eretici del terzo millennio n.2

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dedicato alla memoria diHugo Rafael Chávez Frías

(1954 – 2013)

e alla memoria diJulien Ries (1920 – 2013)

Lupercalia / Veneralia 2013

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ereticidelterzomillennionumerodueda un’idea di A. Vivaldi

© edizioni physiognosis 2013pamphlet di terrorismi culturali e deliri estatici a libera diffusione

in copertinaLittle Red Riding Hood, Gustave Doré (1883), dettaglio.Con una foto di A. Annunziata

gli eretici del terzo millennio sonoAlessandro Alichino Vivaldi capitano dei malebranche (chief editor)Vinz Calcabrina Notaro coordinatore inter-bolgia (heresy design)Andrea Ans Anselmo responsabile area recensioni

malebolgiaAnita Annunziata (fotografie)Federico Marafin (designer junior)Daniela Montella, Tatiana Martino, Felice R. Addeo cuccioli di Shub NiggurathCastigator Cortese, Le dadaiste, Adamo Panone, Isabella Figini, Andrea J. Sala

l’opera qui presentata, ivi inclusi articoli e immagini, salvo dove diversamente specificato, è coperta da licenza creative commons attribuzione - non commerciale - non opere derivate 3.0 italia (cc by-nc-nd 3.0).la riproduzione, distribuzione, comunicazione ed esposizione al pubblico dell’opera è consentita purché ne venga attribuita la paternità agli autori come da firme. è vietato come da licenza menzionata l’uso per fini commerciali degli articoli e delle immagini, così come l’uso degli stessi in alterazione per creare opere derivate.

la responsabilità dei contenuti degli articoli pertiene esclusivamente agli autori nominali degli stessi.

insulti, maledizioni e maldicenze, candidature, minacce di morte, idee, articoli e immagini per collaborare ai numeri successivi, possono essere inviate a:[email protected] o al profilo facebook facilmente rintracciabile.

gli insulti, maledizioni e minacce più interessanti saranno pubblicati sul prossimo numero, quindi per cortesia firmateli.

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index

Per la guerra della cultura e del Pensiero alessandro vivaldi

uomini e titani andrea jacopo sala

di miti, di boschi e di sorgenti miracolose le dadaïste

costruire la torre. aPPunti di ingegneria eretica adamo panone

cinismo, meschinitá e suPeromismo de noantri nell’ePoca digitalecastigator cortese

Per un’estetica dell’estremismo musicale. i. il caso “movimento d’avanguardia ermetico” vinz notaro

dove la rabbia trascende i ProPri limiti. l’esemPio di due death metal band italiane andrea anselmo

cervelli marci: lo sterminio delle lingue isabella figini

armarsi dentro e armarsi fuori: ovvero iniziazione alla vita alessandro vivaldi

limbo daniela montella

una luce nel buiofelice roberto addeo

fotostoria eretica: ianuas, sPecula, Pontesandrea anselmo

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Per laguerradella

culturae del

Pensieroalessandro vivaldi

Clausewitz teorizzò la guerra come l’uso del-la forza per imporre la propria volontà al ne-mico. Pur avendo molto da ridire sulle teorie polemologiche di Clausewitz, rimane la realtà della guerra – a tutti i livelli – come mezzo non volto alla distruzione indiscriminata, quanto al raggiungimento di un fine specifico, general-mente definibile come appunto l’imposizione di una volontà o comunque di un nuovo “mecca-nismo”. Perché questo incipit? Perché questo spazio, pur vivendo di spinte eterodosse, ha co-munque un minimo comun denominatore che il sottoscritto chiama gene eracliteo. Crediamo, in sostanza, nel dinamismo creativo degli opposti. Questo dinamismo è incarnato in Πόλεμος, vol-garmente definito come principio della guerra. È su questo principio che si basa l’opposizione dell’eresia rispetto all’ortodossia che abbiamo definito in passato come materialista, piccolo

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borghese, capitalista. Ma sarebbe inutile, que-sta guerra, se non fosse mossa anche da una spinta creativa. Risulta essere sostanzialmente inutile la distruzione se non è sincronizzata con una spinta volta al creare qualcosa di nuovo. Questo numero 2 si costruisce intorno a que-sta considerazione. Non mero annichilimento delle strutture obsolete del pensiero, della cul-tura e dell’arte, ma putrefazione, nigredo, cioè distruzione cui deve seguire necessariamente l’imprescindibile creazione o riconoscimento di strutture nuove. Se quindi l’intento è quel-lo di destrutturare l’attuale sistema di pensiero, produzione e fruizione della cultura e dei va-lori, di lavarlo col fuoco, eliminarne le scorie, giocoforza bisogna proseguire col raccoglierne le ultime eredità sane e ricominciare l’opera di creazione di un nuovo sistema – dove per si-stema si intende qualcosa di meno rigido, più flessibile e più rispettoso della natura umana che non l’attuale catena di montaggio mondia-le. Mi preme specificare tutto ciò data l’attuale situazione del paese, messo sotto pressione da spinte provenienti dal basso, spinte meramente moraliste ed inquisitorie (e plebee) che non por-teranno a nulla se non a qualche testa tagliata (è il segreto della demagogia), oltre che all’ulte-riore peggioramento della crisi sistemica in cui ci troviamo. Crisi sistemica, non meramente economica. Crisi che forse, tra un quarto di secolo, verrà giudicata grave pari solo al collasso del tardo impero romano occidentale. Crisi della cultura a tutti i livelli, crisi economica, strategica, milita-re. E mentre c’è chi tenta di risolverla tagliando teste – senza avere dei degni sostituti – o chi non si capacita neanche della profondità di tale crisi, pretendendo di andare ancora lungo il vec-chio sentiero, alcuni di noi hanno cominciato a cercare il punto di origine della ipotetica (uto-pistica forse, ma tant’è) ricostruzione. E quel punto di origine per formare il nuovo, lo si è intravisto nel concetto di formazione. Non solo pedagogia ed educazione, ma formazione a tut-ti i livelli, interne ed esterni come individuali e di gruppo.Il 16 febbraio gli Eretici si sono riuniti a Roma.

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Da questo incontro sono venute fuori nuove spinte, nuove argomentazioni, nuovi stimoli e nuove discussioni (anche accese) di cui questo numero 2 è indubbiamente figlio. Se il nume-ro 0 è stato il primo passo, il palesarsi di una forza, il numero 1 è stato il momento in cui si è cominciato ad imbrigliare la tigre. Questo numero 2, è il preciso istante in cui si comincia la cavalcata: si cerca di portare la tigre a qual-cosa di costruttivo. Esplorare nuove opzioni formative, nuove attività che possano portare la creazione di pensiero. Altrimenti, la nostra guerra, che è culturale e spirituale, non avrebbe senso alcuno. Concludendo, in questo nuovo numero trovere-te nuova prole di Shub Niggurath, invero ben quattro nuovi autori (di cui due giovanissimi) e – udite udite! – la nostra prima rubrica di cui preferisco non anticiparvi nulla. Nel frattempo, il numero 3 è già in lavorazione e secondo i pia-ni, dovremmo chiudere il 2013 con un totale di 5 numeri (0-4) e un secondo Quaderno dell’Eresia, oltre ad uno speciale, Eros&Terrore¸ per il quale chi vuole può inviare proprio materiale sin da ora ([email protected]). Buona lettura!

sine requie:

virescit vulnere

virtus

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uo mini etitani andrea jacopo sala, minotauro

«il vedere te rende l’affanno più sopportabilela vita meno inutile, l’animo infiammabile.

ma, oh stupenda, distogli i tuoi occhi dai mieipoiché mi paralizza il tremendo che abita

nelle tue pupille».

Stride parlare di potere in un mondo dove que-sta parola è vista con sospetto se non palese-mente vituperata o in alternativa ammansita con beceri sostitutivi egoici. Se nel secolo scor-so le ideologie erano legittimate dall’esistenza di forti fondamenta sia filosofiche (o spirituali, che dir si voglia) sia materiali oggi la soluzione che va per la maggiore sembra essere la rinuncia alla determinazione della forma. Il terrore per l’aguzzo stiletto della volontà, la cui attuazio-ne è per forza di cose terribile se si prefigge di essere efficace in qualche modo, ha indirizzato il contemporaneo essere umano all’abbandono totale di qualsivoglia istinto titanico. La grossa eredità che il novecento ci ha lasciato, ovvero la possibilità di interrogarci sulla brutalità della tecnica, sull’inattualità delle convenzioni catto-borghesi, sulla natura più profonda e spaven-tosa dell’essere umano è stata rimpiazzata con un senso di laissez-faire su tutti i livelli, che va dalla gestione della “cosa pubblica” sino alla vita del singolo individuo.Ed è appunto con il cedere il potere ai singoli che si è attuata la rinuncia alla determinazione. Il senso è a grandi linee questo: se una mac-china efficiente e potente mi terrorizza, allora occorre smembrarla nelle sue singole rotelle in modo da non esserne più intimorito. Ma il ter-rore e la volontà non cessano di esistere, e come

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un fiume impetuoso a cui è stata sbarrata la via essi non trovano il modo di canalizzarsi in un sistema coerente e vantaggioso per l’essere umano.È infatti un’era di terrore, la nostra: terrore delle responsabilità, terrore di essere messi alla prova, terrore di fare delle scelte e di esserne soddisfatti. Si ha paura del nucleare e intanto la prima causa di morte in un paese occidenta-le restano l’alcool e il fumo. Protestiamo per le guerre, ma nessuno vorrebbe mai rinunciare ai privilegi che l’imperialismo porta. Se un dilem-ma ci coglie, la soluzione è quella di dimenticar-sene, di distrarsi. Huxley ed Orwell andrebbero annoverati tra i profeti.L’unica differenza con il soma del “Brave New World” è che la nostra era è riuscita ad elabo-rare sistemi più raffinati, a riprova che dietro alle volontà individuali esiste comunque una volontà collettiva il cui obbiettivo finale è quel-lo di minare la volontà stessa. In poche parole, ci boicottiamo da soli per non fare i conti con noi stessi: ancora la paura che si riconferma nel suo ruolo di regista.Tra i teatrini allestiti per inspessire la barriera tra la nostra anima e la nostra mente annoveria-mo i più classici divertimenti fino al surrogato per donarci l’illusione di avere potere di deci-sione, ovvero il mercato: l’homo oeconomicus attua il suo potere di plasmare la realtà davanti allo scaffale di un centro commerciale.Ma qual è l’esito più infausto del dono ai singoli del potere? È l’accrescimento del loro ego. Un essere umano è tanto più potente quanto la sua singolarità ha peso sulla società. Poco importa la reale portata del suo essere, conta quanto egli riesca ad essere ascoltato. Un concetto che po-trebbe apparire allettante, utile e liberatorio per alcuni versi, ma che inserito in una cornice di democrazia e di rispetto dei diritti umani signi-fica l’appiattimento del significato per far posto ad un semplice esercizio di demagogia. Lo sfogo di un impulso, una gara a chi grida più forte, nient’altro.

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un nuovo tiPo di Potere: il servizioMa vi è un altro modo di intendere il potere, un modo che da millenni si ripresenta periodi-camente nelle speculazioni dell’uomo e periodi-camente è costretto a nascondersi per sfuggire alle persecuzioni. È il potere che ha origine dal servire.Il servizio richiede una visione del mondo op-posta a quella individualistica. Un servizio pre-suppone infatti un concetto votato al collettivi-smo, alla salvaguardia di un organismo che si riconosce superiore alla somma delle sue parti. Insomma, presuppone il riconoscimento del Sé come di un qualcosa che travalica i bisogni egoici personali, e a cui questi ultimi devono essere sacrificati (nel senso proprio del termine, ovvero “resi sacri”).Hillman pone interessanti tesi1 partendo dal concetto della platonica Anima Mundi. Il ser-vizio alla comunità che egli intende è propria-mente quello della dedica della propria singo-larità. Non quindi un appiattimento delle di-versità sia personali sia culturali, bensì un loro raggruppamento attorno ad un fine comune, che è poi quello della loro individuazione. Hil-lman aggiunge alla visione junghiana dell’indi-viduazione un senso sociale: un individuo non può individuarsi all’esterno della società2, ov-vero egli non è slegato dalla responsabilità di far parte di un sistema. Il potere sta qui nello sviluppo del proprio potenziale in armonia con quello della comunità (comunità che nella sua visione, giova precisarlo, comprende uomini, piante, animali, Dei, antenati, oggetti) e del po-tenziale della comunità in armonia con l’Anima Universale.Sebbene Hillman non ignori il lato più terri-ficante del servizio3, rimangono alcuni punti oscuri che lo psicanalista tocca solo in parte. Il significato del verbo “servire” è già foriero di ambiguità: se da un lato presuppone l’atti-

1 J. Hillman, Il Potere: come usarlo con intelligenza, Rizzoli.2 J. Hillman, M.Ventura, Cent’anni di psicanalisi – e il mon-do va sempre peggio, Rusconi, Milano 2005. 3 Fondamentali a questo proposito sono le sue speculazioni nel testo già citato Il Potere e soprattutto in Un Terribile amore per la guerra

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vità disinteressata dall’altro fa sentire ancora il peso dello stiletto della volontà. Una cosa che ci “serve” è anche una cosa utile, adatta al pro-prio scopo. Perfezionata. E il perfezionamento richiede disciplina, costanza, sofferenze, priva-zioni. Metaforicamente (ma anche non) le de-diche e i sacrifici devono passare per le fiamme del fuoco sacrificale. Tutti concetti poco digeri-bili per l’uomo attuale.È infatti all’uomo del mito che ci rivolgeremo per capire meglio cosa si intende per servizio, e quali sono le sue connessioni con il potere.

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enea e arJuna: dolore e servizioEnea ha il suo destino già prefigurato nel no-me. Secondo l’inno omerico ad Afrodite, al fi-glio di Anchise e della Dea fu imposto il no-me Aineias perché la relazione con un mortale aveva causato ad Afrodite un ainon…aichos, un terribile dolore. Enea è un eroe che soffre e fa soffrire: emblematica è la dipartita da Didone, che causerà la morte della regina e il rimpianto dell’eroe nel momento in cui la ritroverà negli inferi. Non solo, il conflitto tra i due porterà alla guerra i rispettivi popoli, Cartaginesi e Romani. Ritroviamo ancora quel senso di indissolubile legame tra comunità e singoli.Enea ha la causa delle sue sofferenze nell’essere pius. È il suo Fato, come non si mancherà di ricordargli a più riprese, che lo costringe alle peregrinazioni. Egli è, a buon diritto, il “pri-mo sacrificante” del suo popolo: per dirla con Hillman, tutta la sua vita è orientata verso il compimento del suo daimon.Anche Arjuna, l’eroe della Bhagavad-Gita, è un eroe sofferente. L’opera si apre appunto con un Arjuna atterrito dal dilemma che deve af-frontare: scendere in guerra contro i suoi paren-ti, commettendo così peccato, oppure non dare battaglia, lasciando che il male si diffonda? En-trambe le scelte portano alla stessa conclusione: il mondo deve degradarsi, le caste mescolarsi, e Arjuna è chiamato a recitare un ruolo in questa degradazione.Una vita grama, senza dubbio. O forse no. For-se è proprio la nostra incapacità di accettare il volto terribile di Dio che ci rende sofferenti. Sia Arjuna sia Enea hanno conosciuto il dolore, il dubbio, l’esitazione. Ma è grazie alla conoscen-za del terribile, della caducità della vita, dell’in-sensatezza di ogni azione all’infuori di quelle orientate al compimento del proprio essere che essi possono dirsi alla fine sollevati dalle pre-occupazioni umane. Non felici, essi non hanno bisogno di esserlo: essi hanno finito di soffrire.Ogni loro azione acquista un senso perché tra-scende l’immediato. Questo è il reale potere dell’essere umano: la possibilità di liberarsi dal peso della paura e del dolore per dedicarsi al compimento del proprio ruolo.

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verso il Potere del servizioOccorre quindi innanzitutto una ripresa di co-noscenza del lato più brutale dell’esistenza. Non è nella comodità che si ottiene il proprio per-fezionamento. Non è nemmeno nascondendosi dietro alla moralità che si può nascondere il ma-re con i suoi terribili mostri marini. E bene che qualcuno lo dica, a chi cerca rifugio tra le mura di castelli di carta. Questi, se ignorati, agiteran-no le acque ancora più forte e prima o poi si sarà costretti a guardarli in faccia. Le stupide preoc-cupazioni per cui ci si affanna esistono perché si pensa che siano le cose più sconvolgenti che possano accadere. Il mutuo, il lavoro, la rata della macchina, le vacanze, la vicina che guar-da nel giardino, la moglie isterica, la fidanzata viziata. Situazioni ben più impegnative come carestie, guerre, prigioni, dittature, saccheggi, fame, sete, povertà sono sentite come leggende lontanissime. Non ci si vuole nemmeno avere a che fare, terrorizzati che le terribili angosce del mondo possano un giorno venire presso di noi, nel nostro caldo nido, a rovinare quella scorza di apparenza che ci si è creati con difficoltà. Persino a coloro che vengono inviati nei tea-tri più tormentati, siano questi militari o civili (sempre comunque volontari) si riserva una no-mea che ondeggia tra la lode e il sospetto. Ma già il temerle è indice che queste forze, questi incubi, non si sono ancora spenti. Occorre una certa dose di fegato per scendere all’inferno e dialogare con i demoni.E ancora più fegato occorre per fare il passo successivo: accettare che i presunti mali del mondo, semplicemente, ci sono, ci sono stati e sempre ci saranno. Essi fanno parte della realtà e come tali vanno rispettati, esaltati e compresi. Possiamo fare qualcosa per rendere il mondo migliore? No. Possiamo esimerci dal fare qual-cosa per rendere il mondo migliore? Nemmeno. Possiamo allineare i nostri desideri, i nostri pen-sieri, le nostre azioni a quello che l’Intelligenza richiede? Questa è l’unica azione sensata.Solo realizzando le precedenti premesse si sarà in grado di risvegliare i nostri impulsi titanici senza freni morali. L’incutere paura, il domare le forze naturali, l’indirizzare gli eventi secondo la nostra volontà: tutti questi poteri sono ap-

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pannaggio degli Dei. Ma il mito non ci insegna forse che un uomo perfetto, un eroe ha tutto il diritto di sedersi accanto agli Dei? Forse un “primo servitore” che sia degno di questo nome non ha il dovere di utilizzare questi poteri? For-se le Madri o le Spose degli eroi e dei saggi non erano divinità?E voi, che offendete gli Dei, che disprezzate lo sforzo, che ridete dei sacrifici quanto vi sentite al sicuro dietro alle mura della civiltà, lontano dalle verità del bosco?Voi, che invocate giustizia, quanto sapreste sopportare la sua mannaia pesante?Ricominciamo dal mito, da quelle figure che più ci sono vicine. Ricominciamo a sentirci in empatia con i dolori e i travagli degli eroi, con le loro fatiche, seguendo il loro esempio. Di-struggiamo una volta per tutte la nostra visione dualistica della realtà. Accettiamo che ciò che noi intendiamo con “male” non è altro che un colore dell’arcobaleno che non conoscevamo. Rendiamoci amico l’inferno, duro il purgatorio, accogliente il paradiso.

p. 11 Colossus, Francisco Goya, 1810-1827

pp. 14-15 Titanomachia, Cornelis van Haarlem, 1588-1590

p. 16 Atlante ed Esperidi, John Singer Sargent, 1922–25

ducunt volentes

fata, nolentes trahunt

Seneca, Epistole a Lucilio

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di miti di boschi e d i sorgenti miracolosele dadaïste

«tamo, quando arrivi a Palodes annuncia a tutti che il grande dio Pan è morto!»

