umiltà nella lirica del '200: appunti per un'indagine semantica.docx
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INDICE
INTRODUZIONE .....................................................................................................pag.3-4
I: GIACOMO DA LENTINI
Ben m’è venuto prima cordoglienza..........................................................................pag.5Poi non mi val merzè..................................................................................................pag.9Sì alta amanza à preso lo mè core..............................................................................pag.12
II : GUITTONE D’AREZZO
Ahi Deo che dolorosa.................................................................................................pag.15Amor mercè, per Deo mercè, mercede.......................................................................pag.20Ho da la donna mia in comandamento.......................................................................pag.22Gioia d’onne gioioso movimento...............................................................................pag.24Tu costante e sicuro fondamento................................................................................pag.25Picciul e vile om grande e car tenire..........................................................................pag.27
III: GUIDO GUINIZZELLI
Madonna il fino Amor................................................................................................pag.28
IV: GUIDO CAVALCANTI
Chi è questa che ven ch’ogn’om la mira....................................................................pag.34Pegli occhi fere uno spirito sottile..............................................................................pag.37Era in penser d’Amor quand’i trovai.........................................................................pag.39S’io prego questa donna che Pietate...........................................................................pag.42Io non pensava che lo cor giammai............................................................................pag.44
V: DANTE ALIGHIERI
Savere e cortesia, ingegno ed arte..............................................................................pag.47Se Lippo amico se’ tu che mi leggi............................................................................pag.49Per una ghirlandetta....................................................................................................pag.50Voi che savete ragionar d’Amore..............................................................................pag.54Parole mie che per lo mondo siete.............................................................................pag.56Così nel mio parlar voglio esser aspro.......................................................................pag.58Vita nova cap. II.........................................................................................................pag.62A ciascun’alma presa.................................................................................................pag.63Ballata, i' vo'...............................................................................................................pag.64
1
Vita nova cap. XV.....................................................................................................pag.66Ne li occhi porta.........................................................................................................pag.67Voi che portate la sembianza umile...........................................................................pag.68Vita Nova cap. XXIII.................................................................................................pag.70Donna pietosa e di novella etate.................................................................................pag.72
CONCLUSIONI.........................................................................................................pag.75-77
BIBLIOGRAFIA........................................................................................................pag.78-79
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INTRODUZIONE
Questa ricerca si è proposta di indagare il valore semantico del termine umiltà e
dei suoi derivati all’interno della lirica duecentesca (con una lieve eccezione per la
Vita Nova, che comprende anche estese sezioni in prosa). Per questo studio
semantico è stato selezionato un corpus di componimenti del Duecento. Si è reso
necessario limitare lo studio a cinque autori (Giacomo da Lentini, Guittone
d’Arezzo, Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante Alighieri) per poter
analizzare e contestualizzare il valore semantico di ogni occorrenza con maggior
precisione.
Per i testi e - quando possibile - per i commenti, mi sono avvalsa delle edizioni
più autorevoli, che segnalo in bibliografia. Sul versante linguistico, ho utilizzato le
prime quattro edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612,
1623, 1691, 1729-38) e il lemmario della quinta (1863-1923), oggi agevolmente
consultabili in rete;1 e il Grande Dizionario della Lingua Italiana diretto da
Salvatore Battaglia.2
Per Cavalcanti, mi sono potuta giovare anche di uno studio di Roberto Rea sul
lessico lirico;3 per Dante, ho potuto consultare le voci dedicate ai lemmi indagati
nell'Enciclopedia dantesca (Francesco Tateo)4.
Il metodo di lavoro è stato il seguente: dopo aver analizzato il componimento, ho
isolato il lemma e ho confrontato il valore semantico suggerito dal contesto con le
definizioni e gli esempi dei dizionari. Lo studio è stato suddiviso in cinque
capitoli, per autore, in ordine tendenzialmente cronologico.
L’obiettivo di questo lavoro è stato documentare come nell’arco di qualche
decennio possa mutare il valore semantico di un termine, in un caso come quello
di umiltà, rovesciando completamente la sua portata originaria, da indicatore di
1 Vocabolario degli Accademici della Crusca: edizioni 1612, 1623, 1691, 1729-38 e lemmario dell'edizione 1863-1923, disponibili in rete: http://www.lessicografia.it/2 Grande dizionario della lingua italiana, diretto da Salvatore Battaglia, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 1961-2002.3 Roberto Rea, Cavalcanti poeta : uno studio sul lessico lirico, Roma, Edizioni nuova cultura, 2008.4 Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1970-1978; disponibile anche in rete: www.treccani.it/enciclopedia/(Enciclopedia-Dantesca).
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sottomissione e devozione del servo amante (come ho avuto modo di constatare
nei componimenti di Giacomo da Lentini) a summa delle virtù positive della
donna, oppure a trasfigurazione dell’amante alla vista dell’amata. In quest’ultimo
caso umiltà diventa la virtù necessaria al rapporto amoroso, poiché allontana la
viltà e gli effetti negativi emergenti nella lirica precedente (il timore di avvicinarsi
alla donna, il lamento dell’io lirico soggetto a costanti sofferenze).
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CAPITOLO I
GIACOMO DA LENTINI
Ben m’è venuto prima cordoglienza, è una canzone di cinque stanze da otto
endecasillabi ciascuna; il Santangelo5 la avvicina per struttura metrica
(collegamento strofico: coblas unissonans), contenuti e temi alla lirica provenzale.
La donna amata è paragonata, a causa del suo atteggiamento altero, alle città
nemiche del regno di Federico II. Si riscontra all’interno della canzone un fronte
tematico duplice: amoroso e politico. A partire dalla prima strofa è possibile
rendersi immediatamente conto della condizione di disparità del poeta amante
rispetto alla donna amata: egli è costretto ad offrirle totale obbedienza, nonostante
il comportamento freddo e distante di lei. Tale situazione è fonte di dolore e
disagio per l’io lirico, il quale tuttavia non si discosta dai propri propositi:
Ben m'è venuto prima cordoglienza,poi benvoglienza —orgoglio m'è rendentedi voi, madonna, contr'a mia soffrenza:non è valenza —far male a sofrente.Tant'è potente —vostra signoria,c'avendo male più v'amo ogni dia:però tuttor la tropp'asicuranzaubria caunoscenza e onoranza.(1-8)
Nella seconda stanza l’io lirico dichiara con un “adunque” introduttivo, che si
ricollega alle riflessioni precedenti, di preferire la sofferenza amorosa ad un
legame retto dall’ipocrisia:
Adunque, amor, ben fora convenenza,d'aver temenza —como l'altra gente,che tornano la lor discaunoscenzaa la credenza —de lo benvogliente:chi è temente —fugge villania,e per coverta tal fa cortesia,ch'eo non vorria da voi, donna, semblanzase da lo cor non vi venisse amanza.(9-16)
5 Citato in I poeti della scuola siciliana, Mondadori, Milano 2008: I. Giacomo da Lentini, edizione critica con commento a cura di R. Antonelli, pag.179
5
Inizialmente, l’io lirico suggerisce all’amata un atteggiamento prudente, tuttavia
in un secondo momento le rimprovera ogni cortesia rivoltagli che non provenga
da un cuore che nutre veri sentimenti. La terza stanza rappresenta una specie di
generale invettiva, verso tutti coloro che hanno abusato della propria posizione per
causare sofferenze ingiuste a terzi:
E chi a torto batte o fa increscenza,di far plagenza —penza, poi si pente:però mi pasco di bona credenza,c ' Amor comenza —prim'a dar tormente;dunque più gente —seria la gioi mia,se per soffrir l'orgoglio s'umilìae la ferezza torna in pietanza;be·llopò fare Amor, ch'ell'è su' usanza.(16-23)
L’io lirico dichiara che chiunque abbia operato il male prima o poi si pentirà di
quanto ha commesso. Attraverso l’influsso di Amore la sofferenza muta
l’orgoglio in umiltà, ma si tratta, di un dolore positivo (questa immagine si pone
in netto contrasto con la sofferenza negativa illustrata nei primi versi della stanza).
Il contenuto della quarta stanza riprende inizialmente le dichiarazioni di
obbedienza già proclamate dall’io lirico, alle quali fa seguito una similitudine: la
donna se contrariata a causa della propria condotta, si comporterebbe come fa un
uomo orgoglioso quando viene contraddetto, inasprendo la propria alterigia:
Eo non vi faccio, donna, contendenza,ma ubidenza, —e amo coralmente;però non deggio planger penitenza,ca nullo senza —colpa è penitente.Naturalmente —avene tuttaviac'omo s'orgoglia a chi lo contrarìa;ma vostr'orgoglio passa sorcoitanza,che dismisura contr'a umilianza(23-30)
Egli, pur mantenendosi sempre entro i limiti di una servitù amorosa che lo vede
collocato su un piano inferiore rispetto all’amata, lascia azzarda una protesta circa
l’atteggiamento della donna, la quale eccede all’opposto rispetto al
comportamento dimesso dell’io lirico. Nella quinta stanza emergono in parallelo
6
la componente amorosa e quella politica, la donna è paragonata per il suo
atteggiamento alle fiere città nemiche del regno federiciano:
E voi che sete senza percepenza,como Florenza —che d'orgoglio sente,guardate a Pisa di gran canoscenza,che teme 'ntenza —d'orgogliosa gente:sì lungiamente —orgoglio m'à in bailia,Melan'a lo carroccio par che sia;e si si tarda l’umile speranza,chi sofra vince e scompra ogni tardanza.(30-37)
Tuttavia mentre la situazione politica potrebbe non mutare, il poeta auspica che la
propria perseveranza porti al successo sul piano sentimentale.
Nel componimento si trovano i seguenti termini: umilia, umilianza e umile
distribuiti uno per stanza a partire dalla terza strofa. Il primo termine è un verbo, il
secondo, un sostantivo e il terzo, un aggettivo. Il primo suggerisce un’azione:
come fosse personificato, simile ad un amante in preda a sofferenza amorosa
l’orgoglio cede, piegato dal dolore.
Il termine successivo è un sostantivo contrapposto ad un altro sostantivo
(umilianza-sorcoitanza), mentre il restante è un attributo positivo di un sostantivo
di qualità positiva (speranza).
Il valore semantico di questa occorrenza (umilia), in accordo con la definizione
del lemma in CruscaIV sta per “mitigare, addolcire”: il fatto di soffrire a lungo
mitiga l’orgoglio e lo rende umile. Questo spinge alla perseveranza, Amore e
l’esperienza del dolore sono messi sotto una luce positiva. Amore non è affatto
rappresentato nella stanza come una forza brutale, anche per questa ragione
ritengo che il valore più consono sia: “mitigare, addolcire.”
Ho ritenuto inoltre opportuno prendere in considerazione un esempio in
particolare tra quelli proposti dal dizionario: “Vuolsi mischiare una libbra di cera
tra le venti, o trenta di pece, perocchè umilia la pece, e non si schianta poi al
tempo del freddo (cioè rammorbidisce)”. Quest’ultimo tratto dal volgarizzamento
del Palladius Rutilius, sfrutta l’immagine della pece e della libbra di cera, si
accosta perfettamente ad una rappresentazione di Amore come forza benevola,
che stronca la negatività della superbia, come la cera ammorbidisce la pece:
7
Nella quarta strofa della canzone si presenta la coppia oppositiva umilianza-
sorcoitanza, che rende immediata l’acquisizione del valore semantico di questa
parola.
La definizione generale indica: “Umiltà” (CruscaIV) e “Atteggiamento umile e
sottomesso” (GDLI).
Entrambi i dizionari offrono un esempio di Dante da Maiano: “Se non discende il
vostro gran paraggio Alquanto ver la mia umilianza.”
L’idea del Notaro, a quanto emerso da un’attenta analisi è quella di suggerire un
proggressivo innalzamento dell’io lirico, attraverso un’immagine che richiami
obbedienza e modestia.
Umile è un aggettivo dal significato positivo, vuol dire “Modesto, dimesso,
contrario di superbo” accompagnandosi al sostantivo speranza, vede rafforzato il
suo valore semantico.
Il commento di Roberto Antonelli, mi suggerisce il medesimo significato, si
discosta soltanto per l’aggiunta di “mite” al quale fa seguito un “non orgogliosa”6,
in linea con quanto espresso da CruscaIV: ”chi attende pazientemente di compiere,
di soddisfare il suo desiderio, supera ogni indugio, ogni restistenza”. 7
L’io lirico utilizza tre lemmi accanto a tre esempi negativi: i superbi che
compiono il male, la donna amata paragonata all’uomo orgoglioso, la donna
amata paragonata alle città nemiche.
Il suo scopo è far risaltare la valenza alta e positiva dell’amore e dell’umiltà, che
sono due realtà inscindibili. Amore è umile, il poeta è umile, la speranza (di veder
realizzate circostanze desiderate) è umile.
I versi incipitari sembrano suggerire una concomitanza tra l’esperienza della
sofferenza amorosa e il valore dell’umiltà.
Tra i significati proposti da GDLI per umile, resta in questo caso valido:
“contegno, consapevolezza dei propri limiti”.
La speranza non può mutare le sorti politiche, ma può mutare quelle sentimentali,
attraverso la perseveranza.
6 Ivi, pag. 195, nota 39.
7 Ivi, pag. 195, nota 40.
8
Apparentemente quella dell’umile è una condizione di inferiorità e debolezza.
Nelle tre stanze finali quella condizione che poteva sembrare di sottomissione e
accettazione, si rivela alta e determinante e questo rovesciamento avviene proprio
nei luoghi del testo che contengono: umilia, umilianza, umile.
Poi non mi val merzé né ben servire è una canzone di cinque stanze, l’ attacco del
componimento rimanda all’incipit di un testo di Daude de Pradas: Pois merces
no.m val n’aiuda.
Questo componimento del Notaro sarebbe il risultato di un’integrazione tra il
passo del poeta provenzale e quello di un autore suo conterraneo, Gaucelm Faidit.
Grazie all’influsso di quest’ultimo autore il tema dell’allontanamento è rovesciato,
non è più l’amante a dover abbandonare l’idea di allontanarsi dalla donna amata:
nella canzone siciliana, l’io lirico è scacciato dalla donna con l’accusa di aver
mancato di lealtà nei suoi riguardi.
La concentrazione di questi aspetti porta il Notaro a costruire un componimento il
cui tema centrale è quello della separazione. L’io lirico si difende da un’accusa
ritenuta ingiusta e ad essa accompagna il rifiuto di allontanarsi da colei che ama.
La canzone ha la struttura di una vera e propria discussione a più voci sui temi del
servizio e dell’amore leale e sui limiti che questi deve avere.
Non si tratta di un esercizio di discussione accademica, quanto dell’analisi di uno
degli aspetti principali della fenomenologia amorosa.
La prima stanza enuncia immediatamente la condizione di dolore dell’io lirico.
Egli dichiara la propria morte imminente, perché nonostante chieda grazia e serva
con dedizione totale la propria donna, quest’ultima non si muove a pietà nei suoi
riguardi:
Poi no mi val merzé né ben servireinver' mia donna, in cui tegno speranzae amo lealmente,non so che cosa mi possa valere:se di me no le prende pietanza,ben morrò certamente.Per nente —mi cangiao lo suo talento,und'eo tormento —e vivo in gran dottanza,e son di molte pene sofferente. (1-9)
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Nella seconda stanza l’amante si dichiara disposto a soffrire per il volere
dell’amata “di bono core e pura leanza” cioè “sinceramente e lealmente.”
La situazione è rovesciata rispetto alla stanza che precede: un istante prima
dichiarava imminente la propria morte di fronte al comportamento della donna, in
quello successivo rivela di accettarne ogni desiderio anche se questo
significherebbe “pena avere” (v.13):
Sofferente seraggio al so piacere,di bono core e di pura leanzala servo umilemente:anzi vorrea per ella pena avereche per null'altra bene con baldanza,tanto le so' ubidente.Ardente —son di far suo piacimento,e mai no alento —d'aver sua membranza,in quella in cui disio spessamente.(10-18)
L’io lirico rinuncerebbe addirittura al bene di ogni altra donna in cambio della
sofferenza che patisce per questa, manifestando così il rinnovarsi del desiderio
(che non si estingue) di compiacere l’amata. In questa stanza l’avverbio
umilemente, si accompagna al verbo servire ed è preceduto da sintagmi di valore
positivo (“bono core”, “pura leanza”).
La terza strofa ritorna a riferirsi alla condizione iniziale vissuta dall’io lirico,
contraddicendo il contenuto della seconda stanza:
Spessamente disio e sto al morire,membrando che m'à miso in ubrianzal'amorosa piacente;senza misfatto no·m dovea punire,di far partenza de la nostra amanza,poi tant'è caunoscente.Temente —so' e non ò confortamento,poi valimento —no·m dà, ma pesanza,e fallami di tutto 'l suo conventi(19-27)
Il poeta dichiara di trovarsi spesso sul punto di morire al pensiero che l’amata
possa dimenticarsi di lui.
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Interessante è il contrapporsi tra “membrando” e “ubrianza”: il primo denotante il
pensiero quasi ossessivo che porterebbe al cedimento fisico e al sentirsi morire del
poeta e il secondo termine che rivela la dimenticanza dell’amata nei suoi riguardi.
La conferma di tale dimenticanza si ha nei versi successivi: pur affermando in una
concessiva che l’amata è una donna saggia, l’io lirico deplora la punizione
ricevuta, peraltro immeritata “senza misfatto no.m dovea punire” (v.22).
