell’hacking 33 2.4.2 Breve storia dell’hacking 34 2.4.3 Informazionalismo ed etica hacker 38

3. Una “società della conoscenza” post-capitalista ? 41 3.1 Risocializzazione della sfera produttiva 41 3.2 Economia dell’abbondanza e società post-capitalista 46

4. La società dell’informazione: estensione del

fordismo e della razionalizzazione tecnocratica 51

Note 56

Capitolo II

L’Ecologia Digitale: una razionalizzazione

democratica 63

1. Tecnologia e società: la prospettiva della

“razionalizzazione democratica” di Andrew

Feenberg 65 1.1 Strumentalismo e determinismo tecnologico 67 1.2 Essenzialismo, teorie critiche e costruttivismo 70 1.3 La razionalizzazione democratica 74 1.4 Razionalizzazione democratica

e disuguaglianze digitali 81

2. Un’altra razionalità è possibile:

l’ecologia digitale 88 2.1 Ecologie dell’informazione 90

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Contenuti iii

2.2 “Proprietà intellettuale” vs. information e digital

commons 92 2.3 L’ecologia digitale 99

3. Il software libero e open source 100 3.1 Archeologia del software 101 3.2 Le origini e i principi del software libero:

il progetto GNU 103 3.3 Il sistema operativo GNU/Linux e gli sviluppi del

software libero 105 3.4 Gli aspetti commerciali del software libero

e open source 111 3.5 Le implicazioni sociali ed economiche

del software libero 115 3.5.1 I benefici economici 116 3.5.2 Il software libero, i governi e lo sviluppo locale 120 3.5.3 Modelli sociali e motivazioni

nello sviluppo di software libero 126 3.5.4 Tecnologia, software libero, inclusione sociale 132

Note 142

Capitolo III

Spazi pubblici digitali:inclusione ed esclusione

sociale nell’età dell’informazione 153

1. Stratificazione ed esclusione sociale

nella società in rete 160 1.1 L’aumento dell’ingiustizia sociale e della povertà 160

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Contenuti iv

1.2 I processi di esclusione sociale nella società in rete 163

2. Le geografie della società in rete 171 2.1 Geografie della comunicazione 171 2.2 La relazione fra lo spazio dei flussi

e lo spazio dei luoghi 174 2.3 La geografia di Internet 177

2.3.1 La geografia tecnologica 178 2.3.2 La geografia dell’accesso 181 2.3.3 La geografia della produzione 189

3. Dal digital divide all’inclusione sociale nella

società in rete 194 3.1 Il digital divide: origini e dimensioni principali 194

3.1.1 Le “ICT per lo sviluppo” 199 3.2 Oltre il digital divide 202

3.2.1 I limiti del “digital divide” 205 3.3 “Digital Inequality” 214 3.4 Le nuove tecnologie per l’inclusione sociale 218

3.4.1 Ridefinire l’accesso 220 3.4.2 L’Unione Europea e le tecnologie

per l’inclusione sociale 224

Note 228

Capitolo IV

Prodigi in Tunisia: laboratori comunitari 235

1. La Tunisia in rete 235 1.1 Il mercato delle telecomunicazioni 237

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Contenuti v

1.2 Le mappe della connettività 239 1.3 Le politiche pubbliche 240 1.4 Il progetto Publinet 241

2. Il Progetto Prodigi in Tunisia 244 2.1 Le attività sul campo: mediazione e formazione 244 2.2 Il contatto con il territorio 247 2.3 Laboratori e corsi di formazione 248 2.4 La scelta del software libero 250

Note 252

Bibliografia 253

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Page 14: tesi

Introduzione

Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione

hanno costituito in questi ultimi anni il mio principale ambito di

interesse e di studio. Le loro molteplici manifestazioni, prima tra

tutte Internet, e i relativi impatti nella società, investono un

ampio spettro di fenomeni tecnici e sociali, che interessano le

relazioni economiche e produttive, le dinamiche del consumo

culturale e quelle della partecipazione politica, i rapporti

interpersonali, la cooperazione sociale e la produzione e lo

scambio di informazioni e conoscenze. Esse sono alla base delle

trasformazioni economiche e sociale che guidano gli sviluppi

della società dell’informazione.

Il mio interesse di studio per le nuove tecnologie, in origine

rivolto in particolare alla loro applicazione negli ambiti della

comunicazione pubblica e sociale, si è poi esteso alle

conseguenze della loro diseguale distribuzione nella società. Le

opportunità offerte da queste tecnologie per una rinnovata

partecipazione dei cittadini al processo politico- amministrativo,

sollevavano al contempo la preoccupazione che una loro

diffusione squilibrata nella società potesse contribuire ad

aggravare le esistenti disparità in termini di potere e risorse, e

imponevano, dunque, la necessità di un intervento pubblico volto

a correggere i meccanismi di mercato che generavano tali

squilibri.

Il tema della distribuzione irregolare delle nuove tecnologie

e delle competenze necessarie a sfruttarne i benefici, ha ottenuto

nel frattempo il riconoscimento degli attori politici ed economici

dominanti, ed è stato rilanciata ed amplificato dall’espressione

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Introduzione viii

digital divide. Questo termine, però, e l’insieme di assunti su cui

si basa, si sono rilevati col tempo inadatti a cogliere la

complessità dei fenomeni di disuguaglianza ed esclusione sociale

che si impongono con sempre maggior forza nel mondo

contemporaneo, i quali sono sì legati, in effetti, alle potenzialità

delle nuove tecnologie, ma, più che da relazioni di tipo causale,

in una forma ambivalente e contraddittoria.

Molti degli assunti impliciti nel concetto di digital divide, e

molto dell’interesse che esso ha suscitato, possono infatti

ricondursi al fervore tecnologico che ha contraddistinto la

retorica dell’avvento di una “società dell’informazione”. Per fare

luce su questa retorica, e di conseguenza su quella che circonda il

concetto di digital divide, nel primo capitolo ripercorreremo

alcune tappe della “storia delle idee” che sembrano porsi come

diretti antecedenti della società dell’informazione. Seppure

esaltata da più parti come assoluta novità, e nonostante essa

esprima di fatto alcune trasformazioni significative nelle

strutture sociali, l’attuale “società dell’informazione”

rappresenta, in realtà, la continuazione di un lungo processo

storico che punta nella direzione di un estensione del dominio

della razionalizzazione tecnocratica sulla vita dell’uomo. E così

come in tutte le fasi storiche, questo dominio incontra anche oggi

la resistenza di soggetti e gruppi sociali, i quali, facendo perno

sulle ambivalenze della tecnica, mettono in atto

razionalizzazioni democratiche e danno vita alle forme di

un’ecologia digitale.

Nei margini delineati da questa opposizione fondamentale,

trovano spazio la riconsiderazione complessiva dei presupposti

su cui si fonda l’idea di un digital divide e l’indicazione di una

prospettiva alternativa: quella, cioè, che considera le nuove

tecnologie come elementi di un più ampio insieme di risorse, da

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Introduzione ix

attivare in sinergia allo scopo di promuovere processi di

inclusione sociale. In questo senso, date le peculiari dinamiche

spaziali della società in rete giocate sull’asse della

contrapposizione fra flussi e luoghi, l’uso delle tecnologie per

scopi di inclusione e coesione sociale trova il suo campo di

applicazione privilegiato in quello spazio dei luoghi in cui le

identità culturali e le relazioni sociali in esso radicate, attaccate

e indebolite dalle logiche impersonali e strumentali dei flussi di

informazioni, ricchezza e potere, costituiscono nondimeno il

valore aggiunto nella costruzione di capitale umano, culturale e

sociale, che a loro volta pavimentano il percorso verso

l’inclusione.

E’ necessario, dunque, promuovere nei luoghi ampi e

sistematici processi di appropriazione di quelle stesse tecnologie

su cui i flussi si strutturano per dominare i primi e farne

strumenti e oggetti della propria valorizzazione. E affinchè le

nuove tecnologie possano realmente integrarsi con le risorse e le

relazioni presenti nel territorio allo scopo di contribuire

all’inclusione e alla coesione sociale, è auspicabile, in

conclusione, che le politiche pubbliche si orientino verso la

realizzazione, la promozione e il supporto di spazi pubblici

digitali. Tali spazi, insieme fisici e virtuali, possono infatti

essere intesi come l’ambiente intenzionalmente e pubblicamente

costruito all’intersezione dei due spazi, quello dei flussi e quello

dei luoghi.

Un ambiente aperto ed accessibile, che scaturisce, dunque,

da una molteplicità di risorse, pratiche e relazioni radicate sul

territorio che ruotano intorno alle nuove tecnologie digitali,

espandendo per questa via il loro raggio d’interesse e d’azione

alla dimensione intraterritoriale e globale: centri pubblici per

l’accesso e la formazione alle nuove tecnologie, risorse di

Page 17: tesi

Introduzione x

software libero a disposizione on line e off line, comunità in rete

per lo sviluppo di software libero, contenuti digitali di dominio

pubblico o rilasciati sotto licenze che ne tutelano il fair use,

portali e servizi di pubblica utilità, reti civiche o comunitarie

legate alla prossimità geografica, reti di cooperazione e

condivisione on line, siti web e piattaforme software

collaborative, social software, sistemi di open publishing,

mailing lists comunitarie, ecc.

In questo complesso insieme, le strutture per l’accesso e la

formazione alle nuove tecnologie possono svolgere il ruolo di

catalizzatori e moltiplicatori di energie e risorse legate al

territorio; per poter far questo, però, essi devono diventare

qualcosa di più che semplici punti di accesso pubblico ad

Internet, il più delle volte integrati in istituzioni che riservano

loro solo poco spazio e visibilità o comunque non riescono ad

attirare un pubblico adeguato. Devono piuttosto essere pensati,

progettati e gestiti come spazi pubblici digitali: ossia, in questo

caso, come spazi fisici, “posseduti”, gestiti e animati dalla

comunità locale, attraverso associazioni o strutture partecipative

ad hoc; finanziati attraverso un mix di impegno pubblico e

privato; impegnati ad attrarre competenze ed energie per

costruire mobilitazione e innovazione sociale intorno a e

sfruttando le potenzialità di un’ampia gamma di tecnologie, da

Internet al video digitale. In questo modo essi possono rivelarsi

strumenti fondamentali per favorire lo sviluppo a livello locale e

promuovere l’inclusione e la coesione sociale.

Page 18: tesi

Ringraziamenti

Questa tesi è il frutto delle letture, delle esperienze e delle

riflessioni da me maturate nei cinque anni appena trascorsi. In

questo lasso di tempo molte persone hanno contribuito più o

meno direttamente alle mie esplorazioni nel campo delle nuove

tecnologie, o ne hanno semplicemente accompagnato il percorso.

Qualcuno di loro, in realtà, mi accompagna da molto più tempo.

Altre quasi non sanno accendere un computer, e anche se loro

non sanno cos’è, mi ricordano cosa (non) è il digital divide. A

tutte devo comunque tanto, perché senza di loro il mio mondo

sarebbe freddo come una scheda di memoria. Ma ne nominerò

solo alcune, e l’ordine sarà quasi rigorosamente casuale: spero in

ogni caso che nessuno ci rimanga male.

Devo ringraziare innanzitutto i miei genitori, per avermi

dato la possibilità di iniziare il viaggio, e poi di arrivare fin qui;

per la pazienza con cui hanno atteso, nonostante tutto, che io

compissi le mie contorte evoluzioni prima di portare a termine

questo primo difficile compito della mia vita. Grazie di cuore di

tutto quello per cui non vi ho mai ringraziato abbastanza.

Poi un grazie a Chi, la mia musa ispiratrice, nonché

correttrice di bozze, prepara-caffè, maestra di coccole e

massaggi, e tanto altro ancora; senza di lei sarebbe stato tutto

molto più difficile. Grazie a Luca, per la sua filosofia della

banana, per le mille discussioni sui mondi tecnologici, per aver

condiviso con me gioie e dolori di questa università, e per aver

sempre creduto in me …. Grazie a Daniele, per il preziosissimo

contributo dato alla veste grafica di questa tesi. Grazie a Lollo e a

Giulia, perché mi sono stati vicini.

Page 19: tesi

Ringraziamenti xii

Grazie a Davide, a Ugo, al Palletta e ad Alfredo, amici da una

vita, chi più chi meno. E ai primi due, bartender alle prime armi,

un grazie in più per il supporto “morale” (e gratuito) ricevuto in

quel del BaoBar. Può passare anche da lì, da un pinguino che si

dimena in savana, il tentativo di diffondere una cultura

informatica più aperta e libera (free as in free speech, not as in

free beer!).

Un grazie particolare, infine, va ai Prodigi, a Matilde, a

Giulio, ad Iginio, ad Ale e a Ludovica, perchè alla fine sono le

persone che fanno la differenza, e non le tecnologie; e perché in

fondo siamo una comunità strutturatissima. Grazie anche a tutti

i partecipanti al progetto in Tunisia, ad Enrico, Tony, Gianna,

Muriza, Maddalena, Andrea, Jamel, Imhed e Lotfi, e alla

comunità di Kerchaou.

Page 20: tesi

Capitolo I

Critica della Società dell’Informazione

Il dibattito in ambito accademico e politico relativo al

cosiddetto digital divide, e più in generale ai complessi rapporti

tra la società e le nuove tecnologie dell’informazione e della

comunicazione, è spesso condizionato da un equivoco di fondo e

reso incerto da alcune ambiguità. L’equivoco è riconducibile alla

centralità assegnata alle tecnologie, in particolare ai mezzi di

comunicazione, nella nascita e nello sviluppo di inedite

configurazioni sociali, presunte o reali, attuali o future. Esso si

manifesta, da un lato, nell’assunzione di una prospettiva che fa

propria una qualche forma di determinismo tecnologico;

dall’altro, è evidente in quella sorta di neo avventismo laico –

storicamente connesso alla capacità dei nuovi mezzi di

comunicazione di trascendere i vincoli della distanza – che ha la

sua forma più visibile nell’hype che circonda l’avvento di ogni

nuovo strumento o applicazione. Le ambiguità sono invece legate

all’oggettiva difficoltà di inquadrare le tecnologie digitali, e i

media a cui danno forma, in uno statuto epistemologico univoco.

Da un lato, l’inedita velocità con cui si evolvono tecnologie e

formati nel nuovo ambiente digitale rende rapidamente obsoleti

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Capitolo I 2

non solo l’hardware e il software, ma anche i modelli

interpretativi utili alla loro comprensione e contestualizzazione.

Dall’altro, la natura generalista dell’infrastruttura informatica e

telematica che fa da base alle attuali inedite ibridazioni di vecchi

e nuovi media rende artificiosa o quantomeno critica una netta

distinzione tra i loro diversi ambiti d’applicazione sul versante

della produzione così come su quello del consumo: si assiste ad

un’esplosione della comunicazione iper mediata, che assume una

centralità senza precedenti in contesti che vanno, senza

soluzione di continuità e con frequenti sovrapposizioni, dal

sistema produttivo alla comunicazione interpersonale. Occorre, a

mio avviso, assumere in pieno tali ambiguità, indagando, anche

retrospettivamente, il ruolo dell’informazione e della

comunicazione al di là del tradizionale ambito di pertinenza dei

media studies; nel far questo è necessario al tempo stesso

rigettare gli equivoci del determinismo e dell’avventismo.

Scopo di questo capitolo è inquadrare assunti e realtà del

digital divide nel più ampio contesto delineato dall’interazione

fra le dinamiche di innovazione e diffusione selettiva che

interessano le moderne tecnologie dell’informazione e della

comunicazione e i processi di ristrutturazione che coinvolgono a

diversi livelli il capitalismo, in quanto sistema economico e

sociale prevalente nonché ambito privilegiato di sviluppo di tali

tecnologie. Si rende utile, perciò, il riferimento ad alcune

tendenze di lunga durata sottese al ruolo dell’informazione e

della comunicazione nelle società industriali avanzate e alla loro

evoluzione conseguente all’applicazione delle tecnologie digitali

nelle sfere sociale, economica e culturale.

Al di là dei pur notevoli elementi di discontinuità osservabili

nell’attuale fase storica, ad uscire rafforzata dai mutamenti in

corso sembra essere la presa, sui diversi ambiti delle attività

Page 22: tesi

Società dell’Informazione 3

umane, di una “razionalizzazione tecnocratica” sempre più

sofisticata ed escludente. Originata dal cuore stesso

dell’industrialismo – come sistema sociale oltre che economico –

nelle pretese di regolazione sociale ispirate all’“organizzazione

scientifica del lavoro”, questa presa è oggi approfondita ed estesa

dalla pervasività delle reti strumentali che si appoggiano alle

infrastrutture fisiche di informazione e telecomunicazione

(Robins e Webster 2001). Su tali reti, infatti, si strutturano e

transitano le funzioni economiche, finanziarie e di potere

dominanti, il cui nocciolo è sempre più costituito da flussi di

informazioni e di conoscenze. In questo senso le reti informano e

veicolano saperi e risorse culturali, cognitive, linguistiche,

affettive, relazionali e di socialità, intercettate dalle macchine

digitali e fatte sempre più oggetto di mercificazione tanto sul

versante della produzione quanto su quello del consumo.

Istanze tecnologiche ed economiche sempre più globalizzate,

da una parte, e identità soggettive e culturali sempre più

frammentate e desocializzate, dall’altra, non sembrano poter

essere più armonizzate da alcun principio d’integrazione sociale.

Ad esso fa da surrogato un processo di mercificazione – globale –

delle esperienze e degli immaginari – locali –, che produce in

realtà una “socializzazione antisociale“ (Castells 2001):

decontestualizzate e impacchettate, queste risorse immateriali

comuni vengono “appropriate” e valorizzate nelle politiche di

marketing, sospinte dai meccanismi promozionali

nell’immaginario collettivo e nei processi della percezione

sociale, rivendute nei parchi a tema e nei centri commerciali o

trasmesse dalle megacorporations della comunicazione

attraverso le reti elettroniche globali “a interazione vigilata” del

cyberspazio.

Page 23: tesi

Capitolo I 4

La logica strumentale all’opera nelle dinamiche economiche

e tecnologiche attua, quindi, una connessione artificiale e

funzionale fra globale e locale, nella quale finisce per inglobare

al suo interno anche i processi culturali; essa accompagna così il

capitalismo nella sua opera di “sottomissione di una porzione

sempre maggiore dell’esperienza umana al dominio della sfera

economica” (Rifkin 2001). Brevetti, copyrights, licenze, marchi,

loghi, e i rispettivi meccanismi tecnici e giuridici di controllo e

sfruttamento, sono funzionali alla privatizzazione forzata di

sempre più ambiti del patrimonio culturale – e persino biologico

– dell’umanità e completano il tragitto del capitalismo lungo

quel percorso di “predazione delle esternalità”, tracciato al suo

avvio dalle enclosures delle terre “comunali” (commons)

nell’Inghilterra del XVI secolo. L’universalismo astratto della

razionalità strumentale, dato per spacciato insieme ai suoi tragici

paradossi con il declino della fabbrica fordista e della burocrazia

monolitica, riemerge nelle forme diffuse, reticolari, leggere,

persino trasgressive, dei network globali dell’intrattenimento

digitale, dei mercati elettronici della finanza o delle reti delle

imprese transnazionali.

1. Le origini della “società dell’informazione”

1.1 La matematizzazione della realtà

Come argomentato, tra gli altri, da Robins e Webster (1999)

e da Mattelart (2001), e per altri versi anche da Anderson

(1991) 1, il ruolo fondamentale delle risorse e delle tecnologie

dell’informazione e della comunicazione nell’organizzazione

sociale e nelle idee che ne sostengono l’affermazione, ha in realtà

origini più antiche di quanto comunemente si pensi. Accennando

Page 24: tesi

Società dell’Informazione 5

appena al rapporto dialettico fra le strutture della testualità e le

tecnologie della stampa e del libro, da un lato, e lo sviluppo dello

spirito della modernità, delle “coscienze nazionali” o delle stesse

burocrazie degli Stati moderni, dall’altro (Anderson 1991;

Ricciardi 1998), si può invece ripercorrere con Mattelart (2001)

la storia delle idee e degli avvenimenti che hanno segnato

l’affermarsi della formula e della retorica della “società globale

dell’informazione”.

Secondo il sociologo francese i suoi presupposti risalgono “a

ben prima dell’ingresso della nozione di informazione nella

lingua e nella cultura della modernità”, agli ideali illuministici di

calcolabilità e matematizzazione della realtà e di

“automatizzazione del ragionamento e dell’azione”, ossia alla

“mistica del numero” e di un “linguaggio universale”, lontano

antecedente del “linguaggio informatico” che ne formalizzerà due

secoli dopo il progetto di una ricomposizione “pre-babelica”

dell’umanità. In quel lasso storico, tra il XVII e il XVIII secolo,

prende forma il progetto ideale e concreto di una società

trasparente e governata dal “pensiero del numerabile e del

misurabile”. Quest’ultimo “diventa il prototipo di ogni discorso”

e “al tempo stesso l’orizzonte della ricerca della perfettibilità

umana": sui suoi principi, tra l’altro, Adam Smith edifica nella

seconda metà del Settecento le fondamenta dell’“economia

politica” liberale, mentre già un secolo prima i pionieri della

“statistica” – ovverosia la scienza dello Stato (e del commercio) –

si confrontavano con la nuova realtà geo-politica frammentata,

sorta alla firma dei trattati di Westfalia del 1648, i quali

inauguravano il concetto moderno di Stato-nazione e con esso

quello di confini stabili e appartenenze univoche. Per lo Stato, e

soprattutto, da quel momento in poi, per la sua forma

“nazionale”, la raccolta, la conservazione, il trattamento e la

Page 25: tesi

Capitolo I 6

trasmissione di informazione e la capacità di comunicare sono

sempre state condizioni indispensabili per amministrare e

coordinare strutture sociali territorialmente disperse e

complesse, mantenendone allo stesso tempo la coesione e

l’integrità, e per “controllare i membri devianti della popolazione

interna e sorvegliare le popolazioni esterne” (Robins e Webster,

1999, trad. it. p. 147) 2.

1.2 La razionalizzazione della sfera pubblica

Il ruolo dell’informazione e della comunicazione è stato

cruciale, inoltre, per il processo democratico del dibattito

politico nella sfera pubblica. E’ stato, come noto, il filosofo e

sociologo tedesco Jurgen Habermas (1962) a descrivere

magistralmente genesi, consolidamento e disgregazione, tra il

XVII e la prima metà del XX secolo, della “sfera pubblica

borghese”. Essa nasce come quell’ambito di discussione pubblica

separato dallo Stato e ad esso contrapposto, sorto alla

“convergenza storica dei principi democratici, dei nuovi canali di

comunicazione e pubblicità e della fede illuministica nella

Ragione” (Robins e Webster 1999, p. 148). Al suo fulcro vi è

l’”argomentazione razionale” di “privati”, dotati dei prerequisiti

di cultura e proprietà, riuniti in “pubblico” in quanto

“controparte del potere pubblico” (statuale) e destinatario delle

sue decisioni riguardanti le sfere della produzione e riproduzione

sociale. Fondamentale nel percorso di sviluppo e

“autointendimento”, anche politico, della sfera pubblica borghese

in quanto tale è il ruolo della “stampa”, prima sotto forma di

gazzette e dispacci amministrativi, poi di giornali, riviste,

pamphlet e libri. Essi fornirono l’infrastruttura comunicativa

necessaria al pieno dispegarsi di una sfera pubblica con funzioni

Page 26: tesi

Società dell’Informazione 7

politiche ormai matura. All’interno dell’ampio Stato-nazione

questa infrastruttura comunicativa si arricchì via via di nuovi

media che garantissero i canali di discussione e comunicazione e

l’accesso alle risorse informative necessari all’”uso pubblico della

ragione”.

Quello che più attiene alla discussione qui presentata è il

successivo processo di trasformazione del “dibattito razionale e

informato della sfera pubblica” in “organizzazione scientifica

della società da parte di tecnici e burocrati” (ibid.). Le complesse

dinamiche originate proprio dall’emergere di questo spazio

pubblico di discussione finirono per rafforzare ed estendere le

prerogative del mercato, da un lato, e i poteri di uno Stato

divenuto nel frattempo “borghese”, dall’altro. Furono queste due

forze, impersonali e dirompenti, della “modernita” (Touraine

1992), insieme alle contraddizioni insanabili sorte al suo interno

nell’atto di diventare essa stessa elemento di quel dominio da cui

aspirava ad emanciparsi, a “disgregare” la sfera pubblica

borghese prosciugandone la vecchia base sociale, situata

originariamente nello spazio di separazione – poi svanito – fra

Stato e società, fra ambito “pubblico” e ambito “privato”.

Il “pubblico culturalmente critico” dei club letterari, dei

salotti e dei café diventa il “pubblico consumatore di cultura” dei

mass-media, dell’”industria culturale” e della società di massa; la

“discussione assume la forma di un bene di consumo”, la

razionalità stessa si trasforma in consumo (Habermas 1962, pp.

192-196). Ad accompagnare questa intrusione del mercato e delle

relazioni commerciali nella sfera pubblica e la sua progressiva

“mercificazione”, si fa sempre più strada la regolazione

dell’ambito di discussione pubblica da parte di ampi corpi

imprenditoriali e politici – una “rifeudalizzazione” nelle parole

di Habermas. La massiccia intrusione nella sfera privata dei

Page 27: tesi

Capitolo I 8

media di massa e dei loro messaggi, emanazione del potere

statuale e commerciale, riduce drasticamente l’autonomia di una

sfera pubblica trasformata in “pubblicità” e in “opinione

pubblica”. La funzione di mediazione fra Stato e società, svolta

un tempo proprio dal dibattito politico di privati riuniti nella

sfera pubblica, viene presa in carico da istituzioni come partiti,

associazioni e industrie mediali, e condotta dentro i margini

della manipolazione, della propaganda e del marketing politico e

commerciale. Come conclude lo stesso Habermas, “la dimensione

pubblica critica è soppiantata da quella manipolativa” (ibid., p.

213).

Nel complesso, in questo processo di erosione di una sfera

pubblica di discussione informata e critica, la ragione in essa

coinvolta ed esaltata lascia il posto, con quel passaggio storico e

filosofico della modernità individuato da Adorno e Horkeimer

(1944) come “dialettica dell’Illuminismo”, alla razionalizzazione

tecnocratica e amministrativa della vita politica e

all’organizzazione scientifica e totalizzante dell’informazione e

comunicazione pubblica. E’ interessante notare, per altro, come

lo stesso sviluppo delle risorse d’informazione e comunicazione

necessarie al pieno dispiegarsi di uno spazio di discussione

pubblica incoraggi, invece la centralizzazione e il rafforzamento

di quell’apparato statale e imprenditoriale teso proprio a

pregiudicare il dibattito razionale in favore di istanze di

razionalizzazione e controllo (Robins e Webster 1999).

1.3 L’organizzazione scientifica di produzione e

consumo

Sui processi informazionali legati all’ambito politico-

amministrativo si innestarono, accentuandone l’estensione, le

Page 28: tesi

Società dell’Informazione 9

dinamiche al centro dello sviluppo storico del capitalismo in

quanto “modo di produzione” 3 e in particolare

dell’”organizzazione scientifica del lavoro” 4. Al cuore del

"taylorismo" – come teoria e come pratica – secondo Robins e

Webster (1999, p. 139) vi è infatti proprio l'appropriazione e la

“duplice articolazione di informazione/conoscenza per una

pianificazione efficiente e per il controllo”. Il "fordismo" si

occupò in seguito di incorporare questa

informazione/conoscenza nella tecnologia delle strutture

organizzative della produzione – la famosa "catena di montaggio"

–, automatizzando le mansioni e il controllo tecnico su di esse e

rendendo quindi invisibili i rapporti di potere. Queste due

“dottrine” non si limitarono a organizzare il lavoro all’interno

della fabbrica: esse furono le forze che contribuirono ad

estendere le funzioni di controllo e razionalizzazione alla società

in generale. Nel corso della loro ricognizione storica del ruolo

dell’informazione nelle società industriali e dell’apparato

ideologico che ne ha accompagnato la crescita, Robins e Webster

illustrano il percorso che ha condotto i principi

dell’organizzazione scientifica oltre le “mura” della fabbrica.

Innanzitutto ciò avvenne per via della disciplinarizzazione della

forza lavoro, dentro e fuori gli stabilimenti, funzionale agli stessi

criteri di efficienza e controllo: “la sorveglianza manageriale del

lavoro intensivo alla catena di montaggio si combina con

l’inquadramento ideologico nella e della vita privata. L’una è

impensabile senza l’altra” (Mattelart 2001, p. 36). Più

direttamente, furono gli stessi sostenitori dell’organizzazione

scientifica del lavoro a promuovere esplicitamente la

riorganizzazione di una società-macchina, guidata da ingegneri

ed esperti sulla base degli stessi principi di calcolabilità,

razionalità strumentale ed efficienza (Robins e Webster 1999) 5.

Page 29: tesi

Capitolo I 10

Su questo versante, quindi, l’organizzazione scientifica

dell’informazione e della conoscenza e l’ideologia che

l’accompagnava accentuarono i meccanismi amministrativi di

pianificazione e controllo già all’opera nello Stato-nazione.

Ma fu soprattutto l’indiscussa capacità del “taylorismo” – e

del “fordismo” – di incrementare la produttività, la crescita

economica e, di conseguenza, la ricchezza sociale, a legittimare

l’estensione dei suoi caratteri all’intero contesto sociale. “Il

sistema di consumo di massa e la promessa del sogno

consumistico” furono i necessari complementi allo sviluppo della

produzione di massa; l’integrazione e la regolazione di questo

complesso sistema di produzione e consumo richiedeva

l’applicazione alla società in generale degli stessi principi di

efficienza e ottimalità che governavano la produzione. La

raccolta, l’aggregazione e la disseminazione di informazioni

acquisirono un ruolo fondamentale per l’organizzazione

scientifica del consumo, dei bisogni, dei desideri e

dell’immaginazione e diedero vita alle forme moderne del

marketing e della pubblicità che a loro volta contribuirono a

plasmare i formati dei tradizionali mass media (stampa, radio,

televisione). Per questa via, dunque, i principi

dell’organizzazione scientifica e della razionalizzazione

penetrarono a fondo nelle attitudini e nell’immaginario sociali,

guidati dall’”efficienza” del mercato e del sistema di consumo.

Le istanze di pianificazione e controllo, incarnate da un lato

nei meccanismi amministrativi dello Stato-nazione, dall’altro nei

principi dell’organizzazione scientifica della produzione e del

consumo, fecero perno sul ruolo fondamentale dell’uso

strumentale dell’informazione/conoscenza. Il loro dispiegarsi

nella società rappresenta, insieme alle connesse questioni del

potere politico e aziendale, il reale orizzonte della “rivoluzione

Page 30: tesi

Società dell’Informazione 11

dell’informazione” nella forma, indicata da Beniger (1986), di

una “rivoluzione del controllo”.

Tale fondamentale rivolgimento, da molti fatto risalire ai

rapidi progressi registrati negli ultimi trenta o quaranta anni del

secolo scorso nei diversi campi delle ICT, è quindi in realtà il

frutto di un processo molto più lungo, avviatosi come risposta

alla “crisi di controllo” determinata nei primi anni dell’Ottocento

dall’avvento della ferrovia e degli altri trasporti a vapore

(Beniger 1986, p. 25), proseguito con la moltiplicazione degli

strumenti di calcolo e comunicazione durante tutto il corso del

secolo (Fidler 1997) e culminato con

l’emergere, nel primo Novecento, dell’organizzazione scientifica del

lavoro (come filosofia sia di produzione sia di riproduzione sociale). E’

in questo momento che la pianificazione e l’organizzazione scientifica si

sono mosse oltre la fabbrica per regolare l’intero stile di vita. […]

Quando queste strategie di amministrazione e di controllo

dell’informazione sono state sviluppate su una base sistematica, è stato

in quel momento storico, crediamo, che la rivoluzione dell’informazione

si è scatenata. Le nuove tecnologie dell’informazione e della

comunicazione hanno fatto avanzare con maggior sicurezza, e

automatizzato, queste attività combinate di informazione e intelligence,

ma esse rimangono essenzialmente miglioramenti di quella che è stata

fondamentalmente una rivoluzione politico-amministrativa (Robins e

Webster 1999, pp. 154-155).

1.4 La società disciplinare e il totalitarismo

Le complesse dinamiche fin qui osservate portano a

compimento, tra l’altro, lo sviluppo della “società disciplinare”

descritta da Michel Foucault, la cui opera si focalizza proprio

sulla relazione inscindibile fra conoscenza e potere 6. Nel

Page 31: tesi

Capitolo I 12

processo di riconfigurazione della relazione fabbrica-mondo

esterno – e conseguentemente delle stesse strutture della vita

quotidiana – susseguente all’imporsi del “fordismo” come

modello organizzativo della produzione, la società si trovò

assoggettata ad un nuovo tipo di controllo, analizzato da

Foucault nella sua nota interpretazione del Panopticon. Ideato da

Jeremy Bentham alla fine del secolo XVIII come struttura

architettonica che garantisse l’esercizio automatico e ininterrotto

del potere e del controllo nelle carceri, nelle scuole e nelle

fabbriche, tale meccanismo insieme visivo e disciplinare fa si che

la sorveglianza venga, per così dire, interiorizzata dal

sorvegliato, “oggetto di un’informazione, mai soggetto di

comunicazione” (Foucault 1975). “Con la rivoluzione

dell’informazione, non solo la prigione o la fabbrica, ma la

totalità sociale può arrivare a funzionare come macchina

gerarchica e disciplinare” (Robins e Webster 1999, p. 166). Nelle

origini “disciplinari” della “società dell’informazione” – inscritte,

come abbiamo visto, nel ruolo delle risorse e delle tecnologie

dell’informazione e nella relativa convergenza delle istanze di

organizzazione e sorveglianza – sono rintracciabili persino i

germi di quel totalitarismo che ha segnato il XX secolo al di là

delle vicende tragiche e circoscritte del suo effettivo e dichiarato

esercizio del potere (Revelli 2000). Un accenno alle origini

storiche delle tecnologie e delle applicazioni informatiche, in

quanto concretamente e simbolicamente legate all’avvento della

“società dell’informazione”, può fornire elementi utili a

mostrarne questo lato oscuro.

A promuovere la nascita e le prime fasi di sviluppo

dell’informatica moderna furono, tra la fine dell’Ottocento e la

metà del Novecento, da un lato le esigenze degli apparati

militari, dall’altro proprio quelle necessità di pianificazione e

Page 32: tesi

Società dell’Informazione 13

controllo che facevano capo, come visto, sia allo Stato e alle sue

strutture politiche e amministrative, sia al settore industriale

(Robins e Webster 1999). In entrambi casi le spinte

all’innovazione vennero quindi sostenute dalle capacità di spesa

in “ricerca e sviluppo” dello Stato con il fondamentale supporto

del complesso industriale nelle sue punte più avanzate – ciò che

avviene, d’altronde, in (quasi) tutti i campi dell’innovazione

tecnologica e dell’hi-tech. Da una parte, i primi utilizzi e i

progressi dei mastodontici “super computers” o mainframe

furono allo stesso tempo finalizzati e dovuti, a cavallo fra le due

guerre mondiali, alle esigenze di decrittazione dei messaggi

nemici, ai calcoli balistici dei programmi missilistici e antiaerei e

al progetto Manhattan per la bomba atomica (Mattelart 2001, p.

45-46). Dall’altra, le prime macchine a schede perforate erano

già state impiegate, sul finire del XIX secolo, per il conteggio

automatico dei voti nelle consultazioni elettorali, ma soprattutto

per la registrazione, la schedatura e l’analisi statistica delle

popolazioni. 7 Lo sviluppo dei servizi statistici e di censimento 8

aveva già accompagnato, tra la metà e la fine dell’Ottocento, il

trionfo della “ragione contabile” e con essa dei principi

dell’”uomo medio”; fondamenti di una nuova scienza della “fisica

sociale” e di un nuovo modo di regolazione sociale, la “società

assicurativa”, presupposto per il futuro stato assistenziale del

secondo dopo-guerra; pilastri, inoltre, dell’“antropometria” e

della sua “missione igienica di normalizzazione delle classi a

rischio”. “Nel 1890, in occasione del censimento generale,

l’amministrazione federale degli Stati Uniti fa uso per la prima

volta, per il trattamento automatico dei dati raccolti, della

macchina a schede perforate inventata due anni prima dallo

statistico Hermann Hollerith (1860-1929). A partire dal 1896, la

macchina è industrializzata e commercializzata dalla Hollerith

Page 33: tesi

Capitolo I 14

Tabulating Machine Corp., nucleo originario dell’IBM

(International Business Machine)” (ibid., p. 33-36).

Il ricercatore e giornalista statunitense Edwin Black (2001),

nel libro “L’IBM e l’Olocausto” 9, ha svelato l’enorme mole di

documentazione che testimonia l’impiego di schede perforate,

macchine punzonatrici e tecnici IBM per l’individuazione e la

catalogazione di milioni fra ebrei, omosessuali, rom e oppositori

politici di diverse nazionalità, perseguitati, arrestati, deportati o

uccisi dalla Germania nazista fra il 1933 e il 1945. Secondo le

prove fornite da Black e dai suoi collaboratori, non solo l’IBM e

le sue filiali in Europa e in Germania continuarono a fare affari

tramite la fornitura di schede e macchinari ai nazisti per quasi

tutta la durata del regime; in effetti le prove mostrerebbero

anche che l’azienda statunistense contribuì attivamente a far

funzionare quei meccanismi delicati e complessi che,

evidentemente, richiedevano un’assistenza costante e soprattutto

configurazioni personalizzate e un addestramento specifico,

entrambe attività “orientate allo scopo”. Al preliminare lavoro di

censimento volto ad individuare e catalogare gli ebrei e le altre

minoranze da ghettizzare e perseguitare, si aggiunsero via via la

gestione “efficiente” delle linee ferroviare e dei treni per la

deportazione, l’amministrazione dei campi di concentramento e

la registrazione dei detenuti e dei giustiziati. Al di la’ delle

vicende giudiziarie in corso tese a individuare le responsabilità a

carico dell’IBM e dei suoi manager dell’epoca, quello che conta è

che ci troviamo di fronte all’esempio forse più abominevole nella

storia di un utilizzo delle risorse dell’informazione al servizio di

una forma, estrema, di ”ingegneria sociale”.

Ma ad “informare” il progetto criminale del nazismo furono

gli stessi principi (e lo stesso apparato concettuale e tecnico) di

ingegneria sociale, organizzazione e controllo dell’informazione

Page 34: tesi

Società dell’Informazione 15

ed efficienza che guidano il “buon governo” – tanto più se

“elettronico” – delle società democratiche. Insieme alle

“istituzioni di persuasione attiva”, ai diversi “meccanismi di

segretezza, sicurezza e censura” e ai “crescenti sviluppi in

direzione della mercificazione e commercializzazione

dell’informazione”, la massiccia “collezione di informazione da

parte di interessi aziendali e politici” costituisce, infatti, una

delle forze che sostengono l’“organizzazione scientifica delle

risorse dell’informazione”, “meccanismo cruciale per assicurare

la coerenza organizzativa dello Stato-nazione (la società di

massa)” (Robins e Webster 1999). Si può allora concordare con

Anthony Giddens, secondo il quale, alla luce della convergenza e

dell’intreccio fra i processi di gestione delle “risorse allocative”

(pianificazione, amministrazione) e delle “risorse autoritative”

(potere, controllo), determinata dalla dipendenza di entrambi

dalla sorveglianza e dal monitoraggio continui – e quindi da un

utilizzo strumentale dell’informazione –, “il totalitarismo è una

tendenza propria dello Stato moderno” (Giddens 1985, cit. in

Robins e Webster 1999, p.194).

2. Dalla “società dell’informazione” alla “società in rete”

Sin qui si sono cercati di evidenziare e contestualizzare due

aspetti del rapporto fra le risorse e le tecnologie

dell’informazione e della comunicazione e la società nel suo

complesso. In primo luogo, la centralità di tali risorse (la

cosiddetta “rivoluzione dell’informazione”) ha origini più antiche

di quanto comunemente si creda e risale almeno alla “seconda

rivoluzione industriale” di fine ‘800 e alle innovazioni

nell’ambito dell’organizzazione che vi ebbero luogo; è quindi

Page 35: tesi

Capitolo I 16

sganciata, almeno in parte, dalle specifiche innovazioni tecnico-

scientifiche degli ultimi 50-60 anni. In secondo luogo, la

mobilitazione di tali risorse e tecnologie è stata funzionale da

allora alla regolazione (nel binomio “pianificazione” e

“controllo”) delle istanze politiche ed economiche delle società

industriali avanzate, capitalistiche o stataliste che fossero; la

dimensione fondamentale di questo processo si è svolta nella

direzione di una razionalizzazione tecnocratica dei diversi

ambiti della vita umana.

Si rende opportuna, a questo punto, una ricognizione degli

elementi di discontinuità riscontrabili nell’attuale scenario

dominato dalle tecnologie digitali e di rete, da diverse forme di

riorganizzazione delle strutture economiche e politiche a livello

locale e globale e da significativi mutamenti nella sfera culturale,

così come sono state presentate e discusse nella letteratura degli

ultimi anni. Il lavoro di alcuni di questi autori si pone in misura

diversa in antitesi alle posizioni sin qui presentate, nella misura

in cui tende ad assegnare all’approfondimento dei processi di

valorizzazione dell’informazione e della conoscenza osservato

negli ultimi trenta anni, un carattere di “trasformazione epocale”

nel percorso di sviluppo del capitalismo e delle società

occidentali in generale.

2.1 Informazionalismo e globalizzazione: Manuel

Castells e la ristrutturazione del capitalismo

Il notevole contributo teorico ed analitico del sociologo

Manuel Castells 10 intorno all’“età dell’informazione” segue le

orme dei classici lavori di Daniel Bell e di Alain Touraine sulla

società postindustriale, riprendendo ed adattando, dal primo, il

ruolo sostanziale dell’innovazione scientifica e tecnologica, e dal

Page 36: tesi

Società dell’Informazione 17

secondo l’importanza attribuita alle mutazioni del “gioco sociale”

e all’interazione fra i suoi protagonisti, tra i quali in particolare i

“movimenti sociali”. L’opera di Castells è inoltre debitrice nei

confronti delle analisi dell’economista Robert Reich sulle

trasformazioni del ruolo sociale dell’impresa e nella divisione

internazionale del lavoro e sulla crescita in numero ed

importanza dei cosiddetti “analisti simbolici” 11. Secondo l’autore

catalano “la ristrutturazione del modo di produzione capitalista

alla fine del XX secolo”, susseguente alla crisi attraversata negli

anni ‘70 dal modello keynesiano, ha plasmato “un modo di

sviluppo mai visto prima, l’informazionalismo” in cui “l’elemento

essenziale per l’avanzamento della produttività nel processo

produttivo […] risiede nella tecnologia di generazione del sapere,

dell’elaborazione delle informazioni e della comunicazione

simbolica” (1996, pp. 15-17). Pur sottolineando che

l’informazione e la conoscenza hanno costituito elementi critici

in tutti i modi di sviluppo, Castells (ibid., p. 17-18) evidenzia che

la peculiarità del nuovo modo di sviluppo “consiste nel fatto che

la sua fonte principale di produttività è l’azione della conoscenza

sulla conoscenza stessa […] in un circolo virtuoso di interazione

tra le fonti del sapere della tecnologia e l’applicazione della

tecnologia allo scopo di perfezionare la generazione della

conoscenza e l’elaborazione delle informazioni […] in un ciclo di

feedback cumulativo tra innovazione e usi dell’innovazione”.

L’asse principale dello sviluppo di quello che Castells

definisce “capitalismo informazionale” è individuato dal

sociologo spagnolo nella “rivoluzione delle tecnologie

dell’informazione” e nel nuovo “paradigma tecno-economico” da

essa plasmato, allo stesso modo in cui “la determinante

innovazione nella generazione e distribuzione di energia” fu alla

base del capitalismo industriale. All’estensione e

Page 37: tesi

Capitolo I 18

all’accrescimento della forza del corpo umano resi possibili dalle

innovazioni della seconda rivoluzione industriale, subentrano

oggi l’amplificazione e l’estensione di una mente umana

potenziata da computer e sistemi di comunicazione. Le

innovazioni “sinergiche” ed esponenziali degli ultimi cinquanta

anni nei campi della microelettronica, dell’informatica e delle

telecomunicazioni, nonché negli ambiti convergenti

dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie, e la loro complessa

interazione con la ricerca militare, gli interessi commerciali, gli

investimenti statali e gli ambienti culturali di riferimento, si

sono coagulate intorno allo “spartiacque tecnologico degli anni

Settanta” dando origine, a partire dalla costa occidentale degli

Stati Uniti, ad un nuovo sistema tecnologico che ha pervaso “le

funzioni, i gruppi sociali e i territori del globo dominanti”, con

una rapidità inedita per le rivoluzioni tecnologiche precedenti,

determinata proprio dalla natura “virtuosa” ed esponenziale dei

suoi sviluppi.

La concretizzazione a lungo termine più eclatante e visibile

di questo sistema tecnologico è stata senza dubbio Internet. La

Rete delle reti si è strutturata, nel giro di un trentennio, come la

principale infrastruttura di comunicazione a livello globale e la

prima nella storia a consentire lo scambio in tempo (quasi) reale

di enormi e crescenti quantità di dati in grado, sfruttando la

duttilità del codice binario, di veicolare una gamma pressoché

infinita di formati, risorse, attività e relazioni sociali: dal traffico

voce alle risorse informative che le diverse strutture dell’azienda

in rete si scambiano per funzionare e interagire tra loro e con

clienti e fornitori; dal semplice formato testuale della posta

elettronica, dei newsgroups di Usenet, degli oramai lontani

BBSs, e poi delle chat e dell’instant messaging, ai formati

multimediali e interattivi che circolano sul World Wide Web o

Page 38: tesi

Società dell’Informazione 19

sui circuiti della televisione digitale e che assolvono alle più

disparate funzioni comunicative, informative o transattive; dalle

applicazioni di calcolo distribuito del grid computing e dallo

scambio di dati fra istituzioni scientifiche e accademiche in tutto

il mondo all’altrettanto globale condivisione di risorse audio,

video, software e altro attraverso i circuiti delle reti peer to peer.

In questa parziale ricognizione ciò che salta agli occhi è la natura

assai eterogenea degli scambi e delle attività che avvengono

attraverso i protocolli di comunicazione che costituiscono

l’infrastruttura logica di base di Internet: gli ambiti della

produzione e del commercio, del consumo e dell’intrattenimento,

della ricerca scientifica e della collaborazione accademica, delle

relazioni interpersonali e di gruppo, tutti trovano nella Rete e nei

formati digitali un’infrastruttura e un ambiente comuni. Ne

consegue, tra l’altro, che in tale ambiente prendano forma allo

stesso tempo i dispositivi del potere così come le relative istanze

di resistenza.

Le evoluzioni tecniche che plasmarono il nuovo paradigma

tecnologico e diedero vita alla Rete delle reti, si intrecciarono – e

si alimentarono reciprocamente – con i processi di

ristrutturazione capitalistica avviati negli anni Settanta per porre

rimedio alla crisi del modello keynesiano di sostegno alla

domanda. La “ricerca di nuovi mercati, in grado di assorbire la

crescente capacità produttiva di beni e servizi” che non trovava

più sbocchi nelle economie avanzate, innescò il processo di

sviluppo di un’”economia globale”, cioè “un’economia le cui

componenti centrali hanno la capacità istuzionale,

organizzativa e tecnologica di operare come un’unità in tempo

reale o scelto su scala planetaria”. Le sue linee fondamentali

furono il frutto dell’”interazione fra mercati, governi e istituzioni

finanziarie internazionali”:

Page 39: tesi

Capitolo I 20

[…] né la tecnologia né gli affari potevano dar vita in modo autonomo

all’economia globale. Gli agenti decisivi per la realizzazione della nuova

economia globale furono i governi e, in modo particolare, i governi dei

paesi più ricchi, i G-7, e le istituzioni internazionali sussidiarie da essi

dipendenti: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e

l’Organizzazione Mondiale per il Commercio. Tre politiche interrelate

gettarono le fondamenta della globalizzazione: la deregolamentazione

dell’attività economica nazionale (a partire dai mercati finanziari); la

liberalizzazione del commercio e dell’investimento internazionali; la

privatizzazione delle società di proprietà pubblica.

Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione

risultarono non a caso uno degli oggetti privilegiati delle

politiche di liberalizzazione e privatizzazione e al tempo stesso

gli strumenti indispensabili per la loro piena implementazione su

scala globale nei più diversi settori merceologici e produttivi

(Schiller 1999). Gli effetti – globali ma differenziati per aree

geografiche e influenze culturali – generati dall’intreccio di

queste politiche furono l’integrazione globale dei mercati

finanziari, l’internazionalizzazione spinta del commercio (in

particolare la crescita del settore dei servizi) e soprattutto della

produzione (crescita degli investimenti diretti all’estero,

sviluppo delle imprese multinazionali) e la conseguente

trasformazione organizzativa del processo produttivo in reti di

produzione transnazionali. E’ interessante notare, come fa

Castells, come una volta garantito il collegamento tecnologico, il

processo di generazione e diffusione della tecnologia e del

relativo know-how si organizza intorno a queste stesse reti,

grazie allo stretto legame fra ricerca di base e ricerca applicata e

alla loro diffusione “selettiva” e diseguale, da cui dipendono

sviluppo economico e competitività.

Page 40: tesi

Società dell’Informazione 21

“Informazionalismo, globalizzazione e networking”, i

caratteri principali della “nuova economia” identificata da

Castells, sono dunque processi strettamente interconnessi tra di

loro, e a loro volta legati a trasformazioni profonde nei modelli

d’impresa (sviluppo dell’”impresa a rete”), nella struttura

occupazionale e di divisione internazionale del lavoro

(polarizzazione sociale, flessibilità, precarizzazione,

“individualizzazione del lavoro”), nei meccanismi di creazione e

misurazione del “valore” (finanziarizzazione), nella

configurazione e nelle dinamiche del potere politico (perdita di

influenza da parte dello Stato-nazione), nei processi, nei modelli

e negli strumenti della comunicazione e degli scambi culturali

(“virtualità reale”), nelle dinamiche del consenso politico e del

processo democratico, nella configurazione dominante delle

dimensioni materiali fondamentali dell’esperienza, ossia spazio e

tempo (prevalenza dei flussi sui luoghi, tempo indifferenziato o

acronico). L’assetto sociale complessivo scaturito da queste

dinamiche organizza sempre più le funzioni e le strutture

dominanti intorno a reti, la cui logica binaria

(inclusione/esclusione) e i cui flussi prevalgono sugli stessi attori

e sullo stesso potere: la “società in rete” è “caratterizzata dalla

preminenza della morfologia sociale rispetto all’azione sociale”.

In conclusione, questa struttura sociale fondata in maniera

predominante sui network ha avuto origine, secondo il sociologo

spagnolo, dall’intreccio di tre processi indipendenti: l’affermarsi

in campo economico delle esigenze di flessibilità gestionale e

globalizzazione di capitali, produzione e commercio; l’emergere

nella società dei valori della libertà individuale e dell’apertura

della comunicazione; gli straordinari miglioramenti delle

prestazioni dei computer e delle telecomunicazioni, resi possibili

dai progressi della microelettronica (Castells 2001).

Page 41: tesi

Capitolo I 22

2.2 Il “capitalismo culturale” di Jeremy Rifkin

Al di là della già menzionata versatilità della Rete, la

convergenza dei diversi ambiti delle relazioni umane verso un

ambiente omogeneo il cui perno è rappresentato dalla

comunicazione, è stata indagata, da un punto di osservazione

maggiormente attento agli aspetti culturali, da Jeremy Rifkin

(2000). L’autore statunitense sottolinea infatti come le società

moderne stiano attraversando una fase di profondo

cambiamento, riassumibile nel graduale passaggio, nei diversi

ambiti delle attività sociali, dalla prevalenza della proprietà di

beni fisici alla priorità dell’accesso a servizi, prima, ed

esperienze, poi. Questo mutamento si inscrive in una

trasformazione più ampia del capitalismo, ovverosia il

progressivo slittamento dalla “produzione industriale” alla

“produzione culturale”. Quest’ultima rappresenterebbe “la fase

finale del modo di vita capitalistico, il cui scopo è quello di

sottoporre una porzione sempre maggiore dell’esperienza umana

al dominio della sfera economica” (ibid.). Mentre Stati e mercati

vengono sostituiti dalle Reti, la dimensione della “mercificazione

del lavoro”, il più tipico dei tratti di un’economia e di una società

industriali, estende la sua presa in direzione di una

“mercificazione del divertimento”, e quindi del tempo e della vita

stessa, in cui le risorse culturali e le esperienze umane sono

frammentate, decontestualizzate e impacchettate per essere

messe a valore nel processo produttivo o rivendute a pagamento

come “diritto d’accesso” a mondi ibridi fra virtuale e reale –

turismo, parchi a tema, centri commerciali, sport, musica,

cinema, televisione, e ora anche Internet e l’“intrattenimento

digitale” delle reti globali che danno forma al ciberspazio 12. Dato

il legame strutturale che sussiste fra comunicazione e cultura,

Page 42: tesi

Società dell’Informazione 23

quando, come sta avvenendo oggi, gran parte delle risorse e degli

strumenti di comunicazione vengono privatizzati e

commercializzati, la cultura stessa non può che andare incontro

allo stesso processo di mercificazione. Il risultato è un

“ipercapitalismo fondato sull’accesso a esperienze culturali” e un

processo di “recinzione” del patrimonio culturale dell’umanità –

inteso come insieme costituito dalle risorse culturali, ma anche

dagli stessi caratteri biologici dell’uomo e delle diverse specie

animali e vegetali con cui esso ha interagito nel corso della sua

storia per trarne sostentamento.

Rifkin non è il solo, inoltre, a sottolineare come questi

processi presentino significative analogie con le enclosures che

interessarono le “terre comunali” nella fase di avvio del

capitalismo – caratterizzata da quella che Marx ha definito

“accumulazione primitiva” – tra il XVI e il XVII secolo, e

inaugurarono quella “predazione di esternalità” di cui parla Yann

Moulier Boutang. Il sistema della produzione di merci, infatti, si

è sempre rivolto nel corso della sua storia a ricchezze “esterne”

per reperirvi quelle risorse indispensabili al suo funzionamento

ma che esso non era in grado di produrre “secondo la sua logica e

i suoi propri metodi” (Gorz 2003, pp. 51-57). Dall’ambiente

naturale, bene in origine collettivo, appropriato e sfruttato dal

sistema industriale, alle risorse sociali di fiducia e onestà,

indispensabili per l’efficacia degli istituti finanziari e di mercato

(contratti, compravendita, ecc.) e originate nella sfera delle

relazioni sociali; dalle attività di cura e riproduzione familiare

che garantivano la disponibilità della forza-lavoro e la

socializzazione primaria dei bambini; fino all’odierna crescente

valorizzazione economica dei “beni collettivi dell’umanità, come

la biodiversità, i genomi e i saperi viventi in corso di

brevettazione e privatizzazione” (ibid.), degli spazi comuni,

Page 43: tesi

Capitolo I 24

urbani e naturali, delle “conoscenze vive e, più in generale,

[delle] capacità umane prodotte nella cooperazione e mediante

essa” (ibid.), spontaneamente e al di fuori dai meccanismi dello

scambio mercantile e anzi tanto più utili e di “valore” quanto più

inserite in un ambiente di condivisione e reciprocità. In ognuno

di questi casi di appropriazione di esternalità da parte delle forze

del capitale, tali risorse sono state depredate e deteriorate, in

alcuni casi fino al loro esaurimento. Secondo Rifkin la massiccia

introduzione delle risorse culturali nel ciclo produttivo configura

il grave rischio, di cui già si intravedono le prime avvisaglie nella

loro trasformazione in prodotti di “consumo” 13, di un loro

progressivo impoverimento e deterioramento, con conseguenze

nocive per le stesse prerogative del mercato ma soprattutto per i

fondamenti su cui si basa l’esistenza delle diverse comunità

umane e in definitiva dell’umanità stessa in quanto tale.

2.3 Postfordismo e informazionalismo: i saperi al

lavoro fra subordinazione e liberazione

Le considerazioni di Rifkin sulla “deriva culturale” del

capitalismo si intrecciano, quindi, con le riflessioni, di origine

soprattutto europea, sulle mutazioni del lavoro e dell’impresa

indotte dall’accresciuto ruolo delle risorse di informazione e

conoscenza nei processi di valorizzazione capitalistica. Non solo

il valore aggiunto – e spesso la stessa sostanza – di prodotti e

servizi immessi sul mercato è sempre più costituito dalla loro

componente “immateriale”, ma gli stessi processi produttivi

tendono ad incorporare una quota sempre maggiore di “capitale

umano”, intendendo con ciò l’insieme delle conoscenze e delle

“facoltà umane generiche” messe a lavoro non più solo “tra le

mura” dell’impresa fordista ma nella società nel suo complesso.

Page 44: tesi

Società dell’Informazione 25

Si trova un accenno a tali questioni nello stesso Castells (1996, p.

107), quando afferma che la specificità dell’informazionalismo

“non è il tipo di attività che impegna l’umanità, ma la sua abilità

tecnologica nell’impiegare come forza produttiva diretta ciò che

contraddistingue la nostra specie come eccezione biologica: la

sua superiore capacità di elaborare simboli”; ne deriva, dice

ancora Castells (ibid., p. 32), “un rapporto stretto tra i processi

sociali di creazione e manipolazione dei simboli (la cultura della

società) e la capacità di produrre ed erogare beni e servizi (le

forze produttive). Per la prima volta nella storia la mente umana

è una diretta forza produttiva, non soltanto un elemento

determinante del sistema produttivo”.