Budapest, Hotel Gellért, h 18.30 agosto 2012.

Nel gőzfürdő (bagno turco) il vapor acqueo a 50°C fuoriesce abbondante da fessure invisibili producendo un rombo sordo, quasi rantolante. La sensazione di spaesamento sensoriale ed esi-stenziale è sovrastante. Resisto, in equilibrio su immaginari fili sospesi sull’abisso. Quando gli occhi riescono a scorgere attraverso il vapore, la magnificenza dei colori e delle forme liberty mi rapisce, allontanandomi ancora di più dal fattore spaziotemporale dell’hic et nunc. Ed ecco che, sul bordo di una vasca termale intento in una partita di scacchi con i mamelucchi del sultano, il mio spirito si abbandona a oziose riflessioni sull’Art nouveau: “fenomeno artistico ridon-dante di vita, che guarda alla modernità, ma con occhi arcaici”. Asimmetrie, tartarughe, fanciulle e volti mostruosi si inseguono sulle colonne fino ai capitelli, intrecci floreali coprono per metà condotte da cui fuoriesce il vapore, mentre l’ac-qua sulfurea calcifica in forma di enormi barbe

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intorno alle bocche dei fauni che la rigurgitano senza sosta. Guardare alla modernità con occhi arcaici. Occhi sognanti, distanti. Il pensiero su-pera la valutazione artistica e solutus dall’acqua sulfureo-mercuriale si lancia in analogie ardite. Mi sovviene il nome dei missili balistici indiani a raggio medio e intermedio, sviluppati come vettori nucleari: Agni. L’invitto figlio di Dyaus e Prthivi, la prima parola del primo e più anti-co dei Veda: agním īḷe puróhitaṃ / yajñásya devám ṛtvíjam / hótāraṃ ratnadhâtamam1. Mentre l’inno vedico ancora echeggia potente, rimbalzando sui mosaici blu in stile belle epo-que e si fonde e cacofona con le parole frivole dei clienti spagnoli e italiani delle terme, cerco una possibile corrispondenza nella cultura d’Eu-ropa. Bombardiere pesante Jupiter… Donnar Bomber. Provo col cristianesimo: unità d’attac-co San Michele o San Giorgio… col paganesimo funzionava meglio, i santi guerrieri sono pochi, per la maggior parte erano buon’uomini. Non male comunque. Penso ancora a quella storia della modernità vista con occhi arcaici: in fin dei conti cos’è la modernità? Presente, contingenza. Cos’è l’arcaicità? Distanza, lontananza. Per dirla con occhi arcaici: Hermes è dio veloce, dinami-co, Kronos è lento, poiché distante e prospet-tico. No, per quanto ami suggestionarmi, nelle vasche di acqua sulfurea intorno a me non vedo anziani signori col falcetto o giovani fanciulli con due serpi arrotolate intorno al bastone. Ma forse per arrivare a una prospettiva tragica sulle cose non devo superficialmente cercare in que-sto presente formulazioni simboliche del passa-to. Ombre strane e furtive nei corridoi vetusti dell’hotel, dietro le porte dai vetri vivamente co-lorati. Da piccolo avevo paura del buio: durante la notte,quando le forme familiari degli oggetti nella mia stanza, debolmente illuminate, assu-mono contorni abnormi e mostruosi, le stesse tenebre acquistano consistenza, peso, diventan-do simili a una massa densa e impenetrabile. Mitopoiesis: il buio grazie alla sua indetermi-natezza funge da tela su cui la mente umana dipinge e proietta. Potenza della pura immagi-

1 Io rendo onore ad Agni, il grande pontefice, il divino, che officia il rito, lo hotar che invoca gli dèi, il più magnanimo.

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ne, milioni di anni prima dei fratelli Lumière o di David Lynch. Un altro ricordo sopraggiunge: cammino, cercando di non calpestare le linee di congiunzione delle mattonelle, oppure seguen-do una linea della strada, che con la mia fanta-sia di bambino vedo come un’esile fune stesa sopra un abisso. Sotto di me si agitano mostri, un mare di lava incandescente, e vertigini sen-za fondo. La mente umana è poietica: assorbe dall’esperienza (sensoriale e interiore) per poi proiettare su di uno sfondo adeguato prodot-ti e rigurgiti dell’inconscio. Il senso del tragico appartiene all’infanzia. Dopo la sauna, l’acqua a 15°C del frigidarium mi costringe a capire con la potenza di uno schiaffo inaspettato che fino ad allora non avevo avuto una vera percezione del mio corpo. Improvviso come il fulmine, ciò che si era disciolto si coagula. L’orrore e la me-raviglia ci circondano: foreste tenebrose, hor-ridi montes, esseri sfuggenti o mostruosi, e su questo sfondo drammatico baluginano in una luce tragica sensazioni, pensieri e consapevo-lezze. Un anno fa la stessa sensazione, acqua gelida contro il mio corpo accaldato. Intorno tutto è verde: un tetto di fronde ripara questo ruscello dell’Appennino riarso dal sole d’ago-sto, e le rive fresche e ombrose sono costellate di menta d’acqua, belladonna, sambuco e altre innumerevoli piante dalle forme e dalle bacche bizzarre. Non sono però i colori delle piante ad avermi attratto ma un rumore, un suono. In questo scrigno di fresco tutto risuona. Al bor-done possente e delicato dell’acqua che scorre in sottofondo, si aggiungono in una sinfonia perfetta i fruscii delle fronde, simili a un coro d’archi che interviene capricciosamente con la sua melodia, la cui bellezza induce a perdonar-ne l’incostanza. E poi i contrappunti vocali che fuoriescono da becchi invisibili, celati non si sa dove tra gli alberi e gli arbusti. Ascolto meglio, mentre il mio corpo si reidrata, e nell’apparente accordo dei suoni più udibili ne scopro altri, che non riesco a identificare e ad attribuire: cigolii, fruscii, passi, crepitii… presenze. I miei sensi si acuiscono, e all’aumentare della gamma di suo-ni percepiti, la percezione tutta aumenta: così lo snodarsi sinuoso dell’acqua tra i profili duri dei

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massi si fa forma di fanciulla, di cui intravvedo i capelli scuri e lunghissimi e la pelle chiara e cangiante. Lussuriosa e inquietante – ma esiste veramente? Poco importa, ciò che dovevo capire ho capito. Tra i rovi e il sole cocente risalgo il pendio e riprendo il mio cammino, colmo di gra-titudine per la nymphé che mi ha dato ristoro. Uscendo dall’ambiente onirico delle terme la re-altà mi si fa incontro, come l’inaspettata pioggia che bagna la città. I lampioni del ponte sul Da-nubio sono spenti, probabilmente si tratta di un provvedimento di austerity: il fiume che scorre molti metri sotto di me è immenso e oscuro. Rifletto ancora, sotto la pioggia: ma è proprio vero che la modernità comporta l’estinzione del numinoso? Per quanto inquinato, deviato, sna-turato, questo Danubio resta, al di la di ogni dubbio, un dio. La sua possenza è oltreuma-na, cosi come il suo dispensare vita e morte secondo un inintelleggibile arbitrio. Ripenso ai pendii bruciati dal sole e al ruscello rigenerante della mia solitaria traversata appenninica: quei boschi sono sufficientemente scuri e profondi per celare esseri strani e sorgenti salvifiche. E se questa cosiddetta modernità non sussistesse che nelle nostre coscienze? Io sono un indivi-duo moderno non tanto perché comunico at-traverso internet, o viaggio su un Boeing 747, ma perché sono convinto che tutto ciò che mi circonda sia razionale, consequenziale, progres-sivo, logico. Forse il razzo vettore Agni III, per quanto prodotto con tecnologia moderna, da in-gegneri moderni, non è un fenomeno moderno, ma arcaico, atemporale. A metà del percorso mi rendo conto che non si tratta di un’impressio-ne, il ponte oscilla sensibilmente, sferzato dallo stesso vento che spande la pioggia sulla città. Un manufatto smisurato risponde alle stesse leggi che plasmano la forma delle montagne o il corso dei fiumi. Qual è dunque il vero limes tra manufatto e natura? Il ferro del ponte è na-turale, e lo è persino il combustibile nucleare nella testata dell’Agni III. L’intervento dell’uo-mo, guardando da lontano, non è che un sem-plice trasformare e spostare quantità irrisorie di materia ed energia. Persino l’ingegno uma-no che guida tale intervento, che noi sentiamo

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come possente, persino quell’intelletto che con-traddice la natura è esso stesso naturale. È una fulminazione: ma dunque aveva ragione Talete, panta plêrê theôn2! Ci sono dèi dappertutto, dietro a ogni azione ideata dall’ingegno o voluta dalla volontà umana, vi sono forze terribili e grandiose che disegnano il disporsi degli eventi e degli esseri con la stessa pietosa mancanza di pietà, la medesima divina violenza con cui un magnete induce i piccoli frammenti di ferro a disporsi secondo il suo volere, che non è in ve-rità un volere, ma una necessità. Ed ecco che il mio divertissement giunge alla fine. Non esiste nulla: le terme, i boschi, è tutto un inganno tes-suto con le parole, sfuggente come il vapore.Mentre rientro mi colgo intento a camminare lungo una linea della pavimentazione strada-le: una fune tesa sopra un abisso senza fine, e mentre cerco la concentrazione necessaria per restare in equilibrio, ritorna il brivido della tragedia. La fune è morbida sotto il mio pie-de, e senza pensare mantengo l’equilibrio, fino a quando apro gli occhi e sbilanciandomi met-to un piede in fallo. L’abisso svanisce, la fune torna linea, in qualche modo io precipito in un altro livello della realtà. Alle mie spalle percepi-sco il volto (la maschera?) enorme di Dyonisos ridere, d’un riso pieno di amore e di disprezzo.

p. 21 A Nymph In The Forest, Charles Amable Lenoir

p. 22 Frühschnee, Caspar David Friedrich, 1828

p. 27 Maschera di Dioniso

2 Tutto è pieno di dèi.

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costruirelatorreaPPuntidiingegneria

ereticaadamo panone

«vi era ancora una quinta combinazione,

di cui il demiurgo si servì Per decorare l’universo».

(Platone, Timeo)

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una Premessa doverosaChe cosa non vuol essere questo contributo: l’ennesimo trattato sui massimi sistemi che tenti di spiegare cause e ragioni del nulla più imperante. Appaiono infatti di per sé bastevo-li gli sforzi profusi sino ad oggi sull’argomento da personalità di tutt’altro spessore e levatura; sforzi, peraltro, ben conosciuti e di sicuro già abbondantemente digeriti dai nostri Eretici, i quali – riteniamo – di tutto abbisognino, tranne che dell’ennesimo pamphlet per rinvigorire la giustezza del proprio sentire.Consapevole dell’ecletticità dei temi e dell’in-terdisciplinarità tra le materie che andranno qui anche solo indirettamente a richiamarsi, mi preme inoltre sin da subito sgombrare il campo da qualsivoglia equivoco, rassicurando i lettori del personale disinteresse nel trattare in tal sede di sociologia, di diritto, antropologia, o peg-gio ancora di politica e economia. Mi riterrò al contrario estremamente fortunato se riuscirò a dare l’abbrivio a qualche volenteroso che vorrà cimentarsi nell’elaborazione “tecnico – contenu-tistica” di una struttura esistenziale (e non solo) alternativa sotto i multiformi versanti dell’uma-no operare. Lungi dal volermi raffrontare con una siffatto monumento, ho tuttavia con sincerità sempre pensato che, piuttosto che di astruse riflessioni destinate ai più sui possibili rimedi all’odierna degenerazione, vi fosse il tangibile bisogno, tra chi condividesse una certa Weltanschauung, di una sorta di “Che fare?” ad uso interno, ossia di un insieme coerente di valutazioni da cui co-minciare ad inquadrare “logisticamente” l’emer-genza dei nostri tempi, soprattutto (sia pur con-cettualmente) da un’angolatura pratico – orga-nizzativa; non solo ribadendo in modo implicito l’estraneità della nostra posizione di dissenzienti e dissidenti, al tetro abisso di inferiorità che ci accerchia, ma dando nel contempo “il la” alla cre-azione (nel senso più tradizionale e primigenio del termine) di un modello aggregativo innova-tivo, per porre così le basi (rituali) di un ambito diverso entro cui vivere nel quotidiano l’Azio-ne, ed allo stesso tempo progettare il futuro. A cosa ambiscono, allora, questi modesti appun-

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ti: semplicemente ad andare oltre. O meglio: ad immaginare un oltre, fornendo qualche spunto intuitivo a chi voglia sensatamente (e finalmen-te) serrare i ranghi, cominciando ad agmen qua-dratum, a prescindere da una generale “teoria della ri – costruzione”, ed a prescindere da chi ha saputo, sa o saprà organicamente e con meri-to stenderla ed esporla ai più. Dunque, un vigoroso colpo di vanga, il primo – si spera – di una lunga serie, verso lo scavo delle fondamenta di quella fortezza, destinata in futuro ad accogliere, tra le sue mura granitiche, tutti coloro che si dimostreranno all’altezza di viverci: la cittadella dai cui bastioni gli Eretici potranno scagliare gli strali per difendere il te-soro più prezioso della loro blasfemia; ma allo stesso tempo la Torre alchemica della jodorow-skyana “Montagna Sacra”, l’Atànor, l’Officina degli Elementi, ove sperimentare limiti e poten-zialità, nonché tattiche tempi e modi per lancia-re vittoriosamente l’assalto al terzo millennio.

1. alle radici dell’eresia: Per un aPProccio metodologico esistenzialeAlessandro Vivaldi, nell’incipit al numero “zero” di questa Rivista, descrive magistralmente il fondamento dell’essere Eretici, ossia cosa pone oggigiorno l’Eretico inevitabilmente in contra-sto con la massificazione conclamata, e cosa lo muove in questa sua irrefrenabile ed inquieta ricerca di una via di sublimazione. Mi piace qui richiamare alcune di quelle paro-le, poiché da esse trae vigore tutta l’analisi sulle ragioni del ponderare – e dunque sul tentativo di teorizzare – un’alternativa esistenziale comu-nitaria sostenibile: «Non esercizio accademico, quindi […], ma costante tentativo di sviluppare la coessenza di intenzione–pensiero–azione o visione–potenza–azione: essere e divenire senza contraddizione. Divenire ciò che si è ed essere ciò che si diviene, attraverso mezzi spirituali, ar-tistici, estetici, purché ogni mezzo sia, sempre, Azione»1.

1 A. Vivaldi, Incipit per un’Eresia – in Eretici del Terzo Millennio n. 0.

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Al principio dell’agere, v’è dunque sempre un’illuminazione improvvisa, un guizzo, uno stato di coscienza superiore che, manifestando-si rischiara, come un lampo nelle tenebre, e fa apparire all’individuo dissenziente, la collisione con lo status quo in tutta la sua potenza. È la consapevolezza della diversità, la lucida pazzia che conduce le “eccezioni viventi” a sentirsi non più parte di una collettività indifferenziata, ma bastevoli a sé stesse. Qualsiasi cosa si dica, qualunque cosa succeda, ovunque si trovino, gli “sciocchi del villaggio” – come tali additati in ogni tempo dalla congerie “sana” delle comunità – o, per dirla all’orienta-le, gli adepti dello yoga di Shiva, prendono atto della loro discordanza con l’ambiente limitrofo, si adeguano a detta distonia, mettendo tutto, e principalmente se stessi, in discussione, e fa-cendosi vanto di ciò. La realizzazione della propria diversità è dun-que conseguenza di un malessere esistenziale, di un “fastidio” che, se rettamente indirizzato, può condurre finanche all’Azione, affermazio-ne costante, attraverso la pratica giornaliera, di un modo di (re)interpretare e vivere la realtà. Nessuna gioia (semmai odio!) da spartire con gli insulsi automi dell’odierno consorzio socia-le… nessun tentativo di far tra costoro proseliti. Semplicemente, la consapevolezza di una irrime-diabile rottura; e il recondito anelito (mai bra-ma) di imbattersi (mai ricercare volutamente) nei propri simili, per condividere ed accrescere questo impulso distruttivo/rigenerativo.Ma una tale rottura, perché si consumi piena-mente e produca i suoi frutti, deve irrimediabil-mente sfociare in un modo di vivere alternativo, inconcepibile agli occhi dei più, che appaghi l’Uomo Differenziato in ogni ambito del suo operare. Un modo di vivere che non obbligato-riamente si pone fuori o ai margini del mondo, ma che al contrario ben può (e deve) declinarsi proprio attraverso quanto oggi il mondo offre.Incidentalmente mi sono più volte chiesto, so-prattutto volgendo lo sguardo alla mia storia personale e a quella della mia famiglia, se a mon-te di tutto vi sia una ragione più profonda, una causa prima, che nell’essenza ponga da sempre

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“coloro che osano” in antitesi al tipo umano do-minante. Mi sono sempre domandato, cioè, se l’atto di volontà assoluta, di auto – affermazione – a prescindere pertanto dall’epoca, dal contesto sociale o geografico in cui il “gran rifiuto” viene simbolicamente formalizzato –, sia il frutto di una predisposizione congenita, oppure la rea-zione combinata di fattori esogeni che, agenti su un più profondo strato dell’essere, comune a tutti gli uomini, provochino ad un numero più o meno esiguo di questi, in via del tutto casua-le o per una sorta di predestinazione, la vitale necessità di re-agire al torpore indifferenziato circostante.Anche in questo caso, pur non parendo oppor-tuno andare a scomodare i vari impianti filoso-fici, giuridici o religiosi che – ciascun a proprio modo – lungo il corso della storia hanno tentato di dare una spiegazione plausibile al fenomeno del furor e della disubbidienza, ed una giusti-ficazione strutturata alle relative conseguenze (virtù/esimente/colpa; e quindi gratificazione/espiazione, mediante un sistema meritocratico/punitivo graduato), vorrei richiamare ai lettori le parole di un grande uomo, da poco scompar-so, che, in occasione di una conferenza tenuta a Roma anni fa circa le radici storiche e culturali dell’ardistismo (dunque sia pur in un contesto molto peculiare e solo astrattamente pertinente a ciò di cui qui si dibatte), centra a mio parere la questione, con semplicità e linearità a dir poco disarmanti. Scrive Pio Filippani Ronconi: «L’arditismo come tale, indipendentemente dal popolo, o dal repar-to militare che lo pratica, ha due radici. La prima è quella della necessità obbiettiva di migliora-re o risolvere una situazione tattica mediante quell’atto di ‘pura follia’ noto come ‘colpo di mano’ […]. La seconda radice è molto più diffici-le da individuare, perché risiede nella profondità dell’animo umano, laddove i poteri dell’immagi-nazione si coniugano secondo la volontà di esse-re, più che di sopravvivere: si tratta di evocare in un istante di concentrazione totale quella mede-sima volontà – dimenticata dai più nei millenni di vita civile – che permise alla razza umana di sopravvivere alle glaciazioni del Paleolitico e agli