Nella strofa successiva la donna strappa all’io lirico la promessa di restarle fedele
servitore:
Conventi mi fece di riteneree donaomi una gio' per rimembranza,ch'eo stesse allegramente.Or la m'à tolta per troppo savere,dice che 'n altra parte ò mia 'ntendanza,ciò so veracemente:non sente — lo meo cor tal fallimento,né ò talento — di far misleanza,ch'eo la cangi per altra al meo vivente.(28-36)
La promessa di un assiduo e fedele servaggio cade nell’istante in cui l’amata, per
eccesso di presunzione, rimprovera all’amante di rivolgere altrove i propri
interessi.
Il poeta controbatte immediatamente, dichiara di conoscere bene sé stesso ed è
dunque consapevole di non aver mancato ai propri doveri.
Gli ultimi due versi concludono la strofa con un’affermazione che dovrebbe
spiazzare definitivamente la destinataria della canzone: egli non prova il desiderio
di mancare di lealtà nei riguardi dell’amata, nemmeno di preferirle altra donna,
finché avrà vita.
L’ultima stanza di canzone, riferisce come il sentimento forte verso l’amata
impedisca all’io lirico di allontanarsi da lei di propria iniziativa:
Vivente donna non creo che partirepotesse lo mio cor di sua possanza,non fosse sì avenente,perch'io lasciar volesse d'ubidirequella che pregio e bellezze inavanzae fami star soventela mente — d'amoroso pensamento:
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non aggio abento, — tanto 'l cor mi lanzaco li riguardi degli occhi ridente.(37-45)
La conclusione è rappresentata da un’ultima dichiarazione, per impossibilia:
se egli dovesse abbandonare la servitù amorosa nei confronti dell’amata, a causa
dell’intromissione di un’altra donna, rimarrebbe per tutta la vita tormentato dal
pensiero ricorrente dei suoi sguardi che gli trafiggerebbero il cuore.
All’interno della canzone, tutto pare ruotare attorno a umilemente, incastonato
nella seconda stanza accanto al verbo “servo”.
Apparentemente si tratta di un accostamento scontato, ma è fondamentale
rapportare il contenuto di questa stanza con il resto della canzone.
La situazione rappresentata nella seconda stanza è opposta a quella della stanza
iniziale vi si riscontra, difatti, una disposizione d’animo positiva verso la donna
amata malgrado tutto. Il sintagma “servo umilemente”, non pare difforme dal
contesto cortese della stanza: significa “Con umiltà” (Lat. humiliter, demisse),
secondo quanto suggeritoci da CruscaIV.
Anche se il valore di questa forma avverbiale si rivela evidente anche nella
parafrasi, vorrei discuterne ulteriormente: tutta la canzone è il risultato di un
continuo alternarsi di stati d’animo, positivi e negativi, momenti di totale
abbandono e fiducia verso la donna e momenti in cui il dolore è insopportabile
persino per l’io lirico che denuncia la propria condizione. Egli infatti, fa delle
rimostranze nei riguardi dell’amata, rimostranze che non sarebbero legittime se
egli non avesse accostato umilemente a “servo”, indicando in un certo senso una
conservazione di ruoli, con un’innovazione fondamentale: la decisione di
rimanere umile e quindi (rivestendo un ruolo imposto dal codice cortese),
permette all’amante di avanzare una cauta critica verso l’amata.
GDLI propone questo valore semantico: “Con atteggiamento umile, sottomesso,
contrito.”
Il terzo componimento è il sonetto Sì alta amanza à preso lo mè core con il
seguente schema metrico ABAB ABAB CDE CDE.
L’esordio di stampo trobadorico (“sì”) è attivo presso autori successivi come
Dante, Cino e specialmente Petrarca. Nella prima quartina l’io lirico afferma di
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aver perso la fiducia di raggiungere il soddisfacimento del desiderio amoroso,
poiché ha riposto il proprio amore in una donna che è “aguila gruera”, ‘aquila
cacciatrice di gru’ cioè donna superiore a tutte le altre. Tuttavia egli non designa
come errore questa impresa che (come ammette) è comunque ambiziosa:
Sì alta amanza à pres’a lo me’ core,ch’i’ mi disfido de lo compimento:che in aguila gruera ò messo amoreben est’orgoglio, ma no falimento.(1-4) Nella seconda quartina l’io lirico inizia a spiegare perché amare la donna non è
stato un errore: Amore “lo incalza e attende il fiore profumato”8, ovvero la
ricompensa cui si accenna nella prima quartina. L’immagine dell’albero altero
incrinato dal vento, allude ad Amore che incalza l’io lirico e gli rende ardua
l’impresa di cogliere il fiore, ovvero ottenere l’interesse e la benevolenza
dell’amata. L’accostamento del diamante (che è durissimo e indistruttibile per
antonomasia) alle “lacreme”, sembra voler lasciare aperta una possibilità di
riuscita per l’io lirico. Negli ultimi due versi della quartina c’è una ripresa del
tema del diamante accostato al verbo “rompe”, quest’ultimo pertiene assieme
“durezze” e umiliare al campo semantico della comparazione con il diamante9:
C’Amor l’encalza e spera, aulente frore,c’albor altera incrina dolce vento,e lo diamante rompe a tutte l’orede lacreme lo molle scendimento.(5-8)
Le due terzine finali si rivolgono direttamente alla donna amata.
Ricorrono le immagini del diamante e della donna altera, in un rapporto di
paragone: se le lacrime possono scalfire la durezza del minerale, allora anche egli
potrà riporre la speranza di raggiungere il “compimento” vagheggiato nella prima
quartina. A chiudere l’ultima terzina l’immagine del fuoco d’Amore che accende
la donna amata.
8 Ivi, pag.489, nota 5.
9 Ivi, pag. 490, nota 7.
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Donqua, madonna, se lacrime e piantode lo diamante frange le durezze,le vostre altezze poria isbasare(9-11)
lo meo penar amoroso ch’è tanto,umilïare le vostre durezze,foco d’amor in vui, donna, alumare.(12-14)
Il diamante figura ricorrente sia nei testi trobadorici antichi, che in quelli
successivi, il Guinizzelli stesso ne fa uso, anche se ad altro proposito si presenta
nel testo - come si diceva - accostato ai seguenti termini: frange, durezze, altezze,
isbasare e umiliare.
Il sonetto si sviluppa all’interno di una serie di contrasti, espressi soprattutto dalla
stessa situazione tratteggiata dall’io lirico: egli inizialmente lamenta di trovarsi in
difficoltà a soddisfare il desidero amoroso, poiché l’amata è altera.
Successivamente rivela di non trovarsi nell’errore amando e infine lascia aperto
uno spiraglio di speranza: se il diamante il minerale più resistente è spezzato dalle
lacrime, l’assiduo penare amoroso dell’io lirico, allenterà la durezza della donna
ed egli otterrà quello che si è proposto come fine.
Umiliare compare nel verso centrale della terzina finale.
Ho ritenuto adeguata la definizione che già avevo utilizzato per l’analisi della
prima canzone, tratta dalla CruscaIV: “Mitigare, addolcire (Lat. Mollire).”
Trattandosi dello stesso autore ho ritenuto che questo valore semantico fosse
quello più appropriato (la stessa parafrasi offerta dal commento di Roberto
Antonelli mi presenta “ammorbidire”), altrimenti l’io lirico non avrebbe insistito
nel chiamare in causa per ben due volte il diamante spezzato dalle lacrime. GDLI
presenta valori non difformi da questa definizione, ma più generici:“Reprimere,
avvilire l’orgoglio, la superbia, l’eccessivo amor proprio di una persona.”
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CAPITOLO II
GUITTONE D’AREZZO
Ahi Deo che dolorosa è una canzone in due piedi (abbC, addC) e sirma
EFfGgHhE; si tratta probabilmente di un’imitazione di Stefano Protonotaro che
utilizza la tornada provenzale: questa tecnica rende il congedo identico alla sirma.
La prima stanza inizia con un’invocazione a Dio, cui segue un’esclamazione sul
proprio stato d’animo: l’io lirico si presenta addolorato al pensiero della donna
amata, la sofferenza è talmente profonda e radicata da scatenare in lui persino
difficoltà ad esprimersi. L’effetto combinato del penare amoroso e
dell’impossibilità di esprimere il proprio dolore rendono i patimenti così
angosciosi da non lasciare pace all’io lirico:
Ahi Deo, che dolorosaragione aggio de dire,che per poco partirenon fa meo cor, solo membrando d’ella!Tant’è fort’ e angosciosa,che certo a gran penaaggio tanto de lena,che di bocca for traga la favella;e tuttavia tant’ angosciosamente,che non mi posso già tanto penare,ch’un solo motto trarene possa inter, parlando in esta via;ma’ che pur dir vorria,s’unque potesse, el nome e l’efettodel mal, che sì distrettom’av’a sé, che posar non posso nente. (1-16)
Il male dal quale egli è afflitto ha un nome ben preciso, cioè Amore, ma si tratta di
una forza ingannevole. L’io lirico mette subito in guardia il lettore circa gli effetti
disastrosi di questo sentimento utilizzando una serie di aggettivi negativi: “falso,
venenoso, forsennato”. L’amore ha valore quanto la morte nel momento in cui
estingue ogni forma di vanità e si può dire che sia morto bene chi abbia vissuto
mantenendosi padrone delle proprie facoltà:
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Nome ave Amore:ahi Deo, ch’è falso nomo,per ingegnare l’omoche l’efetto di lui cred’ amoroso!Venenoso dolorepien di tutto spiacere,forsennato volere,morte al corpo ed a l’alma lo coso,ch’è ’l suo diritto nome in veritate.Ma lo nome d’amor pot’om salvare,segondo che mi pare:amore quanto a morte vale a dire,e ben face amortireonor e prode e gioia, ove si tene.Ahi, com’è morto benequal ha, sì come me, in podestate!(17-32)
L’effetto principale di Amore è indurre chi ne è contagiato allo smarrimento del
senno, l’immediata conseguenza di questa perdita è la follia. L’io lirico è ritenuto
perciò da terzi una presenza sgradita e di disturbo.
Perciò egli non prova alcun sentimento d’amore verso sé o verso le cose che gli
appartengono, ma (contraddizione ricorrente nella poesia amorosa) ama soltanto
colei che è causa della sua disperazione. Il dolore raggiunge un tale acume da
rendersi intollerabile ed indescrivibile al tempo stesso:
Principio de l’efettosuo, che saver mi tollee me fa tutto folle,smarruto e tracoitato malamente,per ch’a palese è dettoca eo son forsennato:sì son disonoratoe tenuto noioso e dispiacente.E me e ’l meo in disamore ho, lasso,e amo solo lei che m’odia a morte;dolor più ch’altro fortee tormento crudele e angoscioso,e spiacer sì noiosoche par mi strugga l’alma, il corpo e ’l core,sento sì, che ’l tinorepropio non porea dir: perciò me’n lasso.(33-48)
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L’io lirico rivolgendosi ad Amore domanda i motivi di una crudeltà ingiustificata
nei suoi riguardi, poiché egli afferma di non dedicarsi ad altro che al piacere del
suo signore. La situazione è sempre giocata sui contrari: Amore si mostra crudele
con l’amante che è sempre stato umile e pietoso servo ed ha sempre accondisceso
alle sue imposizioni:
Amore, perché tantose’ ver’ mene crudele,già son te sì fedeleche non faccio altro mai che ’l tuo piacere? Ché con pietoso piantoe con umil mercedeti so’ stato a lo piedeben fa quint’anno a mercé chedere, adimostrando sempre il dolor meo,ch’e sì crudele, e la mercé sì umana:fera no è sì stranache non fosse divenuta pietosa;e tu pur d’orgogliosamainera se’ ver’ me sempre restato,und’eo son disperatoe dico mal, poi ben valer non veo.(49-64)
L’io lirico risponde con un’interrogativa indiretta retorica, “forse è vero che
l’orgoglio e la villania valgono più di pietà e grazia”. L’io lirico constata infatti
che spesso si ottengono maggiori risultati con la durezza anziché ottenere
qualcosa invocando grazia. La conclusione di questa stanza è contraria ad ogni
aspettativa: il rifiuto della signoria di Amore, dettato dall’impossibilità di
sostenerne le articolate leggi:
Orgoglio e villaniavarrea più forse in teneche pietanza o mercene,per che voglio oramai di ciò far saggio:ché veggio spesse viaper orgoglio atutareciò che mercé chiamarenon averea di far mai signoraggio.Però crudel villano enemicoseraggio, Amor, sempre ver’ te, se vale;e, se non piggior male
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ch’eo sostegno or non posso sostenere,faraime adispiacere,mentre ch’eo vivo, quanto più porai:ch’eo non serò giamaiin alcun modo tuo leale amico.(65-80)
Nonostante le promesse di gioia Amore lo ha portato a soffrire trascinandolo
verso illusioni ed incertezze; L’io lirico afferma che il male che gli è stato inflitto
non è Amore, ma morte. Tuttavia egli è costretto a biasimare e lodare Amore al
tempo stesso. Lo biasima poiché lo ha costretto ad un gioco che molto gli ha fatto
perdere, ma al tempo stesso lo loda perché non gli ha dato modo di vincere.
L’io lirico ha messo in palio il suo stesso cuore per partecipare al gioco che
Amore gli ha proposto ed ora è libero di riprenderselo (“e or lo sloco” v.95):
O no Amor, ma morte,quali e quanti dei pro’d’onore e di prohai già partiti e parti a malo engegno!Ché gioi’ prometti forte,donando adesso noia;e se talor dài gioia,oh, quanto via piggior che noi’ la tegno! como che venta pei’ che perta a giocoè, segondo ciò pare.Per ch’io biasmare te deggio e laudare:biasmar di ciò, che miso al gioco m’haiov’ho perduto assai;e laudar che non mai vincer m’hai dato;perch’ averia locatolo core in te giocando, e or lo sloco.(81-95)
Nel congedo l’io lirico cerca di far comprendere ad Amore le giuste ragioni del
suo biasimo con una similitudine, su un ladrone che ha salva la vita pur perdendo
un membro del proprio corpo e per questo deve mostrare gratitudine.
Ma l’io lirico non può essere collocato sullo stesso piano. Difatti del male ricevuto
egli non ha restituito nemmeno una minima parte, il che lo connota positivamente:
Amor, non me blasmar s’io t’ho blasmato,ma la tua fellonesca operazione:ché non ha già ladrone
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de che biasmi signor c’ha lui dannato,ma da sentirli gratose merta morte e per un membro è varco;com’io te de lo marcode lo mal tuo non ho grano un pesato.(96-103)
Il valore semantico di umil, secondo CruscaIV “Modesto, dimesso; Contrario di
superbo” (Lat. Modestus, mitis, lenis) nel componimento, si colloca in una
posizione intermedia: dopo aver lamentato tutte le angherie subite a causa
dell’ingannevole sentimento, accampa in sua difesa tutte quelle caratteristiche che
si addicono all’amante perfetto: “Ché con pietoso pianto / e con umil mercede / ti
so’ stato a lo piede” (vv.53-55).
Il pietoso pianto è rivelazione di una sofferenza che non è rimasta celata, ma è
visibile esternamente, la richiesta di grazia è tipica dell’amante che, spera di
ricevere la benevolenza dell’amata. Infine, “ti so’ stato a lo piede” indica la
posizione che può (e deve) essere certamente intesa in senso figurato, ma ricorda
anche la posizione del vassallo che si inchina al signore e gli offre la propria
lealtà: questa dispodizione nello spazio colloca la donna e Amore in senso fisico e
figurato in un contesto di superiorità e pone l’io lirico in disparte, creando e
rendendo una notevole asimmetria.
Questa asimmetria è rafforzata dall’assenza di ricompensa per aver adempiuto ai
propri obblighi di perfetto amante: aspetto che l’io lirico esasperato denuncia più
volte in questa canzone. CruscaIV offre alcuni esempi applicabili al contesto del
componimento.La situazione ivi tratteggiata è del tutto analoga a quella esposta
dalla canzone, salvo eccezioni che poi illustrerò. Intanto gli “umili prieghi”
(Bocc.num.59. Per gli umili suoi prieghi un poco di compassione gli venne di lei),
sono del tutto associabili a quell’umil mercede della canzone presa in esame. Tutti
e tre gli esempi tratti dal medesimo autore, illustrano come chi desideri ottenere
un risultato debba attenersi ad un certo comportamento si vedano anche: Bocc.
Nov. 77.4 Nè ti posson muovere a pietate alcuna ec. le amare lagrime, e gli umili
prieghi. E: Bocc.nov.89.2. Ciascuna, che quiete, consolazione, e riposo vuole con
quelli uomini avere, a' quali s'appartiene, dee essere umile, paziente, e
ubbidiente.
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Tuttavia contrariamente a quanto messo in luce da questi esempi nella canzone
l’io lirico ottiene l’esatto opposto, all’umiliazione e al patimento si sommano
ulteriori sofferenze. Alla descrizione di GDLI mi sento di aggiungere ulteriori
considerazioni umile è impiegato per indicare: “che è consapevole dei propri
limiti, che non si esalta per meriti o qualità. Anche: che tiene un contegno
semplice, modesto e riservato o palesa reverente soggezione nei confronti di
altre persone. In un contesto di soggezione amorosa.”
Il riferimento alla soggezione amorosa avrebbe valore solo per la stanza
all’interno della quale l’occorrenza è citata: si tratta di una constatazione sul
dovere compiuto come amante, non di una richiesta di grazia al fine di muovere
le proprie sorti verso un esito positivo che, sia chiaro, non è affatto previsto. L’io
lirico associa a “mercede” quell’aggettivo, perché la richiesta deve essere umil
data l’asimmetria vigente tra lui e Amore. Trapela un sentimento di soggezione,
che poi viene a decadere nello stesso istante in cui (e lo comprendiamo sin
dall’inizio della canzone) l’io lirico ci ripete che l’Amore è inganno. La positività
di umil come aggettivo in questo contesto, ha una durata limitata nel tempo e l’io
lirico la associa al periodo in cui credeva che una condotta tale avrebbe sortito
effetti per lui vantaggiosi.