2.3.1 Marx, il “general intellect” e il capitalismo cognitivo

I mutamenti delle forme del lavoro e dell’impresa nel nuovo

contesto tecnico-organizzativo del capitalismo sono state

affrontate soprattutto nell’ambito del dibattito relativo alla

nascita del post-fordismo – un dibattito risalente, in realtà,

addirittura alla metà degli anni Ottanta (Revelli 2001, p. 115). In

pratica l’insieme di fenomeni e trasformazioni riassunti da

Castells nel concetto di “impresa a rete”, trova in questi autori

una sistemazione teorica che ne sottolinea il ruolo di cesura

storica rispetto al fordismo, ovverosia rispetto al modello

tecnico-organizzativo che ha dominato la scena dello sviluppo

industriale e ha plasmato le strutture delle società avanzate

lungo il corso del Novecento. In particolare la “teoria critica” di

matrice europea, e soprattutto il pensiero “neo-marxista” e

“post-operaista” italiano 14, nell’incontro con la scuola “post-

strutturalista” francese, ha evidenziato come il nuovo paradigma

implichi un’inedita messa al lavoro dell’intelletto umano, che da

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Capitolo I 26

un lato prefigurerebbe un processo di estensione e

approfondimento dello sfruttamento capitalistico sulla totalità

delle relazioni umane, dall’altro costituirebbe uno

stravolgimento dei fondamenti del capitalismo tale da sancirne la

crisi irreversibile.

All’origine di tali interpretazioni si colloca innanzitutto la

riproposizione di un anomalo e controverso brano di Karl Marx,

tratto dai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia

politica del 1857-58; tale brano è riletto quasi come antesignano

(e allo stesso tempo come contrappunto) delle teorie odierne che

parlano di un’“economia della conoscenza” e di un “capitalismo

cognitivo” – espressioni utilizzate, forse con eccessivo

compiacimento, per riferirsi appunto alle mutate condizioni di

valorizzazione del capitale. In quel testo “si parla ora dello stato

generale della scienza, ora del sapere sociale generale

(knowledge), ora del general intellect, ora delle forze generali

della mente umana” (Gorz 2003, p.10). Marx parla quindi del

“sapere oggettivato nel capitale fisso” (Virno 2001) – ossia della

scienza e della tecnologia incarnate nel sistema di macchine e

originate dal general intellect – il cui sviluppo già mostrava fino

a che punto il “sapere sociale generale, knowledge”, fosse

diventato “forza produttiva immediata”. La tesi lì sostenuta da

Marx – con una forse involontaria ma notevole lungimiranza – è

che la “conoscenza (knowledge)” – o il “sapere astratto”, o il

general intellect – sarebbe diventata “la forza produttiva

principale” e “la principale fonte di ricchezza”, relegando il

lavoro immediato in un ruolo “indispensabile, ma subalterno,

rispetto al lavoro scientifico generale”. Andrè Gorz (2003, p. 10)

fa notare opportunamente l’oscillazione della terminologia

marxiana, per cui inclusi nel general intellect sembrano essere

anche la “«formazione e [lo] sviluppo artistico, scientifico ecc.»

Page 46: tesi

Società dell’Informazione 27

che l’individuo potrà acquisire grazie all’«aumento del tempo

libero» e che retroagisce sulla «produttività del lavoro». Il che fa

sì – prosegue ancora Gorz citando il brano di Marx – che la

liberazione «del tempo dedicato allo sviluppo pieno

dell’individuo» può essere considerata, «dal punto di vista del

processo di produzione immediato, come produzione di capitale

fisso, questo capitale fisso being man himself». L’idea di

“capitale umano” si trova dunque già nei manoscritti del 1857-

58”.

La stessa ambiguità del termine “conoscenza” si riscontra

d’altronde nell’uso che se ne fa oggi per indicare la materia

prima della nuova economia: nel novero delle attuali forze

produttive, non solo le conoscenze formali incarnate negli

individui si aggiungono alla conoscenza oggettivata nel sistema

di macchine – divenuto tra l’altro in grado di manipolare altra

conoscenza – ma esse sono in realtà solo una minima parte del

complesso di conoscenze informali, capacità espressive,

relazionali, cooperative, affettive, immaginative, inclinazioni

etiche, mentalità, saperi pratici, ecc., che gli individui producono

nella cooperazione sociale al di fuori dalla sfera produttiva – che

producono proprio in quanto fuori da essa, attingendo al general

intellect come il parlante attinge alla lingua (Virno 2001) – e di

cui il processo produttivo si appropria gratuitamente, novello

plusvalore assoluto. Queste competenze cognitive e affettive non

sono oggettivabili, riguardano le più generiche attitudini della

mente, la semplice facoltà di pensare, e appartengono a

quell’“intellettualità di massa” definita come “l’insieme del

lavoro vivo post-fordista” proprio “in quanto depositario di

competenze cognitive non oggettivabili nel sistema di macchine”

(ibid).

Page 47: tesi

Capitolo I 28

L’inedita compenetrazione di “azione comunicativa e azione

produttiva”, “lavoro e linguaggio” – sino all’affermazione

secondo la quale “il lavoro è interazione” (ibid.) – è legata a

doppio filo alle potenzialità delle tecnologie digitali; non tanto,

appunto, come mezzi di oggettivazione del sapere diffuso, quanto

come macchine le cui funzioni riguardano piuttosto

“l’interazione comunicativa” e “la codificazione linguistica”

(Formenti 2002). Il computer, allora, e la “rivoluzione

microelettronica” in generale, rappresenterebbero in ambito

produttivo un punto di non ritorno in quanto danno vita a

macchine il cui compito non è “oggettivare competenze

precostituite, bensì intercettare le conoscenze là dove esse si

producono, cioè nel corso delle interazioni che avvengono

all’interno del lavoro vivente” (ibid.) per inserirle in quei circuiti

dell’accumulazione flessibile, capaci di mettere in rete risorse,

modi, tempi e luoghi di produzione fra loro molto diversi. Ne

deriva una messa al lavoro (e a valore) dell’intero insieme di

attività umane, che divengono quindi direttamente o

indirettamente produttive, e anzi in qualche modo producono se

stesse. Come afferma Gorz (2003, pp. 12-14, 48) non solo

“lavorare è prodursi” – dal momento che, a differenza della

spoliazione “dei saperi, delle capacità e delle abitudini sviluppati

nella cultura quotidiana” necessaria all’inserimento dei

lavoratori nel processo produttivo parcellizzato della fabbrica

taylorista, “i lavoratori postfordisti devono entrare nel processo

di produzione con tutto il bagaglio culturale” acquisito; ma la

centralità assunta dal capitale simbolico nel processo di

valorizzazione fa sì che anche il consumo sia “produzione di sé”.

Attraverso tale concettualizzazione è possibile, per alcuni,

affermare il destino ineluttabile di subordinazione effettiva

(sussunzione reale, con terminologia marxiana) al dominio del

Page 48: tesi

Società dell’Informazione 29

capitale cui va incontro non più solo il lavoro, ma ogni ambito

dell’esistenza – sottomesso ad un foucaltiano “biopotere”

attraverso cui il capitale produce direttamente i corpi e le menti

dei produttori-consumatori; un tipo di dominio al quale diventa

possibile opporre solo la politicizzazione antagonista di ogni

relazione sociale direttamente o indirettamente implicata nel

processo capitalistico di produzione. E’ questo il punto di vista

del pensiero attualmente più in voga in buona parte della sinistra

radicale europea; un punto di vista in cui si collocano anche le

riflessioni sui concetti di Impero e di Moltitudine espressi in

particolare da Toni Negri e Micheal Hardt in alcuni loro recenti

lavori (Hardt e Negri 2000; 2004). Da questa prospettiva,

tutt’altro che uniforme, si osserva il confluire della politica,

dell’economia, delle facoltà, delle abitudini, della stessa sfera

affettiva in un unico elemento, l’uscita del lavoro da una pura

dimensione economica, l’ingresso della politica nel processo del

lavoro, lo svilupparsi di forme di vita e di comportamenti non più

riconducibili separatamente all’una o all’altra sfera, tanto sul

versante del potere quanto su quello di chi vi si oppone.

2.3.2 Esodo dalla “società del lavoro”?

Le critiche di Formenti (2002) alla versione più “ortodossa”

– per quanto tale aggettivo possa qui risultare paradossale – del

pensiero “post-operaista” e in generale ai limiti del paradigma

postfordista, si appuntano in particolare proprio sull’estensione

del concetto marxiano di sussunzione reale all’“inserimento

d’una sfera sempre più ampia di attività umane nella catena del

valore di una produzione capitalistica terziarizzata,

smaterializzata, semiotizzata […] soprattutto perché le attività in

questione […] non vengono unificate dal modo di produzione,

come avveniva con le vecchie attività professionali omologate

Page 49: tesi

Capitolo I 30

dalla catena di montaggio fordista, al contrario: esse sono tanto

più funzionali al nuovo modo di produrre quanto più conservano

le loro differenze”. Riprendendo le considerazioni di Rifkin

sull’“economia dell’accesso” e sulle new enclosures, Formenti

interpreta queste ultime come la manifestazione di un nuovo

processo di sussunzione formale, non più solo del lavoro in senso

classico, ma delle attività e delle risorse sociali comuni in

generale al capitale; un processo analogo a quello che interessò

nella fase aurorale del capitalismo le attività artigianali,

concentrate dall’imprenditore sotto il suo comando unificato e

nel suo spazio produttivo, ma ancora non intaccate nei rispettivi

metodi di lavoro. Due fattori impedirebbero invece di estendere

il concetto di sussunzione reale agli attuali fenomeni di

estrazione di valore dalla spontanea cooperazione sociale: da un

lato la già citata “polverizzazione” delle attività direttamente o

indirettamente produttive e l’irriducibilità delle loro differenze –

il paradosso per cui “l’uomo a molte dimensioni” non può più

essere privato delle sue molteplici prerogative ma ugualmente

deve essere ridotto all’unica dimensione della merce. Dall’altro, e

soprattutto, ad impedire una tale riproposizione sarebbero le

resistenze opposte dagli attori sociali dall’interno stesso di

relazioni compiutamente capitalistiche – relazioni, cioè, e

strumenti abilitanti, generati dallo stesso sviluppo capitalistico.

Tali resistenze sarebbero analoghe per natura ed intensità a

quelle incontrate dall’ideologia del laissez-faire a cavallo tra

Ottocento e Novecento, all’apice di quella “grande

trasformazione”, in primo luogo culturale, della società, situata

da Karl Polanyi all’origine del capitalismo moderno. Le società

occidentali starebbero attraversando, infatti, un’analoga fase di

riconfigurazione dei rapporti sociali, determinata oggi in gran

parte dall’intreccio fra la rivoluzione informatica e digitale e le

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Società dell’Informazione 31

trasformazioni culturali e sociali sostenute dai movimenti sociali

degli ultimi trent’anni. A differenza di allora, però, i “soggetti”

che secondo Formenti si oppongono alla nuova “trasformazione”

– hackers, frange del lavoro cognitivo, piccole imprese

innovatrici, ricercatori e scienziati, sviluppatori di free software,

utenti delle reti p2p e in generale di Internet, “comunità virtuali”

– lo farebbero proprio per preservarne i caratteri originari,

difendendo modelli di relazione non residuali, perché sorti al

centro stesso dello sviluppo capitalistico e del suo incessante

processo di mutamento, ma paradossalmente ad esso in qualche

modo contrapposti, perché fondati sulla gratuità dello scambio,

sulla cooperazione e sulla condivisione di strumenti e risorse.

Ci troviamo qui su quel crinale della riflessione intorno al

nuovo paradigma produttivo e sociale scaturito dalla “crisi” del

capitalismo industriale e dall’avvento delle nuove tecnologie

dell’informazione e della comunicazione, secondo cui le “linee di

rottura del modello socio-economico novecentesco” (Revelli

2001) riscontrabili nelle trasformazioni in corso,

rappresenterebbero una possibile modernizzazione positiva

lungo un percorso di emancipazione individuale e collettiva dalla

“società del lavoro”. Una visione condivisa, pur con sfumature e

accenti molto diversi tra loro, non solo da Rifkin e da molti

esponenti dell’“utopia digitale” californiana, rappresentata da

autori, ricercatori e guru quali Nicholas Negroponte, Kevin Kelly

e Gorge Gilder e da riviste patinate come Wired e Mondo2000;

ma anche da quelle che lo stesso Formenti definisce le “eresie

della teoria postfordista” e da una parte della net theory

accademica nordeuropea e nordamericana. Da questa assai

sfaccettata prospettiva il lento dissolvimento della distinzione fra

tempo di lavoro e tempo libero, la centralità assunta dagli aspetti

relazionali e comunicativi (il “lavoro al femminile”) e in generale

Page 51: tesi

Capitolo I 32

l’emergere dei caratteri di una “società dell’informazione”

vengono intesi, piuttosto che come gli elementi di un processo di

subordinazione della totalità delle attività umane al controllo del

capitale e della sfera produttiva, come i contorni ancora sbiaditi

di uno scenario caratterizzato dalle diverse espressioni di

un’auspicabile identificazione positiva di vita e lavoro.

2.4. L’etica hacker e lo spirito

dell’informazionalismo

Significative in proposito sono le riflessioni che provengono

dalla letteratura riguardante la cosiddetta “etica hacker”. Con

evidente ed esplicito riferimento alla nota opera di Max Weber 15

e condividendo in pieno il punto di vista di Castells, il ricercatore

finlandese Pekka Himanen (2001) presenta i caratteri di quello

che definisce “spirito dell’età dell’informazione” o

“dell’informazionalismo”, rinvenendone le origini appunto

nell’“etica hacker”. Se Weber aveva rintracciato la matrice

storico-culturale dell’economia capitalistica nell’etica monastica

del cattolicesimo medievale e soprattutto nell’etica protestante,

in particolare nel loro approccio al lavoro come sacrificio,

vocazione e “conferma dello stato di grazia”, Himanen istituisce a

sua volta un legame fra l’informazionalismo, inteso nei termini di

nuovo modo di sviluppo del capitalismo, e l’etica hacker, ossia

quella concezione del lavoro – e della vita – che privilegia la

passione e le motivazioni personali rispetto al guadagno

economico e lo interpreta come mezzo di realizzazione personale

piuttosto che come valore in sé in quanto “risposta alla chiamata

divina”.

Page 52: tesi

Società dell’Informazione 33

2.4.1 La criminalizzazione dell’hacking

E’ innanzitutto necessario spazzare il campo dagli equivoci

che circondano le diverse accezioni del termine hacker, equivoci

generati per lo più dal perverso intreccio fra le semplificazioni e

le vere e proprie distorsioni implicate dai meccanismi di

newsmaking adottati dai media fin dagli anni Ottanta e le

campagne denigratorie e persecutorie messe in atto, soprattutto

a partire dai primi anni Novanta, nei confronti delle

controculture informatiche da diversi governi – quello

statunitense in primis, seguito, tra gli altri, anche da quello

italiano 16. In tali rappresentazioni, infatti, l’hacker viene

mostrato come un esperto informatico dedito ad un’ampia

gamma di attività criminose o a scopo criminale: dalla violazione

di codice informatico alla penetrazione in reti protette, dalla

diffusione attraverso la Rete di diversi tipi di virus, worm e

trojan informatici all’aggiramento delle barriere poste al libero

utilizzo di software commerciale, fino al cosiddetto “furto

d’identità”, ossia l’appropriazione indebita, attraverso sistemi

informatici (sniffing) e meccanismi sociali e psicologici

(phishing), di dati personali relativi ad informazioni bancarie.

In tempi più recenti, da un lato la mole di ricerche ben

documentate su storia, cultura e valori condivisi del variegato

universo hacker ha portato ad una sua maggiore comprensione,

soprattutto in ambito accademico e nella copertura dei media

indipendenti; dall’altro, però, ciò non è servito ad impedire la

sua ulteriore criminalizzazione da parte del sistema dei media

mainstream, delle istituzioni governative e degli apparati di

controllo e repressione, sulla base dell’accostamento fra

l’hacking e la nuova categoria, emersa con particolare veemenza

dopo l’11 Settembre, del cyberterrorismo (Vegh 2005). In questo

senso, il progressivo slittamento dall’equazione hacker-criminale

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Capitolo I 34

a quella – più adeguata ai tempi … – hacker-terrorista, sembra

mirato ad indebolire quel potenziale di dissenso che è venuto

caratterizzando il movimento hacker negli ultimi anni, nella sua

parziale sovrapposizione con quei movimenti che fanno uso dei

nuovi media per proporre esperienze, modelli economici e

immaginari, alternativi a quelli dominanti – ad esempio le

pratiche dell’attivismo on line e del mediattivismo, o l’esplicito

riferimento a tale sovrapposizione del neologismo hactivism –

(Di Corinto e Tozzi 2002; Lovink 2002; 2003). Nel frattempo

persino la violazione del copyright sulle cosiddette opere

dell’ingegno nella nuova fase digitale – soprattutto musica,

audiovisivi e software – attraverso la loro condivisione nei

circuiti delle reti peer to peer, o addirittura il semplice sviluppo

del software necessario al loro funzionamento, sono stati fatti

oggetto di criminalizzazione – e in molti casi di veri e propri

procedimenti legali – e superficialmente assimilati per certi versi

all’universo hacker.

2.4.2 Breve storia dell’hacking

Nelle ricostruzioni delle reali connotazioni che sono andati

assumendo nel tempo i termini hack, hacker, hacking e le loro

diverse derivazioni (Levy 1984; Di Corinto e Tozzi 2002;

Himanen 2001; Willliams 2002; Castells 1996; Berra e Meo

2002), si fa risalire la loro origine “non informatica” al clima

goliardico dei campus statunitensi e in particolare del MIT di

Boston nei primi anni Cinquanta: hacks erano gli scherzi

raffinati e inventivi, attività creative svolte per divertimento, per

lo più innocue e non dolose, in alcuni casi semplici passatempi

che richiedevano una certa abilità. Più avanti il termine acquistò

una connotazione più netta e “ribelle”, per cui oltre a continuare

ad indicare prese in giro e scherzi elaborati, sempre più diretti

Page 54: tesi

Società dell’Informazione 35

contro l’amministrazione e i vincoli burocratici e formali che essa

incarnava, cominciò ad essere utilizzato anche nell’accezione di

“esplorazione senza limiti”, sia delle diverse zone off-limits degli

istituti del campus (tunnel hacking), sia delle potenzialità delle

tecnologie allora disponibili, in particolare il telefono (phone

hacking 17). “La combinazione tra divertimento creativo ed

esplorazioni senza limiti costituirà la base per le future

mutazioni del termine hacking” (Williams 2002).

I primi ad auto-definirsi computer hacker, nei primi anni

Sessanta, trassero ispirazione da un gruppo di studenti del MIT,

appassionati di modellismo ferroviario, riuniti alla fine degli

anni Cinquanta nel Model Railroad Club e dediti alla

realizzazione di complessi sistemi elettrici per il funzionamento

dei loro modellini, per la quale diventava fondamentale e

prendeva forma un altro degli aspetti significativi della futura

cultura hacker, ossia la sfida a raggiungere l’eleganza e

l’efficienza del prodotto realizzato, in altre parola la ricerca

dell’eccellenza. I primi mainframe che arrivarono al MIT, in

particolare nel suo Laboratorio di Intelligenza Artificiale,

trovarono quindi un clima già intriso di quella curiosità nei

confronti della tecnologia e del desiderio di esplorarne le

potenzialità e migliorarne il funzionamento. L’hacking divenne

l’attività di comporre in modo non convenzionale programmi che

sfruttassero appieno le scarse risorse di calcolo di quelle prime

macchine (mainframe e minicomputer), per scopi non

necessariamente utilitaristici e conservando uno spirito giocoso,

irriverente e creativo. A differenza del primo hacking – che in

generale consisteva di attività di natura semi-clandestina,

individuali o svolte in piccoli gruppi – la “programmazione

creativa” delle prime macchine informatiche si inseriva inoltre

all’interno di una disciplina scientifica basata sulla

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Capitolo I 36

collaborazione e sull’aperto riconoscimento dell’innovazione. I

concetti di innovazione collettiva e proprietà condivisa del

software distanziarono di conseguenza l’attività di computer

hacking dai suoi precedenti non informatici e segnarono un altro

passaggio cruciale nell’evoluzione dei caratteri della cultura

hacker.

La successiva generazione di programmatori (e hacker),

cresciuta nel clima dei movimenti controculturali degli anni

Sessanta, si trovò a portarne più o meno consapevolmente i

tratti. Nel frattempo la diffusione dei computer e la nascita delle

prime reti di comunicazione estendeva la portata della

costruenda cultura hacker oltre le mura del MIT e verso gli altri

campus (Stanford, Cambridge, Harvard) e i rispettivi bacini

culturali e sociali. A tale estensione fece seguito, a partire dalla

seconda metà degli anni Settanta, una riduzione dell’ampiezza

del significato associato ai termini hacker e hacking, i quali

assunsero connotazioni allo stesso tempo maggiormente elitarie

e tribali. Cominciò in questo modo a prendere corpo quel senso

di appartenenza ad una comunità di pari sulla base del quale,

secondo la tautologica definizione di uno dei maggiori

osservatori del mondo hacker, Eric Raymond, “gli hacker sono

quelli che la cultura hacker riconosce come tali” (Castells, 2001).

In questo modo il rispetto dei valori, delle tradizioni e delle

regole più o meno esplicite che caratterizzavano la cultura

hacker – in altre parole la condivisione di quella che si

cominciava apertamente a definire “etica hacker” – divenne il

prerequisito per farne parte, alla pari delle capacità di

programmazione. In questa etica continuava a maggior ragione

ad essere valido il tabù delle origini nei confronti di ogni

comportamento malevolo e gratuitamente doloso.

Page 56: tesi

Società dell’Informazione 37

Ma per quanto questo indirizzo costituisse un elemento

fondamentale dell’etica hacker, i giovani programmatori che la

diffusione esponenziale dei computer e i primi esperimenti di

della rete ARPANET mettevano in contatto con hacker di grande

livello e con la loro filosofia “anarchica”, cominciarono a

sperimentare le proprie capacità con finalità dannose (virus,

irruzioni nei sistemi informatici militari, blocco degli stessi nodi

della rete), in un clima culturale in cui parte dell’underground

informatico si sovrapponeva con la nascente sottocultura punk.

Fu in quel momento, nei primi anni Ottanta, che il termine

hacker e i suoi affini assunsero, nei discorsi istituzionali e

soprattutto nei media mainstream, una connotazione negativa

associata ai crimini informatici. Il rigetto della cultura hacker

verso tali comportamenti malevoli portò la stessa maggioranza

degli hacker a coniare per tali “criminali informatici” il termine

cracker e poi la più sottile distinzione tra black hat e white hat.

Tuttavia, come sottolinea Williams (2003, p. 199)

[…] le valenze ribelli del termine [hacker] risalenti agli anni ’50 rendono

difficile distinguere tra un quindicenne che scrive programmi capaci di

infrangere le attuali protezioni cifrate, dallo studente degli anni ’60 che

rompe i lucchetti e sfonda le porte per avere accesso a un terminale

chiuso in qualche ufficio. D’altra parte, la sovversione creativa

dell’autorità per qualcuno non è altro che un problema di sicurezza per

qualcun’altro.

Soprattutto se si tiene conto, come raccomanda di fare il

critico della Rete Geert Lovink (2004, p. 22, nota 37) –

lamentando il carattere ideologico di molte rappresentazioni

buoniste e consensuali della cultura di Internet e dell’etica

hacker in particolare – del “fatto storico che molti hacker

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Capitolo I 38

dovevano hackerare per accedere alla Rete, prima che diventasse

accessibile al pubblico all’inizio degli anni Novanta. Forzare la

sicurezza non è un atto criminale per definizione, soprattutto se

lo inquadriamo nel contesto di un’altra etica hacker, «le

informazioni vogliono essere libere» (una definizione che va al di

là del solo codice)”. Lovink sottolinea opportunamente anche un

altro aspetto da tenere presente, un aspetto per altri versi notato

anche da Castells: il mondo hacker, i suoi valori e le sue

aspirazioni sono tutte interne a quella “fiducia tecnocratica nel

progresso del genere umano attraverso la tecnologia” che il

sociologo spagnolo indica come il motore fondamentale dello

sviluppo di Internet.

2.4.3 Informazionalismo ed etica hacker

Il legame fra l’informazionalismo e l’etica hacker è dettato

quindi in primo luogo dal contributo fondamentale che chi si

riconosceva nei suoi valori ha fornito alla cosiddetta “rivoluzione

informatica”. La nascita e lo sviluppo, negli anni Settanta, di

quello che sarebbe diventato nel tempo lo strumento principe

della “produttività” nel campo dell’agire economico, il personal

computer 18, furono infatti paradossalmente il frutto proprio di

questo tipo di approccio non strumentale: quello dei primi

“appassionati” di computer che, sulle orme dei primi computer

hacker, nei garage della West Coast assemblavano schede e

periferiche per dar libero sfogo alla propria creatività e al

proprio spirito anticonformista o, nelle formulazioni dei più

visionari, per dotare il popolo di un mezzo di comunicazione alla

portata di tutti o favorire modelli di relazione tra le persone

fondati sulla condivisione e l’informalità (Revelli 2001; Di

Corinto e Tozzi 2002; Castells 2001). 19 Come sottolinea Marco

Revelli (2001, pp. 103-104) “la sofisticata tecnologia che ha

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Società dell’Informazione 39

cambiato il nostro modo di vivere e di produrre è nata in realtà

prima che se ne potesse anche solo immaginare un uso possibile.

O, comunque, è stata concepita nel quadro di un immaginario

potenziale d’utilizzazione radicalmente diverso da quello in cui si

sarebbe in realtà incarnata”. Non fu casuale in proposito la cecità

delle aziende allora leader del settore informatico, prima fra

tutte l’IBM, e dei loro uffici marketing, che non compresero il

potenziale rivoluzionario del PC e tanto meno gli spazi di

mercato che esso apriva. Per la prima significativa immissione

sul mercato di questo nuovo strumento di calcolo in miniatura

bisognò aspettare che lo spirito libertario dei primi hacker,

alimentato dalla temperie culturale della contestazione

studentesca, incontrasse la vocazione imprenditoriale e

individualista che trovava terreno fertile nella cultura americana.

La stessa realizzazione e successiva diffusione di ARPANET e poi

di Internet, la cui storia si intreccia ovviamente con quella dei

primi computer, furono il risultato di molteplici innovazioni nei

campi dell’informatica e delle telecomunicazioni provenienti

dall’“improbabile intersezione tra Big Science, ricerca militare e

cultura libertaria” (Castells 2001). In questo intreccio la cultura

hacker e i suoi esponenti giocarono il fondamentale ruolo di trait

d’union tra i diversi ambiti coinvolti – in particolare tra

l’ambiente universitario e i network alternativi che cominciavano

a sperimentare usi alternativi delle prime reti accademiche – e

tra questi e l’ambiente imprenditoriale e i suoi prodotti, e allo

stesso tempo costituirono il “terreno fertile delle innovazioni

tecnologiche più importanti realizzate attraverso la cooperazione

e la libera comunicazione” (ibid.).

L’esempio forse più indicativo e sicuramente più noto del

contributo della comunità hacker all’evoluzione delle tecnologie

informatiche e in particolare di Internet e del World Wide Web è

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Capitolo I 40

rappresentato dal modello aperto di sviluppo del software. La

stragrande maggioranza dei protocolli, dei programmi e delle

applicazioni su cui si basa il funzionamento e la gestione della

Rete sono stati sviluppati in un regime di condivisione e

“apertura” del codice sorgente e messi a disposizione delle

comunità degli sviluppatori e degli utenti sotto la tutela di

licenze “libere” (ovvero non proprietarie) oppure in totale

assenza di copyright (ovvero come “dominio pubblico”). Se

quelle creazioni fossero state “chiuse” da “clausole di non

divulgazione” e dall’apposizione di licenze che ne limitavano la

libera copia e la modifica, Internet non sarebbe affatto diventata

quel medium aperto e difficile da recintare che oggi conosciamo.

E in effetti l’imperativo alla cooperazione e all’apertura e

condivisione del codice costituisce uno dei valori fondanti della

cultura hacker.

Ma secondo Himanen e Castells, la cultura hacker è alla base

del nuovo modello di sviluppo fondato sulle tecnologie

dell’informazione non solo per il suo contributo fondamentale

all’innovazione tecnologica e alla sua diffusione nella società in

generale o in quanto espressione di modelli di relazione e

comportamento della sola comunità degli hacker, ovvero di uno

dei protagonisti della rivoluzione informatica. In maniera forse

anche più significativa, infatti, il sistema di valori dell’etica

hacker trova riscontro nell’intero insieme di caratteri

dell’“informazionalismo”, a cominciare dalla già citata

valorizzazione, in campi molto diversi tra loro, della creatività,

delle attitudini relazionali, della flessibilità organizzativa, delle

capacità di adattamento, del lavoro di squadra e della

cooperazione, della condivisione delle conoscenze, per lo meno

nella misura in cui questi caratteri sono funzionali

all’accumulazione capitalista. Ovvero, nell’analisi di Himanen

Page 60: tesi

Società dell’Informazione 41

“l’espressione etica hacker viene usata in un’accezione che

trascende il mondo dell’informatica” e “considerata da questo

punto di vista, l’etica hacker diventa sinonimo di quel generale

rapporto entusiastico nei confronti del lavoro che si sta

affermando nella nostra età dell’informazione”. In questo senso

più ampio, ancora secondo Himanen, l’etica hacker trova

espressione in un’etica del lavoro e in un’etica del denaro; ma

anche, e forse soprattutto, in una netica, ossia un’etica del

network, fondata sulla condivisione, la cooperazione, il

decentramento, la libertà e il libero accesso per tutti alle risorse

costruite collettivamente nella Rete.

3. Una “società della conoscenza” post-capitalista ?

3.1 Risocializzazione della sfera produttiva

Facendo riferimento proprio alle implicazioni ad ampio

raggio dell’avvento della cosiddetta etica hacker, oltre che ad una

consolidata letteratura di stampo più tradizionale, Formenti

(2002) e Revelli (2001) sottolineano i diversi fenomeni di

sburocratizzazione, decentramento e flessibilizzazione cui vanno

incontro i modelli organizzativi e i processi di produzione, così

come quelli di personalizzazione, autonomizzazione,

individualizzazione e responsabilizzazione che interessano più

direttamente un lavoro sempre più declinato al plurale, in una

società scossa dalla “rivoluzione microelettronica” e pervasa

dalla “lunga durata” dei movimenti controculturali del ventennio

Sessanta-Settanta. Ma, sebbene i caratteri tecnici e sociali

riscontrati come indicatori di un cambio di paradigma socio-

economico sembrerebbero confortare le ipotesi dei due autori

circa, rispettivamente, una possibile “risocializzazione della

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Capitolo I 42

sfera produttiva” (Formenti 2002) e un possibile “esodo dal

dominio del lavoro totale” che ha dominato la scena del

Novecento (Revelli 2001), non sfuggono ad entrambi, seppure

con accenti e declinazioni differenti, i pericoli – e le avvisaglie –

di una riconfigurazione e intensificazione in forma elettronica e

digitale del dominio del capitale e del mercato sulla sfera sociale.

Se per Formenti queste avvisaglie sono da ricercare, come si

diceva, nel processo di new enclosure che interessa i beni comuni

digitali sorti dalla cooperazione sociale in rete, Revelli sottolinea

invece come sia “legittimo assimilare tale nuova forma di

«internalizzazione» delle facoltà comunicative e cooperative di

una pluralità di figure del lavoro disseminate sul territorio per

un verso alla marxiana – pre-moderna – «sussunzione formale

del lavoro al capitale» […]; per altro verso a una più avanzata –

post-moderna – forma di «sussunzione reale»” (Revelli 2001).

Nell’ambito della teoria critica di stampo europeo, i

contributi di Ulrich Beck, Yann Moulier Boutang e Andrè Gorz si

confrontano con la crisi della modernità e dei suoi tratti

caratteristici incentrati sul modo industriale di sviluppo, sul

welfare e sul ruolo preponderante dello Stato assistenziale, su

forme gerarchiche di organizzazione e divisione del lavoro e sui

conseguenti specifici modelli di integrazione fra l’individuo e la

società. Venuto meno il modello d’integrazione radicato nella

società industriale e nelle dinamiche dei suoi rapporti di forza –

in particolare quelli, mediati dallo Stato, fra capitale e lavoro – i

legami sociali che su tale modello si fondavano si sfaldano,

dando vita a nuove configurazioni che, se da un lato fanno perno

su flessibilità estrema, individualismo spinto e consumismo

sfrenato e producono quella che Beck definisce una “società del

rischio”, dall’altro offrono l’opportunità di liberare l’individuo

dalla rigida disciplina del lavoro fordista, risocializzare alcuni

Page 62: tesi

Società dell’Informazione 43

ambiti della sfera produttiva, sostenere forme di cooperazione

sociale non monetizzabili. Nell’analisi di Moulier Boutang la

crescita del cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione

osservata negli ultimi decenni rappresenta l’ennesima tappa

della lunga marcia che l’umanità conduce da secoli verso

l’emancipazione dal lavoro, a partire dalla schiavitù e passando

attraverso le diverse fasi del lavoro salariato. Gorz, d’altro canto,

mostra come lo stravolgimento delle classiche nozioni di “lavoro”

e di “valore” agito dallo sviluppo del “capitalismo immateriale” e

dal ruolo che in esso giocano saperi e conoscenze, rappresenti la

crisi del capitalismo tout court, e più in generale di una

concezione economicista dei rapporti sociali. Dalle riflessioni di

questi autori prende corpo l’ipotesi di una ricostruzione di

meccanismi di tutela individuale e collettiva a partire dalla

proposta di un reddito d’esistenza – o di cittadinanza, a seconda

delle formulazioni e delle giustificazioni, e con una diversità di

intenti che travalica le sottigliezze linguistiche – slegato dalla

specifica e sempre più precaria condizione occupazionale e in

grado di valorizzare le attività e gli scambi della cooperazione

sociale informale senza snaturarli in forma di merce.

In questo ampio orizzonte interpretativo le nuove tecnologie

dell’informazione e della comunicazione, ed in particolare le reti

di comunicazione fisse e mobili, e i diversi soggetti protagonisti

della loro “appropriazione sociale”, diventano rispettivamente

l’ambiente e gli attori, allo stesso tempo virtuali e reali, in grado

di sviluppare le forme più avanzate della cooperazione sociale.

Anche se da una prospettiva decisamente diversa, più legata

all’immaginario libertario che caratterizza gli approcci

provenienti dalla sponda occidentale dell’Atlantico, i

pionieristici lavori “sul campo” di Howard Rheingold, prima sulle

comunità virtuali (1994) e poi sulle cosiddette smart mobs

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Capitolo I 44

(2002), confermano l’importanza cruciale dei valori e delle

pratiche di cooperazione e condivisione nello sviluppo e nei

percorsi di appropriazione dei dispositivi della comunicazione

digitale e più in generale nei modi delle relazioni sociali. Una

centralità paradossale che, se da un lato finisce per condizionare

la sorte commerciale di servizi e strumenti informatici e della

comunicazione, fino a sancirne il carattere di killer application o

al contrario di fallimento, dall’altro collide con l’esigenza delle

imprese che operano nei settori delle telecomunicazioni,

dell’informatica e della produzione e fornitura di contenuti e

servizi, di estrarre valore monetario dalle conoscenze e dalle

passioni implicate in quelle pratiche. Un esempio di tale

contraddizione, ampiamente trattato da Rheingold nel suo

ultimo libro e più che mai attuale, è rappresentato dalla

cosiddetta Terza Internet, o Internet mobile. In questo ambito,

considerando qui solo le modalità di connessione e accesso alle

reti mobili da parte degli utenti e tralasciando le pur connesse

questioni relative allo sviluppo di “oggetti intelligenti”,

“computer indossabili”, “applicazioni di realtà aumentata”, reti

sociali amplificate e smart mobs, almeno due modelli,

tecnologici, economici e politici allo stesso tempo, si contendono

gli spazi aperti dalle innovazioni tecnologiche nel campo della

connettività senza fili. Da una parte, le reti mobili di terza (e

quarta) generazione implementate dall’alto, dagli operatori della

telefonia e delle telecomunicazioni, e basate su investimenti e

licenze da milioni di euro, protocolli proprietari e servizi a

pagamento di dubbia attrattiva. Dall’altra, l’ampia gamma di

tecnologie wireless a basso costo che sfruttano le porzioni libere

dello spettro radio e funzionano secondo la logica dei commons

digitali, ossia aumentando il loro valore al crescere degli

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Società dell’Informazione 45

utilizzatori e valorizzando le dinamiche di condivisione e

moltiplicazione delle reti peer to peer 20.

Tradizionalmente questi beni comuni erano costituiti da

terreni per il pascolo e l’agricoltura, boschi e legname, riserve

idriche ittiche, vie di comunicazione e trasporto. A questi beni

comuni “classici” se ne aggiungono ora altri, risorse immateriali

la cui accresciuta importanza – o la cui stessa esistenza – è il

frutto delle recenti e intrecciate innovazioni nei campi della

microelettronica, dell’informatica, della comunicazione e della

biologia molecolare. Frequenze radio, algoritmi, protocolli

informatici, linguaggi di programmazione e “codici sorgenti”, ma

anche le risorse culturali e informative prodotte dall’umanità

nella sua storia, prima e durante l’avvento dei mezzi di

comunicazione di massa, e rese sempre più fruibili dai nuovi

formati digitali (narrazioni, miti, musica, letteratura,

performances varie e prodotti audiovisivi, ecc.) – e persino il

corredo genetico o i singoli geni degli esseri viventi – sono infatti

da più parti descritti come i nuovi commons del XXI secolo,

“alfabeti della conoscenza” e per questo soggetti allo statuto di

patrimonio collettivo dell’umanità. In realtà, è lecito attendersi

che la natura “pubblica” di queste risorse e la stessa affermazione

di un nuovo “spazio pubblico” (commons) ri-costruito

dall’avvento del digitale e dei nuovi media sulle macerie della

“fabbrica del consenso” dei vecchi media broadcast non sarà

qualcosa di dato e di assunto, bensì l’oggetto di contese, continue

ri-negoziazioni e veri e propri conflitti (Lovink 2003) (vedi Cap.

2 par. 2.2).

Page 65: tesi

Capitolo I 46

3.2 Economia dell’abbondanza e società post-

capitalista

Le aspettative, per molti versi “profetiche”, di un’inedita e

rivoluzionaria “economia dell’abbondanza”, sono state senz’altro

dettate, nella seconda metà degli anni Novanta, dalle sirene

dell’ottimismo e del determinismo tecnologico. Ma a sostenere

questa visione nell’immaginario collettivo e nelle teorie e nelle

pratiche economiche è stata anche la fondata considerazione

della natura immateriale delle nuove “materie prime”

indispensabili ai processi produttivi – in sostanza creatività,

conoscenza e risorse di relazione – e dei prodotti da immettere

sul mercato. In effetti, se i principali input del sistema

produttivo diventano beni “non rivali”, ossia che non si

deteriorano o si esauriscono con l’uso, e anzi si moltiplicano

proprio in virtù della loro fruizione o sulla base delle cosiddette

“esternalità positive di rete”, sembrerebbe lecito attendersi una

crescita del sistema pressoché infinita 21 Lo stesso valore dei

prodotti, d’altra parte, come già sottolineato, è in molti casi

rappresentato più dal contenuto immateriale che dalla loro

sostanza fisica; quest’ultima inoltre si riduce a mero supporto

per beni del tutto immateriali come il software o i prodotti

dell’industria culturale (musica, audiovisivi, ecc.) o addirittura

scompare grazie a mezzi di distribuzione essi stessi digitali come

la Rete (Carlini 2002).

Le aspettative generate da tali valutazioni e da un

entusiasmo assai meno fondato, hanno contrassegnato l’avvento

della “società della conoscenza” e dato il là all’euforia che ha

accompagnato l’impressionante crescita dell’indice dei titoli

tecnologici della Borsa di Wall Street, il Nasdaq, alla fine degli

anni Novanta 22. L’infondatezza dei business plan della maggior

Page 66: tesi

Società dell’Informazione 47

parte delle imprese dot.com moltiplicatesi nel giro di pochi mesi

sulla scia del miraggio dei “soldi facili” e foraggiate

dall’immissione di generosi finanziamenti da parte del venture

capital e dei milioni di investitori on-line abbagliati da una

presunta “democratizzazione del capitale”; la resistenza da parte

degli utenti alla commercializzazione di Internet; i conseguenti

fallimenti a catena fino al vero e proprio crollo di tutto il listino

tecnologico; i cospicui tagli al personale e “ridimensionamenti”

vari che falcidiarono anche le imprese che erano riuscite a

rimanere in piedi: il susseguirsi degli eventi, nel giro di pochi

mesi, ha arricchito pochi speculatori, che ebbero la loro buona

dose di responsabilità nel repentino crollo dei titoli tecnologici,

mandato sul lastrico centinaia di migliaia di risparmiatori, molti

dei quali avevano investito nelle dot.com i loro fondi pensione,

impoverito quei lavoratori i cui stipendi venivano pagati con

stock options (diritti di opzione sui titoli azionari della società) e

soprattutto tarpato le ali all’intero sistema di assunti

dell’ideologia della “crescita infinita” nonché al suo corollario

della tecnologia come panacea.

Le aspettative – e i veri e propri miraggi – che sorreggevano

l’economia della post-scarsità, si sono quindi presto dovute

scontrare con i canoni dell’economia classica e con gli interessi e

le posizioni consolidate degli attori economici dominanti e dei

loro garanti istituzionali. Cosa non ha funzionato? Tra gli aspetti

più controversi c’è senz’altro la questione che con termine

ombrello e affatto neutrale viene riassunta sotto la definizione di

“proprietà intellettuale” e agitata dalle grandi corporations

dell’intrattenimento, dell’informazione e del software e dalle

grandi istituzioni sopranazionali che si occupano di commercio

internazionale. L’estensione a dismisura della durata e dei campi

di applicazione dei cosiddetti “diritti di proprietà intellettuale” e

Page 67: tesi

Capitolo I 48

l’equiparazione di fattispecie affatto diverse (diritti d’autore,

copyright, marchi e brevetti) che l’utilizzo di tale espressione

ombrello comporta, hanno in realtà ben poco a che fare con la

difesa di inventori, autori e artisti e molto con la necessità di

ricreare artificiosamente quella scarsità delle risorse,

presupposto fondamentale dell’economia politica classica così

come della sua critica, e soprattutto della conservazione delle

posizioni di potere economico e politico acquisite. Nella sua

analisi dei nuovi meccanismi della valorizzazione nel contesto

dell’economia immateriale, centrati sulla trasformazione della

conoscenza in valore, Gorz (2003) riporta un’osservazione di

Enzo Rullani che “si applica a ogni merce la cui materialità, di

un costo unitario molto basso, è solo il vettore o l’imballaggio del

suo contenuto immateriale, cognitivo, artistico o simbolico”

(ibid., p. 32):

Il valore di scambio della conoscenza è dunque interamente legato alla

capacità pratica di limitarne la libera diffusione, cioè di limitare con

mezzi giuridici (brevetti, diritti d’autore, licenze, contratti) o

monopolistici la possibilità di copiare, di imitare , di “reinventare”, di

apprendere le conoscenze altrui. […] La scarsità della conoscenza, quel

che le dà valore, è dunque di natura artificiale. Essa deriva dalla

capacità di un “potere”, di qualsiasi tipo, di limitarne temporaneamente

la diffusione e di regolamentarne l’accesso23.

Nelle lotte che si consumano intorno alle questioni relative

alla cosiddetta “proprietà intellettuale” nell’attuale fase di

sviluppo del capitalismo la posta in gioco è costituita dalle

conseguenze potenzialmente deflagranti generate dall’avvento di

un’economia basata in prevalenza sulla valorizzazione e sulla

produzione di beni e risorse immateriali e non rivali.

Page 68: tesi

Società dell’Informazione 49

Riassumendo gli aspetti per i quali il nuovo capitalismo cognitivo

si distingue dal capitalismo classico e ne rappresenta in qualche

modo persino la negazione, Gorz (2003, pp. 33-34) sottolinea

innanzitutto come nel nuovo sistema economico “la forza

produttiva principale, la conoscenza, è un prodotto che, in gran

parte, risulta da un’attività collettiva non remunerata […] essa è

in gran parte intelligenza generale, cultura comune, sapere

vivente e vissuto […] non ha valore di scambio, il che significa

che può in teoria essere condivisa a piacere”. Inoltre “la

conoscenza formalizzata, separabile dai suoi produttori e che

esiste soltanto per essere stata deliberatamente prodotta, è

anch’essa virtualmente gratuita, poiché può essere riprodotta in

quantità illimitata a un costo trascurabile e condivisa senza

dover passare per la forma valore (per il denaro) […] il che

significa che la principale forza produttiva, e la principale fonte

di valore può per la prima volta essere sottratta

all’appropriazione privata”. Infine, ed è “la vera novità,

rivoluzionaria […], la conoscenza, separata da ogni prodotto nel

quale è stata, è o sarà incorporata, può esercitare in sé e di per sé

stessa un’azione produttiva sotto forma di software”,

economizzando una quantità di lavoro molto maggiore di quella

che è costata e distruggendo immensamente più valore di quel

che serve a creare. La prospettiva di un’“economia

dell’abbondanza” torna qui nella forma auspicata di un

superamento progressivo dei meccanismi classici dell’economia

capitalista:

L’economia dell’abbondanza tende di per sé verso una economia della

gratuità e verso forme di produzione, di cooperazione, di scambi e di

consumo fondate sulla reciprocità e la messa in comune, nonché su

Page 69: tesi

Capitolo I 50

nuove monete. Il “capitalismo cognitivo” è la crisi del capitalismo tout

court.

Per contrastare questa tendenza, prosegue Gorz, l’economia

capitalistica deve appropriarsi di un prodotto, la conoscenza, per

far sì che esso non diventi ciò che in realtà è in origine, cioè un

bene collettivo, e farlo invece funzionare come “capitale

immateriale”. Da questa esigenza sembrerebbero derivare allora

gli attuali sforzi in direzione dell’imposizione e dell’estensione di

artificiali “diritti di proprietà intellettuale”. Ma “questa

appropriazione”, dice ancora Gorz, “non dev’essere sempre

diretta. Basta che il capitale si appropri dei mezzi di accesso alla

conoscenza – in particolare i mezzi di accesso a Internet – per

conservare il controllo di quest’ultima, impedendole di diventare

un bene collettivo abbondante. L’accesso e i mezzi di accesso alla

conoscenza diventano dunque la posta in gioco principale di un

conflitto centrale”. Il cerchio si chiude, se è vero, come

affermano Robins e Webster (2001, p. 132), che “la rivoluzione

dell’informazione [...] è una questione di accesso differenziato (e

non equo) alle risorse informative e di controllo su di esse”. La

diseguale distribuzione degli strumenti, delle risorse, delle

competenze e delle opportunità legate alle nuove (e vecchie)

tecnologie dell’informazione e della comunicazione è, allora,

direttamente implicata dall’evoluzione delle forme del

capitalismo contemporaneo.

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Società dell’Informazione 51

4. La società dell’informazione: estensione del fordismo e della razionalizzazione tecnocratica

Nel tentativo di tirare le fila degli spunti fin qui presentati,

torna ancora una volta utile il punto di vista non convenzionale

sull’attuale evoluzione del capitalismo “informazionale” di autori

come Robins, Webster e Mattelart e il loro puntuale richiamare

l’attenzione sui fattori di lunga durata 24.

E’ lo stesso Castells, d’altronde, nell’esporre le

trasformazioni in corso e le loro implicazioni a largo raggio, ad

usare alcune significative cautele e a gettare così una luce diversa

sulla vulgata prevalente di una società (e di un’economia)

“dell’informazione” o “della conoscenza”. Le complesse e

contraddittorie tendenze legate alla crescita della produttività

nei diversi settori dell’economia a seguito della diffusione delle

tecnologie dell’informazione 25, ad esempio, fanno affermare al

sociologo spagnolo che la differenza dell’economia

informazionale rispetto all’economia industriale

non sta nelle fonti di aumento della produttività. […] La peculiarità

risiede nella comprensione del potenziale di produttività contenuto

nell’economia industriale matura grazie allo spostamento verso un

paradigma tecnologico fondato sulle tecnologie dell’informazione.

(Castells 1996, p. 106)

E ancora, poco dopo, più significativamente:

[…] anche se l’economia informazionale globale è distinta dall’economia

industriale, l’una non contrasta le logiche dell’altra; le sussume,

piuttosto, attraverso l’approfondimento tecnologico […] (ibid. p. 107)

Page 71: tesi

Capitolo I 52

Robins e Webster (2001), da parte loro, fanno riferimento al

lavoro di Jean-Paul de Gaudemar 26 e alla sua suddivisione dello

sviluppo capitalistico in periodi, a seconda delle modalità con cui

il capitale ha utilizzato la forza lavoro e mobilitato le

popolazioni. In particolare, per il sociologo francese, alla

“mobilitazione assoluta” del primo Ottocento si sostituì

progressivamente una “mobilitazione relativa”, che estese

progressivamente il ruolo della tecnologia e trovò il suo

compimento nell’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor e

nella catena di montaggio automatizzata di Ford. Gli “effetti

collaterali” prodotti dal fordismo diedero poi vita, nel ventennio

Sessanta-Settanta del Novecento, ad una serie di movimenti

sociali che contestavano in parte o in tutto il sistema sociale e le

sue “disfunzioni” contribuendo a far sì che le forze del capitale

ristrutturassero il modo di accumulazione per ammortizzare e

contenere queste contro-mobilitazioni. Molta della retorica

intorno alle ICT, dagli anni Ottanta in poi, è sembrata in effetti

proporre il tentativo di assimilare le richieste legate alla qualità

della vita provenienti da quei movimenti, come motore di una

nuova fase di accumulazione.

La mobilitazione delle nuove tecnologie dell’informazione può essere

considerata come una risposta a chi sfidava il fordismo, come modo di

produzione e stile di vita. […] La cosiddetta rivoluzione

dell’informazione […] rappresenta una nuova fase significativa nella

strategia di mobilitazione relativa, una fase in cui la dominazione

tecnologica viene usata in modo estensivo e sistematico in sfere che

vanno molto al di là del luogo di lavoro. Questa trasformazione

rappresenta un’intensificazione e, soprattutto, una riconfigurazione del

fordismo come stile di vita. (Robins e Webster 2001, pp. 159-160).

Page 72: tesi

Società dell’Informazione 53

Nel quadro così delineato della “mobilitazione”, da parte del

capitale, della forza lavoro, delle popolazioni e delle risorse

sociali – un quadro confortato dall’osservazione dell’ambigua

realtà che si è cercato sin qui di presentare – le nuove tecnologie

non supportano semplicemente una sovrapposizione totale fra

lavoro e interazione fino alla sussunzione reale di ogni attività

sociale da parte del capitale; né sembra d’altra parte

giustificabile sostenere una loro intrinseca, seppur potenziale,

carica emancipatrice, in ambito produttivo o nel più ampio

contesto sociale, per quanto riguarda, ad esempio, l’esercizio

democratico o l’inclusione sociale. La loro applicazione estensiva

incarna piuttosto il desiderio da parte del capitale e dello Stato

di istituire “un ordine razionale ed efficiente, prima nella sfera di

produzione e poi nella società in generale”, ciò che i due autori

inglesi definiscono come “l’immaginazione cybernetica del

capitale” (ibid., pp. 157-177).

La crescente pervasività delle nuove tecnologie, le loro

concrete applicazioni, i loro modelli di utilizzo dominanti

propongono, in altre parole, una sottile estensione di quella

ideologia razionalista che ha segnato sin dai suoi lontani esordi

la “società dell’informazione” e ha fatto sì che le lusinghe e le

mistificazioni della “razionalizzazione tecnocratica” (Feenberg

2001) egemonizzassero l’orizzonte culturale delle società

occidentali. E ciò non tanto per qualche presunta essenza delle

tecnologie o della tecnica in quanto tale, quanto piuttosto per il

sistema di valori e di assunti che le une e l’altra sono andate

incarnando nelle specifiche configurazioni sociali che le hanno

prodotte e utilizzate. Come vedremo nel secondo capitolo, infatti,

le due prospettive complementari del determinismo e dello

strumentalismo hanno guidato l’affermazione di un approccio

“ingegneristico” alle tecnologie in generale, che non ha fatto

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Capitolo I 54

altro che rafforzare un’agenda tecnocratica e “depoliticizzata”. In

questo modo si sono mascherati, sottovalutati ed ignorati i reali

processi di costruzione sociale della tecnologia, che interessano

tanto il versante della sua progettazione e realizzazione quanto

quello del suo utilizzo e della sua appropriazione e coinvolgono

aspetti emotivi, cognitivi e culturali oltre che economici, tecnici e

politici (Feenberg 2001; Warschauer, 2003). Il frame

interpretativo e suggestivo proposto dal concetto di un digital

divide ha contribuito a perpetuare questo schema anche nel

campo in divenire delle nuove tecnologie e dei nuovi media e del

loro possibile contributo alla crescita autonoma di individui e

comunità, indirizzando l’attenzione di ricercatori, società civile e

amministratori sulla questione del gap tecnologico, piuttosto che

sugli aspetti problematici dell’integrazione e dei concreti utilizzi

dei nuovi “strumenti del comunicare” nelle diverse culture e nei

diversi contesti sociali per finalità di promozione sociale.

Le tecnologie, ed in particolare le ICT, non sono entità

separate che esercitano un impatto esterno sulle strutture, sulle

organizzazioni e sulle istituzioni sociali. Esse si caratterizzano

piuttosto come network (Kling 2000; Warschauer 2003) o

sistemi (Gallino 1998; Ortoleva 1998) sociotecnici, in cui le

“tecnologie in uso” e i mondi sociali si costituiscono

reciprocamente in modi complessi e altamente interrelati. Così

demistificate le tecnologie si prestano ad essere messe in

discussione in quanto artefatti culturali che hanno origine in

specifiche configurazioni di sistemi mezzi-fini e vengono definite

dall’uso socialmente contestuallizzato (Feenberg 2001). In

questo senso nell’analisi delle interazioni fra tecnologia e società

c’è spazio per prefigurare lo scenario di una possibile

“razionalizzazione democratica” (ibid.).

Page 74: tesi

Società dell’Informazione 55

Questa tensione a “democratizzare la tecnica” e a

riavvicinarla ai bisogni sociali espressi da comunità e individui –

e in particolare la sua concretizzazione nei modelli aperti di

accesso alle tecnologie e alle conoscenze e nel loro ancoraggio ai

territori reali – può forse indicare l’unica via per la quale

riequilibrare la diseguale distribuzione di strumenti, competenze

e opportunità legate alle tecnologie dell'informazione e della

comunicazione, promuoverne utilizzi finalizzati all’inclusione

sociale, e allo stesso tempo garantire un controllo democratico

sulla loro progettazione tecnica e le relative applicazioni, che

ricollochi nel giusto ordine di priorità bisogni sociali e

innovazioni tecniche. Il secondo capitolo tenterà di approfondire

tale incorporazione sociale delle tecnologie, con particolare

riferimento al rapporto fra le nuove tecnologie dell’informazione

e della comunicazione e le problematiche dello sviluppo e

dell’inclusione sociale.

Page 75: tesi

Capitolo I 56

Note

1 Cfr. in Anderson (1991, cap. X) l’illuminante illustrazione del ruolo

svolto dai censimenti, dallo sviluppo della cartografia e dai musei, tutti

“artefatti” culturali centrati su una forte valorizzazione

dell’informazione/conoscenza, nei processi di “immaginazione” e

consolidamento della coscienza nazionale – e quindi dello Stato-nazione;

tale ruolo è rintracciabile in particolare nel passaggio dagli imperi coloniali

ai nazionalismi post-coloniali. Cfr. in questo senso anche Robins e Webster

(1999, p.134, nota 2). 2 Negli attuali incerti e contrastati processi di trasferimento della

legittimità politica dallo Stato, da un lato verso organismi sovranazionali,

dall’altro verso attori istituzionali “locali”, tali funzioni di coordinamento e

controllo vengono naturalmente a riconfigurarsi e ad estendersi.