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infiniti accidenti – guerre, pestilenze, migrazio-ni e carestie – che ne hanno accompagnato il cammino fino ai giorni nostri. Questo potere di sopravvivenza attraverso l’impossibile, questa capacità di vedere con gli occhi dello spirito il risultato, prima ancora di iniziare l’azione, è il potere dell’immaginazione. È lo stesso potere che gli Aryani vedici attribuivano al dio Mitrà, dicendo ‘Il nobile Dio pensò l’Impensabile’ […]. Ed il potere dell’immaginazione è sostanziato di volontà»2. Quella volontà, continua Filippani, per cui l’uo-mo «ha scoperto l’America, ed altri fino allora ignoti continenti, ha sondato i mari, ha scalato i monti (in fondo per gioco); è volato nello spazio cosmico…e non s’arresta in questo folle impegno che, per il cinico non serve a nulla, dato l’inelu-dibile temine della vita, che pone fine a tutto»3.Per il professor Ronconi, dunque esisterebbero «due tipi umani nei quali s’incarnano i due im-pulsi contrapposti: di conservazione ottusa e sta-gnante, o di innovazione e invenzione continua che caratterizzano l’umano operare. Nel primo caso, avremo il tipo umano che per fare qualun-que cosa s’attende la sanzione dell’autorità su-periore, per dirla alla tedesca la Befehls–taktik, la ‘tattica di attendere gli ordini’. […] Per questo tipo, di là della propria egoistica individualità, esiste solamente la massa indistinta degli ‘altri’, altrettanti ‘tubi digerenti’ come lui dominati dal-le esigenze di ordine biologico: cibo, sonno, gio-co, e qualche vibrazione sentimentale, al posto di una vita spirituale autentica. […] Per questo tipo, […] il normale ordinario di uno Stato laico è negazione del miracolo e della Provvidenza, di fronte alla quale siamo tutti ‘peccatori’ futuri ‘pentiti’ ammessi al perdono ed alla contrizione, categoria metafisica, addirittura ontologica, nel-la quale saranno livellati tutti i futuri cittadini ‘perfetti’.Il tipo umano opposto – ribaldo e peccatore se mai ce ne fu altro – è quello di coloro che agi-scono in base a ciò che possiamo denominare

2 Pio Filippani Ronconi, Le radici storiche e culturali dell’arditismo. Lezione tenuta a Roma il 3 novembre 1997.3 Op. cit.

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‘fantasia morale’, o ‘autonomia della coscienza’, a cui si obbedisce in base ad un imperativo eti-co, spesso trasgredendo alle convenzioni, infi-schiandosi del quieto vivere e negando la pseu-do–logica delle suggestioni collettive. Questo tipo umano è quello che intuitivamente vive di coraggio e di invenzione, nel senso latino di ‘in-ventio’, cioè di volontà di trovare, di ‘invenire’. Il suo modo di conoscere e di operare è l’imma-ginazione e […] l’immaginazione è pensare ‘ciò che non è stato pensato’. E il coraggio, per cui si vive una vita fondata sull’immaginazione, è fare ciò che si immagina tenendo fede al fine, senza pentirsi, facendosi irresistibilmente ‘attirare’ da ciò che si vuol fare. Questa è la materia prima di cui è fatto l’Ardito. Egli è tale perché suprema-mente capace di mollare gli ormeggi che ci ten-gono avvinti al quotidiano e all’abituale, in at-tesa che altre pause soffochino la nostra virilità nell’agire. Con la mente svuotata da qualunque timore o incertezza, l’Ardito si getta a capofitto nell’azione, come il paracadutista che, mollata la fune di vincolo, si abbandona alla beatitudine del vuoto, precipitando in un mare fiottante corag-gio – come un filosofo descriveva il mondo dello spirito, quello robusto, vero, che dà sostanza di vita alla nostra anima; non l’esangue sogno let-terario, ma la dedizione completa a quella che di volta in volta è probabilmente l’ultima avventu-ra. Questa, in spirito, è la dote dell’Ardito: non il turgore declamatorio per l’azione, ma l’abbando-no innamorato a quella che può essere l’ultima chance di questa vita»4. Penso che a queste frasi sia superfluo qualsivo-glia commento, tant’è la loro intrinseca chiarez-za. L’atto di ribellione finalizzata è l’atto creati-vo per eccellenza, che nasce, oltre che dallo stato di necessità, dalla risoluta fermezza di uno spe-cifico tipo umano da sempre presente in natura (alias l’Eretico, il Ribelle o l’Ardito, comunque lo si voglia chiamare), strutturalmente in grado di pre – immaginarsi il risultato. L’Azione, nel senso più nobile e genuino del termine, è così manipolazione metafisica della realtà mediante il Volere puro di singoli e speciali Uomini, capaci

4 Op. cit.

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di porsi, più o meno consciamente, in perfetto accordo con le più recondite potenze rigenera-trici del Cosmo.

2. cenni di metafisica delle costruzioniL’Azione è quindi per l’Eretico, oltre che un impegno dettato dalla contingenza, un veicolo magico. Ma perché a tale manifestazione di volontà estrema consegua con buone probabilità l’ef-fetto prefissato, è opportuna, da parte di colui che la pone in essere, un’ulteriore e formidabile presa d’atto: la realizzazione, a livello profondo, del non essere solo. Se interiorizzata in modo appropriato, tale intu-izione non equivale ad una consolazione, bensì alla consapevolezza dell’esistenza aprioristica di un recte agere, indiscusso, indubitabile. Così, oltre a rivelarsi senza volerlo uno sprono, questo processo “metabolico” può produrre nell’Ereti-co, quale coerente conseguenza, una probabile trasfigurazione circa il suo modo di approcciare (in via consequenziale): – al perseguimento del proprio obiettivo: quest’ultimo, cioè, non potrà, rebus sic stanti-bus, che palesarglisi per quello che davvero è, ossia la meta inevitabile a cui ambiscono tutti coloro che spartiscono una potenziale comunan-za di destino; – ai propri simili, votati sì autonomamente all’Azione, ma uniti tra loro da un superumano, sottile vincolo di solidarietà; – all’idea di un Sodalizio a cui necessariamente aderire su base volontaristica, che sappia dotarsi di una idonea struttura organizzativa, ove con-vogliare e coordinare potenzialità e aspirazioni dei singoli sodali.L’Azione, insomma, perché sortisca l’effetto vo-luto, è d’uopo che venga scientemente conver-tita da isolata in comunitaria, e sia nel contem-po corredata di un vettore aggregativo in grado catalizzare e sublimare tutta la potenza addotta dai suoi aderenti. Questa comunione d’intenti non potrà così che irrimediabilmente rappresen-tare il frutto di composite individualità, le qua-li, apportatrici in modo organico di specifiche prerogative, potranno consentire il verosimile

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raggiungimento del fine, sia esso individuale o collegiale, cui l’agere medesimo tende.«Ed ecco che dai loro volti si sprigionò una triplice luce, radiosa e brillante a misura della loro ira! […] Allora queste forme luminose, su-scitate dagli Dei, mescolandosi l’una con l’altra, non furono altro che un’unica luce, formidabile, grande quanto lo spazio. / Gli Dei la contempla-rono in silenzio ed inquieti, vedendola mutarsi in una forma femminile, in tutto lo splendore della sua bellezza. […] Così nacque dagli Dei, la Dea suprema! E ben provvista da loro di tan-ti doni senza prezzo, si degnò come Sovrana, di gradire i loro omaggi. Allora gridò di gioia e poi proruppe in una risata, nell’ardore della sua allegria, esultando per vedersi così bella. Instan-cabilmente ripetendo le sue risate e i clamori di gioia, riempì l’universo di frastuoni inauditi! La Terra ne fu scossa dalle fondamenta, il mare si sollevò e alcune montagne crollarono, tanto il chiasso era formidabile! E nel cielo, vedendo questo, tutti gli Dei esultarono gridando ‘Vitto-ria alla Dea!’, piegandosi in adorazione dinnanzi alla Combattente!»5. Ci è parso pertinente citare in proposito, qua-le similitudine, alcuni dei versi più significativi del Devi – Mahatmya, la “Celebrazione della Grande Madre”, uno degli Inni più sacri dell’in-duismo, in cui viene descritta la nascita della suprema Dea della Potenza, l’Energia Sovrana, la sola in grado di tenere testa alle forze oscure, e senza la quale la battaglia degli Dei contro tali forze sarebbe andata irrimediabilmente persa. Essa è emanazione delle principali Divinità del pantheon indiano che, irate per la situazione di stallo venutasi a creare nel corso della lotta, e ciascuna a seconda della propria peculiare essen-za, dotano la Dea Guerriera di diversificate armi che Le consentiranno, al momento opportuno, di sferrare l’attacco finale contro il Male.Al di là del significato recondito del Mito, l’eter-na legge della corrispondenza tra l’umano ed il divino insegna come nel particolare vi sia egual-mente la scintilla della totalità (“come nel gran-

5 Inno Nascita della Grande Dea, tratto dal Devi – Mahat-mya (Celebrazione della Grande Madre).

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de, cosi nel piccolo”). Ogni specifica ha pertanto pari dignità nel raggiungimento dello scopo, a prescindere dalla sua provenienza, perché nobi-litata dallo scopo stesso, e referenziata da una volontà granitica di perseguirlo in comunione. Per costruire la Torre, nulla insomma deve tra-scurarsi, essendo cruciale il contributo di tutti i partecipanti all’Azione, a seconda delle pro-pensioni naturali di ciascuno. Ma perché ciò avvenga è imperativo anzitutto che gli Eretici consapevolizzino quell’idem sentire, quell’essere uniti nel sublime sforzo, che andrà a costituire il cemento e presupposto necessario per la teoriz-zazione di qualsivoglia modello aggregativo.

3. volontà di organizzazione e volontà di sublimazioneGermina, in sostanza, dall’ulteriore presa d’at-to della necessità di una diversificazione, tra le predisposizioni di Uomini che condividono la medesima sorte, l’esigenza di abbozzare una struttura aggregativa prototipica, in grado sia di riconoscere tali discordanze, che di amalga-marle, valorizzarle e inalvearle coerentemente, facendo apparire le individualità come sfaccet-tature armoniche di un tutto coeso e in costante trasformazione. Una struttura pertanto, quella della nostra Tor-re, tanto massiccia e inattaccabile dall’esterno, quanto intrinsecamente duttile, che sappia tener in debita considerazione e ottimizzare, non solo al momento dell’adesione, ma nell’intero arco di appartenenza al Sodalizio, sia il grado di parte-cipazione all’Azione da parte di ciascun Eretico, sia la qualità del contributo da questi progressi-vamente offerto. Circa le caratteristiche che tale contributo deve possedere, corre invero significare come esso non sia necessariamente destinato a fossilizzarsi in un’univoca tendenza, manifestata ad inten-sità pressoché costante, e funzionale solamente all’immediato appagamento di più o meno cal-colate ambizioni o personalismi. Al contrario, l’apporto di ogni sodale dovrà assolvere alla re-sponsabilità di corroborare, sia all’interno della compagine che di fronte agli esterni, l’idea del

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Sodalizio quale fratellanza d’intenti e Comuni-tà di Destino, strumento empirico attraverso cui sperimentare la volontà di idealizzare e di prefiggersi il cambiamento: tanto del mendace ed illusorio mondo limitrofo (attraverso l’agere comunitario), quanto della propria essenza, spo-sando la convinzione di un parallelo, imprescin-dibile percorso di fortificazione interiore.Come fuori, cosi dentro: mai di conseguenza perdere di vista il fine ultimo a cui dovrà ot-temperare il Sodalizio, ossia quello della tra-smutazione della realtà circostante mediante la risolutezza, da parte dei suoi adepti, di elevare anzitutto se stessi, «[…] Attraverso mezzi spirituali, artistici, esteti-ci – e perché no, anche esistenziali – purché ogni mezzo sia, sempre, Azione»6. In tal guisa, ciò che il Sodalizio svelerà all’ester-no, non potrà che essere irrimediabilmente la risultante di quanto i singoli sperimentano prin-cipalmente al suo (e quindi al loro) interno.

4. Per un modello di sodalizioSiamo dunque arrivati al nocciolo della questione. Come – banalmente – tradurre tutto ciò sotto il versante progettuale e logistico? Sulla base di quale modello articolare, cioè, la nostra Torre, coniugando l’esigenza di una baluardo tanto imprendibile dal di fuori, quanto flessibile nella sua intrinseca organizzazione, e capace, nel ri-spetto delle svariate attitudini di quanti vorran-no dimorare in essa, di garantire i margini per una legittima, collegiale aspirazione d’elevazione spirituale e/o realizzazione esistenziale?In quanto antitetico al concetto stesso di pla-sticità, e poiché contrario ad un doveroso ini-ziale riconoscimento di eguale dignità in capo a chiunque sia intenzionato ad aderirvi, mi senti-rei di escludere sin da subito qualsivoglia sche-ma imperniato su una stretta gerarchizzazione. Al principio, con la decisione di porsi in frattura rispetto alla Wasteland, v’è infatti pur sempre una serie di disinteressati e paritetici atti di cri-stallina volontà, compiuti da altrettanti uomini

6 A. Vivaldi, op. cit.

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liberi che, in quanto tali, non possono ammet-tere (perlomeno sulle prime) tra loro prevalenze o subordini, in forza di aprioristiche scale valu-tative, o metri precostituiti da autoreferenziali “registi”. Al contrario, rifacendomi all’idea di Sodalizio come “corpo vivo”, riterrei molto più confa-cente al nostro proposito una configurazione di tipo organico, a “metamorfosi continua”. Così, da un iniziale raggruppamento degli accoliti in circoli posti sullo stesso livello, seppur tra loro eterogenei per contenuto (sulla scorta delle in-clinazioni e propensioni palesate istintualmente da ciascuno), attraverso una vicendevole e pro-ficua interazione e compenetrazione basata sulla trasmissione delle diverse esperienze ivi vissute, potranno nobilitarsi le vocazioni già espresse dai singoli nei vari ambiti, ed infine liberare per loro tramite quelle energie rigeneratrici tanto auspicate per una trasmutazione sia soggettiva (microcosmica) che obbiettiva (macrocosmica) della realtà.In altre parole, tale sistema, se rettamente trat-teggiato, condurrebbe alla verosimile rappresen-tazione di una consorteria strutturata per “cer-chi compenetranti”, ossia concepita per ambiti figurativamente autonomi, i quali però, inter-secandosi di continuo grazie ad una diligente opera di interconnessione esperienziale operata dai rispettivi appartenenti, genererebbero sem-pre nuove figure e sezioni, là dove ad ognuna di queste si ricondurrebbero sia le propensioni di ognuno, individuate sulla base delle vocazioni del momento, che le esperienze in forza di ciò realizzate. Nessuna gerarchia, nessun classificazione preco-stituita: un simile impianto, infatti, non chiama in causa alcun assetto piramidale, poiché non vi sono né basi né vertici, ma soltanto Uomini che, posizionati dapprima sullo stesso piano in ragione di una fatale scelta di campo, e distri-buiti a seconda delle rispettive provenienze, in-clinazioni ed attitudini, si potranno distinguere in seguito qualitativamente, sulla scorta delle esperienze maturate e raggiunte nel Sodalizio, delle individuali aspirazioni, nonché del tipo di consapevolezza che essi hanno sviluppato del Sodalizio stesso e dei suoi fini.

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Se dal punto di vista figurativo, tale struttu-razione ricorda vagamente quella di un Solido Platonico, sotto il versante di una fisionomia sostanziale, essa può in via agevole ricondursi al prototipo di Comunità Organica auto – sussi-stente e indipendente. Chiarisco sin da subito – e a scanso di equivoci – che l’espressione Comunità Organica alla qua-le qui mi riferisco, non deve intendesi propria-mente nella sua accezione (meta)storico – socio-logica di tipo Tradizionale, imperniata cioè su una rigida (t)ripartizione delle funzioni basilari dell’agire umano (sacerdotale/guerriera/agricola – mercantile) disposta per “cerchi concentrici” chiusi, non comunicanti: una simile concezio-ne, infatti, richiama malgrado tutto una diffe-renziazione precostituita, inevitabile, perché a doppio filo legata (e relegata) proprio alle mani-feste inclinazioni dei suoi componenti, sotto tale ottica più condizioni stagnanti a cui “per fato” dover consacrare la propria esistenza, che pre-rogative, grazie a cui intraprendere progressioni metafisico-esistenziali.Nel nostro caso, al contrario, non vi è un agglo-merato di individui più o meno capaci che, asse-condando l’istinto, abbracciano e condividono la scelta esistenziale di un intenzionale isolamento, attrezzati unicamente della propria buona vo-lontà e della speranza “per un domani migliore”, né tantomeno un gruppo di fanatici escatologi, decisi a dare vita all’ennesima psico-setta ove proscrivere il resto dei propri giorni, ma una Comunità di Eguali costituita da Uomini Diffe-renziati risoluti, con scopi inequivocabili, collet-tivi e personali, volti precipuamente a “rompere gli equilibri” mettendo in discussione se stessi e tutte le proprie certezze, e determinati a rifon-dare su ogni piano l’essere mediante l’Azione. Per rendere la giusta idea del livello di tensione funzionale al modello di Sodalizio a cui si am-bisce, riguardo ad un possibile parallelismo cui ricondurre una siffatta esperienza di “esauriente rottura”, non può, ancora una volta, che venirci in ausilio il Mito, con gli illuminanti riferimenti che presenta, con la prova della nostra Torre, la leggendaria nascita di Roma. Anche in questo caso, oltre al valore e all’im-

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portanza attribuibili, sul piano metastorico e sovrasensibile, ad una così possente epifania del divino, qualora si legga il fatto testualmente, senza condizionamenti interpretativi, si note-ranno delle impressionanti analogie tra il Mito di fondazione dell’Urbe, con i nostri attuali “sacri-leghi” sforzi di concepire un’alternativa omni-comprensiva per reinterpretare la quotidianità. Romolo (il Ribelle per antonomasia): 1. abbandona col fratello, ad Alba Longa, pa-renti, amici, e finanche nemici, per dare vita altrove a qualcosa di radicalmente innovativo; 2. determinato come non mai, uccide perfino Remo (ultimo legame con le pulsioni terrene e la sua precedente vita), e traccia un limen sacrum, ovvero il confine tra la materialità contigua ed il suo nuovo modo di concepire l’esistenza: è l’affermazione dell’Essere nel divenire, il centro immobile calato nella corrente della Storia; 3. richiama intorno a sé, con il suo gesto, tutti i “disadattati” dei territori viciniori (ovvero co-loro che non si riconoscono più nelle rispettive comunità d’origine, dalle quali sono stati peral-tro – in ragione delle loro condotte non allineate – già marchiati ed espulsi) e li convince inconsa-pevolmente a creare una nuova stirpe entro il li-men sacrum; li convince cioè a diventare Patres; 4. è Primus inter Pares: egli ha dato origine (con un atto creativo per eccellenza, e senza rifarsi a esempio alcuno), ed è parte costituti-va di una Comunità di Eguali, una comunità, cioè, ove tutti hanno trasceso e sublimato la loro originaria condizione “soltanto” antropica, per abbracciare virtualmente la regalità, e dunque la totalità. I Patres sono così Uomini Integra-li, contadini, sacerdoti e guerrieri insieme. Sono bastevoli a se stessi. È solo successivamente, con la “storicizzazione” dell’Urbe, che si opererà la ben nota “tripartizione”.Non esagererei pertanto, se paragonassi questa visione di Sodalizio, più ad una confraternita iniziatica, ad un Ordine, che ad un normale con-sesso sociale. Audacia e risolutezza nel voler nascere una se-conda volta, dignità paritetica, ed esemplarità reciproca: tutti hanno da insegnare, tutti han-no da imparare, tutti avranno semplicemente

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da fare. Chi lo vuole davvero, potrà progredire non su scala gerarchica, ma spiritualmente e sul piano dell’esistenza, fungendo da dimostrazione vivente agli altri sodali.