Amor mercè, per Deo mercè, mercede è un sonetto con schema ABAB ABAB
CDC CDC l’attacco è analogo a una canzone all ‘ “Amico di Dante”, Amor per
Deo,no non posso più soffrire. La ripetizione (“mercè” per due volte, la terza
“mercede”) dà l’idea del lamento, dell’invocazione dell’io lirico, che stanco di
patire, si abbandona alla supplica.
La morte è pietosa, perché perdona all’uomo le sue mancanze come si evince
dalla prima quartina:
Amor mercé, per Deo, mercé, mercededel gran torto, ché più v'amo che mene.Lasso, morte perdona om per mercedea quel che di morir servito ha bene; (1-4)
e no è cor crudel sì, che mercedeno 'l faccia umil, tal che pietà retene;e vence Deo per sua vertù mercede,
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e cosa altra che voi no li si tene. (5-8)
La grazia rende umile anche il cuore più duro, Dio stesso è vinto da “mercede”,
ma la signoria di Amore rimane impassibile rispetto a tale forza.
Nelle terzine l’io lirico si rivolge ad Amore stesso, egli non potrà perseverare
nell’orgoglio e pensare di essere elevato più di quanto non ci si elevi, umiliandosi
a chiedere grazia. Tuttavia conviene, come l’io lirico rende noto attraverso un
ossimoro (“alta umiltà” v.12), che egli si adoperi con le sue sole forze a piegare lo
spirito altero di Amore l’intento è di trasformarlo attraverso la sua umiltà in
“umana signoria”:
Ma certo già non porete orgogliandomontar tanto, che più sempre eo non siacon mercede cherere umiliando .(9-11)
E pur conven che l'alta umiltà miavad'a forza orgoglio vostro abassando,e facciavi d'umana segnoria.(12-14)
In questo componimento si presentano ben tre occorrenze del lemma: umil,
umiliando, umiltà. Sembra che nell’insieme queste ultime creino una sorta di
climax ascendente a partire dalla seconda quartina, dove il termine è impiegato
per indicare che “mercede” addolcisce i cuori superbi, è più opportuno a parer
mio quindi scegliere questa definizione tratta da CruscaIV: vale Mitigare,
Addolcire. Lat. mollire. La definizione non l’ho cercata sotto la voce umile,
bensì sotto la voce umiliare, perché il testo che sto analizzando presenta “faccia
umil” (v.6). La reggenza del verbo “fare” mi ha fatta propendere per la voce
umiliare che in ultima analisi si è rivelata la più efficace.
La prima terzina illustra come l’orgoglio di Amore non possa mai superare in
grandezza l’ineguagliabile virtù che si acquisisce chiedendo sempre grazia, come
lo stesso io lirico afferma di fare.
Il finale rovescia totalmente la comune concezione di umiltà come abbassamento,
modestia o atteggiamento di chi si pone in disparte: l’io lirico sottolinea che la sua
umiltà, non solo è più forte della superbia dietro alla quale Amore si nasconde,
ma è anche il mezzo per piegare la sua crudele signoria e renderla più umana.
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A umiltà nella terzina si riferiscono i termini ossimorici “alta” e “forza”: l’io
lirico trasmette un messaggio riguardante il potere che questo atteggiamento
possiede, che non risiede affatto nella rassegnazione e nell’accettazione passiva.
Contrariamente a quanto ci si possa aspettare dall’amante, qui la distanza è netta:
l’io lirico loda il potenziale che l’umiltà ha su quanto le si oppone fieramente,
afferma che un atteggiamento che riconosce la propria inferiorità è superiore a
qualsiasi altro che fa mostra della propria alterigia, infine decreta la forza virtuosa
dell’umiltà, in grado di piegare la dura signoria di Amore.
Collocato all’interno della seconda quartina, umil è un aggettivo che indica la
condizione di chi riceve “mercede” (v.5) nelle terzine dove le occorrenze
umiliando e umiltà salgono in primo piano.
La dichiarazione dell’io lirico è spiazzante in un contesto amoroso, che
prevederebbe la sua sottomissione ad Amore: egli afferma che non è possibile che
il dio raggiunga maggior prestigio e valore nell’insuperbirsi, di quanto egli possa
ottenere umiliandosi a chiedere grazia, quindi il suo atto non indica reverenza, ma
rivendicazione del valore e dell’importanza della propria condotta. Come GDLI
propone: “Reprimere, avvilire l’orgoglio, l’eccessivo insuperbirsi di una
persona.”
Anche se si tratta di un verbo intransitivo è interessante operare un confronto con
il valore proposto da CruscaIV : “Divenire umile, abbassarsi, concepire basso
sentimento di se medesimo.”
Non è a sé medesimo che l’io lirico si riferisce con umiliare, ma ad Amore, al
quale pare suggerire di non indulgere in un atteggiamento orgoglioso e distante a
lungo, poiché non otterrà alcun prestigio, perseverandovi.
La restante terzina riprende il concetto espresso dalla precedente con un’ulteriore
osservazione: nonostante l’inclinazione negativa di Amore nei suoi riguardi, egli è
destinato, con la forza dell’umiltà ad imporsi su di esso. Quindi la virtù che
sempre si presenta in sembianze modeste, è in possesso del più alto potere
esistente (perciò “alta”): è in grado con la forza di invitare chi le si oppone a
seguirne l’esempio.
Ho da la donna mia in comandamento è un sonetto amoroso guittoniano
comprendente due quartine e due terzine con il seguente schema metrico: ABAB
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ABAB CDC DCD. L’io lirico nella prima quartina dichiara di aver ricevuto dalla
donna amata l’ordine di confortare ogni buon uomo definito “servidore”
(d’Amore) affinchè non si lasci scoraggiare dalla freddezza della propria donna,
ma perseveri nel suo amore incondizionato verso di lei.
L’io lirico infatti nella seconda quartina afferma di poter dire questo con
sicurezza, poiché ha sperimentato in prima persona una situazione simile e da
tanta amarezza e sofferenza, perserverando alla fine ha ottenuto la dolcezza della
ricompensa, venendo così ripagato dei numerosi sforzi:
Ho da la donna mia in comandamento,ch’eo reconforti onni bon servidore,ched è disconfortato ed ha tormento,perché inver lui sua donna ha fero core;(1-4)
e vol ch’io dica lui ch’alcun spaventonon aggia, ch’esser dia pur vincitore;ca me mostro, pria che lo spremento:ch’avia più ch’altro amaro, or ho dolzore.(5-9)
Incontro amore e servir e merzedeed umiltate e preghero e sofrenzachi po campo tener? Nullo, si crede.(10-12) Tanto sottile e grande è lor potenza,che vince Deo; donque perché decredealcun om de sua donna, o n’ha temenza?(13-15)
Nelle terzine si incontrano due interrogative, la prima è retorica: l’io lirico è
consapevole del fatto che a nessuno sia possibile opporsi a tutti gli aspetti che
connotano il perfetto amante (“Incontro amore e servir e merzede / ed umiltate
preghero e sofrenza” vv.9-10). Nella terzina finale l’io lirico ci rende noto che è
proprio la combinazione di quei fattori a vincere anche la più grande forza che
dovesse opporvisi, è dunque giusto che l’innamorato insista nel proprio
atteggiamento visto che molto probabilmente avrà successo. Per questa ragione
non ha senso, a detta dell’io lirico, provare paura se si è consapevoli osservanti di
quelle norme.
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Gioia d’onne gioioso movimento è un sonetto con schema metrico ABAB ABAB
CDC DCD fa parte come il sonetto precedentemente analizzato della corona di
sonetti a tematica amorosa, anche se, come si deduce da un’immediata lettura del
testo, presenta elementi discordanti rispetto a quella che è sempre stata la linea
teorica sul comportamento da tenersi all’interno del legame amoroso.
Il precedente componimento disgiungeva il timore da amore. In quest’ultimo si
evidenzia sin dalla prima quartina, un categorico rifiuto di presentare scuse, non
prova nessun tipo di pentimento circa il suo atto di disservizio, poiché
quest’ultimo si è rivelato successivamente efficace. L’atteggiamento dell’io lirico
ha portato la donna a rendersi mite e arrendevole. Tuttavia tengo a sottolineare,
come nell’incipit ella è definita “fonte e origine di ogni gioia”, quindi egli, non ne
esclude l’importanza, nonostante non mostri rispetto verso di lei e si sia
comportato villanamente.
Nella seconda quartina, aggiusto il tiro indicando come faccia riferimento alla
circostanza solo per il giovamento che ha tratto da quell’esperienza, non certo
perché si tratti di un comportamento saggio o di un esempio da seguire:
Gioia d’onne gioi e - movimento,non mi repento, - se villan so stato,né curucciato - voi; che però sentoa me ’l talento - vostro umiliato.(1-4)
Che ’n ciò fui dato - solo a ’ntendimentodel valimento - quale è ’n me tornato;e ho parlato - contra sapimento,ché piacimento - sol ho en voi trovato.(5-10)
Nelle terzine si rivolge alla donna amata, dichiarando di aver ricevuto con un atto
sgarbato, la dolcezza che gli era stata sovente negata, facendo anche un raffronto
rispetto a tutte quelle situazioni nelle quali lei si è permessa di mostrarsi
disdegnosa o di comportarsi con grande freddezza. Nella terzina finale l’io lirico
fa una dichiarazione sconcertante: egli continuerà a servire la donna se ella sarà
benevola, non avrà dunque altre pretese perché soddisfatto della cortesia ottenuta
da lei.
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E se gravato - m’avete sovente,sì dolcemente - m’ave trapagatolo vosto orrato - dir, che son galdente.(11-13)
Là du’ piagente - v’è, verrò di grato,e siame dato - ciò che più v’è gente,che più cherente - non serò trovato.(14-16)
Umiliato nella prima quartina non è riferito all’io lirico, corrisponde alla donna, la
quale ha subito una villania da parte sua. Umiliato si colloca a parer mio, sulla
stessa linea semantica, di un componimento di Giacomo da Lentini Ben m’è
venuto prima cordoglienza. Ad istituire un collegamento tra i due testi è l’intento
di “mollire, addolcire” che si manifesta in due differenti modalità: il Notaro si
avvaleva della sofferenza e secondo il suo giudizio questo era il solo modo per far
passare la “ferezza in pietanza”, Guittone invece, per ottenere il suo scopo
rivendica l’accortezza dell’innamorato nel dichiarare di non essere stato umile.
Non intendo affrontare la differenza dei due atteggiamenti, ma il valore semantico
che li accomuna, mi permette di affermare che a distanza di pochi anni,
l’atteggiamento dell’amante ha subito una rivoluzione: ci saremmo aspettati un
innamorato che soffre per piegare la donna, anziché un innamorato che offende la
condotta dell’amata, non si mostra pentito e ottiene ciò che desidera.
Contrariamente a quanto il Notaro avrebbe dichiarato in “Eo non vi faccio, donna,
contendenza”(v.23), Guittone è disposto nelle terzine finali ad andare fino in
fondo per difendere la propria linea di pensiero (anche se è lui stesso a dichiarare
di aver parlato “contra sapimento”, cioè contro ogni buonsenso) e dichiara di
essere stato pienamente ripagato (commettendo una sola scortesia) di quanto ha
patito comportandosi correttamente. Egli afferma che d’ora in poi si mostrerà a lei
e se sarà ricevuto con la benevolenza che ritiene di meritare, si dichiarerà
soddisfatto.
Tu costante e sicuro fondamento (schema metrico: ABAB ABAB CDE CDE)
appartiene ai sonetti di argomento morale scritti da frate Guittone. Questo
componimento è fondamentale ai fini di questo percorso semantico perché
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presenta una descrizione dell’umilitate, in quanto virtù e solo “costante e sicuro
fondamento” della virtù, come si evince dalla prima quartina.
Le quartine descrivono in crescendo gli attributi di questa virtù, che qui non è più
relegata a un ambito esclusivamente amoroso, ma si orienta su un versante
religioso: nella seconda quartina l’io lirico menziona Dio e sottolinea come
l’umilitate si opponga alla vanità del mondo, e raccolga in sé tutto il potere
necessario a respingere il male:
Tu, costante e sicuro fondamentode vertù tutta e guardia, umilitate,for cui del tutto vanno in perdimentoperdon, grazi’ ed onor, e son sdegnate;(1-4)
e in cui prendon pregio e piacimentoe da Dio e da om son meritate.Teco tenendo, nullo è cadimento,ni male alcun sor te ha podestate.(5-9)
Le due terzine finali proseguono la trattazione degli attributi positivi di umilitate,
ridonda nella terzina finale l’onnipotenza di questa virtù, che è soprattutto una
virtù divina:
Tu onni iniqui e rei vinci de leve,non sol corpo ma core seguon tee;diavol conquidi e Dio fai che voi fare.(10-12)
Al poder tuo non po poder, né deve;ben è beato quelli, ove ben see,e dove no, miser del tutto appare(13-15)
Mi sembra evidente, che si parli di umilitate come “de vertù tutta e guardia” (v.2)
e che quindi il valore ultimo di questo termine non sia altri che da intendersi come
umiltà nella sua accezione prevalentemente spirituale: Dio stesso è soggiogato
dall’umilitate (l’io lirico sottolinea con una vena di blasfemia che quest’ultima fa
compiere a Dio ciò che desidera), inoltre l’io lirico rende noto come mantenendo
umilitate come condotta da seguire “nullo è cadimento” (v.8).
Nella prima terzina, è proclamata la vittoria di questa virtù su ogni iniquità e sul
male per eccellenza (“diavol” del v.12), nell’ultima terzina invece è infine
dichiarata l’indipendenza di questa virtù da ogni potere (perché essa è detentrice
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di un potere proprio) e la beatitudine di chi la possiede è una grande ricchezza,
laddove chi ne è sprovvisto appare misero del tutto.
Riporto la terzina finale del sonetto Picciul e vile om grande e car tenire per
richiamare l’attenzione sul precedente, stavolta per contrasto:
Resta donque oramai che solamenteumilità, core troppo amorosoobbriò voi in me laudar ragione.(12-14)
Il sonetto dedicato a Don Zeno, anziché lodare l’ umilità nel riferirsi al
personaggio, sottolinea benevolmente come quest’ultima lo ha fatto eccedere nella
lode dell’amico aldilà di ogni ragionevolezza e pertanto come si tratti di un
atteggiamento dimesso che corrisponde agli esempi che propone CruscaIV. Tra
questi ho considerato due casi. Il più affine, a mio avviso, è tratto dallo Specchio
di vera penitenza del Passavanti: La vera umiltà è, che l'uomo si stimi essere
nulla.
Sulla medesima linea si colloca anche quello tratto da Esposizione del Pater
Noster di Luigi d’Orléans: umiltà è quella virtù, che fa l'uomo se medesimo
spregiare, e tenere a vile. Don Zeno per eccesso di umiltà sopravvaluta l’amico
con lodi, perché nei suoi riguardi ha “core troppo amoroso” (v.13).
Rimane la componente virtuosa lungamente descritta nel precedente sonetto, ma
un tono altisonante pare precipitare di nuovo al valore originario. Si tratta sempre
di un atteggiamento virtuoso, ma in fondo alla terzina trapela un lieve rimprovero
sull’eccesso di umiltà: “obbriò voi in me laudar ragione” (v.14).
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CAPITOLO III
GUIDO GUINIZZELLI
Madonna il fino amor ch’eo ve porto è una canzone di otto stanze legate in coblas
capfinidas (almeno fino alla quinta se si ammette il rapporto amore-amare) con il
seguente schema metrico: Abc Abc DdEeFF, con congedo identico alla sirma. La
prima stanza della canzone si rivolge direttamente alla donna amata: l’io lirico
afferma che il “fino amor” (epressione tecnica occitanica per indicare l’amore
perfetto) che egli porta nei suoi riguardi, gli reca “gioia ed alegranza“ quando
considera che ella lo ricambia con “ intendanza”, cioè affetto, passione.