L’applicazione delle nuove tecnologie dell’informazione e della

comunicazione rafforza, inoltre, la loro presa sulla società consentendo un

“decentramento centralizzato” delle risorse e degli archivi informativi a

tutti i livelli. 3 Pur senza voler qui riproporre quel "determinismo tecno-economico"

che Formenti (2002) denuncia riprendendo l'osservazione di Marco Revelli

(2001) circa la vocazione totalitaria del concetto marxiano di "modo di

produzione", in particolare come riletto tra gli altri da Gramsci – una

vocazione inscritta a pieno titolo, secondo Revelli, nel razionalismo

autodistruttivo del Novecento – , è tuttavia innegabile, a mio avviso, la

relazione storica che intercorre fra i modelli produttivi e i caratteri culturali

e istituzionali dell'intero sistema sociale. La considerazione di tale legame

si spinge oltre l’ovvietà se solo ci si sforzi di considerare la natura

contingente e arbitraria del ruolo fondamentale che produzione (e

consumo) e lavoro rivestono, in maniera differenziata, nelle società

occidentali. 4 Con questa espressione si indica la dottrina di gestione e

organizzazione della produzione ideata da F. W. Taylor tra la fine

dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in contemporanea con i primi

sviluppi del “capitalismo aziendale”, cioè a forte prevalenza di imprese di

Page 76: tesi

Società dell’Informazione 57

medie e grandi dimensioni riunite tipicamente in conglomerati

oligopolistici. E’ da sottolineare che tale dottrina venne fatta propria anche

dalla rivoluzione sovietica, non prima di aver decretato la neutralità di

questa “scienza dell’organizzazione del lavoro”; significativamente essa

venne assunta a paradigma dell’organizzazione razionale dell’insieme della

società socialista (Mattelart 2001). 5 Nello stesso senso si esprimevano più di un secolo prima gli auspici

di Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825), non a caso tra i primi

sostenitori della “scienza positiva”; il filosofo francese sosteneva, infatti,

prima ancora che in Francia prendesse forma il processo di

industrializzazione, la necessità di assimilare l’organizzazione della società

a quella di una grande industria (Mattelart 2001). 6 Tale relazione è riscontrabile nella stessa ambivalenza del termine

disciplina, che da un lato denota un campo di sapere e dall’altro un insieme

di tecniche e norme che regolano il comportamento. 7 Tali “attività” non furono semplicemente la conseguenza di

innovazioni tecnologiche; piuttosto, le esigenze di “controllo” alle quali

rispondevano, figlie di una lunga evoluzione sociale, culturale e politica in

un determinato contesto, finirono evidentemente per essere “inscritte” in

quelle stesse tecnologie e per determinarne caratteristiche e usi che a loro

volta retroagirono sulla società, estendendo ad esempio le stesse dinamiche

di sorveglianza e controllo, ma dando anche vita a processi di

trasformazione della tecnologia. E’ questo complesso sistema di

interrelazione fra tecnologia e società che sottovalutano gli assertori più o

meno dichiarati di una qualche forma, ottimista o meno, di determinismo,

tecnologico o sociologico che sia (Feenberg 1999; vedi Cap. 2 par. 1). 8 Cfr. nota 1 del presente paragrafo 9 Cfr. anche www.ibmandtheolocaust.com; della vicenda si parla anche

nel notevole film-documentario canadese “The Corporation” realizzato nel

2003. 10 Impegnato negli anni Settanta nello sviluppo di una "sociologia

urbana" di ispirazione marxista, il sociologo di origine catalana ha

progressivamente rivolto il suo interesse verso le trasformazioni sociali,

culturali ed economiche legate all'avvento delle nuove tecnologie

Page 77: tesi

Capitolo I 58

dell'informazione e della comunicazione, continuando a dedicare una

particolare attenzione proprio alle dinamiche spaziali e alle evoluzioni della

forma città nel nascente contesto dell'informazionalismo. Il lavoro cui si fa

qui riferimento è la monumentale trilogia da più di 1200 pagine L'Età

dell'Informazione: economia, società, cultura – la sua opera certamente

più completa e ambiziosa – in cui l'autore raccoglie e sistematizza

interpretazioni ed analisi sviluppate da lui e da altri già a partire dai primi

anni Ottanta. 11 I riferimenti sono in particolare a: A. Touraine, La société post-

industrielle, 1969; D. Bell, The coming of Post-Industrial Society, 1973; R.

Reich, The Work of Nations, 1991 12 Riprendendo il tema della progressiva “fine del lavoro”, trattato in

un precedente lavoro, Rifkin (2000, pp. 345-353) descrive inoltre, proprio a

conclusione del suo saggio, ciò che definisce la “dialettica di un ethos del

gioco”. Ossia quella dinamica contraddittoria per cui da un lato la

dimensione ludica riconquista nel “capitalismo culturale” il ruolo

preminente ricoperto fino all’avvento della società industriale e del suo

ethos del lavoro; dall’altro “il tipo di gioco prodotto da questa civiltà non è

che un pallido simulacro di quello che esisteva nella sfera culturale:

essendo acquistato, non è un’esperienza sociale, ma contrattuale”. Come

vedremo, oltre a richiamare alcune riflessioni sulla cosiddetta “etica

hacker”, tali considerazioni condividono con un ampia letteratura la

prospettiva di una possibile rivitalizzazione della sfera culturale come un

“terzo settore”, slegato dagli interessi commerciali ma anche dalle

prerogative statali e in grado di ricollocare in posizione centrale relazioni

umane non mercificate. 13 Il significato originario del termine e la sua intrinseca connotazione

“negativa” fanno tra l’altro giustizia del suo successivo utilizzo in un

contesto segnato invece proprio dalla produzione e dal “consumo” di massa

come elementi fondanti. 14 In Italia la tradizione dell’ “operaismo”, sorta negli anni Sessanta

intorno alla rivista Quaderni Rossi e portata avanti negli anni Settanta e

Ottanta dalle posizioni di gruppi come Potere Operaio e Autonomia

Operaia, è oggi ereditata appunto da una “scuola” post-operaista, per nulla

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Società dell’Informazione 59

omogenea, che Franco "Bifo" Berardi indica con il termine di

“composizionismo”, anche con l'intenzione di segnare una discontinuità con

la matrice novecentesca. “Composizione sociale” e “composizione di classe”

sono infatti concetti al centro della riflessione operaista originale, insieme a

quello di “autonomia” dello spazio sociale dal dominio capitalistico; in essi

prende forma il ruolo della “soggettivazione”, come soggetto in continuo

divenire, nei processi di sottrazione progressiva del lavoro vivo dal dominio

del capitale e di un più complessivo “rifiuto del lavoro” (Berardi 2003).

Questi concetti vengono richiamati in modo contraddittorio in riferimento

ai processi che interessano il lavoro, e in particolare le punte più avanzate

di “lavoro cognitivo”, nella fase “post-fordista” 15 Cfr. Weber Max, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo 16 Cfr. Sterling Bruce, The Hacker Crackdown, 1992; Gubitosa Carlo,

Italian Crackdown, Apogeo, 1999. 17 Nei primi anni Settanta tali “esplorazioni” vennero perfezionate e

codificate con il termine phreaking. Con tale termine si indicò allora la

pratica, resa possibile da un fischietto che si trovava in omaggio nelle

confezioni di una marca di corn flakes (la Captain Crunch, da cui il

soprannome del primo phreaker, John Draper), di riprodurre l’esatta

frequenza utile per connettersi liberamente alle linee telefoniche

interurbane. I futuri fondatori della Apple, Steve Jobs e Steve Wozniak,

furono tra i primi a fare uso della cosiddetta blue box e a distribuirne

esemplari fra i loro colleghi universitari (Di Corinto e Tozzi 2002). 18 Il primo rudimentale PC, l’Altair, fu realizzato alla fine del 1974 da

Ed Roberts, titolare della MITS, una piccola ditta di elettronica sita ad

Albuquerque, nel New Mexico. Era composto esclusivamente da un

processore Intel 8080 e da alcune schede di memoria RAM per un totale di

256 bytes. Non prevedeva, almeno fino al 1977, nessuna periferica di input-

output e veniva venduto a 397$ (Revelli 2001). Nel 1976 fu la volta

dell’Apple I, mentre si dovette attendere il 1981 per il primo costoso

modello di PC della IBM, equipaggiato con il DOS targato Microsoft, che

avrebbe dato il via all’avvento dei “PC compatibili” e con essi gradualmente

ad un mercato di massa, prima business e poi consumer, sia per l’hardware

sia per il software.

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Capitolo I 60

19 Risale proprio a quegli anni l’idea di Lee Felsenstein – tra i primi

“hacker” e futuro animatore del noto Homebrew Computer Club – di

portare i primi antesignani del PC nelle strade, per farne strumento di

relazione fra le persone. Insieme ad altri tecno-attivisti Felsenstein fondò

nel 1973 il Community Memory Project e, con la collaborazione di

un’organizzazione no profit impegnata sul fronte dell’uso sociale dei

computer, la Resource One, realizzò un sistema client-server composto da

un enorme mainframe posizionato nel suo appartamento collegato via

telefono ad un “terminale stupido”, una telescrivente situata in un negozio

di dischi a Berkeley su cui chiunque poteva lasciare messaggi su una

bacheca elettronica, fissare appuntamenti, offrire o richiedere oggetti e

servizi, dare libero sfogo alla propria immaginazione. Si può forse

considerare il Community Memory Project il primo esempio nella storia di

“spazio pubblico digitale”. 20 Ciò vale in particolare per la tecnologia del wireless mesh

networking. 21 Almeno nella misura in cui questa “crescita infinita” venisse

supportata da dinamiche di consumo in grado di assorbirne e sostenerne i

volumi di produzione. Il tracollo della new economy registrato alla fine

degli anni Novanta è stato in effetti ricondotto da alcuni nei binari della

teoria economica classica e interpretato come una “crisi di

sovrapproduzione” (cfr. Lovink 2003; Formenti 2001). Una tale

interpretazione economicista della crisi non è condivisa da Formenti, che

invece ne individua le cause più nella “resistenza culturale” opposta dagli

attori sociali coinvolti nelle pratiche di condivisione della Rete ad una sua

sfrenata commercializzazione. 22 La quotazione in borsa (attraverso l’IPO, Offerta Pubblica Iniziale)

di Netscape, la società che produceva l’omonimo browser per la navigazione

in Internet, nell’agosto-settembre del 1995 e la repentina crescita del valore

delle sue azioni da una stima iniziale di 14 $ ai 71 $ definitivi, segna il lento

avvio del boom – a posteriori “bolla” – della New Economy. Da qui in poi è

un susseguirsi di start-up create dal nulla – sulla base di qualche idea

“geniale” e con Internet e le nuove tecnologie al centro del loro business

come denominatore comune – e quotate in borsa per rastrellare fondi da

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Società dell’Informazione 61

investire nel raggiungimento di profitti futuri (ed eventuali). Dalla

sopravvalutazione complessiva e dal clima di hype che l’accompagna,

montato da guru, presunti esperti e pescecani della finanza sulle riviste-

manifesto dell’ideologia californiana, scaturisce anche qualche attività più

solida e duratura, ma per la maggior parte le dot.com sono pura illusione (e

speculazione) finanziaria. Tra il 1999 e la primavera del 2000 il Nasdaq

passa da quota 1400 a quota 5200, un aumento del 271 per cento. E’

l’ultimo enorme salto in avanti prima del grande crollo: annunciato già

all’inizio dell’anno dai primi mugugni che provenivano dai venture

capitalists di Wall Street, lo scoppio della bolla avviene con grande clamore

tra la primavera e la fine del 2000, quando il Nasdaq si attesta a quota

2200. Nel giro di pochi mesi centinaia di dotcom falliscono (Carlini 2002;

Formenti 2002; Lovink 2003). 23 E. Rullani, Le capitalism cognitif: du déjà vu?, in «Multitudes», n.

2, maggio 2000, cit. in Gorz, 2003, p. 32. 24 “La dittatura della breve durata fa sì che si attribuisca una patente di

novità, e quindi di cambiamento rivoluzionario, a qualcosa che in realtà è

frutto di evoluzioni strutturali e di processi in corso da lunghissimo tempo”

(Mattelart 2001, p 146) 25 Si tratta dell'oramai classico "enigma" o "paradosso della

produttività" (Castells 1996, pp. 84-105; Formenti 2002, p. 149; Carlini

2002, pp. 29-30). Cfr. anche Tuomi 2004 e Kling 1999. 26 Cfr. J.P. de Gaudemar, La mobilisation générale, 1979.

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Capitolo II

L’Ecologia Digitale: una razionalizzazione democratica

Gli elementi forniti nel primo capitolo contribuiscono a

contestualizzare la questione delle disuguaglianze nell’età

dell’informazione legandola alle dinamiche della

razionalizzazione tecnocratica, alle trasformazioni negli ambiti

della produzione e del consumo e ai mutamenti sociali associati

all’evoluzione di nuovi mezzi di comunicazione.

La crescente pervasività delle ICT nella vita delle persone –

andando per altro ad incidere su attività fondamentali come la

produzione, il trattamento e la distribuzione di informazioni e i

processi di comunicazione – solleva questioni che vanno ben al

di là della diseguale distribuzione di dispositivi e infrastrutture,

e che pure con questa sono connesse. Il diritto di decidere

autonomamente della propria esistenza e di quella delle proprie

comunità di appartenenza è inficiato dall’impalbabilità delle reti

strumentali su cui transitano informazioni e “catene di

comando”, dall’imperscrutabilità dei “codici tecnici” che

influenzano gli usi della tecnologia e i relativi modelli di

relazione, dalla paradossale trasparenza delle interfacce che ci

inducono a cedere parte della sovranità sui nostri stessi corpi e

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Capitolo II 64

sul nostro stesso “agire comunicativo”. In questo senso

l’espansione acritica e incontrollata della tecnica in ambiti tanto

delicati rischia di aggravare le condizioni di disuguaglianza non

soltanto perché accentua le distanze “fra connessi e disconnessi”,

ma anche perché amplia lo squilibrio fra chi detiene il potere di

controllo diretto e indiretto sulle tecnologie e sulle persone e chi

questo controllo, diventato sempre più impersonale, trasparente,

automatico e “razionale”, lo subisce in quanto semplice

consumatore o utente. Per questo la semplice diffusione non

mediata delle nuove tecnologie, senza un’adeguata

considerazione di rapporti di potere pregressi e percorsi di

esclusione sedimentati e dei processi sociali in cui sono coinvolte

le risorse di informazione, comunicazione e conoscenza, rischia

di esasperare le disuguaglianze invece di ridurle. Questo rischio

impone allora alla ricerca e alla politica una preliminare e critica

riflessione sulle forme di esclusione implicite negli attuali

modelli di sviluppo tecnologico e una valutazione delle diverse

alternative tecniche, organizzative e sociali volta ad individuare

le più adatte a favorire l’appropriazione, e non la semplice

diffusione, dei nuovi media.

Il capitolo traccerà quindi i percorsi di una

razionalizzazione democratica – così come il concetto è stato

sviluppato dallo studioso americano Andrew Feenberg (1999) –,

in relazione, in particolare, ai fenomeni di esclusione sociale

legati all’uso (o al mancato uso) delle nuove tecnologie

dell’informazione e della comunicazione. Il concetto prende

forma da una valutazione delle relazioni d’interdipendenza fra

tecnologia e società e si propone come prospettiva alternativa

rispetto ai principi e alle pratiche della razionalizzazione

tecnocratica e alle sottostanti filosofie della tecnica deterministe,

strumentaliste ed essenzialiste. I caratteri della razionalizzazione

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Ecologia Digitale 65

democratica forniranno quindi una chiave di lettura per

interpretare quelle visioni e quelle pratiche, che segnano il

campo delle divergenze digitali (Carlini 2002) reclamando e

agendo una forma sociale, democratica e partecipata

dell’innovazione tecnologica nel settore dei nuovi media digitali:

un insieme di idee, movimenti, pratiche, proposte e riflessioni

raccolte sotto l’espressione ecologia digitale. In questo ambito

affronterò le questioni legate alla forma che assumono la

proprietà e la condivisione delle risorse immateriali nelle società

tecnologicamente avanzate, con riferimento in particolare alle

tematiche della proprietà intellettuale, dei commons digitali e

del software libero.

1. Tecnologia e società: la prospettiva della “razionalizzazione democratica” di Andrew Feenberg

Il primo capitolo ha ripercorso parzialmente le tappe che

hanno guidato l’affermarsi, a partire dalle società e dalle culture

“occidentali”, del dominio della razionalizzazione tecnocratica, e

la sua incarnazione nella retorica universalista e nelle politiche

culturali ed economiche della società globale dell’informazione.

La fase più recente di questo percorso secolare è coincisa con la

ristrutturazione del sistema capitalista avviato a partire dagli

anni Settanta e con i connessi processi di innovazione nel campo

delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. E’

questo l’orizzonte storico, politico, economico e sociale, giova

ricordarlo, da cui emergono e in cui si inscrivono le questioni

relative al rapporto fra ICT e inclusione sociale, di cui le

disuguaglianze nell’accesso a tali tecnologie (il cosiddetto digital

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Capitolo II 66

divide) costituiscono, come vedremo più avanti, solo uno degli

elementi da tenere in considerazione.

Questo più ampio scenario solleva l’utilità di una prospettiva

alternativa a quella, sin qui dominante, della razionalizzazione

tecnocratica. A tale scopo si farà qui riferimento al concetto di

“razionalizzazione democratica” proposto dallo studioso

statunitense Andrew Feenberg (1999), e alle sue implicazioni per

il rapporto fra ICT e inclusione sociale (Warschauer 2003). Con

la progressiva accelerazione del mutamento tecnologico inscritta

negli sviluppi del capitalismo e descritta nel primo capitolo, le

nostre società e le nostre vite vengono sempre più ad essere

dipendenti da artefatti e codici tecnici, che per una buona parte

rientrano negli ambiti della comunicazione, dello scambio e del

trattamento di informazioni e conoscenze, ossia di attività umane

fondamentali. La maggior parte delle tradizioni filosofiche e

politiche che si sono confrontate con le questioni della modernità

e della tecnica, condividendo una valutazione della sfera sociale e

della sfera tecnica come domini fra loro separati e autonomi, ha

finito per sottrarre i cambiamenti tecnici e le dimensioni

dell’esistenza da essi influenzati al vaglio del processo

democratico. La disamina svolta nel primo capitolo, nella sua

concreta analisi delle interazioni fra uno specifico insieme di

tecnologie e gli assetti sociali, politici ed economici storicamente

determinati, ha tentato di sfuggire a una tale ipostatizzazione

della tecnica: da essa è emerso, da un lato, come sia impossibile

separare i due ambiti, dall’altro come una tale divaricazione si

sia dimostrata nel tempo funzionale al dominio della stessa

razionalizzazione tecnocratica.

La discussione di tali presupposti teorici si rivela tanto più

importante nel campo, qui in esame, degli usi sociali delle ICT,

in quanto la diffusione di tali tecnologie ha innescato, nelle

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Ecologia Digitale 67

scienze sociali in generale e nel settore in gestazione dei

cyberculture studies (Silver 2000), un’accesa quanto fuorviante

controversia relativa al loro “impatto” sui diversi ambiti della

società, che ha riproposto lo sterile confronto fra cyberentusiasti

e “integrati”, da una parte, e tecnofobi e “apocalittici”, dall’altra.

Non da ultimo, ad essere forgiato da questi assunti impliciti sul

rapporto fra tecnica e società è stato proprio il dibattito relativo

alle questioni della disuguaglianza e dell’esclusione sociale nella

società dell’informazione.

1.1 Strumentalismo e determinismo tecnologico

Il lavoro di Feenberg si situa nel campo della riflessione sui

caratteri della modernità e in particolare negli ambiti della

filosofia della tecnica e dell’analisi sociologica del fenomeno

tecnologico. Ambiti in cui ci si confronta con alcune delle

manifestazioni più importanti del pensiero sociale moderno e

contemporaneo, da Weber e Marx ad Heidegger ed Ellul fino a

Foucault, Habermas, Marcuse, De Certau e Latour.

L’interpretazione del fenomeno tecnologico in relazione alla

sua genesi e al suo impatto sociale, si distingue in due approcci

fondamentali e nelle rispettive varianti ed evoluzioni. Lo

strumentalismo (o neutralismo), filosofia implicita delle

democrazie liberali capitaliste e fatta propria anche dalle

economie pianificate, sostiene la neutralità della tecnica rispetto

alle scelte politiche, sociali ed economiche, e

contemporaneamente contempla la possibilità di un controllo

umano sulle sue manifestazioni e applicazioni concrete. Da

questa prospettiva, che ha il “vantaggio” di corrispondere

largamente al senso comune, la tecnologia è priva di qualsiasi

particolare contenuto o valore: è piuttosto uno strumento,

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Capitolo II 68

appunto, indifferente agli usi e alle finalità per cui viene

impiegato.

Il determinismo, emanazione diretta dello storicismo e del

positivismo del XIX secolo, interpreta la tecnologia come un

ambito separato dalla sfera sociale che esercita su di essa un

impatto indipendente. “Verso la fine del XIX secolo, influenzata

da Marx e Darwin, la filosofia del progresso si era trasformata in

determinismo tecnico […] si credeva che il progresso tecnico

avrebbe assicurato il cammino dell’umanità verso la libertà e la

felicità” (Feenberg 1999, p. 2). Nelle teorie deterministe, come ad

esempio il marxismo tradizionale, i mezzi tecnici sono comunque

neutri perché soddisfano semplicemente dei bisogni naturali;

ma, a differenza della fiducia liberale nel progresso dello

strumentalismo, tali teorie minimizzano il potere dell’uomo di

controllare lo sviluppo tecnico. “Il determinismo afferma che le

tecnologie possiedono una logica funzionale autonoma che può

essere spiegata senza far riferimento alla società” (ibid. p. 92).

La tecnologia è assunta come la variabile principale – e isolabile

– che causa il cambiamento sociale.

In riferimento al complesso fenomeno dell'interazione fra

società e tecnologia, Manuel Castells parla di "conseguenze

sociali non intenzionali della tecnologia" (1996, p.7), generate

dal fatto che "le persone, le istituzioni, le imprese e la società in

generale trasformano la tecnologia, qualunque tecnologia,

appropriandosene, modificandola, sperimentando con essa"

(2001, p.16). Castells cita, inoltre, in proposito, l’affermazione di

Kranzberg secondo cui le tecnologie possono non essere in se né

buone né cattive, ma esse non sono nemmeno neutrali (1996, p.

7). Questo timido superamento sia del determinismo che dello

strumentalismo, non è però ancora sufficiente a comprendere in

che modo l’ideologia tecnocratica si costituisca come l’orizzonte

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Ecologia Digitale 69

culturale dominante della società dell’informazione e soprattutto

quali plausibili alternative si offrano. Alcune delle critiche

rivolte ai recenti lavori di Castells sull’impatto sociale delle

tecnologie dell’informazione sottolineano da un lato come sia

anch’egli vittima di un feticismo dell’efficienza, che risponde più

ad un “ICT imperative” che ad una qualche forma di

determinismo tecnologico (Suoranta 2003); dall’altro come,

malgrado interpreti Internet come una “creazione culturale”

(Castells 2001), sia in realtà più affascinato da una presunta

razionalità strumentale incarnata dalla Rete e tralasci in fin dei

conti di confrontarsi direttamente con gli aspetti conflittuali di

Internet, delle sue culture e della sua costruzione sociale passata

e presente (Lovink 2003). Pur bilanciando una tale impostazione

razionalista con conclusioni ambivalenti e rinunciando

apprezzabilmente al futurismo tanto in voga, Castells concentra

la sua attenzione sulle dinamiche economiche generate

dall’applicazione delle nuove tecnologie e condivide l’idea

secondo cui l’utilizzazione efficiente delle ICT possa condurre un

Paese al successo economico, e l’accesso alle fonti di

informazione, in particolare ad Internet, e alle relative

competenze migliori competitività e spendibilità degli individui

nel mercato del lavoro.

Strumentalismo e determinismo, secondo cui la tecnologia e

le sue concrete applicazioni sono innanzitutto il risultato di un

presunto carattere universale e razionale della tecnica,

costituiscono la base di legittimazione più potente dell’ideologia

razionalista e tecnocratica descritta nel primo capitolo a

proposito dello sviluppo delle tecnologie dell’informazione e

della loro massiccia applicazione nei diversi ambiti della società.

Le implicazioni di tali prospettive (necessità del progresso

tecnologico, separazione fra sfera tecnica e sfera sociale e

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Capitolo II 70

imposizione causale della prima sulla seconda) hanno

condizionato profondamente, tra l’altro, il quadro concettuale e

pragmatico relativo al digital divide e alla più ampia questione

del contributo delle ICT allo sviluppo. Da un lato l’idea

dell’inevitabilità dell’adozione delle nuove tecnologie si è inserita

nel contesto più ampio dell’”eredità storica di quella che è stata

chiamata l’ideologia dell’industrializzazione, dalla quale è

emersa una tradizione di pensiero che percepisce la tecnologia

come un aiuto profondo allo sviluppo, estranea alle questioni

sociali del potere e del controllo” (Robins e Webster 1999, p.

108). Dall’altro la mancata valutazione dell’incorporazione

sociale dei processi di progettazione tecnica e degli usi della

tecnologia, ha compromesso gli sforzi volti a comprendere come

e in che misura le ICT interagiscano con le strutture e i diversi

ambiti sociali e possano in essi integrarsi per promuovere

l’inclusione sociale.

1.2 Essenzialismo, teorie critiche e costruttivismo

I successi della tecnica moderna nel XX secolo, percepiti

come una conferma delle prospettive deterministe che avevano

informato gli sviluppi delle democrazie liberali, innescarono un

processo di tecnicizzazione di sempre più ambiti della vita

sociale che si tramutò nella tendenza tecnocratica a sottomettere

la politica alle decisioni e alle competenze tecniche.

In opposizione a questa tendenza tecnocratica, il

sostanzialismo (o essenzialismo) contesta sia la neutralità della

tecnica sia la possibilità di un controllo umano su di essa: la

tecnica incarna valori specifici di per se, in quanto dominio della

razionalità e del principio di efficienza che riduce ogni cosa a

funzioni e gli esseri umani al rango di oggetti sottoposti al

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Ecologia Digitale 71

controllo tecnico alla stregua delle materie prime e dell’ambiente

naturale; l’orizzonte delle sue concretizzazioni è quindi precluso,

e in ogni caso indifferente, all’agire umano. L’essenzialismo

rappresenta la reazione romantica e conservatrice al dominio

della tecnica nel passaggio alla modernità, espressa già dalla

concezione distopica di Max Weber della “gabbia d’acciaio” della

razionalizzazione e poi dalla critica di Adorno e Horkeimer alla

strumentalità come forma di dominio e dalle critiche di Martin

Heidegger e Jacques Ellul all’essenza disumanizzante dell’azione

tecnica. Queste reazioni, seppure motivate dalle pratiche di

dominio messe in atto dalle applicazioni concrete della tecnica

nel sistema capitalista e dalla loro legittimazione ad opera

dell’ideologia razionalista, secondo Feenberg da un lato non

colgono la complessità dei processi sociali coinvolti nella

mediazione tecnica, e dall’altro non offrono nessun contributo

per il suo inserimento nel campo d’azione della democrazia.

Il sostanzialismo, seppure a partire da un diverso giudizio di

merito nei confronti della mediazione tecnica, condivide infatti

con lo strumentalismo e con il determinismo una analoga

concezione lineare del progresso e una simile separazione della

sfera sociale e della sfera tecnica, che non riesce a comprendere

al contrario “the ecological intertwining of technology and

society” (Warschauer 2003, p. 204). Accettata entusiasticamente

o categoricamente rifiutata, la tecnica si presenta come un entità

autonoma imposta dall’esterno alla società, “una sorta di seconda

natura che interferisce con la vita sociale provenendo dal regno

della ragione nel quale anche la scienza trova la sua origine”

(Feenberg 1999, p. VIII). Feenberg fa notare inoltre come tali

presupposti condivisi dominino il campo della riflessione

filosofica e sociale sulla tecnica: nel bene e nel male, contestata o

esaltata, l’essenza della tecnica, individuata nel controllo

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Capitolo II 72

razionale e nell’efficienza, viene data per scontata e interpretata

come un attributo reale delle sue concrete applicazioni, e non

come una loro visione parziale e mistificata. La rimozione delle

contingenze sociali del processo tecnico e dell’”ambivalenza” a

cui danno luogo, ha generato una separazione artificiosa tra

l’ambito della “tecnica” e quello del “significato”, funzionale in

fin dei conti al dominio oggettivo della prima sul secondo e

all’estromissione della tecnologia dall’ambito democratico.

Le rinnovate ambizioni di razionalizzazione della metà del

secolo scorso suscitarono nuove reazioni distopiche, che

trovarono espressione nei movimenti sociali degli anni Sessanta

e Settanta (nuova sinistra, movimenti studenteschi, femminismo

e ambientalismo) 27 e nella loro contestazione della tecnocrazia

tanto sul versante capitalista quanto su quello del socialismo

reale. Questi movimenti trasformarono la concezione

essenzialista dei critici della modernità e sollevarono il tema del

controllo sociale dello sviluppo tecnologico e di un cambiamento

radicale nella natura della modernità. L’attenzione sollevata da

questi movimenti nei confronti della contingenza sociale e della

matrice ideologica della tecnica venne raccolta da alcuni studiosi

americani e soprattutto, nelle sue implicazioni politiche, dal

pensiero critico europeo, in particolare da Herbert Marcuse e

Michel Foucault.

L’eredità storica del sostanzialismo giunse quindi alla

rottura con il determinismo tecnico e riconobbe il carattere

storicamente determinato della tecnologia moderna. Le teorie

critiche della tecnica – cui Feenberg si riferisce anche con

l’espressione “distopie di sinistra” – “affermano il ruolo

dell’agire umano, rifiutando allo stesso tempo la neutralità della

tecnica. Mezzi e fini sono collegati in sistemi soggetti al nostro

controllo finale” (Feenberg 1999, p. 12). Pur fortemente

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Ecologia Digitale 73

influenzati dal sostanzialismo e concordando con esso sulla

natura tecnica delle forme moderne di dominio, Marcuse e

Foucault “rifiutano l’idea che esista un’unica via al progresso

basata sulla razionalità tecnica e aprono lo spazio per una

riflessione filosofica sul controllo sociale dello sviluppo

tecnologico” (p. 8), introducendo “una nozione di dominio più

specificatamente sociale” che stabilisce “un legame tra dominio

tecnico e organizzazione sociale” (p. 9). La rivalutazione delle

“distopie di sinistra” da parte di Feenberg è motivata in primo

luogo dalla loro duplice valutazione dell’incorporazione sociale

della tecnica, da un lato, e dello spazio dell’agire umano nelle

scelte tecnologiche, dall’altro; in secondo luogo dal loro stretto

rapporto con i movimenti sociali che sollevarono la questione di

una politicizzazione della tecnica; infine dal ruolo da esse

ricoperto nella trasformazione dell’”orizzonte di plausibilità delle

riflessioni sulla scienza e sulla tecnica”.

E’ proprio a partire dalle questioni sollevate dai movimenti

sociali e dalle teorie critiche, infatti, che i recenti lavori della

sociologia costruttivista della tecnica sono stati in grado di

affermare la natura prettamente sociale delle tecnologie.

Influenzato inoltre dalla rottura di Thomas Kuhn con il

positivismo e dal “programma forte” della sociologia della

conoscenza e basato su un empirismo rigoroso, “il costruttivismo

sociale focalizza l’attenzione sulle alleanze sociali che sono alla

base delle scelte tecnologiche”, in cui “una grande varietà di

gruppi sociali interpreta il ruolo di attori nello sviluppo tecnico”

(p. 13). Ma, secondo Feenberg, laddove il determinismo ha

sovrastimato l’impatto indipendente degli artefatti sul mondo

sociale, il nuovo approccio, limitandosi allo studio dei problemi

strategici che riguardano la costruzione e l’accettazione di

dispositivi e sistemi particolari, ha disaggregato a tal punto la

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Capitolo II 74

questione della tecnica da non riuscire a cogliere ed affrontare le

implicazioni politiche che solleva inevitabilmente la

considerazione della natura socialmente orientata delle

tecnologie.

1.3 La razionalizzazione democratica

Le prospettive del determinismo e dell’essenzialismo, che

hanno dominato finora le riflessioni sui rapporti fra tecnologia e

società, non hanno saputo cogliere la natura sociale della tecnica

e delle sue concrete applicazioni. La dimensione sociale dei

sistemi tecnologici appartiene invece anch’essa all’”essenza”

della tecnica. I processi sociali e la competizione fra i diversi

sistemi di valori danno forma alla progettazione tecnico-

scientifica e ancora prima all’insieme mezzi-fini di cui una

società decide di dotarsi. La storia delle innovazioni

tecnologiche, con particolare riferimento proprio al campo delle

ICT, dimostra inoltre la natura “interattiva” del processo tecnico,

in cui usi e interpretazioni alternative retro-agiscono sulle

tecnologie e contribuiscono a plasmarne caratteristiche e

significati sociali. Tecnologia e società sono quindi il risultato di

un processo di co-generazione reciproca la cui congruenza è il

frutto di adattamenti continui e in divenire. La tecnologia è la

società – e viceversa.

Le mistificazioni del determinismo tecnologico e della

razionalizzazione tecnocratica nascondono la relatività dei

paradigmi tecnologici dominanti e degli interessi che li

supportano e negano non solo l’opportunità ma la stessa

possibilità di stabilire un controllo democratico sullo sviluppo

tecnologico e sulle sue concrete applicazioni; come conseguenza

di ciò, inoltre, finiscono per estendere la presa del controllo

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Ecologia Digitale 75

strumentale, “razionale” e tecnologico sulla società. Ciò è il

frutto, come si è visto, non tanto di una presunta essenza a-

sociale della tecnica, quanto invece proprio dell’”inserzione

sociale” di tutte le dimensioni della tecnologia, dalle esigenze da

cui scaturisce, alla progettazione tecnica che le da forma, fino

agli usi e ai significati sociali che stimola e agli effetti in cui si

materializza.

Se i presupposti del determinismo e l’ideologia della

razionalizzazione tecnocratica si rivelano non solo

antidemocratici e intrinsecamente escludenti, ma anche

inadeguati a cogliere le reali dinamiche dello sviluppo

tecnologico, deve porsi una prospettiva alternativa che si

confronti, senza fughe dalla realtà ma all’interno dell’orizzonte

democratico, con la complessità delle nostre società

tecnologicamente avanzate, svelando le dinamiche sociali che

inquadrano e plasmano i fenomeni tecnologici e consentendo di

comprenderne e immaginarne i modelli di un’“appropriazione

creativa”. Tanto più se ad essere coinvolta nei processi

tecnologici è un’attività umana fondamentale come la

comunicazione. Tanto più se lo sviluppo tecnologico è messo in

relazione con la questione della distribuzione diseguale di

ricchezze e opportunità.

Il costruttivismo ha minato alla base le due premesse

fondamentali dell’approccio determinista – in parte comuni

anche all’essenzialismo –, confutando sia l’idea di un “progresso

tecnico unilineare” – ossia che esso “segua una sequenza unica di

tappe necessarie” –, sia quella di una “determinazione dalla

base” – ossia l’idea che “le istituzioni sociali debbano adattarsi

agli imperativi della base tecnologica” (Feenberg 1999, pp. 92-

93). I nuovi sistemi tecnologici emergono in realtà da un

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Capitolo II 76

processo di negoziazione e conflitto fra “gruppi sociali rilevanti”

in cui “la scelta fra le alternative non dipende in ultima istanza

né dall’efficienza tecnica né da quella economica”, come pretende

chi si affida ad una presunta razionalità tecnica assoluta, “ma

dall’intersezione di oggetti, interessi e credenze di questi gruppi

sociali” (p. 95). Tutti gli artefatti tecnologici presentano quindi,

secondo l’approccio costruttivista, una “flessibilità

interpretativa”, vale a dire che essi vengono percepiti e utilizzati

in maniera differente dai diversi gruppi sociali coinvolti nel

processo di progettazione. Questo processo sociale non risponde

a nessun criterio di necessità, in quanto “non concerne la

soddisfazione dei bisogni umani “naturali”, ma riguarda la

definizione culturale dei bisogni e quindi dei problemi ai quali la

tecnologia si rivolge” (ibid. p. 100). La cultura e l’ideologia

entrano quindi nella storia come forze effettive non solo nel

campo politico, ma anche nella sfera tecnica, così come osservato

nel primo capitolo. “Lo sviluppo sociale non è determinato dallo

sviluppo tecnologico, ma dipende allo stesso tempo da fattori

tecnici e sociali” (p. 99).

La valutazione delle implicazioni di tale interpretazione della

tecnologia per una politica democratica della tecnica

costituiscono l’originale contributo di Feenberg al modello

costruttivista. “Se la tecnologia è un’insieme di potenzialità

inesplorate, sono gli imperativi non tecnologici a determinare la

gerarchia sociale attuale. La tecnologia è piuttosto una scena

della lotta sociale, […] in cui le alternative politiche si fanno

concorrenza” (p. 99). E laddove il costruttivismo considera fra i

“gruppi sociali rilevanti” soprattutto gli attori più visibili

(scienziati, ingegneri, tecnici, amministratori, manager),

Feenberg considera necessario includervi anche i semplici

utilizzatori, il cui ruolo nel processo di interpretazione sociale

Page 96: tesi

Ecologia Digitale 77

della tecnologia è particolarmente visibile proprio nell’ambito

delle ICT e nello sviluppo della CMC (Computer Mediated

Communication).

La definizione della tecnologia, arricchita dalla

considerazione dei suoi aspetti sociali e politici, può includere

quindi “i suoi significati sociali e i suoi orizzonti culturali” (p.

100) 28. Patrice Flichy distingue in proposito un “quadro di

funzionamento” e un “quadro d’uso” di un dispositivo

tecnologico, per segnalare la differenza tra le caratteristiche

specifiche che determinano la sua messa in atto e l'insieme delle

manipolazioni e delle attribuzioni di significato di cui esso viene

fatto oggetto da parte di una specifica comunità di utenti. Jean

Baudrillard suggerisce un approccio simile adattando la

distinzione linguistica fra denotazione e connotazione per

descrivere la differenza fra la funzione degli oggetti tecnici e le

loro numerose altre associazioni. Feenberg sottolinea, d’altra

parte, come tali distinzioni, per quanto utili, siano il prodotto, e

non il presupposto del mutamento tecnico. L’interazione in

divenire fra lo sviluppo e l’uso dei dispositivi tecnologici e il

contesto sociale e istituzionale determina nel tempo una

cristallizzazione dialettica tanto delle funzioni quanto dei

significati sociali. “[…] la funzione è un termine relazionale che

attribuiamo all’oggetto come se fosse una qualità reale. In realtà,

la funzione di ogni tecnologia è relativa alle organizzazioni che la

creano, la controllano e che le forniscono un obiettivo” (ibid. p.

140). Feenberg avanza quindi una lettura dinamica della

cristallizzazione di funzioni e significati in un dispositivo: la

distinzione statica di Flichy diventa un processo dinamico in cui

l’essenza stessa della tecnica è caratterizzata da due aspetti che

spiegano, uno la “costituzione funzionale degli oggetti tecnici”,

definita “strumentalizzazione primaria”, e l’altro la

Page 97: tesi

Capitolo II 78

“realizzazione di oggetti e soggetti correlati in reti e dispositivi

reali“, definita “strumentalizzazione secondaria” (p. 241). Se al

livello della strumentalizzazione primaria si dispiega la

“relazione tecnica fondamentale”, in cui “il mondo della vita”

viene ridotto a materia prima e ad oggetto di calcolo e

sfruttamento, attraverso la strumentalizzazione secondaria

questa relazione tecnica produce sistemi o dispositivi concreti,

integrati “con gli ambienti naturali, tecnici e sociali” che ne

sostengono il funzionamento, recupera cioè la sua dimensione

contestuale (p. 244). Una tale lettura consente a Feenberg di

integrare in un’unica cornice le risposte alle questioni sollevate

dalle filosofie essenzialiste (reificazione e tecnicizzazione del

mondo della vita) e dalla sociologia costruttivista (costruzione

sociale della tecnologia), correggendone allo stesso tempo i

rispettivi limiti. E gli consente soprattutto, come vedremo, di

individuare, al livello delle strumentalizzazioni secondarie, lo

spazio di una opposizione democratica al dominio della

razionalità tecnica.

Il processo della progettazione tecnica, oltre a definire

significati sociali e funzioni di un dispositivo, “incorpora anche

alcuni presupposti più generali che concernono i valori sociali” e

che costituiscono quello che Feenberg definisce l’”orizzonte

culturale” della tecnologia (p. 103). Le controversie fra le

alternative in campo nella fase di definizione di una tecnologia si

risolvono, in effetti, “privilegiando una configurazione fra le

molte altre possibili” (p. 105), selezionata dagli interessi

dominanti. Questo processo di “chiusura” della tecnologia fissa

un insieme definito di funzioni e significati sociali nella forma di

un “codice tecnico”, il quale definisce la tecnologia in termini

strettamente tecnici “conformemente al significato sociale che

esso ha acquisito” e fornisce un modello per altri sviluppi nello

Page 98: tesi

Ecologia Digitale 79

stesso settore (ibid. p. 105) 29. La chiusura produce una “scatola

nera”, ossia un artefatto le cui origini sociali sono dimenticate e i

cui significati sociali sono dati per scontati come impliciti e

necessari. Questo processo è all’origine dell’illusione

determinista per cui l’artefatto appare come qualcosa di

puramente tecnico e persino inevitabile.

In questo senso il sistema tecnologico si costituisce come

l’incarnazione tecnica di un’”egemonia culturale”, concetto

ripreso dalla tradizione dei cultural studies nella sua accezione

di una modalità di dominio contestabile e adottato da Feenberg

per sottolineare il margine di trasformazione di una tecnologia di

cui dispongono i normali utenti. Nelle società capitaliste la

razionalizzazione tecnocratica egemonizza l’orizzonte culturale e

“la progettazione tecnica è la chiave del suo potere” (p. 103).

Proprio a partire dalla mancata consapevolezza che questa

egemonia possa essere contestata come una, e non l’unica, tra le

forme possibili di razionalizzazione, Feenberg propone il

concetto, e la pratica, di “razionalizzazione democratica” (pp. 87-

175) come forma dell’agire umano capace di fornire

un’alternativa alla pura razionalità tecnologica. La nozione di

razionalizzazione democratica è un ribaltamento della posizione

di Max Weber che considera la burocrazia la sola forma razionale

di modernità. Feenberg afferma al contrario che l’opposizione

agli imperativi tecnologici non rientra necessariamente nella

categoria dell’irrazionalità, ma si configura piuttosto come una

forma alternativa di razionalità. Attraverso una critica al

concetto di “domesticazione” di Silverstone e la discussione di

alcuni spunti forniti da Foucault, de Certau e Latour, Feenberg

giunge a definire la prospettiva della “razionalizzazione

democratica”.

Page 99: tesi

Capitolo II 80

L’approccio di Roger Silverstone e di altri cullturalisti alla

ricezione della tecnologia all’interno della famiglia, e la relativa

metafora della “domesticazione”, “privilegiando l’adattamento e

l’abitudine” e connotando i “confini limitati della casa”, non

sembrano sufficienti a definire lo spazio di un agire umano

significativo nei confronti della tecnica e a valorizzarne inoltre le

implicazioni pubbliche (p. 129-130). Le riflessioni di Foucault

(1977) sul rapporto fra sapere e potere illustrano invece la

contrapposizione fra “regimi di verità” e strutture di potere

incarnate negli artefatti e nei discorsi scientifici, da un lato, e

saperi assoggettati e parziali (“situati”) in grado di attuare una

ricodificazione del sistema a partire da forme di lotta locali,

dall’altro (Feenberg 1999, p. 131-133). Riprendendo alcune idee

generali di Foucault, Michel de Certau (1980) propone la

relazione costituente fra le “strategie” di controllo e

pianificazione dei poteri istituzionalizzati e le “tattiche” di

diversione e destabilizzazione attuate inevitabilmente dagli attori

sociali nel processo di realizzazione delle strategie (Feenberg

1999, p. 134-136) 30. Una relazione simile a quella, rilevata in

ambito linguistico, fra langue e parole, e alla base del “principio

di simmetria”, elaborato da Bruno Latour, fra “programmi” e

“anti-programmi” incorporati negli oggetti tecnici e operanti per

mezzo di “deleghe tecnologiche” (p. 137-143).

La discussione dei meccanismi di legittimazione e dei limiti

della “razionalità tecnica” guida Feenberg verso la

considerazione, mutuata da Marcuse e da Foucault, del limite

posto alla razionalizzazione tecnocratica dalla resistenza dei suoi

stessi “oggetti umani” e verso il conseguente recupero di uno

spazio dell’agire umano significativo confrontato non con la

tecnica in quanto tale, ma con le tecnologie e i dispositivi

concreti che ne costituiscono la materializzazione. Un tale

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Ecologia Digitale 81

impianto critico nei confronti della tecnologia porta il filosofo

americano a riaffermarne la contingenza sociale e la centralità

politica per l’ambito democratico. La “razionalizzazione

democratica” è, allora, l’affermazione della “razionalità della

partecipazione pubblica informale al cambiamento tecnologico”

(p. 90) e dell’implicazione pubblica dell’intervento dell’utente

che “sfida le strutture di potere non democratiche radicate nella

tecnologia moderna” (p. 130); essa “procede attraverso progressi

tecnici che si oppongono alla tecnocrazia” (p. 197) e

all’”egemonia tecnologica” ed “è l’effetto dei programmi dominati

che realizzano i potenziali tecnici ignorati o rifiutati” dai sistemi

dominanti (p. 87). Le “razionalizzazioni democratiche”

(controversie tecniche, dialoghi innovativi, progettazione

partecipata, appropriazioni creative) (pp. 143-154) rendono

attuale l’ambivalenza della tecnologia, contrastando le

dinamiche di “conservazione della gerarchia” e le “strategie

tecnocratiche di modernizzazione” messe in atto dagli interessi

dominanti (p. 90-91) 31.

1.4 Razionalizzazione democratica e

disuguaglianze digitali

La storia dei media di comunicazione è emblematica sia

dell’ambivalenza della tecnologia, sia delle dinamiche di

appropriazione creativa da parte degli utenti. Gli sviluppi

dell’informatica applicata e delle reti di comunicazione fra

computer, in particolare di Internet, ne costituiscono per molti

aspetti quasi esempi paradigmatici. E’ evidente, quindi, la

pertinenza della prospettiva della razionalizzazione democratica

per gli sviluppi delle tecnologie dell’informazione e

comunicazione; lo stesso Feenberg, impegnato in alcuni progetti

Page 101: tesi

Capitolo II 82

specifici nel campo della comunicazione mediata dal computer,

dedica ampio spazio all’insorgenza della comunicazione umana

nelle reti telematiche originariamente progettate per la

trasmissione di dati (il Minitel in Francia e la stessa Internet ai

suoi esordi negli Stati Uniti) (Feenberg 1999) e alla “costruzione

sociale delle comunità online” (Feenberg e Bakardjieva 2002).

Le analisi di Feenberg si rivelano allora utili a sgombrare il

dibattito sul digital divide e sul rapporto fra ICT e inclusione

sociale da semplificazioni e mistificazioni, e si traducono in due

elementi di riflessione fra loro complementari. In primo luogo, la

considerazione dei processi di costruzione sociale delle

tecnologie richiama la questione cruciale di come i significati

sociali sedimentati nei sistemi tecnologici e l’orizzonte culturale

in essi incarnato si confrontino con la loro ricezione da parte dei

nuovi utilizzatori.

I gruppi sociali dominanti che contribuiscono alla

definizione dei dispositivi tecnologici nella fase di progettazione

sono anche i primi a fruire delle novità tecnologiche e a fissarne

la definizione in una certa configurazione di funzioni e

significati. Nel caso di Internet, in particolare, il ruolo dei

pionieri è stato particolarmente significativo nel forgiarne gli

aspetti socio-tecnici, data la velocità del processo di feedback e

la flessibilità della tecnologia (Castells 2001). Attraverso un

processo di progressiva “chiusura” – che, come nel caso di tutte

le tecnologie più recenti, non è ancora compiuto – la specifica

cultura di Internet è emersa come sintesi delle diverse culture

incarnate dai “gruppi sociali rilevanti” nelle diverse fasi della sua

progettazione. Con una progressione temporale non priva di

conseguenze, tecnici, ricercatori e scienziati del mondo

accademico e militare, hacker, gruppi alternativi e network

comunitari, e più tardi imprenditori e manager della new

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Ecologia Digitale 83

economy, hanno contribuito a plasmare i caratteri tecnici e

sociali del mezzo e a improntarlo ad un’”ideologia della libertà”

(di espressione e d’impresa), coerente con il più complessivo

milieu socio-culturale di provenienza. La massa dei semplici

utenti è arrivata molto dopo, sull’onda della commercializzazione

del Web e dei progressi raggiunti dalle tecnologie di trasmissione

ed elaborazione dei dati e dai software per la gestione, la

programmazione e la presentazione delle informazioni.

La configurazione socio-tecnica attuale di Internet porta i

segni delle sue contraddittorie origini e motivazioni, allo stesso

tempo radicate nel cuore dell’Occidente e protese verso un ideale

universalistico, capitaliste e comunitarie, tecnocratiche e

libertarie, militari e controculturali. Il vantaggio temporale, le

strutture di potere consolidate e l’egemonia culturale dei modelli

della razionalità tecnica, hanno comunque finito per assegnare

un ruolo preponderante alla cultura tecno-meritocratica –

condivisa dalla maggior parte degli attori coinvolti e cruciale

negli ambienti universitari e scientifici in cui la tecnologia ha

mosso i suoi primi passi – e agli imperativi della produttività

economica e del profitto – che ne hanno contraddistinto

l’adozione nel mondo imprenditoriale e amministrativo e la

diffusione “di massa” degli anni Novanta.

L’”orizzonte culturale” di Internet, e in generale delle nuove

ICT, è ancorato nei valori e nei codici culturali dei gruppi sociali

benestanti e acculturati delle società occidentali, con una forte

caratterizzazione maschile e nordamericana (Castells 2001).

Questa “deformazione” iniziale contribuisce a spiegare, tra

l’altro, alcune delle disparità nell’accesso alle ICT tra diversi

gruppi sociali e tra diverse zone del pianeta (Warschauer 2003).

La disponibilità di contenuti e servizi giudicati utili o allettanti e

la presenza di utenti all’interno dei propri gruppi sociali di

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Capitolo II 84

riferimento, ad esempio, sono tra i fattori che motivano le

persone ad utilizzare Internet (Di Maggio et al. 2004). La cultura

dei creatori e dei primi utilizzatori di Internet ha determinato in

effetti una prevalenza di contenuti e applicazioni commerciali,

orientate dai valori dell’occidente ricco, un predominio della

lingua inglese e una parallela scarsa reperibilità di contenuti

alternativi 32. Le persone provenienti da altre culture, che parlano

altre lingue – in molti casi con sistemi di scrittura diversi dalle

lingue latine o addirittura non alfabetici – o che hanno

semplicemente interessi diversi, sono dunque scoraggiate

dall’accedere al Web per attività di consultazione. La

conseguente scarsa presenza in Rete di questi gruppi sociali,

oltre ad esasperare la marginalizzazione dei contenuti minoritari,

costituisce a sua volta per chi ne fa parte un fattore di

dissuasione dall’accedere ad Internet per quelle attività di

comunicazione, scambio e condivisione che si attivano sulla base

dell’esistenza di una massa critica di utilizzatori all’interno delle

proprie reti sociali.

In questo caso, dunque, elementi tecnici, sociali, culturali ed

economici, interni all’”orizzonte culturale” della razionalità

tecnica (strumentalizzazione primaria) e incorporati nella

costituzione materiale e simbolica del sistema tecnologico

Internet (strumentalizzazione secondaria), contribuiscono

nell’insieme a dettare le soglie di accesso alle nuove tecnologie e

una conseguente “stratificazione sociale” degli usi e dei benefici

associati alle nuove tecnologie in una determinata cultura.

Per i segmenti di popolazione delle società avanzate e dei

Paesi in via di sviluppo non raggiunti, o toccati solo

marginalmente, dall’ultima ondata di innovazioni tecnologiche

nel campo dell’informazione e della comunicazione, l’innesto di

queste tecnologie nel tessuto di significati, relazioni e pratiche

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Ecologia Digitale 85

sociali preesistente presenta quindi alcuni aspetti di criticità. Il

processo di diffusione di queste tecnologie, se adeguatamente

contestualizzato, può innescare processi di appropriazione che

rispondano a bisogni e desideri socialmente riconosciuti e

impattino, così, efficacemente le dinamiche di esclusione sociale

e impoverimento crescenti. Ma se un tale processo di

appropriazione non si verifica – e non viene favorito – le nuove

tecnologie si rivelano del tutto inefficaci nel sostenere percorsi di

sviluppo endogeni, autodiretti e sostenibili e rischiano al

contrario di aggravare le dinamiche di subalternità dei soggetti

svantaggiati nei confronti di poteri economici le cui maglie non

possono in ogni caso essere eluse perché in grado di raggiungere

le risorse loro necessarie in qualunque luogo esse si trovino e di

imporre ovunque gli effetti delle loro politiche.

In secondo luogo, allora, la prospettiva della

“razionalizzazione democratica” consente di cogliere tutta

l’”ambivalenza” delle tecnologie dell’informazione e della

comunicazione e affrontarne la fondamentale contraddizione fra

usi “sociali” e “strumentali”. Le differenze nella disponibilità e

nell’uso significativo dei dispositivi della comunicazione in rete

da parte di individui e comunità costituiscono, nel contesto di

un’economia informazionale, una fonte di nuove disuguaglianze

ed esclusioni sociali che vanno a sommarsi o ad aggravare quelle

precedenti, e mobilitano quindi governi, privati, organismi non

governativi e istituzioni internazionali ad un’azione di contrasto

al digital divide. La diffusione delle tecnologie e delle possibilità

di accesso alle reti, nello scenario dell’attuale modello globale di

sviluppo capitalista, non va però ad intaccare, ed anzi rafforza,

gli squilibri nella distribuzione di potere e ricchezze. I modelli di

divisione internazionale del lavoro nei comparti produttivi delle

ICT, i processi di concentrazione nei settori delle nuove industrie

Page 105: tesi

Capitolo II 86

culturali, e una complessiva gerarchizzazione delle reti

nell’ambito della dialettica globale/locale non fanno che

sottomettere nuovi spazi alle prerogative della valorizzazione

economica e della razionalizzazione tecnocratica. La fruizione dei

media digitali e l’accesso alle “reti” dell’economia globale da

parte dei soggetti esclusi dal benessere economico e dal potere di

influenza culturale delle società capitaliste, assumono allora le

forme della subalternità, dell’impoverimento e dell’omologazione

delle differenze culturali e della perdita del controllo sulle

proprie vite e culture. Come sottolinea Castells (2001, p. 157),

nella società in rete “il potere viene esercitato primariamente

intorno alla produzione e alla diffusione di codici culturali e

contenuti d’informazione. Il controllo dei network di

comunicazione diventa la leva con cui interessi e valori vengono

trasformati in norme che guidano il comportamento umano”.

Questa duplice natura delle dinamiche di esclusione fa sì che

la tematizzazione dominante della questione delle disuguaglianze

nella società dell’informazione vada incontro ad un’insanabile

contraddizione. La nozione di digital divide – la cui presunta

neutralità è apparente e strumentale quanto quella attribuita alle

stesse tecnologie – e le relative politiche, inscrivendosi nello

stesso orizzonte culturale della razionalizzazione tecnocratica,

finiscono in effetti per legittimarne e riprodurne le relative

dinamiche di esclusione che vorrebbero contrastare. Gli

interventi volti a colmare il gap tecnologico e a porre le ICT al

servizio dello sviluppo si concretizzano in programmi di

“trasferimento tecnologico”, che invece di stimolare e favorire

l’appropriazione autonoma degli strumenti in questione, mirano

a far percorrere ai soggetti “ritardatari” le tappe di una

modernizzazione il cui assunto implicito è l’idea determinista di

un progresso unilineare e “necessario”. All’origine di tali

Page 106: tesi

Ecologia Digitale 87

politiche vi è stato, tra l’altro, il ritorno in auge di una

“concezione diffusionista dello sviluppo” (Mattelart 2001) – già

messa alla prova dalle fallimentari strategie degli anni Sessanta e

Settanta “ispirate dall’ideologia quantitativa della

modernizzazione” (ibid.) – secondo cui l’innovazione e il

cambiamento sociale procedono dall’alto verso il basso, per un

processo a cascata dalle emittenti centrali e dalle elites tecniche

verso i riceventi periferici e gli amministrati. Un tale “modello di

sviluppo”, in cui, come sottolinea suggestivamente Mattelart

(2001), “il ricevente è condannato, in qualche modo, allo status

di clone dell’emittente” è, d’altra parte, perfettamente coerente

con i processi di spersonalizzazione e di imposizione attuati dalle

reti strumentali del capitalismo globale.

Ma se si vuole interrompere il circolo vizioso fin qui

evidenziato tra sviluppo tecnologico ed esclusione sociale,

ricerche e politiche riguardanti la diseguale distribuzione delle

ICT e il loro contributo allo sviluppo umano, dovrebbero

concentrarsi meno sull’aspetto quantitativo della diffusione delle

tecnologie o sul loro impatto sugli indici di produttività e

crescita economica, e considerare maggiormente le potenziali

interazioni tra i modelli tecnologici disponibili da un lato e il

sistema di risorse, bisogni e relazioni di potere presente in un

determinato contesto dall’altro, stimolando al contempo

creatività e risorse locali nei processi di diffusione delle nuove

tecnologie. Indagare la relazione costitutiva e dinamica fra

artefatti, funzioni e significati sociali e assumere la prospettiva

della “razionalizzazione democratica” significa, nell’ambito delle

“ICT per lo sviluppo”, valorizzare il ruolo attivo degli attori

sociali nell’adozione e nella trasformazione delle nuove

tecnologie. Significa focalizzare l’attenzione sul mutamento

sociale desiderato e sui benefici e non sulla tecnologia in se,

Page 107: tesi

Capitolo II 88

ossia promuovere un uso strategico e consapevole delle nuove

tecnologie, adattato agli specifici obiettivi che gli stessi soggetti

si danno e integrato nel più ampio contesto delle precedenti

strategie e dei bisogni locali di informazione e di comunicazione.

2. Un’altra razionalità è possibile: l’ecologia digitale

Un interesse non strumentale per il possibile contributo

delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione

allo sviluppo umano di individui e comunità non può quindi

prescindere dalla discussione delle concrete forme, applicazioni e

modelli d’uso che tali tecnologie vanno assumendo nel corso

della loro evoluzione. Queste concretizzazioni, come abbiamo

visto, non solo non sono determinate da alcun principio tecnico

od economico a priori, bensì generate dalla negoziazione sociale

fra gli “attori rilevanti” che partecipano all’ampio processo di

progettazione; in particolare nell’ambito delle ICT, le concrete

applicazioni sono anche e significativamente forgiate

dall’intervento attivo degli utenti e dei diversi soggetti che a

vario titolo vi sono coinvolti.

Nella ricognizione di Feenberg (1999) l’affermazione delle

tematiche dell’ambientalismo e l’emersione della comunicazione

umana nelle reti di computer (Minitel in Francia e Internet negli

Stati Uniti) costituiscono due significativi esempi di

“razionalizzazione democratica": le “controversie” relative alle

conseguenze ambientali del sistema industriale e

l’”appropriazione creativa” delle tecnologie di rete hanno fatto

emergere, nei rispettivi ambiti, quei “potenziali tecnici ignorati o

rifiutati dal sistema dominante” (ibid., p. 87) che si oppongono

alla razionalizzazione tecnocratica. Sottomettendo la presunta

Page 108: tesi

Ecologia Digitale 89

imparzialità della razionalità tecnica alla discussione

democratica e le sue concrete applicazioni all’intervento

modellante dal basso degli utenti, le “razionalizzazioni

democratiche” includono nei processi di progettazione tecnica

valori e significati alternativi a quelli, orientati al profitto,

all’efficienza, alla pianificazione e al controllo, della

razionalizzazione tecnocratica. Gli interessi dominanti, del resto,

come già detto non hanno tardato ad appropriarsi a loro volta

delle manifestazioni di una tale “razionalità alternativa”,

riconducendola nei binari dettati dalle loro tradizionali esigenze:

basti pensare al controverso significato dell’uso strumentale

delle tematiche ambientali nell’ambito della cosiddetta

“responsabilità sociale dell’impresa”; o all’altrettanto

ambivalente commercializzazione della Rete e dei processi di

comunicazione in genere nella nuova fase digitale.