5. comunità organica di tiPo tradizionale e comunità organica sPerimentaleVorranno perdonarmi i lettori se mi permetto di insistere sul radicale mutamento di scenario da cui intendere il fare e l’essere Comunità, co-stituendo ciò uno dei punti nevralgici di questo contributo. L’obbiezione primaria che mi sento di svolgere verso il modello “classico” di Comunità Orga-nica – Tradizionale, per l’appunto – attiene al modo di collocare nel suo corollario di declina-zioni pratiche le manifeste differenze tra le vo-cazioni innate ai singoli. Pur dando per scontato che queste, in seno a tale paradigma aggregativo, innegabilmente esistono e coesistono, s’è detto che in una prospettiva Tradizionale, simili differenze costituiscono, in forza della loro concentricità – se non ad-dirittura gradualità gerarchica, qualora se ne vaglino nella quasi totalità, le rappresentazioni storiche –, più compartimenti stagni, gabbie er-metiche entro cui gli appartenenti rinchiudono la personale ventura “d’esser fatti in un certo modo”, piuttosto che posizioni di partenza da cui tentare un’elevazione / integrazione, nella massima libertà, della propria essenza.Il rilievo nasce da una triplice considerazione: – se il traguardo del Sodalizio è quello di rom-pere totalmente, oltre che con ciò che è, anche con tutto quello che è stato (dal punto di vista ideale ed ideologico: sovrastrutture mentali e modelli passati di convivenza sociale), non si ca-pisce perché la Torre alla fin fine debba risultare una mediocre variante sul tema, se non peggio, una sorta di “minestra riscaldata”; – se lo scopo del Sodalizio è quello di frantuma-re ontologicamente quanto vi è attorno, facendo della propria configurazione un qualcosa di qua-litativamente straordinario, non si capisce come ciò sia possibile, esulando dall’onere distruttivo / rigenerativo che ai suoi componenti congiun-

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tamente spetta, assumendo ruoli – quantomeno in principio – decisamente paritetici; – di riflesso, nel particolare, se il fine del So-dalizio è quello di innalzare i suoi affiliati, fa-cendone “Uomini Integrali”, non si comprende perché costoro debbano in fondo e nel proprio “cerchio” d’appartenenza, accontentarsi di dare, in modo supino e acritico, mera esecuzione alla propria sia pur decorosa missione esistenziale, senza azzardare di romperne verticalmente, con una netta affermazione di volontà, i gangli natu-rali, per librarsi con slancio verso sfide più alte.Giudicando (in verità non a torto) inibenti e dunque inidonei, per una piena realizzazione del soggetto dissenziente, gli esempi aggregativi fondati in esclusiva su una militanza politico – culturale, oltre a quelli unicamente improntati ad un’esistenza vissuta ai margini della società (quand’anche condotta in perfetta simbiosi con l’incedere naturale dei tempi e delle cose, ovvero ispirata ad una ricerca spirituale autentica), i so-stenitori dello schema per “cerchi concentrici”, che propugnano la bontà del modello di Comu-nità di tipo Tradizionale (abbinandolo spesso al tema oggi tanto in voga della decrescita), (ri)propongono una soluzione che salvi di fatto capre e cavoli, suggerendo di far coesistere in un contesto unitario, in maniera organica ma altrettanto asettica, tenendole rigidamente sepa-rate tra loro, dette manifeste differenze tra le vocazioni. Così, qualunque sodale, in una tale veduta d’in-sieme, potrebbe pianificarsi a buon diritto il pro-prio ambiente ideale, fornendo sistematicamen-te ed efficientemente alla Comunità, al pari de-gli ingranaggi di una macchina funzionante alla perfezione, il personale apporto, senza tuttavia prestare ad essa alcuna garanzia o impegno, per un coinvolgimento ulteriore o supplementare nel caso in cui il marchingegno s’inceppi. Ora, se da un lato una simile visione appare la scappatoia più ragionevole per una convivenza disinteressata tra individui con un idem sentire, dacché salvaguarda e canalizza con metodo le rispettive inclinazioni, sotto altro versante non ci si può purtroppo esimere dal ribadire come, sempre detta visione finisca coll’immolare ogni

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più alto fine, tanto individuale che collettivo, proprio alle libere propensioni di ciascuno. Pertanto, oltre che la più facile, essa rappresen-ta – a parere – finanche la più arrendevole via al fare ed essere Comunità, ovvero il “restare insieme per non restare da soli”, piuttosto che lo “stare insieme per trascendere”.

6. dalla teoria alla Pratica: Primi Passi Per serrare i ranghi. le differenti vocazioni tra i singoliCorre però a questo punto tirare le fila di quan-to sin qui concettualizzato, e verificare, nella prassi, se vi possano essere potenziali presup-posti, sia in senso soggettivo che oggettivo, su cui tentare di innestare le prime nodali mosse che conducano ad un minimo di progettualità condivisa. Al di là delle considerazioni fino ad ora snoc-ciolate, e dei connessi auspici per ciò che indivi-dualmente e collegialmente i potenziali aderenti, nella prospettiva e nell’ambito di un Sodalizio, potrebbero / dovrebbero svolgere, vi è un inne-gabile ricorrente quid ad assimilare i nostri Ere-tici, comune denominatore originato da alcune identiche, sedimentate consapevolizzazioni: – lacerazione con lo status quo: ogni Ribelle è conscio della propria “asocialità”, del proprio essere “al limite”, del vivere in questo mondo di rovine, pur non sentendosene parte; – necessità di fare quadrato coi propri simili. L’esistenza stessa di “Eretici del Terzo Millen-nio” ne è la dimostrazione tangibile. Vero è che, da qui a stimare come impellente l’elaborazione di un progetto di vita ed azione comunitarie, ce ne passa… Ma che qualcuno, oltre ad abbozza-re all’eventualità sotto il versante concettuale, inizi a ravvisarne finanche l’esigenza pratica, appare innegabile. Entro quali termini realizza-re ciò (sostanziali, formali, teoretici o empirici), gli Eretici dovranno per l’appunto discuterlo ed affinarlo; – genuino desiderio di rigenerazione, con-cetto che racchiude e sottende, oltre all’innata, combattiva attitudine all’agere, la volontà di

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spingersi oltre, stimolando ed incoraggiando la propensione ad una realizzazione funzionale al superamento dell’attuale stadio di necrosi valo-riale/spirituale.Circa quest’ultimo fattore, e per riallacciarci a quanto abbiamo già avuto modo di vagliare nei paragrafi precedenti, appare logico che, se il valore aggiunto di una Comunità Organica Sperimentale imperniata su “cerchi compene-tranti”, consiste giustappunto nel ribaltamento di visuale entro cui scorgere ed inquadrare le manifeste differenze tra le vocazioni innate ai singoli (ossia le propensioni che ciascun Eretico valuta prioritarie e connaturate al proprio essere – e alle quali dunque rapporta il proprio agire –, e per la cui elevazione il Sodalizio stesso verreb-be ad essere considerato irrinunciabile veicolo) – qualunque “tavola tecnica” inerente la nostra Torre non potrà neppure essere delineata senza un preliminare censimento dei generi vocazio-nali in capo agli Eretici (dandone per assodata la pluralità), né proseguire senza la ragionata pia-nificazione degli insiemi entro cui ricondurre, in forza di ciò, i singoli affiliati.A tal proposito, grazie all’amicizia e – più in ge-nerale – alle leali relazioni interpersonali intrat-tenute nel corso degli anni con numerosi indi-vidui della tempra corrispondente al tipo umano cui questo intervento è dedicato, posso – per esperienza e con buon margine di approssima-zione – affermare come tra gli Eretici compaia da sempre una triplicità di generi vocazionali: – inclinazione alla realizzazione esistenziale. Coloro che esternano tale esigenza, riconducen-do il loro malessere alla modernità, e ascrivendo la siderale distanza che li separa dal Leviatano, al pervertimento dell’indole dell’uomo (a cagione del suo voluto allontanamento dall’armonia del-le leggi del cosmo), auspicano e rincorrono un distacco inteso quale ritorno fisico e fisiologico all’autentica sussistenza, in aderenza all’euritmia della natura, mediante uno stile di vita sobrio, dignitoso, possibilmente legato alla terra (dun-que da praticare in habitat avulsi dagli alienanti contesti urbani), e al recupero di consuetudini, mestieri, manualità e conoscenze riconducibili

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a tempi non ancora corrotti dalla follia turbo – capitalista contemporanea; – inclinazione alla realizzazione metafisico-spirituale. Costoro, pur condividendo nella so-stanza la critica alla modernità e al suo scellerato meccanismo di stritolamento ed annichilimento valoriale, intendono il distacco da essa non in senso spaziale (recepito come allontanamento da qualsivoglia contesto sociale precostituito): il distacco può – al contrario e a buon diritto – essere attuato perfino nelle megalopoli, viven-do la vita di tutti i giorni nel mondo moderno, volgendo le proprie mete di cambiamento all’in-terno di se stessi mediante la sincera ricerca del Focus Absconditus e la pratica del Risveglio, e seguendo il sentiero – già tracciato – tradizio-nale/iniziatico più affine alla propria essenza, attraverso l’esercizio attivo e costante della cor-relata ritualità (religiosa o esoterica, collegiale e individuale); – inclinazione paritetica alla realizzazione sia esistenziale che metafisico-spirituale. Per gli orientati a questa prospettiva – tra i quali peral-tro personalmente mi pongo – non può sussiste-re né è credibile alcuna volontà di trasformazio-ne interiore senza una sincronica, simultanea, plateale ripercussione, di quanto avvenuto a li-vello sottile, sul piano manifesto dell’esistenza. Se agire, in generale e come sostenuto in incipit, significa prefiggersi e concretare magicamente, a trecentosessanta gradi un cambiamento, que-sto non può necessariamente che oggettivarsi su tutti i piani dell’Essere, tanto a livello sensibile che sovrasensibile. Così, la costante pratica spi-rituale non potrà, presto o tardi che disvelare, in modo consapevole o intuitivo in chi la professa, il coerente e parallelo bisogno di una fatidica sterzata alla propria vita.Ora, se tutto ciò – sempre secondo i sostenitori di tale visione – venisse svolto dal Ribelle isola-tamente (vale a dire affrancandosi da qualsiasi comunanza d’intenti, e scevro da qualsivoglia influenza di terzi, sia pur condividenti la me-desima Weltanschauung), costui sarebbe quasi di sicuro portato ad incanalarsi verso opzioni esistenziali estreme (valutazione questa pur

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sempre legittima ed esemplare: rammento come Evola abbia consacrato a tale tipologia di Uomo Differenziato, il suo ultimo saggio/capolavoro). Qualora al contrario la stessa azione venga com-piuta da più affini, legatisi volutamente tra loro a causa di una notoria, comune sensibilità e pro-pensione metafisico – esistenziale, e in numero tale da originare un manipolo auto – sussistente ed auto – alimentante, l’effetto potrebbe nei fatti presentarsi energicamente rivoluzionato: non è cioè escludibile che, una volta evocate, possano tornare ad affluire e concentrarsi in quelle stesse figure dissenzienti quelle energie senza tempo oggi sommerse, che, se rettamente sublimate, permettendo un’alterazione sub specie interiori-tatis dell’Uomo, renderebbero a lungo andare di nuovo possibile la creazione (o il recupero…di-pende dai punti di vista) e la trasmissione di una memoria cromosomica integrale, incardinata e vivificata in una Comunità orgogliosamente Differenziata, territorialmente e temporalmen-te circoscritta, ma pur sempre fatta di Uomini Nuovi (Essere nel tempo… Stirpe del Graal?).A ciascuno dei suaccennati generi vocazionali – e per tornare quindi al lato pratico del nostro progetto – dovrà di conseguenza corrispondere funzionalmente un insieme, congegnato ad hoc in modo del tutto convenzionale, ove andranno a posizionarsi di volta in volta gli Eretici in base alle scelte espresse al momento del loro ingresso nella Torre. Sia ben chiaro: tutti parimenti riu-niti sotto l’egida di una comunitaria Visione del Mondo (Limen Sacrum), e irrobustiti dal mede-simo plenario obbiettivo, quello – al di là delle iniziali propensioni di ciascuno – di trasmutare la realtà, mediante la costante sperimentazione della volontà di trascendere se stessi. Nessuna pressione, in definitiva, ai singoli Ere-tici al varco della soglia, salvo una solenne presa d’impegno, un franco e tenace atto di risolutez-za, cui dovrà conseguire, da parte di ciascuno, la rassicurazione di fronte agli altri, del tentativo di superare con abnegazione giorno per giorno le proprie individualità e limitatezze, e quindi travalicare l’appartenenza al proprio cerchio in nome del supremo progetto comunitario: coin-

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volgere e legare indissolubilmente in un unico Destino tutti i dimoranti nella Torre (Sodalizio come Comunità di Destino piuttosto che Co-munità di destini).

7. cerchi comPenetranti: struttura e dinamicheNel primo cerchio, quello “esistenziale”, an-dranno così a collocarsi gli Eretici che per loro iniziale scelta, intraprendessero la ricerca di una esistenza lontana dalle astrazioni concettuali d’origine ideologica e razionalistica, mediante l’emancipazione dalle finzioni economicistiche, e la ripulitura dalle sovrastrutture d’ordine so-ciale, politico o religioso, stratificatesi nella psi-che per ereditarietà o nel corso dell’esistenza (a titolo esemplificativo e non esaustivo: nozioni di Stato, di Patria, di Nazione, di Classe, di Razza, etc.). Solo l’esser vivi grazie alla forza delle pro-prie braccia, e l’esser Uomini a prescindere da tutto e da tutti rileverà; solo la tangibilità dei rapporti individuali, reali, sensoriali coi propri sodali conterà. Uniche regole vigenti, tra costoro: lo sforzo di esistere secondo la pura Volontà, piuttosto che secondo una volontà derivata, indotta, rimodu-lata, di natura filosofico ideologica;, ed il man-tenimento della promessa iniziale di tentare uno slancio, con l’aiuto dei sodali degli altri cerchi, verso la differente esperienza della ricerca di qualcosa che vada oltre il fenomenico.Nel secondo raggruppamento, il “metafisico – spirituale”, si posizioneranno invece coloro che hanno di fatto già metabolizzato e oltrepassato la dipendenza dai fenomeni “psicosociali” contem-poranei, avendo sviluppato la riservata imper-turbabilità per ogni manifestazione dell’umano operare. Sono coloro che, non abbisognando più di teorizzazioni, né di convincimenti escogitati da terzi, incedono spontaneamente, maturando perciò la necessità di volgere la ricerca al proprio interno, intraprendendo un percorso di crescita spirituale, seguendo la via iniziatica più consona alla propria natura. I soli precetti a cui si dovranno attenere gli aderenti a tale insieme, consisteranno pertan-to nell’impegno a lavorare sui personali istinti

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e limiti, alla ricerca di una Verità non scritta (piuttosto che assecondare la propria, di veri-tà), sforzandosi altresì di coniugare l’esercizio ed il rigore interiore, con il tirocinio esistenziale comunitario, non precludendosi cioè limiti alla conoscenza “volgarmente” e letteralmente prati-ca delle dinamiche del Sodalizio, per mezzo della operosa interazione con gli altri Eretici. Seppur partendo da ben altri presupposti, incommen-surabilmente distanti da quelli di cui si sta qui discutendo, è probabile che ad una tale aspira-zione di pluri – contestualità San Benedetto a buon diritto alludesse, quando coniò per i suoi monaci l’aurea regola dell’ora et labora.Per dare in sostanza all’intero Sodalizio un sen-so compiuto, è quindi irrimandabile che colo-ro i quali si riconoscano in un insieme di valori fondanti, medino le rispettive vocazioni attra-verso un’interazione vicendevole, che non pre-giudichi nell’immediato le rispettive priorità, ma non escluda – anzi promuova – nel contempo la possibilità di più o meno prossime, biunivoche integrazioni. Così, i sodali con vocazione prettamente esisten-ziale saranno liberi di vivere secondo la propria intima inclinazione, con tuttavia la precisa as-sunzione di responsabilità e la garanzia di ado-perarsi per evolvere dal proprio cerchio, sforzan-dosi di intraprendere temerarie incursioni verso il metafisico. Viceversa, i sodali che ritengono al loro ingresso nel Sodalizio prioritaria la realizza-zione spirituale e l’incoraggiamento dell’impeto verso il trascendente, dovranno obbligarsi a co-niugare la propria ambizione con la concretezza della vita comunitaria. Affinché un simile virtuoso meccanismo ven-ga messo in moto, è tuttavia indispensabile un preventivo intervento combinato sui predet-ti gruppi, da parte di chi serba in sé il germe alla duplice inclinazione, perché potenzialmente tendente alla completezza. Veniamo pertanto al terzo insieme, quello degli “esistenzial – metafi-sici” (chiedo perdono per l’espressione per nulla eufonica!), ai quali, oltre al fattivo perseguimen-to dei fini e delle azioni su esposte, in quanto intrinseci agli altri due cerchi, spetterà:

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– in via preliminare il dovere, con l’esemplarità e/o il consiglio su base empirica (e soprattutto senza che a tale azione si sottenda alcuno sta-tus di preminenza), di “dare il la” all’interazione tra le restanti categorie di Eretici. Affinché si dimostrino all’altezza di questo delicatissimo compito, avvalorando altresì la certezza che la posizione assunta sia coerente con lo zelo pro-fuso, ciascuno di essi dovrà letteralmente tenere un registro ove annotare tutte le sperimentazio-ni, i punti di partenza e le risultati ottenute, allo scopo di comparare il tutto con identiche ope-razioni svolte dai propri compagni di cerchio. Tutto ciò, al fine di creare un flusso costante di impressioni e di empiriche consapevolezze, mediante le quali ritoccare, tarare, accomodare gli svolgimenti che stanno alle fondamenta della Torre; – successivamente, il compito di teorizzare e coordinare sia le dinamiche attuative della “logi-ca del passaggio” dall’eterogeneità all’amalgama, sia la puntuale formulazione di quelli che saran-no “i principi del Sodalizio come dottrina filoso-fica e/o metafisica”, e che avranno il compito di attirare dal mondo esterno nuovi Eretici. Spetterà a costoro, dunque, l’ardua incomben-za di “creare, affinare, discutere, ed applicare” tanto i processi che permetteranno di traghetta-re i membri più idonei, degli altri insiemi tra le proprie fila, quanto la (transeunte e meramente funzionale) sovrastruttura alla base del Sodalizio.