Egli dichiara anche di non poter trovare soddisfazione in altro, poichè egli è
“distrettamente innamorato” della donna alla quale si rivolge, soggiunge inoltre
che l’amore offre letizia anche quando lo tormenta:
Madonna, il fino amor ch’ eo ve portomi dona sì gran gioia ed allegranza(ch'aver mi par d'Amore)che d'ogni parte m'aduce conforto,quando mi membra di voi la 'ntendanza,a farmi di valore,a ciò che la natura mia me minaad esser di voi, fina,così distrettamente innamoratoche mai in altro latoAmor non mi pò dar fin piagimento:anzi d'aver m'allegra ogni tormento. (1-12)
Nella seconda stanza l'io lirico afferma che gli pare un inganno accettare il
pensiero secondo il quale essere innamorati porti soltanto letizia, anche quando
non si raggiunge il massimo godimento. Amore piuttosto, è causa di morte
quando infiamma l'uomo del suo fuoco. Ed egli stesso si considera in serio
pericolo, poiché ha sentito dire che ció che è piacevole del legame amoroso, in
realtá è un inganno che conduce l'innamorato ad essere danneggiato:
Dar allegranza amorosa naturasenz'esser l'omo a dover gioi compire,inganno mi simiglia:
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ch'Amor, quand'è di propia ventura,di sua natura adopera il morire,così gran foco piglia;ed eo, che son di tale amor sorpriso,tegnom'a grave misoe non so che natura dé compire,se non ch'audit'ho direche 'n quello amare è periglioso ingannoche l'omo a far diletta e porta danno. (13-24)
Nella terza stanza porta la discussione su un piano del tutto personale. L'io lirico
si vede costretto a prendere a esempio la propria condizione definendo poco
nobile quello che sta per rivelare, per poi affermare di non voler parlare male della
donna amata, che é tenuto a lodare in tutti i modi possibili, poiché se ne biasima la
condotta corre il rischio di perderne la benevolenza. Nella restante parte della
stanza ha luogo una breve discussione, nei termini del lessico giudiziario:
'' proclamare e mettere al bando'' colui che denuncia giustamente, danneggiato da
chi in realtá dovrebbe proteggerlo, ne perde totalmente la tutela. In chiusura si
trova un invito a un generico colui, che potrebbe trovarsi nella sua stessa
condizione, a resistere se puó:
Sottil voglia vi poteria mostrarecome di voi m'ha priso amore amaro,ma ciò dire non voglio,ché 'n tutte guise vi deggio laudare:per ch'e' più dispietosa vo'n declarose blasmovo'n detoglio. Fiemi forse men danno a sofferire,ch'Amor pur fa bandireche tutta scanoscenza sia in bando,e che ritrae 'l comandoa l'acusanza di cului c'ha 'l male:ma voi non blasmeria; istia, se vale. (25-36)
Nella quarta stanza si rivolge alla donna amata, affermando che solo da lei ottiene il suo
valore e lo mantiene e questo avviene in sua presenza soltanto, in caso contrario egli
perde il proprio vigore. Come le cose lasciano il proprio creatore per accostarsi a ció che
é loro piú consono, ecco che le virtú dell'io lirico si rivolgono tutte nell'amata, senza
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eccezione, come i buoni che pur di non abbandonarsi alla solitudine preferiscono una
compagnia numerosa, se proprio non li si pone accanto ai malvagi.
Madonna, da voi tegno ed ho 'l valore;questo m'avene, stando voi presente,che perd'ognivertute:ché le cose propinque al lor fattoresi parten volentero e tostamenteper gire u' son nascute;da me fanno partut'evène 'n voi,là u' son tutte e plui;e ciò vedemo fare a ciascheduno,ch'el si mette 'n comunopiù volenteri tra li assai e boni,che non stan sol', se 'n ria parte no i poni. (37-48)
Nella quinta stanza compare una serie di similitudini con il mondo naturale, similitudini
che riprendono parte della discussione iniziata nella stanza precedente sulla virtú e il
valore: così come i monti di tramontana consentono all’aria di trarre il ferro fungendo da
calamita, la donna allo stesso modo ha il potere di avvincere l’io lirico come l’aria fa con
il ferro (“drizzare l'ago verso la stella” v.55):
In quella parte sotto tramontanasono li monti de la calamita,che dàn vertud' all'airedi trar lo ferro; ma perch'è lontana,vòle di simil petra aver aitaper farl'adoperare,che si dirizzi l'ago ver' la stella.Ma voi pur séte quellache possedete i monti del valore,unde si spande amore;e già per lontananza non è vano,ché senz'aita adopera lontano. (49-60)
Nella sesta stanza l'io lirico si rivolge a Dio, egli non sa cosa fare né tantomeno in
che modo comportarsi, poiché in qualsiasi modo egli parli all’amata, ella non pare
intenderlo, né mostrarsi ben disposta nei suoi riguardi. Per queste ragioni egli non
ardisce di chiederle umilemente grazia. Egli si trova in totale balía di Amore, ed
ogni parola che viene da lui articolata a questo proposito fallisce:
Ahi Deo, non so ch'e' faccia ni 'n qual guisa,
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ché ciascun giorno canto a l'avenente,e 'ntenderme non pare:ché 'n lei non trovo alcuna bona entisaund'ardisc'a mandare umilemente a lei merzé chiamare;e saccio ch'ogni saggio e' porto finod'Amor che m'ha 'n dimino,ch'ogni parola che a ciò fòri portopare uno corpo mortoferuto a la sconfitta del meo core,che fugge la battaglia u' vince Amore.(61-72)
Nella settima stanza torna a rivolgersi alla donna, egli dichiara che da ogni cosa detta da
lui trapeli una sconfinata sinceritá, tuttavia per quanto egli abbia faticato nel suo agire,
nemmeno Amore ha efficacia su di lei.
Madonna, le parole ch'eo vo dicomostrano che 'n me sia dismisurad'ogni forfalsitade;né 'n voi trova merzé ciò che fatico,né par ch'Amor possa per me dritturasor vostra potestade;né posso onqua sentire unde m'avene,se non ch'e' penso benech'Amor non pori' avere in voi amanza;e credolo 'n certanza,ch'elo vo dica: “Te·llo innamorato,ch'a la fine poi mora disamato”. (73-84)
Nel congedo l’io lirico afferma di lasciare il canto, ma non l’amore, poiché ora
che egli ha espresso tutto quanto doveva esprimere a riguardo dell’amata e del
sentimento amoroso , sta alla saggezza dell’amata farsi carico di corrispondere i
suoi sentimenti. L’io lirico è difatti convinto di aver fatto molto nei riguardi
dell’amata e auspica che se ‘’ampia è la ricompensa, molto è il guadagno’’
D'ora 'n avanti parto lo cantareda me, ma non l'amare,e stia ormai in vostra canoscenzalo don di benvoglienza,ch'i' credo aver per voi tanto 'narrato:se ben si paga, molto è l'acquistato. (85-90)
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Mi soffermo sulla sesta stanza per la ricorrenza di umilemente: è curioso, che
questa occorrenza si trova in una stanza che inizia con un’apostrofe a Dio e si
conclude con un’immagine di disfacimento (l’area semantica rimanda a un
contesto militare) le parole sconfitte e il cuore che muore. Il suo valore semantico
corrisponde alla definizione generica di CruscaIV: “Con umiltà.” (Lat. humiliter,
demisse).
Trovo oltremodo interessante però l’esempio tratto dalla Cronica del Villani: Se
per tanto voi riconoscerete umilemente, che per li vostri peccati voi incorreste
nelli predetti danni.
La posizione dell’io lirico è determinata dal rifiuto dell’intesa da parte della donna
amata e dall’essere soggetto all’influsso di Amore che lo tormenta, questo genera
un senso di impotenza totale che si richiama a quanto detto nelle prime stanze
della canzone cioè: “che 'n quello amare è periglioso inganno / che l'omo a far
diletta e porta danno” (vv.23-24).
Consapevole dell’impossibilità di convincere l’amata, l’io lirico non tenta
nemmeno di rivolgersi a lei per una richiesta di grazia, ormai ha subito da Amore
una sconfitta che ha costretto il suo cuore a ritirarsi dalla battaglia.
Effettuando un confronto diretto con l’esempio citato (Giovanni Villani, Cronica)
il peccato dell’io lirico sarebbe stato quello di non tentare una richiesta di grazia,
ma continua ad abbandonarsi al sentimento amoroso senza essere certo di una
sicura soluzione. Tuttavia, il congedo è chiaro, pur avendo subito danno egli è
convinto, attraverso il canto e la celebrazione dell’amata, di essersi aperto un
ragguardevole spiraglio verso il raggiungimento del suo obiettivo. Le certezze alle
quali fa riferimento l’io lirico in tutta la canzone sono significative e sono rivolte a
tutti quegli aspetti del mondo naturale che sono rappresentativi della sua
condizione al cospetto della donna amata.
E quindi tornata a rivelarsi nel finale della canzone, quanto era giò stato affermato
all’inizio: l’Amore è fonte di gioia anche se agli sforzi dell’amante non risponde
un compenso da parte dell’amata.
Umilemente rimarca dunque il suo ruolo fondamentale all’interno della
fenomenologia amorosa, accompagnando una richiesta in sospeso da parte dell’io
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lirico che non viene effettuata, ma rimane rispettosa della disparità esistente tra
l’amante e l’amata.
33
CAPITOLO IV
GUIDO CAVALCANTI
Chi è questa che ven ch’ogn’om la mira è un sonetto (schema metrico: ABBA
ABBA CDE ECD) di apertura che inaugura una serie di altri componimenti in
lode della donna. L’esordio annovera tra le sue fonti un’espressione del Cantico
dei Cantici, 6, 9 “Quae est ista qui progreditur”, un passo di Isaia, 63, 1 “Quis est
iste, qui venit?” e altri passi affini.
La prima quartina si focalizza sull’immagine della donna rappresentata nell’atto di
incedere verso chi la osserva, mentre avanza è circondata da un’aura di splendore
ed è accompagnata da Amore. Questa situazione impedisce ai presenti di parlare,
poichè tutti sono assorti nella contemplazione della donna che avanza lasciando
dietro di sè il silenzio e i sospiri di chi la vede:
Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,che fa tremar di chiaritate l’âree mena seco Amor, sì che parlarenull omo pote, ma ciascun sospira? (1-4)
La seconda quartina si apre con un’esclamazione rivolta a Dio, seguita da una
esortazione ad Amore, affinché esprima a parole ciò che non è in grado di dire. La
donna menzionata è detentrice di virtù e benevolenza “cotanto d’umiltà donna mi
pare”, al punto che ogni altra, a lei paragonata, appare all’io lirico indegna di
confronto:
O Deo, che sembra quando li occhi gira,dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare:cotanto d’umiltà donna mi pare,ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ ira.(5-8)
La terzina ritorna sul tema dell’ineffabilità: non sarebbe possibile spiegare tanta
grazia. Il valore della donna è tale da far sì che ogni nobile virtù si inchini al suo
cospetto e la bellezza la mostri come sua dea:
Non si poria contar la sua piagenza,
34
ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute,e la beltate per sua dea la mostra.(9-11)
L’ultima terzina amplifica il motivo dell’ineffabilità. L’io lirico afferma che non
ci furono concesse sufficienti qualità e virtù da permetterci di ottenere una
conoscenza perfetta; si riferisce all’incapacità di definire i contorni della grazia,
dell’unicità della figura della donna:
Non fu sì alta già la mente nostrae non si pose ’n noi tanta salute,che propiamente n’aviàn conoscenza.(12-14)
Ricordo che si tratta di un sonetto di lode e la ricorrenza di stilemi che rimandano
al silenzio, ai sospiri, alla mancanza di un’adeguata espressione verbale sono tratti
che lo accumunano ad una canzone, Io non pensava, dove la superiorità della
donna è amplificata: ella è ineffabile, inconoscibile e naturalmente portatrice di
ogni virtù.
Tuttavia nella canzone, come in questo sonetto sono taciuti gli estremi negativi
che l’eccesso di valore della donna produce nell’io lirico.
Il componimento condivide con Io voglio del ver la mia donna laudare del
Guinizzelli diversi tratti. Tale comunanza di aspetti è segnalata (come già
osservato dal Contini) dalle rime che sono due: una in –are nella quartina e una in
–ute nella terzina, inoltre sono presenti ben quattro parole in rima, una per
ciascuna quartina o terzina (are, pare, vertute, salute).
Il Contini parla di “concorrenza nella loda”, infatti l’analogia con gli elementi
naturali che per il Guinizzelli erano sufficienti ad esprimere gli aspetti più alti
della donna, per il Cavalcanti non è sufficiente, come non lo è alcun processo
conoscitivo che escluda la rivelazione.
Gli esempi riportati da CruscaI e CruscaIV si orientano verso la definizione di
umiltà maggiormente diffusa (humilitas), come in un passo tratto da Specchio di
vera penitenza del Passavanti: “La vera umiltà è, che l'uomo si stimi essere
nulla.”
Un’analisi attenta del testo cavalcantiano mette in risalto tutt’altro.
35
Trattandosi di una qualità positiva della donna amata l’insistenza nella lode non
potrebbe puntare su una scelta semantica che implica abbassamento, ma deve
necessariamente esaltare la figura della donna amata come dispensatrice di bene, e
portatrice di virtù.
Inoltrandoci quindi nella stagione stilnovista, prendiamo distanza da quello che
era il valore della parola umiltà nei testi delle origini: lì difatti c’era una
corrispondenza quasi univoca tra la parola e il suo significato. Il Cavalcanti,
contrariamente all’uso cortese, utilizza in tutti i suoi componimenti, l’aggettivo o
il sostantivo (in relazione alla donna) con una ” rigenerata semantica
scritturale”10.
Egli inserisce nel sonetto il termine ben noto, la cui veste esterna suggerisce ad
una primissima lettura la consueta direzione virtuosa, l’attributo positivo della
donna, ma il valore semantico ha una sostanza del tutto diversa: ci indica
disposizione a fare del bene attribuibile in maniera perfetta soltanto a quella
donna in particolare. Nella lirica prestilnovista il campo semantico dell’ umiltà è
attribuito all’amante che si presenta nell’atto di servire e alla donna amata come
indicatore di benevolenza.
Pegli occhi fere uno spirito sottile è un sonetto con il seguente schema metrico:
ABBA ABBA CDE CDE; si tratta di un componimento dove il filone per così
dire spiritistico è portato all’estremo, “un vero delirio di spiriti irrequieti e
tripudianti.” 11
Nel testo il termine “spirito” ricorre in svariate forme per ben quindici volte,
inoltre il lessico è ossessivamente stilnovistico: sottile, v. 1; mente, v.2; gentile,
v.4; vertù, v.6; umìle, v.8. A parodiare questa inclinazione stilnovista è Onesto da
Bologna, il quale esordisce in un sonetto rivolto a Cino da Pistoia con: Mente ed
umile e più di mille porte piene di spirti (vv.1-2). Pegli occhi ne è probabilmente
una risposta indiretta. Il Contini definisce questo componimento “un’elegante
10 Roberto Rea, Cavalcanti poeta, cit., pag. 43511Poesia cortese toscana e settentrionale in Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1976, pag.530.
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autoparodia della nozione di spirito”, lasciando intendere con questa affermazione
che il contenuto del sonetto è fortemente ironico.
La prima quartina evoca il contatto tra il mondo esteriore e il mondo interiore che
avviene attraverso gli occhi: questi ultimi sono colpiti da uno spirito sottile cioè
penetrante, esso desta nella mente uno spirito che a sua volta desta lo spirito
d’Amore, che a sua volta nobilita tutti gli altri spiritelli presenti nell’organismo.
Il fatto che lo spirito si desti, è presente in altre liriche del Cavalcanti (Voi che per
li occhi mi passaste il core) ed è un fenomeno che attesta l’intrusione di un agente
esterno. E il verso “dal qual si move lo spirito d’amare” descrive l’influenza di
uno spirito su un altro in un rapporto di causa-effetto. La nascita dell’amore
avverrebbe al terzo passaggio, momento in cui tutti gli spiriti subiscono l’influsso
nobilitante di Amore.
Pegli occhi fere un spirito sottile,che fa ’n la mente spirito destare,dal qual si move spirito d’amare,ch’ogn’altro spiritello fa gentile. (1-4)
La seconda quartina afferma che chi ha animo vile non può sentire lo spirito
d’amore irrompere, poiché questo spirito è così forte e potente da far tremare e
rendere bendisposta e umile la donna che lo percepisce. Qui viene effettuata una
contrapposizione tra “gentil valor” e “spiriti vili” e il riferimento al “tremare”,
presente come abbiamo visto anche in un altro sonetto del Cavalcanti “Chi è
questa che ven ch’ognom la mira / che fa tremar di chiaritate l’aere” ed è un
termine rilevante della poesia cavalcantiana.
Il riferimento alla donna, umile a seguito dell’influsso dello spirito di Amore,
finirebbe con il rappresentare la cura al malessere dell’io lirico, il quale non
dovendo più soffrire per la mancata corresponsione, smetterebbe al tempo stesso
di provare timore:
Sentir non pò di lu’ spirito vile,di cotanta vertù spirito appare:quest’ è lo spiritel che fa tremare,lo spiritel che fa la donna umìle. (5-8)
37
Nelle restanti due terzine si conclude il processo che era partito dalla vista e che
alla vista fa ritorno con circolarità, scatenando però un movimento di altri spiriti,
incluso quello della “mercede”. Quest’ultimo infatti si ricollegherebbe a quanto
detto nel verso della quartina precedente su Amore e la donna resa umile dal suo
influsso.
Inoltre il termine “piovere” è posto nella poesia cavalcantiana in relazione ad
eventi interiori, quando l’io lirico afferma che lo spirito della vista possiede la
“chiave” afferma sostanzialmente che questo domina su tutti gli altri spiriti.
E poi da questo spirito si moveun altro dolce spirito soave,che siegue un spiritello di mercede: (9-11)
lo quale spiritel spiriti piove,ché di ciascuno spirit’ ha la chiave,per forza d’uno spirito che ’l vede. (12-14)
Dopo aver esaminato attentamente definizioni ed esempi di CruscaIV intendo
ricondurmi a quanto detto nell’analisi del componimento precedente.
Trattandosi di un riferimento esplicito nei confronti della donna e alla luce di un
lavoro di “rigenerazione della semantica strutturale” operata dal Cavalcanti, non è
più possibile attribuire al termine umile il valore semantico: “Che ha umiltà,
modesto, dimesso, contrario di superbo.”
Lo spirito d’amore non assoggetta la donna sottomettendola, bensì la rende
benevola nei confronti dell’io lirico, il quale non è più costretto ad averne timore
o a subirne la freddezza. Inoltre il processo descritto nel componimento è
esclusivamente interiore, ragion per la quale a mio avviso Cavalcanti avrebbe
insistito nell’attribuire alla parola un significato differente da quello che ci si
sarebbe potuti attendere. Lo spiritello che appare nella quartina attiva un processo
di trasferimento di virtù, che culmina nell’umile che interessa direttamente la
donna amata. Il “delirio degli spiriti” di questo sonetto e l’allusione al controllo
che su questi ha lo spirito di Amore, induce a credere, a parer mio, che la donna
sia partecipe e componente attiva del processo amoroso e che quindi non sarebbe
Amore a controllarla, ma lei stessa ad assoggettare l’io lirico con
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quell’atteggiamento di accoglienza e benevolenza che la contraddistingue rispetto
alle donne della lirica cortese.