L’incessante avanzata e la pervasività delle tecnologie

digitali in un crescente numero di ambiti fondamentali della

nostra esistenza, il ruolo strategico che esse ricoprono nelle

principali dinamiche economiche e politiche a diverse scale e i

diversi processi di esclusione a cui danno luogo, sollevano oggi,

nel contesto dell’informazionalismo e della società in rete,

questioni per alcuni aspetti analoghe a quelle emerse dai

movimenti ambientalisti ed ecologisti negli anni Sessanta e

Settanta in relazione all’impatto delle tecnologie industriali e

dell’industrializzazione in generale sull’ambiente naturale e

umano. Alcuni dei movimenti e dei “gruppi sociali rilevanti”

impegnati attivamente sul terreno della tematizzazione, della

proposta e della contestazione politica intorno alle questioni

sociali e democratiche poste dalla “società dell’informazione”,

adoperano esplicitamente l’espressione ecologia digitale per

Page 109: tesi

Capitolo II 90

significare allo stesso tempo un ambito di intervento e una

prospettiva ideale.

L’approccio ecologico alle tecnologie e alle risorse

dell’informazione e della comunicazione da un lato costituisce

un’interessante prospettiva da cui guardare alle relazioni tra

tecnologie e società con un particolare accento sulla dimensione

locale; dall’altro rappresenta, come si diceva, un caso di

“razionalizzazione democratica”, vale a dire l’inclusione nella

discussione pubblica di temi relativi agli usi delle tecnologie che

la “razionalità tecnica” dominante non considera e l’emersione di

scenari e soluzioni tecniche e politiche alternative.

2.1 Ecologie dell’informazione

In una prospettiva più ampia rispetto a quella dell’ecologia

digitale, alcuni autori utilizzano la metafora biologica per

rendere conto dei complessi fenomeni di evoluzione e

adattamento reciproco delle ICT, dei media e della società.

Warscahuer (2003) suggerisce di guardare al rapporto tra le

tecnologie e i diversi contesti sociali in cui operano, come ad una

“interdipendenza ecologica”, vale a dire una relazione in cui i

diversi elementi e attori che compongono il quadro agiscono

l’uno sull’altro in una dinamica di adattamento e cambiamento

reciproco. Fidler (1997) adopera la metafora biologica per

indicare i caratteri della mediamorfosi, ossia dei processi storici

di selezione ed evoluzione che interessano i media e i domini

della comunicazione.

Nardi e O’Day (1999) propongono l’espressione ecologia

dell’informazione (“information ecology”) 33 per indicare “un

sistema di persone, pratiche, valori e tecnologie in un

determinato contesto” (Nardi e O’Day 1999, traduzione mia). La

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Ecologia Digitale 91

prospettiva delle due ricercatrici americane focalizza “l’interesse

principale non sulla tecnologia in se, ma sulle attività umane

servite dalle tecnologie” (ibid.) in uno specifico ambiente

“locale”, come un’istituzione, una comunità, uno spazio virtuale

in rete. Le caratteristiche salienti di un’ecologia

dell’informazione sono analoghe a quelle di un ecosistema

biologico: essa è infatti un sistema di relazioni e dipendenze fra

elementi tecnici, umani, culturali e sociali interessati da

dinamiche di coevoluzione e alcuni dei quali ricoprono dei ruoli

chiave per il funzionamento complessivo del sistema; un’ecologia

esibisce inoltre un certo grado di diversità e varietà interna ed è

situato in uno specifico contesto locale. Questa dimensione

locale delle ecologie dell’informazione le rende inoltre, secondo

Nardi e O’Day, gli ambiti privilegiati della partecipazione

collettiva alla definizione delle applicazioni e degli usi delle

tecnologie.

La metafora ecologica proposta dalle due ricercatrici

americane permette quindi di focalizzare l’attenzione sulle

complesse relazioni che si instaurano fra le tecnologie

dell’informazione e i valori, i saperi e le pratiche situate in un

determinato ambiente; consente inoltre, indicando un’unità di

osservazione intermedia come un ambiente locale, di sfuggire

allo stesso tempo sia alla concezione comune della tecnologia

come strumento con cui le persone si relazionano singolarmente

e in modo neutro, sia all’idea di un sistema tecnico omogeneo e

su larga scala in cui al contrario le persone non sono che

meccanismi di un ingranaggio; permette di cogliere, infine, –

peraltro con un deciso richiamo alla teoria della

“razionalizzazione democratica” di Feenberg – il ruolo attivo

svolto da un’ampia gamma di attori nella definizione delle

Page 111: tesi

Capitolo II 92

concrete applicazioni delle tecnologie dell’informazione e nella

loro integrazione nei diversi contesti sociali d’uso.

2.2 “Proprietà intellettuale” vs. information e

digital commons

Il concetto di ecologia digitale (o ecologia informazionale) è

emerso negli ultimi anni in analogia con le tematiche relative alla

salvaguardia dell’ambiente naturale sollevate a partire dagli anni

Cinquanta dall’ambientalismo e dall’ecologismo. L’espressione si

colloca infatti, in prima istanza, nell’ambito delle questioni

sollevate da quei movimenti che, preso atto della centralità delle

risorse di informazione e conoscenza in moltissimi ambiti

fondamentali delle società contemporanee, ne evidenziano la

natura di “beni comuni” e sottolineano la necessità di preservare

quest’ultima dai processi di privatizzazione e

commercializzazione portati avanti dagli attori economici e

politici dominanti. Questi ultimi fondano le loro pretese sulla

nozione – per nulla neutrale e già in parte discussa nel primo

capitolo – di “proprietà intellettuale” e sull’equiparazione delle

risorse in questione a merci (commodities), alla stregua di un

qualsiasi bene materiale (cfr. Cap. 1, par. 3).

In effetti il primo riferimento ad un “ambientalismo per la

Rete” si trova in un saggio del 1997, in cui il professore di legge

americano James Boyle argomenta l’opportunità di un ampio

dibattito politico intorno al quadro teorico e alle politiche

relative alla “proprietà intellettuale”, in quanto forma legale

fondamentale della società dell’informazione e questione

centrale nello sviluppo di Internet. Boyle individua e paventa già

allora la tendenza verso un’estensione del concetto e dei suoi

ambiti di applicazione, costruita intorno agli interessi di pochi

Page 112: tesi

Ecologia Digitale 93

attori economici e sulla base di una valutazione semplicistica dei

concetti di proprietà e di autore, a discapito del fair use e

soprattutto di un “dominio pubblico” delle conoscenze. Questo

“spazio” è inteso da Boyle in analogia all’”ambiente naturale”:

come questo è stato posto al centro del dibattito pubblico dal

movimento ambientalista come elemento di considerazione

contrapposto agli interessi economici dei privati, anche il

“dominio pubblico” deve essere inventato e protetto dallo

sfruttamento miope delle forze del mercato. Gli anni successivi a

questo saggio da un lato hanno visto confermate le previsioni di

Boyle di una maggiore estensione della portata dei diritti di

“proprietà intellettuale”, dall’altro hanno visto anche diffondersi

dibattiti, movimenti d’opinione e pratiche politiche e “tecniche”

in difesa delle diverse forme di un dominio pubblico delle

conoscenze, contro quello che in un saggio recente lo stesso

Boyle ha definito come un “secondo movimento di enclosure”,

“the enclosure of the intangible commons of the mind” 34 (vedi

Cap. 1 par. 3).

Il riferimento alla condizione dei terreni agricoli di uso

pubblico (commons) precedente allo storico processo di

enclosure a cui si richiama Boyle (avvenuto tra il 1500 e il 1800),

è assai comune tra i movimenti e le organizzazioni che si battono

per un più equo bilanciamento tra i diritti di proprietà e quelli di

libero acceso e uso dell’informazione. In origine riferito ai

terreni agricoli usati liberamente dai contadini per coltivare e

allevare gli animali in Inghilterra fino al 1500, il termine

commons sta ora ad indicare in generale “una risorsa, una

struttura o un servizio condiviso da una comunità di produttori o

consumatori” (Kranich 2004). Molte risorse materiali sono state

gestite nel corso della storia – e sono tuttora gestite –

completamente o in parte in regime di “proprietà comune” o di

Page 113: tesi

Capitolo II 94

“libero accesso”: tra queste, le foreste e il legname, i terreni per

il pascolo, le riserve idriche e ittiche, le vie di comunicazione e

trasporto, le piazze, le strade, i parchi e altri luoghi pubblici di

città e stati. In molti casi anche le risorse informative sono

accessibili e fruibili in una condizione simile: le collezioni di

risorse letterarie e artistiche delle biblioteche comunali, le

trasmissioni televisive pubbliche, alcune porzioni dello spettro

elettromagnetico e i protocolli ed i software di base di Internet

sono tutti esempi di risorse immateriali soggette ad un regime di

proprietà comune o di libero accesso.

Il dibattito in ambito giuridico, economico, sociologico e

antropologico sull’efficacia, l’efficienza e la sostenibilità della

gestione condivisa delle risorse, prende le mosse dal noto saggio

del 1969, The Tragedy of Commons, in cui Garret Hardin,

riferendosi all’esaurimento dei terreni comuni utilizzati per il

pascolo, argomentava l’insostenibilità di un accesso

indiscriminato alle risorse comuni, pena un’eccessiva domanda e

il conseguente deterioramento delle stesse (Carlini 2002;

Rheingold 2002; Kranich 2004). Negli anni seguenti altri studi

hanno dimostrato che le conclusioni di Hardin valgono in realtà

solo per quei commons gestiti in regime di “accesso libero”

(ibid.) e che anche in questi casi la “tragedia” non è né il più

frequente né il più probabile degli esiti: in effetti nella maggior

parte dei casi si osservano modalità di regolazione implicita delle

risorse comuni, improntate a diversi modelli di reciprocità ed

“egoismo altruistico”, che garantiscono uno sfruttamento accorto

e un equo bilanciamento tra costi e benefici (Carlini 2002) 35. In

altri casi, descritti da Carol Rose, addirittura il valore

complessivo di una “risorsa” aumenta proprio in virtù del

numero di persone coinvolte nella sua fruizione. Rose cita il caso

di attività collettive quali i festival o le piste da ballo, in cui i

Page 114: tesi

Ecologia Digitale 95

partecipanti possono ciascuno investire quantità limitate di

risorse personali traendone invece un beneficio che cresce

all’aumentare dei partecipanti, almeno entro certi limiti che Rose

individua nell’ambito dei confini di una “comunità” (Kranich

2004). Tali esiti positivi sono più probabili quando a governare

un commons provvede un regime di “proprietà comune”, in cui i

membri di un gruppo chiaramente delimitato sono titolari di un

insieme di diritti, compreso il diritto di escludere i non-membri

dalla fruizione della risorsa (ibid.).

Nell’ambito delle tecnologie e delle risorse dell’informazione

si osserva un’ampia varietà di casi in cui si registrano effetti di

“esternalità positiva”: basti pensare all’effetto di rete

caratteristico di “vecchie” tecnologie di comunicazione personale

come il telefono ed il fax, il cui valore complessivo e quello per il

singolo utente aumenta all’aumentare del numero totale degli

utenti. Un discorso analogo vale ancor di più per le “nuove”

tecnologie e per le relative applicazioni: il “valore” di una rete di

computer o dei servizi di posta elettronica, ad esempio, aumenta

in modo esponenziale al crescere del numero di computer

connessi o di utenti del servizio. Le reti peer to peer per la

condivisione di files, e ancor di più quelle alla base dei cosiddetti

wireless mesh network costituiscono altri esempi significativi di

commons (in questo caso digitali) in cui l’aumento dei

partecipanti-utenti non deteriora e anzi accresce le risorse

disponibili, contenuti in un caso e quantità di banda nell’altro

(Rheingold 2002) 36.

L’avvento della digitalizzazione e lo sviluppo delle relative

tecnologie e soprattutto del Web hanno incrementato e facilitato

progressivamente e significativamente le opportunità di creare,

produrre, distribuire, copiare, modificare, reperire e utilizzare

informazioni e conoscenze, integrate in qualsiasi tipo di

Page 115: tesi

Capitolo II 96

contenuto, dalle risorse scientifiche ai software passando per le

opere artistiche e per i prodotti culturali, di informazione e di

intrattenimento, originati nell’ambito dei vecchi media o creati

grazie agli stessi nuovi supporti digitali. In questo senso le

tecnologie digitali e Internet non solo consentono

potenzialmente la disseminazione di una gamma di espressioni

ampia quanto la diversità dei punti di vista e del pensiero

umano, ma creano anche le condizioni per dar luogo a

meccanismi di produzione e distribuzione decentralizzata delle

informazioni e delle conoscenze (peer-production), che alterano

l’attuale sistema basato in maniera preponderante su produttori

commerciali e consumatori passivi (Kranich 2004). In effetti,

seppur solo in quella porzione minoritaria del pianeta in grado di

sfruttare a pieno tali opportunità, innovazioni sociali prima

ancora che tecniche, come i sistemi di open publishing e di

scrittura collaborativa, di discussione on-line e di file-sharing,

resi possibili da Internet, hanno avuto un impatto significativo

su ambiti quali l’informazione e la comunicazione indipendente,

il consumo dei media e la fruizione e la promozione artistica e

culturale, prefigurando possibili modelli di produzione

dell’informazione basati sull’idea e la pratica di un digital

commons.

Questi sviluppi hanno finito per minacciare le posizioni

consolidate dei tradizionali produttori di contenuti. Le grandi

corporations dell’industria culturale, piuttosto che rivedere i

propri modelli di business per adattarli alle mutate condizioni

tecnologiche, hanno risposto sviluppando tecniche di protezione

dei contenuti (Diogital Rights Management), portando avanti

intense attività di lobbying a livello nazionale e internazionale

affinché queste tecniche acquisissero valore legale e gli

organismi competenti dettassero legislazioni più restrittive,

Page 116: tesi

Ecologia Digitale 97

rafforzando i controlli sulla fruizione dei propri prodotti e

limitando i tradizionali diritti degli utenti garantiti nell’ambito

delle leggi sul copyright 37. Il risultato di questi sforzi è stata

l’approvazione quasi contemporanea negli Stati Uniti e in

Europa di legislazioni particolarmente restrittive sul diritto

d’autore e la proprietà intellettuale 38. Più in generale si è

registrato, a partire dalla metà degli anni Novanta, un deciso

impegno da parte di alcuni organismi internazionali 39 verso

l’attuazione di politiche relative ad un nuovo termine ombrello,

Intellectual Property Rights, la cui ampiezza, includendo

un’ampia gamma di fattispecie molto diverse tra loro, mira ad

offuscare le differenze anche profonde fra i diversi sistemi

giuridici di incentivazione e protezione della creatività

individuale e collettiva e, per quanto riguarda le opere

dell’ingegno, a spostare così l’accento dalla definizione dei limiti

al “diritto di copia”, e quindi di fruizione, a quella di un inedito

ed esteso “diritto di proprietà”.

Oggi la creazione e la difesa di una sfera della condivisione

delle conoscenze in forma di commons – che vi si accompagni

l’aggettivo creative, digital o information– si trova fra gli

obiettivi espliciti di molte delle organizzazioni e associazioni

mobilitate per la difesa di una sfera pubblica dell’informazione e

nelle elaborazioni di molti studiosi e ricercatori provenienti da

diverse discipline 40. Più in generale lo sforzo di elaborare

modalità di produzione, gestione e fruizione dell’informazione e

della conoscenza improntate ad un qualche regime di proprietà

comune o di libero accesso è comune ad un’ampia gamma di

settori in cui sono coinvolte queste risorse: dal “software libero”,

rilasciato sotto licenze che garantiscono l’apertura e la libera

distribuzione dei suoi algoritmi di base, alle riviste scientifiche

open access, dai databases liberamente consultabili delle

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Capitolo II 98

ricerche svolte con fondi pubblici fino ai prodotti culturali e

artistici tutelati da una gamma di licenze alternative alle rigidità

del copyright. Questi movimenti si oppongono in un certo senso,

più o meno consapevolmente, al dominio della razionalizzazione

tecnocratica e alle recenti evoluzioni di un “capitalismo

cognitivo” fondato sulla valorizzazione (e quindi sulla

privatizzazione) di informazioni e conoscenze (vedi cap. 1 par. 3).

L’importanza attribuita da questi movimenti alla tutela e

all’estensione di una dimensione pubblica delle informazioni e

delle conoscenze, sottratta alle prerogative del mercato e dei

grandi interessi commerciali, si fonda su un insieme di assunti e

di valori condivisi, che possiamo raggruppare in tre ordini di

questioni. In primo luogo essi sostengono l’importanza di

tutelare e accrescere la diversità culturale, in quanto spinta al

confronto e alla crescita intellettuale di individui e popolazioni e

garanzia della conservazione di quei significati sociali condivisi

che costituiscono il capitale sociale necessario al pieno

dispiegarsi di tutti gli aspetti della convivenza civile all’interno

di e fra diverse società e culture. In secondo luogo tali movimenti

fanno riferimento al ruolo storicamente attribuito dalle società

liberali all’accesso equo ad un’ampia gamma di informazioni per

un pieno esercizio dei diritti di cittadinanza e della democrazia

e per un bilanciamento dei poteri fra governanti e cittadini.

Infine evidenziano il legame fra un ampio e libero accesso alle

informazioni e lo sviluppo umano, culturale e sociale di

individui, comunità e Paesi. In ognuno di questi ambiti, si

sottolinea inoltre, i nuovi ambienti digitali, interattivi e

reticolari possono estendere le possibilità di accesso, produzione,

manipolazione e fruizione delle informazioni ma allo stesso

tempo restringere queste possibilità tramite l’imposizione di

“codici”, tecnici o legali. L’estensione della portata e dei campi di

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Ecologia Digitale 99

applicazione dei diritti di “proprietà intellettuale”, il predominio

degli interessi commerciali, le concentrazioni aziendali nei

settori dei media e delle industrie di telecomunicazione, e il

conseguente restringimento delle opportunità di libero accesso

alle informazioni, alle conoscenze e ai saperi che questi elementi

comportano, costituiscono quindi altrettanti pericoli e ostacoli

per la diversità culturale, per l’esercizio democratico e per lo

sviluppo umano (CIPR 2002). Analisi e politiche relative alle

disuguaglianze digitali, e in particolare all’integrazione delle

nuove tecnologie nelle dinamiche di inclusione sociale, non

possono prescindere, quindi, da una puntuale valutazione

dell’importanza che rivestono per questi ambiti la costruzione e

la difesa di commons digitali e dell’informazione.

2.3 L’ecologia digitale

A partire dalle elaborazioni e dalle pratiche appena descritte,

il concetto di ecologia digitale è venuto assumendo una

connotazione più ampia, relativa alla comprensione delle

dinamiche di produzione, distribuzione, immagazzinamento,

possesso, accesso, selezione e uso dell’informazione e della

conoscenza in ambienti strutturati dalle tecnologie digitali.

Questi ambienti possono essere infatti intesi come “ecosistemi

informazionali”, vale a dire come costituiti da flussi di

informazione digitalizzata e processata da diversi media. In

questo senso la costruzione e la difesa di un digital (o

information) commons e la conservazione e l’aumento del

“valore d’uso” dell’informazione in contrapposizione ad un

artificiale “valore di scambio”, è parte di un più ampio sforzo,

che, riconoscendo il ruolo fondamentale della comunicazione

nella costruzione dell’identità, del senso di comunità e della

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Capitolo II 100

partecipazione civile, miri a valorizzare la diversità culturale e la

qualità della vita delle persone nell’ambito di tali “ecosistemi

informazionali” 41. L’ecologia digitale si riferisce quindi ad idee e

pratiche volte a promuovere usi consapevoli della Rete e delle

nuove tecnologie, sostenibili da un punto di vista tecnico,

economico, ambientale e culturale.

Le disuguaglianze digitali e i fenomeni di esclusione e

disuguaglianza legate all’uso (o al mancato uso) delle ICT

rientrano certamente in questo ambito di analisi. Le tematiche

relative al software libero costituiscono un aspetto di

importanza cruciale per l’ecologia digitale da almeno tre punti di

vista correlati tra loro: in primo luogo esse interrogano le

modalità di produzione e distribuzione di risorse di conoscenza

fondamentali come gli algoritmi e i programmi informatici; in

secondo luogo rappresentano un caso particolare ma assai

significativo della più ampia controversia relativa alla “proprietà

intellettuale” nell’era digitale; infine rientrano nella discussione

intorno agli strumenti più adeguati per contrastare ad ampio

raggio le dinamiche di esclusione legate alle tecnologie digitali.

3. Il software libero e open source

I principi del software libero (Berra e Meo 2001; Williams

2001) discendono in parte direttamente da quelli alla base della

libera circolazione di idee ed informazioni e della revisione dei

“pari” nell’ambito della comunità scientifica, un modello per

altro da più parti riconosciuto tra le ragioni fondamentali degli

straordinari progressi raggiunti negli ultimi duecento anni dalla

scienza. A questo modello si uniscono poi i valori e gli

atteggiamenti propri della cultura e dell’etica hacker: la spinta

della curiosità, la creatività, il piacere e il divertimento, la

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Ecologia Digitale 101

ricerca dell’eccellenza, i valori della solidarietà e della

cooperazione, il senso della comunità, l’opposizione a monopoli,

gerarchie e burocrazie, e infine l’abitudine e il valore della

programmazione collettiva e della condivisione del codice.

Le concrete applicazioni del software libero, oltre a rientrare

nell’ambito della costruzione e della difesa di un commons

digitale, possono essere letti come esempi di un uso razionale

delle risorse in ambito informatico: la trasparenza e la riusabilità

del codice permettono un risparmio in termini di tempo ed

energie e un guadagno in termini di risorse economiche investite

localmente; la modularità e la scalabilità intrinseche al software

libero consentono di personalizzarne le concrete realizzazioni per

adattarle alle specifiche esigenze dei diversi utenti.

In questo modo non solo gruppi di programmatori sparsi per

il mondo possono impegnarsi nel soddisfare esigenze

“minoritarie” (una localizzazione in una particolare lingua poco

diffusa, un’interfaccia adattata ad un particolare contesto o

livello di alfabetizzatone culturale, un’applicazione utile in un

determinato ambito sociale, ecc.), ma da un certo punto di vista

lo stesso carico cognitivo per l’utente si riduce grazie alla

possibilità di limitare la complessità di una tecnologia ai suoi usi

di volta in volta più necessari e quindi familiari.

3.1 Archeologia del software

Fino alla fine degli anni Settanta il mercato informatico era

appannaggio delle poche compagnie – l’IBM su tutte – che

progettavano, costruivano e vendevano i complessi sistemi

hardware per i grandi computer mainframe. In un mercato così

controllato da pochissimi soggetti il margine di guadagno

sull’hardware era elevato e la dipendenza dai fornitori quasi

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Capitolo II 102

assoluta. Inoltre le architetture hardware erano specifiche per i

diversi costruttori e i linguaggi di programmazione dell’epoca,

assai vicini al linguaggio macchina, non consentivano di

sviluppare del software indipendente dalla specifica

configurazione della macchina. In pratica, pur conservandone i

diritti di proprietà, le case produttrici distribuivano il software

insieme al suo “codice sorgente” 42 e in forma gratuita,

incoraggiando i clienti a realizzare e redistruibire modifiche e

miglioramenti; gli utenti di computer erano infatti per lo più essi

stessi programmatori e, soprattutto nei dipartimenti universitari,

il software era uno strumento da condividere e scambiare con la

comunità dei pari allo stesso modo dei risultati della ricerca

(Carlini 2002). Lo “spartiacque tecnologico” degli anni Settanta

(Castells 1996) fu determinante anche nel trasformare la natura

del software. I progressi nel campo della microlettronica

(l’invenzione nel 1971 del microprocessore), l’evoluzione dei

primi network di computer (la nascita di Arpanet nel 1969 e la

creazione dell’architettura di Internet in tutti gli anni Settanta) e

lo sviluppo di un nuovo ambiente software comune costituito dal

sistema operativo Unix, si sostennero a vicenda e contribuirono

nell’insieme alla nascita di un’industria del software, avvenuta

all’inizio degli anni Ottanta.

Unix è un sistema operativo universale e scalabile – ossia in

grado di girare su diverse piattaforme hardware – ideato tra la

fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta nei Laboratori Bell

della AT&T sulla base di un altro sistema operativo, il Multics, e

scritto nel linguaggio di programmazione C, un’altra invenzione

proveniente dallo stesso ambiente, che consentiva un maggior

livello di astrazione e quindi di indipendenza dalla specifica

architettura hardware. Obbligata nel 1974 dal governo americano

a diffondere i risultati delle sue ricerche, la ATT cominciò a

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Ecologia Digitale 103

distribuire alle università il nuovo sistema operativo, fornito del

suo codice sorgente, ad un prezzo simbolico. Il sistema venne

ampiamente adottato, modificato e migliorato e nel 1977 un

gruppo di studenti dell’Università di Berkeley creò la Berkeley

Software Distribution (BSD), una versione avanzata di Unix, e la

rilasciò con una licenza che ne consentiva la modifica. Ma la

nascita di un sistema “portatile” – cioè in grado di far

comunicare i computer (e dare così ulteriore slancio ai network

di computer) e soprattutto di consentirne una programmazione

omogenea – attirò le brame di profitto di tutte le principali

società d’informatica e della stessa AT&T, e portò negli anni

Ottanta ad una moltiplicazione di sottodialetti Unix proprietari

che finì per frammentare quel linguaggio universale e rallentare

la sua evoluzione cooperativa, impedendo ad esempio che esso si

diffondesse sui personal computer.

Nel frattempo, i primi sviluppi del personal computer negli

anni Settanta, oltre che dar forma al sogno di una

democratizzazione dell’informatica, segnavano anche, in senso

opposto, l’avvio dei primi tentativi di commercializzazione del

software 43; quando, nei primi anni Ottanta, la miniaturizzazione

crescente e il debutto dei PC IBM-compatibili innescarono la

nascita di un mercato di massa del Personal Computer e un

abbassamento dei prezzi, il software era ormai diventato una

fonte di guadagno al pari dell’hardware, e destinato perfino a

sopravanzarlo.

3.2 Le origini e i principi del software libero: il

progetto GNU

Il movimento per il software libero sorse come pratica

consapevole all’inizio degli anni Ottanta dalle lotte in difesa

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Capitolo II 104

dell’apertura del codice sorgente di Unix e più in generale in

risposta alla tendenza delle società informatiche a “chiudere”

sempre più il proprio software, imponendo “clausole di non

divulgazione” e licenze restrittive che ne limitavano le libertà

d’uso, modifica e condivisione per gli utenti, in particolare per i

ricercatori impegnati nei laboratori di calcolo delle maggiori

istituzioni accademiche e di ricerca. Una tendenza che portò, tra

l’altro, nel 1984, i Laboratori Bell a reclamare i diritti di

proprietà su Unix, all’atto dello spezzettamento della AT&T e del

suo disimpegno dagli stessi laboratori.

Uno di questi ricercatori, Richard M. Stallman (Williams

2002; Berra e Meo 2001), in netto disaccordo con queste

politiche e resosi conto in prima persona delle loro conseguenze

negative, decise nel 1983 di abbandonare il laboratorio di

Intelligenza Artificiale del MIT di Boston per dedicarsi alla

realizzazione di un sistema operativo compatibile con Unix.

Secondo Stallman, programmatore dalle notevoli doti e figura

eccentrica non rara negli ambienti della cultura hacker (vedi cap.

1 par. 2.4), le licenze del free software devono garantire in

particolare all’utente quattro libertà, il cui insieme definisce cosa

si intende per software libero: la libertà (0, o “libertà

fondamentale”) di eseguire il programma per qualunque scopo,

senza vincoli sul suo utilizzo; la libertà (1) di studiare il

funzionamento del programma e di adattarlo alle proprie

esigenze; la libertà (2) di redistribuire copie del programma; la

libertà (3) di migliorare il programma e di distribuirne i

miglioramenti. Presupposto in particolare delle libertà 1 e 3 è la

trasparenza del software, ossia la disponibilità per l’utente del

“codice sorgente” del programma.

Stallman diede quindi vita nel 1984 al progetto GNU 44 e alla

Free Software Foundation; nell’ambito di quest’ultima, insieme

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Ecologia Digitale 105

ad alcuni collaboratori, definì inoltre i termini della GNU

General Public License (GNU GPL), una licenza d’uso che,

applicata ad un programma, da una parte ne garantisce le

quattro libertà, e dall’altro impone a chiunque redistribuisca

quel programma o sue versioni modificate o altri programmi che

comprendono parti di quel codice, di farlo esattamente alle

stesse condizioni e aderendo al medesimo contratto 45. In questo

modo si evitano le conseguenze indesiderate legate al rilascio di

software in un regime di “pubblico dominio” (ossia senza la

tutela di alcun copyright), modalità comunemente adottata dalla

comunità degli sviluppatori ma che non impedisce che un

software così diffuso venga incluso in programmi proprietari,

limitandone così la disponibilità e spezzando “la catena del

lavoro e dell’uso cooperativo” (Berra e Meo 2001) 46.

3.3 Il sistema operativo GNU/Linux e gli sviluppi

del software libero

Nel 1991 Linus Torvalds, uno studente di Helsinki, pose le

basi per l’ultimo tassello necessario a completare l’ambizioso

progetto di Stallman. Nonostante l’enorme mole di programmi

realizzati in prima persona da Stallman e da molti altri

sviluppatori che si erano interessati al suo progetto, il sistema

GNU mancava ancora del kernel, il cuore del sistema operativo in

grado di coordinarne i diversi componenti. Con l’obiettivo di

dotare il suo personal computer delle funzionalità di

programmazione degli elaboratori di fascia alta, Torvalds

cominciò a scrivere il nucleo di un nuovo sistema operativo Unix-

like basato sul sistema GNU e sui suoi strumenti. Ma invece di

iniziare da zero, come avvenuto per la difficile realizzazione di

Hurd, il kernel del progetto GNU che stentava a decollare, prese

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Capitolo II 106

come modello e fonte d’ispirazione una versione didattica

minima di Unix realizzata da Andrew Tannenbaum, il Minix, che

veniva rilasciato sì insieme al codice sorgente, ma con una

licenza che limitava la libertà di ridistribuire le modifiche

realizzate. Il suo proposito, ispirato anche dalle elaborazioni di

Stallman e della FSF, era di realizzare un sistema che tutti

potessero utilizzare e modificare liberamente, anche perché

questo gli sembrava il modo migliore per garantire l’effettiva

buona riuscita del progetto.

Nell’agosto del 1991 Torvalds postò un messaggio sul

newsgroup Usenet dedicato al Minix in cui annunciava la sua

intenzione di creare “un sistema operativo libero”, descriveva i

primi progressi fatti e chiedeva consigli, impressioni e

suggerimenti 47. Un mese dopo, tramite un server FTP, mise una

prima versione del suo lavoro a disposizione di chiunque fosse

interessato ad utilizzarla e senza chiedere altra contropartita che

la collaborazione per migliorarla ed espanderla, ponendosi come

coordinatore e guida naturale di questo sforzo. Nel giro di alcuni

mesi i contributi si moltiplicarono e vennero alla luce le prime

versioni beta e circa due anni dopo, nel 1994, nacque la prima

versione stabile (1.0) del kernel Linux 48. Ciò che

un’organizzazione centralizzata e una leadership dispotica, come

in parte erano il progetto GNU e la guida di Stallman, non erano

riusciti a fare, era riuscito invece, quasi per caso, all’”anarchia

organizzata” e alla ridondanza decentralizzata della Rete e alla

“guida morbida” di Torvalds. Il progetto di Torvalds aveva però

un debito non solo ideale nei confronti del progetto GNU: per

motivi pratici infatti lo sviluppo di Linux aveva beneficiato di

molti strumenti, ma anche di porzioni di codice, provenienti da

quel progetto e rilasciati sotto la GNU GPL, di cui si ritrovò

quindi a dover rispettare i termini rilasciando a sua volta il

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Ecologia Digitale 107

codice sotto la medesima licenza. Il kernel Linux andò ad

integrarsi con il sistema GNU e diede vita ad un sistema

operativo completo liberamente distribuibile e modificabile, il

sistema operativo GNU/Linux 49.

Da allora, in maniera proporzionale allo sviluppo di Internet,

si è assistito ad un aumento esponenziale del numero di persone

coinvolte a diverso titolo nello sviluppo di GNU/Linux e di

software libero in generale, e ad un incremento della qualità

dello stesso sistema operativo e del volume e della qualità degli

applicativi disponibili. Il software libero e le relative applicazioni

hanno avuto origine nell’ambito delle comunità di sviluppatori e

ingegneri informatici, e in generale all’interno di ambienti

caratterizzati da un elevato livello di competenze informatiche

(hacker, utenti esperti, professionisti dell’informatica) e si è

rivolto quindi in un primo momento a soddisfare le esigenze e a

rispondere ai modelli di fruizione di questi gruppi. L’utilizzo di

interfacce a linea di comando, così come un orientamento

preponderante verso applicazioni e finalità di fascia alta, come

quelle relative alla programmazione, hanno a lungo costituito un

ostacolo alla diffusione del software libero (in particolare di

GNU/Linux) tra gli utenti comuni di computer. Nel frattempo il

numero di questi ultimi aumentava, nelle società ad economia

avanzata, grazie, oltre che alla progressiva discesa dei prezzi

dell’hardware, proprio alla facilità d’uso e all’attrattiva raggiunte

dal software proprietario 50.

Ma lo stesso aumento del numero, e quindi della varietà,

degli utenti di computer in aziende, uffici e abitazioni private, e

poi la diffusione e lo sviluppo di Internet e del Web a partire

dalla metà degli anni Novanta, hanno determinato, da un lato,

una diversificazione degli usi e delle applicazioni e un aumento

della domanda di software facili da usare, dall’altro una crescita

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Capitolo II 108

esponenziale delle possibilità di comunicazione e scambio di

informazioni e dati, ciò che ha a sua volta incrementato i volumi

di software libero sviluppato con le finalità più diverse e per

modelli di utenza differenti. Il software libero, beneficia inoltre

degli effetti di rete legati ad un bene immateriale liberamente

distribuibile, la cui diffusione, nel caso particolare, non fa che

moltiplicare le conoscenze disponibili e le possibilità di modifica

e di sviluppo di prodotti derivati. In effetti molti sviluppatori alle

prime armi e hobbysti della programmazione si sono giovati della

possibilità di vedere “come è fatto” un programma per trarne

codice da utilizzare o semplicemente insegnamenti gratuiti, in un

modo analogo a quello con cui i primi utenti del Web hanno

potuto imparare a programmare in HTML, semplicemente

studiando il codice sorgente delle pagine. La partecipazione al

mondo del software libero da parte di soggetti legati più al

consumo di massa dell’informatica e del Web che agli ambienti

professionali dell’informatica e dell’ingegneria, ha così

contribuito ad inscrivervi gradualmente le esigenze degli utenti

meno esperti, in termini di applicazioni, facilità d’uso e

piacevolezza delle interfacce.

Internet costituisce l’ambiente privilegiato per lo sviluppo di

software libero, come dimostrato fin dall’inizio dall’impresa di

Linux, e allo stesso tempo il suo risultato più notevole. L’utilizzo

della Rete come ambiente condiviso per lo sviluppo del software

costituisce un modello fortemente innovativo: decentramento,

organizzazione reticolare, cooperazione, “selezione naturale” tra

le diverse soluzioni, in definitiva quello che Eric Raymond

(1998a) in un noto saggio ha definito il modello Bazar, hanno

dimostrato la loro efficacia nel raggiungimento di qualità e

affidabilità persino superiori rispetto al modello Cattedrale,

adottato per lo più nello sviluppo di software proprietario. E

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Ecologia Digitale 109

d’altra parte senza il software libero Internet non esisterebbe o

per lo meno sarebbe molto diversa da come la conosciamo oggi.

La stessa architettura e i protocolli di base di Internet sono il

frutto dello sviluppo cooperativo e della libera condivisione del

codice sorgente: i protocolli TCP/IP, HTTP, FTP, I programmi e

protocolli per la gestione della posta elettronica, il linguaggio

HTML e le sue estensioni, il software per la gestione dei nomi di

dominio e la loro traduzione in un determinato indirizzo IP,

BIND, sono tutti software libero che permette buona parte del

funzionamento di Internet 51.

Al di là del sistema operativo GNU/Linux, certamente

l’esempio più noto nonché primo responsabile della diffusione

delle idee e delle pratiche del software libero, esiste oramai una

mole sconfinata di programmi, piattaforme e linguaggi non-

proprietari, in grado di girare su tutte o quasi le piattaforme

hardware e software e di coprire quasi l’intera gamma delle

applicazioni informatiche, dalle più comuni alle più complesse,

con performance (qualità, sicurezza, affidabilità, stabilità) in

molti casi migliori dei rispettivi omologhi proprietari, laddove

presenti 52. Le applicazioni più complesse (lato server,

automazione industriale, gestione di grandi databases …e

persino l’elaborazione grafica 3D di alcuni film di animazione di

successo), molte delle quali si affidavano fin dalle origini a

sistemi Unix, fanno oramai sempre più affidamento su sistemi

GNU/Linux e utilizzano in misura crescente strumenti basati su

software libero o open source 53. Permane il netto predominio di

Windows nel mercato dei sistemi operativi in ambito desktop

(stimato al 90%), intaccato solo da piccole quote in crescita

appannaggio della Apple – peraltro su un’architettura hardware

diversa e proprietaria, denominata PowerPC – e soprattutto dello

stesso GNU/Linux, la cui maturazione e moltiplicazione

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Capitolo II 110

sembrano nel frattempo far presagire una sua decisa erosione del

mercato.

L’attenzione riservata a “Linux” a partire dal 2001 nei mezzi

di comunicazione; le campagne di sensibilizzazione e di

advocacy svolte dai “gruppi di utenti Linux” (i LUG, ma anche gli

hacklabs in Italia e in altre parti del mondo), dalla Free Software

Foundation e da altre associazioni in tutto il mondo; la

moltiplicazione nel numero e nella varietà delle distribuzioni

nonché la crescita continua del numero di sviluppatori; una

crescente attenzione dimostrata dagli stessi sviluppatori e dagli

utenti nei confronti degli aspetti di usabilità 54; la sua progressiva

sostituzione ai sistemi Unix proprietari impiegati sui server

aziendali e Internet, sulle workstation e sui cluster in ambito

accademico e scientifico 55; l’interessamento di grandi compagnie

del mercato dell’informatica 56 e la promozione del software

libero da parte di alcuni governi locali e nazionali e di alcuni

organismi internazionali soprattutto in ambito ONU; infine, ma

non ultimo, la tendenziale gratuità del software libero, ulteriore

valore aggiunto alla sua qualità, soprattutto nei Paesi in via di

sviluppo: l’insieme di queste evoluzioni interrelate, unite alla

diffusione di applicazioni free sui computer equipaggiati con il

sistema operativo Windows, hanno spinto negli ultimi anni la

diffusione di GNU/Linux e del software libero oltre il

tradizionale ambito delle applicazioni server o degli utenti

esperti, verso i computer desktop e portatili dell’utenza comune.

L’attività di sviluppo del software si accompagna inoltre ad una

serie di attività accessorie ma fondamentali, che vanno dal

coordinamento degli sviluppatori, alla gestione e all’integrazione

delle varie porzioni di codice, fino alla localizzazione del

software 57 e alla produzione di un’enorme mole di guide, how-to,

commenti al codice. La produzione di documentazione

Page 130: tesi

Ecologia Digitale 111

rappresenta un enorme valore aggiunto del software libero, da un

lato perché consente di coinvolgere nella comunità anche i non

tecnici, impegnandoli ad esempio nella traduzione dei materiali

di supporto o in attività di primo supporto on line; dall’altro

perché costituisce uno strumento di diffusione e condivisione

delle conoscenze, indispensabile al lavoro cooperativo e

decentrato degli sviluppatori, ma anche al semplice utilizzo del

software. Internet rappresenta naturalmente l’infrastruttura

fondamentale per tutte queste attività accessorie, quella che

consente coordinamento e distribuzione delle informazioni in

tempo reale e a costi contenuti.

3.4 Gli aspetti commerciali del software libero e

open source

Il modello di sviluppo del software libero ha riguardato via

via sempre più applicazioni informatiche, dando luogo ad

un’amplissima gamma di prodotti e sistemi liberi in ambiti anche

molto diversi dalle classiche applicazioni del personal computing

(dall’automazione industriale alla telefonia su IP, fino

all’informatica embedded, incastonata in telefonini, palmari,

smartphone e nella miriade di dispositivi che includono

meccanismi di trattamento delle informazioni e di

comunicazione), la cui realizzazione si basa sulla cooperazione in

rete di sviluppatori sparsi in tutto il mondo e sulla disponibilità e

modificabilità del codice sorgente. Il suo contributo alla

creazione di ricchezza e all’innovazione tecnologica che ne

costituisce un fattore determinante, è indubbio. Secondo Castells

(2001) e Lovink (2003), il business nel campo delle ICT

dipenderà sempre più dalle capacità creative, economiche e

manageriali necessarie per implementare servizi e applicazioni

Page 131: tesi

Capitolo II 112

basate sull’assemblaggio di porzioni di codice e applicativi

disponibili in forma open source nel mare magnum della Rete.

Già a partire dalla metà degli anni Novanta, negli Stati Uniti

si è assistito alla nascita di società specializzate – come la Cignus

– nello sviluppo e nella personalizzazione di applicazioni basate

su software libero per aziende e organizzazioni e nelle relative

funzioni di assistenza e consulenza; attività che mostrano tra

l’altro come l’ambiguo termine inglese free, come sottolineato

più volte da Stallman, non si riferisca alla gratuità (“come in

free beer”) ma alla libertà (“come in free speech”) del software.

Alla fine degli anni Novanta altre società hanno cominciato a

realizzare “distribuzioni” del sistema operativo GNU/Linux, vale

a dire versioni del sistema operativo composte di pacchetti

precompilati e assemblati per uno specifico tipo di utenza,

scaricabili da Internet o distribuite su supporti ottici (CD e ora

DVD), gratuitamente o a pagamento, accompagnate in questo

ultimo caso da sistemi di supporto, assistenza e

customizzazione 58. Queste distribuzioni nel tempo si sono

arricchite di funzionalità, che ne facilitano l’uso da parte degli

utenti meno esperti (a partire dallo sviluppo di sistemi di

installazione semplificati e di ambienti grafici come KDE e

Gnome), e si sono differenziate per rispondere alle esigenze più

diverse (ad esempio con lo sviluppo di distribuzioni “Live”, che

non richiedono installazione su disco fisso ma girano nella

memoria temporanea – RAM – del computer).

Le potenzialità commerciali del software libero hanno

spinto, tra l’altro, nel 1998 alcuni esponenti della comunità a

individuare un termine che ne disinnescasse le ambiguità insite

nel termine free, ma soprattutto che depotenziasse la stessa

carica ideologica presente nel richiamo ai principi di libertà, così

cari al fondatore del movimento Stallman ma indigesti per il

Page 132: tesi

Ecologia Digitale 113

mondo degli affari. Bruce Perens, Eric Raymond, Christine

Peterson e altri coniarono quindi la definizione open-source

software – fissata nella Open Source Definition – e avviarono

una campagna allo scopo di promuovere i vantaggi pratici della

condivisione del codice, in termini di qualità, trasparenza,

adattabilità, sicurezza, conformità agli standard e indipendenza

dai fornitori, e al fine di coinvolgere nel progetto compagnie di

software e altre aziende high-tech mainstream (Williams 2002;

Di Bona et al. 1999) 59. Le divergenze fra il movimento open

source e quello del free software riguardano più gli aspetti

“politici” ed etici che quelli pratici, per quanto la definizione di

software open source sia più ampia di quella di free software e

alcune licenze ammesse dalla Open Source Initiative non siano

invece accettate dalla Free Software Foundation. Le controversie

intorno alle soluzioni migliori da adottare e ai principi cui fare

riferimento, sono proseguite quasi immutate fino ad oggi,

coinvolgendo via via diversi attori e intrecciandosi con le

periodiche campagne attuate dalla Microsoft e da altre

compagnie di software proprietario volte a dissuadere

dall’utilizzo di software libero o open source.

Le questioni sorte intorno al software non-proprietario 60, al

di là delle divergenze rispetto ad una diversa considerazione

degli aspetti etici e di quelli pratici, interrogano le possibilità di

creare ricchezza da un bene immateriale fondamentale negli

attuali processi economici, a partire dalla sua condivisione

piuttosto che dalla sua appropriazione. E in effetti intorno al

FLOSS 61 si è strutturata un’ampia gamma di attività commerciali

che hanno segnato la nascita di società ad hoc di diverse

dimensioni e attirato i tradizionali protagonisti dell’informatica.

In un complesso gioco di cooperazione e competizione, il

software libero ha costituito e costituisce, di volta in volta, un

Page 133: tesi

Capitolo II 114

bene distribuito gratuitamente su cui costruire servizi di

assistenza, manutenzione e personalizzazione, un perno su cui

far leva per contrastare o indebolire la concorrenza, uno

strumento per ridurre i costi e aumentare così produttività e

competitività, una risorsa da integrare con i rispettivi software

proprietari per mantenere un vantaggio competitivo (Berra e

Meo 2001). Per quanto il nuovo comparto industriale sorto

intorno al software libero abbia dato vita a nuovi modelli di

business – alcuni dei quali per altro non totalmente aderenti ai

suoi principi originari –, questi in realtà “coincidono con i

modelli adottati dalla grande maggioranza degli operatori del

settore del software, compresi quelli che non credono nel

software libero e utilizzano esclusivamente il software

proprietario”, i quali “lavorano su commessa, pagati

sostanzialmente dal cliente in funzione del tempo dedicato ad

ogni specifica attività”; solo una piccola minoranza, infatti,

“lavora per produrre software da vendersi su licenza […],

secondo il modello economico delle note multinazionali del

settore” (Berra e Meo 2001, pp. 202-203). E nel modello

economico di gran lunga prevalente, “l’adozione dei principi

dell’open source [è] una scelta obbligata” (ibid.), dettata dalla

natura collettiva della conoscenza incorporata nel software, e alla

lunga vincente. Le innovazioni fondamentali incarnate dal

software libero riguardano allora il suo modello di sviluppo

volontario, cooperativo e decentrato, la sua sfida agli assunti

della chiusura del software e dell’utilità, oltre che della bontà, di

un regime di forte tutela della proprietà intellettuale.

Page 134: tesi

Ecologia Digitale 115

3.5 Le implicazioni sociali ed economiche del

software libero

Il modello aperto di sviluppo e distribuzione del software

rappresenta un’alternativa alla razionalizzazione tecnocratica e

alla dinamiche di esclusione che essa genera. Il software libero

scardina i meccanismi di appropriazione della conoscenza

prodotta collettivamente messi in atto dagli attori economici

dominanti e restituisce i saperi alla loro dimensione pubblica.

Contrasta i meccanismi di restrizione all’accesso alle risorse

dell’informazione e della conoscenza, alla base delle

disuguaglianze sociali e economiche e delle dinamiche del potere,

reclamando la libertà delle informazioni. Indebolisce le pretese

della strumentalità economica mettendo in atto le forme di

un’economia solidale, fondata su relazioni di scambio gratuite e

sul bene pubblico dell’innovazione. Depotenzia il ruolo dei

grandi apparati della razionalizzazione e del comando, favorendo

lo sviluppo di attività economiche radicate sul territorio e nelle

sue relazioni sociali. Riduce l’opacità della tecnologia

consentendo di guardarvi dentro e di controllarne il

funzionamento. Si oppone alla spersonalizzazione costruendo

legami sociali, comunità e progetti a “misura d’uomo” e

ristabilendo una circolarità fra innovazioni tecnologiche, usi e

bisogni sociali. Combatte l’omologazione culturale e l’esclusione

sociale permettendo di adattare la tecnologia ad esigenze

specifiche e circoscritte. Contrasta le ipocrisie e la miopia del

trasferimento tecnologico aprendosi allo scambio reciproco di

esperienze, idee e competenze. Scioglie i lacci delle dipendenze

economiche liberando le risorse della cooperazione decentrata e

dell’interdipendenza. Limita i processi di delega agli esperti

Page 135: tesi

Capitolo II 116

ridistribuendo le competenze in maniera decentrata e

cooperativa.

Per questo ed altro, il software libero e la sua diffusione

rappresentano un fattore di democratizzazione dello sviluppo

tecnologico, in grado di redistribuire risorse e opportunità, non

solo fra gli individui, ma anche e in maniera più significativa fra

Paesi ed aree del globo. In questo senso esso può rappresentare

uno strumento cruciale per riequilibrare le disparità nella

distribuzione del potere e delle risorse di informazione e

conoscenza nel contesto dell’economia globale dell’informazione.

3.5.1 I benefici economici

In primo luogo la disponibilità di un sistema operativo e di

un’enorme quantità di software di qualità a costo zero

rappresenta un’alternativa ovvia al pagamento degli alti prezzi

delle licenze dei sistemi operativi e del software proprietario, in

particolare per le realtà (individui e organizzazioni) con scarse

disponibilità economiche e per i Paesi poveri o in via di sviluppo

– dove il costo totale per una licenza di Windows XP più una di

Office può arrivare fino a settanta volte lo stipendio medio

mensile (Ghosh 2003). La copia illegale di questi software è stato

in realtà il principale tramite della loro diffusione nelle società

avanzate, soprattutto fra gli utenti privati, e in quanto tale

tollerata, quando non direttamente favorita. La “pirateria” incide

in maniera considerevole sul mercato del software ed è un

fenomeno ampiamente diffuso anche e soprattutto nei Paesi in

via di sviluppo 62, fin dentro le aziende e persino nella pubblica

amministrazione (cosa molto più rara nei Paesi ricchi). Le

software houses chiudono un occhio, pronte ad approfittare nel

tempo delle dinamiche di dipendenza e “assuefazione” che si

instaurano per motivi psicologici e per ragioni più sostanziali

Page 136: tesi

Ecologia Digitale 117

legate alla proprietà dei formati utilizzati e alla

retrocompatibilità degli stessi e degli applicativi utilizzati 63.

Negli ultimi anni i controlli si sono periodicamente rafforzati

e allentati nei diversi Paesi, a seconda della congiuntura

economica e delle politiche adottate dai governi e dalle

istituzioni rispetto all’utilizzo del software libero. Gli accordi

stipulati nell’ambito dei TRIPS (Trade-Related Aspects of

Intellectual Property Rights), impongono ai Paesi aderenti di

attuare politiche efficaci di contrasto alla violazione dei “diritti

di proprietà intellettuale”; il WIPO e il WTO, gli organismi

internazionali che più o meno direttamente si occupano di

questioni annesse alla proprietà intellettuale, premono sui

governi affinché implementino tali politiche, in molti casi sotto

la minaccia più o meno esplicita di ritorsioni commerciali ed

economiche. L’adozione di software libero permette quindi ai

governi, in particolare a quelli dei Paesi in via di sviluppo, di

allentare la morsa di queste pressioni congiunte e di destinare

altrove le risorse impegnate nel contrasto alla pirateria.

Soprattutto in America Latina, l’inasprimento dei controlli e

delle sanzioni relative alla violazione del copyright sul software,

ha portato non tanto ad una diminuzione della pirateria, quanto

ad una maggior diffusione del software libero.

Se il risparmio associato al FLOSS è particolarmente

eclatante in paesi dove il costo delle licenze, rapportato al tenore

di vita e al costo del lavoro, risulta esorbitante, vantaggi

immediati si osservano anche in presenza di migliori condizioni

economiche. Tra i parametri utilizzati per valutare esistenza ed

entità di tali vantaggi, il più diffuso è il cosiddetto Total Cost of

Ownerswhip (TCO) 64, ovvero i costi totali associati al possesso,

alla gestione e al mantenimento di una tecnologia, solitamente

all’interno di un’organizzazione come un’azienda o

Page 137: tesi

Capitolo II 118

un’amministrazione pubblica. Sulla base di questo parametro

molte ricerche hanno confrontato i costi associati all’adozione

dei diversi sistemi operativi (in particolare Windows e

GNU/Linux), giungendo per altro a conclusioni discordanti.

Secondo alcuni di questi studi, in particolare, il costo delle

licenze influirebbe, nei Paesi ricchi, per una quota tra il 5 e il 10

% del costo totale, a fronte di una quota tra il 60 e l’85 %

rappresentata da “costi di gestione” (Ghosh 2003; Pucci 2003) 65.

Di conseguenza, soprattutto nella migrazione di un parco

macchine da Windows a Linux, il risparmio sui costi delle licenze

a favore di quest’ultimo sarebbe più che bilanciato dagli alti

costi, non solo monetari, relativi all’aggiornamento del

personale, all’installazione, alla manutenzione, all’assistenza e

all’integrazione delle procedure. E’ opinione diffusa, in effetti,

che il passaggio di un’organizzazione al sistema GNU/Linux

comporti nel breve periodo costi leggermente più alti rispetto

alla permanenza sui sistemi proprietari già adottati.

Ma altri studi presentano dati molto diversi e inducono a

conclusioni opposte. Un’indagine del 2004 di un istituto di

ricerca australiano, su un periodo di tre anni e un modello

aziendale di medie dimensioni, indica, dati alla mano, una

percentuale di incidenza dei costi di gestione (compresa la

formazione) e di quelli delle licenze del software proprietario,

rispettivamente del 39 e del 37 %. Il risparmio netto complessivo

derivante dall’adozione di una piattaforma open source è, a

seconda dei diversi scenari analizzati, compreso tra il 19 e il 36

%, (Cybersource 2004).

Al di là delle cifre elaborate dagli studi sul TCO, altre

valutazioni inducono ad affermare che l’adozione di software

libero in un’organizzazione (del settore privato o del settore

pubblico) comporti per questa una serie di vantaggi economici a

Page 138: tesi

Ecologia Digitale 119

medio-lungo termine. Mentre continua ad accumularsi il

risparmio annuo relativo alle licenze, infatti, la flessibilità e la

modularità del software libero determinano un prolungamento

del ciclo di vita delle macchine e inducono all’acquisizione di

hardware calibrato sulle specifiche esigenze e non

sovradimensionato per soddisfare quelle delle nuove versioni del

software proprietario. La disponibilità del codice sorgente di un

software (sistema operativo e applicativi) svincola inoltre

l’organizzazione dalla dipendenza da un singolo fornitore (di

software e poi dei servizi correlati), consentendo margini di

autonomia e di scelta più ampi in un mercato realmente

competitivo, e di conseguenza un’ulteriore riduzione dei costi

(UNCTAD 2003). La formazione del personale, processo

necessario all’efficace adozione di software libero, può essere poi

l’occasione per investire nello sviluppo di competenze interne

all’organizzazione, in grado di generare altro valore aggiunto e

ulteriori risparmi. A parità di spesa, è senz’altro preferibile che

essa venga indirizzata allo sviluppo di competenze, anche di

base, piuttosto che all’acquisto di licenze software. Anche la

minore esposizione dei sistemi aperti ai problemi della sicurezza

informatica, può tramutarsi in un risparmio sui costi di

manutenzione o di acquisto di complessi sistemi software di

protezione. Altri guadagni indiretti provengono poi dalla

possibilità di adattare in breve tempo un software alle proprie

esigenze, con conseguenti miglioramenti in termini di efficacia e

produttività, e dalla possibilità di stabilire rapporti di

collaborazioni con altre organizzazioni analoghe per condividere

le soluzioni intraprese.

In breve si può affermare che, se nel caso dell’adozione di

software proprietario le spese (soprattutto licenze, hardware e

assistenza) tendono a non generare ritorni per il settore

Page 139: tesi

Capitolo II 120

tecnologico dell’organizzazione e a dirigersi verso pochi attori in

un mercato fortemente concentrato, nel caso del software libero,

invece, le spese (soprattutto formazione e servizi di

personalizzazione e assistenza) da un lato rappresentano veri e

propri investimenti, in grado di generare nel medio-lungo

periodo risparmi considerevoli nei capitoli di bilancio relativi

all’IT e veri e propri ritorni in termini monetari e di conoscenza

diffusa; dall’altro si dirigono verso un mercato competitivo e

diversificato, a sua volta altro fattore di contenimento dei costi.

3.5.2 Il software libero, i governi e lo sviluppo locale

Applicandosi a qualsiasi organizzazione, le considerazioni

appena esposte riguardo ai vantaggi economici del software

libero riguardano naturalmente, seppur con caratteri specifici,

anche le amministrazioni pubbliche e gli organi dello Stato. In

questo contesto tali vantaggi assumono una rilevanza particolare,

si potrebbe dire “politica”, legata al ruolo di indirizzo e

regolazione che il settore pubblico riveste negli ambiti della vita

civile e, in misura diversa, di quella economica. Ad esempio se

una gestione oculata delle risorse è certamente fra i principi che

dovrebbero ispirare l’azione delle pubbliche amministrazioni in

quanto responsabile di fronte a cittadini-utenti, anche solo

considerazioni relative al contenimento dei costi imporrebbero al

loro interno l’adozione di software libero. Queste ed altre

valutazioni, relative soprattutto alla necessaria trasparenza

dell’azione amministrativa e alle opportunità di sviluppo legate

al software libero, hanno in effetti indotto molte istituzioni a

riconsiderare le proprie politiche sul software, che in molti casi,

soprattutto per quanto riguarda sistemi operativi e applicativi di

base, semplicemente non esistevano.