8. fattori condizionanti e Potenziali effettiIn una siffatta ottica di progressiva, vicendevole compenetrazione e selezione, ovviamente, si sve-lano gli imprescindibili presupposti fattoriali da cui dipende la messa a regime del nostro progetto: – fattore tempo: il Sodalizio necessita di gradi e fasi realizzative di ampio respiro, di coinvolgi-menti e di convincimenti, di interdisciplinarità e di sperimentazioni tanto individuali che col-legiali; – fattore spazio: il Sodalizio ad un certo mo-mento della sua evoluzione renderà indispensa-bile la presenza di un luogo fisico, di un “la-

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boratorio” ove plasmare e testare le eclettiche attività del gruppo. (Buona) parte dell’energia degli Eretici, dovrà pertanto indirizzarsi anche nella ricerca e nell’edificazione figurativa, mate-riale della Torre, di questo Locus Alchemicus, di questa Terra del Nulla, ove si sperimenterà la morte per rinascere differenti ed interi; – fattore meritocratico: solo i migliori andran-no avanti. Nessuna preclusione aprioristica alle inclinazioni individuali, nessuna logica di casta, massima libertà di realizzarsi. Coloro che stanno nei cerchi “caduchi”, dovranno tuttavia guarda-re, prendere ad esempio e collaborare diligen-temente gli “esistenzial – metafisici”, poiché la costruzione che si ha in mente di realizzare, si regge su una forza squisitamente centripeta. Parimenti, questi ultimi dacché aspirano alla completezza, debbono consapevolizzare e pati-re l’insostenibile peso dell’esemplarità, e conse-guentemente darsi quale perno del proprio agere la coerenza e la nitidezza che solo la sincerità verso sé e verso gli altri può comportare.Solo la combinazione di questi fattori, insomma, insieme alla perseveranza nel raggiungimento dei rispettivi obbiettivi, consentiranno agli Ere-tici di trascendere individualmente ad uno sta-dio alchemico superiore, preludio, a pieno titolo di una seconda nascita, e di riflesso di una tra-smutazione della realtà circostante.

9. ePilogoMi sono più volte chiesto se quanto fissato in queste righe – frutto, in realtà, di considerazio-ni e di intuizioni non sempre personali, quanto piuttosto di inconsapevoli, postume rielabora-zioni di interminabili discorsi, e di scambi avuti nel tempo con persone affini per spirito e vedute – possa avere un giorno una qualsivoglia conse-guenza. Se così fosse ben venga... Ma se al contrario tutto rimanesse come prima, non me ne cruccerei egualmente più di tanto: come non è possibile teorizzare un oltre, per-ché nessuna teoria basterebbe a descriverlo, allo stesso tempo sarebbe assurdo pretendere di ar-chitettare un sistema che ivi conduca.

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Sappiamo solo (e questo lo possiamo afferma-re con certezza, poiché tutto incede a favore di ciò, a prescindere dalla impressionante banalità, sotto il versante logico – razionale, di una tale affermazione) che un oltre vi sarà. Ovvio poi che, se non si può discutere di qual-cosa, è perché non se ne ha contezza. Tutt’al più può solo esservi la confusa intuizione di un qualcosa che ci piacerebbe che fosse, ma del quale – ripeto – nulla in verità si conosce, e che pertanto non può a ragione neppure tentarsi di qualificare. Forse forse, anzi, non converrebbe neppure sperare. Conviene soltanto fare, tacere e stare a guardare…

pp. 34-35 Détournement de Il giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David (1784), V. N.

p. 44 Neubrandenburg, Caspar David Friedrich

p. 49 Italian Coast Scene with Ruined Tower, Thomas Cole, 1838

p. 51 Torre di Babele, Maurits C. Escher, 1928

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cinismo, mesch in i tá

e suPeromismo de noantri

nell’ePoca digitale

pensieri e invettive deil castigator cortese

«la Più alta forma di moralità è sentirsi degli estranei in casa ProPria.»T.W. Adorno

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1. sono tutti cinici con le vite degli altriLa saggezza dell’esperienza, quella che si sedi-menta col tempo e con la presenza sul cam-po in molteplici contesti, vuole che, per vedere realmente di che pasta son fatte realmente le persone, bisogna dar loro un po’ di potere. In quel caso vedremo i lati peggiori, i più oscuri e più tristi aspetti dell’animo umano: e non parlo solo del classico esercizio della violenza e della crudeltà fisica o psicologica, ma di un aspetto molto più pericoloso e disgustoso: la meschinità e i facili moralismi di ogni risma.

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Ora, sorvolando sui massimi sistemi, vorrei toccare degli argomenti quotidiani, le piccole meschinità di tutti i giorni: sono queste, infatti, che nella società di comunicazione globale cre-ano la massa critica che contribuisce a degrada-re ulteriormente la società e l’animo umano. E che mostrano la faccia autentica delle persone, “their true colours”, come viene efficacemente espresso dai perfidi omini d’Albione.Beh, quale potere più grande, in quest’era di internet, social networks, tweets, dell’anonima-to e del filtro relazionale della società digitale? Nella scorsa decade abbiamo assistito al sorge-re incontrastato dei guerrieri da forum, gente pronta a postare qualsiasi opinione, spesso non fondata su alcun fatto, per calunniare, infama-re, litigare, protetti dalla distanza siderale stabi-lita da uno schermo e una tastiera. Oggi ancor peggio, grazie a mostri come Fa-cebook che permettono la diffusione di idee di ogni tipo, incluse insulsaggini come il fenome-no dei “meme”, immagini satiriche o umoristi-che (sic!) che si diffondono come virus. Si parte da satire qualunquiste, frasi sdolcinate e le clas-siche italianate (forcaioli pacifisti, ignoranti che condividono satire contro la ka$ta, vabbè le so-lite cretinate) fino ad arrivare al cinismo trendy e fico, che fa tanto vero duro: foto con bambini down che vengono presi in giro, immagini di incidenti mortali con battutine divertentissime (che alle medie mi ricordo già guardavamo con disprezzo), insomma, tutto ciò che fa capire come gli utenti che le creano e le commentano siano dei veri veterani del black humour, av-vezzi e rotti a tutte le asperità del mondo. O no?È paradossale che il potere di cui si parlava nell’incipit di questo intervento si riduca a que-sto: il potere dell’anonimato. Che sia causa o ef-fetto, il mezzo digitale amplifica la meschinità e fa del cinismo un esercizio di potere. Vabbè, finora niente di nuovo. Quello che queste nuove tecnologie dimostrano è quanto contagiose siano le idee marce e quan-to poco ci mettano a diventare lo status domi-nante, ma non è tutto. Quello che la meschinità ed il cinismo dell’era dei social network dimo-strano è quanto questo sia un potere basato sul

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dogma imperante del dibattito virtuale: l’assenza di contraddittorio. La frustrazione dello stile di vita inumano della civiltà odierna si manifesta nell’uso costante dell’insulto, della minaccia e del turpiloquio in qualsiasi occasione, ma ancor peggio questo cinismo è frutto della mancanza di contatto umano, quindi del naturale timore che ogni assemblea umana instilla nei suoi par-tecipanti. L’eroe da tastiera imperversa in quanto forte della sua autarchia digitale; l’esercizio del suo potere basato sul cinismo esiste in quanto autoreferenziale: l’immagine viene postata, ogni “mi piace” e ogni commento favorevole sono iniezioni di autostima al suo ego gonfiato da elio scaduto da tempo; ogni critica è seppellita da tonnellate di insulti e minacce che, probabil-mente, non ha mai proferito a voce in vita sua.Questo potere basato sull’assenza del contrad-dittorio è solo l’effetto finale nella piramide del-le associazioni umane ed è ovunque vi sia un privilegio di interazione. Mi spiego meglio.Nel 99% dei casi, il meschino, il cinico da in-ternet è la classica persona frustrata, mediocre nelle sue relazioni umane, insoddisfatto da vita professionale o sentimentale, o entrambe. È una persona che non sa gestire in alcun modo i con-flitti, da quelli minimi e fisiologici ad una vita sociale regolare a quelli ovviamente di ordine di grandezza superiore, che lo atterriscono. E di nuovo: fin qui nessuna novità. Il problema è che il detto inglese “fake it until you make it” (praticamente, “fa finta di essere qualcosa finché non ci credono tutti, che poi diventa reale”, libera interpretazione mia) si dimostra nuovamente un assioma oggigiorno pressoché infallibile: la persona internettiana, corazzata dall’aura di invincibile perfidia digi-tale, fa acquistare a questi individui una falsa coscienza di invincibilità: quando si trovano poi a confrontarsi con problemi e contraddittori re-ali, sono sinceramente sconvolti e ovviamente giungono alla conclusione che tutti sono stron-zi, e loro invincibili.Nei miei studi sulla criminalità organizzata, in particolare in quella che possiede una sua sorta di status cultural-polare, come la camorra napo-letana (sarebbe d’obbligo il plurale, ma vabbè) o

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la micro-criminalità di luoghi ricchi ed annoiati (il milanese, alcune zone della Toscana), sono visibili tratti simili. Nel caso della camorra, il suo monopolio incontrastato ed incontrastabile della violenza porta ad un senso di invincibilità dei suoi appartenenti: sono fin da piccoli abitua-ti a poter esercitare potere e dominio su tutti, in quanto l’impotenza nella reazione all’abuso è quasi genetica a Napoli e provincia (se rea-gisci, la pagherai con gli interessi). Se fino agli anni ’80 la violenza quotidiana era molto rara, in quanto la camorra era fondamentalmente un classico tipo di criminalità organizzata clande-stina, a partire dalla fine degli anni ’90 in par-ticolare essa ha assunto uno status culturale fortissimo, grazie soprattutto alla glorificazione del criminale nell’humus sociale italiano tout-court, e anche grazie all’avvento delle nuove tecnologie (no, non è che sono fissato, sto solo constatando, giuro!), che hanno permesso un networking molto intenso e una finestra di evi-denza delle proprie gesta (YouTube, Facebook, ecc.). Ok, mi sto dilungando. Nuovamente.Quello che voglio dire è che possedere il mono-polio di qualsivoglia energia distruttiva (fisica o psicologica) non vuol dire saperla padroneggiare. Così come il gran duro di internet non sa re-agire ad una semplice critica, così il criminale non riesce più a comprendere la possibilità del ritorcersi della violenza sulla sua persona. Sono passati i tempi dei Dillinger o dei criminali ita-liani del dopoguerra, che sapevano benissimo di essere in una guerra dove potevano essere sia carnefici che vittime. Nell’epoca dove l’ico-na del criminale è Fabrizio Corona o il cantante neo-melodico dall’aria effeminata, il criminale glamour non sa reagire alla violenza.I dati sono chiari: fino a venti anni fa agli aggua-ti di camorra le vittime reagivano, scappavano o morivano con diversi gradi di consapevolezza e “dignità” (virgolettato d’obbligo), oggi sono comunissimi i resoconti di vittime che scappa-no urlando mentre piangono, strepitano: non riescono a realizzare cosa sta capitando loro (e parliamo spesso di pluriomicidi, gente che do-vrebbe ben conoscere le consuetudini della sua professione). Cosa vuol dire? Vuole dire che

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manca del tutto l’idea di opposizione, di con-flittualità, manca la coscienza del proprio agire. Il parallelo tra i criminali e gli eroi da tastiera sarà un po’ arduo da afferrare, ma secondo me è pregnante.Ma passiamo ad altro tasto dolente.

2. sono tutti nichilisti con le aPocalissi degli altriAltra categoria che tanto danno arreca al mio spirito e a quello dell’inconscio collettivo sono gli alternativi. Solo questo lemma mi fa rab-brividire.I diversi, quelli che sono superiori, loro che san-no come vanno le cose e soffrono tanto, perché la vita sorride ai mediocri e deride gli eletti. Quelli che a ogni piè sospinto invocano guerre (ma ne hanno mai vissuta una? Sanno che si-gnifica?), carestie (ma non riescono neanche a fare una dieta), pestilenze (ma allora quegli sta-ti di facebook sul maledetto raffeddore? Colpa del Kali Yuga?), l’estinzione del genere umano (ma loro che sono? Rettiliani? Non ditelo a Da-vid Icke).Sarà che sono un rompiscatole, ma a me chi si lamenta di continuo, sottolineando la sua supe-riorità e la sua sofferenza a vivere tra i subuma-ni ha sempre dato un’impressione di debolezza inerente. Un po’ come quei gruppi black metal che negli anni novanta dicevano nelle interviste “Io adoro Satana, cosa ha fatto Dio per me?”: ma che cazzo vuol dire, che è, il clientelismo metafisico? Se Dio mi dava un posto al comune un pensierino ce lo potevo pure fare col Cri-stianesimo. Insomma, gli Scilipoti della lotta cosmica tra bene e male. Bah.Io fortunatamente non sono un essere superio-re, e sebbene sia insofferente a tantissima gente che mi sta intorno (e questo articolo ne è una prova), non è che mi ritenga un eletto. Chi parla della mediocrità imperante ha ragione forse la prima volta, non la centunesima. Perché, per il ragionamento di sopra sui cinici da tastiera, a furia di ripetere “gli altri sono mediocri, fa tutto schifo, il mondo del kaliyugacattivo mi ferisce” non si fa in realtà altro che sottolineare e con-

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vincersi di quanto si sia speciali. Ma siamo poi pronti a prenderci la responsabilità di questo?Io non dico che bisogna essere amore e fiori e foto di gattini con tutti, ma dobbiamo essere onesti con noi stessi. Va bene criticare, indivi-duare e colpire ciò che riteniamo sbagliato, ma a furia di parlare delle masse ignoranti, degli idio-ti che ci circondano, dei mediocri che ci rubano le donne e i posti di lavoro, rischiamo di perdere di vista degli interrogativi fondamentali.Ovvero: ma siamo sicuri che non ci sia stia im-pantanando in una spirale autoreferenziale as-siomatica (“tutti sono cattivi, io sono buono, quindi io sono il migliore”)? Questo ci impedi-rebbe di assolvere l’unico imperativo categori-co di chi si ritiene estraneo al vivere moderno: migliorarsi.Lo sfogo, la critica, ci sta: ma prima forse si do-vrebbe pensare ad esami di coscienza periodici, a quelli che io chiamo “i miei auto-rompimenti di bolas”, e rispondere alle domande: “cosa sto facendo io? In cosa devo migliorare? Lo sto fa-cendo? In cosa sono migliore di chi critico?”, e soprattutto: “Se fossi nei panni di tutti i medio-cri e non-eletti che detesto, sono sicuro che in ogni situazione e in ogni contingenza mi com-porterei diversamente?”Chi non si pone queste domande, e beh, allora mi sa che è sulla strada sbagliata. Questo è il senso della citazione di Adorno che ho posto all’inizio di questo intervento: non ci culliamo nello sviolinarci a vicenda (con noi stessi e i no-stri sodali), ma rendiamoci conto che ogni luo-go è nostro e non lo è allo stesso tempo, inclusi i successi e gli insuccessi, le sensazioni di su-periorità e quelle di inadeguatezza. Non sentirsi mai a casa propria significa avere sempre un’at-titudine problematica ma creativa: capire che tutto muta e noi, se vogliamo cambiare, dobbia-mo mutare ed evolvere. Lamentarsi non basta.Lo stesso discorso vale per le invocazioni di apocalisse (zombie, nuclerare, guerre qua, guerre là). Facciamo attenzione: ricordo un ver-setto del Talmud che mi colpì molto, e che, cito a memoria, faceva pressappoco così: “I brutti pensieri portano a brutte riflessioni, che porta-no a brutte azioni”. Nonostante i tempi infami

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che si vivono, è compito di chi si ritiene ad essi alieno lottare sempre per un’alternativa, per ciò che si ritiene giusto. L’apocalisse redentrice è troppo facile, ci solleva dal fardello dell’azione quotidiana.Al riguardo, voglio riportare un passo molto toc-cante tratto dalla trilogia dedicata alla disciplina tantrica Aghora, di Robert Svoboda. In questo passo, l’allievo parla con il suo maestro (che egli non sa essere a pochi giorni dalla morte), che particolarmente ispirato dalla sua dipartita dal mondo materiale gli confida profezie e intuizio-ni sul futuro, unitamente ad un consiglio che si è istillato profondamente nel mio cuore: «[…] l’Islam è scritto che durerà solo millequat-trocento anni, che sono già trascorsi; e se bi-sogna credere alle profezie di Nostradamus, il Cristianesimo finirà dopo duemila anni. Neppu-re Buddismo e Jainismo saranno risparmiati da questo processo di spulatura».«Date veramente peso a queste profezie?».«No, e non dovresti dargliene neppure tu. In effetti, devi stare attento perfino a non dare for-za a queste profezie quando le nomini, perché anche quello è karma. Quello che voglio dire è che queste profezie concordano sul fatto che il mondo in generale sta degenerando. È nostro compito evitare di degenerare con esso, senza peggiorare le cose nel mondo. Tutti coloro che temono la fine del mondo la rendono di fatto più vicina con la loro stessa preoccupazione. Farebbero meglio, per loro e per il mondo, a passare il tempo a ricordare Dio […]»1.E dopo quello che disse Vimalananda nel giugno del 1983, non posso dire proprio più niente.