Era in penser d’Amor quand’i trovai è una ballata che rievoca l’esperienza di
Tolosa e si concentra sui ritratti femminili; il componimento offre insieme la
tensione rappresentativa e i ricordi struggenti e delicati che si realizzano nel
componimento in veri e propri colloqui con persone vive. La ripresa illustra un io
lirico meditante e la comparsa immediata di due contadinelle “foresette”, una
delle due descritta nell’atto del canto: quest’ultimo, lo rivela il discorso diretto, ha
tematica amorosa.
Era in penser d'amor quand' i' trovaidue foresette nove.L'una cantava: -E' piovegioco d'amore in noi .- (1-4)
La vista delle donne scatena le prime impressioni, prima su una di loro in
particolare poi l'io lirico si rivolge ad entrambe, rivelando loro di essere un uomo
sfortunato, poiché ha subito in Tolosa una grave sconfitta d’amore e per questo
supplica le contadine di non sdegnarlo e quindi, di non rifuggire la sua
compagnia:
Era la vista lor tanto soavee tanto queta, cortese e umìle,ch'i' dissi lor: - Vo', portate la chiavedi ciascuna vertù alta e gentile.Deh, foresette, no m'abbiate a vileper lo colpo ch'io porto;questo cor mi fue mortopoi che 'n Tolosa fui.- (5-12)
Le donne si volgono verso di lui e ricorre di nuovo il rapporto vista-spiriti
analizzato nel sonetto Pegli occhi fere uno spirito sottile: notano immediatamente
come dal cuore ferito dell’io lirico esca uno spiritello affranto. Una delle due
contadine esclama che la forza d’Amore ha abbattuto l’uomo che entrambe
vedono affranto:
Elle con gli occhi lor si volser tanto
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che vider come 'l cor era feritoe come un spiritel nato di piantoera per mezzo de lo colpo uscito.Poi che mi vider così sbigottito,disse l'una, che rise:- Guarda come conquiseforza d'amor costui! – (13-20)
L’altra donna definita “pietosa”, trasformata in quell’istante dalla gioia amorosa,
nel fedele ritratto di Amore, rievoca ancora, nel discorso diretto, la teoria
dell’innamoramento che avviene attraverso lo sguardo. Ella rivela di non riuscire
a guardare (per l’intensità) il bagliore lasciato dagli occhi che hanno causato il
colpo al cuore dell’io lirico, ma comunque domanda se egli si possa in qualche
modo ricordarli:
L'altra, pietosa, piena di mercede,fatta di gioco in figura d'amore,disse: - ‘L tuo colpo, che nel cor si vede,fu tratto d'occhi di troppo valore,che dentro vi lasciaro uno splendorech'i' nol posso mirare.Dimmi se ricordaredi quegli occhi ti puoi -. (21-28)
Egli ricostruisce, seppur con riluttanza il processo che lo ha condotto, in Tolosa,
ad innamorarsi di una donna che chiama “Mandetta”; ancora subisce le dolorose
conseguenze di una ferita amorosa che pare trascinarlo “fin dentro a la morte”:
Alla dura questione e paurosala qual mi fece questa foresetta,i' dissi: - E' mi ricorda che 'n Tolosadonna m'apparve, accordellata istretta,Amor la qual chiamava la Mandetta;giunse sì presta e forte,che fin dentro, a la morte,mi colpir gli occhi suoi -. (29-36)
Ora è l’altra contadina a farsi avanti; nonostante poco prima avesse riso di lui ora
parla “molto cortesemente” ed evidenzia come la sofferenza che si coglie dal suo
viso gli sia stata imposta “per forza d’amor” attraverso lo sguardo. Tuttavia se
dovesse essere troppo greve per lui soffrire a causa di questo egli deve
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raccomandarsi ad Amore, origine e causa dei suoi patimenti:
Molto cortesemente mi rispuosequella che di me prima avea riso.Disse: - La donna che nel cor ti poseco la forza d'amor tutto 'l su' viso,dentro per li occhi ti mirò sì fiso,ch'Amor fece apparire.Se t'è greve 'l soffrire,raccomàndati a lui -. (37-44)
Il congedo infine si rivolge alla ballata con l’intento di farla portavoce delle parole
dell’io lirico presso la donna amata.
Vanne a Tolosa, ballatetta mia,ed entra quetamente a la Dorata,ed ivi chiama che per cortesiad'alcuna bella donna sie menatadinanzi a quella di cui t'ho pregata;e s'ella ti riceve,dille con voce leve:- Per merzé vegno a voi – (45-52)
In questo componimento ricorrono una serie di aggettivi positivi inerenti alle
“foresette” nelle quali l’io lirico si imbatte (soave, queta, cortese, umile vv.5-6;
pietosa, piena di mercede v.21).
Una delle due “foresette” è rappresentata in un primo momento in maniera
contraddittoria: pare quasi deridere l’io lirico nella sua condizione di sconfitto da
Amore; tuttavia verso la fine della canzone quest’ultima assume un atteggiamento
simile a quello della compagna, quando constata dal bagliore negli occhi dell’io
lirico, il pesante danno che ha ricevuto dalla donna amata.
A sottolineare il cambiamento della seconda “foresetta”, è chiamato un avverbio
di modo che rimanda all’aggettivo utilizzato per l’altra donna nella prima stanza
(“Molto cortesemente mi rispuose / quella che di me prima avea riso” , vv.37-38).
Tutta questa serie di aggettivi e avverbi riferiti alle figure femminili, crea
un’opposizione rispetto all’immagine della “Mandetta”, molto forte, ma negativa
(“che fin dentro, a la morte / mi colpir gli occhi suoi”, vv.35-36).
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Il dialogo con le “foresette” consente all’io lirico di introdurre la discussione sulla
materia amorosa, una simile situazione si delinea anche nella Vita Nova, nei
capitoli XVII-XIX.
Trovo che l’aggettivazione riprenda una serie di stilemi ricorrenti anche nella
letteratura precedente, riversando però sulle figure femminili: trasferire l’aggettivo
umile su una donna, anche se si tratta di una donna di bassa estrazione sociale, la
rende degna partecipe di materia amorosa. Umile è riferito alla donna, non vale
come una considerazione circa l’atteggiamento o la condizione sociale di
appartenenza, come peraltro GDLI propone tra le sue definizioni del termine:
“Che è di bassa estrazione sociale; Modesto, semplice; Che rivela una modesta
condizione sociale; Che ha un aspetto dimesso, povero, trasandato.”
GDLI propone inoltre una definizione di umile inerente allo stile: “Caratterizzato
da toni dimessi, dall’impiego di parole semplici di uso comune; poco elevato
(un linguaggio, uno stile letterario).”
Credo quindi che la definizione di CruscaI e CruscaIV cioè “Che ha umiltà,
modesto, dimesso, contrario di superbo” con i relativi esempi, non sia adatta a
questo contesto.
Se volessimo intendere come umile il tono dimesso delle due foresette nei
riguardi dell’io lirico, lo potremmo fare, ma non rispetto al contenuto di quanto è
espresso da loro stesse nei discorsi diretti, che non considero affatto umile e
comprensibile a chiunque: “La donna che nel cor ti pose / co la forza d'amor tutto
'l su' viso, / dentro per li occhi ti mirò sì fiso, / ch'Amor fece apparire. / Se t'è
greve 'l soffrire, raccomàndati a lui” (vv. 39-44)
Mi rimane un’ultima considerazione: in quanto legato alla donna, l'aggettivo
significa indulgente, capace di provare pietà. Questo aspetto spiegherebbe
dunque il comportamento delle “foresette”, che si fermano a rivolgere la propria
attenzione all’io lirico sofferente.
S’io prego questa donna che Pietate è un sonetto costituito da due quartine e due
terzine con il seguente schema rimico : ABBA ABBA CDE CDE.
La situazione raffigurata qui è simile per certi aspetti ai testi siciliani che ho
trattato in precedenza, in particolare a due componiment del Notaro Ben m’è
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venuto prima cordoglienza e Meravigliosamente. Entrambi similmente rigettano
un’accusa ingiusta: “tu dì ch’io sono sconoscente e vile / e disperato e pien di
vanitate.”
S' io prego questa donna che Pietatenon sia nemica del su' cor gentile,tu di' ch'i' sono sconoscente e vilee disperato e pien di vanitate. (1-4)
Non è chiaro a chi l’io lirico si rivolga: non è il “tu” che compare al v.3 a riferirsi
alla donna. La risposta all’interrogativa si apre con “già risomigli” (v.6), spia
dell’erronea convinzione di chi considera saggia e colma di qualità positive la
figura che lo respinge.
onde ti vien sì nova crudeltate?Già risomigli, a chi ti vede, umìle,saggia e adorna e accorta e sottilee fatta a modo di soavitate! (5-8)
Nelle restanti due terzine l’io lirico compie una riflessione sulla propria dolorosa
condizione, affermando che i sospiri che emette escono dal cuore bagnati di
pianto; questa visione è accompagnata da quella di una donna che “pensosa”,
pare giungere a lui solo per vederne il cuore consumarsi lentamente nell’agonia
amorosa.
L'anima mia dolente e paurosapiange ne li sospir' che nel cor trova,sì che bagnati di pianti escon fòre. (9-11)
Allora par che ne la mente piovauna figura di donna pensosache vegna per veder morir lo core (12-14)
Contrariamente ai componimenti precedenti, dove la lode della donna era tema
centrale della discussione amorosa, in questo sonetto misterioso pare ne sia
sottolineata la crudeltà. Il comportamento di lei causa smarrimento nell’io lirico
che domanda: “onde ti vien sì nova crudeltate?”(v.5).
L’accusa è di mancare di pietà nei riguardi dell’io lirico. Umile indica, come è
consuetudine cavalcantiana in caso di riferimento a soggetti femminili,
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bendisposta, benevola, ma in questo caso il tono lascia trapelare un lieve
disappunto: e questo aspetto non è da escludere in relazione ai vv. 3-4 della prima
quartina: “tu di' ch'i' sono sconoscente e vile / e disperato e pien di vanitate.” Egli
pare ricondursi su una linea che già era stata del Notaro: consapevole di essersi
attenuto ad ogni regola che i dettami amorosi prescrivono, non giustifica tuttavia
la mancanza di pietà nei propri riguardi anzi la critica.
Io non pensava che lo cor giammai è una canzone con schema ABBC BAAC
DeD FeF ripartite rispettivamente in piedi e volte. In questa canzone viene
abbandonata la fantasia visiva di taluni componimenti precedenti, per cedere il
passo ad una dimensione ragionante.
La riflessione inizia dalla condizione di sofferenza dell’io lirico, afflitto
nell’animo al punto che dal suo sguardo traspare un dolore paragonabile alla
morte.
Egli giustifica immediatamente questa mancanza di quiete, attraverso le parole di
Amore che in presenza della donna avvia la finzione della battaglia.
La sua virtù è fuggita, vinta dal valore della donna: nel corso della “battaglia” ella
avrebbe indotto alla fuga (solo attraverso lo sguardo) tutti gli spiriti risiedenti
nell’io.
Io non pensava che lo cor giammaiavesse di sospir’ tormento tanto,che dell’anima mia nascesse piantomostrando per lo viso agli occhi morte.Non sentìo pace né riposo alquantoposcia ch’Amore e madonna trovai,lo qual mi disse: «Tu non camperai,ché troppo è lo valor di costei forte».La mia virtù si partìo sconsolatapoi che lassò lo corea la battaglia ove madonna è stata: la qual degli occhi suoi venne a ferirein tal guisa, ch’Amoreruppe tutti miei spiriti a fuggire. (1-14)
Nella stanza successiva riprende la riflessione sulla donna, adorna di qualità e
bellezze al punto da creare disorientamento nell’intelletto. Lo splendore dello
sguardo caratterizza principalmente la donna. Chiunque incontri l’uomo sofferente
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osserva che rappresenta la Pietà nel suo aspetto contrito; eppure - dice l'io lirico -
non è ancora oggetto della grazia della donna amata:
Di questa donna non si può contare:ché di tante bellezze adorna vène,che mente di qua giù no la sostenesì che la veggia lo ’ntelletto nostro.Tant’ è gentil che, quand’ eo penso bene,l’anima sento per lo cor tremare,sì come quella che non pò duraredavanti al gran valor ch’è in lei dimostro.Per gli occhi fere la sua claritate,sì che quale mi vededice: «Non guardi tu questa pietatech’è posta invece di persona mortaper dimandar merzede?»E non si n’è madonna ancor accorta!(15-28)
Sorge in questa stanza il motivo dell’ineffabilità dell’amore, l’io lirico difatti non
si sa esprimere poiché è debole, prostrato e incapace.
Lo sbigottimento alla vista di lei che viene è accompagnato dalle parole di Amore
che dice all’ io lirico “Io ti tolgo ogni speranza”.
Eppure non solo il cuore dell’amante è stato trafitto dallo sguardo della donna, ma
anche Amore ha subito una ferita. L’accenno di quest’ultimo a “ciò ch’ io ti dissi”
in questa stanza, si ricollega al discorso di Amore nel sonetto Tu m’hai sì piena di
dolor la mente:
Quando ’l pensier mi vèn ch’i’ voglia direa gentil core de la sua vertute,i’ trovo me di sì poca salute,ch’i’ non ardisco di star nel pensero.Amor, c’ha le bellezze sue vedute,mi sbigottisce sì, che sofferirenon può lo cor sentendola venire,ché sospirando dice: «Io ti dispero,però che trasse del su’ dolce risouna saetta aguta,c’ha passato ’l tuo core e ’l mio diviso,Tu sai, quando venisti, ch’io ti dissi,poi che l’avéi veduta,per forza convenia che tu morissi». (29-42)
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L’ultima stanza si rivolge direttamente alla canzone, essa deve farsi portavoce non
solo dell’io lirico, ma anche degli spiriti fuggiti dal suo cuore e dispersi; il
compito della canzone è di radunarli e condurli presso la donna amata,
dichiarando la loro appartenenza all’uomo “che si more sbigottitamente”.
Canzon, tu sai che de’ libri d’Amoreio t’asemplai quando madonna vidi:ora ti piaccia ch’io di te mi fidie vadi ’n guis’ a lei, ch’ella t’ascolti;e prego umilemente a lei tu guidili spiriti fuggiti del mio core,che per soverchio de lo su’ valoreeran distrutti, se non fosser vòlti,e vanno soli, senza compagnia,e son pien’ di paura.Però li mena per fidata viae poi le di’, quando le se’ presente:«Questi sono in figurad’un che si more sbigottitamente». (43-56)
In questa canzone il valore di umilemente si differenzia dagli altri contesti: non è
più riferito alla donna, bensì alla canzone e agli spiriti. Non essendo in grado di
esprimere direttamente il sentimento amoroso, l’io lirico ne affida il compito alla
canzone, alla quale inoltre è richiesto di supplicare l’amata affinchè raduni gli
spiriti in rotta, smarriti dopo la sconfitta in battaglia contro Amore. Gli “spiriti” si
trovano in una condizione di smarrimento del tutto analoga a quella dell’io lirico,
è quindi plausibile che il loro rimettersi alla donna amata per ritrovare la propria
naturale sede nel corpo, avvenga con un atto di riconoscimento della sua autorità e
del suo valore di guida.
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CAPITOLO V
DANTE ALIGHIERI
Savere e cortesia, ingegno ed arte è un sonetto di risposta (schema metrico:
ABBA ABBA CDE EDC), nel quale Dante sottoscrive il punto di vista del
mittente, cioè che nulla si possa fare contro l’Amore e l’unica soluzione possibile
sia quella di assecondarlo (questo punto di vista è condiviso anche da Cino da
Pistoia in Io sono stato con Amore insieme).
Il componimento ha inizio con l’enumerazione di una serie di virtù, si tratta di
quattro coppie di sostantivi, ingegno ed arte si trovano spesso uniti nella
letteratura antica, mentre fortezza e umiltate che dovrebbero essere contrastanti, in
realtà rappresentano la virtù cardinale e la virtù cortese prescritta anche
all’amante.
Savere e cortesia, ingegno ed arte,nobilitate, bellezza e riccore,fortezza e umiltate e largo core,prodezza ed eccellenza, giunte e sparte,(1-4)
Sia i doni innati che quelli acquisiti attraverso l’ingegno non sono nemici di
Amore: vincendolo lo rendono mansueto e benigno. Alcune di queste grazie
hanno maggior valore rispetto alle altre, ma tutte hanno parte in Amore.
este grazie e vertuti in onne partecon lo piacer di lor vincono Amore:una più ch’altra ben ha più valoreinverso lui, ma ciascuna n’ha parte.(5-8)
La prima terzina rivolgendosi al mittente del componimento al quale l’io lirico
risponde, conclude quanto già affermato nella quartina: ogni virtù va adoperata
“in piacer d’Amore”.
Onde se voli, amico, che ti vagliavertute naturale od accidente,
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con lealtà in piacer d’Amor l’adovra,(9-11)
La terzina che chiude il sonetto riprende un tòpos ricorrente: non contrastare la
natura di Amore, poiché nulla ha effettivamente la forza di opporvisi.
e non a contastar sua graziosa ovra;ché nulla cosa gli è incontro possente,volendo prender om con lui battaglia.(12-14)
In questo sonetto umiltate si trova incastonato in una serie di virtù che
partecipano all’Amore, ma al tempo stesso influiscono su di esso in egual misura,
senza che nessuna di esse primeggi al suo cospetto.