Page 140: tesi

Ecologia Digitale 121

Il ruolo delle tecnologie dell’informazione per la

partecipazione dei Paesi e dei rispettivi settori produttivi

all’economia globale, comporta che le decisioni adottate dai

governi in merito allo sviluppo delle tecnologie, alla definizione e

al rispetto degli standard, alla formazione, agli investimenti e

all’adozione delle ICT assumano un’importanza strategica. In

molti Paesi, del “Nord” e soprattutto del “Sud” del mondo, i

governi hanno cominciato sin dal 2000 a considerare il FLOSS

un fattore chiave del loro impegno strategico nel campo delle ICT

e hanno definito misure di diverso tipo volte a sondare,

incentivare e promuovere l’adozione di software libero da parte

delle pubbliche amministrazioni e di altri organi dello Stato e,

soprattutto nei PVS, anche da parte del settore privato (Wong

2003; UNCTAD 2003; Rajani 2003) 66.

Il ruolo dei governi e del settore pubblico in genere, è

certamente fondamentale per l’adozione e la diffusione dei

modelli della cooperazione e della condivisione nello sviluppo e

nella distribuzione del software. Le politiche pubbliche di

sostegno alla diffusione del software libero si sono rivelate

necessarie, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, da un lato per

contrastare l’inerzia legata al predominio globale di Microsoft

nel settore dei computer desktop e alla sua potenza commerciale

e di lobbying, dall’altra per fornire la spinta iniziale all’avvio di

un’industria dei servizi costruiti intorno al FLOSS. Le lusinghe e

le pressioni della Microsoft e della BSA (Business Software

Association, che raccoglie le major del software), d’altra parte,

sono mirate esattamente a dissuadere governi e parlamenti di

tutto il mondo dal sostenere l’adozione di software a codice

sorgente aperto nel settore pubblico; e in molti casi pressioni

politiche, sconti sulle licenze e donazioni di software o altro

hanno raggiunto il loro obiettivo. 67

Page 141: tesi

Capitolo II 122

Tra i governi all’avanguardia nel sostegno al software libero,

il Brasile ha tra l’altro previsto un graduale passaggio di tutto il

parco macchine delle agenzie governative a software libero e in

alcuni suoi stati la migrazione è già avvenuta in tutto o in parte.

In Cina, un Paese destinato, per ovvie ragioni, a ricoprire nei

prossimi anni un ruolo fondamentale nei mercati delle ICT, il

governo ha coinvolto il settore pubblico in un imponente

processo di migrazione e ha sostenuto alcune iniziative

commerciali legate al SO GNU/Linux. La Commissione Europea

ha avviato diversi programmi di indagine sull’adozione di

software libero e open source e standard aperti nelle pubbliche

amministrazioni, indicando alcune linee guida generiche per i

singoli Stati membri; tra questi i più attivi sono stati finora

Francia, Germania, Spagna, Finlandia, Svezia, Regno Unito.

In Italia (dove la spesa annuale per l’acquisto di licenze da

parte della PA ammontava nel 2003 a 274 milioni di euro), dopo

alcune proposte di legge al Senato e alla Camera e a seguito della

relazione della Commissione di indagine sul “software a codice

sorgente aperto nella Pubblica Amministrazione” del 2003

(“Commissione Meo”), sembra essere prevalso un orientamento

“pragmatico”, incentrato sul principio del “pluralismo

informatico” e della “migliore soluzione al minor costo”, tenuti

fermi gli impegni a garantire formati e standard il più possibile

aperti, favorire l’interoperabilità e promuovere il riuso e la

distribuzione del software realizzato ad hoc. In alcuni governi

locali (Toscana, Emilia Romagna, Lombardia, Pisa e Pescara)

sono stati approvati o sono in discussione provvedimenti che il

più delle volte invitano le pubbliche amministrazioni ad operare

sulla base di una generica preferenza nei confronti delle

soluzioni open source.

Page 142: tesi

Ecologia Digitale 123

Non sono solo le evidenti motivazioni economiche,

certamente più rilevanti per i Paesi in via di sviluppo e su cui

torneremo tra poco, a spingere i governi nazionali, regionali e

locali in direzione del FLOSS. In un ormai famoso scambio di

lettere con i dirigenti della Microsoft Perù, un membro del

congresso peruviano, Edgar Villanueva Nunez, tra i promotori di

un disegno di legge volto ad imporre a tutte le amministrazioni

pubbliche l’esclusivo utilizzo di FLOSS per le applicazioni in cui

ve ne fosse disponibilità, esponeva in modo assai efficace i

principali vantaggi del software a sorgente aperto per quanto

riguarda il rispetto dei principi democratici dell’azione

amministrativa (Weerawarana e Weeratunge 2004, p. 72). Da

questo punto di vista, infatti, l’uso di formati e standard aperti

garantisce il libero accesso alle informazioni pubbliche; anche il

requisito della permanenza dei dati pubblici è rispettato solo se

l’uso e la manutenzione del software non sono legati alla buona

volontà del fornitore o alle condizioni di monopolio da questo

imposte; la segretezza dei dati sensibili, la privacy dei cittadini e

la stessa sicurezza nazionale sono inoltre garantite solo dalla

trasparenza e dall’ispezionabilità del codice sorgente, che

consente di assicurarsi dell’assenza di elementi di codice che

permettono un controllo da remoto, come backdoors, spyware e

trojan horses o il recupero doloso di chiavi di cifratura e altri

dati di protezione 68. Villanueva precisava inoltre, in risposta alle

contestazioni della Microsoft, che imporre per legge determinati

requisiti del software non comporta alcuna discriminazione nei

confronti di nessuno, né alcuna forma di alterazione del mercato;

è del tutto legittimo, infatti, che un governo indichi delle linee

guida in un settore strategico e delicato come il trattamento delle

informazioni pubbliche; sta poi alla concorrenza che si sviluppa

proprio grazie all’adozione di software a codice sorgente aperto

Page 143: tesi

Capitolo II 124

stabilire le posizioni dei diversi soggetti sul mercato; chiunque,

anche la stessa Microsoft naturalmente, è libero di offrire le

proprie soluzioni software, a patto che queste rispettino i canoni

della libera accessibilità, modificabilità e redistribuilità del

codice sorgente (ibid.)

La necessità di standard aperti e pubblici per le applicazioni

e i dati che riguardano informazioni pubbliche è oramai

universalmente accettata, e applicazioni delicate come la

gestione di registri pubblici, sistemi fiscali e medici e, in

prospettiva, il voto elettronico devono o dovranno essere basate

su sistemi aperti 69. Le questioni della sicurezza non riguardano

solo eventuale codice malevolo, ma anche le falle dei sistemi

proprietari, più diffusi e quindi più vulnerabili agli attacchi di

virus, worm e altro cosiddetto malware attraverso la Rete. La

diversità e il sistema di debugging cooperativo che

caratterizzano il FLOSS lo mettono maggiormente al riparo da

tali vulnerabilità. Anche i principi della conservazione di dati

chiave e della responsabilità dell’azione amministrativa,

richiedono che vengano adottati formati e software aperti, per

evitare la dipendenza da un unico fornitore, che potrebbe non

supportare più i prodotti per motivi tecnici o finanziari,

costringendo così la struttura coinvolta a costosi aggiornamenti o

cambi di sistema. In generale l’indipendenza da un unico

fornitore è un principio guida per l’adozione di FLOSS da parte

delle pubbliche amministrazioni, per certi versi in misura più

rilevante di quanto non lo sia per il settore privato.

In un mercato del software dominato da 20 società, di cui

solo tre con sede fuori dagli Stati Uniti e di cui una, la Microsoft

sopravanza di gran lunga tutte le altre in termini di fatturato

derivante solo dalla vendita di licenze (UNCTAD 2003), il

software libero rappresenta per tutti gli altri gli altri Paesi, oltre

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Ecologia Digitale 125

che una fonte di risparmio sul costo delle licenze, l’opportunità

di sganciarsi dalla dipendenza economica e tecnica (lock-in) da

pochissimi fornitori – in molti casi con uno solo preponderante –

che drena risorse, spesso attraverso relazioni a lungo termine e

finanziariamente svantaggiose, e mortifica le possibilità di uno

sviluppo endogeno in un settore fondamentale dell’IT come

quello del software, fondato su competenze, risorse, bisogni,

sensibilità e ricchezze scaturite e prodotte in loco.

Invece di fare affidamento sull’importazione di licenze, che

vanno ad incidere negativamente sulla bilancia commerciale e sul

sistema economico in generale, le spese, più orientate ai servizi,

del modello open source rimangono solitamente all’interno dello

stesso Paese, producendo positivi effetti a cascata su

occupazione, investimenti, entrate fiscali, ma anche sulle

competenze disponibili e sul livello complessivo della cultura

tecno-informatica; nell’insieme queste ricadute si rafforzano a

vicenda e pongono le basi per l’ulteriore sviluppo di un’industria

locale del software (Wong 2003; UNCTAD 2003). Per questo

moltissimi Paesi in via di sviluppo – e quelli a rischio di

“sottosviluppo tecnologico”, come l’Italia – guardano – o

dovrebbero guardare – al software libero come ad un possibile

strumento di riscatto da una condizione di minorità economica e

tecnologica rispetto agli Stati Uniti e ai pochi giganti economici

del settore, che a sua volta permetta di contrastare l’esclusione

digitale ad un livello più alto, relativo non solo alla diffusione

delle ICT ma anche ad una partecipazione attiva alla costruzione

– e all’innovazione – di suoi “pezzi” importanti. E in effetti la

sfida tra software proprietario e libero nei Paesi in via di

sviluppo è appena all’inizio. L’adozione del FLOSS nell’ambito

del settore pubblico, accompagnata da adeguate politiche di

formazione e riassestamento organizzativo, può fare da volano,

Page 145: tesi

Capitolo II 126

da un lato ad una sua diffusione tra gli utenti comuni e nel

settore privato, dall’altro, e anche grazie a questa diffusione, allo

sviluppo di una domanda interna di servizi relativi all’assistenza,

alla manutenzione, alla personalizzazione di software in grado a

sua volta di sviluppare un’industria locale del software.

3.5.3 Modelli sociali e motivazioni nello sviluppo di software libero

Oltre ai motivi di opportunità, che consigliano le pubbliche

amministrazioni ad adottare sistemi open source per ragioni di

contenimento dei costi e aderenza ai principi di sicurezza,

trasparenza e affidabilità delle informazioni pubbliche, la

migrazione al software libero è anche in grado, come abbiamo

visto, di generare effetti positivi sullo sviluppo di un industria

locale di servizi software. La diffusione di tecnologie affidabili a

costi contenuti e lo sviluppo di un industria locale nel settore

delle ICT rappresentano già un contributo notevole del software

libero all’inclusione digitale e alla costruzione di “società

dell’informazione” democratiche, plurali ed economicamente

sostenibili.

Gli aspetti “economici” non esauriscono, d’altronde, né le

questioni connesse allo sviluppo di società dell’informazione

realmente inclusive e plurali, né tanto meno il ruolo che il

software libero può giocare in questa costruzione. In questo

senso assumono, infatti, particolare rilevanza i valori della

reciprocità e della cooperazione incorporati nel software libero e

la natura partecipata del suo sviluppo. Da questo punto di vista,

il contributo del software libero all’inclusione sociale nella

società dell’informazione, deriva dall’opportunità che esso offre

di ripensare i modelli dello sviluppo tecnologico ed economico e

opporre un’alternativa alle dinamiche di razionalizzazione ed

Page 146: tesi

Ecologia Digitale 127

esclusione in essi inscritti. L’alternativa incarnata dal software

libero promuove, infatti, la riappropriazione collettiva delle

conoscenze, l’adeguamento delle tecnologie per rispondere a

diversi modelli sociali e di utilizzo, la distribuzione del potere di

controllo su di esse e sulle loro applicazioni, la ricostruzione di

quei legami “deboli” che arricchiscono il capitale sociale delle

comunità, la creazione stessa di comunità, decentrate o

localizzate, fortemente motivate al raggiungimento di uno scopo

e fondate sulla valorizzazione della diversità e dei principi della

cooperazione e della condivisione.

Le molte e diverse esperienze di produzione, diffusione e

utilizzo di software libero, affondano le proprie radici in due

modelli sociali complementari e intrecciati: da un lato una

“moderna” etica hacker che ricerca l’eccellenza tecnologica

attraverso l’apertura, la collaborazione, il gioco ed il conflitto;

dall’altro un’arcaica cultura del dono che radica l’atto dello

scambio in un modello di regolazione sociale improntato alla

reciprocità, esaltando i valori della cooperazione e della

solidarietà (Berra e Meo 2001). Le ambivalenze dei due modelli

– la contraddizione fra “fiducia tecnocratica nel progresso” e

spirito libertario; quella fra libertà e gratuita del dono, da una

parte, e intereresse e obbligazione a donare, dall’altra (ibid.) – e

la loro stessa, per alcuni versi paradossale, relazione, richiamano

l’ambivalenza costitutiva della tecnologia e inscrivono a pieno

titolo il software libero nell’ambito della “razionalizzazione

democratica”.

Le modalità di produzione e diffusione del software libero

presenterebbero, secondo alcuni studiosi, significative analogie

con lo scambio antico di doni studiato dagli antropologi, ossia

con quel modello di regolazione sociale caratteristico delle

società tradizionali arcaiche e precedente alle forme del

Page 147: tesi

Capitolo II 128

contratto e dello scambio mercantile (Berra e Meo 2001). In

questo modello l’atto dello scambio è segnato da finalità non

puramente utilitaristiche e radicato in un sistema di relazioni

sociali che regolano il “ciclo perenne del dono” sulla base

dell’elargizione di gratificazioni e sanzioni collettive. Nell’atto

del dono si riconosce tanto una obbligazione al dono quanto un

interesse a donare; ad esso non si associa quindi un’idea di

gratuità, ma piuttosto quella di un diverso modello di scambio,

fondato su una “reciprocità differita” che, a partire da un

effettivo atto iniziale di liberalità, innesca una spinta alla

cooperazione come modo migliore di perseguire allo stesso

tempo interessi individuali e collettivi. Il ciclo del dono,

coinvolgendo non un singolo rapporto fra individui ma le

relazioni dell’intera comunità, diventa in questo modo

espressione e strumento di coesione del legame sociale.

La prospettiva da cui comprendere al meglio i meccanismi

sociali di regolazione che modellano il processo di produzione e

diffusione del software libero sarebbe proprio quella di una

“cultura del dono”, adattata ad una risorsa potenzialmente

diffusa e abbondante come la conoscenza, la cui circolazione non

ne determina un deterioramento, ma anzi un incremento della

quantità e della qualità delle sue applicazioni (Raymond 1998b;

Berra e Meo 2001; Gorz 2003). Questi meccanismi spingono in

effetti i partecipanti al processo a “restituire”, migliorandolo, ciò

che ricevono dagli altri, sulla base di un obbligo non formale ma

morale, derivante dall’appartenenza ad una medesima

“comunità” e dall’adesione ad un insieme di norme e valori

condivisi, che pone al riparo dalla diffusione di comportamenti

di free riding. I vantaggi collettivi derivanti dalla circolazione

della conoscenza motivano gli sviluppatori a cedere parte del

controllo sul prodotto dei propri sforzi per il conseguimento di

Page 148: tesi

Ecologia Digitale 129

un risultato che arricchisce allo stesso tempo tutti e ciascuno e in

cui il perseguimento dell’interesse individuale viene a dipendere

dalla partecipazione all’interesse generale. Si innescano quindi

modelli di cooperazione fondati su relazioni di reciprocità, che

generano un aumento complessivo della ricchezza sociale

prodotta, in termini di valore d’uso piuttosto che di valore di

scambio.

In questi meccanismi si osservano quindi le stesse

ambivalenze presenti nel ciclo del dono: spontaneità e

obbligazione, gratuità e interesse. Questa ambivalenza è

rispecchiata, d’altronde, nel diverso peso assegnato dalle

differenti interpretazioni del software libero agli aspetti

utilitaristici o a quelli socializzanti che ne guidano i processi di

produzione e distribuzione. Raymond (1999), ad esempio, opta

decisamente per i primi quando, nel tentativo di comprendere

come i meccanismi di un’economia del dono si integrino nei

processi di un’economia di scambio mercantile e si confrontino

ai suoi vincoli, pone l’accento su una maggiore efficienza ed

efficacia del modello di sviluppo del software open source

rispetto al software proprietario e sui diversi modelli di business

a cui esso da luogo. Tra le motivazioni che spingono le persone a

partecipare allo sviluppo collaborativo del software libero,

inoltre, alcuni studi, riportati in Berra e Meo (2001) e in

UNCTAD (2003), sottolineano in particolare l’importanza di

quelle concernenti i cosiddetti “incentivi di segnalazione”, cioè i

benefici futuri che le persone si aspettano di ottenere dal loro

coinvolgimento in una determinata attività; questi consistono

principalmente in “incentivi di carriera”, ossia nella prospettiva

di un miglioramento della propria condizione professionale e

quindi economica, e nella “gratificazione personale” derivante

dal riconoscimento pubblico del valore del proprio lavoro. Questi

Page 149: tesi

Capitolo II 130

“benefici posticipati” aumentano al crescere della visibilità e

della riconoscibilità dei contributi individuali al prodotto finale,

esattamente ciò che il software libero garantisce in misura

decisamente maggiore rispetto al software proprietario. Il fatto

che questi benefici crescano all’aumentare della rilevanza del

progetto, inoltre, costituisce per i programmatori un ulteriore

incentivo a cooperare con gli altri per raggiungere risultati

migliori.

Nei dati presentati da Ghosh e Glott (2002), autori della già

citata ricerca “FLOSS”, tra le motivazioni che spingono i

programmatori a sviluppare software libero, quelle riconducibili

ai cosiddetti “incentivi di segnalazione”, in particolare

guadagnare una reputazione nella comunità del FLOSS e

soprattutto aumentare le proprie opportunità di lavoro, sono

menzionate rispettivamente da circa il 25 % e da circa il 10 % del

campione. I valori più alti si registrano invece per le risposte che

fanno riferimento all’acquisizione (75 %) e alla condivisione (60

%) di conoscenze e capacità; le altre motivazioni più menzionate,

da circa il 30 % del campione, riguardano la possibilità di

migliorare prodotti già realizzati, il desiderio di partecipare a

nuove forme di cooperazione e alla comunità stessa, la

convinzione che il software non debba essere un prodotto

proprietario. Interrogati sullo scopo complessivo da loro

assegnato alla comunità del FLOSS, gli sviluppatori indicano

soprattutto una maggiore libertà nello sviluppo del software (64

%), lo scambio di conoscenze (57 %), una maggiore varietà del

software (40 %), l’innovazione (37 %) e, meno citato, il puro

divertimento (20 %).

Questi dati sembrano mostrare quindi un maggior peso degli

aspetti socializzanti dello sviluppo di software libero. Alcuni

autori, come Gorz (2003) o il fondatore-ideologo del gruppo

Page 150: tesi

Ecologia Digitale 131

tedesco Oekenux Stefan Merten (Lovink 2004), imputano

addirittura al software libero, soprattutto in quanto espressione

della cultura hacker, la valenza di apripista di un’economia post-

capitalista fondata sulla gratuità, in cui lo sviluppo personale, la

produzione di se, la cooperazione volontaria e la condivisione

acquisiscono la natura di valori in se, “ricchezze intrinseche”

sottratte ai criteri produttivistici, di scambio e misurazione

monetaria. Nella ricognizione di Himanem (2001), alla base

dell’etica hacker non vi sono in effetti il denaro o il lavoro, ma la

passione e il desiderio di creare insieme ad altri qualcosa di

socialmente valorizzante, cioè che valga la stima dei pari. La

produzione e la distribuzione di software libero e le motivazioni

che la inspirano affondano realmente le proprie radici in un

modello etico ed economico alternativo alla privatizzazione delle

conoscenza e allo scambio mercantile. In questo modello, persino

l’utilitarismo implicito in un’economia del dono e i meccanismi

della reciprocità risultano inadeguati a cogliere le idee e le

pratiche alla base della messa a disposizione di enormi quantità

di software gratuito, oltre che libero, per cui ognuno contribuisce

al “bene comune” secondo ciò che può e prende ciò di cui ha

bisogno. D’altra parte l’osservazione della realtà economica

costruita intorno al software libero e open source e le prospettive

di un approfondimento del suo sfruttamento commerciale,

autorizzano solo fino ad un certo punto ad interpretare questi

modelli di condivisione come l’avvento su larga scala di un

predominio delle “ricchezze intrinseche”, ossia della ricchezza

“una volta cancellata la limitata forma borghese” – come nella

nota formula di Marx riportata da Gorz (2003).

Page 151: tesi

Capitolo II 132

3.5.4 Tecnologia, software libero, inclusione sociale

Al di là di analogie più o meno appropriate e di scenari più o

meno plausibili, i valori di condivisione, cooperazione,

decentramento, reciprocità, apertura e trasparenza incorporati

nel software libero attraverso i suoi modelli di produzione e

diffusione, ne determinano caratteristiche tecniche e

implicazioni “sociali”. Seguendo Berra e Meo (2001; pp. 168-174)

le caratteristiche del software libero si possono così riassumere:

a) funzionalità e basso costo; b) flessibilità e adattabilità; c)

interattività fra produttore e utente; d) contestualità e

accessibilità. Queste caratteristiche rendono il software libero

più adatto del software proprietario a sostenere l’innovazione,

nella sua accezione insieme tecnologica e sociale, e soprattutto a

supportare un efficace dispiegamento delle nuove tecnologie a

sostegno dell’inclusione sociale. Vediamo con alcuni esempi

come queste caratteristiche si prestino a favorire una diffusione

equilibrata ed economicamente e culturalmente sostenibile dello

sviluppo tecnologico.

Il “consumo critico” della tecnologia e il trashware

Il primo ambito preso qui in esame riguarda la relazione fra

l’hardware e il software e chiama in causa allo stesso tempo gli

aspetti economici, ambientali e sociali della sostenibilità dello

sviluppo tecnologico. I componenti e le periferiche dei computer

(ma in generale tutti i dispositivi elettronici) contengono, infatti,

materiali e sostanze altamente inquinanti, il cui corretto

smaltimento risulta ancora costoso e laborioso; gli stessi processi

produttivi di queste tecnologie richiedono inoltre l’impiego di

ingenti quantità di energia e risorse scarse come l’acqua, e

producono a loro volta ulteriori emissioni inquinanti. L’aumento

dei dispositivi elettronici e dei computer circolanti rischia negli

Page 152: tesi

Ecologia Digitale 133

anni a venire di incidere pesantemente sui già precari equilibri

ambientali, generando costi, non solo economici, che andranno a

ricadere con tutta probabilità sulle fasce più deboli della

popolazione mondiale. Già nel 2004 il numero di computer

dismessi ha superato a livello mondiale quello di computer nuovi

immessi sul mercato, tanto che sono in via di definizione in

diversi organismi internazionali e nazionali normative sulle

modalità di smaltimento dei rifiuti elettronici (RAEE), che

prevedono tra l’altro oneri e obblighi sia per le case produttrici

sia per chi dismette questo tipo di materiali.

Due meccanismi correlati sono all’origine del consumo

smodato di tecnologie informatiche: in primo luogo ciò può

essere ascritto ai più ampi fenomeni legati al “consumismo”, che

negli ultimi venti anni hanno riguardato progressivamente, nei

Paesi più industrializzati, la cosiddetta “elettronica di consumo”,

i computer e più di recente le console da videogiochi e i

dispositivi portatili di comunicazione; in secondo luogo il

monopolio della Microsoft nei mercati dei sistemi operativi e

degli “applicativi da ufficio” e l’elevata concentrazione del

mercato dei microprocessori, hanno innescato una dinamica di

rincorsa reciproca fra l’aumento delle prestazioni dei chip,

fondato sulla famosa legge di Moore, e l’incremento della

potenza dei software: una rincorsa che abbrevia artificialmente il

periodo di obsolescenza delle tecnologie e esaspera i ritmi di

aggiornamento e ricambio dei dispositivi tecnologici da parte di

singoli e organizzazioni.

La natura monolitica e la chiusura del software proprietario

generano inoltre il frequente sovradimensionamento delle risorse

di calcolo rispetto alle reali e diversificate esigenze degli utenti,

dettato spesso proprio dalla necessità di supportare elaborate

piattaforme software le cui funzionalità vengono poi utilizzate in

Page 153: tesi

Capitolo II 134

effetti solo per una piccola percentuale. Un caso emblematico è

rappresentato dalle postazioni dedicate a semplici operazioni di

back o front-office negli uffici pubblici, ma equipaggiate con

periferiche e componenti di ultima generazione e funzionalità

multimediali del tutto superflue per gli scopi a cui sono

destinate. La logica del “tutto o niente” che guida l’adozione di

software proprietario, obbliga quindi le organizzazioni a costosi e

inutili investimenti in hardware, che generano ricadute negative

sui bilanci e uno spreco complessivo di risorse per la società in

generale.

Al contrario le caratteristiche di flessibilità e modularità

proprie del software libero, in particolare del sistema operativo

GNU/Linux, lo rendono invece adattabile alle diverse

configurazioni hardware e soprattutto alle differenti disponibilità

di risorse di calcolo, ristabilendo così dei rapporti equilibrati fra

consumo e uso della tecnologia. Si può parlare in questo senso di

una generica attitudine ad un “consumo critico” delle tecnologie

informatiche: l’adozione di un sistema operativo libero e

modulare come GNU/Linux permette, ai singoli così come alle

organizzazioni, di ottimizzare le risorse hardware tarandole sulle

specifiche esigenze e finalità d’uso e non sulle richieste imposte

dal software, soddisfacendo così elementari criteri di risparmio e

di congruenza fra mezzi e fini ed evitando una rincorsa

all’upgrade imposta dal mercato. A ciò fa da corollario la

possibilità di riutilizzare hardware non più adatto a svolgere

determinate funzioni destinandolo ad altri impieghi che

richiedono una minore quantità di risorse di calcolo o potenza,

all’interno della stessa struttura e da parte dello stesso

individuo, o attraverso un “mercato” dei computer e dei

componenti di seconda mano.

Page 154: tesi

Ecologia Digitale 135

Negli ultimi anni, anche sulla scorta delle già accennate

politiche in materia, che configurano per le diverse

organizzazioni una certa convenienza a donare l’hardware

dimesso, si sono sviluppate a livello mondiale diverse iniziative

indirizzate al recupero e alla redistribuzione di computer

dismessi, portate avanti da strutture apposite o da organismi

impegnati sul fronte della solidarietà, del sostegno alle comunità

e della cooperazione internazionale allo sviluppo. L’attività di

recupero include nella maggior parte dei casi una precedente

verifica dei singoli componenti e il loro riassemblaggio, con una

conseguente perdita dei diritti di licenza sul software

(proprietario) precedentemente installato. Per questo, ma anche

per le minori risorse di calcolo disponibili, in molti casi il

software libero rappresenta l’unica possibilità per far rivivere

queste macchine, a meno di non riacquisire ex novo le licenze; in

tutti gli altri casi è comunque la scelta migliore per ottimizzarne

il riuso. In Italia il Gruppo Operativo Linux Empoli (GOLEM

2004), attivo già da alcuni anni su questo fronte, ha coniato il

termine trashware, che si riferisce appunto sia al prodotto sia

all’attività del recupero funzionale e del riutilizzo di hardware

dismesso per scopi di utilità sociale”, che vanno

dall’informatizzazione di una realtà associativa,

all’equipaggiamento di un media center, fino ai progetti per la

diffusione delle ICT nei Paesi in via di sviluppo (GOLEM 2004).

In molti progetti di diffusione delle tecnologie informatiche in

Paesi in via di sviluppo, soprattutto in quelli portati avanti da

organizzazioni di base, in effetti, l’utilizzo di trashware

equipaggiato con software libero costituisce una scelta

funzionale e a basso costo e in alcuni casi obbligata dalle scarse

disponibilità economiche degli attori coinvolti 70

Page 155: tesi

Capitolo II 136

Le attività di promozione e inclusione sociale, attuate a

livello locale così come a livello internazionale, rappresentano

senza dubbio l’ambito di applicazione più rilevante del

trashware. Esso consente infatti ad amministrazioni pubbliche,

organizzazioni non profit e organismi internazionali, di

sviluppare politiche, programmi e progetti a basso costo volti a

diffondere le nuove tecnologie senza contribuire al consumismo

tecnologico; questa diffusione avviene quindi in una forma che

può indurre i destinatari dei progetti a fruire delle nuove

tecnologie con una consapevolezza maggiore di alcuni aspetti

critici del loro sviluppo. Il coinvolgimento dei soggetti nella

stessa attività del trashware può inoltre costituire un modo per

far loro aprire (letteralmente) la “scatola nera” della tecnologia,

e favorire così la diffusione di una maggiore consapevolezza

rispetto ai suoi limiti e alle sue potenzialità.

In tutti i casi di utilizzo del trashware si pone d’altra parte

la necessità di affrontare le questioni relative alla manutenzione

delle macchine e soprattutto al successivo smaltimento delle

stesse. Una delle critiche più frequenti all’utilizzo di hardware

dismesso nei progetti di cooperazione internazionale, infatti, è il

pericolo che i Paesi in via di sviluppo finiscano per diventare le

“discariche informatiche” dei Paesi ricchi. E’ necessario allora

che le attività di trashware finalizzate alla diffusione delle nuove

tecnologie si integrino in una complessiva “razionalizzazione” del

consumo globale di tecnologia, che, anche grazie all’adozione su

larga scala del software libero, inneschi un circolo virtuoso di

“decrescita” in cui si osservino aumento del ciclo di vita dei

prodotti, diminuzione della domanda e riduzione dell’offerta e

del volume di emissioni e rifiuti prodotti.

Page 156: tesi

Ecologia Digitale 137

La localizzazione del software

Come già detto il software libero consente potenzialmente a

chiunque, di intervenire sul codice sorgente – direttamente o

delegando ad altri la concreta realizzazione delle modifiche e dei

miglioramenti – per adattare i programmi alle proprie specifiche

esigenze. Una delle applicazioni in cui questa possibilità si rivela

fondamentale è la localizzazione (indicata anche con la sigla

L10n) del software: con questa espressione si intende sia la

disponibilità di comandi e interfacce in una determinata lingua

sia la necessaria attività di traduzione. Per le grandi compagnie

commerciali, molti gruppi linguistici non raggiungono

dimensioni o livelli di reddito tali da giustificare i costi di una

localizzazione. Ma uno degli ostacoli principali alla diffusione

degli strumenti informatici, in particolare nei Paesi più poveri, è

proprio la necessità di imparare un’altra lingua, considerando

che ciò si rende necessario non per comunicare con altre

persone, il che sarebbe comprensibile, ma per impartire comandi

ad una macchina. Il software libero, al contrario, consente a

chiunque di intervenire sul codice ed effettuare la localizzazione,

che in questo caso potrà riguardare anche lo stesso codice

sorgente; in questo modo anche un piccolo gruppo di persone

motivate basta a rendere disponibile un certo software in una

determinata lingua. La localizzazione di un intero sistema

operativo, comprensivo di kernel e applicativi vari, o di una suite

di programmi, richiede naturalmente un maggiore impegno di

risorse: progetti simili per un gran numero di lingue più o meno

diffuse, si sono sviluppati all’interno delle comunità di utenti e

sviluppatori di software libero, sfruttando tra l’altro le

opportunità di comunicazione e condivisione offerte dalla Rete.

Un esempio significativo è rappresentato dalla localizzazione in

Swahili del SO GNU/Linux e del pacchetto di programmi

Page 157: tesi

Capitolo II 138

OpenOffice, un progetto che coinvolge, oltre al lavoro di alcune

decine di volontari, l’università della Tanzania e una società

svedese di consulenza 71.

Educazione e formazione

L’apertura e la trasparenza del software libero si prestano

inoltre a favorire i processi di apprendimento e di distribuzione

delle competenze; L’utilizzo del software libero nei settori

dell’educazione e della formazione permette di fruire di

strumenti personalizzabili di supporto alle tradizionali

discipline; consente, inoltre, di formare all’utilizzo degli

strumenti informatici in maniera generalista e non legata ad una

particolare piattaforma software; favorisce infine un graduale

avvicinamento alla programmazione del software, prima di tutto

per comprenderne i meccanismi generali e poi, eventualmente,

per provare a cimentarsi con essa. Le nostre società sono sempre

più intrise di software, necessario a far funzionare non solo i

computer, ma tutti i dispositivi elettronici incastonati in un gran

numero di oggetti della nostra vita quotidiana: comprenderne i

meccanismi generali e, perché no, apprenderne metodi e

tecniche, non solo rappresenta l’acquisizione di un bagaglio di

conoscenze eventualmente spendibili nel mercato del lavoro, ma

anche, come nel caso del trashware un percorso di

avvicinamento alle “macchine” che disperda l’alone di mistero

che le circonda e che ne riponga il controllo nelle nostre mani.

Software libero e comunità

Infine le comunità, allo stesso tempo globali e locali, di

utenti e sviluppatori di software libero costituiscono una

preziosa risorsa di arricchimento del capitale sociale disponibile

in un determinato contesto e di supporto ai progetti volti a

diffondere tecnologie e competenze relative alle risorse di

informazione e alla comunicazione. Queste comunità decentrate,

Page 158: tesi

Ecologia Digitale 139

formate ai valori della cooperazione e della solidarietà nello

sviluppo collaborativo e nello scambio di strumenti software, da

un lato si pongono come fonti delocalizzate per la costruzione e

l’adattamento di applicazioni specifiche e per attività di

supporto, formazione e assistenza tecnica a distanza, laddove sia

disponibile una connessione ad Internet. Dall’altro costituiscono

in loco risorse di supporto per i progetti di sviluppo, in grado di

svolgere un ruolo di relais fra le tecnologie e i bisogni delle

comunità coinvolte, facilitare la sostenibilità e la continuità dei

progetti, fornire assistenza tecnica e favorire processi di

apprendimento e in seguito di sviluppo autonomo delle

competenze.

Arricchendo il learning by using, tipico di una ricezione

periferica della tecnologia, con un modello diffuso di learning by

doing, appannaggio invece finora di pochi centri di produzione e

innovazione (Castells 1996; Berra e Meo 2001), il software libero

favorisce la partecipazione diffusa e dal basso ai processi di

progettazione tecnologica. Esso quindi “offre una reale occasione

per ripensare la tecnologia come organizzazione sociale” (Berra e

Meo 2001; p. 175). Consente, infatti, di ristabilire un rapporto

circolare fra innovazione e usi dell’innovazione e fra tecnologia e

ambiente sociale, fondamentale affinché le nuove tecnologie

possano avvicinarsi alle persone (e non il contrario) ed essere

orientate a soddisfare bisogni individuali e collettivi situati e

differenziati. “In questa interazione la tecnologia attenua le sue

caratteristiche di autonomia e di ingovernabilità e si adatta alle

esigenze della società, e il sistema sociale nella sua eterogeneità

oppone meno resistenze alla penetrazione delle tecnologie, ma

può più facilmente attivare capacità positive di intervento e di

adeguamento delle tecnologie alle sue esigenze” (ibid.).

Page 159: tesi

Capitolo II 140

L’insieme costituito dai modelli produttivi ed economici del

software libero e dai valori sociali in esso incorporati si

costituisce allora con i caratteri di una razionalizzazione

democratica (Feenberg 1999; vedi par. 1.4), e in particolare come

un esempio di “progettazione partecipata” e allo stesso tempo

come la condizione necessaria per innescare processi di

”appropriazione creativa” e situata delle tecnologie

dell’informazione e della comunicazione. Ma i modelli di

comunicazione sociale legati al software libero sembrano aprire

la prospettiva di un’”appropriazione creativa” non solo della

tecnologia ma dell’intero sistema economico. I principi della

cooperazione e dello scambio “sociale” informano in effetti le

applicazioni più innovative negli ambiti della comunicazione

mediata dal computer, comprese le forme dello sviluppo

cooperativo di software in rete. Invertendo l’ordine di priorità fra

monopolio delle conoscenze e loro natura pubblica, il software

libero mette in discussione non solo i presupposti del software

proprietario, ma le pretese di proprietà su molte altre risorse

immateriali, indicando al contrario la direzione di una

appropriazione collettiva delle conoscenze come modello efficace

per garantirne un pieno dispiegamento, che contribuisca alla

ricchezza sociale e non solo a quella economica. L’ecologia del

software libero indica un modello di sviluppo sociale ed

economico locale e sostenibile, immerso nelle relazioni sociali

del territorio e intrecciato alle comunità globali di sviluppatori e

utenti, in grado di contrastare i modelli della dipendenza

economica e tecnologica. Il software libero costituisce quindi un

punto di partenza per affrontare in tutta la loro ampiezza le

dinamiche di esclusione nella società in rete e progettare

interventi che spostino l’accento dal trasferimento tecnologico

Page 160: tesi

Ecologia Digitale 141

all’appropriazione delle tecnologie, dall’accesso alla

partecipazione alla società dell’informazione.

Page 161: tesi

Capitolo II 142

Note

27 Si può leggere, per altro, l'esplosione di socialità che caratterizzò

molti dei movimenti di contestazione degli anni Sessanta in tutto il mondo

attraverso la lente della ribellione al predominio della razionalità e

dell'agire strumentale sulla società. Un'"apparatizzazione" contestata tanto

alla società borghese dominata dai principi fordisti e dalle "leggi" del

mercato, quanto alle burocrazie dei partiti socialdemocratici e comunisti

che in qualche modo avevano finito per riprodurne le logiche (Revelli

2001). Parallelamente, si può riscontrare con altri (Formenti 2002; Castells

1996; Carlini 2002; Berardi 2004) il legame costitutivo che sussiste tra i

movimenti antiautoritari e libertari degli anni Sessanta e Settanta e il

successivo sviluppo dell'ideologia liberista, che ne ha a suo modo raccolto i

frutti in termini di trasformazioni sociali e culturali. E ancora, a segnare

forse un passaggio intermedio, quasi un relais fra i due momenti storici

appena enunciati, si può sottolineare, come fanno in molti, il "rapporto tra

rivolta (culturale) e rivoluzione (tecnologica)" (Revelli 2001): ossia il ruolo

giocato dalle controculture americane nello sviluppo delle moderne

tecnologie dell'informazione e della comunicazione, legato proprio, nelle

parole di Castells (1996), alla "cultura di libertà, innovazione e

imprenditorialità emersa dalla cultura dei campus americani degli anni

Sessanta". Ancora secondo Castells "la rivoluzione della tecnologia

dell'informazione ha diffuso, in modo semi-consapevole, nella cultura

materiale delle nostre società lo spirito libertario che prosperò nei

movimenti degli anni Sessanta". 28 Nel contesto della loro teoria della rimediazione, Bolter e Grusin

(1999) definiscono un medium come ibrido tecnico, culturale ed economico,

ossia come luogo geometrico dell’interazione di diversi attori, forze, azioni

e dinamiche sociali. 29 Il “codice tecnico” è quindi incorporato in un “paradigma

tecnologico”, nel senso in cui lo definisce Castells (1996). 30 Nell’ambito delle elaborazioni e delle pratiche riguardanti i

cosiddetti media “alternativi”, e nel contesto dell’accresciuta rilevanza da

questi assunta con lo sviluppo della Rete e delle tecnologie digitali, i

Page 162: tesi

Ecologia Digitale 143

concetti di de Certau sono stati esplicitamente ripresi da Lovink (2002) e da

diversi gruppi di mediattivismo nell’espressione e nelle pratiche dei “media

tattici” (www.tmcrew.org; www.n5m4.org). Più di recente, accanto a questa

definizione, è emersa quella di “media minori”, che, riferendosi in

particolare alle pratiche dello streaming audio-video su Internet, si rifà al

concetto di “letteratura minore”, coniato da Deleuze e Guattari e a sua volta

derivato dalle elaborazioni dello stesso de Certau (Lovink 2003). Come si

vede, dunque, l’influenza di Foucault rimane in ogni caso fondamentale

nelle “culture critiche” di Internet e in generale nell’ambito della

comunicazione. 31 Tale ambivalenza delle tecnologie è particolarmente significativa nel

caso della valorizzazione delle risorse di informazione e conoscenza,

cruciale per le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Robins e Webster (1999, p. 137) sottolineano in proposito “la relazione

integrante e necessaria tra le dimensioni repressive e quelle potenzialmente

emancipatorie” di tali risorse. 32 Il sistema di ranking dei principali motori di ricerca si basa – anche

– sul numero di link che raggiungono un certo sito. Questo da un lato

consente agli utenti, che dai dati risultano in maggioranza consultare solo

le primissime pagine di risultati e utilizzare strategie di ricerca elementari,

di affidarsi, nella ricerca di informazioni, su una sorta di punteggio di

reputazione corrispondente al numero di citazioni di un sito presenti sul

Web; dall’altro, però, questo sistema finisce per marginalizzare

ulteriormente i siti dai contenuti già meno diffusi, e quindi meno linkati,

rendendoli meno visibili e raggiungibili. Un altro fattore che impedisce ai

contenuti alternativi di raggiungere gli utenti (e viceversa) è rappresentato

dalla sovraesposizione di siti e contenuti accessibili dai portali commerciali

che attraggono la maggior parte del traffico. Questi ed altri meccanismi di

posizionamento dell’informazione, che comprendono tra l’altro anche

incentivi finanziari, determinano quindi una progressiva stratificazione

degli squilibri nella produzione e nella distribuzione di contenuti on-line

che costituisce una delle dimensioni decisive delle “disuguaglianze digitali”

(Di Maggio e Hargittai 2001; Hargittai 2002, 2003).

Page 163: tesi

Capitolo II 144

33 Il termine ecologia (ecology) è utilizzato in questo frangente in

un’accezione simile a quella di ecosistema, con un maggiore accento, però,

sulle relazioni dinamiche che si instaurano fra i diversi elementi che ne

fanno parte. 34 Cfr. www.law.duke.edu/boylesite 35 All’origine degli studi sui comportamenti altruistici, di

collaborazione e di condivisione dei costi e dei benefici, nella specie umana

così come in altre specie animali, si trovano le ricerche e le scoperte

provenienti dall’ambito della cosiddetta “teoria dei giochi” (“dilemma del

prigioniero”, tit for tat, ecc.); queste, insieme a quelle originate nell’ambito

dell’”antiutilitarismo” di Marcel Mauss rispetto alla cultura e all’economia

del dono, mettono in crisi la teoria di un attore razionale impegnato a

perseguire il proprio esclusivo interesse personale, e permettono di

inscrivere nei modelli di scambio fattori estranei ai principi economici,

come la reciprocità, la fiducia, la reputazione, l’agire non strumentale

(Carlini 2002; Rheingold 2002; Berra e Meo 2001). 36 Gli effetti di rete sono peraltro descritti dalla “legge di Metcalfe” –

dal nome del ricercatore responsabile dello sviluppo dello standard di rete

Ethernet – secondo cui il valore complessivo di un sistema di

comunicazione in rete è pari al quadrato del numero dei suoi utenti-nodi e

cresce quindi esponenzialmente all’aumentare di questi, in contrasto con il

tradizionale modello di domanda-offerta in base al quale l’aumento delle

quantità di una risorsa ne diminuisce il valore. C’è da aggiungere che una

sorta di “effetto di rete” negativo si riscontra con simile dirompente

intensità in relazione a quei soggetti che sono esclusi dalle reti stesse: ogni

nodo che si connette ad una rete, infatti, non solo accresce il valore di

quest’ultima incrementando esponenzialmente il numero delle connessioni

possibili, ma aumenta anche, allo stesso modo, gli svantaggi di non essere

connessi. A livello di economia globale, è il meccanismo alla base

dell’aumento delle disuguaglianze nell’età dell’informazione (Castells 1996). 37 In particolare il fair use, il cosiddetto “diritto di primo acquisto” e il

libero accesso alle informazioni di “dominio pubblico”, un ambito in cui

rientrano non solo le pubblicazioni governative ed altre risorse non soggette

a copyright, ma anche tutte le opere dell’ingegno una volta scaduto il

Page 164: tesi

Ecologia Digitale 145

termine di tempo previsto dalla legge per la durata della protezione (vedi

nota seguente). 38 In particolare si fa qui riferimento al Digital Millenium Copyright

Act del 1998 e alla European Union Copyright Directive del 2000. Ancora

negli Stati Uniti, veri paladini nella difesa dei “diritti di proprietà” sulle

opere dell’ingegno, e sempre nel 1998, si è provveduto poi alla stesura del

CTEA, l’atto che ha esteso la già lunga durata della protezione del copyright

di ulteriori vent’anni, fino a 70 anni dalla morte dell’autore per le opere

detenute da individui e a 95 per quelle controllate da corporations (Kranich

2004). 39 In particolare la World Trade Organization e la nuova World

Intellectual Property Organization, peraltro oggetto, così come altri

organismi analoghi, quali l’FMI e la Banca Mondiale, della contestazione

del cosiddetto “movimento dei movimenti” in quanto responsabili delle

politiche neo-liberiste a livello globale e istituzioni non democratiche.

Nell’ambito dell’Uruguay Round del WTO del 1994, si è giunti alla stipula di

un accordo internazionale sugli “aspetti dei diritti di proprietà intellettuali

relativi al commercio” (TRIPS). 40 Cfr. www.creativecommons.org; www.info-commons.org; Lovink

2003; Kranich 2004. 41 Cfr. World-Information.org, Digital Ecology.

www.world-information.org/wio/readme/992006691/intro 42 Il “codice sorgente” di un programma è l’insieme di istruzioni scritte

in un linguaggio di programmazione comprensibile dall’uomo. Per poter

essere interpretate da un computer queste istruzioni vengono prima

“tradotte” da appositi programmi (compilatori) che generano un “codice

oggetto”, ovvero un file “eseguibile” dalla macchina. Da questo codice,

illeggibile per un uomo, non è possibile risalire in modo univoco alle

istruzioni originarie – ciò che si tenta di fare con incerti risultati tramite un

processo di reverse engineering: in molti casi le leggi in materia di

protezione della proprietà intellettuale vietano esplicitamente questo tipo

di pratiche. E’ quindi solo a partire dal codice sorgente che un programma

può essere efficacemente ispezionato, studiato, modificato, adattato e

migliorato.

Page 165: tesi

Capitolo II 146

43 E’ ormai famosa la “lettera aperta agli hobbysti” dell’Altair con cui,

nel 1976, un giovane Bill Gates, in risposta al “furto” di un nastro

contenente l’interprete del linguaggio Basic sviluppato da lui e dal suo socio

Paul Allen per il primo microcomputer Altair, sosteneva le ragioni della

commercializzazione del software e ribadiva il primato dei diritti di

proprietà (Levy 2001; Carlini 2002; Castells 2001). I prodromi della

commercializzazione del software si possono addirittura far risalire a

qualche anno prima, quando nel 1969 una massiccia causa antitrust contro

il monopolio della IBM, aveva portato quest’ultima a far pagare

separatamente il software e a non distribuirlo più sotto forma di codice

sorgente (UNCTAD 2003). 44 GNU è un acronimo ricorsivo che sta per GNU’s Not Unix;

l’invenzione di acronimi con una forte dose di ironia e di creatività è

un’abitudine tipica degli hacker che è stata spesso ripresa nella

denominazione di free software. 45 Questo meccanismo “virale” sfrutta in effetti il modello legale del

copyright, rovesciandone però scopi ed effetti. Per questo per tale

meccanismo è stato anche coniato l’ironico termine copyleft, che gioca

sull’asse semantico di opposizione fra right (“destra”) e left (“sinistra”) e

sulle sue connotazioni politiche. Più che di un “diritto di copia di sinistra”,

però, nella lingua italiana si può forse parlare di un “permesso di copia”

contrapposto al “diritto d’autore”. Il rispetto o meno del meccanismo del

copyleft è un ulteriore discrimine fra le licenze: in pratica esiste “software

libero non copyleft”, ossia software tutelato da una licenza che garantisce le

“quattro libertà” ma non obbliga a rilasciare le opere derivate sotto la

medesima licenza. Cfr. http://www.fsf.org/licensing/licenses/license-

list.html 46 Ciò che di fatto succede anche con quelle licenze libere e open

source, che non pongono restrizioni in merito all’inserimento del codice che

tutelano in sistemi e software proprietari (cfr. nota 20). 47 “[…]I'm doing a (free) operating system (just a hobby, won't be big

and professional like gnu) for 386(486) AT clone […]”. Linus Benedict

Torvalds, “What would you like to see most in minix?”, 25 Agosto 1991,

Page 166: tesi

Ecologia Digitale 147

postato su comp.os.minix. Cfr. http://groups-

beta.google.com/group/comp.os.minix/msg/b813d52cbc5a044b?hl=en48 Nel 2004 è stata rilasciata la versione più recente, la 2.6. 49 Le versioni di Unix derivanti dalla Berkeley Software Distribution

(fra cui FreeBSD, NetBSD e OpenBSD) sono anch’esse “libere”. Ma la

licenza con cui è rilasciata la maggior parte del software incluso in queste

distribuzioni (Licenza BSD), al contrario della GPL, permette

l’incorporazione del codice e delle relative modifiche in lavori protetti da

qualsiasi tipo di licenza, anche proprietaria: alcune funzionalità di

networking in Windows sono implementate sfruttando codice BSD, mentre

l’ultimo sistema operativo della Apple, il MacOSX, include nel suo core,

Darwin, un gran numero di componenti tratti da FreeBSD. 50 Di particolare rilievo, in questo senso, furono le innovazioni

introdotte nel 1995 dal primo sistema operativo grafico della Microsoft,

Windows 95, rispetto alle versioni precedenti di Windows (dalla 1.0 alla

3.11), che erano in realtà ambienti operativi grafici da installare su DOS.

Oltre a supportare per la prima volta i processori a 32 bit e a integrare in

maniera costitutiva una versione dell’MS-DOS, Windows 95 migliorava

significativamente l’interfaccia grafica a finestre e la metafora desktop –

entrambe già presenti nei sistemi Macintosh e nel sistema OS/2, sviluppato

dalla stessa Microsoft in collaborazione con la IBM, e basate sulle scoperte

realizzate al centro di ricerca della Xerox già più di venti anni prima – e

introduceva funzioni e tool grafici che assecondavano le scarse competenze

informatiche dell’utente medio. La posizione di forza sul mercato che

Microsoft già deteneva grazie al precedente predominio dell’MS-DOS sui PC

IBM-compatibili, agli accordi esclusivi di licenza in base ai quali il suo SO

viene preinstallato sull’hardware dalla maggior parte dei costruttori e, non

da ultimo, alla frammentazione che aveva rallentato lo sviluppo di Unix,

fecero sì che essa conquistasse una posizione di vantaggio anche nel nuovo

mercato dei sistemi operativi desktop, che a loro volta rappresentarono un

forte fattore di diffusione del personal computer, soprattutto in ambiente

domestico.

Page 167: tesi

Capitolo II 148

51 La piattaforma libera Apache, ha conquistato, dal 1995, anno d’avvio

del progetto, al 2004 circa il 70 % del mercato dei sistemi web server nel

mondo. 52 Tra i programmi più diffusi ed importanti citiamo qui il pacchetto di

software per ufficio, OpenOffice; la suite di programmi per Internet,

Mozilla (e i suoi derivati principali, il browser Firefox, il client di posta

Thunderbird, e il recente editor HTML NVU); il sistema di gestione di

databases, MySQL; il sistema di informazione geografica, GRASS; l’editor

di testo scientifico, LaTex; i motori grafici, XOrg e XFree86, e gli ambienti

desktop, GNOME e KDE; i linguaggi di programmazione PERL e Python; la

piattaforma di condivisione Windows-Linux, Samba; i programmi di file

sharing p2p eMule, DC++, Lime Wire, MLDonkey, Sheraza e BitTorrent; le

applicazioni di web server, Apache e Zope; gli editor di grafica, Blender e

The Gimp. L’elenco comprende inoltre programmi per la realizzazione di

wiki e weblogs, programmi di instant messaging e chat, programmi per

l’accesso remoto (VNC), content management systems (PHP e derivati e

Slashcode), groupware, codec e container per contenuti multimediali

(XviD, Ogg Vorbis, Matroska, Musepack), lettori multimediali (Xine e VLC),

programmi di editing audio e video (CDex, Audacity, VirtualDub), software

di masterizzazione (Gnome Toaster, X-CD-Roast), antivirus e firewall,

programmi di crittazione (GnuPG), applicazioni per lo streaming (MuSE e

PeerCast), programmi didattici e scientifici, numerose piattaforme di e-

learning (fra cui l’italiana ADA), un’implementazione open source del

protocollo standard H.323 per le applicazioni di Voice over IP. Per una lista

esaustiva cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_open-

source_software_packages 53 Cfr. paragrafo 2.2.4. 54 Cfr. Nichols e Twidale 2003 per una trattazione delle questioni

dell’usabilità nell’ambito del software libero e open source. 55 Secondo dati recenti GNU/Linux gira sul 30 % dei server Web, a

fronte di una percentuale di circa il 50 % appannaggio di varie versioni di

Windows, e di percentuali intorno al 7 % sia per il sistema Unix

proprietario Solaris sia per i diversi derivati di BSD (UNCTAD 2003).

Page 168: tesi

Ecologia Digitale 149

56 L’IBM, soprattutto, ha sostenuto apertamente Linux, finanziando

progetti di sviluppo e equipaggiando server e mainframe della sua linea di

prodotti con versioni del sistema operativo libero. Ma anche altre aziende

leader nel settore dell’Information Technology, come Oracle, SAP, Hitachi,

Hewlett Packard, Intel, Sun Mycrosistem e persino Microsoft, sono

coinvolte in operazioni commerciali legate al software open source

(UNCTAD 2003). 57 Vedi paragrafo 3.5.3. 58 Tra le prime e più importanti società for profit, e relative

distribuzioni, troviamo Red Hat negli Stati Uniti, SuSe in Germania e

MandrakeSoft (ora Mandrivia) in Francia. La quotazione in borsa di Red

Hat si giovò per altro della bolla della new economy. Altre distribuzioni

fanno affidamento sul lavoro volontario e sui finanziamenti di alcune

fondazioni, come nel caso della Debian o della recente Ubuntu, una

distribuzione basata su Debian ma con cicli di rilascio più brevi e orientata

in modo particolare ad un utilizzo desktop, alla facilità d’uso e al supporto

dell’hardware dei computer portatili, tradizionale punto debole di

GNU/Linux legato agli accordi esclusivi che molte case produttrici

stringono con la Microsoft. 59 I risultati non si fecero attendere: nello stesso 1998 la Netscape,

società produttrice del browser omonimo, anche nel tentativo di

contrastare le pratiche monopolistiche della Microsoft e la conquista di

quote di utenti da parte del suo Internet Explorer, annunciò che avrebbe

rilasciato il codice del suo browser sotto una licenza open source. Da quel

codice sarebbe scaturito tra l’altro il progetto Mozilla. Altre società

seguirono nel supportare il sistema operativo GNU/LInux sulle proprie

architetture hardware e software e poi nell’implementare modelli di

business che facessero perno sul software open source (cfr. note 30 e 32). 60 L’aggettivo non-proprietario si applicherebbe in realtà al solo

software rilasciato in regime di “dominio pubblico”, l’unico a non prevedere

alcuna licenza che ne stabilisca diritti di proprietà. La utilizzo qui per

riferirmi in generale a qualsiasi software che non preveda restrizioni

riguardo all’accesso e alla modifica al suo codice sorgente, a prescindere dai

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Capitolo II 150

termini specifici delle diverse licenze, quindi in maniera analoga

all’espressione ombrello indicata dall’acronimo FLOSS. 61 Per evitare equivoci, incomprensioni e questioni di principio e per

evidenziare gli aspetti comuni dei diversi modelli di software a codice

sorgente aperto, in particolare in relazione all’ampiezza delle loro

implicazioni sociali ed economiche, il ricercatore indiano Rishab Ghosh ha

coniato l’espressione Free/Libre Open Source Software, abbreviata

nell’acronimo FLOSS. Il termine è comparso per la prima volta nel 2000,

anno di avvio di un progetto di ricerca dell’Istituto Internazionale di

Infonomics dell’Università di Maastricht e finanziato dall’Unione Europea,

volto ad indagare una serie di aspetti economici del software a sorgente

aperto (Ghosh e Glott 2002). 62 La Business Software Alliance stima che in Vietnam la percentuale di

“perdite” derivante dal mancato pagamento delle licenze ammonti

addirittura al 94%. Una simile valutazione, ripetuta dalla BSA per tutti i

Paesi, non tiene conto del fatto che la maggior parte degli utenti che

adottano copie pirata di un software, soprattutto nei Paesi in via di

sviluppo, non diventerebbero comunque acquirenti regolari, quanto meno

perché non possono permetterselo. 63 In alcuni casi le principali compagnie arrivano a contrattare costi

più bassi per le licenze destinate ad istituzioni e organismi di un Paese in

via di sviluppo, allo scopo di legarli alle proprie forniture. 64 Il TCO si riferisce al costo complessivo di una tecnologia derivante

dalle spese per l’hardware, per le licenze del software e per i servizi di

riparazione, manutenzione, integrazione, networking, supporto, assistenza,

sicurezza e formazione per tutto il ciclo di vita del prodotto. 65 Il discorso cambia naturalmente nei Paesi in via di sviluppo o meno

sviluppati, dove il costo del lavoro più basso e l’alto costo delle licenze,

come detto, ribalta le percentuali e fornisce un ampio margine di vantaggio

economico ai sistemi liberi. 66 Cfr. Rajani (2003), Wong (2003) e UNCTAD (2003) per una

rassegna delle iniziative intraprese da un gran numero di governi in tutto il

mondo riguardo all’utilizzo di Software Libero e Open Source (FLOSS) nel

settore pubblico.