Le illustrazioni che corredano il presente articolo sono Proiezioni mentali del vostro ego digitale, ergo non esistono

1 Aghora III: la legge del Karma, pp. 333-334.

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vinz notaro

il caso

0. sull’inesistenza del PubblicoSi distingue un’opera d’arte soltanto se è perce-pibile quel quid di incompatibilità con il merci-monio odierno. Sembra un monito, e lo è, ma è un vanto. Il fatto che a volte il sistema del business vei-coli per errore capolavori dell’estremismo mu-sicale, è solo una voluta coincidenza. Voluta da chi, fuori dal cerchio del tempo, dedica la sua vita a quella via regia che è l’arte, quella raris-sima arte ancora capace di trasformare chi ne partecipa. Chiariamoci subito, potremmo quasi dar per certo che tutta l’arte che conosciamo arrivi a

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noi grazie ai voleri del tanto spregiato mercimo-nio, anche quella buona parrebbe pervenirci da lì, quand’abbia già disintegrato l’istanza vitale del desiderio1, spentala nei narcisismi di massa senza patria e nei vaniloqui fatti di stracci di linguaggio (parole, gesti, forme, colori, note) processati, archiviati, filtrati, controllati dai media... mediati, mediocrizzati. Vedete, il pubblico è un concetto inventato dal sistema: non esiste. Così come non esiste la do-manda ma soltanto un’offerta fatta in manie-ra schiacciante che illude il pubblico anzitutto d’esser pubblico e poi d’aver formulato una do-manda. Immaginate quanto si debba mediare la bellezza per poterla mercificare.Quale orrore, vero. Di contro questa apparenza c’è un fatto: l’arte è una dea che richiede totale dedizione, vuole le venga sacrificato ogni ge-sto della vita. Anche mangiare. Anche lavorare, dunque. Persino vivere in questo mondo; vuole le si sacrifichi persino questo. E più tale paradosso è palese, più l’arte ci apre le sue porte. L’arte è l’eresia kat exochen, abita e invera il paradosso, lega con un filo di sangue mondi incredibilmente diversi tra loro: quello delle muse, quello dei demoni, e quello delle cose. Si, cose come un CD, un bollino SIAE, cose come la cerca dei mille modi per farsi co-noscere, urlando la propria esistenza liminale, imponendosi al rispetto altrui – quando l’onore sfida l’infamia2 è proprio il caso di dire –, sce-gliendo d’adorare Frau Musika nella sua mani-festazione forse più terrifica e tirannica, ispira-trice d’un genere musicale estremamente fuori da regole stilistiche.

1. l’identità dei m.d’a.e.De facto, tale paradigma vale anche dal versante estetico: deve sparire l’autorialità, dove per au-torialità s’intende identificabilità, al posto della quale occorre scegliere l’identità, e allora sia-mo veramente addentro quegli spazi remoti di abissi interiori3 che regnano nel cuore dell’arte.

1 Cfr. La distruzione del desiderio nell’epoca del narcisismo di massa, F. Ciaramelli, Dedalo, 2000.2 Quinta traccia di Stelle senza luce.3 Terza traccia di Stelle senza luce.

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Non identificabilità ma identità, questo è il pa-radosso di chi s’è assunto il difficile ruolo di vivi-ficare il mito, continuando a inverarlo: un ritorno alle porte dell’essere4 dove l’identità più tenace attraversa la spersonalizzazione, penetra il mito, trasforma se stessa e trasforma chi ne fruisce. A questo livello la differenza tra un atto magico e un atto artistico è sottilissima: dell’una le for-mule restano segrete, dell’altra gli effetti.Movimento d’Avanguardia Ermetico è un pro-getto indefinibile, un’identità fortissima che esistendo spregia – arrendetevi all’evidenza – gli acclamati sistemi di storicizzazione ed eti-chettatura che il mercato è uso sfruttare per far breccia nelle sciocche menti comparative del pubblico. E qui debbo annotare con forza un concetto chiave: quel pubblico abituato a sentire elogi altisonanti, sterili tavole comparative che servi-rebbero neppure ad attribuire un valore di mer-cato (che non esiste) a uso di un pubblico (che non esiste) sfruttando la storicizzazione (che non esiste), noi lo disprezziamo massimamente. Lo disprezziamo in ambito musicale come in qualsiasi altro ambito artistico, e tale spregio costituisce la nobiltà del nostro isolamento e aristocratico distacco5.

1. lacrime degli dèiDopo Stelle senza luce, è la recente uscita dei Movimento d’Avanguardia Ermetico, Lacrime degli Dèi, a confermare questo notevolissimo progetto italiano, capitanato da Ans (al secolo Andrea Anselmo, qui alle chitarre, per noi già valente militante eretico), come una delle espe-rienze più intense e originali che le fornaci nere di Frau Musika abbiano mai forgiato. Un lavoro disastrosamente malinconico, dinan-zi al quale persino chi era già avvezzo alle melo-die angosciose dei precedenti lavori si è trovato impreparato.Ed è questa la qualità che va ricercata in arte, un addestramento impietoso alle energie più in-

4 Seconda traccia di Stelle senza luce.5 Prima traccia di Stelle senza luce. Il titolo completo invero è “Decade di isolamento e aristocratico distacco”.

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tense, che o ti spezza o ti accresce realmente.Non tutta l’arte arriva per selezione d’un siste-ma, per imposizione della domanda. Non l’arte eretica. Non l’arte estrema. Essa si muove su un piano diverso, che qualcuno potrebbe frain-tendere per quell’accezione di underground eu-femismo per i non arrivati al grande pubblico (che, ricordiamolo, non esiste), mentre qui fi-nalmente restituiamo il vero senso al termine underground, ossia quello di oltretomba, musi-ca che arriva da una precisa sfera mitopoietica. Quella infera, che passa dall’estremismo me-lanconico all’atrabile furente e ribollente, quella di un comporre dalle affilate forme estetiche, quella dei Movimento d’Avanguardia Ermetico, che arriva ai suoi eletti, per affinità. Ciò scandaglia quell’apparenza secondo cui tut-ta la musica, inclusa quella affinata nel fuoco dello spirito, parrebbe arrivarci dall’imposizione del sistema-mercato, e rende totalmente irrile-vante se il prodotto sia un lavoro artigianale au-toprodotto oppure se sia passato (elusivamente) per un’etichetta o una casa discografica. Opere come Lacrime degli Dèi sono una chia-mata che investe piani differenti da quelli illu-sori della domanda/offerta, investe i piani con-creti delle rispondenze.E ciò può avvenire solo in maniera estrema, questo è un punto nodale. Estrema non vuol dire violenta, brutale, rumo-rosa, sanguinolenta, come probabilmente siamo abituati a credere dai media. Estrema vuol dire che sta al di fuori di tutto, indi può comunicare soltanto a chi s’è tirato fuori da tutto. Estrema, dunque, significa anche difficile, per scelta.La scelta di vivere in questo mondo senza però appartenervi, la scelta d’essere intermediari, esuli danzanti, o per dirla con Ans, la ballata dei proscritti6.Ed è per questo che Lacrime degli Dèi è un continuo traversamento di linguaggi estremi ed estremamente differenti, un disco ermetico – nel senso più profondo del termine –, un lavoro colto, capace di passare dal black metal cupo e scatenato a melanconici fraseggi post-rock, da

6 Sesta traccia di Lacrime degli Dèi.

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giri epici a incursioni rumoristiche, effettistica studiata nei minimi dettagli, un album con uno stile unico e senza alcuna gabbia stilistica.Le chitarre esplodono in tonfi abissali, dove solo il rumore del nostro passo risuona nell’oscuri-tà7, note che spingono altre note nel burrone dei sensi, donde trasformate in una forza novel-la nutrono il cuore. Liriche ch’assalgono in un misterioso gracchiare saturnino e un momento dopo tutto risale con ordine e riflessività, dal vomito melanconico in limpidissime citazioni, e le chitarre da nero sputo di lava si fanno più ossessive e nitide, la possente ritmica di basso e batteria s’addolcisce da inebriare.Un sole notturno che marcia8 sulle linee sua-denti di canto e chitarre, disarmonie fuori dal black metal di maniera: questo è un lavoro complesso, decadente, elegante, suonato da menti evolute e ispirate.Una dolcezza folle e tormentosa, tragica, senza nemmeno un istante di teatralità: possessione di maschere, dionisiaco delirante perfettamen-te equilibrato da purificante apollineo, alchimia perfetta tra le parti suonate ad arte e le temati-che profonde cantate nei testi.C’è tutto quanto si ama nella musica suonata, tutto ciò che essendo estremo richiama l’inten-sità e la radicalità delle emozioni incarnate e au-tentiche. Quest’album è un capolavoro per stile, per invenzione, per raffinatezza e per potenza di spirito.

7 Solo il mio passo risuona nell’oscurità è il titolo della terza traccia di Lacrime degli Dèi, un’epica piece di circa 14 minuti, nella quale i nostri danno il massimo, sia dal versante tecnico che emotivo.8 Marcia del Sole Notturno è la quinta traccia di Lacrime degli Dèi, uno dei brani più intensi del disco che si apre e chiude con due brevi inserti di pianoforte dalle atmosfere sognanti.

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dove la rabbia t r a s c e n d e i ProPri l i m i t il’esemPio di due death m e t a l b a n d i t a l i a n eandrea ans anselmo

ErodEd Engravings of a Gruesome Epitaph

Bastard saints The Shape of my will

Dopo il suicidio artistico dei Morbid Angel, che con “Heretic” dimostrarono di avere poche idee e con “Illud Divinum Insanus” dimostrarono persino di averne di impresentabili, oltre che di non possedere grandi doti come latinisti – ab-biamo avuto modo di trascurare, il Death metal mainstream in favore di altre varianti. Infatti, se all’esempio dei Morbid Angel – che addirit-tura si presenteranno per il nuovo tour con una scaletta di soli pezzi classici, tanto per salva-re il salvabile – aggiungiamo la tragica fine dei Death e del loro storico leader, non ci restava che guardare all’underground. Ed è da qui che iniziarono le, gradite, sorprese.Prima di guardare a tale scena sotterranea, ci preme sottolineare che non possiamo per com-prensibili motivi di spazio affrontare l’impor-tantissimo fenomeno del Death Metal svedese, che contribuì in maniera determinante al con-solidamento del genere, anche se le punte mas-sime di tale scena furono comunque raggiunte quasi sempre negli anni ’90, mentre successiva-mente si assistette ad una progressiva commer-

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cializzazione delle band (Dark Tranquillity, In Flames, Hypocrisy) o allo scioglimento di altre (su tutti gli At The Gates), tanto per citare al-cuni tra i tantissimi casi. Innanzi tutto, pur rivolgendosi ad un pubblico relativamente vasto, band “guerresche” ma dal serissimo spirito anti trend come i mitici Bolt Thrower o gli Hail of Bullets stanno dimostran-do da anni che il Death metal è in grado di risco-prirsi anche al di là delle solite tematiche gore e al tempo stesso mantenere un giusto equili-brio tra potenza, groove e violenta aggressività. Poi se a livello di underground internazionale negli ultimi cinque anni possiamo riscontrare una notevole produzione da parte di band poco conosciute ma assolutamente dotate di impor-tanti doti artistiche – ci viene da pensare ai finlandesi Krypts, agli inglesi Grave Miasma e Cruciamentum, ai tedeschi Necros Christos e Venenum, agli spagnoli Teitanblood o addirit-tura agli incredibilmente maturi israeliani Son-ne Adam – anche a livello italiano si rintraccia un fertile terreno di coltura per florilegi marci, corrotti ma certamente affascinanti. Il concetto di underground, ed in particolare come questo si manifesta in ambiente italia-no, è stato argomento di studio di un pregevole saggio dal titolo “Sub Terra – Rock Estremo e Cultura Underground in Italia (1977-1998)” di Eduardo Vitolo (Tsunami Edizioni) in cui il no-stro mondo ctonio musicale veniva paragonato sia agli inferi di certe pratiche iniziatiche italiche arcaiche che all’inconscio collettivo junghiano, ombra e serbatoio di idee dirompenti rispetto alla musica di consumo italiana. Un parallelo interessante che si può riproporre come utile strumento non solo per comprendere la musica di nicchia in Italia ma anche per fissare la dire-zione generale presa dalle recensioni all’interno di “Eretici del Terzo Millennio”.Occupiamoci dunque della nascita di questi vi-tali organismi dai resti decomposti del Death Metal mainstream. In questo senso, già a partire dalla omonima raccolta di demo, gli alessandrini Eroded, di-mostrarono di non avere nulla da invidiare alle succitate band straniere, forti di una compre-

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senza di tre elementi non banali: una produzio-ne aggressiva e grezza, un riffing ispirato e una serie di liriche che pur rimanendo attinenti alla brutalità del genere lasciavano intravedere un livello di approfondimento linguistico non co-mune. Con il loro primo album ufficiale, “En-gravings of a Gruesome Epitaph”, la brutalità si fa persino maggiore e il riffing più granitico, diminuiscono i brani di facile ascolto per un as-salto sonoro che per quanto impegnativo risulta tutt’altro che fine a se stesso.Infatti la prima, granitica, traccia, dal titolo “Murderous Univocity”, si apre con un distico di assoluto valore poetico, anni luce da certe scontate liriche del metal estremo:“Mobilizing forces, anti relational symmetries, Invitation to the absence of the secret dimen-sion of the egoPushed to the borders of desert lands of the present future.”

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Senza tregua, eppure senza per questo diveni-re un assalto insensato, gli Eroded proseguono con il loro marcio riffing verso una delle tracce più significative dell’intero disco, “Ecpyrosis”: “Now the sun is black! Eclipsed light of knowl-edge denied by bleeding eruption of burned of-ferings. Sacrifices devoted to the void that will never be filled”Nel complesso ci troviamo in presenza di un di-sco che colpisce per la sua mancanza di compro-messi corroborata al tempo stesso da maturità, gusto e conoscenza del genere. “Engravings Of

A Gruesome Epitaph” risulta uno degli album death metal più significativi degli ultimi anni. Ma occupiamoci anche di un’altra band dell’underground nostrano: i Bastard Saints. Formazione Death Metal attiva dal lonta-no 1997 ma che arriva al primo album solo nel 2012 con il potente Shape of My Will, che in realtà circolava in formato promo sin dal 2008 ma che solo quest’anno ha trova-

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to una etichetta disposta a dare la giusta ve-ste ad un album di tale spessore tecnico.Questo dettaglio sottolinea la scarsa propensio-ne di molte – ancorché non tutte – etichette a produrre band italiane. Ad ogni modo il prodot-to si presenta non solo corredato da una azzec-cata iconografia alchemica, argomento di studio inteso in questo caso certamente in modo ap-profondito, ma presenta una band le cui doti tecniche risultano di livello assoluto.Le coordinate sonore del gruppo lombardo ren-dono “Shape of my will” certamente di difficile digestione: i continui cambi di tempo, l’inces-sante alternarsi di riff e variazioni ritmiche, la voce claustrofobica e antiumana creano una atmosfera di disagio crescente nella mente dell’ascoltatore. In questo senso è emblematico il riuscito video realizzato per la traccia Thirteen Stab Wounds: in un’atmosfera di decadenza fu-turistica e industriale la schizofrenia dei nostri esplode soprattutto nella persona del cantante, le cui esibizioni live sono un noto marchio di fabbrica del combo nostrano. In un’epoca che vede, al crescere esponenziale dei mezzi di informazione, un raggelante e con-temporaneo decremento della cultura musicale, guardare all’underground è sforzo necessario per separare l’imprescindibile dal prescindibile, ciò che è prezioso da ciò che è di consumo, l’arte da ciò che è moda. Questo è ciò che ci promet-tiamo di fare su queste pagine mediante queste incursioni nei meandri notturni della musica estrema, proponendovi i tesori che stiamo rin-venendo all’interno di tali angusti passaggi.

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cervelli marci lo sterminio delle lingueisabella figini

«la grammatica, la stessa arida grammatica,

diventa qualcosa come una stregoneria evocativa;

le parole risuscitano rivestite di carne e d’ossa,

il sostantivo, nella sua maestà sostanziale,

l’aggettivo, abito trasparente che

lo veste e lo colora come una vernice, e il verbo, angelo

del movimento che dà l’impulso alla frase».

Charles Baudelaire, I paradisi artificiali, 1860

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Povera grammatica, additata e scaricata in au-tostrada da innumerevoli “cervelli marci” che s’incontrano inevitabilmente nella vita! È ferita, sapete? Lo è gravemente: continua ad incassa-re i colpi da chi non la sa governare; soffre il dolore delle correzioni apportate dai pochi che ancora non sanno come fare; subisce le con-seguenze di chi esprime male ciò che desidera affermare. Si faccia avanti chi può esclamare che la grammatica non sia importante, che non serva e lo dimostri! Dimostri di saper parlar bene e d’essere cosciente di ciò che dice, sen-za che gli altri non fraintendano! Certamente è semplice sottovalutare il suo potere, e quello delle parole di una semplice frase, su noi esse-ri umani governati dagli stati d’animo. Anche senza accorgersene, sono proprio loro, le parole e la grammatica, che tengono in mano le redini del gioco durante le discussioni e i litigi. Per lo più fraintendimenti tra significati e signifi-canti, continuamente confusi e scambiati. Per quanto siano influenzate dai sentimenti e dalle emozioni, impegnate in un walzer della mor-te all’ultimo sangue, le discussioni muovono le proprie vele a piacimento dalle proposizioni che noi stessi pronunciamo. Per esempio, accade che un condizionale venga interpretato come un presente (è confuso il significato); oppure al posto d’usare un condizionale, si esprima la frase per mezzo di un imperativo, (confusione di significante). Per quali che siano le influenze che ci dominano in quegli istanti, non fa male avere l’accortezza di rendersi conto dell’errore, anche dopo qualche minuto, passato in solitu-dine e calma – in fondo ciascuno ha i suoi tempi e modi per ragionare. Ne segue che i cervelli marci esistenti, sventolino parole come “etica” “equità” “diritto d’espressione” per tutelare l’importanza della loro versione; cancellando de facto ogni possibile critica costruttiva, con-dannando come male il criticare stesso! Siamo il male, dicono? No, non si tratta d’una que-stione di male o bene; l’astensione dal giudicare è lasciare i cancelli aperti all’unica vera colpa dell’umanità: l’ignoranza. Ci sono diversi dialet-ti e diverse lingue, ma la grammatica in comune

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resta una: se Erasmo da Rotterdam sostenne che esistono tante grammatiche quanti grammatici, ciò è probabilmente da imputarsi al bisogno di alcuni cervelli marci d’ imporre il proprio punto di vista, semplificando la sintassi al proprio li-vello di comprensione – troppo faticoso arrivare a un punto di coesione, una comunione ufficia-le, sulla quale si basa il concetto e il senso di società. Cervelli marci che si lasciano annichi-lire e vincere dal senso di impotenza, incantati dall’eco del desiderio d’essere qualcuno, di sem-brare importanti – seguono la moda, cercano l’originalità in misere scelte, create per illudere la massa. Esseri ignari che nella loro ricerca di una individualità diventano esattamente la cosa opposta. Valori e principi vengono completa-mente capovolti: guai a parlar di “rimboccarsi le maniche”, in fondo è roba d’altri tempi! Nulla di contrario al cambiamento, purché rimanga avanzare e non regredire, finché mantenga una sua utilità e non acquisisca passività. Delle cose esistono molteplici versioni, solo perché ci sono molteplici realtà, tante quanti gli esseri viventi che parlano. Le differenze e il relativismo so-pravviveranno sempre nelle loro forme vario-pinte, che cambiano da luogo ad ambiente, da educazione a famiglia. Ma una sola è la versione ufficiale: l’unico scopo della grammatica nella vita è l’essere un mezzo di comunicazione. Ep-pure i cervelli marci persistono nell’intento di seviziare la lingua e trasformarla nella loro pro-stituta personale, modificandola dove e come più conviene, non per senso ulteriore o per un radicale cambiamento sociale di usi e tradizio-ni; la deformano per capriccio e come un mor-bo, contagiano per il deperimento della forza di volontà. In questi cambiamenti della lingua corrente, si riflettono gli scoraggianti atteggia-menti passivi della moltitudine di questi marci cervelli. Siamo animali sociali, conviventi, pos-sediamo una presupposta intelligenza. La nostra natura presume l’assumersi la responsabilità di comprendere ed indagare, assicurandosi di es-ser capaci d’esprimere ciò che vogliamo dire. Se non si conosce l’uso di parole e funzioni gram-