Il componimento evoca una sostanziale armonia tra le virtù e Amore, armonia che
non può essere sbilanciata dal volere dell’uomo: l’opposizione, il contrasto nei
confronti del sentimento amoroso è posto in una luce negativa, al contrario, virtù
contrastanti tra loro partecipano dell’influsso di Amore assieme e positivamente.
ED (F. Tateo), rispetto a CruscaIV mostra uno spettro di possibilità più ampio, ma
si tratta di definizioni di valore generale, applicabili anche ad altri testi: “(umilità;
umilitade; umilitate; umiltate). - Virtù che assume un posto centrale nell'etica
di D. fin dall'epoca della Vita Nuova, in cui essa conserva ancora la sua
impronta di origine ‛cortese' (v. UMILE, UMILMENTE, in talune loro
accezioni), ma acquista già una significazione più specificamente spirituale.”
Anche GDLI offre una definizione ampia del termine, con attenzione alla sfera
spirituale: “(Umiltà, umilità, umilitade, umilitate, umiltade, umiltate)
consapevolezza dei propri limiti, mancanza di superbia e presunzione. –Anche:
atteggiamento improntato a modestia, riservatezza, semplicità o sottomissione.
In part. Secondo la dottrina cristiana, la virtù di chi è cosciente della propria
natura di peccatore e della propria debolezza umana.”
Incuriosisce, a mio avviso, la struttura retorica all’interno della quale umiltate è
stata inserita: non si tratta di un ordine casuale, per primi vengono “savere,
cortesia, ingegno, arte, nobilitate, bellezza e riccore”, infine “prodezza e largo
core”, tutti valori legati alla dimensione terrena. Tuttavia, nel verso che segue
compare il trittico: “fortezza, umiltate e largo core”.
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Caratteristiche che accumunano l’amante e il credente: i tre termini che si trovano
al v.3 sono circondati da questa corona di virtù terrene, rispetto alle quali umiltate
si trova inevitabilmente in una posizione centrale.
Come sottolineavo, umiltate non è soltanto una virtù cardinale ascrivibile alla
sfera della morale religiosa, ma è uno degli aspetti che connotano il perfetto
amante, lo rendono degno servo di Amore: non opponendosi ad esso, l’amante
acquista in virtù, subisce un processo di nobilitazione ed elevazione spirituale.
La definizione fornita da ED oltre ad essere la più soddisfacente dal punto di vista
della ricchezza di contenuto è quella che avvalora l’ipotesi di una stratificazione
di valori semantici, avvenuta nel corso del tempo, stratificazione che ha portato da
una considerazione di umiltà come indicatore di bassa condizione o di
atteggiamento sottomesso dell’amante, a una condizione elettiva che coinvolge
anche la sfera spirituale.
Se Lippo amico se’ tu che mi leggi è un sonetto doppio di schema AaBBbA
AaaBBbA CDdC DCcD, si tratta di una personificazione di testo che si rivolge
direttamente al destinatario, forse un musico per consegnargli una “pulcella”, cioè
una stanza destinata ad accompagnamento musicale.
Il componimento si rivolge a Lippo e gli raccomanda, prima di rimettersi alle
parole, di occuparsi di lui, poiché esso si abbandona alla sua volontà, al suo
servizio:
Se Lippo amico se’ tu che mi leggi,davanti che proveggia le parole che dir ti prometto,da parte di colui che mi t’ha scrittoin tua balia mi mettoe recoti salute quali eleggi.(1-6)
Il sonetto reca i saluti, ma al tempo stesso prega di essere ascoltato, l’appellativo
umile non si riferisce probabilmente alla ripartizione degli stili, ma rappresenta
semplicemente una formula di modestia e cortesia. Il componimento si presenta al
cospetto del destinatario e non desidera essere oggetto di indifferenza.
Per tuo onor audir prego mi deggie con l’udir richeggi
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ad ascoltar la mente e lo ’ntelletto:io che m’appello umile sonetto,davanti al tuo cospettovegno, perché al non caler [non] feggi.(7-12)
Esso difatti conduce una fanciulla nuda, che è immagine del componimento che è
nudo, perché privo della parte musicale. La richiesta finale al destinatario è quella
di vestire la “fanciulla nuda”, poiché una volta musicata possa allietare le genti ed
andare dove desidera:
Lo qual ti guido esta pulcella nuda,che ven di dietro a me sì vergognosa,ch’a torno gir non osa,perch’ella non ha vesta in che si chiuda:e priego il gentil cor che ’n te riposache la rivesta e tegnala per druda,sì che sia conosciudae possa andar là ’vunque è disiosa(13-20)
L’uso qui riportato di umile allude presumibilmente all’humilitas indicata da
CruscaIV, l’uso di tale aggettivo indica l’atteggiamento dimesso di chi si trova
nella condizione di perpetuare una richiesta.
Per una ghirlandetta è una ballata con ripresa di tre settenari xyz e stanze di
schema a9b9 a9b9b7y7z7, non con una, ma ben due rime di refrain: il che
rappresenta un caso raro, è un tratto arcaico utilizzato da Dante e va inquadrato in
un contesto di una produzione letteraria per musica; da sottolineare inoltre che le
rime y sono tronche, cosa insolita nella lirica duecentesca.
Per una ghirlandetta è una poesia che non racconta qualcosa, bensì descrive una
visione: l’io lirico vede la donna amata coronata di fiori e un amorino che le
volteggia intorno cantando, si tratta di fatto di un dettaglio diffusissimo
nell’iconografia gotica francese, l’immagine di Amore che distribuisce corone agli
innamorati12.
12 Commento di Claudio Giunta in Dante Alighieri, Opere, edizione diretta da Marco Santagata, Milano, Mondadori, 2011, pag.173
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Nonostante i motivi ricorrenti, non c’è nulla nella produzione duecentesca che sia
paragonabile a questa ballata. Infatti questo componimento non fa pensare alla
tradizione italiana delle ballate, ma a quella delle dansas provenzali.
“Fioretta o Violetta” come osserva il Contini, sarebbe identificabile come una
delle donne dello schermo, oppure c’è chi vi scorge l’immagine della
“pargoletta”13.
L’io lirico afferma che d’ora innanzi la visione d’ogni fiore lo farà sospirare, a
causa della vista di una ghirlanda di fiori:
Per una ghirlandettach’io vidi, mi faràsospirare ogni fiore.(1-3)
Egli dichiara di aver avuto una visione nella quale la donna porta sul capo una
ghirlanda di fiori e sopra il suo capo vola roteando un amorino, con un moto che
ricorda la similitudine della cicogna (Pd XIX vv.91-7), inoltre a questo passo si
avvicina una descrizione di Giovanni del Virgilio: Festa dies fuerat 5-6:
“Ingredior templum varia de gente repletum, intus et exterius pervolitabat Amor”.
I colloqui con Amore o un suo emissario sono frequenti nella lirica antica, ma qui
non compare l’appellativo di spirito. L’ “umile angiolel” è una figura
rappresentativa di Amore. Questi è umile nel senso di benigno. Il puer alatus in
veste di emissario di Amore dice infatti: “Chiunque avrà modo di incontrarmi
loderà il mio signore”.
I’ vidi a voi, donna, portareghirlandetta di fior gentile,e sovr’a lei vidi volareun angiolel d’amore umile;e ’n suo cantar sottiledicea: "Chi mi vedràlauderà ’l mio signore".(4-10)
L’io lirico afferma che se dovesse trovarsi nel medesimo luogo dove lei si trova le
direbbe di portare in testa i suoi sospiri, come sul capo porta la ghirlanda che li ha
13 Ivi, pag.173.
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causati. Tuttavia quando ella sarà coronata da Amore, la passione aumenterà. La
parafrasi di “coronata” d’Amore non è scontata, può significare “incoronata come
regina di Amore” oppure coronata di gloria e quindi detentrice di onori e
privilegi:
Se io sarò là dove siaFioretta mia bella [a sentire],allor dirò la donna miache port’in testa i miei sospire.Ma per crescer disiremia donna verràcoronata da Amore.(11-17)
In conclusione parolette mie è una formula riassuntiva per la stanza di congedo, e
i fiori dei quali si fa menzione si riferiscono al tema e al senhal della donna amata.
Si rinnova l’invito già presente in Se Lippo amico se’ tu che mi leggi a fare onore
al componimento (che ha preso la veste musicale di un altro testo), che verrà
cantato, poiché la materia della quale disquisisce, non è vana:
Le parolette mie novelle,che di fiori fatto han ballata,per leggiadria ci hanno tolt’elleuna vesta ch’altrui fu data:però siate pregata,qual uom la canterà,che li facciate onore.(18-24)
L’uso di umile riferito alla figura dell’angiolel con il valore di benevolo / benigno
pare che riconduca a quel lavoro di ristrutturazione semantica che ha
caratterizzato i componimenti del Cavalcanti precedentemente analizzati: tuttavia
se in essi era la donna a ricevere prevalentemente l’attribuzione di umile come
benevola / bendisposta, qui invece questo aggettivo accompagna la figura del puer
alatus che attornia con il suo volo la donna amata.
La funzione dell’amorino non è quella di ammansire la donna altera, né tantomeno
di rappresentare Amore come una forza terribile e spaventosa, bensì quella di
invitare chi ne coglie la presenza ad unirsi alla lode del suo signore.
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Il puer alatus non è armato come Amore guerriero dei componimenti
cavalcantiani, semplicemente è colto nell’atto di volare e cantare, questo fa di lui
una presenza positiva anziché una presenza distruttrice e causa di angoscia.
Non è un caso che nella stanza successiva si presenti l’immagine della donna che
“incoronata regina d’Amore” è circondata da onori e privilegi. Sembra che
l’invito dell’ “angiolel umile” sia stato colto proprio per primo dalla donna che ne
ha tratto beneficio.
In ED (voce umile) è documentato brevemente il caso espresso da questo
componimento:
“Analogamente Fioretta incrementa il ‛ disire ' col suo atteggiamento amoroso simboleggiato dall'angiolel d'amore umile che le corona la testa (Rime LVI 7).”
Il Tateo illustra come umile è anche:
“L’anima apparecchiata a ricevere Amore che domina e insieme consola l'uomo infondendogli la dolcezza d'amore e traendolo fuori dalla viltà del timore. Viene così ribadita la coincidenza fra l'atteggiamento u. e la condizione d'amore, e attraverso questa coincidenza l'identificazione dell'umiltà con tutte le virtù costitutive dell'ideale stilnovistico di gentilezza.”
La dimensione quasi onirica che il componimento crea reca una stabilità che nulla
ha a che vedere con le immagini degli “spiriti” cavalcantiani in rotta dopo la
sconfitta che Amore ha inferto all’io lirico.
La donna non è vista come insensibile, ma come una figura benevola verso la
quale provare timore è insensato. Inoltre l’ “angiolel” non è certo umile perché
rispetto alla donna è relegato a una condizione inferiore e questo aspetto ci è
suggerito anche dalla sua posizione nello spazio: la figura vola al di sopra della
donna che è al centro della scena, mentre nei componimenti analizzati in
precedenza in questa ricerca, cito il Notaro per esempio, chi era detentore della
condizione di umile (nella sua accezione di modesto, contrario di superbo) si
ritraeva in disparte.
Ci suggerisce lo stesso Tateo:
“atteggiamento umile e condizione d’amore coincidono, non ha più senso quindi parlare di umiltà come indicatore di basso profilo o aspetto dimesso quando attraverso questa coincidenza si identifica l'umiltà con tutte le virtù costitutive dell'ideale stilnovistico di gentilezza.”
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Voi che savete ragionar d’amore è una ballata di soli endecasillabi con schema
ZYYZ ABABBCCZ. Nella lirica trobadorica avviene in genere una selezione
accurata del pubblico, ragion per la quale il poeta scrive esclusivamente per chi è
in grado di comprenderlo, allontanando dall’uditorio i lettori più ingenui. Questo
tipo di approccio alla scrittura risale al trobar clus dei provenzali e poi si diffonde
presso i siciliani e i siculo-toscani: “l’idea di una poesia come alto artigianato,
spesso infatti creato su commissione o destinato a un pubblico che si immagina
presente all’esecuzione.”14
Così in questa ballata, Dante si indirizza verso coloro che “sanno ragionar
d’amore”: non chiede loro aiuto o comprensione, ma semplicemente li eleva al
rango di testimoni di un proposito della sua poesia.
L’io lirico si è innamorato di una donna che nonostante abbia amore nello
sguardo, umilia e intimorisce chiunque la avvicini, inoltre si nega alla vista di
qualsivoglia persona desideri osservarla. Egli pensa che la donna potrà anche non
impietosirsi, ma certamente prima o poi le sue resistenze cederanno e potrà
incontrarne lo sguardo che tanto si ostina a celare.
Il tema della ballata è da ricondursi al “feticismo degli occhi”, (secondo quanto
affermato dal Contini) che è portato all’estremo, al punto da non avere paragoni
con la lirica antica. Taluni hanno ritenuto (a causa del tema dello sguardo) di
dover effettuare una lettura allegorica della ballata: osservarsi e godere della vista
è la caratteristica principale della vita contemplativa della quale Rachele è il
simbolo (Pd XXVII 104-7).
Questa lettura si sovrappone a quella amorosa, non per forza la annulla, anche
perchè la reticenza dell’amata che si nasconde alla vista dell’amante è un motivo
di derivazione cortese:
Voi che savete ragionar d'Amoreudite la ballata mia pietosa,che parla d'una donna disdegnosa,la qual m'ha tolto il cor per suo valore.
Tanto disdegna qualunque la mira,che fa chinare gli occhi di paura,14 Ivi, pag.319
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però che intorno a' suoi sempre si girad'ogni crudelitate una pintura;ma dentro portan la dolze figurach'a l'anima gentil fa dir: "Mercede!",sì vertuosa, che quando si vede,trae li sospiri altrui fora del core.(1-12)
Par ch'ella dica: "Io non sarò umileverso d'alcun che ne li occhi mi guardi,ch'io ci porto entro quel segnor gentileche m'ha fatto sentir de li suoi dardi".E certo i' credo che così li guardiper vederli per sé quando le piace,a quella guisa retta donna facequando si mira per volere onore.(13-20)
Io non ispero che mai per pietatedegnasse di guardare un poco altrui,così è fera donna in sua bieltatequesta che sente Amor negli occhi sui.Ma quanto vuol nasconda e guardi lui,ch'io non veggia talor tanta salute;però che i miei disiri avran vertutecontra 'l disdegno che mi dà tremore.(21-28)
Nonostante Amore sia definito “segnor gentile” (v.13) quello che traspare
dall’atteggiamento della donna che appare in questo componimento è
dichiaratamente non umile: ella non pare rassegnarsi a quella coincidenza amore-
umiltà che il Tateo sottolineava in ED e che dà vita al processo di elevazione
dello spirito che culmina nell’allontanamento della viltà e nel trarre beneficio
dall’amore stesso.
Ma l’io lirico, riprendendo l’immagine di Amore riflesso negli occhi dell’amata
introduce il motivo ricorrente (frequentemente utilizzato dal Cavalcanti)
dell’innamoramento attraverso lo sguardo, dal momento che la donna è a tutti gli
effetti detentrice del sentimento amoroso poiché porta Amore negli occhi e
talvolta si compiace di guardarli per sé allo specchio: “E certo i' credo che così li
guardi / per vederli per sé quando le piace, / a quella guisa retta donna face /
quando si mira per volere onore“(vv.17-20).
L’io lirico non dà segni di resa, spera infatti che i suoi desideri siano efficaci
affinchè ceda la difesa che la donna fa dei propri occhi.
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La reazione di coloro che la scorgono è legata al sospirare, e il sospiro rientra
nella fenomenologia dell’innamoramento come conseguenza del vulnus amoris.
L’atto stesso di sospirare indica sofferenza e dolore, ma tale dolore è temporaneo,
Amore ferisce, ma anche guarisce, in questo componimento in particolare l’io
lirico stesso cerca di scorgere lo sguardo della donna, che cela il suo
atteggiamento umile-benevolo, per guarire la propria ferita.
Abbiamo visto con Siciliani e Guittone come la donna rimanesse assolutamente
impassibile, distante, irraggiungibile. L’io lirico soffriva in disparte, invocando
invano “merzede”, riponendo la speranza in un mutamento totale della donna da
superba a umile; in quei testi la certezza del cambiamento non c’era e ogni atto
dell’io lirico era dettato dal timore, tant’è che quest’ultimo si presentava spesso
come servo obbediente, in una veste dimessa e soltanto al limite della
sopportazione avanzava una protesta verso la donna e il suo comportamento
esageratamente opposto al proprio: “ma vostr’orgoglio passa sorcoitanza / che
dismisura contr’a umilianza” (vv.29-30 Ben m’è venuto prima cordoglienza,
Giacomo da Lentini).
Parole mie che per lo mondo siete è un sonetto dal seguente schema rimico:
ABBA ABBA CDC CDC. Il sonetto è un genere metrico perfetto per la
formazione di corone, ma anche di dittici. Questo sonetto e quello che lo segue O
dolci rime formano un dittico. In Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete, l’io
lirico invitava le sue poesie a congedarsi dall’amata per andare a rendere omaggio
a un’altra donna. Questo sonetto, invece rettifica quanto affermato in Voi che
‘ntendendo e chiede che le poesie si rechino dall’amata e lo raccomandino a lei.
Qui le parole (i versi) sono nate dalla lode per un’altra donna.