Page 170: tesi

Ecologia Digitale 151

67 Le recenti strategie di marketing della Microsoft hanno previsto,

inoltre, il lancio della criticatissima shared source iniziative, ossia il

rilascio a sviluppatori selezionati, a grandi imprese e, appunto, ad alcuni

governi di parti di codice sorgente del suo software sotto speciali licenze

che in pratica permettono al licenziatario di vedere, ma non toccare, né

divulgare in alcun modo, il codice. Nel 2004, la Microsoft ha rilasciato la

Windows XP Starter Edition, una versione drasticamente ridotta del suo

sistema operativo destinata ai Paesi in via di sviluppo e commercializzata

finora, a circa un terzo del prezzo della versione standard, in Tailandia,

Malaysia, Indonesia, Russia, India e Brasile. 68 Cfr. Berra e Meo 2001, p. 138-145 69 Vedi, al contrario, il “caso Diebold” in occasione delle elezioni del

2004 negli Sati Uniti. 70 In Italia molte realtà associative e non solo si occupano di

trashware. Oltre al già citato GOLEM e ad altri LUG, ad effettuare attività

di recupero e riutilizzo di hardware dismesso per allestire i propri spazi o

quelli di altre realtà affini, sono spesso i gruppi e i laboratori (spesso

definitisi hacklabs), sorti nell’ambito dei Centri Sociali, che si occupano di

“accesso ai saperi” e alle nuove tecnologie, proponendo fra l’altro corsi di

alfabetizzazione e formazione informatica gratuiti. Fra i più attivi si

possono citare il gruppo AvanaNet con base presso il CSOA Forte

Prenestino di Roma e il BugsLab di stanza fra lo Strike e La Torre, sempre

di Roma, il FreakNet di Catania, il Bulk a Milano. Negli ultimi anni, poi,

alcune realtà hanno sviluppato alcune iniziative in partnership con scuole e

istituzioni: tra queste l’evocativo “Progetto Lazzaro” rivolto alle scuole

(www.progettolazzaro.it). Una rassegna di realtà e iniziative relative al

trashware è consultabile sul sito http://trashware.linux.it/, base anche di

una mailing list di discussione e coordinamento attiva dal Giugno 2004. 71 Il progetto è consultabile al sito www.kilnux.org.

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Page 172: tesi

Capitolo III

Spazi pubblici digitali:inclusione ed esclusione sociale nell’età dell’informazione

Lungi dal mantenere le sbandierate promesse di una nuova

era di liberazione, uguaglianza e benessere sociale diffuso,

l’esplosione delle tecnologie dell'informazione e della

comunicazione e la razionalizzazione tecnocratica che ne ha

forgiato i modelli di sviluppo e le applicazioni nella società,

hanno finora rafforzato il dominio degli imperativi economici

sulla vita delle persone e incrementato i livelli di disuguaglianza

ed esclusione sociale (Robins e Webster 1999; UNDP 2001). Lo

sviluppo del “capitalismo informazionale” (Castells 1996), per

come si è venuto strutturando attraverso le decisioni e le

politiche di governi, organismi internazionali e poteri economici,

ha avuto come conseguenza un ulteriore peggioramento delle

condizioni di vita per centinaia di milioni di persone in tutto il

mondo, che soffrano la fame o la povertà nei Paesi più poveri, o

sperimentino crescenti livelli di insicurezza per i propri progetti

di vita nei Paesi più industrializzati.

Page 173: tesi

Capitolo III 154

Da un lato, data la natura tecnica delle basi materiali degli

ambiti fondamentali di produzione e consumo, riproduzione e

cultura, le logiche impersonali della razionalizzazione

tecnocratica estendono la loro presa su sempre più sfere della

vita sociale. Dall’altro essa assume le sembianze e i caratteri

delle “reti” che sorreggono i processi della produzione

delocalizzata, gli scambi nei mercati finanziari, l’organizzazione

del commercio internazionale e l’infosfera globale. Il dominio

della razionalità strumentale si accompagna, quindi, alla

preminenza di una "logica di rete" che opera secondo una

dinamica binaria di inclusione/esclusione, in base alla quale "le

reti di capitali, produzione e commercio sono in grado di

individuare le fonti della creazione di valore ovunque nel mondo,

e di realizzare il loro collegamento", bypassando invece quei

"segmenti" di paesi, regioni, settori economici, popolazioni,

territori, società locali, giudicati inutili ai fini della propria

valorizzazione e condannandoli all’emarginazione e alla povertà

(Castells 1996, p. 3). Queste "reti globali di scambi strumentali

attivano e disattivano in modo selettivo individui, gruppi, regioni

e persino paesi, secondo la loro rilevanza nel raggiungere gli

obiettivi elaborati dalla Rete stessa" (ibid.).

I nuovi squilibri su scala globale legati alla diseguale

diffusione di "conoscenza e tecnologia" vanno a sommarsi alle

precedenti disuguaglianze e ridisegnano la geografia

dell’esclusione, accentuandone i profili già sedimentati o

facendone emergere di nuovi. Le dinamiche simultanee di

dispersione, concentrazione e connessione favorite dalle nuove

tecnologie accumulano le funzioni strategiche in poli ad alta

densità tecnologica e d'informazione e conoscenza (tra cui i

cosiddetti milieux d'innovazione), rafforzando così le relazioni

all'interno della "città globale" descritta da Saskia Sassen (1991)

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Spazi Pubblici Digitali 155

e fra alcuni centri regionali, e indebolendo al contrario i rapporti

città-regioni, con l'effetto di aumentare le disparità fra le zone

urbane e i rispettivi hinterland. Fenomeni simili si verificano

anche all'interno delle città e delle nuove "megacittà": "collegate

esternamente a reti globali e a segmenti dei propri paesi",

scollegano invece "internamente le popolazioni locali non

funzionalmente necessarie o socialmente dirompenti" (Castells

1996, p. 466). In generale ogni "segmento" è soggetto alle

turbolenze dei flussi globali e dei loro interessi e alle connessioni

e sconnessioni che questi attuano. A tale "globalizzazione a pelle

di leopardo" si aggiungono poi i dirompenti fenomeni di

individualizzazione, precarizzazione e frammentazione del lavoro

che caratterizzano le relazioni produttive del "capitalismo

informazionale".

Il risultato complessivo è l'emarginazione per povertà e

miseria di un numero crescente di persone in tutto il mondo,

l'aumento delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito su

scala globale e locale e l’aumento dell’insicurezza economica e

dell’esclusione sociale per larghe fasce di popolazione nei Paesi

ad economia avanzata. Dopo la dissoluzione del Secondo Mondo,

quello del socialismo reale, e la scomparsa del Terzo Mondo

come entità geopolitica e realtà pressoché omogenea in termini

di sviluppo economico e sociale, si assiste alla nascita di un

Quarto Mondo che attraversa indifferentemente paesi ricchi e

poveri e "abita" l'Africa subsahriana e le aree rurali impoverite

dell’America Latina e dell’Asia, così come le inner cities delle

metropoli americane e le banlieus francesi meta d’immigrazione

(UNDP 2001; Castells 1998). In effetti, come sottolinea ancora

Castells (ibid. p. 186), “nell’attuale contesto storico, l’ascesa” – si

fa per dire – “del Quarto Mondo è inseparabile dall’ascesa del

capitalismo globale e informazionale”.

Page 175: tesi

Capitolo III 156

Nei processi appena delineati i territori e le identità culturali

che in essi si esprimono giocano ruoli contradditori e

sovrapposti, dipendenti per altro in buona misura dalla propria

collocazione geografica ed “economica”. Essi si costituiscono

come l’altra faccia della razionalizzazione, allo stesso tempo

oggetto della valorizzazione economica e sottomessi alle sue

logiche strumentali, elementi disconnessi dalle reti e condannati

all’esclusione sociale, origine delle molteplici forme di resistenza

alla logica strumentale sulla base delle più diverse configurazioni

di interessi e valori. E’ su questo terreno che si gioca la

fondamentale contrapposizione fra le logiche delocalizzate e

impersonali dei flussi globali di capitali, merci, immagini e

informazioni e le sensibilità culturali e affettive di individui e

comunità per la maggior parte dei quali l'esistenza trova ancora

il suo fondamento nella fisicità dei luoghi. In questa

contrapposizione prende forma inoltre quella “spaccatura

fondamentale tra lo strumentalismo astratto, universale, e le

identità particolaristiche, storicamente radicate [per cui] le

nostre società sono sempre più strutturate attorno ad

un'opposizione bipolare tra la Rete e l'io" (Castells 1996, p. 3). Il

nuovo spazio dei flussi origina dalle reti telematiche intorno a

cui si organizzano i processi produttivi e i mercati finanziari e si

riflette nella progettazione urbanistica e nelle architetture delle

metropoli globali, è il regno del “tempo acrono” (ibid.) e del

calcolo economico e strumentale. Lo spazio dei luoghi e i valori

culturali dell’esperienza umana che in esso prendono forma

diventano anch’essi semplici strumenti in funzione degli

imperativi del “potere dei flussi”. Ciò comporta, da un lato,

un’erosione delle risorse culturali locali determinata dai processi

di privatizzazione e valorizzazione economica di saperi e

conoscenze; dall’altro un’esasperazione delle chiusure identitarie

Page 176: tesi

Spazi Pubblici Digitali 157

come difesa dell’autonomia individuale e collettiva dai processi

di omologazione e razionalizzazione globali.

Le dinamiche di differenziazione sociale nella “società

globale dell’informazione” sono dunque legate a due processi

distinti e fra loro contraddittori ma correlati. Da una parte esse

sono allo stesso tempo causa ed effetto del diverso grado di

partecipazione di paesi, individui e comunità ai circuiti della

“produzione culturale” (Rifkin 2000) e alle opportunità offerte in

questo senso dai nuovi media e in particolare da Internet. Sono

quindi legate alla diseguale distribuzione a livello locale e globale

delle nuove tecnologie che incrementano le possibilità di

manipolare e comunicare informazioni, conoscenza e simboli, di

partecipare alle reti globali o strutturarne di autonome.

Dall’altra parte queste dinamiche sono legate alla più ampia

questione relativa alla divaricazione crescente fra economia e

cultura, fra “Rete e io”, tra funzione e significato, fra spazio dei

flussi e spazio dei luoghi. Un’opposizione che trova origine, al

contrario, proprio nella partecipazione subalterna alle reti di

accumulazione del capitale e agli ambienti digitali in cui esse

operano e a cui danno forma e che segna per individui e

comunità una graduale perdita di controllo sulle proprie vite e i

propri ambienti. Senza la promozione di processi di

appropriazione delle nuove tecnologie da parte degli utenti nei

diversi contesti, e senza una reale partecipazione decentrata alla

progettazione di caratteristiche, funzionalità e contenuti delle

stesse, il semplice trasferimento e la diffusione di “scatole nere”

in funzione delle esigenze e dei valori del produttivismo, della

competitività e della razionalizzazione, esasperano la spaccatura

fra strumentalismo e identità e generano un indebolimento dei

legami sociali e l’inasprimento dei processi di esclusione sociale.

I due processi alla base dell’”esclusione in rete” risultano,

Page 177: tesi

Capitolo III 158

quindi, strettamente correlati: così, se da un lato, l’esclusione

fisica e simbolica di individui e intere comunità dalle reti

telematiche e produttive va a peggiorare non solo le loro già

difficili condizioni economiche e sociali, ma anche la loro

posizione di subalternità alle logiche strumentali del “potere dei

flussi”, dall’altro gli imperativi della razionalizzazione veicolati

dall’applicazione delle nuove tecnologie al dominio globale della

produzione e del commercio, esasperando la divaricazione fra la

logica strumentale e universalista e le culture localmente

radicate, impongono a loro volta per altre vie esclusione e

marginalizzazione sociale.

In questo capitolo, quindi, presentati alcuni dati e concetti

utili a inquadrare le condizioni della stratificazione sociale e i

processi di esclusione sociale nella società in rete, mi soffermerò

su una delle dinamiche spaziali dell’esclusione, riferita al diverso

grado di partecipazione di aree geografiche e Paesi ai processi di

produzione e fruizione di Internet. Procederò, quindi, sulla base

della letteratura e delle analisi più recenti, ad una rivisitazione

critica degli assunti, delle implicazioni e delle pratiche relative al

concetto di digital divide, in quanto inadeguato a cogliere

molteplicità e complessità dei fenomeni osservati di

stratificazione ed esclusione sociale, e quindi inadatto ad

informare iniziative di contrasto. In questo senso presenterò due

modelli che ne correggono limiti e distorsioni: il primo, che

riferisce di una disuguaglianza digitale (Di Maggio e Hargittai

2001; Di Maggio et al. 2004), ne corregge innanzitutto la

prospettiva dicotomica orientata da una concezione riduttiva

dell’accesso, con attenzione particolare alle differenze all’interno

dei Paesi; il secondo, che si sofferma sulla relazione fra le ICT e

l’inclusione sociale (Warschauer 2003), ne allarga l’orizzonte per

includervi l’interazione dinamica fra tecnologia e società e una

Page 178: tesi

Spazi Pubblici Digitali 159

più ampia valutazione delle questioni dello sviluppo sociale e

umano.

La ricognizione di alcune politiche e di alcune azioni che in

molti Paesi sostengono gli usi comunitari delle nuove tecnologie

(a partire dal movimento della community technology negli Stati

Uniti) guiderà infine verso la definizione di un possibile modello

d’intervento in grado di coniugare l’esigenza di un’equa

partecipazione alle opportunità offerte dai nuovi ambienti e

strumenti digitali con la prospettiva di un loro impiego a

sostegno dei processi e delle politiche di inclusione sociale,

attraverso la loro integrazione in un’ampia gamma di risorse,

esperienze e significati sociali che originano dai territori e dalle

comunità. Un tale modello fa perno sulla progettazione e la

realizzazione partecipata di spazi pubblici digitali, sia fisici che

virtuali, che si costituiscano come ponti culturali e sociali fra lo

spazio dei flussi immateriali e lo spazio dei luoghi fisici: spazi,

dunque, in cui promuovere la produzione, la condivisione e la

libera circolazione di saperi, conoscenze, informazioni e cultura,

offrire accesso e formazione ad un ampia gamma di ambienti,

tecnologie e formati digitali, favorire la loro appropriazione sulla

base dei bisogni e dei significati locali, integrare cultura e

consapevolezza tecnologica nelle dinamiche e nei legami sociali,

valorizzare le risorse locali della creatività e della diversità

culturale e la “messa in rete” di soggetti e realtà istituzionali,

privati e della società civile. Spazi attraverso i quali sostenere la

costruzione dal basso di una “società dell’informazione” plurale,

partecipata e inclusiva, in cui a prevalere non siano gli imperativi

liberisti della competizione e della privatizzazione dei saperi, ma

quelli della cooperazione sociale, della solidarietà e della

condivisione.

Page 179: tesi

Capitolo III 160

1. Stratificazione ed esclusione sociale nella società in rete

“L’avvento dell’informazionalismo al volgere del millennio si

associa a disuguaglianze ed esclusione sociale crescenti in tutto il

mondo” (Castells 1998, p. 75). Nonostante l’estensione dei

processi di industrializzazione e sviluppo ad una consistente

quota della popolazione mondiale, e nonostante i buoni propositi

delle istituzioni internazionali e dei governi, nel mondo un

numero crescente di persone sperimenta in effetti livelli

inaccettabili di privazione, legati alla mancanza di un reddito

adeguato e in generale di condizioni di vita accettabili. Dei 4,6

miliardi di persone che vivono nei paesi in via di sviluppo, ad

esempio, 850 milioni sono analfabete, più di un miliardo non

può accedere a fonti d’acqua potabile e 2,4 miliardi non possono

usufruire delle strutture sanitarie di base. Quasi 325 milioni di

ragazzi e ragazze non frequentano la scuola. E ogni anno 11

milioni di bambini al di sotto dei cinque anni muoiono per cause

che si potrebbero prevenire o malattie che si potrebbero curare.

Circa 1,3 miliardi di persone vivono con meno di 1 $ al giorno e

2,8 miliardi vivono con meno di 2 $ al giorno. Questo genere di

privazioni non si limita ai paesi in via di sviluppo. Nei paesi

OCSE più di 130 milioni di persone sono povere, 34 milioni sono

disoccupate e il tasso di analfabetismo funzionale tra gli adulti è

mediamente del 15%.

1.1 L’aumento dell’ingiustizia sociale e della

povertà

La prospettiva temporale mostra, inoltre, un incremento sia

del numero di persone in condizioni di povertà e miseria, sia

delle disuguaglianze fra Paesi e individui a livello mondiale:

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Spazi Pubblici Digitali 161

negli ultimi trenta anni si è assistito ad una progressiva

polarizzazione nella distribuzione della ricchezza, secondo una

dinamica che ha dominato tutta la storia moderna a partire dalla

fine del XIX secolo. Secondo i rapporti dell’UNDP (2001) nel

1993 solo 5000 dei 23000 miliardi di dollari del prodotto

mondiale provenivano dai paesi in via di sviluppo, nonostante

questi ospitassero più dell’80% della popolazione. Il 20 % più

povero ha visto scendere la propria quota del reddito globale dal

2,3 % all’1,4% negli ultimi tre decenni. Nel frattempo la quota del

20 % più ricco è salita dal 70 % all’85 %. La proporzione del

reddito del 20 % più ricco rispetto al 20 % più povero è salita

vertiginosamente, da un rapporto di 30:1 nel 1960 si è passati ad

uno di 74:1 nel 1997. La concentrazione della ricchezza al vertice

è cresciuta anche negli anni Novanta: il patrimonio in dollari

delle 200 persone più ricche al mondo è passato da 440 miliardi

a più di 1000 miliardi tra il 1994 e il 1998. Sempre nel 1998 le

tre persone più ricche del mondo possedevano, insieme, un

patrimonio più consistente del PIL dei quarantotto paesi più

poveri del pianeta, che allora ospitavano circa 600 milioni di

persone 72.

In generale diversi studi alla fine del secolo scorso

riportavano un incremento della disuguaglianza nella

distribuzione globale del reddito a favore delle classi medie e alte

dei Paesi ricchi e delle elite dei Paesi poveri o in via di sviluppo,

vale a dire dei settori della popolazione mondiale che hanno

profittato maggiormente o esclusivamente della “rivoluzione

delle ICT” (Warschauer 2003). Secondo alcune di tali ricerche, la

crescita delle disuguaglianze all’interno dei Paesi ha contribuito

per un quarto a tale aumento delle disuguaglianze. In effetti si

registra una “tendenza dominante all’aumento delle disparità”

Page 181: tesi

Capitolo III 162

nella maggior parte dei Paesi, sia industrializzati, sia in via di

sviluppo sia più poveri (Castells 1998).

L’aumento delle disuguaglianze fra e all’interno dei Paesi e il

peggioramento delle condizioni di vita di ampie fasce della

popolazione mondiale, seppure determinati naturalmente da un

più ampio intreccio di fattori economici, sociali, tecnologici e

politici 73, è legato in diversi modi con il salto tecnologico del

capitalismo globale (Castells 2001): in primo luogo gli

incrementi della produttività legati all’adozione delle ICT,

appannaggio esclusivamente o primariamente delle realtà e degli

attori economici dominanti, aumentano il vantaggio di questi

ultimi sugli attori e sui Paesi già più indietro; in secondo luogo le

caratteristiche delle nuove tecnologie rendono più agevole

connettere i nodi della produzione di ricchezza, della finanza e

del management presenti nei Paesi più poveri direttamente alle

reti globali, bypassando le economie e le società locali e

incrementando così il divario economico e sociale interno fra

elites globalizzate e masse di diseredati; infine l’accresciuta

volatilità dei mercati finanziari indotta dalla massiccia adozione

delle ICT e dalle politiche di deregolamentazione, sommata alla

diffusione di fenomeni speculativi e all’interdipendenza

tecnologicamente determinata delle diverse “piazze”, produce

crisi economiche improvvise e devastanti che, come nel caso

dell’Asia e dell’America Latina sul finire degli anni Novanta o

dell’Argentina nei primi anni del nuovo secolo, finiscono per

trascinare nell’indigenza anche la popolazione appartenente alle

classi medie.

Page 182: tesi

Spazi Pubblici Digitali 163

1.2 I processi di esclusione sociale nella società in

rete

Le dinamiche globali della ristrutturazione capitalista non

hanno effetto solo sulla polarizzazione nella distribuzione della

ricchezza, ma anche su un più ampio approfondimento dei

processi di esclusione sociale di individui e interi territori;

processi che allo stesso tempo originano da e conducono verso

situazioni di povertà. Anche in questo caso, sono gli stessi

caratteri tecnocratici che guidano la trasformazione in corso a

determinare largamente le forme dell’esclusione e il suo

aggravamento.

I concetti di inclusione e esclusione sociale sono

particolarmente rilevanti nell’analisi di matrice europea,

sviluppati nell’ambito delle politiche sociali della Commissione

Europea e adottati anche dall’International Labour Organization

(ILO) dell’ONU: riferiti alle persone, essi riguardano in

particolare la possibilità o meno per individui, famiglie e

comunità di partecipare pienamente alla opportunità sociali ed

economiche e determinare autonomamente i propri destini

(Warscahuer 2003). Tali condizioni, pur fondamentalmente

associate nelle economie capitaliste alla “possibilità di accedere a

un lavoro salariato relativamente stabile per un membro almeno

di un nucleo familiare” (Castells 1998, p. 78), chiamano in causa

un ampio ventaglio di fattori e bisogni concernenti la qualità

della vita e l’integrazione nel tessuto sociale. L’inclusione e

l’esclusione sociale non sono tanto condizioni stabili quanto

processi che coinvolgono individui e territori in base a situazioni

e dinamiche sociali ed economiche continuamente variabili

(istruzione, politiche sociali e imprenditoriali, culture, pregiudizi

e valori, ecc.) (ibid.). Una tale concettualizzazione consente,

Page 183: tesi

Capitolo III 164

inoltre di superare i ristretti confini che connotano il concetto di

“sviluppo economico” e il suo legame con i controversi effetti

prodotti dalla crescita economica per orientarsi verso gli

obiettivi dello “sviluppo umano” promossi, tra gli altri, dall’ONU

(UNDP 2001).

Dal punto di vista di un individuo o di un nucleo familiare la

condizione occupazionale è certamente il meccanismo chiave

delle dinamiche di inclusione/esclusione sociale. In questo senso

la diffusione e la crescente prevalenza di rapporti di lavoro

precari e discontinui, nell’ambito del “lavoro

autoprogrammabile” e a maggior ragione in quello del “lavoro

generico”, non sostenute per altro da un adeguato

rimodellamento delle reti e dei meccanismi di tutela e di

protezione sociale post-welfare, rappresenta la principale fonte

di esclusione sociale per un numero crescente di individui e

famiglie nelle “economie avanzate” (Castells 1996, 1998; Gallino

2001): ansia, inattività, frustrazione, mancanza di sicurezze

economiche e conseguente impossibilità di investire e progettare

sul proprio futuro, fosse anche solo con l’obiettivo di trovare un

alloggio stabile, già di per se elementi in grado di pregiudicare

un sano tenore di vita, possono sfociare a loro volta in ulteriori

disagi fisici e mentali, forme di dipendenza, difficoltà relazionali,

stigma sociali, fino all’ingresso settore dell’economia informale o

illegale. L’impossibilità di provvedere all’aggiornamento delle

proprie conoscenze e competenze fra un lavoro e l’altro può

ridurre ulteriormente le opportunità occupazionali di una

persona, costringendola nel limbo di lavori sottopagati e

dequalificati. I soggetti coinvolti si trovano così intrappolati in

una spirale di esclusione e marginalità da cui è difficile

riemergere; una condizione che colpisce ormai non solo i soggetti

tradizionalmente svantaggiati ma la maggior parte delle

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Spazi Pubblici Digitali 165

categorie sociali e chiunque non regga il passo dei ritmi vorticosi

del ricambio lavorativo e della lotta per la sopravvivenza in un

mercato del lavoro sempre più flessibile e privato dei tradizionali

meccanismi di tutela e di rivendicazione collettiva.

In quanto fondamentalmente legata ai rapporti di lavoro,

l’esclusione sociale è ancora fortemente associata alle dinamiche

che interessano i rapporti di produzione e la divisione in classi

sociali, tanto più che alle nuove condizioni di un precariato di

massa nelle economie avanzate si affiancano le tradizionali

condizioni di sfruttamento e disoccupazione estesa nei paesi

poveri e soprattutto in quelli in via di sviluppo.

D’altra parte l’attuale transizione sociale ed economica, con

lo sviluppo dei caratteri di un capitalismo globalizzato,

informazionale e flessibile, il ritiro dello “Stato sociale” e

l’emergere del “valore” delle risorse culturali e di informazione e

conoscenza, comporta non solo una progressiva integrazione e

sostituzione dei modelli di relazione e conflitto tra capitale e

lavoro, ma una accentuata diversificazione degli stessi fattori che

influiscono sui processi di esclusione e inclusione sociale

(Castells e Himanem 2002). Emergono quindi una serie di

parametri che eccedono opportunità e condizioni lavorative e,

pur essendone in molti casi dipendenti, assumono nondimeno

una rilevanza autonoma nel determinare il livello di integrazione

nella società e di autonomia dei soggetti: oltre alla disponibilità

di risorse economiche e beni ritenuti essenziali in un

determinato contesto, i processi di esclusione/inclusione sociale

sono legati alle condizioni di salute e alla possibilità di accedere

a servizi sociali adeguati, al livello di istruzione e formazione,

alle condizioni abitative, alla possibilità di accedere alla cultura e

allo svago e di dedicare tempo all’impegno civico e in generale

alla coltivazione dei legami sociali.

Page 185: tesi

Capitolo III 166

In questo senso, quindi, acquista centralità l’accesso a un

ampio ventaglio di risorse in grado di soddisfare nel suo insieme

i diversi ordini di bisogni individuati da Abraham Maslow nella

sua nota scala gerarchica dei bisogni. La valutazione complessiva

dei diversi bisogni e delle relative risorse, consentendo di

acquisire una necessaria visione d’insieme dei rischi e dei

processi di esclusione sociale, permette di sviluppare politiche e

programmi a livello nazionale e internazionale che non

affrontino solo l’emergenza fornendo assistenza immediata e

risorse di base ai gruppi sociali e ai Paesi più svantaggiati ma

siano in grado, da un lato, di prevenire i fattori di esclusione e,

dall’altro, di evitare processi di dipendenza e favorire piuttosto

lo sviluppo di processi di sviluppo autonomo e a lungo termine di

individui e Paesi 74.

Come afferma Lisa Servon (2002) riferendosi ai programmi

di assistenza ai soggetti svantaggiati dell’amministrazione

americana, per evitare il rischio di trattare solo i sintomi e non le

cause del problema, è necessario che le politiche di contrasto alla

povertà includano, accanto alla garanzia delle “risorse di primo

livello” (cibo, acqua, vestiti, alloggio, istruzione primaria e

secondaria, cure sanitarie, cura dei bambini, ecc) la fornitura e la

promozione di “risorse di secondo livello” che comprendono

formazione avanzata, conoscenza di base dei meccanismi

economici, capacità relazionali e di gestione, indispensabili per

una piena partecipazione alle opportunità economiche e sociali.

Fra queste risorse di secondo livello rientrano inoltre a pieno

titolo l’accesso alle nuove tecnologie e la possibilità di acquisire

le competenze tecniche e cognitive indispensabili per un loro

efficace utilizzo.

Molti sottolineano in proposito il proverbiale vantaggio che

scaturisce dal ricevere una “canna da pesca” e i rudimenti

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Spazi Pubblici Digitali 167

necessari a pescare, piuttosto che del pesce, e certamente la

metafora centra alcune delle ragioni principali che giustificano la

promozione delle nuove tecnologie anche in contesti afflitti da

alti livelli di privazione o che si trovano ad un diverso stadio di

sviluppo da quello delle società industrializzate. L’impiego delle

nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, se

adeguatamente integrato nei diversi sistemi di bisogni, esigenze

e condizioni organizzative, può rivelarsi in effetti un mezzo

efficace per facilitare l’accesso ad informazioni critiche, utili a

migliorare il rendimento delle attività produttive tradizionali che

ancora impegnano la maggior parte della popolazione nei Paesi

poveri o in via di sviluppo 75. Le ICT possono inoltre incrementare

produttività e competitività di comparti economici, reti

produttive e singole imprese e aumentare le opportunità

occupazionali per individui e gruppi svantaggiati. Più in

generale, nel contesto di un sistema produttivo ed economico

sempre più informatizzato, connesso e globale, il collegamento

alle reti elettroniche e di produzione del valore e lo sviluppo

delle competenze relative al trattamento della conoscenza e alla

padronanza delle nuove tecnologie rappresentano per Paesi e

individui i necessari requisiti per accedere a condizioni di vita

più sostenibili. In conclusione, dal punto di vista della

razionalizzazione e delle performances economiche, non vi è

dubbio che “lo sviluppo senza Internet sarebbe come

l’industrializzazione senza l’elettricità nell’era industriale”

(Castells 2001, p. 251) 76.

D’altra parte, come già sottolineato, il modello di sviluppo

del capitalismo informazionale, fondato sulle ICT, le reti di

comunicazione e la valorizzazione delle risorse di conoscenza e

informazione, implica per sua stessa natura una dinamica di

integrazione selettiva e sviluppo irregolare, che contempla allo

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Capitolo III 168

stesso tempo una vertiginosa crescita della ricchezza a beneficio

di pochi e l’aumento del numero di persone che versano in

condizioni di povertà, inclusione ed esclusione sociale. Non solo

gli sforzi dei Paesi più poveri per entrare a far parte delle reti

dell’accumulazione capitalista si traducono spesso in un

incremento delle disuguaglianze interne e in un inasprimento dei

processi di esclusione sociale, ma anche le realtà “incluse”,

collegate ai flussi di capitale e informazioni, lo sono per lo più in

condizioni di subalternità rispetto agli attori dominanti e

finiscono quindi per patirne gli effetti più che raccoglierne i

benefici (ibid.).

La connessione di individui, comunità, regioni e paesi alle

reti globali della produzione di valore, ricchezza e informazioni,

non assicura ovviamente di per se il dispiegarsi di processi di

inclusione sociale di queste realtà; al contrario, date certe

condizioni, può paradossalmente finire per incrementarne

esclusione, isolamento e marginalizzazione – processi che, giova

ricordarlo, non sono necessariamente associati a situazione di

povertà o difficoltà economica, ma possono derivare

dall’indebolimento dei legami sociali e delle reti di protezione,

dalla mancanza di un’adeguata vita relazionale, dalla difficoltà

ad accedere alle risorse della cultura e dello svago, dal

disgregamento, cioè, delle basi materiali su cui si fonda la

costruzione delle identità. In questo senso, dunque, a innescare

processi di esclusione e isolamento sociale possono intervenire

anche i fenomeni di “schizofrenia sociale” legati

all’inconciliabilità, più volte ricordata, fra l’universalismo

astratto delle logiche strumentali che orientano i processi

dominanti della società in rete nello spazio dei flussi e i valori

culturali radicati nelle relazioni e nei significati condivisi che

invece segnano l’esperienza delle persone nello spazio dei luoghi.

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Spazi Pubblici Digitali 169

La prospettiva imperniata sui concetti di inclusione ed

esclusione sociale si rileva allora particolarmente adeguata a

cogliere le due relazioni dinamiche fondamentali e parallele che

segnano il dispiegarsi della società in rete e delle sue linee di

contraddizione: vale a dire il rapporto dialettico fra la Rete e le

identità, da un lato, e fra i flussi e i luoghi, dall’altro (Castells

1996, 1997). “Il concetto di inclusione sociale riflette in modo

particolarmente adeguato gli imperativi dell’attuale età

dell’informazione, in cui sono venute alla ribalta le tematiche

dell’identità, del linguaggio, della partecipazione sociale, della

comunità e della società civile” (Warschauer (2003, p. 9,

traduzione mia). Le questioni dell’identità e della dimensione

locale, nel loro rapporto con le reti e i flussi globali, sono dunque

cruciali nell’articolazione delle politiche intese a conciliare

sviluppo tecnologico ed economico con giustizia e inclusione

sociale nell’età dell’informazione (Castells e Himanem 2002).

La maggior parte degli individui che esperiscono la realtà

sociale nello spazio dei luoghi, sconnessi dalle reti o connessi in

condizioni di subalternità come attori della produzione e del

consumo, si ritrova sottomessa ai flussi lontani e disincarnati che

ne indirizzano le esperienze mediate e le prospettive di esistenza.

I processi di privatizzazione e mercificazione spinta

dell’informazione, della cultura e dell’intrattenimento messi in

atto dalle corporations globali che controllano media e sistemi

simbolici, impattano sulle reali possibilità degli individui di

godere di tali risorse e quindi sul loro livello di partecipazione

alla vita sociale integrata dai media. Il sistema dei media

contemporaneo, e l’immensa concentrazione di potere simbolico

che esso costituisce, genera di per se una dimensione di

disuguaglianza sociale (Couldry 2002). La personalizzazione del

consumo mediale resa possibile dalle tecnologie e dai formati

Page 189: tesi

Capitolo III 170

digitali genera inoltre un ulteriore livello di stratificazione

sociale degli usi, legata non solo alla provenienza sociale ma

anche alle differenze culturali e di istruzione (Castells 1996).

Secondo Wellman (2001) Internet ha contribuito al

passaggio da una società basata sui gruppi ad una società fondata

sulle reti che ridefinisce i confini della comunità e della

vicinanza geografica e costituisce il terreno fertile per

l’individualismo in rete (networked individualism) (Castells

1996, 2001; Wellman 2001).

Chi è in grado e ha la possibilità di padroneggiare i nuovi

ambienti e i nuovi strumenti digitali li piega alle proprie esigenze

per dar vita a nuove forme di socialità improntate ad una

relazione simbiotica fra i luoghi fisici in cui vive e le reti

attraverso cui estende il proprio raggio di azione e

comunicazione. Queste forme di socialità sfruttano efficacemente

le potenzialità connettive e interattive delle nuove tecnologie per

ricostruire dal basso legame e cooperazione sociale e in alcuni

casi addirittura per “mobilitare lo spazio dei flussi”, ossia

utilizzare Internet e la logica di rete per fini sociali. Ma chi non è

in grado o non ha la possibilità di sostenere il ritmo vorticoso

dell’innovazione e del cambiamento, appropriandosi delle

tecnologie per soddisfare i propri bisogni autoderminati di

comunicazione e informazione, finisce invece per essere

interagito da – più che interagire con (Castells 1996) – la massa

di contenuti multimediali omologati e preconfezionati, mentre

viene privato dai meccanismi astratti della razionalizzazione

tecnocratica della possibilità di determinare e controllare la

propria vita, i propri ambienti e i propri codici culturali. In

queste condizioni il ritiro in una socialità e in un intrattenimento

privatizzati e addomesticati, raggiunti senza sforzo grazie alla

pervasività delle nuove tecnologie, può condurre in effetti

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Spazi Pubblici Digitali 171

all’erosione, più che ad un rafforzamento delle “reti sociali”, e ad

un progressivo processo di isolamento e conseguente

marginalizzazione.

2. Le geografie della società in rete

2.1 Geografie della comunicazione

Le nuove tecnologie e le forme sociali ed economiche da

queste plasmate sono spesso state superficialmente descritte ed

esaltate come realtà in grado di prescindere da qualsiasi

dimensione spaziale e di trascendere – o uccidere … – le distanze

(Bonora 2001; Ortoleva 2001). Eppure le reti che ne

costituiscono la manifestazione più eclatante e dirompente sono,

in quanto tali, l’espressione di una certa organizzazione e

modellazione dello spazio. Osservata nel suo insieme Internet è il

risultato del collegamento progressivo di una quantità

impressionante di reti e sottoreti di computer, auto-organizzate

in modo semigerarchico sulla base di una molteplicità di snodi

principali (hubs) e di zone periferiche punteggiate di nodi

connessi tra loro in diversa misura, che concorrono a disegnare

nello spazio un complesso reticolare (Buchanan 2003). La

società e l’economia informazionale, in quanto fondate sul

funzionamento di tali reti, possiedono di fatto alcune peculiari

dinamiche spaziali, modellate dall’interazione fra i circuiti

comunicativi incarnati nelle infrastrutture di telecomunicazione

e nei dispositivi di collegamento, e i luoghi che questi

attraversano.

Come accennato in precedenza, l’esclusione sociale colpisce,

oltre che individui, gruppi sociali e famiglie, anche i territori

(quartieri, città, regioni, interi Paesi), secondo dinamiche che si

Page 191: tesi

Capitolo III 172

differenziano dai tradizionali processi di segregazione spaziale e

riguardano piuttosto la capacità dell’economia e del sistema

informazionale di mettere in collegamento transterritoriale le

aree e i segmenti di società in grado di offrire valore sulle reti

globali, scaricando al contempo quelle realtà locali di scarso

interesse dal punto di vista dell’accumulazione capitalista. Le

dinamiche di esclusione e inclusione che interessano aree e

territori, danno luogo dunque ad una geografia peculiare della

società in rete che va a integrare le tradizionali distribuzioni

spaziali del potere e della ricchezza e articola i rapporti fra le reti

di comunicazione e i territori (Bonora 2001).

Sono gli stessi processi di moltiplicazione, frammentazione e

specializzazione delle reti, d’altra parte, a negare la presunta

isotopia del paradigma reticolare e a svelarne piuttosto i

caratteri di stratificazione, organizzazione gerarchica e

complessità di relazioni con i territori: le reti si differenziano,

così, nettamente in reti orizzontali, a carattere operativo, e reti

verticali, a carattere gestionale-decisionale; o ancora, più

drasticamente, in una minoranza di reti attive, nella diffusione di

significati, di senso, di innovazioni, e nella marea di reti passive,

i cui utenti si limitano a consumare o a eseguire compiti. Come

sottolinea Bonora (2001, p. 17-18) “bisogna saper distinguere

allora tra reti di significati, valori, codici condivisi, in cui la

comunicazione è frutto di reciprocità, di scambio paritario,

generatrici di coesione, dai circuiti funzionali, il cui scopo è la

mera trasmissione, il trasferimento, la velocizzazione del

comando, l’organizzazione e il coordinamento” – la

pianificazione e il controllo della razionalizzazione tecnocratica

– e nei quali “dobbiamo riconoscere flussi gerarchici, polarizzati,

unilaterali e squilibrati, in cui l’emittente trasmette le proprie

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Spazi Pubblici Digitali 173

informazioni-decisioni e il ricevente ha ruolo subordinato di

(intelligente) esecutore”.

In un’indagine orientata a svelare quali nuovi schemi di

inclusione/esclusione stia progressivamente sviluppando la

diffusione delle ICT nelle città di tutto il mondo, Stephen

Graham e Simon Marvin (2001) hanno mostrato come le reti

infrastrutturali stiano frammentando le aree urbane sia nei paesi

sviluppati sia in quelli in via di sviluppo. La competizione sul

mercato e le politiche di deregulation hanno creato differenze

straordinarie nella capacità di connettersi in rete in maniera

efficiente tra le città e all’interno delle città in tutto il mondo. Di

conseguenza, nel mondo, le aree chiave delle imprese vengono

equipaggiate con motori per le telecomunicazioni

all’avanguardia, formando dei “nodi glocali” (ibid.), vale a dire,

aree specifiche che si collegano attraverso il pianeta con aree

equivalenti in altre parti del mondo, rimanendo invece

disconnesse dal proprio hinterland. L’arretratezza degli spazi

svalutati nelle loro infrastrutture di telecomunicazioni rafforza il

loro isolamento e scava le trincee della loro esistenza basata sul

luogo. “Un nuovo dualismo urbano sta emergendo tra spazio dei

flussi e spazio dei luoghi: lo spazio dei flussi collega i luoghi

distanti sulla base del loro valore di mercato, della loro selezione

sociale e della loro superiorità infrastrutturale; lo spazio dei

luoghi che isola le persone nei loro quartieri come conseguenza

delle loro diminuite possibilità di accedere ad una località

migliore (a causa delle barriere dei prezzi), e anche alla globalità

(a causa della mancanza di un’adeguata connettività)” (Castells

2001).

Page 193: tesi

Capitolo III 174

2.2 La relazione fra lo spazio dei flussi e lo spazio

dei luoghi

Le geografie della comunicazione (e dell’esclusione in rete)

sono attraversate dalla dialettica fondamentale, evidenziata da

Castells, fra lo spazio dei flussi, in cui operano le reti del

capitale, della finanza, dei media transnazionali, e lo spazio dei

luoghi, in cui si concentrano il lavoro, il consumo e la vita

quotidiana delle persone e in cui si accumulano le conseguenze

materiali della sconnessione dalle reti globali (Castells 1996).

Una dialettica in grado di sussumere l’opposizione fondamentale

fra globalità e localismo, articolandola in una relazione

contraddittoria oscillante fra complementarietà e conflitto.

Le metropoli e le “megacittà” (Castells 1996), in cui vive una

quota maggioritaria e in crescita della popolazione mondiale,

sono gli snodi fondamentali di questa dialettica. Esse

partecipano infatti, a diverso livello, di entrambe le articolazioni

spaziali, costituite allo stesso tempo di luoghi fisici e di flussi

elettronici, in continua interazione fra loro. La “città globale”

descritta da Sassen (1991) si presta a rappresentare il paradigma

di questa ambivalente sovrapposizione funzionale fra i flussi e i

luoghi: il concetto si riferisce infatti all’articolazione globale fra

specifici segmenti di diverse metropoli (in particolare i nodi

strategici di Londra, New York e Tokyo), tra loro collegati

elettronicamente per costituire una rete di controllo delle attività

dell’intero pianeta. Da un altro punto di vista si può notare come

la vita quotidiana nei luoghi delle metropoli sia segnata

dall’incessante interazione con sistemi di informazioni che

operano nello spazio dei flussi: quest’ultimo è radicato nello

spazio dei luoghi, ma nondimeno le due logiche sono

profondamente diverse.

Page 194: tesi

Spazi Pubblici Digitali 175

Lo spazio dei flussi origina dalla contemporanea dispersione

e concentrazione dei servizi avanzati che costituiscono il nucleo

di tutti i processi economici dell’economia informazionale e

consistono nella generazione e nel trattamento di conoscenza e,

appunto, flussi di informazione (Castells 1996). Se i processi

dominanti della nostra vita economica, politica e simbolica sono

espressi da flussi (di capitale, informazione, tecnologia,

immagini, suoni, simboli), allora il loro supporto materiale sarà

l’insieme degli elementi che supportano tali flussi. Lo spazio dei

flussi è descritto da tre strati di supporti materiali: “un circuito

di scambi elettronici”, ossia l’infrastruttura tecnologica della

rete; “nodi e snodi”, organizzati secondo una gerarchia variabile,

che coordinano i diversi elementi delle reti e svolgono funzioni

chiave al loro interno; “l’organizzazione spaziale delle elite

manageriali dominanti” che, al fine di conservare il dominio

tramite il possesso dei “codici culturali”, opera secondo la

duplice dinamica di una autosegregazione simbolica (e in alcuni

casi fisica, nelle “comunità recintate”) e di un’omologazione

globale degli stili di vita e dell’ambiente simbolico e

architettonico dell’elite.

Secondo Castells (1996, p. 542) nelle condizioni della società

in rete, in cui il capitale si differenzia e si coordina globalmente e

il lavoro si frammenta e si individualizza, "la lotta di classe fra

capitalisti diversificati e classi operaie miscellanee è sussunta

nella più fondamentale contrapposizione tra la nuda logica dei

flussi di capitale e i valori culturali dell'esperienza umana" che si

svolge nello spazio dei luoghi.

Nel processo di espansione della filiera produttiva e della

catena del valore “oltre le mura della fabbrica”, luoghi e territori

fisici sono integrati nelle dinamiche della valorizzazione e della

competizione economica basate sul potere connettivo delle reti e

Page 195: tesi

Capitolo III 176

delle tecnologie dell’informazione. Saperi incarnati nel tessuto

sociale, caratteri storici e culturali, infrastrutture fisiche e

logiche, istituzioni locali, livelli di qualità della vita, immagini e

riflessi; le risorse che emanano dal territorio svolgono dunque il

ruolo di assets da giocare nella competizione globale per attrarre

attività economiche redditizie (Bonomi 1999; Castells 1996). “I

sistemi locali rappresentano sotto questo profilo perfetti

comparti produttivi, dove tutta la società, il tessuto delle intese e

delle relazioni, i legami fiduciari, la comunanza di obiettivi e di

valori, sono coniugati in un'unica direzione” (Bonora 2001, p. 9).

D’altra parte questa integrazione nei flussi globali, se evita

marginalità ed esclusione dalle reti, comporta anche il più delle

volte relazioni di dipendenza e l’erosione delle risorse culturali

per via della loro “mercificazione” (p. 22-23, 31).

Parallelamente i processi di innovazione tecnologica e

sociale relativi ai nuovi media sono fortemente influenzati e

indirizzati dai caratteri della località. Vediamone tre esempi. In

primo luogo la stessa produzione dell’innovazione tecnologica

che ha dato il via e che alimenta l’economia inormazionale è

legata alle condizioni di prossimità spaziale e alla specifica

localizzazione dei milieux d’innovazione. Poi, lo sviluppo

commerciale di Internet presenta forti connotazioni spaziali

riscontrabili nella dislocazione fisica di routers e dorsali e nella

geografia delle coperture satellitari e della produzione di

software e contenuti (Castells 2001; vedi paragrafo seguente).

Infine, Le tecnologie wireless a banda larga, indicate da molti

osservatori e analisti come la promessa di una connettività

universale e ubiqua, si prestano dal canto loro a dar forma ad

una realtà, “aumentata” dalle reti mobili di comunicazione ma

vissuta (e condivisa) nello spazio fisico, in cui network sociali,

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Spazi Pubblici Digitali 177

fisici e virtuali si mescolano per dar vita a nuove configurazioni

sociali ibride mediate dalle tecnologie (Rheingold 2002).

Le forze che più spingono verso la deterritorializzazione

delle relazioni sociali (lo sviluppo dell’economia informazionale

globale e quello delle reti di comunicazione) sono allora

paradossalmente le stesse che ridanno centralità ai luoghi. In

tale cortocircuito le risorse della “località” acquistano però un

valore che è tale non più per le comunità che le producono e le

incarnano, ma per gli attori globali che detengono il potere di

connettere e sconnettere i nodi delle reti e sottomettono tali

risorse alle logiche strumentali dell’economia informazionale.

Ruolo degli attori istituzionali pubblici e privati, allora, dovrebbe

e potrebbe essere quello di ristabilire una centralità dei luoghi

connessi in rete che ridia autonomia alle comunità che li abitano,

incrementando allo stesso tempo le opportunità di accesso e uso

efficace delle nuove tecnologie, e concentrandosi più che sul

“valore di scambio dei luoghi (e delle loro immagini)”, sul loro

“valore d’uso da parte delle collettività” (Bonora 2001).

2.3 La geografia di Internet

Costituendo Internet il principale ambiente di

comunicazione della "rete globale", gli squilibri e le dinamiche

spaziali fin qui evidenziate si intrecciano e in parte si

sovrappongono alla complessiva geografia di Internet (Castells

2001, cap. 8). Quest’ultima, riaffermando peraltro la centralità

delle coordinate spaziali pur nel contesto della complessiva

ridefinizione delle distanze operata dalle ICT, si riferisce alla

dislocazione fisica nel pianeta delle infrastrutture di

telecomunicazione, dei centri di produzione, elaborazione,

trasmissione e fruizione dei formati digitali che danno forma e

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Capitolo III 178

sostanza ad Internet, e dei luoghi connessi e attraversati dai

flussi informazionali. La geografia di Internet è a sua volta

coerente con il più ampio paesaggio delle telecomunicazioni e

dell’industria culturale e con le loro “cartografie”, ed è integrata

nelle discontinuità della geografia fisico-politico-economica del

pianeta 77.

Concentrando in particolare la nostra attenzione sulle

dinamiche di esclusione e disuguaglianza nella società in rete

legate alla relazione costitutiva fra flussi e luoghi, possiamo

distinguere, con Castells (2001, p. 195-210) tre prospettive da cui

osservare la dimensione geografica di Internet – vale a dire del

medium su cui si basa in larga parte questa inedita

configurazione sociale – e le relative disuguaglianze che vanno a

comporre parte dello scenario del digital divide: la geografia

tecnologica, la geografia degli utenti e la geografia della

produzione di Internet.

2.3.1 La geografia tecnologica

La geografia tecnologica si riferisce al paesaggio disegnato

dalle linee e dalle tecnologie di telecomunicazione dedicate al

traffico di pacchetti di dati su Internet 78. Essa concerne, quindi,

la dislocazione geografica dei grandi cavi sottomarini e terrestri

e dei satelliti geostazionari che forniscono connettività alle

diverse aree del pianeta, insieme a quella dei principali router

che instradano il traffico Internet fra gli ISP (Internet Service

Provider) di primo livello; da queste infrastrutture di base, che

costituiscono la “dorsale” di Internet, e dalle reti fisiche che

raggiungono i singoli Paesi, dipende inoltre l’ampiezza di banda

di cui questi ultimi dispongono.

Da tale prospettiva geografica emerge dunque una

distribuzione territorialmente irregolare delle infrastrutture di

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Spazi Pubblici Digitali 179

rete e, di conseguenza, dell’ampiezza di banda disponibile, con

un deciso squilibrio a favore del Nord America, che in effetti

concentra la maggior parte dei flussi di traffico IP – in molti casi

anche solo come tappa di passaggio intermedia 79. A seguire, nella

graduatoria dell’ampiezza di banda disponibile, si posizionano,

nell’ordine, Europa e Asia, più indietro Oceania e America Latina

e, staccatissima, l’Africa (figura 1). Questo quadro complessivo si

riflette nelle marcate discontinuità presenti anche all’interno dei

continenti fra aree geografiche e singoli Paesi e, aumentando

ulteriormente la risoluzione, nella distribuzione irregolare della

qualità della connessione fra le regioni di un Paese o le zone di

un’area metropolitana 80. In un ottica complessiva, “[…] la

dipendenza dagli Stati Uniti viene progressivamente rimpiazzata

dalla dipendenza tecnologica da un network di reti a banda larga

che collega la maggior parte dei principali centri metropolitani

del mondo con i nodi principali in larga misura ancora localizzati

negli USA” (Castells 2001. p. 197).

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Capitolo III 180

Figura 1. Ampiezza di banda disponibile per diverse aree geografiche. 2004.

Fonte: www.telegeography.com

Le tecnologie wireless della “famiglia” 802.xx 81, impongono

poi una nuova dimensione locale alla geografia tecnologica di

Internet: le caratteristiche tecniche delle reti senza fili, basate

sulla codifica e la trasmissione di dati per mezzo di segnali radio

dalla portata più o meno estesa, ne rende l’accesso fortemente

dipendente dalla localizzazione dei dispositivi di trasmissione.

Da un lato, quindi, questo insieme di tecnologie, esente dai costi

e dalla “pesantezza” delle infrastrutture su cavo (rame e fibra),

promette di fornire una soluzione ai problemi infrastrutturali che

minano quantità e qualità dell’accesso ad Internet nelle zone

remote e nei Paesi in via di sviluppo (Press 2003) 82; dall’altra

rischia di riproporre le dinamiche di disuguaglianza ad un

diverso livello, con zone servite dalla connettività ubiqua, mobile

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Spazi Pubblici Digitali 181

e a banda larga fornita dalle reti senza fili di ultima generazione

e altre tagliate fuori dall’innovazione tecnologica e dai relativi

benefici 83.

Negli ultimi anni negli Stati Uniti, ma anche in Gran

Bretagna, Finlandia e Spagna, si sono moltiplicati progetti,

sostenuti dalle amministrazioni locali e dalla mobilitazione dal

basso di attivisti e piccoli operatori, volti a creare “reti wireless

municipali” o “comunitarie” complementari o alternative ai

sistemi tradizionali e agli operatori dominanti delle

telecomunicazioni; questi progetti si sono però dovuti

confrontare in molti casi con le resistenze opposte dalle

principali compagnie di telecomunicazione e con le

regolamentazioni delle agenzie governative del settore tese a

favorire le posizioni di mercato consolidate 84.

2.3.2 La geografia dell’accesso

La seconda prospettiva geografica relativa ad Internet, è la

geografia dell’accesso (o degli utenti; Castells 2001, p. 197), vale

a dire la distribuzione territoriale, estremamente disomogenea,

della popolazione in condizioni di accedere ad Internet, sia in

termini assoluti che in proporzione al numero di abitanti. Tale

disparità geografica nell’accesso costituisce una delle dimensioni

indagate nell’ambito degli studi e delle analisi sul cosiddetto

digital divide.

In questa sede, i dati relativi all’accesso vengono presentati

esclusivamente per operare un confronto macroscopico fra i

diversi livelli di diffusione di Internet per aree geografiche e

sottolineare in questo modo uno degli aspetti della dimensione

spaziale fra globale e locale delle ICT e di Internet in particolare.

I limiti della concezione ristretta di accesso cui si riferiscono

questi dati – limiti che verranno indagati nel terzo paragrafo –

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Capitolo III 182

non incidono più di tanto sulla definizione di questa dimensione

spaziale.

In effetti la dimensione territoriale si rivela una componente

fondamentale delle disparità nell’intensità e nella qualità

(stabilità e ampiezza di banda) dell’accesso ad Internet, legata

d’altronde alla geografia tecnologica appena discussa. All’interno

dei singoli Paesi si riscontrano linee di demarcazione fra regioni,

fra aree urbane e rurali, fra città e fra zone di una stessa città; i

livelli di disuguaglianza diventano macroscopici se si prendono

in considerazione le differenze fra grandi aree geografiche o fra

Paesi; in questi ultimi una minore diffusione delle nuove

tecnologie si accompagna di solito a sua volta a maggiori

squilibri interni, su base geografica ma non solo.

Le elaborazioni statistiche effettuate da diverse

organizzazioni sulla base dei dati pubblicati da organismi

internazionali come l’ITU 85 e da istituti di consulenza privati

come Nielsen-NetRatings, oltre che da agenzie governative o

private locali, ci aiutano a fornire un quadro d’insieme

approssimativo della diseguale distribuzione dell’accesso ad

Internet a livello globale. I dati più recenti (febbraio-marzo

2005), raccolti ed elaborati sul sito Internet World Stats,

indicano un numero complessivo di circa 890 milioni di “utenti”

Internet 86 nel mondo, con un incremento di quasi due volte

rispetto al dicembre 2000 e corrispondente al 13,9 % della

popolazione mondiale. Lo squilibrio nella distribuzione globale

di Internet è evidente se si prende in considerazione la

percentuale di utenti rispetto alla popolazione complessiva delle

diverse aree geografiche (figura 2).

Il Nord America (con il 24,9 % degli utenti mondiali) guida

nettamente la classifica con un tasso di penetrazione del 67,4 % e

percentuali molto simili per Stati Uniti e Canada; a seguire

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Spazi Pubblici Digitali 183

troviamo l’Oceania, che conta per un 1,8 % dell’utenza mondiale,

ma presenta un tasso del 48,6 %, a cui contribuiscono però

soprattutto i valori di Australia e Nuova Zelanda. In Europa

(29,2 % sul totale) la media di 35,5 utenti su 100 è viziata da

forti squilibri interni che vedono tassi di penetrazione stimati fra

il 35 e il 70 % per la maggior parte dell’”Europa dei 15”, per

alcuni dei Paesi di recente integrazione e per pochi altri come

Norvegia, Svizzera e Islanda, e valori decisamente più bassi per

la maggior parte dei Paesi dell’Est e per la Grecia. L’America

Latina, con una quota del 6,3 % e una media di penetrazione del

10,3 %, è anch’essa caratterizzata da forti disuguaglianze al suo

interno, con percentuali più alte della media, in ordine crescente,

per Perù, Brasile, Argentina, Costa Rica e soprattutto Cile e

Uruguay. Situazione simile per l’Asia – in cui, nonostante una

quota sul totale del 34 %, determinata dall’elevato numero di

abitanti, e percentuali per alcuni Paesi tra le più alte al mondo

(Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Taiwan) la

penetrazione media non supera l’8,4%; e per il Medio Oriente

(appena il 2,2 % del totale), in cui il valore medio di 7,5 % è il

frutto di una penetrazione sostenuta solo in Israele e media in

alcuni emirati e in Libano. In fondo alla classifica, nettamente

distanziata, l’Africa, nonostante ospiti il 14 % della popolazione

mondiale, conta solo per un misero 1,5 % degli utenti totali di

Internet e presenta un uguale valore del tasso di penetrazione, a

cui contribuiscono però ben pochi Paesi: Sud Africa ed Egitto,

che insieme concentrano quasi la metà di tutti gli utenti Internet

dell’Africa, poi Marocco, Tunisia e Nigeria e i piccoli Stati-isola

mete del turismo esotico internazionale, tutti comunque con

valori inferiori al 10 %.

Nonostante l’impetuosa crescita del numero degli utenti

(addirittura 55 volte quello stimato nel 1995, anno di debutto del

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Capitolo III 184

Web e avvio dell’Internet “di massa”), la globalità di Internet e le

idee di un “universalismo senza totalità” (Levy 1994), di una

“morte delle distanze” e della fine della geografia si sono rivelate

nel migliore dei casi “pie illusioni”, e nel peggiore vere e proprie

mistificazioni (Bonora 2001; Ortoleva 2001): anche solo la

semplice e generica possibilità di accedere ad Internet è

riservata, secondo queste stime, a meno di un ottavo della

popolazione mondiale, concentrato per lo più sulle due sponde

dell’Atlantico, in alcune aree dell’Asia e dell’Oceania e in pochi

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Figura 2. Penetrazione di Internet e percentuale degli utenti sul totale per ciascun Paese. Settembre 2004.

Fonte: www.zooknic.com

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Capitolo III 186

Paesi dell’America Latina e del Medio Oriente; senza considerare

che a livello di singolo Paese si registrano comunque, in misura

variabile, ulteriori disparità nell’accesso, legate, oltre che alla

dimensione spaziale, anche e soprattutto alle condizioni socio-

economiche. Da un punto di vista complessivo, lo squilibrio

globale nell’accesso ad Internet è ben riassunto dal dato secondo

cui i primi 20 Paesi per numero assoluto di “utenti” Internet

raggruppano l’81,9 % degli utenti mondiali 87.