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maticali, ci sono modi per riempire le lacune, in primis applicando la propria forza di volontà, migliorandosi. Occorre anche fare attenzione a non sottovalutare ciò che è stato appena scritto, per assecondare se stessi e la propria posizione. Una regola è una misura valida per tutti e am-mettere il proprio errore è certamente più nobile dell’insistere sulla propria versione dei fatti, vo-lendo sostenere di avere ragione. Altro che por-gere l’altra guancia! Se proprio ci tenete a far-lo, siate almeno consapevoli e cucitevi la bocca: smettete di lamentarvi delle vostre stesse scelte! Potete sempre reagire per amor proprio, fatelo se non altro con consapevolezza e autocritica. Ciò che proferite ha effetto sugli altri e se voi non conoscete la grammatica nessuno mai vi comprenderà, né tanto meno reagirà come vi aspettate. Quante volte vi chiedete al giorno ho sbagliato? A quale mia parola le altre perso-ne hanno reagito e in che modo? Smettetela di pensare a tutto il male che avete subito dagli altri. Come lo subite, ne fate: non esistono an-geli separati da demoni. I cervelli marci che non sono interessati al dare più credito alla gramma-tica sono invitati a smetterla di accusare sogget-ti terzi di saccenteria e arroganza, smettetela di biasimare le cose se voi in primis non riuscite, o peggio, non volete coglierle. Se alcuni hanno fatto un passo avanti, vedono per forza le cose di un passo più vicino e di un passo più chiara-mente; se siete incapaci e vi rifiutate a indagare su voi stessi, se non siete in grado di ascoltare altre persone senza interpretare tutto a vostro piacimento; se vi dà così fastidio il mondo ma non muovete un dito per cambiare, trovatevi un bosco isolato dove vivere da eremiti. Sì! siete liberi di scegliere, liberi di andarvene. Ma se vi sentite colpiti nell’orgoglio, dovrete dar prova di non essere infimi, di valere di più; dovete voi innalzarvi, troppo facile costringere altri al vo-stro livello. Ne avrete il coraggio? Affrontate l’egoismo naturale e inconscio, senza nascon-derlo nel falso altruismo (che preorganizza la vita, come rotaie da cui non è semplice dera-gliare, portandovi a concentrarvi sulla vostra

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sopravvivenza sentimentale). Astrarre da voi, dalla vostra personalità e dai sensi di possessio-ne non è un passatempo occasionale, si tratta di processi da cui non potrete tornare indietro, per quanto possiate decidere di interrompere. Non potrete mai scappare dal peso degli effetti che le proprie parole hanno sulla gente, sul mondo. Proviamo a scendere dal bel piedistallo che ci siamo creati, che tanta sicurezza ci ha donato: tentiamo il cammino sulla lava rovente; lascia-moci fucilare dalle nostre parole come fossimo noi stessi destinatari di esse. Sono cose non per codardi ed accidiosi - sia mai che qualcuno li turbi nella loro tranquillità vuota di imprevisti! – lasciamoli nel loro castello di carta, preda delle loro illusioni; aiutiamoli a spegnere una volta per tutte il cervello marcio che possiedono: un cervello peggio di uno spento! Che continua a funzionare malamente, che diffonde ed accre-sce il suo marciume, che s’incrosta intorno e poi dentro, per poi contaminarne un altro gio-vane ancora sano. Tu spegnerai il cervello o lo ripulirai dalle muffe?

pp. 80-81 Ambiguous, Christian Edler

p. 83 La piccola torre di babele, Pieter Bruegel il vecchio, 1563

pp. 85-86 Cervelli marci, F. Marafin

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armarsi dentro,armarsi

fuori:ovvero

iniziazione alla vita

alessandro vivaldi

Senza prestabiliti ordini, in sin d’oggi,senza armi determinate, pugnato avete.

[Inspirato]Tre mila militi facciano legione,

équiti, trecento, siano ali!Ogni altra disciplina, le milizie ordinando,

prescegliendo i capi.In torno a me qui venite, voi, che le armi onorate.

[Molti armati, fendendo la moltitudine, gli si fanno da presso]

Te, marziale nell’aspetto, prescelgo ad armarti...[Aucno e Faustulo gli passano le armi]

Questa la difesa sia del capo...porti il petto più metallo fiero nei visceri che fuora,

ma, questo, il nobile cuore pur ti difenda.[Fa indossare il pettorale]

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La caliga, calzi, atta a lunga via, a celare corsa...non per fuggire, ma per ruinar su’ nemici...

[Consegna le armi]Tutto, te, protegga lo scudo!

All’offesa lontana i pili...alla propinqua l’asta...

[Fiero]e ‘l ferro: a fendere! a trafiggere!Equiti! a voi: e parmula e tibiali.

[Un équite tende le mani per prendere lo scudetto tondo e gli schinieri]

Dien sempre corone le Vittorie all’armi che ti dono.Chi paventa: nudo, sia deriso! con verghe verberato!

a punte di aste messo sia nante al nemico -né più abbia asilo fra noi - né muliebri sorrisi.

[Pausa]Mio ferreo gregge, ecco il tuo pastore!

(IGNIS, Rumon, Sacrae Romae Origines)

Del testo teatrale di cui sopra, scritto sul finire degli anni ’20 e sconosciuto ai più, riteniamo essere due i punti importanti (o almeno, che ci interessano in questi brevi appunti). Il pri-mo, è l’azione ordinatrice di Romolo, in quanto Rex, che fissa, delimita, cristallizza, solidifica la nuova società nascente, Roma. Chiamando l’essenza, dichiara la cittadinanza. Numerando i reparti, definisce la condizione di cittadino – soldato. Armando l’equite, ne definisce la fun-zione, la protezione, la sacralizzazione. L’azione del Rex, in questo caso, è duplice: muta l’appa-renza esterna del cittadino in soldato, ma so-prattutto ne guida un mutamento ontologico interno; lo inizia, letteralmente, alle armi. Que-sta duplicità (porti il petto più metallo fiero nei visceri che fuora, ma, questo, il nobile cuore pur ti difenda) di cambiamento, di crescita, di trasmutazione, questo armarsi dentro, armarsi fuori, è la chiave e ispirazione per queste brevi note che vogliono essere lo spunto per una pe-dagogia, o meglio, dei principi strutturali per la formazione dell’individuo.Non casualmente questa duplice corrispon-denza ricorderà leggi ermetiche e similari (i.e. piccola guerra santa, grande guerra santa), costituendo, infatti, una chiave di lettura non indifferente per una reale e sincera realizzazio-ne della propria condizione umana.

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Vogliamo qui leggere quell’armarsi come un formarsi, addestrarsi, raffinarsi. Invero come un’azione formativa e ordinante da parte dell’in-dividuo su se stesso. Armarsi dentro: forgiare cioè il proprio mutamento ontologico avviando dei processi di crescita che in primis sono spi-rituali e secondariamente emotivi e psicologici. Armarsi fuori: formare e ordinare strumenti e azioni volti allo scatenare i processi di cui sopra. In breve: prepararsi alla vita, affinare i propri strumenti, in vista di un completamen-to della propria formazione come esseri umani. Questo completamento va letto, ovviamente, nell’ottica del concetto di iniziazione ai misteri in ambito platonico: unico modo – d’altra parte – di leggere l’educazione dell’individuo in senso totalizzante: sul piano orizzontale, o educazione mondana, come sul piano verticale, educazione al sacro come valore fondante dell’individuo e del suo posto nel mondo. Va detto che questo articolo non vuole essere un discorso teorico: al contrario vuole partire da spunti pragmatici e reali, e sul medesimo piano del reale e del quotidiano vuole essere d’aiuto. Il postulato di base è semplice: la formazione e la crescita dell’individuo – nel senso sano del concetto – non può prescindere da due direttive d’azione: la trasmutazione ontologica del pro-prio spirito, del proprio sentire, del proprio pen-sare (armarsi dentro) e l’ordinamento di azioni esterne che generino e al tempo stesso abbiano origine (armarsi fuori) dalla trasmutazione in questione. Queste due direttive d’azioni sono sostanzialmente coincidenti e al tempo stesso parallele, apparentemente scisse ma profonda-mente connesse nel tempo e nello spazio, ma anche oltre di essi. Sono, in breve, l’essenza stessa della nostra crescita come individui. La consapevolezza con cui tali direttive formative vengono espresse detta la consapevolezza che ogni individuo ha di sé. Volendo ulteriormen-te definire questi due momenti, potremmo dire che l’armarsi dentro corrisponde al mutamento interno generato dall’esperienza, mentre l’ar-marsi fuori corrisponde allo sviluppo di stru-menti e azioni che da una parte possano “ester-nare” questo mutamento, e dall’altra generino

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un ulteriore progredire dello stesso, instaurando un cerchio infinito di crescita. Si può dire che esistano tre modi di mancare tale sviluppo/crescita/formazione. Il primo, è il semplice ignorare tale processo; ciò comporta, altrettanto semplicemente, l’apatia dell’indivi-duo e il suo non crescere o, spesso, perfino il regredire. Le altre due modalità sono quelle che ci piace definire come sindrome di Rilke o del Tenente Sturm; questi due personaggi (autore il primo, personaggio autobiografico di Jün-ger il secondo) avvertono tutto lo scontro delle polarità dentro-fuori, non sincronizzate, nella dicotomia uomo d’azione – uomo intellettuale. Queste ultime due categorie corrispondono ad uno sviluppo non sincronizzato o non integrato delle direttive di cui andiamo parlando. Nel pri-mo caso, ad un eccessivo sviluppo di moti inter-ni, si rischia di essere dominati da passionalità eccessive in quanto non si hanno gli strumenti razionali ed esterni per modulare e sublimare i cambiamenti interni. Nel secondo caso, quando cioè è eccessivo uno sviluppo degli strumenti esterni, si avrà uno sterile intellettualismo det-tato da vanità, nonché una completa mancanza di aderenza alla realtà del mondo.Andando sul pratico: una eccessiva esperienza di vita priva di agganci esterni genera un mu-tamento interno che non si è in grado di con-trollare o di cui a stento ci si accorge poiché, all’esterno, non si sono creati i necessari stru-menti per auto analizzarsi. Di contro, una for-te preparazione di strumenti esterni sena delle esperienze di vita che mutino l’interno, genera una totale sterilità. Nel primo caso si agisce, ma non si ha alcuna cognizione di sé e del mondo, quindi non si cresce. Nel secondo caso, si cono-sce la teoria ma questa non essendo praticata non genera alcun mutamento o maturazione nell’individuo. Il primo caso genera uomini tita-nici, ovvero bruti essenzialmente stupidi. L’al-tro genera invece sterili intellettuali nozionisti sostanzialmente incapaci ed impotenti. È necessario sempre ricordare che la formazio-ne dell’individuo è inevitabilmente connessa ai concetti di rito di passaggio e di iniziazione, che hanno sin dagli albori della razza umana il

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compito, appunto, di tracciare il viaggio di ogni singolo individuo a sé stante cosi come il ruolo del medesimo nella società: è – in altre parole – il viaggio che porta alla scoperta di sé e del proprio posto nel cosmo (sia sociale, sia univer-sale). Questi riti di passaggio, questo concetto di viaggio, è connaturato all’essere uomini, e neanche le società contemporanee, tanto votate alla desacralizzazione, sono riuscite ad estirpar-li. Tuttavia, hanno fatto in modo di deteriorarli tanto da renderli per lo più inutili o addirittura nocivi. L’attuale modus vivendi è quindi gio-coforza ancora imbevuto di riti di passaggio, che però non equilibrano e formano l’individuo come dovrebbero. Due di questi riti, tanto per fare degli esempi, potevano essere fino a pochi anni fa il servizio di leva e la laurea. Momenti di passaggio che avrebbero dovuto costituire l’en-trata del/la giovine nel mondo degli adulti, così come il battesimo è per i cristiani il momen-to in cui il fedele entra nella chiesa. Momenti per i quali si veniva preparati interiormente ed esteriormente. Momenti che sono ovviamente stati, a livello di contenuto, soppressi. Parados-salmente, in ambiti ancor più degeneri è però più semplice trovare riti di passaggio ancora si-gnificativi: pensiamo alle iniziazioni nelle gang criminali (ma anche nella grande criminalità organizzata). Rimangono quindi, per cosi dire, delle vestigia d’iniziazione e di riti di passaggio, privi però di contenuto: non muta lo status ontologico dell’individuo (non portano una maturazione dell’essere) e al tempo stesso non portano gli strumenti di conoscenza esterna che l’individuo necessita per comprendere se stesso e il mon-do. Da una parte abbiamo bruti senza cervel-lo, dall’altro abbiamo cervelli incapaci di agire. Nel mezzo abbiamo la massa informe di coloro che – in definitiva – non crescono o peggio anco-ra, preferiscono non farlo (sarebbero i Murtans puri, per chi ha letto i nostri precedenti numeri). Ad ogni modo, primo passo che riteniamo im-prescindibile per ricominciare un lavoro su di sé, intrapreso su entrambi i fronti, è quello della rimozione delle categorie apparenti. È necessa-rio cioè capire ed intuire che, nell’attuale so-cietà, determinate categorie esterne non corri-

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spondono necessariamente a categorie effettive. Esempi: la laurea non porta necessariamente ad una cultura superiore né sottolinea un’intel-ligenza sopra la media; un lavoro da dirigen-te non equivale ad essere intrinsecamente un capo; saper disegnare non equivale ad essere un artista; svolgere azioni estreme non significa essere coraggiosi; viaggiare molto non significa essere maggiormente aperti e maturi rispetto a chi non viaggia. Cerchiamo di analizzare in breve gli esempi di cui sopra. Il laureato medio di oggi è palese-mente ignorante, nel buon 90% dei casi è inca-pace perfino di scrivere in un italiano decente. Questo perché il percorso che lo ha portato al rito di passaggio – il conseguimento della lau-rea – non è stato sostanzialmente formativo. È questa mancanza di formazione – e quindi di selezione – che rende la laurea un mero pezzo di carta cui si arriva sostanzialmente nella stes-sa ignoranza con cui si è approdati anni prima in ateneo. Quando vi è la formazione, essa è invece sostanzialmente nozionistica: si impara a memoria il libro, si prende 30, si rimuove ogni cosa, impendendo qualsivoglia pensiero stimo-lato dallo studio. Un lavoro da dirigente: anche qui è fallace il percorso formativo, in quanto non si arriva al comando attraverso un viag-gio che insegni quali siano i doveri inerenti tale funzione, ma si viene selezionati sulla base di pezzi di carta che non indicano l’effettiva re-altà dell’individuo, o tramite raccomandazione. Saper disegnare non significa essere un’artista, cosi come esprimere concetti incomprensibili senza saper disegnare: discorso che si può ap-plicare un po’ a tutto il campo artistico, facil-mente intuibile; sviluppare una tecnica senza aver maturato alcunché da dire, rende comple-tamente inutile tale tecnica relativamente al fine di essere un artista (qualsivoglia cosa si intenda per “artista”). Svolgere azioni estreme: caso che ricade nell’esperire la vita senza avere gli stru-menti per sublimare la propria crescita. Il che spiega perché generalmente le azioni “ardite” ad oggi siano per lo più, semplicemente, azio-ni stupide o di totale appannaggio degli stupidi (curioso ed emblematico è sempre per chi scri-ve, tanto per dirne una, il fatto che ad oggi la

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truppa della Folgore sia composta da ignoranti rispetto agli studenti universitari dalla quale era composta alla sua fondazione, con conseguente ampia differenza di interpretazione dell’essere uomini di quelli di allora e quelli di oggi). Viag-giare molto non significa essere più maturi di altri: altro caso che ricade nell’esperire la vita senza avere gli strumenti per interpretarla, il che spiega come mai molti giovani, pur aven-do speso all’estero interi mesi, oltre a non aver imparato nulla, tornano peggiori di prima o co-munque affatto maturati. È inutile, in definitiva, intraprendere azioni sen-za averne piena coscienza, poiché tale coscienza, origine o conseguenza delle azioni, è la chiave che fa girare la serratura della maturazione e della crescita. Per avere piena coscienza delle azioni, nostre e del mondo (diremmo: eventi e cambia-menti dentro e fuori di noi), dobbiamo sviluppa-re degli strumenti che interagiscono con l’espe-rienza, leggendola ed interpretandola, generando un movimento continuo: esperienza-pensiero-esperienza-pensiero che si sovrappone in con-tinuazione fungendo da motore della crescita.A grandi linee potremmo ridurre questi stru-menti a tre concetti portanti: Cultura, Volontà, Sensibilità.Per Cultura intendiamo qui la conoscenza ge-nerale del mondo e dell’uomo, della loro storia e del pensiero. Essa è, sostanzialmente, il baga-glio individuale, l’archivio all’interno del nostro cervello sulla base del quale leggiamo le nostre esperienze attraverso la logica, la similitudine, il confronto, la comparazione. Maggiore sarà la quantità di informazioni in questo archivio, maggiore sarà la nostra capacità di essere aper-ti, ma soprattutto di discernere tra giusto e sba-gliato, lecito e illecito, buono e cattivo. Ancor di più, maggiore sarà la nostra cultura, altrettanto maggiore sarà la nostra capacità di leggere il mondo con tutte le sue sfumature. Di contro, maggiormente infima sarà la nostra cultura, ancor di più lo sarà il nostro comportamento, poiché saremmo chiusi di mente, bigotti di co-scienza ed ipocriti dello spirito. Andiamo sul pratico, che di questi tempi è utile. Una persona che ha una pessima conoscenza della storia po-litica, o viziata, o di parte, sarà sostanzialmente