La menzione della prima canzone del Convivio fa presupporre che la destinataria
di questo sonetto fosse la donna gentile, incontrata da Dante dopo la morte di
Beatrice (la Filosofia, nella prospettiva del trattato); ella è menzionata nella prima
quartina:
Parole mie che per lo mondo siete,voi che nasceste poi ch'io cominciai
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a dir per quella donna in cui errai:"Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete", (1-4)
Le parole dichiarano alla donna nella seconda quartina che esse le appartengono,
ma ella non le vedrà più numerose di quanto siano ora.
andatevene a lei, che la sapete,chiamando sì ch'ell'oda i vostri guai;ditele: "Noi siam vostre, ed unquemaipiù che noi siamo non ci vederete". (5-8)
Nella terzina sorge una raccomandazione dell’io lirico ai suoi versi: non rimanere
in compagnia della donna, poiché non “v’è Amore” (v.9), ma di allontanarsi e
trovare una donna “di valore” (v.12).
La raccomandazione prosegue anche nella restante terzina, il vagare dei versi
troverà una conclusione quando essi raggiungeranno una “donna di valore” alla
quale rendere dovuto e gradito omaggio:
Con lei non state, ché non v'è Amore;ma gite a torno in abito dolente,a guisa de le vostre antiche sore. (9-11)
Quando trovate donna di valore,gittatelevi a' piedi umilemente,dicendo: "A voi dovén noi fare onore" (12-14)
Le parole dell’io lirico attraversano tutto il componimento, lasciano una figura
femminile per dirigersi verso un’altra figura femminile, che sarà “di valore”.
L’atto di omaggio tributato alla donna dalle parole avverrebbe anzitutto gettandosi
ai suoi piedi: il gettarsi accompagnato da umilemente enfatizza l’abbassamento, la
sottomissione che le parole dell’io lirico presenteranno alla donna di valore
quando avranno modo di incontrarla.
L’accezione semantica corrisponde alla definizione di CruscaIII: “Con umiltà.
Latin. Humiliter, demisse.”
Mentre il Tateo suggerisce in ED:
“Nella Vita Nuova designa l'atteggiamento di cortese premura delle donne nei
confronti del poeta sofferente (pregava l'una l'altra umilemente, XXIII 20 24);
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ma all'omaggio cortese allude specificamente in Rime LXXXIV 13, attraverso la
personificazione del sonetto inviato alla gentilissima.”
Non si tratta dell’omaggio cortese che presuppone l’aspettativa dell’ottenimento
di grazia, ma di un allontanamento da una donna “gentile”, verso una donna
ancor più degna di essere celebrata: a costei le “parolette” si debbono accostare
con un atteggiamento preciso, umilemente.
Questo avverbio non indica pentimento, supplica o sofferenza: il fine ultimo di
questo accostamento è rendersi degne di professare la lode dell’amata.
Sempre il Tateo sottolineava il binomio amore-umiltà come necessario
all’allontanamento dalla viltà e raggiungimento dell’ideale di gentilezza.
Quello che questo componimento vuole suggerire è una richiesta, l’io lirico ha
commesso un errore nel lodare la donna sbagliata, fa ammenda inviando per il
mondo le sue parole affinchè lo introducano presso la sua donna, degna di lode.
Perché il dialogo amoroso abbia un avvio positivo è necessario che ciò che si
presenta al cospetto di lei si mostri umilemente, rendendosi meritevole di
benevolenza e grazia.
Così nel mio parlar voglio esser aspro è una canzone di sei stanze con piedi
AbbC Abbc e sirma CddEE. Si tratta di un componimento con un unico tema: la
passione che tormenta il poeta. Insistendo sui campi semantici aggressivi ribadisce
lo scontro con la donna Petra. I suoni che si riferiscono alla donna amata che non
lo corrisponde, rispecchiano il giudizio crudo e aspro che egli ha di lei, uno stile
ric è qui chiamato ad esprimere l’angoscia.
Inizialmente si descrive come l’amata sia crudele e fredda negli atti come pietra,
ella risulta persino irraggiungibile dalle frecce di Amore. Nessun uomo è invece
risparmiato dai colpi mortali che lei scaglia, incluso l’io lirico:
Così nel mio parlar voglio esser asprocom’è ne li atti questa bella petra,la quale ognora impetramaggior durezza e più natura cruda,e veste sua persona d’un diasprotal, che per lui, o perch’ella s’arretra,non esce di faretrasaetta che già mai la colga ignuda:
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ed ella ancide, e non val ch’om si chiudané si dilunghi da’ colpi mortali,che, com’avesser ali,giuncono altrui e spezzan ciascun’arme;sì ch’io non so da lei né posso atarme.(1-13)
Egli infatti non ha modo di celarsi né di evitare la forza distruttrice combinata con
quella di Amore, di questa donna crudele chiamata con il senhal di Petra:
Non trovo scudo ch’ella non mi spezziné loco che dal suo viso m’asconda;ché, come fior di fronda,così de la mia mente tien la cima:cotanto del mio mal par che si prezzi,quanto legno di mar che non lieva onda;e ’l peso che m’affondaè tal che non potrebbe adequar rima.Ahi angosciosa e dispietata limache sordamente la mia vita scemi,perché non ti ritemisì di rodermi il core a scorza a scorza,com’io di dire altrui chi ti dà forza?(14-26)
Si rivela il timore da parte dell’io lirico che altri possano cogliere il suo stato
d’animo, ma la morte sta già consumando il suo cuore, come un pasto “(…) / Co li
denti d’Amor già mi manduca” (v.32) e di lì a poco Amore stesso lo colpirà.
Inutili i tentativi di chiedere umilmente pietà da parte dell’io lirico, Amore
impugna la medesima spada con la quale “uccise” Didone: in questo passo si
evidenzia chiaramente come l’io lirico sia coinvolto in una battaglia dall’esito
negativo per lui e certamente senza scampo.
Ché più mi triema il cor qualora io pensodi lei in parte ov’altri li occhi induca,per tema non tralucalo mio penser di fuor sì che si scopra,ch’io non fo de la morte, che ogni sensoco li denti d’Amor già mi manduca;ciò è che ’l pensier brucala lor vertù sì che n’allenta l’opra.E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopracon quella spada ond’elli ancise Dido,Amore, a cui io grido- merzé !- chiamando, e umilmente il priego;
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ed el d’ogni merzé par messo al niego.(27-39)
La scena di battaglia tra Amore che colpisce l’io lirico e quest’ultimo che tenta
invano di difendersi, prosegue. Un colpo più forte sopraggiunge, dalla parte del
cuore e l’io lirico constata che se Amore dovesse colpire un’ultima volta, lo
ucciderebbe.
Egli alza ad ora ad or la mano, e sfidala debole mia vita, esto perverso,che disteso a riversomi tiene in terra d’ogni guizzo stanco:allor mi surgon ne la mente strida;e ’l sangue, ch’è per le vene disperso,fuggendo corre versolo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco.Elli mi fiede sotto il braccio mancosì forte, che ’l dolor nel cor rimbalza:allor dico: "S’elli alzaun’altra volta, Morte m’avrà chiusoprima che ’l colpo sia disceso giuso".(40-52)
L’io lirico fantastica sulla possibilità che Amore torturi con la stessa crudeltà
riservata a lui la donna ed afferma che in una situazione simile la soccorrerebbe
volentieri, poiché potrebbe afferrare le chiome che lo stesso Amore rende belle e
desiderabili : “ch’Amor per consumarmi increspa e dora” (v.64).
Così vedess’io lui fender per mezzolo core a la crudele che ’l mio squatra!poi non mi sarebb’atrala morte, ov’io per sua bellezza corro:ché tanto dà nel sol quanto nel rezzoquesta scherana micidiale e latra.Ohmè, perché non latraper me, com’io per lei, nel caldo borro?ché tosto griderei: "Io vi soccorro".e fare’l volentier, sì come quelliche ne’ biondi capellich’Amor per consumarmi increspa e dorametterei mano, e piacere’le allora. (53-65)
Il pensiero dell’io lirico si sviluppa e immagina propositi di vendetta nei riguardi
della donna che non gli ha concesso il suo amore: e nell’esprimere il proprio
desiderio di rivalsa, utilizza un modo di dire, “farei com’orso quando scherza.”
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Non manca di sottolineare tuttavia, che una volta presosi quanto desidera per sé,
le renderebbe la pace con l’amore senza mostrare risentimento alcuno nei suoi
riguardi.
S’io avessi le belle trecce prese,che fatte son per me scudiscio e ferza,pigliandole anzi terza,con esse passerei vespero e squille:e non sarei pietoso né cortese,anzi farei com’orso quando scherza;e se Amor me ne sferza,io mi vendicherei di più di mille.Ancor ne li occhi, ond’escon le favilleche m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,guarderei presso e fiso,per vendicar lo fuggir che mi face;e poi le renderei con amor pace.(66-78)
Il congedo si rivolge alla canzone stessa, con la raccomandazione di raggiungere
la causa delle sue pene, che gode nel celargli quanto più desidera.
L’intento non è affatto beneaugurante nei riguardi della donna; l’innamorato
desidera esclusivamente che la saetta della sua poesia colpisca dove nemmeno
Amore riesce a giungere:
Canzon, vattene dritto a quella donnache m’ha ferito il core e che m’involaquello ond’io ho più gola,e dàlle per lo cor d’una saetta;ché bell’onor s’acquista in far vendetta(79-83)
Il significato di umilemente all’interno del contrasto con Amore ha una valenza di
tutt’altra natura rispetto a quella rilevata in Parole mie che per lo mondo siete.
Tutta la canzone si orienta in direzione dell’invettiva: l’io lirico è atterrito dalla
figura della donna, dal suo essere dura e caparbia, ma al tempo stesso non manca
di esprimere risentimento nei suoi riguardi. In maniera analoga a Voi che savete
ragionar d'Amore dove la donna nasconde lo sguardo per evitare di mostrare il
gentil segnore che reca negli occhi, così in questa canzone la paura dell’io lirico è
quella di mostrare il proprio sentimento e di contravvenire così alle regole della
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cortesia (mi riferisco al “ben celare” il sentimento amoroso, oltre al nome della
donna).
Scoperto da Amore, l’io lirico non ha via di scampo, è costretto ad arrendersi e a
pregare di essere risparmiato, ragion per la quale considero umilemente, non tanto
una forma di rispetto verso Amore che implacabile assale e colpisce l’io lirico,
quanto piuttosto una supplica dolente affinchè l’io lirico abbia salva la vita.
Tateo suggerisce in ED: “in Rime CIII 38 la durezza del tema gli [all’avverbio]
fa assumere una sfumatura realistica, trattandosi dell'atteggiamento avvilito del
poeta, prostrato dai colpi di amore e implorante mercè.”
Sin dai primi capitoli della Vita Nova 15 la narrazione(dedicata ai primi incontri
con la gentilissima) è costruita con una grande sostenutezza di stile, propria di un
autore conscio di scrivere la sua prima opera in volgare. Dal titolo dell’opera si
evince l’imminente realizzazione di un sostanziale rinnovamento intellettuale e
morale operato dall’amore.
Il capitolo II si apre con una complessa perifrasi astronomica, cui segue la
descrizione della donna che comprende il suo nome e il suo aspetto sino a
soffermarsi sui dettagli dell’abito:
Nove fiate già apresso lo mio nascimento era tornato lo cielo della luce quasi a uno medesimo puncto quanto alla sua propria giratione, quando alli miei occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare. Ella era già in questa vita stata tanto, che nel suo tempo lo Cielo Stellato era mosso verso la parte d'oriente delle dodici parti l'una d'un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, e io la vidi quasi dalla fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo colore umile e onesto sanguigno, cinta e ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenia.
Umile, secondo quanto messo in luce da Tateo in ED avrebbe il seguente valore:
“riferito al vestito di Beatrice giovinetta (di nobilissimo colore, umile e onesto,
sanguigno), [...] designa probabilmente la moderatezza del colore (c'è chi l'ha
inteso, assieme a onesto, come un avverbio).”
15 Per la suddivisione in capitoli seguo l’edizione Dante Alighieri, La vita nuova, a cura di M. Barbi, Bologna, Il Mulino, 1971 che è la medesima utilizzata da Francesco Tateo in ED.
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Sono maggiormente propensa a pensare che umile sia un aggettivo, anzichè un
avverbio: sta ad indicare che l’abito che Beatrice indossa ne rispecchia la
personalità, affatto appariscente.
L’aggettivo utilizzato per operare la descrizione dell’abito non vuole suggerire
che esso è modesto, povero, oppure dimesso, bensì una veste semplice, di colore
rosso sanguigno, che rimanda probabilmente alla successiva immagine del “cuore
mangiato” e della donna avvolta in un drappo di colore analogo.
L’abito è definito adatto alla sua età: “cinta e ornata alla guisa che alla sua
giovanissima etade si convenia.”
Il sonetto A ciascun’alma presa che è inserito e segue il racconto del “cuore
mangiato” (cap. III) è indirizzato ai “Fedeli d’Amore”, interlocutori fondamentali
del dialogo amoroso:
A ciascun'alma presa e gentil corenel cui cospecto ven lo dir presente,in ciò che mi riscriva 'n suo parvente,salute in lor segnor, cioè Amore.(1-4)
La prima quartina si rivolge ai fedeli, a tutte le anime “prese” che hanno in
comune amore come “segnor”:
Già eran quasi che aterzate l'oredel tempo che omne stella n'è lucente,quando m'apparve Amor subitamente,cui essenza membrar mi dà orrore.(5-8)
Amore è descritto con un aspetto che incute timore reverenziale nella visione
notturna, appare così nella seconda quartina:
Allegro mi sembrava Amor tenendomeo core in mano, e nelle braccia aveamadonna involta in un drappo dormendo.(9-11)
Le terzine mettono a fuoco invece i due momenti cruciali della visione: Amore
che tiene in mano il cuore di Dante personaggio, e in un secondo momento lo
stesso viene offerto in pasto alla donna amata. Il motivo del “cuore mangiato” ha
precedenti nella letteratura francese e provenzale ed è spesso ricorrente.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendolei paventosa umilmente pascea.
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Apresso gir lo ne vedea piangendo (12-14)
ED propone per questo caso un’ interpretazione, del tutto opposta a quella che
interessa solitamente il motivo del cuore mangiato: “In Vn III 12 13 (lei
paventosa umilmente pascea) u. indica il modo blando con cui Amore, nella
figurazione del primo sonetto, fa mangiare alla donna il cuore del poeta, a
escludere la ‛ violenza ' dell'operazione.”
La rappresentazione condensa la visione avuta da Dante in sogno. Contrariamente
alla violenza espressa in Così nel mio parlar voglio esser aspro, Amore offre con
dolcezza in pasto il cuore alla donna, che se ne nutre “paventosa”. L’io
liricoafferma inizialmente che l’aspetto di Amore gli fa provare “orrore”, timore
reverenziale: egli osserva la scena, la donna si nutre del cuore dell’amante
dubitosamente. Nell’insieme umilmente indica l’atteggiamento premuroso di
Amore che invita la donna a nutrirsi del cuore.
Utilizzando umilmente per descrivere come la donna viene in possesso del cuore,
toglie alla scena tutta la violenza della quale sarebbe stata caricata in altre
circostanze: anche il suono stesso delle parole nel verso, non rimanda affatto a
quella che dovrebbe essere una scena cruenta, l’io lirico ci dice soltanto che : “lei
paventosa umilmente pascea” (v.13).
La situazione così descritta rovescia del tutto l’immagine violenta dell’atto, la
donna che si nutre del cuore non gode dell’appropriarsi di esso, ma vi si accosta
con cautela.
La ballata Ballata, i' vo' (cap. XII ) è introdotta dal racconto della negazione del
saluto da parte di Beatrice: l’uso cortese di celare l’identità dell’amata è portato
all’eccesso nel racconto che precede la ballata, con il ricorso alla seconda donna
schermo.
L'insistenza nello sfruttare questo espediente gli preclude il saluto dell’amata.
La negazione del saluto è necessaria a determinare la maturazione dell’io lirico, ad
obbligarlo a prendere coscienza del significato della propria esperienza umana e
letteraria.
64
L’io lirico pronuncia sin dai primi versi la propria fedeltà nei riguardi della donna
e dice alla ballata di fare altrettanto. Nel caso in cui la parola data non venga
ritenuta valida, egli suggerisce alla donna di domandare ad Amore se desidera
prova ulteriore della lealtà che le porge:
Amore è qui, che per vostra biltatelo face, come vol, vista cangiare:dunque perché li fece altra guardarepensatel voi, da che non mutò 'l core».(21-24)
Dille: «Madonna, lo suo core è statocon sì fermata fede,che 'n voi servir l'à 'mpronto omne pensero:tosto fu vostro, e mai non s'è smagato».Sed ella non ti crede,dì che domandi Amor, che sa lo vero: (25-30)
Segue una supplica, non a caso troviamo accanto al sostantivo “preghero” (v. 31)
umil, che rafforza la supplica dell’io lirico, il quale a sua volta si propone con
l’atteggiamento del perfetto amante e dichiara che se a lei non fosse gradito
perdonare il suo errore (commesso in buona fede) lo rifiuti condannandolo a
morire, così avrà prova ulteriore della sincerità dei sentimenti che nutre nei suoi
riguardi.
e alla fine falle umil preghero,lo perdonare se le fosse a noia,che mi comandi per messo ch'io moia,e vedrassi ubidir ben servidore.(31-34)
Ad ulteriore supporto della propria causa l’io lirico dice alla ballata di rivolgersi
ad Amore, affinchè smuova a pietà la donna, rimanendo in sua compagnia e
parlando finchè gli è gradito del suo servo e delle sue buone intenzioni.