Il continente africano rimane quasi completamente tagliato

fuori da questa opportunità, se si esclude un numero ridotto di

Paesi, in cui i tassi di penetrazione rimangono comunque molto

bassi. Le dinamiche di crescita recenti – ovviamente più intense

nei Paesi in cui livelli di diffusione iniziali erano più bassi – non

hanno intaccato in maniera sostanziale gli squilibri globali e nei

Paesi in via di sviluppo hanno finito per aggravare quelli interni,

incrementando dotazione tecnologica e possibilità di accesso alla

Rete delle elites, residenti nei centri urbani e appartenenti alle

classi sociali più elevate.

Gli squilibri geografici nella diffusione di Internet all’interno

dei singoli Paesi sono molto significativi un po’ dappertutto e si

rivelano, per altro, tra i più persistenti: nonostante, infatti,

l’incremento della penetrazione di Internet si traduca in quasi

tutti i Paesi più sviluppati in una riduzione delle disuguaglianze

nell’accesso lungo le principali linee di demarcazione socio-

economica (Di Maggio e Hargittai 2001), rilevanti divari

geografici nell’intensità e nella qualità dell’accesso – fra aree

urbane e rurali, fra città di diverse dimensioni e addirittura fra

diverse aree di una stessa città – permangono negli Stati Uniti

(NTIA 2000) e in molti Paesi europei integrati o meno nel

processo di unificazione, peraltro con un’anomala e curiosa

eccezione rappresentata dall’Italia (Commissione Europea 2005).

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Spazi Pubblici Digitali 187

Se queste disuguaglianze sono certamente legate ai fattori

socioeconomici che continuano a determinare il grado di accesso

alle ICT (reddito, istruzione ed età su tutti) e che si

sovrappongono alla distribuzione geografica, nondimeno la

geografia tecnologica di Internet gioca in esse un ruolo

importante. Il fenomeno è poi ancora più accentuato nella

maggior parte dei Paesi in via di Sviluppo con tassi di

penetrazione significativi (Warschauer 2003; Servon 2002).

Oltre alla stima del numero di utenti, l’altro metodo di solito

utilizzato per misurare l’estensione di Internet e gli squilibri

nella sua diffusione geografica è il calcolo, rispettivamente, del

numero totale e della densità in ogni Paese degli Internet hosts,

cioè dei dispositivi connessi alla Rete e dotati di un “indirizzo IP”

attivo. Il primo valore fornisce un’indicazione della dimensione

minima raggiunta dalla Rete nel suo complesso, in quanto non

esiste una correlazione diretta fra numero di hosts e utenti e un

host può corrispondere ad un singolo computer come ad un

server che “nasconde” un’intera rete locale. Questo valore,

rimasto su valori bassi fino a tutti gli anni Ottanta (313.000

hosts nel 1990) è cresciuto in maniera esponenziale

dall’esplosione del Web a metà degli anni Novanta fino ad oggi,

passando dai 5 milioni del 1995 agli attuali 318.

Il secondo valore, relativo alla distribuzione geografica degli

hosts in termini assoluti e relativi (figure 3 e 4), è a sua volta

soggetto ad un margine di errore, legato all’impossibilità di

assegnare in modo univoco un host ad una determinata

collocazione geografica. In realtà questo metodo non stabilisce la

collocazione geografica di un determinato dispositivo connesso

alla Rete ma quella corrispondente al “dominio di primo livello”

del suo indirizzo IP 88. I valori effettivamente riscontrati per i

singoli Paesi e parzialmente corretti per tener conto di queste

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Capitolo III 188

imprecisioni, ricalcano a grandi linee gli squilibri osservati nella

distribuzione degli utenti, seppure con alcune eccezioni. Da un

lato, infatti, si evidenzia il maggior “peso” di alcuni tra i Paesi

più “connessi” nella concentrazione di host rispetto alla

percentuale di utenti, bilanciato comunque da un netto

predominio del Nord

America, ed in particolare degli Stati Uniti, i quali

concentrano il 62 % degli hosts mondiali 89; dall’altro si osserva,

però, un vantaggio ancora maggiore, nella concentrazione degli

hosts, a favore di quei Paesi e quelle aree già con tassi di

penetrazione più alti.

Figura 3. Numero di host Internet ogni 1000 abitanti per ciascun Paese del Mondo. Dicembre 2004.

Fonte: www.gandalf.it

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Figura 4. Numero di host Internet ogni 1000 abitanti per ciascun Paese Europeo. Dicembre 2004.

Fonte: www.gandalf.it

2.3.3 La geografia della produzione

Nell’indagare le discontinuità spaziali che segnano la

diseguale diffusione di Internet, la natura del mezzo fa sì che alla

valutazione della distribuzione geografica dei semplici fruitori si

debba necessariamente aggiungere quella relativa ai fornitori,

vale a dire ai “nodi” della Rete che generano, processano e

distribuiscono informazioni. In questo modo si evidenza una

nuova fondamentale prospettiva geografica da cui osservare le

disuguaglianze digitali, quella relativa alla produzione non solo

dei contenuti, ma anche dei servizi, del software e delle

tecnologie, che costituiscono la Rete delle reti e il Web; mentre è

possibile ipotizzare che negli anni a venire l’uso di Internet si

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Capitolo III 190

diffonda anche al di là delle attuali barriere geografiche e sociali,

questa geografia economica della produzione di Internet si

rivela invece più selettiva e ancorata ai tradizionali modelli di

dipendenza culturale ed economica verso un esiguo numero di

Paesi e addirittura di aree circoscritte al loro interno.

La produzione dei dispositivi e delle tecnologie alla base di

Internet si intreccia alla più complessiva produzione di ICT e si

concentra in effetti in pochi nodi tecnologici globali, in cui

grandi imprese, start-up e piccoli fornitori intessono reti

produttive a partire da pochi milieux d’innovazione gravitanti

intorno a grandi aree metropolitane, vecchie o nuove,

riconvertite dalle vecchie funzioni industriali o di nuova

informazionalizzazione (Castells 1996). Un modello

d’insediamento simile si registra anche per le società di software,

per i service providers e per le società che gestiscono i principali

portali che costituiscono la soglia d’ingresso per la maggior parte

degli utenti della Rete (Castells 2001). Le politiche di

esternalizzazione e delocalizzazione di molte aziende hi-tech

hanno in parte sostenuto lo sviluppo di alcuni altri nodi

tecnologici sussidiari sparsi per il mondo (come Bangalore in

India per il software, o l’area di Pudong, di fronte a Shangai, in

Cina per le componenti elettroniche, o il cosiddetto

“supercorridoio multimediale” in Malesia), ma il più delle volte

questi nodi si sono costituiti come vere e proprie enclaves di

ricchezza e innovazione, imprigionati comunque in ruoli

subalterni rispetto alle grandi corporations statunitensi, europee

e giapponesi e in stridente contrasto con contesti nazionali

caratterizzati non solo dal forte ritardo tecnologico, ma anche dai

fenomeni della povertà e dell’esclusione sociale.

La produzione di Internet non si limita alle società che

fabbricano le tecnologie o sviluppano software e servizi. La

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Spazi Pubblici Digitali 191

geografia di Internet è anche e soprattutto segnata dalla

distribuzione dei soggetti che forniscono i contenuti, registrando

un dominio e immettendo, processando e distribuendo

informazioni. La distribuzione territoriale dei provider di

contenuto di Internet, sulla base dell’indirizzo postale di un

campione casuale di società proprietarie di un dominio, è stata

indagata tra il 1996 e il 2001 dal ricercatore americano Matthew

Zook per l’intero mondo, l’Europa, gli Stati Uniti e per 2500 città

(Castells 2001) 90. I dati confermano sostanzialmente quanto già

rilevato rispetto alla produzione di tecnologie e servizi,

mostrando una concentrazione dei domini nei Paesi più

sviluppati, con un netto predominio degli Stati Uniti, e nelle aree

metropolitane, in particolare quelle più grandi. La

concentrazione dei domini a livello globale è però maggiore di

quella degli utenti, “a suggerire una crescente asimmetria fra

produzione e consumo dei contenuti di Internet, con gli Stati

Uniti che producono per tutti gli altri e il mondo sviluppato che

produce per il resto del mondo” (Castells 2001, p. 204). Anche

rispetto all’effettivo impatto dei contenuti, gli Stati Uniti

dominano nettamente sia la classifica del numero di pagine viste,

sia quella dei siti più visitati. In contrasto con la diffusione

dell’uso di Internet dalle sue zone originarie di sviluppo, la

fornitura di contenuti è sempre di più, ed in maniera

predominante, un fenomeno metropolitano: nel 2000 le 500 città

al mondo con il maggior numero di domini contavano per il 12,4

% della popolazione e per il 70 % di tutti i domini. Lo stesso

predominio degli Stati Uniti riflette in realtà l’altissima

concentrazione dei domini Internet nelle principali aree

metropolitane del Paese – e addirittura in alcune aree specifiche

di queste città –, che corrispondono più o meno alle stesse che

hanno dato il via allo sviluppo dell’Internet commerciale. Anche

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Capitolo III 192

in un settore di attività, come la fornitura dei contenuti di

Internet, che sembrerebbe sganciato da grandi investimenti e

quindi più libero di svilupparsi in maniera decentrata e

delocalizzata, la concentrazione territoriale, in particolare

metropolitana, è invece la norma, risultando addirittura più alta

che in altre industrie.

La forza culturale ed economica delle metropoli le ha rese

l’ambiente privilegiato dello sviluppo delle tecnologie

dell’informazione e della comunicazione: la disponibilità di

infrastrutture, un ambiente culturale sensibile all’innovazione e

al cambiamento, la presenza di istituzioni accademiche e di

ricerca in cui conoscenze e informazioni possano entrare in

sinergia e, non meno importante, la presenza di capitale di

rischio pronto ad essere investito nello sviluppo e nella

commercializzazione dei nuovi prodotti, tutti questi elementi,

rafforzandosi a vicenda, hanno avvantaggiato i grandi nodi

globali costituiti dalle aree metropolitane delle economie

avanzate. Nel caso della fornitura dei contenuti, i fattori appena

elencati e l’ambiente d’innovazione e imprenditoriale a cui danno

luogo favoriscono a loro volta la concentrazione metropolitana

dei domini Internet; ad essa contribuisce inoltre la forte

presenza delle organizzazioni che producono e trattano

informazione (finanza, media, intrattenimento, formazione,

sanità, tecnologia). Anche nello scenario di un’”economia

immateriale” e globale, in cui le materie prime sono costituite da

creatività, informazione, conoscenza e capacità organizzative e

sinergiche, e l’attività produttiva è in grado di espandersi ben al

di là dei confini nazionali grazie alle reti e ai trasporti aerei, il

valore aggiunto di certi luoghi rispetto ad altri rimane

fondamentale, e anzi si rafforza, proprio in virtù del vantaggio in

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Spazi Pubblici Digitali 193

termini di risorse culturali ed economiche accumulato in

precedenza.

Quasi a dare concretezza a questa rafforzata centralità dei

luoghi, in contrapposizione alla volatilità dei flussi

informazionali, il settore immobiliare continua a rappresentare

una cospicua fonte di guadagno, una delle principali leve del

potere economico e politico e uno dei più rilevanti indicatori

delle dinamiche economiche, anche, e in alcuni casi soprattutto,

nelle aree maggiormente coinvolte nella produzione di tecnologie

e servizi legati all’informazione e alla conoscenza. La rilevanza

del mercato immobiliare si può osservare, nel cuore stesso della

rivoluzione informatica, nell’andamento parallelo registrato nel

mercato dei titoli tecnologici e in quello dei prezzi degli immobili

della Silicon Valley, o nell’allarme suscitato dalla crisi che sta

attraversando da qualche mese il “mercato della casa” in tutta la

California. In Europa, gli sforzi compiuti dall’amministrazione di

Barcellona per dare alla città un nuovo volto informazionale, in

termini di immagine, ma anche di servizi e settori economici

trainanti, si sono concretizzati, tra l’altro, in progetti da milioni

di euro, finalizzati alla riqualificazione di alcune aree urbane

industriali, in vista di una loro trasformazione in “poli

tecnologici”, pronti ad ospitare importanti società multinazionali

nei settori dell’hi-tech e in quelli dei servizi informatici e

telematici. Ma finora, più che convogliare capitali e attività

economiche dei settori più innovativi, questi progetti hanno

innescato una dinamica di massicci investimenti e speculazioni

nel vecchio e conservatore mercato immobiliare, che da un lato

ha arricchito i pochi attori di un mercato fortemente

concentrato, e dall’altra ha fatto sentire i suoi effetti sulle già

precarie condizioni abitative delle classi sociali svantaggiate.

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Capitolo III 194

3. Dal digital divide all’inclusione sociale nella società in rete

3.1 Il digital divide: origini e dimensioni principali

L’espressione digital divide è venuta alla ribalta negli Stati

Uniti a metà degli anni Novanta. Un intreccio di orientamenti

politici e interessi economici guidava allora l’enfasi posta

dall’amministrazione Clinton sulle “autostrade

dell’informazione”, sull’“infrastruttura globale

dell’informazione” e sulle opportunità messe a disposizione dalle

ICT per il progresso materiale e spirituale del popolo americano

e dell’umanità in generale (Morawski 2001). Orientamenti e

interessi, dunque, che miravano ad estendere e ad accelerare il

processo di ristrutturazione capitalista e la sua dimensione

tecnocratica, legittimandosi al contempo attraverso la promessa

di una società dell’informazione inclusiva che avrebbe eliminato

disuguaglianze ed esclusione sociale (Selwyn 2002).

Nel giro di pochi anni dalle sue prime apparizioni, il termine

digital divide ha rimpiazzato nell’agenda politica e mediatica le

definizioni coniate e diffusesi dall’inizio del decennio per

riferirsi alle disuguaglianze nell’accesso a e nell’uso delle risorse

di informazione (information inequality, information and

communication poverty, information haves and have-nots)

(Selwyn 2002) e indagare la relazione fra tali squilibri e le

disuguaglianze sociali ed economiche. Questi antecedenti del

digital divide, forse in alcuni casi (information inequality;

information poverty) più adatti a cogliere la gradualità dei

fenomeni osservati e l’aspetto cruciale delle disuguaglianze nella

società dell’informazione, avevano inoltre sollevato la questione

di come le “disuguaglianze di informazione” e quelle sociali

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Spazi Pubblici Digitali 195

potessero essere entrambe inasprite o ridotte dall’avvento delle

nuove tecnologie (Wresh 1996; Selwyn 2002; Norris 2001).

In questo scenario il “digital divide” è emerso come

espressione politica della volontà di rimuovere gli ostacoli che

impedivano di realizzare davvero ciò che era stato promesso, cioè

maggiori opportunità economiche e sociali per tutti, nessuno

escluso. In una simile prospettiva, l’ostacolo maggiore sarebbe

rappresentato dall’impossibilità per le categorie sociali già

svantaggiate di accedere al computer e ad Internet e, in misura

minore e soprattutto nelle aree rurali, al telefono; impossibilità

che avrebbe l’effetto, al contrario, di inasprire le disuguaglianze.

La differenza fra chi ha accesso a queste tecnologie e chi no è

appunto un digital divide, una frattura, un “linea di

demarcazione” che separa la società mondiale in connessi e

disconnessi: nell’età dell’informazione la disuguaglianza

fondamentale è fra chi ha accesso all’informazione e alle relative

tecnologie e chi no (Wresh 1996). Per quanto nel corso del tempo

questa concezione si sia articolata e diversificata, se non altro

per rispondere alla progressiva penetrazione di questi strumenti

nelle società, essa rimane ancora oggi alla base della maggior

parte delle riflessioni, degli studi e, cosa più importante, delle

politiche e delle iniziative, che riguardano il digital divide.

Il presupposto più o meno implicito di tutti i discorsi, gli

studi e le ricerche sul digital divide è che nelle attuali società

dominate dall’informazione, dalla conoscenza e dalla

comunicazione, il mancato accesso a queste risorse e alle più

avanzate tecnologie che ne permettono la manipolazione e il

trattamento, tra cui i computer e Internet, costituisca di per se

un fattore di riduzione delle opportunità sociali ed economiche e

una fonte di esclusione sociale per individui, comunità e interi

Paesi. Parallelamente si istituisce un analogo legame fra l’accesso

Page 215: tesi

Capitolo III 196

a queste tecnologie e la creazione di ricchezza, lo sviluppo

economico, l’inclusione sociale e un’ampia gamma di benefici per

gli individui connessi e la società nel suo complesso. Di

conseguenza obiettivo prioritario di governi e istituzioni

internazionali sarebbe bridging the digital divide, costruire un

ponte sulla frattura, attraversarla, superarla, colmarla, per

garantire ai cittadini e alle popolazioni un’eguale opportunità di

godere di questi benefici.

Il tema ha suscitato quindi l’interesse di diversi soggetti del

mondo politico, economico, accademico e della “società civile”:

governi e istituzioni un po’ in tutte le economie avanzate,

organismi e istituzioni internazionali (Banca Mondiale, OECD,

ONU, G8) e relative agenzie specializzate, fondazioni e società

for-profit e non, “organizzazioni non governative” e dipartimenti

di ricerca hanno cominciato ad indagare le dimensioni del

fenomeno, a proporre soluzioni e ad attuare interventi. L’accento

è stato posto fondamentalmente su due tipi di divario

nell’accesso alle nuove tecnologie (soprattutto computer e

Internet): da un lato il divario all’interno dei Paesi, alle volte

indagato in un’ottica comparativa; dall’altro le disuguaglianze

fra Paesi e aree geografiche. Nel primo caso si è parlato di un

social divide (Norris 2001). Nel secondo caso si è parlato invece

di global (ibid.; Servon 2002) o international divide(ad es.

Castells 2001). Un terzo “fossato digitale”, il democratic divide, è

stato indicato da Norris (2001) in riferimento alle differenze fra

chi fa e chi non fa uso delle nuove tecnologie per partecipare

attivamente alla vita pubblica e politica.

Le disparità nell’accesso alle tecnologie informatiche

sembrano innanzitutto riprodurre le condizioni di disuguaglianza

economica e sociale riscontrate in altri ambiti, finendo in molti

casi per aggravarle. Le prime indagini sul divario sociale, svolte

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Spazi Pubblici Digitali 197

negli Stati Uniti dalla National Telecommunications and

Information Agency (NTIA) del Dipartimento del Commercio

americano, hanno rilevato, sulla base di analisi statistiche

bivariate, consistenti disparità nell’accesso a computer e Internet

legate all’appartenenza etnica, al reddito, all’istruzione,

all’occupazione, all’età, al genere, alla struttura familiare, alle

aree di residenza (zone urbane, rurali e inner cities) e alle

condizioni di disabilità (NTIA 1996, 1998; Carvin 2000; Cisler

2000). Nel corso degli anni, le analisi si sono fatte più articolate,

indagando un numero maggiore di variabili, individuandone le

interdipendenze e il peso relativo nel condizionare le probabilità

di accesso (analisi multivariata) e adottando una prospettiva

temporale, fondamentale per analizzare il processo di diffusione

delle tecnologie. Alcuni gap, quindi, si sono ridotti nel tempo,

fino a scomparire nel caso della disparità di genere, mentre altri

sono rimasti stabili, emersi ex novo o aumentati, via via che la

tecnologia e le sue applicazioni si diffondevano, progredivano e

si diversificavano (NTIA 1999, 2000; Servon 2002; Di Maggio et

al. 2001).

I dati sulla distribuzione irregolare dell’accesso alle nuove

tecnologie nei Paesi Europei (Commissione Europea 2005) e in

altri contesti ad economia avanzata hanno più o meno

confermato le tendenze osservate negli Stati Uniti, con alcune

differenze legate alle caratteristiche demografiche, agli specifici

modelli di stratificazione sociale, intervento pubblico e

regolamentazione dei mercati, e ad un complessivo, per quanto

in diminuzione, ritardo nella diffusione delle tecnologie

informatiche rispetto agli Stati Uniti. Ad esempio in quasi tutti i

Paesi Europei il gap di genere non si è ancora chiuso.

Nei Paesi in via di sviluppo mediamente le disparità

nell’accesso più accentuate rispetto a tutte le dimensioni

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Capitolo III 198

fondamentali sopra osservate per gli Stati Uniti e con un gap

particolarmente significativo fra principali centri urbani e zone

rurali; nella maggior parte dei casi la causa di questa maggiore

stratificazione è da riconducibile a livelli di disuguaglianza

sociale più alti che nelle economie avanzate, come nel caso

dell’India, della Cina o del Brasile, o di processi di crescita

economica incontrollata (Warschauer 2003). Nei Paesi più

poveri, infine, i divari sono pressoché irrilevanti, dati i

bassissimi livelli di penetrazione delle nuove tecnologie, che

beneficiano solo ristrettissime elites.

Per quanto riguarda il divario globale, si è riscontrata,

abbastanza prevedibilmente, una forte correlazione positiva fra il

livello dello sviluppo economico e sociale e la quantità

dell’accesso ad Internet e alle nuove tecnologie (Norris 2001). Il

grado di penetrazione delle nuove tecnologie in un Paese (sempre

misurato in termini di accesso a computer e Internet) è

“previsto” con buona approssimazione dal prodotto interno lordo

pro capite, con poche eccezioni relative in particolare ad alcuni

Paesi in via di sviluppo in cui le iniziative congiunte di governo,

società civile e imprese hanno incrementato l’accesso a livelli più

alti di quanto non farebbe pensare il grado di sviluppo

economico (Norris 2001). Secondo ricerche riportate da

Warschauer (2003) i fattori più fortemente correlati con il

livello di accesso ad Internet, sono la densità delle linee

telefoniche e il grado di competizione nel settore delle

telecomunicazioni; entrambi sono peraltro decisivi nel

determinare i costi di connessione, anch’essi strettamente

correlati con il tasso di penetrazione. Altri fattori, in ordine di

importanza, riguardano l’istruzione, il sistema mediatico e i

relativi livelli di fruizione, il grado di libertà politiche e

democrazia, la diffusione dell’inglese. Una visione d’insieme del

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Spazi Pubblici Digitali 199

global digital divide si può trarre dalla geografia dell’accesso

presentata nel paragrafo 2.1.2.

3.1.1 Le “ICT per lo sviluppo”

In riferimento al global divide merita un accenno il tema

delle ICT per lo sviluppo (UNDP 2001). Molte organizzazioni e

agenzie di sviluppo internazionali condividono infatti l’idea che

le ICT possano costituire per i Paesi poveri o in via di sviluppo

uno strumento imprescindibile per favorire crescita economica e

sviluppo umano e sociale, e consentire dunque loro di agganciare

il treno della globalizzazione. Secondo questa prospettiva, infatti,

le nuove tecnologie permetterebbero sia ai sistemi tecnologici,

sia a quelli economici e sociali di questi Paesi, di saltare alcune

tappe (leapfrogging) nel cammino verso lo sviluppo, la cui

direzione è naturalmente già inscritta nel loro destino di eterna

rincorsa all’Occidente ricco 91.

L’entusiasmo che circondava le nuove tecnologie a cavallo

del secolo ha certamente contribuito a forgiare questa fiducia

nelle nuove tecnologie, come altra faccia del digital divide e

ulteriore spinta a colmarlo. In questo senso si sono orientate

soprattutto le decine di rapporti e piani d’azione per “colmare il

divario” e sfruttare l’“opportunità digitale”, redatti a ritmo

incessante da una serie di istituzioni e organismi internazionali

dal 2000 in poi, spesso nell’ambito di apposite Task Force, come

quelle dell’ONU e del G8, o di iniziative dedicate, come la Global

Development Gateway della Banca Mondiale. In realtà negli

ultimi anni l’enfasi posta sul contributo delle ICT allo sviluppo

dei paesi più poveri è scemata di pari passo con la stagnazione

dell’economia mondiale registrata dopo le performances

americane degli anni Novanta, il boom della new economy e lo

scoppio della bolla borsistica nel 2001, e il conseguente ristagno

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Capitolo III 200

di tutto il settore tecnologico durato almeno fino ai primi mesi

del 2005.

L’idea, comunque, non ha cessato di ispirare conferenze,

reports e ricerche ed è stata d’altronde rilanciata nell’ambito

della prima fase del Summit Mondiale sulla Società

dell’Informazione, tenutasi a Ginevra nel Dicembre del 2003.

Essa ricalca in parte le speranze e le aspettative riposte negli

anni Settanta e Ottanta nel contributo che i media avrebbero

dato nei Paesi più poveri e in via di sviluppo all’alfabetizzazione

e all’istruzione di massa e ad una migliore distribuzione delle

informazioni, processi in grado a loro volta di promuovere lo

sviluppo economico e sociale (comunicazione per lo sviluppo).

Aspettative del resto .

Ora le ICT sembrano Le ICT non solo consentirebbero di

estendere la portata di tali opportunità attraverso una maggiore

forza comunicativa e un più efficiente sistema di trattamento e

distribuzione dell’informazione a costi molto più ridotti, ma

favorirebbero anche la produzione autonoma di informazioni e

contenuti e la costruzione e il supporto di reti. Le applicazioni

della telemedicina e dell’e-learning rappresentano solo due

esempi di come le nuove tecnologie possono in effetti contribuire

ad affrontare alcuni problemi cronici dei Paesi più poveri, come

la carenza di informazioni e cure mediche, o l’alto tasso di

analfabetismo, fattori che incidono negativamente sui parametri

complessivi dello sviluppo umano.

E in realtà alcuni progetti e utilizzi delle ICT nei Paesi in via

di sviluppo hanno dimostrato come ciò possa realmente accadere

solo se si tiene conto di un ampio insieme di fattori sociali,

politici, culturali ed economici (cfr. Warschauer 2003). In questo

senso molti sforzi sono stati rivolti, ad esempio, allo sviluppo di

progetti nell’ambito del cosiddetto e-government per lo

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Spazi Pubblici Digitali 201

sviluppo. Il governo italiano è impegnato in prima linea nella

cooperazione con alcuni Paesi africani e dell’est Europa per

favorire processi di razionalizzazione e informatizzazione delle

loro Pubbliche Amministrazioni, da un lato finalizzati

certamente ad un miglior controllo dei flussi migratori, dall’altro

rivolti a promuovere efficacia e trasparenza dell’azione pubblica

e un contesto legislativo e amministrativo più sicuro e stabile per

favorire un ambiente adeguato allo sviluppo di attività

economiche.

I benefici sociali possono ovviamente comportare un

aumento delle opportunità economiche e per questa via generare

ulteriore sviluppo. In alcuni casi le tecnologie sono state adottate

su piccola scala per migliorare il rendimento di alcune attività

economiche tradizionali, come la pesca o l’agricoltura, attraverso

l’utilizzo di Internet e dei telefoni mobili per ottenere

informazioni sui prezzi del pesce o delle derrate alimentari sui

diversi mercati, o informazioni sulle tecniche agricole o le

malattie di piante e animali. Dal punto di vista delle ricadute

sulla crescita economica complessiva, il contributo delle ICT nei

Paesi poveri o in via di sviluppo sarebbe analogo a quello

riscontrato nelle economie avanzate: in breve, riduzione dei

costi, migliore e più economico accesso alle informazioni,

possibilità di creare reti di impresa, aumento della produttività

del lavoro, creazione di un nuovo settore economico ad alta

produttività.

D’altra parte, se finora solo pochi Paesi in via di sviluppo

sono riusciti a sfruttare le ICT per partecipare alle reti globali o

semplicemente per promuovere lo sviluppo, ciò dipende

soprattutto da radicate e sedimentate carenze nelle infrastrutture

e nei livelli di istruzione. Per di più Paesi come l’India, in cui il

settore ICT è trainante, o la Cina, in cui le tecnologie sono

Page 221: tesi

Capitolo III 202

massicciamente adoperate per favorire la produttività, non

hanno beneficiato di processi di sviluppo complessivi, ma

piuttosto hanno assistito ad un aumento delle disuguaglianze

interne.

Sorv0liamo qui sulle ragioni che consiglierebbero di rivedere

le politiche di sviluppo, sganciandole da indici di crescita

economica e misurazioni del PIL (Harribey 2004) 92. Accenniamo

appena al fatto che dietro alla retorica delle “opportunità

digitali” fanno capolino gli interessi delle grandi corporations e

delle imprese multinazionali che operano nei settori

dell’Information Technology e delle Telecomunicazioni,

interessate esclusivamente ad ampliare mercati, in cui vendere i

propri prodotti e investire per poi sfruttare manodopera a basso

costo come quella che già oggi svolge funzioni di back-office in

diversi Paesi in via di sviluppo. Rimandiamo al terzo paragrafo

del secondo capitolo per mostrare come il software libero possa

davvero costituire un’opportunità di sviluppo autocentrato,

all’avanguardia e in grado di produrre effetti cumulativi e di rete.

Facciamo solo notare che le ultime considerazioni indicano come

l’impiego delle ICT per lo sviluppo debba prevedere come

minimo un’attenta valutazione delle opportunità precedenti e

delle disuguaglianze esistenti. Nel paragrafo 3.4 proporremo un

paradigma alternativo che focalizza l’attenzione sull’effettiva

integrazione delle ICT nelle società, nelle comunità e nelle

organizzazioni per promuovere più ampi processi di inclusione

sociale (Warschauer 2003).

3.2 Oltre il digital divide

Come abbiamo visto nella prima parte del capitolo, la

“società in rete” è attraversata da marcate disuguaglianze

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Spazi Pubblici Digitali 203

economiche e da estesi processi di esclusione sociale. Le

disuguaglianze nell’accesso alle nuove tecnologie rappresentano

senz’altro uno degli aspetti fondamentali dei fenomeni di

stratificazione sociale; in effetti, i due fenomeni sembrano

andare di pari passo, con le disuguaglianze nell’accesso che,

come rilevato dagli studi sul digital divide, riflettono le

disuguaglianze socioeconomiche e allo stesso tempo sembrano in

grado di inasprirne alcune dimensioni.

Insomma, non si può certo dire che l’avvento delle nuove

tecnologie abbia contribuito a livellare il campo delle

opportunità economiche e delle condizioni sociali, come era stato

invece previsto e promesso da molti profeti, ideologi o semplici

entusiasti della prima ora della società e dell’economia

dell’informazione. D’altra parte molte altre azzardate previsioni

riguardo i presunti benefici delle ICT sono state presto smentite

dai fatti, i quali hanno mostrato ancora una volta, se ce ne fosse

stato bisogno, come le tecnologie non esercitino un impatto

indipendente sulla società e come i due ambiti siano piuttosto

sovrapposti e inscindibilmente legati. Tanto più quando queste

tecnologie, come nel caso delle ICT concernono direttamente la

ridefinizione della comunicazione e delle relazioni umane.

Eppure il concetto di digital divide, per come e in quali

contesti è emerso e per come è stato utilizzato e trasformato in

azioni volte a colmarlo, e il parallelo paradigma delle ICT per lo

sviluppo sembrano largamente pervase dall’idea che le

tecnologie, indipendentemente da contesti e modelli d’uso,

possano da sole fare la differenza.

E’ necessario, allora, chiedersi se, in che misura e come la

nozione di digital divide sia adeguata ad indagare le complesse

relazioni fra le nuove tecnologie, ed in particolare Internet, e i

processi di stratificazione ed esclusione sociale a livello globale e

Page 223: tesi

Capitolo III 204

locale, e quindi a progettare e attuare politiche e iniziative volte

a contrastare questi fenomeni, che comprendano anche le

tecnologie, promuovendone impieghi mirati. Questa sembra

essere infatti la vera posta in gioco, più che la semplice

diffusione delle tecnologie. La nozione ed alcune sue premesse e

implicazioni appaiono del resto sempre più problematiche ad un

crescente numero di studiosi e ricercatori, che hanno tentato

negli ultimi anni di correggerne e ampliarne il raggio d’azione e

il significato, non solo per adattarli alle mutate dimensioni

dell’accesso e ai continui sviluppi di queste tecnologie, ma anche

per dare seguito ad una accresciuta consapevolezza delle

dinamiche di differenziazione e soprattutto dei processi e delle

risorse sociali coinvolte.

In molti, dunque, hanno cominciato a “ripensare”

(Warschauer 2003), “riconsiderare” (Selwyn 2002), “ridefinire”

(Servon 2002), “rimappare” (Strover 2003), “riconcettualizzare”

(Warschauer 2002) o andare “oltre il digital divide” (Di Maggio e

Hargittai 2001), soprattutto indicandone la natura di “fenomeno

complesso e dinamico” (Van Dijk e Hacker 2003) ed estendendo

l’analisi ben oltre la considerazione di chi ha o non ha accesso

alle tecnologie. Comune a questi tentativi di riformulare il

“digital divide” è, infatti, la convinzione che sia necessario

indagare più a fondo le circostanze che incidono non solo sulla

possibilità di accedere alle nuove tecnologie ma anche sulla

possibilità e la capacità di utilizzarle per determinati scopi

autonomamente definiti. Ciò che è fondamentale per partecipare

pienamente alla società dell’informazione non è tanto la

disponibilità degli strumenti quanto la possibilità di accedere,

adattare, creare, manipolare e trasmettere efficacemente

informazioni e conoscenza.

Page 224: tesi

Spazi Pubblici Digitali 205

Anche se emersi soprattutto nell’ambito di ricerche dedicate

agli Stati Uniti, e in generale riferiti principalmente alla

diffusione delle nuove tecnologie nei Paesi “sviluppati” – per i

quali è disponibile una maggiore quantità di dati – i limiti e le

semplificazioni imputate da questi studi al “digital divide” si

applicano in generale alla relazione fra disuguaglianze ed

esclusione/inclusione sociale e utilizzi delle nuove tecnologie, e,

in una certa misura, andrebbero presi in considerazione anche

nell’analisi della distribuzione irregolare delle ICT tra diversi

Paesi e macroaree geografiche, promuovendo un maggior

dettaglio nella comparazione dei dati. D’altronde, uno dei

tentativi più ambiziosi e riusciti di “riconsiderare” il digital

divide (Warschauer 2002, 2003), è anche tra i pochi (insieme a

Gurstein 2003) ad essere giunti ad un complessivo modello

alternativo, che per molti aspetti travalica la distinzione divario

interno/internazionale. Lo analizzeremo più nel dettaglio nel

paragrafo 3.3.

3.2.1 I limiti del “digital divide”

Vediamo ora quali sono le critiche sollevate nei confronti del

“digital divide” e quali i limiti del concetto che emergono da tali

critiche.

Digital what?

Il primo aspetto critico è rappresentato dal primo dei due

termini utilizzati: l’aggettivo digital (digitale) si riferisce alla

proprietà di apparecchi o dispositivi elettronici o informatici in

grado di rappresentare grandezze in un sistema di numerazione

(binario) e utilizzando segnali discreti. Esso si applica dunque ad

un ampia gamma in espansione di tecnologie che comprende, al

momento, un consistente numero di dispositivi 93 e diverse

tipologie di rete 94. Inoltre l’aggettivo si riferisce per estensione

Page 225: tesi

Capitolo III 206

anche alla molteplicità di contenuti 95 prodotti, trasmessi,

manipolati, fruiti da e su questi apparati e in grado in alcuni casi

(e sempre di più) di lavorare su diverse piattaforme 96. Il termine

ombrello utilizzato per definire questo insieme di risorse è

“tecnologie dell’informazione e della comunicazione” (ICT)

(Selwyn 2002).

Il digital divide, dunque, per far fede a se stesso, dovrebbe

occuparsi in teoria di ciascuna di queste risorse: nella maggior

parte dei casi ad essere indagata è solo la distribuzione di

Internet, dando per scontata in questo caso la presenza di un

computer; computer e telefoni cellulari vengono subito dopo nel

grado di interesse suscitato; le infrastrutture di

telecomunicazione vengono considerate soprattutto per i

confronti fra Paesi e, più raramente, fra regioni. Concentrandosi,

come vedremo ora, quasi esclusivamente sulle disuguaglianze

nell’accesso, l’approccio del digital divide assegna

arbitrariamente un’importanza maggiore alle disuguaglianze

rispetto a certe risorse piuttosto che ad altre, semplicemente,

forse, perché più facili da misurare.

I contenuti sono ad esempio quasi sistematicamente lasciati

fuori dall’indagine, tranne rare eccezioni, nonostante siano uno

degli aspetti fondamentali nell’utilizzo delle ICT, nonché uno di

quelli più segnati da disuguaglianze, radicate principalmente nel

dominio pressoché incontrastato dell’inglese (Servon 2002;

Warschauer 2003); d’altra parte la mera valutazione delle

disuguaglianze nella distribuzione delle pagine web in base alla

lingua, non è comunque sufficiente a supportare la produzione

autonoma dei contenuti in rete nell’ambito di comunità

linguistiche più o meno estese (Warschauer 2003).

Altri aspetti rilevanti nell’analisi delle disuguaglianze in rete

non sono colti o indagati perché non riguardano l’accesso ad

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Spazi Pubblici Digitali 207

alcunché, perlomeno non nei termini ristretti implicati da questo

approccio, e che ora andremo ad analizzare. La distribuzione

geografica della produzione dei contenuti di Internet, che pure

rappresenta un aspetto importante nei processi di stratificazione

sociale legati alle nuove tecnologie (Castells 2001; Castells e

Himanen 2002; vedi anche par. 2.1.3), costituisce un esempio

significativo di tali omissioni.

Ma il problema di fondo è in realtà un altro: la

stratificazione che esiste nell’accesso ad una qualsiasi di queste

risorse, non ha niente a che vedere con loro in quanto tali;

riguarda piuttosto i contesti politici, economici, istituzionali,

culturali e linguistici che danno forma al significato delle

tecnologie nella vita delle persone; dunque la disuguaglianza è

sociale, non digitale. La nozione di un digital divide suggerisce,

invece, che il divide, qualunque distanza esso indichi, possa

essere colmato grazie alle tecnologie. Nella pratica molti degli

interventi di contrasto al digital divide, per motivi che

naturalmente esulano dalla semplice aderenza alle connotazioni

del termine, si sono concentrati in effetti sulla fornitura di

hardware e software e hanno finito per fallire il bersaglio di

favorire maggiore eguaglianza e sviluppo sociale. In effetti l’idea

più o meno implicita alla base del digital divide è che i problemi

sociali possano essere affrontati dotando individui e comunità

dell’accesso all’hardware necessario. Un’idea che ricorda troppo

da vicino il determinismo tecnologico per essere davvero di

qualche utilità nel favorire dinamiche di integrazione delle nuove

tecnologie nel tessuto sociale, che promuovano a loro volta

sviluppo e inclusione sociale.

“Accesso” e “frattura”

Il secondo aspetto critico, data l’importanza che assume

nelle stesse definizioni del digital divide, è rappresentato dal

Page 227: tesi

Capitolo III 208

concetto stesso di accesso e dalle sue implicazioni che inducono

la visione dicotomica di una “frattura digitale”. Come riportano

da Di Maggio e collaboratori (2004), nei primi lavori sul digital

divide il termine “accesso” era usato in senso letterale per

indicare se una persona aveva o meno i mezzi per potersi

connettere ad Internet se lo avesse voluto; ma, d’altra parte,

mancavano quasi completamente indagini sull’uso effettivo. Più

di recente “accesso” è stato utilizzato qualche volta come

sinonimo di “uso”, nonostante ci sia una certa discrepanza a

favore del primo (negli USA un 20 % di “connessi” non va mai on

line) (ibid.). In generale, comunque, il digital divide “è stato

definito come un problema di accesso nel suo significato ristretto

di possesso o di possibilità di fruire di un computer e di

Internet”, legittimando così una concezione distorta del

problema “che equipara l’inclusione nella società

dell’informazione all’accesso ai computer e ad Internet” (Servon

2002, p. 4, traduzione mia).

Inteso in questi termini, il problema assume

necessariamente una connotazione dicotomica, quella di una

frattura fra connessi e disconnessi, fra info haves e have-nots. Di

Maggio e Hargittai (2001) fanno notare come questa visione

binaria dell’accesso (e in generale delle disuguaglianze relative

ad Internet), sia da far risalire al “paradigma telefonico” che

informa le politiche americane, e non solo, riguardo alle

telecomunicazioni e che ritroviamo nella prima ricerca della

NTIA del 1995: un paradigma focalizzato sull’obiettivo del

“servizio universale” e quindi su un accesso concepito, in quanto

riferito appunto al telefono, in termini binari.

Se ovviamente l’analogia fra Internet e telefono è del tutto

fuorviante, soprattutto nell’ottica di indagarne le dinamiche di

differenziazione sociale, e se evidentemente a quel tempo

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Spazi Pubblici Digitali 209

ricercatori e politici dell’amministrazione Clinton non avevano

ben capito cosa realmente volesse dire collegare un telefono ad

un computer attraverso un modem, oggi dovremmo essere in

grado di superare questa visione dicotomica sia dell’accesso che

delle “disuguaglianze digitali”.

Selwyn (2002) considera ancora l’accesso alle ICT in termini

di disponibilità dei dispositivi e delle reti, ma invita a

considerare alcuni elementi che mediano la forma e il contesto

con cui questa disponibilità si manifesta. Innanzitutto vi è una

sottile ma importante differenza fra l’accesso e il possesso. Le

questioni relative al tempo, ai costi, alla qualità della tecnologia

e allo specifico ambiente in cui questa è usata, in particolare se

nella propria abitazione, nel posto di lavoro, a scuola, in un

punto pubblico di accesso, in un internet cafè o simili, in una

biblioteca, ecc.; così come aspetti più “qualitativi” della

tecnologia, come la privacy, la sicurezza, la convivialità e la

facilità d’uso, sono tutti fattori cruciali nel determinare il tipo di

accesso alle ICT di cui dispongono le persone. Questo incide sul

grado in cui l’accesso è “percepito” come “effettivo” e non solo

“teorico” o “formale” e quindi sul grado in cui gli individui si

sentono nelle condizioni di sfruttare tale opportunità

trasformandola prima di tutto in uso. In questo senso, dunque,

l’accesso alle ICT e lo stesso digital divide sono essenzialmente

concetti gerarchici piuttosto che dicotomici, anche se, secondo

Selwyn, permane una all’origine una distinzione binaria fra chi

ha e chi non ha accesso.

L’apparente a-problematicità del concetto di accesso è

smentita anche dal fatto che, al di là se esso venga o meno

equiparato all’uso, le sue differenti definizioni (ad esempio in

termini di luogo di accesso, o di qualità della connessione)

comportano differenze nei gap rilevati fra le medesime categorie

Page 229: tesi

Capitolo III 210

sociali (Di Maggio et al. 2004). Esiste, inoltre, una certa

correlazione fra le caratteristiche demografiche e lo status

socioeconomico di un individuo e il tipo di accesso di cui

dispone.

Nel frattempo, oltre alle differenze già esistenti in termini di

qualità dell’hardware o luogo della connessione, l’accesso si

diversifica ulteriormente almeno su due fronti: da un lato si

assiste all’avvento e alla diffusione della banda larga, in grado di

modificare significativamente l’esperienza on line, accrescendo

tra l’altro le possibilità e le probabilità di fruizione di contenuti

di intrattenimento in rete; dall’altro prendono piede dispositivi

di connessione mobile senza fili che sfruttano le reti GSM e

UMTS per accedere al Web ed altri contenuti on line mentre i

sistemi wireless (wi-fi e in un prossimo futuro wi-max)

permettono di estendere l’ampiezza di banda senza fili per una

connessione ubiqua. Per quanto riguarda la banda larga negli

Stati Uniti, ad esempio, il divario ricalca, leggermente mitigato,

quello osservato nei primi anni di diffusione di Internet (ibid.;

Davison e Cotton 2003). Le reti senza fili, in particolare quelle

fisse, riflettono invece più che altro differenze spaziali, come

osservato nel paragrafo 2.1.1.

L’accesso alle tecnologie dell’informazione, dunque, non si

snoda lungo una divisione dicotomica fra chi ha accesso e chi no,

quanto piuttosto lungo una differenziazione fra diversi gradi di

accesso alle ICT (Cisler 2000). Gradi che possono arrivare a

comprendere, come sottolinea Warschauer (2003, p. 6-7,

traduzione mia), anche “un’attivista in Indonesia che non ha né

computer ne’ linea telefonica, ma i cui colleghi della ONG con cui

sta lavorando scaricano e stampano documenti per lei dalla

Rete”, consentendole così di trarre dalla Rete benefici persino

maggiori di un utente teoricamente posto su un gradino più alto

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Spazi Pubblici Digitali 211

nella scala dell’accesso (ad esempio un utente mediamente

assiduo di un cybercafe che legge solo i titoli di qualche giornale

on-line). Si spiega anche, così, la rilevanza, precedentemente

discussa, del significato da attribuire all’aggettivo “digitale”

nell’espressione digital divide. In questo caso infatti l’accesso

alle informazioni on line è garantito persino in assenza di un

accesso ai dispositivi. In definitiva, uno dei principali assunti del

digital divide, vale a dire quello di una netta divisione fra chi ha

e chi non ha accesso, si rivela del tutto inadeguato a cogliere la

molteplicità e la gradualità delle dimensioni significative

dell’accesso effettivo alle ICT.

Oltre l’accesso. Verso la disuguaglianza digitale

Di fronte alle ambiguità e alle difficoltà sollevate dal

concetto di accesso e alla sua controversa sovrapposizione con

l’uso, alcuni lavori hanno provato, più che a distinguere una

scala nell’entità e nella qualità dell’accesso ai dispositivi, a

ridefinirne ed estenderne i termini complessivi per includervi

altre dimensioni rilevanti. La più esaustiva ridefinizione del

concetto di accesso alle ICT è senz’altro stata operata da Mark

Warschauer (2003); essa sarà oggetto d’analisi nel paragrafo 3.4,

insieme al paradigma, alternativo al digital divide, cui da luogo.

Wilson (Hargittai 2003) ha proposto di identificare quattro

componenti di un “pieno accesso sociale”, riprendendo così la

distinzione di Kling (1998) fra “accesso tecnologico” e “sociale”:

i) accesso finanziario, che indica se gli utenti (individui o

comunità) possono permettersi di pagare per la connettività; ii)

accesso cognitivo, che considera la misura in cui le persone sono

formate ad usare il medium e a trovare e valutare le informazioni

che vi cercano; iii) accesso alla produzione di contenuti, che

guarda alla possibilità di accedere a contenuti adeguati; iv)

Page 231: tesi

Capitolo III 212

accesso politico, che indica se gli utenti hanno accesso alle

istituzioni che regolano le tecnologie in uso.

Van Dijk (Van Dijk e Hacker 2003) distingue invece quattro

barriere all’accesso e le rispettive opportunità che esse

restringono: i) mancanza di esperienza digitale di base, legata

alla mancanza di interesse o ansia nei confronti delle nuove

tecnologie (“accesso mentale”); ii) non possesso di computer e

connessione (“accesso materiale”); iii) mancanza di competenze

digitali, causate da scarsa “amichevolezza” e facilità d’uso o

scarso supporto sociale (“accesso alle competenze”); mancanza

di opportunità di utilizzo significativo (“accesso all’uso”). Dallo

studio dei due ricercatori, basato su dati provenienti dall’Olanda

e dagli Stati Uniti, emergono dinamiche di stratificazione

differenziate per ciascuno dei parametri analizzati. E assumono

crescente importanza le disuguaglianze relative alle competenze

e all’uso, legate soprattutto, in Olanda, al genere e all’età, prima

che al livello di istruzione. Di una certa rilevanza è, inoltre, la

classificazione, effettuata dai due ricercatori, delle competenze

digitali, cioè delle abilità necessarie a usare le nuove tecnologie

in modo efficiente ed efficace. In particolare si possono

distinguere abilità strumentali, per adoperare hardware e

software, e abilità informazionali, per reperire le informazioni

utilizzando le tecnologie digitali; un terzo insieme di facoltà si

riferisce poi alle abilità strategiche, ossia alle abilità di usare le

tecnologie digitali per migliorare la proprio posizione nella

società, nel lavoro, nella formazione, nelle pratiche culturali.

Un’altra ridefinizione dell’accesso proviene dalla Global

Knowledge Patnership (in Servon 2002). L’accesso, ampiamente

inteso, dovrebbe comprendere, oltre all’accesso fisico alle

tecnologie, l’accesso alla formazione, l’accesso a contenuti locali

Page 232: tesi

Spazi Pubblici Digitali 213

salienti nella lingua dell’utente; e l’accesso ai processi decisionali

riguardanti le telecomunicazioni.

Ancora nell’ottica di andare “oltre l’accesso”, Lisa Servon

(2002, p. 7) include nell’analisi del digital divide altre due

dimensioni. La seconda dimensione, dopo l’accesso, riguarda la

formazione, o la “IT literacy, cioè la capacità di usare le IT per

una gamma di scopi, e la conoscenza di come e perché le IT

possono essere usata come risorsa chiave”. La terza dimensione

riguarda i contenuti, sia “contenuti che rispondano alla domanda

degli individui e dei gruppi più svantaggiati, sia contributi creati

dai gruppi stessi”.

Quello che è importante sottolineare è che, seppure nessuno

degli autori impegnati meritoriamente ad approfondire la

tematica del digital divide ne metta da parte il concetto e le

relative strettoie, essi però, illustrandone complessità e

molteplicità delle dimensioni, e soprattutto sottolineando la

rilevanza di un ampio spettro di risorse sociali ben oltre l’ambito

delle tecnologie, ne mettono in evidenza i profondi limiti nel

momento stesso in cui cercano affannosamente di rimediarvi. Ciò

che gli studi e le analisi sul digital divide giungono

invariabilmente a dimostrare e a sottolineare, infatti, è che il

problema non sta tanto, e probabilmente non è mai stato, in una

presunta frattura nell’accesso alle nuove tecnologie, quanto nella

complessiva distribuzione diseguale nella società di risorse

materiali, culturali, simboliche, le quali hanno un ruolo

fondamentale nel determinare se e in che misura un individuo o

una comunità possano davvero o meno beneficiare delle

opportunità messe a disposizione dalle nuove tecnologie.

Page 233: tesi

Capitolo III 214

3.3 “Digital Inequality”

Di Maggio e collaboratori (2004) hanno proposto un quadro

d’insieme delle relazioni fra disuguaglianze sociali e nuove

tecnologie, in grado di andare almeno in parte oltre i limiti del

“digital divide”. Il punto di partenza di questo gruppo di

ricercatori, condiviso per altro da quasi tutti gli studiosi finora

qui citati, è che, una volta cresciuta notevolmente la

penetrazione di Internet nella società, per lo meno nelle società

avanzate, la domanda che si ponevano le ricerche sul digital

divide su chi ha accesso a cosa, debba lasciare il posto alla

domanda “cosa stanno facendo le persone, e che cosa sono in

grado di fare quando vanno in rete” (Di Maggio et al. 2004).

Premessa e conclusione poggiano ciascuna su un fondamento

teorico e un’osservazione empirica differenti. Da un lato la

“teoria della diffusione” di Rogers (1986; Mason e Hacker 2003)

fa da sfondo ad un esteso dibattito (cfr. Van Dijk e Hacker 2003),

riguardante realtà, caratteristiche e problematicità del processo

di normalizzazione nella curva di diffusione delle nuove

tecnologie, dibattito a cui il lavoro di Di Maggio e collaboratori

non si sottrae. Dall’altro il riferimento alla teoria degli “scarti di

conoscenza” (knowledge gap) (Tichenor et al., 1970), anch’esso

molto diffuso nella letteratura, induce a considerare in che modo

i diversi ritmi di accesso al Web fra le diverse categorie sociali

incidono sulle differenze nel suo utilizzo e quanto ciò

contribuisca ad accrescere i knowledge gaps a vantaggio delle

categorie sociali privilegiate, anche una volta che l’accesso sia

avvenuto per la maggior parte della popolazione.

Il modello proposto è composto da cinque dimensioni, lungo

le quali si snodano i processi di differenziazione fra gli utenti di

Internet. La prima dimensione, riflettendo in un certo modo

Page 234: tesi

Spazi Pubblici Digitali 215

l’accento posto sull’accesso dalle ricerche sul digital divide,

riguarda le disuguaglianze negli apparati tecnici, cioè

nell’adeguatezza dell’hardware, del software e della connessione.

In generale una migliore dotazione tecnica sembra favorire una

maggiore possibilità di fruire e beneficiare dei contenuti e dei

servizi on line; ciò è tanto più vero se si considera come

l’ampliamento progressivo della banda e il conseguente sviluppo

di siti Web e applicazioni sempre più sofisticate può inficiare la

possibilità per i meno provvisti di accedere a determinati

contenuti e servizi. Questi ultimi, inoltre, con esperienze on line

meno gratificanti sono con maggior frequenza utenti meno

assidui e quindi meno in grado di acquisire esperienza. La

disponibilità della banda larga è associata agli stessi fattori

(reddito, titolo di studio, etnia, residenza nelle metropoli) che

determinano una maggiore probabilità di accedere ad Internet

per primi (cfr. NTIA 2000, 2002). Tenute ferme le variabili

relative all’esperienza e quelle demografiche gli utenti della

banda larga sono maggiormente coinvolti nella ricerca di

informazione e in un’ampia gamma di attività on line, compresa

la produzione di contenuti per il Web. Allo stesso modo, secondo

Davison e Cotton (2003), gli utenti broadband passano più

tempo in rete e usano con maggior probabilità e frequenza servizi

dedicati alle imprese e ai consumatori e siti di intrattenimento.

La seconda dimensione delle disuguaglianze on line concerne

il grado di autonomia nell’uso, associato alla localizzazione

dell’accesso, se a casa, a lavoro, a scuola, in una biblioteca o un

centro comunitario. Un maggior grado di autonomia sembra

favorire migliori benefici per l’utente. Al di fuori del proprio

appartamento, nei diversi centri di acceso, la localizzazione, la

flessibilità degli orari, i regolamenti, i limiti di tempo, i filtri e il

monitoraggio possono limitare in diversi modi l’autonomia d’uso.

Page 235: tesi

Capitolo III 216

Nel luogo di lavoro, questa varia con la condizione, la posizione e

la mansione occupazionale, con il grado di controllo, la quantità

di filtri e monitoraggi, e il sistema di regole.

La terza dimensione riguarda le disuguaglianze nelle

competenze. Gli utenti Internet variano nel possesso di almeno

quattro tipi di abilità: la conoscenza prescrittivi, rispetto a come

connettersi, condurre ricerche, scaricare informazioni;

conoscenze non specifiche di contesto; conoscenza integrativa

sul modo in cui funziona il Web per consentire una migliore

navigazione; conoscenza tecnica su software, hardware e reti,

necessaria per risolvere problemi di malfunzionamento e restare

aggiornato, ad esempio scaricando e installando patches e plug

ins. Insieme questi quattro tipi di conoscenza costituiscono la

“competenza digitale” o Internet competence, vale a dire la

capacità di rispondere pragmaticamente e intuitivamente alle

sfide e alle opportunità in modo tale da sfruttare il potenziale di

Internet ed evitare frustrazioni (Hargittai 2002). La capacità di

reperire informazioni on line è certamente uno degli aspetti

cruciali nel determinare un uso efficace del mezzo. Tale capacità,

rilevata in una ricerca di Hargittai (2003) sembra essere

associata all’età in modo negativo, ma debole e diversificato a

seconda degli specifici obiettivi, per niente ad altri fattori

demografici, in modo più deciso all’autonomia d’uso e

all’esperienza. La “competenza digitale” sembra essere associata

alla soddisfazione che l’utente trae dall’esperienza e dalla misura

in cui ciò lo porta a continuare ad usare Internet aumentando

così le proprie abilità.

La quarta dimensione è legata alle disuguaglianze nella

disponibilità di supporto sociale. Mentre i primi utenti del Web

erano inseriti in fitte reti sociali di esperti, gli utenti più recenti

sono spesso meno competenti e più isolati. Tre tipi di supporto

Page 236: tesi

Spazi Pubblici Digitali 217

sembrano aumentare le motivazioni degli utenti ad andare on

line e quindi ad accrescere le loro “competenze digitali”:

assistenza tecnica formale fornita da persone impiegate per

farlo; assistenza tecnica informale fornita da amici, parenti,

colleghi, vicini; supporto emotivo dagli amici e dalla famiglia.

La quinta ed ultima dimensione riguarda le differenze negli

usi, ossia il modo in cui il reddito, la formazione ed altri fattori

influiscono sugli scopi per i quali si usa Internet. Adottando la

prospettiva del contributo degli usi delle tecnologie alle

opportunità di sviluppo socioeconomico, Di Maggio e

collaboratori (2004) esaminano i fattori che determinano

differenti tipi di uso, distinguendo in particolare fra gli usi che

incrementano il benessere economico (aggiornamento

professionale, conoscenza di opportunità di impiego,

informazioni al consumatore, istruzione e formazione) o il

capitale sociale o politico (leggere news, raccogliere informazioni

su questioni di pubblica rilevanza, reperire informazioni in vista

di una scadenza elettorale partecipare a discussioni civili,

prendere parte ad attività politiche e a movimenti sociali), da

quelli che sono in primo luogo ricreativi.

La varietà degli usi di Internet da parte di un individuo

sembra riflettere il tempo trascorso da questi on line. Livello

d’istruzione, reddito e padronanza della lingua sembrano

positivamente associati agli usi di Internet che incrementano il

capitale sociale, con l’istruzione che sembra spingere verso la

ricerca di informazioni e servizi, piuttosto che di

intrattenimento. D’altronde utenti a basso reddito e meno istruiti

sembrano usare più degli altri Internet per cercare lavoro, in

parte come rimedio all’esclusione dalle reti sociali informali e dai

“legami deboli” che veicolano le informazioni circa i lavori più

appetibili.

Page 237: tesi

Capitolo III 218

Dall’analisi di queste dimensioni, Di Maggio e collaboratori

(2004, p. 38) derivano “un modello dell’influenza della

disuguaglianza tecnologica sulle opportunità individuali, che si

applica ad Internet ma è generalizzabile oltre questo”, “i fattori

demografici e contestuali influiscono sulla qualità degli apparati,

sull’autonomia d’uso, sulle competenze e sul supporto sociale, a

livello individuale. Questi a loro volta influenzano l’efficacia con

la quale gli utenti impiegano il medium sia direttamente,

(facilitando il raggiungimento degli obiettivi), sia indirettamente

(aumentando apprendimento e soddisfazione, che a loro volta

incrementano continuità, efficacia e volume e ampiezza dell’uso).