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incapace di intraprendere azioni politiche serie. Una persona sostanzialmente ignorante circa le condizioni geoeconomiche, sarà incapace di intraprendere politiche economiche serie. Una persona ignorante in ambito umanistico, diffi-cilmente avrà confidenza con i meccanismi del pensiero umano e quindi sarà incompetente nello gestire le persone che cooperano al suo fianco. Una persona che non conosce minima-mente la cultura è sostanzialmente incapace di relazionarsi seriamente e proficuamente con tutto ciò che è “altro”. Per Volontà intendiamo qui la capacità – in-nata o formata – di prendere delle decisioni e di attuarle sulla base di un confronto con la Cultura, assumendosene ovviamente la piena responsabilità. Decisioni in primis inerenti la propria necessità di crescita, di scoperta, ma soprattutto di perfezionamento. Per Sensibilità intendiamo qui la capacità di identificarsi con l’altro e la capacità di avvertire sul piano emotivo – e non solo – l’esperienza del mondo. Sensibilità non quindi in senso patetico e romantico, ma capacità empatica di avverti-re ciò che abbiamo attorno. Capacità non logi-ca di acquisire esperienza tramite l’intuizione dell’altro. Un animo privo di tale strumento è un animo sterile incapace di provare alcunché e soprattutto incapace di percepire la bellezza, che è fondamento di buona parte dell’esperien-za umana. Ognuno di questi tre strumenti può essere in-nato o può essere generato. In entrambi i casi, va costantemente affinato. Il primo principio dell’iniziazione, e della formazione in generale, è che essa deve essere costante e senza limiti. Soprattutto, essa deve essere profonda e sin-cronizzata. Una formazione puramente esterna (diremmo: tecnica, intellettuale) senza un mu-tamento interno, realizza una persona superfi-ciale. Un mutamento interno, senza la forma-zione esterna, genera solo persone stupide. Quindi, come evitarlo e a cosa volgersi per una corretta formazione? Innanzi tutto, il mondo di oggi, per quanto decadente, è comunque foriero di grandissime opportunità di crescita (fortu-nati i vira che combatteranno in Kali Yuga direbbe qualcuno…): piccole sfide quotidiane

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ma anche grandi eventi con cui relazionarsi. Non va e non deve essere in alcun modo snob-bata la formazione umanistica, imprescindibile per la formazione di una Cultura che non sia sterilmente tecnica. Formazione umanistica che può si trovarsi nelle Università, a patto che vi sia nell’individuo la Sensibilità per distinguerne la bellezza e soprattutto ciò che la differenzia da un mero nozionismo. È imprescindibile l’ap-propriarsi, in sostanza, di strumenti filosofici, storici, antropologici, etc. per interpretare tan-to l’individuo come il mondo. Nel quotidiano è anche ampiamente presente la possibilità di confrontarsi con l’altro, inteso come tutto ciò che è diverso da noi, soprattutto però inteso come differenti culture. In questo campo, oggi, va detto ancora molto ed è necessario poggiare le basi per una cultura che rispetti le differen-ze senza tentare in ogni modo (per repressione o per integrazione neoglobal) di sopprimerle a favore di un meltin’ pot a dir poco devastante per gli individui (e le culture). Soprattutto, il mondo offre ancora oggi tutte le esperienze ne-cessarie a cominciare quel circolo di cui sopra, teso al miglioramento e alla crescita. Vivere la vita come una sfida, preparandosi ad essa, ad-destrandosi: questo dovrebbe essere l’obiettivo. Mantenere la mente aperta, affinare costante-mente con lo studio i propri strumenti, rendere efficiente il proprio corpo, ampliare il proprio linguaggio, viaggiare per conoscere l’altro: que-sto è armarsi dentro, armarsi fuori. Con buona pace di coloro che pensano di poter trovare la verità nella demagogia della rete.

la vita è un assalto: lo sPirito è l’arma.

p. 93 La Vestizione, Edmund Leighton, 1901

p. 95 Satan and his Legions Hurling Defiance Toward The Vault of Heaven, James Barry, c. 1792-1794

p. 98 Donna-bugeisha, c. tardo 1800

p. a fianco Martial Dance, Gustave Boulanger, 1867.

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Alzo lo sguardo. Le scale sono nere e ripide. Le percorro con gli occhi fino in cima. Lì il nero si staglia sulla cappa grigia del cielo come una ferita ancora fresca su pelle immobile. Non so dove sto andando né come sia arrivata fin qui. Non so niente. Intorno a me c’è solo pie-tra. Sono in una cava fredda e senza vento che posso lasciare solo salendo le scale. Comincio a salire. Non so dove finiscano. È importante che continui a muovermi. Ne sono certa. Non pos-so rimanere ferma. Devo andare avanti. Ancora avanti. Solo un po’. Non voglio rimanere nella pietra. Le scale sono la mia unica possibilità. Man mano che salgo il vestito che porto si fa pesante. È una palandrana grigia che non posso togliere in alcun modo. È sporca di non so cosa e non so perché la indossi; so solo che non pos-so toglierla. Comincio a reggerla con le mani. La sollevo oltre l’ombelico. Non posso sfilarla. Non riesco a staccarla dal collo. La reggo fra le braccia come un figlio di piombo e resto curva e nuda in salita. Non guardo in basso. Non guar-do in alto. Non so dove sto andando. Le scale sono sempre più ripide e il vestito sem-pre più pesante. Se lo lasciassi andare ora mi staccherebbe di netto il collo. Me lo stringo for-te al petto e vado avanti. Non posso fermarmi. Non posso lasciar andare il vestito. La mia testa. Questo viaggio. Non posso abbandonare tutto questo. Le scale sono di un nero appiccicoso e pregno. Il vestito è sempre più pesante e il nero delle scale mi trattiene i piedi. Sono sempre più lenta. Non posso fermarmi. Stringo forte il ve-stito e vado oltre. Le scale sono appuntite. Quelle che prima sembravano pietruzze nascoste sotto la pece cominciano a diventare spuntoni. Aghi di pie-tra. Squame di serpe. Affondo i piedi nel nero. Lascio che si feriscano. All’inizio mi punzec-chiano. Poi mi feriscono. Gli aghi trapassano la pelle. Sollevano le unghie. Rompono ossa e cartilagini. Deformano i miei piedi in un grumo di carni instabili e ossicini che sporgono. Ad ogni passo il piede affonda nel nero. Si lascia mangiare dalle scale. Un morsetto ad ogni pas-so. Stacco l’altro piede e così via. Vado avanti. Inciampo diverse volte ma non demordo. Non posso fermarmi.

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L’ultimo tratto della salita è coperto di sangue secco. Qualcuno è già stato qui. Mi chiedo bre-vemente chi abbia percorso questa strada prima di me, se avesse il mio stesso vestito, i miei stessi piedi, se tenesse la testa bassa come la mia. Cammino ricurva fino a guardarmi i piedi. Ad ogni passo li vedo affondare e ferirsi. Ad ogni passo devo tirarli su verso un nuovo gra-dino. Arrampicarmi. Stringere il vestito. Conti-nuare. Non guardare in basso. Non guardare in alto. Continua. Guardati i piedi. Vai avanti. Alla fine delle scale il vestito torna leggero. Stringe ancora il collo, ma almeno non devo più portarlo in braccio. È sopportabile. Posso anda-re avanti. Davanti a me c’è un deserto di cenere. Non fa caldo né freddo, non c’è vento e non c’è suono. Mi guardo intorno. L’orizzonte è una linea net-ta e lontana. Avanzo piano. Mi volto a guardare le scale. Vedo gli ultimi spuntoni coperti di san-gue, le mie impronte rosse. Ce ne sono altre di un rosso più scuro, sangue secco, della persona che è stata qui prima di me. Le mie impronte le coprono, ravvivandole. Le seguo calpestandole con cura.Man mano che le scale si allontanano vedo sem-pre meno quello che mi circonda. Il grigio chia-ro della cenere e quello scuro del cielo sembrano fondersi e non sono sicura di riuscire a seguire una strada dritta. Avanzo nel deserto ricalcando le impronte di chi mi ha preceduta. Le seguo a testa bassa. Non ho nulla da guardare oltre il mio percorso. Nulla oltre la cenere e il sangue secco che mi guida come un compagno di viag-gio da lungo tempo perduto. Chi c’era qui pri-ma di me? Dove mi trovo? Come mi chiamo? Sembra tutto così uguale. E così diverso. Non sono mai stata qui. Sono sempre stata qui. Non so chi sono. Il vuoto del deserto anima doman-de senza risposte. Io sono stata? Cos’è io? Cosa sono oltre i piedi deformi e il collo stretto dal-la palandrana e la schiena curva? C’è stato un me? Dove sto andando? Mi rispondo, o forse mi risponde la cenere, che lo saprò solo con-tinuando a camminare. Ed è quello che faccio. Seguo scrupolosamente il mio ignoto compagno di avventure che come me ha salito le scale e

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attraversato il deserto. Arriverò da qualche par-te. È necessario che io arrivi da qualche parte. Andare avanti. Le impronte si fermano nel bel mezzo della ce-nere, come se il deserto avesse risucchiato chi lo percorreva. I miei piedi si poggiano sulle stesse ultime impronte. Carne aperta e tesa, dita ridot-te in polvere. Cammino su moncherini coperti di cenere. Me li guardo senza fare niente. Non so dove andare. Si alza il vento. La cenere forma fiamme grigie contro il muro indefinito del cielo. Le guardo a lungo divampare, sollevarsi, svanire, gonfiarsi ed ergersi di nuovo. Il vento è forte. La mia palandrana si solleva e stringe ancora il collo per non sfilarsi. È parte di me. Mi lascio stringere. Il vento mi colpisce. Resto ferma sui miei mon-cherini di sangue ormai secco e ossa rotte e fe-rite che non si ripareranno mai. Mi lascio tirare. Non so dove sto andando. Il vento sì. Così come lo sapeva per chi mi ha preceduta. Mi lascio guidare. Divampo. Sollevo le braccia. La cenere mi segue. Si inalbera alta contro il cielo. Segue il mio passo. Mi guida. Il deserto è in piena tem-pesta e io voglio raggiungerne il centro. Voglio la furia del vento. Lasciarmi consumare. La tempesta finisce come è cominciata. Di bot-to. Senza farmi capire. Il vento non canta più. Non mi segue e non mi guida. Non ci sono più le impronte. Non so dove sono. L’orizzonte è uguale da ogni lato. Non so più chi seguire. Il vento mi ha abbandonata. Non saprò mai dov’è il centro, o il sud, il nord, l’avanti e il dietro. Avanzando potrei tornare alle scale, al cunicolo di pietra e alla buca buia in cui non volevo en-trare. O comincerei a girare in tondo senza arri-vare mai da nessuna parte. Andare da nessuna parte, perdersi per sempre, è comunque meglio che fermarsi? Non lo so, e stavolta la cenere non sa rispondere.Il vestito mi stringe il collo. Non posso andare da nessuna parte pur avendo la strada aperta. Potrei fare di tutto, ma il tutto è inquietante. È troppo. Non c’è scelta nell’avere troppa scelta. Vorrei una scelta controllata. Due o tre possi-bilità. Non di più. Non sono fatta per l’infinito. Mai stata. Credo.

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Mi guardo i piedi. Guardandoli sulla cenere cal-da capisco di avere una sola strada. Posso an-dare in basso. Lasciarmi sprofondare. L’unica strada possibile. Mi inginocchio e comincio a scavare con le mani. Me le vedo per la prima volta da molto tempo. Hanno lo stesso colore della tempesta. Toccare il deserto è vederle sparire. La cenere sotto i miei polpastrelli è morbida. È come scavarsi una nicchia in un animale caldo. Il deserto è vivo. Lo scavo lentamente. Affondo la mano. Prendo la cenere. La lancio alle mie spalle. Affondo l’altra mano. Prendo. Lancio. Affondo entrambe. Prendo. Lancio. Affondo. La cenere è sempre più calda. Man mano che scavo si fa più scura. Prima è dello stesso colore del cielo. Poi delle scale. Umida. Ne lancio gran-di mucchi bagnati che gocciolano sulla cenere in superficie. Le mani affondano nel bagnato. Le guardo. Sono piene di acqua scura e densa. Con-tinuo a scavare. Sotto il deserto c’è un lago nero.Scavo una buca abbastanza grande per entra-re nell’acqua. Mi guardo intorno. L’orizzonte è uguale a se stesso. Il cielo e la cenere sono immobili. Sembrano in attesa. Non posso resta-re ancora per molto. Ho una strana sensazione. Come se aspettassero solo di vedermi affonda-re. Trascinarmi verso il basso. Le viscere della bestia. Coprire l’aria. Coprire le impronte. Na-scondermi al futuro. Non so di averne uno. Non ho altra strada che questa.Infilo i piedi nella buca. L’acqua è calda. La pa-landrana sembra allentare la stretta sul collo. Respiro a fondo. Guardo in alto. Non c’è niente. Mai stato. Chiudo gli occhi. Trattengo il fiato. Mi lascio cadere nella buca. Sto affondando. L’acqua è più chiara di quello che pensassi. È calda, mi piace. Apro gli occhi. La luce che viene dalla buca illumina l’acqua come il sole di un altro mondo. Sono al centro perfetto del lago. Tutto converge verso il punto in cui sto cadendo. Le piante nel lago sono con-torti rami nerissimi contro il grigio scuro del lago. Distinguo le cose solo dopo molto tempo. La buca che ho scavato è sempre più lontana. Ce n’è un’altra sul fondo, un fosso che dà su un nero totale. Sto cadendo lì. Rimango ferma.

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Penso che quello non è un lago. È l’iride scura di una bestia, e mi sto lasciando cadere nella sua pupilla. Sto entrando nella bestia. Mi ci lascio trascinare dall’acqua. Tutto diventa rosso e caldo come un fiume di lava. Mi ci perdo. Sono nella Bestia. Tutto è del colore dei miei moncherini. Del fuoco. Delle rose. Sembra passato tanto tempo dall’ultima volta che ho visto un colore. Sono in un cuni-colo stretto striato di venature nerastre in moto perpetuo. Serpenti neri che si contorcono su pietra rossa. Mi palpitano intorno mentre cam-mino. Sento il suono di tamburi lontani. Come se suonassero sepolti, o dall’occhio, o da un altro mondo. Dall’orizzonte o dal centro della tempe-sta o dal mio orecchio. Incalzano e rallentano, si fermano, riprendono, corrono, aumentano, di-minuiscono, si avvicinano, si allontanano. Ora sembrano mille, ora uno solo. Il suono è irrego-lare e continuo. Mi accompagna mentre avanzo. Vado di fretta. Non mi piace questo posto, mi sento in trappola. Troppo lontana. Fuori strada. Da un’altra parte. Voglio andare via. Tornerei volentieri indietro. Uscirei di nuovo dall’occhio. Mi mancano il de-serto, la cenere, le scale puntute. Vedo qualcuno davanti a me. Lontanissimo. Di spalle. Mi precede. Fa i miei stessi passi. Forse sono sue le impronte nel deserto, penso, forse ha fatto le scale. Guardo per terra. È troppo rosso per distinguere qualcosa. Sono ben lonta-na dal grigio e dall’occhio. Alzo lo sguardo e la figura è già lontana di altri cento passi. Aspetta. Non lasciarmi qui. Aspetta. I tamburi aumen-tano. La figura si ferma. Io mi fermo. I tamburi rallentano. Aspetta. Cammino piano. Il dolore è pieno. Come se cam-minassi coi piedi immersi nella lava. Sui carboni ardenti. Morsi da denti aguzzi. Come se avessi per scarpe due bocche affamate. Camminando mi lascio consumare. Non mi fermo. La figura è ancora lontana ma ferma. Mi sta aspettando. Voltati. Non si muove, non fa niente, però mi aspetta. Continuo a camminare. Le pareti della

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grotta sono rosse e cupe e sembrano ancora più calde. Non le tocco. So che sono vive. Possono farmi male. I serpenti neri pulsano al ritmo dei tamburi. Sono orribili. La roccia sembra pelle e loro sembrano volerla scavare per raggiunger-mi e mangiarmi via dalla Bestia. Non so dove sto andando ma sono certa che questo non è il posto giusto per me. Devo scappare. La figu-ra è ancora lontana. Ferma e lontana. Voltati. Niente.I tamburi aumentano. Cammino più veloce. Voglio andare via. Le pareti sembrano più vici-ne, più strette, più rosse. Vogliono stringermi. Aspettami. I tamburi sono vicini. Aspettami. I tamburi sono dietro di me. Mi volto e all’im-provviso è tutto nero. Respiro. I tamburi sono di nuovo lontani. Suonano lenti. Nel nero non c’è niente. Capisco improvvisamente che mi se-guiva da prima come un’ombra gigante. È lei ad aver fatto alzare il vento, lei a portarmi al cen-tro dell’occhio, lei a farmi arrivare fin qui. Mi volto e comincio a correre. Zoppico. Mi volto di nuovo. L’ombra mi sta inseguendo. Inghiotte il rosso e i serpenti senza distinzione, in silenzio. I tamburi sono impazziti. Suonano ovunque, strepitano, il rosso e i serpenti tremano. Quando mi volto di nuovo sono alla fine della vena e la figura è sparita. Sono vicina all’uscita. Il nero si sta avvicinando lento, assaporando il momento in cui mi raggiungerà. I tamburi sono quasi fermi. Noto delle scritte di sangue cupo e secco sulla parete fremente dell’arteria. Forse un messaggio da chi è stato qui prima di me. Mi avvicino. Leggonon c’è nessun altroe sottocammino da solae ancora, più sottola bestia sono ioGuardo le scritte. Non penso niente. Le guardo ancora. Le leggo. Ad alta voce. A bassa voce. Le sussurro. Le canticchio. Non c’è nessun altro. Cammino da sola. La bestia sono io. Improvvisamente ricordo. C’ero solo io prima

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di me. Sempre e solo io prima di me. Non c’è nessun altro. Mio il sangue sulle scale, mie le impronte nel deserto. Ricordo di averlo fatto altre volte. Ricordo di non essere mai arrivata da nessuna parte. Ricordo di aver cominciato a lasciarmi dei messaggi. Sulla cenere, cancellati dal vento. Sulle scale, mischiati al sangue. Con le pietre, che cadevano dal monte. Solo queste restano intatte. Mi chino e affondo un dito nelle ferite. Lo ri-giro nel sangue. Lascio che faccia male. Mi ac-cascio. Continuo ad affondare. A farmi male. A prendere sangue. Sotto l’ultima scritta aggiungonon ricorderÒ Vorrei scrivermi dell’altro, ma è troppo tardi. Il nero mi copre. Alzo lo sguardo. Le scale sono nere e ripide. Le percorro con gli occhi fino in cima. Lì il nero si staglia sulla cappa grigia del cielo come una ferita ancora fresca su pelle immobile. Non so dove sto andando né come sia arrivata fin qui. Non so niente. Intorno a me c’è solo pietra. Sono in una cava fredda e senza vento che posso lasciare solo salendo le scale. Comin-cio a salire. Non so dove finiscano. È impor-tante che continui a muovermi. Ne sono certa. Non posso rimanere ferma. Devo andare avanti. Ancora avanti. Solo un po’.

Le illustrazioni che corredano questo racconto sono opere della stessa autrice.

p. a fianco Lucifero, Franz von Stück, 1889-1890

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una luce nel buio felice roberto addeo

Ordinati nel disordine di un esangue sterminio,i miei pensieri spingono i versi sotto il bianco della pagina,al riparo dai quesiti che non cercano solo risposte.Mi fondo col buio che mi circoncide, in un patto di sentenzioso mutismo:non auguro nemmeno al mio nemico più malignodi recarsi oltre quel filo di luceche divide il mio sguardoda ciò che vede...

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andrea ans anselmo

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chi desidera ma non agisce, alleva Pestilenza.

[William Blake, Proverbi infernali]

Finis Coronat Opus