Infine, in questo modello, gli incrementi nel capitale umano

(inclusi i titoli di studio), nel capitale sociale (incluso l’attivismo

politico) e nei salari sono in funzione direttamente dell’efficacia,

dell’intensità e degli scopi, e indirette conseguenze (attraverso

queste variabili intermedie) della qualità dei dispositivi,

dell’autonomia d’uso, delle competenze, del supporto”.

3.4 Le nuove tecnologie per l’inclusione sociale

Le critiche portate da Mark Warschauer (2002, 2003) al

quadro interpretativo rappresentato dal concetto di “digital

divide”, si soffermano su alcuni degli aspetti già osservati nel

paragrafo 3.2. In particolare, secondo il ricercatore americano,

esso ha fatto propria una ristretta concezione dell’accesso alle

ICT, che ha portato ad attribuire un peso eccessivo alla fornitura

di hardware e software e a sottovalutare la complessa gamma di

fattori in cui è incorporato l’accesso alle ICT. Questi fattori, che

includono risorse fisiche, digitali, umane e sociali e riguardano

un complesso sistema di relazioni sociali, sono in grado, invece,

di condizionare non solo l’effettiva adozione delle tecnologie da

Page 238: tesi

Spazi Pubblici Digitali 219

parte dei singoli, ma anche le effettive ricadute sociali di questa

adozione. Queste ultime non sono, dunque, necessariamente

positive, come implicato da alcuni assunti del “digital divide”; il

loro esito dipende piuttosto da un’adeguata integrazione e

mobilitazione delle diverse risorse coinvolte, tra cui le

tecnologie, nella direzione della promozione dell’inclusione

sociale.

Il punto fondamentale sottolineato da Warschauer, le cui

valutazioni sono ispirate tra l’altro da una ricca esperienza sul

campo fatta di ricerche e progetti legati alle ICT, è che l’eccessiva

enfasi posta sulle tecnologie finisce per “prestare insufficiente

attenzione ai sistemi umani e sociali, che devono anch’essi

cambiare per far si che la tecnologia possa davvero fare la

differenza” (2003, p. 6, traduzione mia). In effetti il concetto di

“digital divide”, volto ad indagare la diseguale distribuzione

degli strumenti informatici e telematici, poggia sulla convinzione

implicita che l’accesso, inteso semplicemente come la

disponibilità fisica di questi strumenti, rappresenti di per se una

porta per entrare nel mondo delle opportunità offerte dalla

società dell’informazione. Anche se questo fosse davvero un

mondo così aperto e pieno di opportunità come sostengono i suoi

cantori – e c’è davvero di che dubitarne – ci sarebbe altrettanto

di che dubitare del fatto che il semplice accesso ai suoi strumenti

tecnici garantisca di per se un’equa ed effettiva partecipazione ai

suoi vantaggi.

Warschauer condivide in una certa misura l’idea che le

nuove tecnologie offrano significative possibilità per promuovere

sviluppo e inclusione sociale. Ma non si tratta tanto dell’accesso

in se, quanto piuttosto della “capacità di accedere a, adattare e

creare nuova conoscenza utilizzando le nuove tecnologie

dell’informazione e della comunicazione”; questa capacità, che

Page 239: tesi

Capitolo III 220

presuppone e implica molto più che la semplice disponibilità

degli strumenti tecnologici, “è cruciale per l’inclusione sociale”

nella società in rete (ibid., p. 9). Questo implica che le politiche

pubbliche orientate a contrastare l’esclusione sociale e

promuovere l’inclusione sociale debbano concentrarsi, più che

sulla diffusione degli strumenti informatici e telematici nella

società, sullo sviluppo di queste capacità fra la popolazione.

3.4.1 Ridefinire l’accesso

Il ruolo che l’accesso alle tecnologie può giocare nel

promuovere l’inclusione sociale dipende, quindi, in buona misura

dal modo con cui definiamo questo accesso. Warschauer parte

dunque da una ricognizione dei due più diffusi modelli utilizzati

per indicare l’accesso alle nuove tecnologie. Nel primo modello

l’accesso alle ICT è equiparato al possesso di un dispositivo; in

questo senso, dunque, l’accesso è definito semplicemente nei

termini dell’accesso fisico ad un computer o a qualsiasi altro

dispositivo ICT. I dispositivi fisici possono diffondersi in

maniera relativamente veloce e, in molti casi, equa, come è stato

per la televisione e la radio. Tuttavia, da un lato il prezzo di

acquisto iniziale di un computer, diversamente da quello di un

televisore o di una radio, va integrato, in un più complessivo

costo totale di possesso (total cost of ownership), più consistente

nel caso di contesti istituzionali e organizzativi, ma significativo

per il singolo individuo; dall’altro il possesso di o l’accesso ad un

computer non è sufficiente a configurare un pieno accesso alle

ICT, se non altro perché quest ultimo oggi include almeno la

disponibilità di una connessione ad Internet, così come di alcune

competenze e conoscenze necessarie ad utilizzare computer e

Internet in modi socialmente rilevanti.

Page 240: tesi

Spazi Pubblici Digitali 221

Il secondo modello di paragone per l’accesso alle ICT è

quello dell’accesso alle reti (conduits), come quella elettrica o

quella telefonica. Mentre un dispositivo può essere ottenuto con

un singolo acquisto, l’accesso alle reti richiede una connessione

ad una linea di fornitura che fornisce qualcosa su base regolare,

come l’elettricità o il servizio telefonico. La diffusione di queste

tecnologie è più lenta, in parte perché necessitano dell’impianto

di infrastrutture, in parte perché il costo mensile delle tariffe può

essere un disincentivo all’accesso anche sul medio-lungo periodo.

Secondo Warschauer, dunque, nonostante le condutture

forniscano un miglior modello comparativo per l’accesso alle ICT

rispetto ai dispositivi, nessuno dei due modelli, né la loro

integrazione, riesce a cogliere “l’essenza di un significativo

accesso alle nuove tecnologie. Ciò che è più importante riguardo

alle ICT non è tanto la disponibilità di dispositivi di calcolo o di

connessioni ad Internet, quanto piuttosto la capacità delle

persone di fare uso di questi dispositivi e di queste connessioni

per prendere parte a pratiche sociali significative” (ibid., p. 38).

Il modello proposto da Warschauer per rendere conto di

questo accesso significativo alle ICT, è quello riconducibile al

significato del termine inglese literacy, in italiano impossibile da

tradurre semplicemente con alfabetismo o alfabetizzazione, e

tanto meno con la locuzione “capacità di leggere e di scrivere”,

che in effetti non coglie, nemmeno tradotta in inglese, la

complessità del concetto, la sua trasformazione nel tempo e nello

spazio e le negoziazioni di cui è stata fatta oggetto. Ben oltre la

capacità di leggere e scrivere, infatti, la literacy ha riguardato il

complessivo sistema di modelli di comprensione e

comportamento considerati di volta in volta più adeguati per la

società, a seconda del contesto sociale e degli orientamenti

politici e culturali delle istituzioni sociali. Per questo alcuni

Page 241: tesi

Capitolo III 222

studiosi spesso utilizzano la forma plurale literacies. Allo stesso

modo altri studiosi hanno preferito usare il termine literacy

practices invece di literacy skills per enfatizzare l’applicazione

delle competenze nel contesto sociale piuttosto che le abilità

cognitive decontestualizzate.

Riscontrate una serie di analogie fra gli aspetti coinvolti

nella literacy e quelli coinvolti nell’accesso alle ICT, Warschauer

ripercorre, inoltre, il dibattito sorto intorno ad un literacy

divide; gli assertori di questo divide si basano sulla convinzione,

analoga a quella alla base del concetto di digital divide, che la

literacy sia direttamente responsabile dello sviluppo cognitivo e

sociale degli individui. Piuttosto, i due termini sembrano legati

da una relazione dialettica analoga a quella che caratterizza il

rapporto fra tecnologia e società, e la literacy, in questo senso, è

compresa più nei termini di un insieme di pratiche sociali che in

quelli di una ristretta abilità cognitiva. La sua acquisizione

richiede dunque una varietà di risorse, che includono artefatti

fisici (libri, giornali, riviste, computer); contenuti rilevanti

veicolati da questi artefatti; abilità, conoscenze e attitudini; i

giusti modelli di supporto sociale e comunitario. Dall’analisi

emerge, inoltre, come l’acquisizione di competenze racchiuse nel

termine literacy non sia solo una questione di cognizione, o

piuttosto di cultura, ma anche di rapporti politici e di potere.

Ancora in analogia con i caratteri della literacy, emersi nel

corso degli anni dagli studi del settore, Warschauer giunge

dunque ad una serie di conclusioni relative alla definizione dell’

“accesso alle ICT” (ibid., p.46):

- non esiste un solo tipo di accesso all’ICT, ma diversi;

- il significato e il valore attribuito all’accesso varia a

seconda dello specifico contesto sociale;

Page 242: tesi

Spazi Pubblici Digitali 223

- l’accesso si sviluppa lungo una dimensione di gradualità

e non in una opposizione bipolare;

- gli usi del computer e di Internet non comportano

benefici automatici al di fuori delle loro particolari funzioni;

- gli usi dell’ICT è una pratica sociale, che implica accesso

agli artefatti materiali, contenuti, capacità e supporto

sociale;

- l’acquisizione dell’accesso all’ICT non è solo una

questione di istruzione, ma anche di potere.

Da queste definizioni relative all’accesso deriva, dunque, un

modello complessivo dell’accesso all’ICT per la promozione

dell’inclusione sociale. L’accesso non può limitarsi alla fornitura

di dispositivi e reti. Piuttosto, esso deve coinvolgere una gamma

di risorse, sviluppate e promosse nell’ottica di accrescere il

potere sociale, economico e politico degli individui e delle

comunità destinatari degli interventi. Queste risorse possono

essere distinte in quattro gruppi di risorse:

- le risorse materiali comprendono computer e linee di

telecomunicazione;

- le risorse digitali si riferiscono ai contenuti digitali

presenti on line e alle diverse lingue;

- le risorse umane riguardano lo sviluppo delle

competenze e l’istruzione;

- le risorse sociali si riferiscono alle strutture

comunitarie, istituzionali e sociali che supportano l’accesso

alle ICT.

In questo modello, dunque, ognuna di queste risorse

contribuisce ad un “uso efficace” (Gurstei 2003) delle ICT, vale a

dire che la loro presenza contribuisce a far sì che le ICT vengano

usate e sfruttate adeguatamente per gli scopi individualmente e

collettivamente definiti; allo stesso tempo, ogni risorsa è un

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Capitolo III 224

risultato dell’uso efficace delle ICT, vale a dire che utilizzando

efficacemente le ICT si può contribuire ad estendere e

promuovere queste risorse (figura 5).

Figura 5: Il modello dell’accesso alle ICT di Warschauer

Fonte: Warschauer 2002

3.4.2 L’Unione Europea e le tecnologie per l’inclusione sociale

A partire dal primo “e-Europe Action Plan” redatto nel 1999

dal Consiglio Europeo di Lisbona, l’Unione Europea ha rivolto

una crescente attenzione alle opportunità della Società

dell’informazione e delle nuove tecnologie per contrastare

l’esclusione e promuovere l’inclusione sociale (Commissione

Europea 2001, 2005). Accanto ad una puntuale e approfondita

indagine delle differenze nell’entità, nell’intensità e nella qualità

dell’uso delle nuove tecnologie lungo i tradizionali assi

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Spazi Pubblici Digitali 225

socioeconomici e geografici, è emersa, col passare degli anni, una

più attenta valutazione dei fattori che differenziano scopi e

utilizzi in particolare su Internet, al fine di promuovere e

indirizzare capacità di “appropriazione” di queste tecnologie da

parte dei cittadini europei per sfruttarne al meglio le opportunità

in termini di inclusione sociale. Un attenzione particolare, ad

esempio, è richiamata sulla necessità di identificare e creare

contenuti e servizi on line rispondenti alle specifiche esigenze di

diverse categorie di cittadini, inclusi quelli a basso reddito o più

svantaggiati: un uso socialmente rilevante delle ICT, in grado di

incidere sull’esclusione e promuovere l’inclusione, dipende

infatti, oltre che dalle competenze, anche dalla disponibilità di

contenuti tagliati sui bisogni specifici dei diversi gruppi di

utenti.

L’espressione e-Inclusion è venuta a connotare le politiche

per promuovere un’equa partecipazione dei cittadini alle

opportunità offerte dalle nuove tecnologie, come parte integrante

e integrata dei più ampi gli sforzi per promuovere l’inclusione e

la coesione sociale. Il prossimo sforzo, come richiamato nei

documenti più recenti, dovrà essere quello di indagare in modo

approfondito, da un lato, l’efficacia delle politiche di promozione

dell’e-Inclusion, dall’altra il loro impatto sulle dinamiche di

inclusione sociale. Sembra emergere, dunque, una realistica e

salutare prudenza sugli effetti complessivi dell’uso delle nuove

tecnologie nelle politiche di sviluppo, non nella prospettiva di

rinunciare a sfruttarne i benefici sociali, ma in quella di calibrare

gli interventi sulla base di una maggiore comprensione sia di

tecnologie in via di continua evoluzione, sia di dinamiche sociali

accelerate dai processi di trasformazione in corso.

Anche se nei documenti EU il termine digital divide

continua ad essere utilizzato per una certa innegabile capacità di

Page 245: tesi

Capitolo III 226

sintesi soprattutto riferito ad alcuni gap nell’accesso,

l’elaborazione, la ricchezza e la complessità delle indagine svolte

e la considerazione dell’ampio ventaglio di fattori che

condizionano l’efficacia delle nuove tecnologie come opzioni per

favorire processi di inclusione sociale, rendono merito

all’impegno profuso anche nell’aggiornare i presupposti e i

modelli delle politiche pubbliche di contrasto all’esclusione

digitale. Uno spazio considerevole è dedicato all’analisi

qualitativa delle dinamiche di differenziazione riscontrate, ad

esempio in termini di percezione dell’esperienza on line; o

all’osservazione di fenomeni tecno-sociali emergenti, come ad

esempio lo sviluppo del cosiddetto “social software”,

potenzialmente in grado di incidere sull’accumulazione di

“capitale sociale” e per questa via sulle dinamiche di coesione e

inclusione sociale. Altrettanto interessante e meritorio è lo

spazio dedicato nell’ultimo report alle dinamiche di e-Inclusion a

livello locale e di comunità, con un particolare accento sul loro

potenziale “for enhancing social integration, political

participation, cultural identity, as well as interactions between

local and global levels” (Commissione Europea 2005).

Per concludere, alcuni stralci dall’ultimo rapporto

dell’Unione Europea sulla e-Inclusion (Commissione Europea

2005)

The focus on access and skills is in fact not enough to

promote socio-economic inclusion; adequate policy measures

should take into account how ICT is experienced in the context

of people's everyday life. Along this line, focusing on the impact

of ICT on social capital, individual well-being and quality of life

can help making the connection between technology adoption

Page 246: tesi

Spazi Pubblici Digitali 227

and general social participation and cohesion, approaching

society at its "center" in addition to focusing on its "margins".

More equal access can foster both economic growth and the

improvement of living and working conditions in rural and

peripheral areas, but will require concerted public policy

efforts, at national and regional levels, to promote a network of

public access points, linked to initiatives to promote the training

of users and to ensure that services and content are provided on

the Internet which meet people's real needs.

Access to digital contents and services conceived on a high

usability level – as well as the skills needed for profitably using

them – should be made available to everybody, intensifying

efforts to establish a dense network of public access points

adequately equipped and staffed for guidance and support.

The success of strategies for digital and social inclusion is

largely dependent on a context-based approach, whereby

targeted groups are considered within their geographical,

social and cultural environment; this is consistent with the

exponential growth of local level initiatives, connecting

communities and offering online information, services, support

and interaction opportunities to its members.

Page 247: tesi

Capitolo III 228

Note

72 A questi dati allarmanti – e allo stesso tempo indicativi del

fallimento delle ricette proposte dagli organismi economici mondiali per il

miglioramento delle condizioni socio-economiche dei Paesi più poveri – si

aggiunge un sempre minore impegno da parte dei paesi OCSE nel cosiddetto

“aiuto allo sviluppo”. Come hanno dimostrato nel 2002 la Conferenza sui

finanziamenti per lo sviluppo di Monterey e il Vertice Mondiale sullo

Sviluppo Sostenibile tenutosi a Johannesburg, la volontà degli Stati di

contribuire finanziariamente ai programmi avviati nel Sud del mondo è

minima. Dal 1992 al 2002 i finanziamenti per i programmi di aiuto nelle

nazioni più povere sono scesi del 24 %, raggiungendo una media dello 0,22

% del PIL dei Paesi più ricchi. 73 In particolare Castells (1998, p. 412-413) individua, alla base dei

fenomeni di disuguaglianza e polarizzazione crescenti, tre processi associati

all’avvento del capitalismo informazionale e della società in rete: a) la

radicale differenziazione fra lavoro autoprogrammabile ad alta produttività

e lavoro generico ad alta sostituibilità; b) l’individualizzazione del lavoro,

che indebolisce i settori minori della forza lavoro; c) il graduale declino

dello stato sociale. 74 Le annotazioni di Servon (2002) e Castells (1998) indicano, ad

esempio, come negli Stati Uniti le politiche sociali, incentrate soprattutto

sul sostegno materiale ai soggetti più svantaggiati, si preoccupino

raramente di cercare soluzioni per far uscire uomini e donne dalla povertà e

per promuovere l’inclusione sociale e finiscano al contrario per ghettizzare

ulteriormente quei soggetti dipendenti dall’assistenza sociale in “condizioni

istituzionalmente punitive”. 75 Un caso esemplare, casualmente assai vicino alla metafora della

canna da pesca, è rappresentato dall’impiego di telefoni cellulari dotati di

una connessione ad Internet da parte dei pescatori delle coste occidentali

dell’India per conoscere in anticipo i prezzi sui diversi mercati locali e

individuare così la piazza più conveniente. 76 E, d’altronde, la disponibilità di adeguate fonti di energia e

infrastrutture per la sua distribuzione rimane ancora oggi uno dei principali

Page 248: tesi

Spazi Pubblici Digitali 229

ostacoli allo sviluppo in molti Paesi, soprattutto dell’Africa (Castells 1998),

e una pesante limitazione alle stesse possibilità di diffusione e utilizzo delle

ICT. In molti progetti di contrasto al digital divide l’impiego delle

tecnologie si accompagna ad esempio all’installazione di pannelli

fotovoltaici dedicati; sono inoltre in fase di sperimentazione sistemi di

alimentazione che sfruttano gli stessi cavi della tecnologia di connessione

ethernet.

Cfr. news.bbc.co.uk/go/em/-/2/hi/technology/4494899.stm77 Per una rassegna di rappresentazioni visuali relative alla geografia

delle telecomunicazioni, di Internet, del World Wide Web e degli ambienti

del cyberspazio, cfr. www.cybergeography.org; www.mappedellarete.net;

www.telegeography.com; www.zooknic.com; www.mappingcyberspace.com. 78 Le possibilità offerte dalla “digitalizzazione” (codifica e

compressione) fanno si che il traffico di dati su Internet si riferisca ormai

ad un’ampia gamma di formati codificati in linguaggio binario, che vanno

dalla comunicazione-voce del tradizionale traffico telefonico (VoiceOverIP)

ai contenuti multimediali della televisione digitale (IPTv). 79 D’altra parte 10 dei 13 root nameservers che si occupano di tradurre

il formato alfabetico di un indirizzo Web digitato in un browser in una

qualsiasi parte del mondo nel suo corrispettivo numerico, si trovano negli

Stati Uniti. Gli altri tre sono, non a caso, a Londra, Stoccolma e Tokyo.

http://en.wikipedia.org/wiki/Root_nameserver80 Quest’ultimo è, ad esempio, il caso di Roma e di altre grandi città

italiane, nelle quali alcune zone meno appetibili per gli operatori di mercato

non sono ancora raggiunte dalle tecnologie per la “banda larga” (fibra ottica

e xDSL): un circolo vizioso in cui la bassa concentrazione di clienti business

e le scarse possibilità di spesa dei residenti, inducono le grandi società di

telecomunicazione a non investire nello sviluppo di quelle infrastrutture

che, oltre a migliorare le opportunità di un uso significativo di Internet da

parte degli utenti, costituiscono una delle condizioni per attrarre attività e

capitali d’investimento, in grado a loro volta, se adeguatamente indirizzate,

di attivare dinamiche di sviluppo economico sul territorio (UNARETE

2003).

Page 249: tesi

Capitolo III 230

81 La cifra si riferisce ad una famiglia di standards definiti

dall’Institute of Electrical and Electronics Engineers (IEEE) e relativi ai

protocolli di comunicazione per le reti locali (LAN) e metropolitane (MAN),

fra i quali il più noto è lo standard su cavo Ethernet (802.3). Per quanto

riguarda le reti senza fili i protocolli ad ora più importanti sono due: il

primo e attualmente più diffuso è l’802.11 (Wireless LAN, comunemente

denominato WI-Fi), in particolare nelle versioni b e g, che operano nello

spettro di frequenze libero da licenze nella banda dei 2.4 Ghz e sono in

grado di trasmettere in modalità “punto-punto” (o ad hoc) o

“infrastruttura”, a velocità teoriche rispettivamente di 11 Mbps e 54 Mbps e

a distanze che vanno da meno di 100 metri fino a decine di kilometri, a

seconda della potenza dei dispositivi di trasmissione, delle caratteristiche

fisiche del “mezzo” e della morfologia del paesaggio. Il secondo, ancora in

via di sperimentazione ma più promettente, è l’802.16 (Wireless MAN,

anche detto WiMAX, acronimo per Worldwide Interoperability for

Microwave Access), che opera nello spettro di frequenze fra 2 e 11 Ghz, con

un’ampiezza di banda di 70 Mbps e con un raggio di copertura fino a 50 Km;

tali caratteristiche rendono questa tecnologia adatta a fornire connettività

senza fili ad Internet per aree estese (una città, ad esempio, o una zona

rurale) e a molti utenti contemporaneamente, integrando così le

tradizionali linee a terra per il cosiddetto “ultimo miglio” o per distanze più

lunghe, e offrendo l’opportunità di una reale mobilità senza fili, non

soggetta alle discontinuità degli hotspot tipici del Wi-Fi. Le aspettative

riposte nel wireless come opportunità per affrontare gli aspetti

infrastrutturali del digital divide si basano sull’integrazione di queste e

altre tecnologie (Press 2003). www.wikipedia.org 82 Vedi anche, in questo senso, la posizione della ICT Task Force

dell’ONU, espressa dal segretario generale Kofi Annan nel giugno del 2003,

in occasione di una conferenza dedicata alle opportunità dell’Internet

wireless per i Paesi in via di sviluppo:

www.w2i.org/pages/wificonf0603/wiofdc_welcoming.html; il comunicato

stampa ripreso dall’agenzia Reuters è consultabile all’indirizzo

lists.pluto.it/pipermail/pluto-ddivide/2003-June/000142.html.

Page 250: tesi

Spazi Pubblici Digitali 231

83 Soprattutto se, come avvenuto in Italia, la regolamentazione delle

nuove tecnologie arriva a limitare fortemente il libero utilizzo di un bene

comune come lo spettro elettromagnetico, impedendo, ad esempio, la

creazione di reti wi-fi in spazi che non siano “locali aperti al pubblico e aree

confinate a frequentazione pubblica”, come stabilito dal “Decreto

Ministeriale di regolamentazione dei servizi wi-fi ad uso pubblico” emesso

dal Ministero delle Comunicazioni il 28 Maggio 2003.

http://www.comunicazioni.it/it/index.php?IdPag=699. 84 Una raccolta di notizie e documentazione, riguardanti soprattutto gli

Stati Uniti, è reperibile sul sito www.muniwireless.com. Le controversie fra

amministrazioni e operatori privati e le implicazione del municipal wireless

per il digital divide sono trattate da Jon Lebkowsky in un articolo

consultabile all’indirizzo www.worldchanging.com/archives/002146.html.

Cfr. anche www.bcn.es/sensefils per il progetto di una rete di punti di

accesso wi-fi sviluppato dalla municipalità di Barcellona e

www.cmt.es/cmt/document/decisiones/2004/RE-04-05-27-04.pdf per la

delibera con cui la Commissione per il Mercato delle Telecomunicazioni

spagnola ne ha imposto lo “spegnimento”. 85 L’ International Telecommunications Union (www.itu.int) è l’agenzia

delle Nazioni Unite nel cui ambito governi e privati si adoperano per il

coordinamento globale delle reti e dei servizi di telecomunicazione. I dati

provengono dalle indagini a campione effettuate a livello locale; il “numero

degli utenti” non è quindi un dato oggettivo, bensì una stima soggetta non

solo alle imprecisioni delle rilevazioni statistiche ma in alcuni casi anche

alle esigenze di pubblicità dei governi. Il confronto fra Paesi è reso

impreciso anche dai differenti criteri utilizzati per definire un “utente”, in

relazione all’età e alla frequenza di utilizzo minime prese in considerazione

(vedi anche nota 18). 86 Da www.internetworldstats.com, da cui provengono i dati qui

presentati, definisce un “utente di Internet” come “chiunque abbia

attualmente la possibilità di utilizzare Internet” ossia chiunque “1) abbia

accesso ad un punto di connessione ad Internet e 2) possegga le conoscenze

di base per utilizzare questa tecnologia”. Una tale definizione, se da un lato

probabilmente esclude alcune modalità di accesso alla Rete, innovative ma

Page 251: tesi

Capitolo III 232

pur sempre ancora marginali (dispositivi mobili), e dall’altro tiene conto

dell’”accesso condiviso”, assai diffuso nei Paesi più poveri, certamente

sovrastima nel complesso le reali dimensioni della penetrazione di Internet

per quanto riguarda sia l’accesso sia, e a maggior ragione, il suo uso

effettivo. D’altra parte, come già sottolineato nel testo, i limiti di precisione

ed effettiva rilevanza dei dati, palesati da queste stime, non costituiscono

una distorsione troppo influente per gli scopi di confronto fra Paesi e aree

geografiche che qui ci si prefigge. 87 Ibid. 88 Ogni host è contraddistinto da un indirizzo IP. Ad ogni indirizzo IP,

composto da quattro cifre ognuna compresa fra 1 e 256, corrisponde un

“nome di dominio” in formato alfabetico, composto da più sezioni, di cui

l’ultima a destra rappresenta il cosiddetto top level domain (TLD). Esistono

fondamentalmente due tipi di TLD, i generic TLDs (.com, .edu, .gov, .int,

.mil, .net, .org, .biz, .info, .name, .pro, .aero, .coop, .museum) e i country

code TLDs (i 240 codici ciascuno di due lettere che identificano ognuno un

Paese, come .it, .uk, .fr, ecc.), soggetti a diverse policies e alla gestione da

parte di diversi organismi pubblici e privati, nazionali o internazionali, fra i

quali l’ente statunitense non profit ICANN (www.icann.org), addetto al loro

coordinamento globale. L’assegnazione di un host ad un determinato Paese

è basato sul luogo di registrazione della proprietà del dominio

corrispondente e non sulla reale collocazione geografica del “nodo” a cui è

assegnato un certo “indirizzo” nella Rete: poiché tutti i domini generici, a

prescindere da dove si trovino realmente le macchine che corrispondono a

quell’indirizzo, vengono “assegnati” agli Stati Uniti e poiché un dominio di

un Paese può corrispondere a server situati in qualsiasi parte del mondo, il

dato della concentrazione per Paese degli host presenta incertezze tanto

quanto le stime sul numero degli utenti. Cfr. www.itu.int/ITU-

D/ict/statistics/ e www.isc.org. 89 www.gandalf.it “Dati sull’Internet nel mondo 2004”. 90 Cfr. www.zooknic.com91 Letteralmente leap-frog significa “salto della rana”; nella lingua

inglese indica il “gioco della cavallina” e, metaforicamente, significa

avanzare per balzi o saltando degli stadi intermedi. L’esempio più

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Spazi Pubblici Digitali 233

ricorrente portato a sostegno dell’idea del leapfrogging nell’ambito delle

“ICT per lo sviluppo”, è quello dell’implementazione delle reti della

telefonia mobile. In molti Paesi “poveri” o “in via di sviluppo” carenti in

infrastrutture e con popolazioni disperse in vasti territori rurali, la

tecnologia cellulare ha permesso una copertura del territorio a costi più

bassi rispetto a quelli delle tradizionali “linee a terra”, favorendo in tal

modo migliori comunicazioni e di conseguenza una crescita della redditività

delle attività economiche. In molti di questi Paesi, tra cui le economie

emergenti di Cina e India il numero delle utenze mobili ha raggiunto e

superato quello delle utenze fisse, così come già successo, partendo da tassi

di penetrazione assai diversi, nei Paesi ricchi. In Africa, ad esempio, il

sorpasso è avvenuto nel 2001. Le tecnologie wireless per l’accesso ad

Internet rappresentano un altro potenziale caso di leapfrogging (cfr. nota

10). 92 Per il dibattito sui rapporti fra sviluppo, "sostenibilità" e crescita, e

per la provocatoria idea della “decrescita”, si vedano anche Latouche

(2001, 2003, 2004) e ancora Harribey (2002). Per un quadro generale delle

questioni dello sviluppo cfr. Sen (2002). 93 Computer desktop e portatili, workstation, server, periferiche varie

come stampanti, scanner, masterizzatori CD e DVD, modem PSTN, ISDN e

xDSL, dispositivi di rete quali switch, HUB, HAG, router, access point;

consoles per videogiochi, dispositivi per la televisione digitale terrestre, via

cavo o satellitare, personal video recorder, antenna satellitare, telefoni

cellulari, smartphone, palmari, lettori DVD-DviX-MP3 e foto, lettori CD

audio, proiettori digitali, ecc. 94 Infrastrutture di telecomunicazione con e senza fili, intranet e

internet, reti peer to peer, reti GSM e UMTS per la telefonia mobile,

satelliti geostazionari per Internet e la TV, ecc. 95 Software, e-mail, pagine Web, siti, documenti di testo, immagini,

audio, video, arte digitale; risorse, informazioni e servizi fruibili sul World

Wide Web, VoIP, messaging e chat, streaming audio e video, file-sharing;

contenuti di CD-ROM o DVD-ROM, videogiochi, ecc. 96 Pagine e servizi Web ed e-mail su telefonini, smartphone e palmari,

TV digitale su telefonini e smartphone UMTS (!), SMS e fax via e-mail, ecc.

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Page 254: tesi

Capitolo IV

Prodigi in Tunisia: laboratori comunitari

1. La Tunisia in rete

In questo capitolo si cercherà di osservare nella pratica

alcune delle considerazioni fatte finora, concentrando

l’attenzione prima su un singolo Paese, e poi, restringendo

ulteriormente il campo, su un progetto realizzato al suo interno

dall’Associazione Prodigi in collaborazione con la ONG italiana

Alisei e con l’agenzai tunisina UTSS. Obiettivo di questa analisi

è, da una parte, osservare come entro i confini di un piccolo stato

diversi soggetti attivi nell’ambito dell’informatica e delle

telecomunicazioni abbiano collaborato o si siano scontrati per la

definizione di politiche finalizzate a diffondere le ICTs sul

territorio; dall’altra, prendere in esame come alcuni degli

strumenti definiti in questo lavoro possano essere impiegati

concretamente all’interno di un progetto orientato ad una

comunità.

Il paese in esame, la Tunisia, è un paese contraddittorio

sotto il profilo delle politiche elaborate per combattere la piaga

dell’esclusione digitale. È qui che, nel Novembre 2005, si terrà il

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Capitolo IV 236

secondo appuntamento del Summit Mondiale sulla Società

dell’Informazione, durante il quale si riuniranno i potenti della

terra con l’obiettivo di definire strategie comuni per la lotta

contro il digital divide; per l’occasione il governo ha già messo in

cantiere ambiziose iniziative per dimostrarsi un esempio da

seguire per il continente africano. Tuttavia, questa è al tempo

stesso la nazione in cui Zouhair Yahyaoui, per tutti Ettounsi, il

fondatore del più popolare portale tunisino, TUNeZine.com, è

stato arrestato nel 2002 con l’accusa di diffamazione e utilizzo

non autorizzato di spazio su Internet e condannato a due anni di

carcere, per la sola ragione di aver creato uno degli spazi digitali

più frequentati dall’opposizione al governo e di aver pubblicato

articoli che esprimevano forti perplessità sulla legittimità del

referendum che ha esteso l’immunità al presedente Ben Ali fino

al 2004. Rilasciato dopo 18 mesi, Ettounsi è morto nel marzo del

2005, sfiancato dalle dure condizioni della detenzione a cui è

stato sottoposto e per le quali il Paese africano è tristemente

noto.

La Tunisia è il paese che ha avviato uno dei programmi

educativi più ambiziosi del Nord-Africa, rendendo obbligatorio

l’insegnamento dell’informatica in tutti gli istituti secondari e

programmando di connettere tutte le scuole superiori del paese

entro la fine del 2003, ma è anche il paese in cui da anni viene

esercitata una forte censura nei confronti dei siti stranieri i cui

contenuti non siano approvati dal governo. Vicino Tunisi è stato

creato il centro di calcolo e di ricerca di El Khawarizemi, il più

importante della regione del Maghreb, ma nel sud del paese i

tempi di attesa per ottenere un allacciamento alla rete telefonica

possono ancora superare i due anni.

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Prodigi in Tunisia 237

1.1 Il mercato delle telecomunicazioni

Fin dall’indipendenza, ottenuta dalla Tunisia nel 1956, il

mercato delle telecomunicazioni è stato controllato e regolato

dallo stato attraverso il Ministero delle Comunicazioni e dei

Trasporti. Nel 1995 il Parlamento ha approvato una legge che ha

istituito un ufficio specializzato per le telecomunicazioni e ha

trasformato la precedente struttura amministrativa in

un’impresa pubblica con un orientamento industriale e

commerciale. Come conseguenza di tale decisione, nel 1996

l’operatore monopolista tunisino, prima conosciuto come

Direttorato Generale delle Telecomunicazioni, ha preso il nome

di Tunisie Telecom, mentre il Ministero delle Comunicazioni ha

continuato a mantenere il suo ruolo di regolamentazione ed è

tuttora responsabile per lo sviluppo dell’infrastruttura nazionale.

Il mercato delle telecomunicazioni tunisino è stato quindi

caratterizzato da un forte controllo statale, che non ha permesso

la nascita di network alternativi, ma recentemente

l’avvicinamento all’Unione Europea, con l’obiettivo di creare con

essa un’area di libero scambio, ha costretto il paese ad avviare

un’ampia serie di riforme strutturali. Il passo più importante in

questa direzione è stata la firma nel febbraio 1997 del WTO

Agreement on basic telecommunication service, che ha costretto

il paese ad una progressiva liberalizzazione del settore delle

telecomunicazioni e all’apertura agli operatori stranieri.

Gli accordi con l’UE e il WTO hanno consentito l’ingresso nel

gennaio 2003 di un secondo operatore, l’egiziana Orascom, che

ha interrotto il regime monopolistico di Tunisie Telecom nel

campo della telefonia fissa e mobile. Questo potrebbe nel lungo

periodo consentire un abbassamento delle tariffe1

, anche se

alcune dichiarazioni riportate dalla stampa tunisina lasciano non

Page 257: tesi

Capitolo IV 238

pochi dubbi: “anche se ci si può aspettare che Tunisie Telecom e

Orascom si diano aspra battaglia sul piano economico, la

differenza tra i due operatori si stabilirà soprattutto a livello dei

servizi proposti agli abbonati e non sul piano delle tariffe” (Sassi

Sam 2002). Un’altra domanda che finora non ha ricevuto

risposte riguarda la possibilità che questo duopolio possa portare

o meno vantaggi sul piano della copertura infrastrutturale: in

Tunisia, infatti, sono più di 100000 le domande di allacciamento

alla rete rimaste tuttora inevase e nessuno dei due operatori ha

finora definito una politica chiara in relazione a questo

problema.

Per quanto riguarda la comunicazione a commutazione di

pacchetto, cioè Internet, il mercato è coperto da un operatore

pubblico e da due privati. La compagni pubblica, l’Agenzia

Tunisina per Internet (ATI) è stata creata nel 1996 come costola

di Tunisie Telecom, che ne controlla attualmente il 51%,

amministra la dorsale tunisina, gestisce il dominio “.tn” e offre

servizi alle agenzie pubbliche, alle ONG e ai centri di ricerca. I

due altri operatori, Global Net e Planet Tunisie, offrono invece

accesso ai privati. Tutti e tre i provider sono sottoposti al

controllo del Ministero delle Comunicazioni, il quale esercita una

forte pressione sulla selezione dei contenuti che gli utenti

possono o meno consultare. Questa forma di censura è esercitata

in maniera sottile e non è dichiarata apertamente: non esistono

divieti precisi nei confronti di determinati siti, ma se ci si trova a

digitare un indirizzo non gradito agli enti governativi, in risposta

si avrà una pagina bianca con l’indicazione “operazione

annullata”.

Page 258: tesi

Prodigi in Tunisia 239

1.2 Le mappe della connettività

A partire dal 1996, l’anno in cui hanno avuto inizio le prime

riforme strutturali, il settore delle telecomunicazioni ha

conosciuto una rapida crescita. Per quanto riguarda la telefonia

fissa, si è passati dalle 585.200 linee del 1996 al milione circa del

2002, anche se il tasso di penetrazione rimane ancora basso (in

media solo un abitante su 10 è allacciato alla rete telefonica). Ma

è soprattutto nel settore della telefonia mobile che si sono

registrati i maggiori progressi, passando in poco più di sei anni

dalle 5.500 unità del 1996 alle 200.000 del 20022

.

Anche nel caso delle tecnologie informatiche la Tunisia ha

conosciuto una rapida crescita, passando dalle poche migliaia di

utenti Internet nel 1995, ai circa 400.000 nel 2002 (un numero

comunque esiguo in rapporto alla popolazione tunisina, solo il

4,4% sul totale). Tuttavia controllando gli schemi di consumo e

di utilizzo delle nuove tecnologie, i risultati mostrano abitudini

ben diverse rispetto a quelle riscontrate in Europa. Buona parte

delle tecnologie informatiche diffuse sul territorio sono state

impiegate soprattutto per l’informatizzazione di aziende, scuole e

uffici pubblici3

e, per quanto riguarda la connessione ad

Internet, nella maggior parte dei casi l’accesso viene effettuato

attraverso postazioni pubbliche o dal posto di lavoro, mentre il

consumo domestico rimane limitato ad una ristretta cerchia di

persone. Infatti dei circa 220.000 computer in circolazione alla

fine del 2000, soltanto 9000 appartenevano ad utenti domestici,

e dei 400.000 utilizzatori della rete rilevati nel 2002, solo

25.0004

possedevano una connessione a casa propria. Inoltre i

numeri variano sensibilmente se ci si sposta dalle aree urbane

verso quelle rurali e dal nord industrializzato verso il sud del

paese. Se l’infrastruttura informatica è estremamente capillare

Page 259: tesi

Capitolo IV 240

intorno all’area di Tunisi, dove è concentrato quasi il 50%

dell’utenza complessiva di Internet e circa l’80% delle linee

veloci5

, le zone interne sono poco servite e tanto la rete elettrica

quanto quella telefonica consentono una fornitura estremamente

discontinua.

1.3 Le politiche pubbliche

Le strategie attuate dal governo per sostenere il mercato

delle ICTs e assicurare una loro più ampia diffusione sul

territorio si sono andate delineando intorno a tre assi principali:

- l’ammodernamento delle infrastrutture, sia sul fronte

internazionale attraverso migliori connessioni alla rete mondiale,

sia sul fronte interno, creando poli regionali in grado di

migliorare la qualità delle trasmissioni tra diverse aree del paese.

Su questo fronte il governo tunisino ha ricevuto l’appoggio di

grandi partner privati, come Alcatel, Ericsson e Novertel, che

hanno svolto un ruolo importante nella digitalizzazione delle

infrastrutture;

- il sostegno dell’economia attraverso la promozione di

programmi di e-commerce. Per raggiungere questo obiettivo nel

1997 è stata creata un’apposita Commissione Nazionale per il

Commercio Elettronico, che ha riunito tra loro diversi ministeri e

segreterie (comunicazioni, trasporto, turismo, informatica,

ricerca scientifica e tecnologica). Il governo tunisino ha deciso di

investire molto in questo settore, velocizzando le procedure

legate al commercio con l’estero per sostenere le esportazioni via

Internet, rendendo più semplici e sicure le transazioni

elettroniche per facilitare l’opera degli operatori nazionali dell’e-

commerce e aprendo una serie di portali e negozi virtuali per la

vendita di prodotti tipici, come vestiti, piccoli oggetti

Page 260: tesi

Prodigi in Tunisia 241

d’artigianato, spezie, oppure l’acquisto on-line di pacchetti

turistici o la prenotazione di alberghi e visite guidate. E’ stata

stimolata anche la creazione di gruppi di studio sul commercio

elettronico, tenuti a presentare periodicamente rapporti

sull’andamento del mercato e nuove strategie da adottare;

- l’avvio di campagne per la sensibilizzazione della

popolazione all’utilizzo della tecnologia, soprattutto a partire

dalle scuole medie e superiori. Solo nel 2000 sono stati spesi

circa 4 miliardi di dinari per equipaggiare le scuole con

apparecchiature informatiche connesse alla rete, mentre

l’insegnamento dell’informatica è diventato obbligatorio in tutte

le scuole superiori del paese.

1.4 Il progetto Publinet

Tra le diverse misure adottate dal governo tunisino per

rispondere alle sfide della Società dell’informazione e cercare di

stimolare la penetrazione delle ICTs sul territorio, il progetto

Publinet è quello che ha attirato maggiormente l’attenzione sul

piano sia nazionale sia internazionale. Questo progetto è stato

lanciato nell’ottobre 1998 con due obiettivi principali: consentire

l’accesso a Internet e ai suoi servizi in tutta la nazione e creare

nuove opportunità di lavoro per i giovani diplomati o laureati.

Esso consiste sostanzialmente nella messa in opera di centri

pubblici d’accesso in diverse aree del paese, che debbano fungere

da postazioni privilegiate per l’utilizzo della rete, in una realtà in

cui solo in pochi possono permettersi l’acquisto di un PC o

l’abbonamento ad un provider. Per l’apertura di un Publinet lo

stato interviene fornendo il 50% della cifra necessaria e

facilitando la concessione di crediti agevolati per la parte

restante. In cambio, ogni Publinet, la cui gestione è affidata a

Page 261: tesi

Capitolo IV 242

giovani diplomati o laureati, è tenuto a rispettare alcuni

parametri, tra cui l’impegno a non superare una tariffa massima

per l’accesso alla rete (2 dinari l’ora, poco meno di 1,5 _),

inferiore rispetto a quella che sarebbe tenuto a pagare un utente

per connettersi dalla propria abitazione.

Tutt’ora in Tunisia esistono 306 Publinet, di cui 152 (cioè

quasi il 50%) concentrati nella regione di Tunisi. Secondo un

recente studio (Sassi Sam, 2002), il progetto ha finora riscosso

un buon successo presso determinate categorie di utenti. La

frequenza media con cui un utilizzatore abituale si reca presso

una delle postazioni informatiche è di circa 4 volte la settimana,

per un consumo medio che si aggira intorno all’ora e mezza. Per

quanto riguarda invece il tipo di uso che viene fatto della rete, il

20% degli individui spendono il loro tempo prevalentemente in

attività di ricerca, il 44% in comunicazioni dirette via chat6

, il

28% per usare la propria posta elettronica, mentre il 4% non è in

grado di definire con precisione quale sia la propria attività

prevalente.

La popolazione dei frequentatori dei Publinet può essere

suddivisa in due gruppi:

- un gruppo composto da studenti universitari e medi che

dispongono di poche risorse economiche, ma sono

sufficientemente motivati per recarsi presso le postazioni

pubbliche;

- un gruppo composto da giovani quadri in possesso per la

maggior parte di un diploma di studi superiore.

Entrambi i gruppi utilizzano la rete prevalentemente per

intrattenersi o per svolgere attività collegate con il proprio

lavoro. La realizzazione dei Publinet ha incontrato quindi

soprattutto la domanda di persone già disposte a utilizzare le

nuove tecnologie o perché motivati (può essere ad esempio il

Page 262: tesi

Prodigi in Tunisia 243

caso di quadri o studenti universitari che possono utilizzare

informazioni raccolte in rete per le proprie attività di studio e

lavoro o di comunicazione) o perché in possesso di risorse

sufficienti per spendere tempo in rete alla ricerca di notizie

interessanti o siti di intrattenimento. “Nonostante

potenzialmente tutti gli individui possano avere accesso a

Internet attraverso i Publinet, solo studenti e quadri utilizzano

queste infrastrutture”(Ben Sassi, 2002). Solo quegli individui già

dotati di un interesse preciso verso l’utilizzo della rete si recano

presso le postazioni pubbliche. E qui ritorna ancora una volta “il

problema dei contenuti della rete, contenuti che non rispondono

ai problemi quotidiani dei paesi in via di sviluppo” (ibid.).

Nonostante il progetto abbia costituito un grosso aiuto per la

popolazione, mettendo a disposizione strumentazioni altrimenti

irraggiungibili per la maggior parte degli individui, sembra

necessario che vengano sviluppate altre strategie se si vuole fare

delle tecnologie uno strumento per l’inclusione sociale. La loro

capacità di mettere a disposizione di chiunque, a costi

relativamente bassi, strumenti sufficienti per poter partecipare

attivamente alla nascente Società dell’Informazione, di livellare

il campo di lotta, facendo della conoscenza, ovunque distribuita,

la principale fonte di valore aggiunto, rischia di rimanere solo

potenziale in assenza di politiche in grado di riconoscere le

complesse interazioni tra scopi, strumenti, culture, motivazioni,

risorse.

Page 263: tesi

Capitolo IV 244

2. Il Progetto Prodigi in Tunisia

2.1 Le attività sul campo: mediazione e formazione

Il primo intervento sul campo dell’equipe di Prodigi si è

svolto nell’agosto 2003, in collaborazione con la ONG italiana

Alisei e l’Union Tunisienne de Solidarieté Sociale (UTSS) e ha

permesso di installare due laboratori informatici nella città di

Gabès e nell’oasi di Kerchaou, nel Sud- Est della Tunisia (figura

1), e di formare 30 persone all’utilizzo delle tecnologie

informatiche. II progetto ha visto l'impegno di 11 volontari di

diversa formazione coadiuvati in loco da due esperti tunisini di

software libero, anch’essi volontari.

I fondi necessari alla sua realizzazione sono stati raccolti con

diverse modalità:

- buona parte è frutto di autofinanziamento da parte di

Prodigi (autotassazione, spese di viaggio a carico dei volontari,

iniziative di finanziamento)

- il resto deriva dal sostegno offerto dalle due ONG partner

del progetto, Alisei per la spedizione del materiale e l’UTSS per il

supporto logistico in loco.

Durante le tre settimane di permanenza sono stati realizzati

parallelamente tre differenti corsi di formazione, studiati per

rispondere alle esigenze espresse dalle comunità locali e per

garantire la sostenibilità dei laboratori al termine del progetto.

Page 264: tesi

Prodigi in Tunisia 245

Fig 1. Le comunità interessate dal Progetto Prodigi in Tunisia

Page 265: tesi

Capitolo IV 246

Il primo dei corsi, quello per mediatori, è stato pensato per

formare figure capaci di svolgere il ruolo di “interfacce umane”

tra la tecnologia e gli individui, di tradurre in operazioni

effettuate attraverso la macchina richieste avanzate da persone

che non intendono imparare ad usare un computer, ma che

possono averne bisogno solo occasionalmente (per verificare la

disponibilità di fondi per determinate attività agricole, per

mettersi in contatto con parenti lontani, ecc.). L’idea che sta alla

base di questa scelta è che l’utilizzo delle ICTs non debba essere

imposto alle popolazioni dei paesi in via di sviluppo come una

necessità, un dovere, se queste vogliono rimanere al passo con i

tempi. Al contrario, le nuove tecnologie devono rappresentare

soprattutto una risorsa in più al servizio delle esigenze di

comunità e individui, tanto di quelle più radicate, quanto di

quelle più recenti.

Il corso per formatori, invece, si è rivolto a figure già attive

nel campo della cooperazione o della formazione (insegnanti,

animatori, ecc). L’obiettivo è stato quello di affidare la

trasmissione delle nuove competenze informatiche a individui

già investiti dalla comunità del compito di trasmettere la

conoscenza e già in possesso di strumenti adeguati per formare

nuove persone al temine del progetto.

Infine, una formazione più intensa e più tecnica è stata

riservata ad un

gruppo ristretto, di sole 4 persone, allo scopo di offrire loro

le competenze necessarie per essere i futuri manutentori dei

laboratori informatici e di rendere i centri il più possibile

autosufficienti, almeno rispetto ai problemi più frequenti e meno

complessi.

Per quanto riguarda la scelta dei beneficiari, questa è stata

effettuata, non senza difficoltà, in collaborazione con l’UTSS

Page 266: tesi

Prodigi in Tunisia 247

prima della realizzazione dei corsi e dei laboratori, cosa che ha

consentito di adeguare il più possibile la formazione alle esigenze

e alle competenze locali e di ottenere una forte partecipazione

femminile alle attività.

Nell’orientare la formazione, tuttavia, è stata riservata

maggiore importanza al ruolo che i diversi beneficiari avrebbero

dovuto svolgere al termine del progetto piuttosto che alle loro

competenze pregresse. Infatti, rispetto ad un approccio più

tradizionale, che avrebbe portato a dividere gli allievi tra un

corso “base” e uno “avanzato”, a seconda del loro curriculum, è

stato preferito un atteggiamento che attribuisse maggior peso ai

compiti che ognuno avrebbe dovuto svolgere all’interno della

propria comunità, una volta formato. Inoltre, l’aver preferito

corsi per mediatori e formatori a corsi base e avanzati, ha evitato

di creare nuove gerarchie tra la popolazione interessata dal

progetto, un effetto indesiderato comune anche ai progetti di

sviluppo ispirati alle migliori intenzioni.

2.2 Il contatto con il territorio

Un aspetto che si è rivelato essenziale non solo per lo

svolgimento delle attività, ma anche per il futuro dei laboratori, è

stato il contatto preso con le organizzazioni e comunità locali

prima della realizzazione del progetto.

La scelta dell’oasi di Kerchaou come sede di uno dei due

laboratori è sta effettuata infatti dietro ad una richiesta esplicita

della popolazione locale, interessata ad ampliare le proprie

attività attraverso l’utilizzo delle tecnologie informatiche. Il

laboratorio di Kerchaou è stato installato in un centro

precedentemente realizzato da Alisei, gestito da un comitato

locale, il quale ha visto nelle nuove tecnologie un’opportunità per

Page 267: tesi

Capitolo IV 248

sostenere alcune delle iniziative già avviate dalla comunità (corsi

di educazione alla salute e di microcredito). La forte motivazione

della componente locale è stata di grande aiuto durante la

formazione e ha consentito di fare del laboratorio un centro di

socializzazione anche dopo la fine del progetto.

L’installazione del laboratorio, poi, è stata accompagnata da

tutta una serie di attività collaterali (pitture murali, proiezione

di film, partecipazione a matrimoni locali) che hanno ricoperto

un ruolo estremamente importante nell’avvicinare l’equipe alla

popolazione e nel presentare il laboratorio stesso non come

qualcosa di alieno e imposto dall’alto, ma come un servizio di cui

potersi appropriare con facilità.

Un ulteriore legame con la realtà tunisina è stato

rappresentato dalla presenza di due esperti di software libero

tunisini, contattati fin dall’Italia, che hanno affiancato le attività

di formazione (normalmente svolte in francese) con seminari in

arabo sul software libero e la realizzazione di pagine web. Il loro

coinvolgimento nel progetto ha consentito di mettere in contatto

realtà che probabilmente non si sarebbero mai incontrate e

rappresenta tutt’ora una garanzia di sostenibilità del progetto,

qualora dovessero sorgere problemi che i beneficiari del progetto

non siano in grado di risolvere autonomamente.

2.3 Laboratori e corsi di formazione

I due laboratori, allestiti a Gabés e Kerchaou con computer

dimessi da enti pubblici e privati ma ancora funzionanti, sono

stati concepiti non solo come luoghi di accesso alle nuove

tecnologie, ma come spazi di pubblica utilità aperti alle comunità

locali, luoghi di aggregazione e formazione.

Page 268: tesi

Prodigi in Tunisia 249

Ciascun laboratorio è composto da 5 computer e da una

stampante collegati fra loro in modo da formare una piccola rete

locale. La connessione a Internet è garantita da un provider

locale. Per quel che riguarda la dotazione software dei laboratori

sono stati utilizzarti esclusivamente prodotti “open source”. La

scelta è quindi ricaduta sul sistema operativo GNU/Linux e su

alcuni degli applicativi più comuni presenti in diverse

distribuzioni:

OpenOffice per i programmi d'ufficio, Mozilla per la

navigazione e la creazione di pagine web, e Gimp come

applicativo di grafica.

Particolare attenzione è stata prestata inoltre alla

localizzazione delle macchine (tastiere, sistema operativo e

software installato) in lingua francese (la seconda lingua parlata

in Tunisia) e in arabo su alcuni computer, grazie all'aiuto degli

esperti tunisini.

I corsi di formazione per mediatori e formatori, tenuti in

lingua francese da docenti coadiuvati da più assistenti d’aula,

sono stati strutturati in modo da fornire ai beneficiari un

bagaglio di nozioni informatiche adeguato al ruolo di

intermediari con le tecnologie che questi avrebbero svolto

all’interno delle rispettive comunità di origine una volta ultimata

la formazione. Gli argomenti trattati hanno spaziato dall’uso

dell’elaboratore elettronico e della sua interfaccia grafica,

all’utilizzo di programmi di videoscrittura e di fogl elettronici,

dalla navigazione e ricerca di informazioni su Internet, all’uso

della posta elettronica. Alla programmazione di pagine web sono

stati invece dedicati dei seminari pomeridiani durante i quali i

beneficiari, divisi gruppi di lavoro, hanno realizzato dei siti web

comunitari e personali attualmente ospitati sul sito di Prodigi 7.

Page 269: tesi

Capitolo IV 250

Nel corso indirizzato alle 4 persone cui è stato affidata la

gestione quotidiana dei laboratori sono state invece affrontate

tutta una serie di problematiche relative alla manutenzione e al

buon funzionamento degli stessi: cablaggio, installazione del

sistema operativo, configurazione della rete locale,

amministrazione della connessione ad Internet anche in termini

di costi, gestione della stampa per citarne alcune.

2.4 La scelta del software libero

La scelta di utilizzare software libero in un progetto di

cooperazione è mossa innanzitutto da una serie di valutazioni di

ordine teorico. L’attuale scenario mondiale vede le nuove

tecnologie trasformarsi da occasione di sviluppo delle nazioni ed

opportunità di miglioramento delle condizioni di vita degli

individui in uno nuovo strumento di esclusione sociale ed

economica. Le divisioni tra la minoranza di individui che vi ha

accesso e che può quindi avvantaggiarsene e la maggioranza a cui

questo è precluso invece che assottigliarsi si vanno acuendo. I

grandi centri di innovazione tecnologica, impegnati a tutelare i

loro interessi tramite l'imposizione di brevetti e la strenua difesa

della proprietà intellettuale, stanno limitando la diffusione delle

conoscenze tecniche, relegando la maggior parte delle persone

nella condizione di semplici consumatori e non di utilizzatori

consapevoli delle tecnologie. In questo contesto il software

libero, una tecnologia aperta per natura, sembra più adatta a

favorire la condivisione delle conoscenze e il formarsi di una

maggiore consapevolezza tecnologica.

In realtà, come i paesi in via di sviluppo, inoltre l’impiego

del software libero presenta dei vantaggi rispetto alle soluzioni

proprietarie. In primo luogo l’accessibilità al codice sorgente e la

Page 270: tesi

Prodigi in Tunisia 251

libertà di modificarlo ne fanno una tecnologia capace di

rispondere ad esigenze circoscritte, trascurate dalle grandi

multinazionali dell’ICT, orientate verso i grandi mercati e i

grandi profitti. Il basso (a volte nullo) costo delle licenze e la

concreta possibilità di utilizzarlo anche su hardware datato

rendono poi quella open source una tecnologia sicuramente più

sostenibile. Non bisogna infine dimenticare ’esistenza di una

comunità mondiale di sviluppatori e utilizzatori già strutturata e

motivata che ben si presta alla realizzazione di progetti di

sviluppo che prevedano l’impiego di queste tecnologie, come è

stato dimostrato dalla stessa esperienza di Prodigi.

Page 271: tesi

Capitolo IV 252

Note

1 Le tariffe applicate da Tunisie Telecom, per quanto possano essere

elevate se comparate con la media europea, sono comunque tra le più basse

rilevate sulla sponda meridionale del Mediterraneo: 0,008 _ al minuto per

chiamate locali, 0,09 _ per chiamate interurbane e circa 10 _ per 20 ore di

connessione ad Internet2 Per ottenere un abbonamento alla rete mobile (in Tunisia non sono

ancora state commercializzate le schede prepagate) può essere necessario

attendere dai 3 ai 6 mesi, tempo cui gli operatori effettuano controlli sulla

situazione patrimoniale e lavorativa del ichiedente. 3 Il numero di “business PC” nel 2000 era pari a 210.000, il 95% sul

totale. 4 Fonte: Agenzia Tunisina per Internet (ATI) 5 In Tunisia finora lo standard più evoluto è l’ISDN che consente una

trasmissione dati a 64kps, mentre lo standard DSL dovrebbe cominciare ad

essere implementato a partire da quest’anno. Solo pochi istituti possono

accedere a connessioni a banda larga, ottenute principalmente tramite

connessioni radio o via satellite 6 Le chat hanno riscosso un grande successo presso gli internauti

tunisini e tra i siti più frequentati dai giovani utenti dei Publinet si colloca

Amour.fr, che, come si può capire dal titolo, offre l’opportunità di fare

incontri virtuali alla ricerca dell’anima gemella. 7 www.pro-digi.org/siti.html

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