E dì a colui ch'è d'ogni pietà chiaveavanti che sdonnei,che le saprà contar mia ragion bona:«Per gratia della mia nota soavereman tu qui con lei,e del tuo servo ciò che vuoi ragiona;(35-40)
e s'ella per tuo prego li perdona,fa che li anunzî un bel sembiante pace».Gentil ballata mia, quando ti piace,movi in quel puncto che tu n'aggi onore.(41-44)
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Tateo in ED afferma che umile aggettivo, talvolta, ma raramente è utilizzato da
Dante nella sua accezione originaria: “L'aggettivo, raramente adoperato nel suo
senso più comune, acquista un valore pregnante in relazione al tema dell'umiltà
(v.), che tiene un posto centrale nella concezione etica e spirituale di Dante. Due
volte esso è adoperato per denotare l'atteggiamento dimesso del poeta nei
confronti della sua donna, intesa appunto come signora, ricalcando la
situazione dell'omaggio cortese, ma viene trasferito o alla preghiera contenuta
nel componimento poetico (umil preghero, Vn XII 13 31, dove c'è un esplicito
riferimento alla condizione di servo del poeta; cfr. servo umile, Rime dubbie
XV 14) o al sonetto (io che m'appello umile sonetto / davanti al tuo cospetto
vegno, Rime XLVIII 10).”
Il riferimento al servo gioca un ruolo determinante: esplicita del tutto il reale
valore semantico dell’aggettivo e richiama l’omaggio cortese nei confronti della
donna che è signora. Umile indica l’obbedienza che l’io lirico mostra nei riguardi
della donna, conscio della sua superiorità totale.
A fare da cornice a questa dichiarazione di obbedienza, emergono nei versi della
ballata tutta una serie di aspetti che sono ricorrenti in componimenti a tema
amoroso: il motivo della bellezza della donna, il motivo della servitù amorosa, il
riferimento ad Amore come garanzia assoluta del proprio sentimento, la
rassegnazione dell’io lirico nel caso in cui la donna non ne gradisca affatto
l’omaggio. Ed è su quest’ultimo punto che vorrei concentrarmi: sull’abbandono
totale alla volontà della donna, che conferisce a umile il suo valore definitivo.
Non si tratta più di definire soltanto il ruolo dell’amante, ma di collocarlo
all’interno di una precisa area, l’io lirico non si mostra addolorato come i suoi
predecessori, il suo essere umile è il risultato di una serena accettazione del
proprio ruolo ed è il fine della sua maturazione artistica ed interiore.
Nella prosa del cap. XV il pensamento “forte” è messo in una luce negativa,
impedisce all’io lirico di rendersi conto in profondità di quanto sta accadendo nel
suo animo, il pensamento forte si limita a rimproverargli l’incapacità di resistere
alla donna amata. Nella confusione del turbamento il pensamento “forte” ostacola
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la riflessione dell’io lirico, ma alla fine è il pensiero umile a fare chiarezza e a
portare l’io lirico ad esprimersi.
Le “passate passioni” (le sofferenze e i turbamenti) non sono più motivo di
sofferenza:
Apresso la nova transfiguratione mi giunse uno pensamento forte, lo quale poco si partia da me, anzi continuamente mi riprendea, ed era di cotale ragionamento meco: «Poscia che tu pervieni a così dischernevole vista quando tu se' presso di questa donna, perché pur cerchi di veder lei? Ecco che tu fossi domandato da·llei, che avresti tu da rispondere, ponendo che tu avessi libera ciascuna tua vertute in quanto tu le rispondessi?» E a costui rispondea un altro, umile, pensiero e dicea: «S'io non perdessi le mie vertudi, e fossi libero tanto che io le potessi rispondere, io le direi che sì tosto come io imagino la sua mirabile bellezza, sì tosto mi giugne uno disiderio di vederla, lo quale è di tanta vertude, che uccide e distrugge nella mia memoria ciò che contra lui si potesse levare; e però non mi ritraggono le passate passioni da cercare la veduta di costei». Onde io, mosso da cotali pensamenti, propuosi di dire certe parole nelle quali, escusandomi a·llei di cotale riprensione, ponessi anche di quello che mi diviene presso di lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia Ciò che.
Anche il motivo dell’ingentilimento generato dallo sguardo di lei e il tremolio del
cuore di chi riceve il saluto fa parte degli effetti dell’ innamoramento: il “tremare”
è associato al “sospirare” come sintomo della ferita d’Amore.
Nel sonetto Ne li occhi porta, che segue la prosa del cap. XXI, emerge l’aspetto
del tremare:
Negli occhi porta la mia donna Amore,per che si fa gentil ciò ch'ella mira;ov'ella passa, ogn'om ver' lei si gira,e cui saluta fa tremar lo core,(1-4)
La reazione di chi incontra lo sguardo di lei è immediata: il soggetto si raccoglie e
medita su ogni difetto che gli è proprio, inoltre, due grandi vizi capitali condannati
come gravi difetti (superbia ed ira sono il contrario dell’umiltà) fuggono e si
disperdono mentre lei procede.
L’ultimo verso di questa quartina ha per destinatarie le donne “gentili”, alle quali
sono spesso all’interno della Vita Nova indirizzati i pensieri e le riflessioni.
sì che, bassando il viso, tutto smoree d'ogni suo difecto allor sospira:fugge dinanzi a·llei Superbia e Ira.Aiutatemi, donne, farle onore.(5-8)
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Le terzine finali illustrano nel dettaglio gli effetti benefici dell’incontro con la
donna e il motivo dell’ineffabilità: non si può dire né ricordare ciò che lei compie
quando sorride, la sua stessa manifestazione è un miracolo, come nel sonetto
Tanto gentile: “par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol
mostrare.”
Ogne dolcezza, ogne pensero umile nasce nel core a chi parlar la sente,ond'è laudato chi prima la vide.(9-11)
Quel ch'ella par quando un poco sorride,non si può dicer né tenere a mente,sì è novo miracolo e gentile(12-14)
Sia nel passo del cap. XV, che nel sonetto Ne li occhi porta, umile aggettivo
viene accostato al pensiero, ma Tateo ci offre in ED due interpretazioni
semantiche nei due contesti: “Già in Vn XV 2 u. pensero si oppone
dichiaratamente a pensamento forte (§ 1), il pensiero che baldanzosamente
rimprovera il poeta di non saper resistere alla vista della donna. Ma in XXI 3 9
pensero umile è quello che nasce nel cuore di chi ascolta la sua voce e si
riempie di dolcezza, si libera cioè di quella superbia e ira che sono il turbamento
dell'anima.”
Ad accumunare i due pensieri è la dimensione uditiva: l’io lirico ne ascolta il
verdetto, nel primo caso egli ascolta il pensiero che rivolge a sé stesso, nel
secondo caso il pensiero è associato alla dolcezza della voce della donna, l’afasia
che deriva da questo suono non è affatto negativa: si riconduce all’abbandono
positivo nei riguardi della donna amata.
Nella prosa (cap. XXII) che introduce il sonetto si parla brevemente della morte
del padre di Beatrice e di quanto ella con il suo aspetto pietoso susciti le lacrime e
la sofferenza di Dante: egli difatti piange ancor prima di avvicinarsi al suo
cospetto ed è quasi biasimato da alcune donne che a differenza di lui hanno visto
Beatrice addolorata, ma composta nel cordoglio. Egli desiderava rivolgere a loro
la parola, ma come spiega poi ha deciso di scrivere due sonetti e nel primo di
questi le apostrofa con un’interrogativa diretta:
«Voi che portate la sembianza umile con gli occhi bassi, mostrando dolore,
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onde venite che 'l vostro colorepar divenuto di pietà simile? (1-4)
Poi l’io lirico domanda alle donne se hanno visto il viso bagnato di lacrime
dell’amata Beatrice:
Vedeste voi nostra donna gentilebagnar nel viso suo di pianto Amore?Ditelmi, donne, che me 'l dice il core,perch'io vi veggo andar sanz'acto vile. (5-8)
Commosso da tanta partecipazione emotiva al recente lutto di Beatrice, prega le
donne di fermarsi e di non celargli che ne è di lei, poiché egli ha visto i loro occhi
bagnati di pianto, segno della loro partecipazione al suo dolore.
E se venite da tanta pietate,piacciavi di restar qui meco alquanto,e qual che sia di lei nol mi celate. (9-11)
Io veggio gli occhi vostri ch'ànno pianto,e veggiovi tornar sì sfigurate,che 'l cor mi triema di vederne tanto» (12-14)
Il colore è riferito al viso, forse pallido a causa dell’angoscia derivante dalla
recente perdita, conferendo all’aspetto delle donne una “sembianza umile”. Ma
non umile, da intendersi come “dimesso, contrario di superbo” secondo una delle
definizioni di CruscaIV, ma suppongo che il suo valore semantico sia da ricondursi
a partecipe del dolore altrui. Le motivazioni che mi spingono ad accettare questa
ipotesi sono tutte all’interno del testo: occhi bassi, mostrando dolore, bagnar nel
viso, pianto, pietate, di nuovo pianto, sfigurate e triema. Tutto il sonetto rimanda
all’area semantica della compassione, in esso viene rappresentato il mutuo
scambio di sguardi, che rendono note le emozioni. L’io lirico guarda le donne, che
hanno visto a loro volta Beatrice ed attraverso loro ne apprende il dolore e ne è
profondamente toccato: egli le vede tornare da lei “sì sfigurate” (v.13) e il cuore
trema alla vista di tanto cordoglio.
Tateo in ED si esprime con chiarezza circa il legame tra il dolore e l’umiltà: “La
contrapposizione fra stato doloroso e atteggiamento u., che elimina ogni
passione e riporta l'anima al suo equilibrio spirituale, si rileva ancora in XXII 9
1 (cfr. § 8), dove la sembianza u. delle donne da un lato dimostra che esse
69
hanno veduto Beatrice (perché non può provenire che da lei tale effetto),
dall'altro corregge la ‛ viltà ', che porterebbe con sé la passione dolorosa
comunicata dalla vista del pianto della gentilissima, a indicare la perfezione
della gentilezza finanche nel dolore.”
Rappresenta dunque anche l’equilibrio di Beatrice nel momento avverso,
equilibrio tra la sua perfezione e il dolore che sta vivendo. Quella “sembianza
umile“ è stata trasmessa alle donne da Beatrice, attraverso di esse l’io lirico ha
potuto cogliere la sua sofferenza, ma non la negatività di tale sofferenza: per
contro Dante, ne ha ricevuto l’immagine della donna amata in tutta la sua
grandezza e positività.
La prosa che apre il cap. XXIII descrive la prefigurazione della morte di Beatrice,
che si verifica nel momento in cui Dante è afflitto dalla malattia:
Allora mi parea che lo cuore ove era tanto amore mi dicesse: «Vero è che morta giace la nostra donna». E per questo mi parea andare per vedere lo corpo nello quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta. E pareami che donne la covrissero, cioè la sua testa, con uno bianco velo; e pareami che la sua faccia avesse tanto aspecto d'umilitade, che parea che dicesse: «Io sono a vedere lo Principio della pace». In questa imaginatione mi giunse tanta umilitade per vedere lei, che io chiamava la Morte e dicea: «Dolcissima Morte, vieni a me! E non m'essere villana, però che tu dêi essere gentile, in tale parte se' stata.
Umilitade ricorre due volte, a designare l’aspetto del volto di Beatrice e a definire
lo stato d’animo di Dante che partecipa della visione al punto da invocare la morte
chiamandola dolcissima. Infatti come afferma il Tateo in ED, per quanto riguarda
la donna, la qualità “Come tale viene attribuita alla donna, cui spetta il compito
di redimere l'uomo infondendogli appunto l'u. attraverso l'esempio che da lei si
sprigiona. Più volte il sostantivo ricorre in una metafora che illustra l'aspetto
esterno della donna, segno della sua interiore ‛ modestia ': con viso vestito
d'umilitade (Vn XI 1); d'umiltà vestuta (XXVI 6 7).”
Ma anche: “Non solo l'u. allarga in tal modo la sua accezione fino a
comprendere una serie di attributi dell'ideale femminile dello Stil nuovo, quali
la nobiltà, la gentilezza, la pietà, l'onestà, ma diviene condizione di grandezza,
di miracolosa eccellenza.”
70
E per quanto riguarda l’io lirico: “l'atteggiamento etico corrispondente
all'obbedienza e fedeltà del servo d'amore (cfr. servo umile, Rime dubbie XV
14), che nello stilnovismo perde la connotazione feudale evocata dalla lirica
cortese e diventa l'uomo redento dalla viltà di una condizione moralmente
inferiore ad opera di Amore e tramite la virtù della donna.”
Utilizzando il termine umiltade Dante arricchisce il valore semantico originario,
lo arricchisce di tutte le sfumature possibili: di fronte alla visione di Beatrice
morta egli riceve un’immagine che esalta di lei ogni virtù, ma al tempo stesso
riceve la capacità di allontanare da sé la viltà. Beatrice è immagine di quella
miracolosa grandezza alla quale il Tateo fa riferimento, non a caso ad un certo
punto della visione (nella prosa del cap. XXIII) pare che ella dica: “Io sono a
vedere lo Principio della pace”, Dio.
La perdita della viltà emerge con l’affermazione di Dante, che invoca la morte. Di
fronte alla visione della gentilissima, la fine non rappresenta più un motivo di
angoscia e dolore (ricordo che la paura della morte affliggeva Dante in Così nel
mio parlar) anzi, Dante, malato, invita la morte ad accoglierlo e si rivolge ad essa
chiamandola anche gentile.
Umiltà non ha più nulla a che vedere con l’inferiorità e la sottomissione del servo,
né tantomeno con il desiderio che la donna abbandoni la propria superbia e si
mostri benevola verso l’io lirico: il valore di questo termine esprime la superiorità
morale di chi è entrato in contatto con la miracolosa eccellenza della donna
(Tateo). L’umiltade di Beatrice in questa visione indica a mio parere il suo stesso
equilibrio, l’armonia che è destinata a raggiungere, la sua naturale sede presso
Dio. L’umiltade di Dante durante la visione è la presa di coscienza,
l’adeguamento all’ideale di superiorità morale che ha il suo modello in Beatrice.
Vorrei in conclusione soffermarmi su questo passo: “Mi giunse tanta umilitade
per vedere lei”. La vista, cardine della fenomenologia amorosa, trasmette il
sentimento di umilitade dalla donna all’io lirico, ma il processo non è da
intendersi come avrebbe suggerito il rapporto cortese, di un flusso che parte
dall’alto (l’amata) e scende verso il basso (l’amante) bensì di un passaggio di virtù
che dall’alto si manifesta con lo scopo di elevare.
71
La canzone che corrisponde al testo in prosa (cap.XXIII) è Donna pietosa e di
novella etate. Mi limito ad analizzarne alcuni passi. Nella seconda stanza dove le
donne intervengono a confortare l’io lirico, addolorato per la visione ricevuta:
Era la voce mia sì dolorosae rotta sì dall'angoscia del pianto,ch'io solo intesi il nome nel mio core;e con tutta la vista vergognosach'era nel viso mio giunta cotanto,mi fece verso lor volgere Amore.Elli era tale a veder mio colore,che facea ragionar di morte altrui.«Deh consoliam costui»pregava l'una l'altra umilemente;e dicevan sovente:«Che vedestù, che tu non ài valore?».E quando un poco confortato fui,io dissi: «Donne, dicerollo a voi. (15-28)
La quinta stanza prosegue con il racconto della visione dell’assunzione in cielo di
Beatrice, l’intervento di Amore che conferma i dubbi di Dante: la donna sarebbe
morta, anche se quello che ha visto è “imaginar falace” (v.65) ella conserva nella
visione la sua autentica natura, “umiltà verace” (v.69) :
Levava gli occhi miei bagnati in piantie vedea, che parean pioggia di manna,gli angeli che tornavan suso in cielo;e una nuvoletta avean davanti,dopo la qual gridavan tutti “Osanna!”,e s'altro avesser detto, a voi dire'lo.Allor diceva Amor: — Più nol ti celo:vieni a veder nostra donna che giace. —Lo imaginar fallacemi condusse a veder madonna morta;e quand'io l'avea scorta,vedea che donne la covrian d'un velo;e avea seco umilità verace,che parea che dicesse: — Io sono in pace. —(57-70)
All’interno della sesta stanza l’io lirico allude al cambiamento che in lui causano
il dolore, ma anche la visione di Beatrice, adorna di “tanta umiltà formata”
(v.72) .
72
L’io lirico si dichiara pronto ad accogliere la morte serenamente: l’esclamazione
finale, “guardando verso l’alto regno” (v.82) ribadisce la miracolosa grandezza
della donna amata, infatti sarà beato, chi avrà modo di vedere Beatrice in Gloria:
Io divenia nel dolore sì umile veggendo in lei tanta umiltà formata,ch'io dicea: — Morte, assai dolce ti tegno:tu dêi omai esser cosa gentile,poi che tu se' nella mia donna stata,e dêi aver pietate e non disdegno.Vedi che sì desideroso vegnod'esser de' tuoi, ch'io te somiglio in fede.Vieni, che 'l cor te chiede. —Poi mi partia, consumato ogni duolo;e quand'io era solodicea, guardando verso l'alto regno:— Beato, anima bella, chi te vede! —Voi mi chiamaste allor, vostra merzede»(71-84)
Le occorrenze sono in questo caso, ben quattro: compare per primo l’avverbio, il
sostantivo per due volte (sempre in riferimento a Beatrice) e l’aggettivo.
Sento di dover immediatamente concentrare la mia attenzione su umiltà che si
richiama in due stanze vicine. Tateo in ED ha insistito sulla valenza che questo
termine ha in relazione alla figura della donna stilnovista: ne sottolinea il potere di
infondere amore e al tempo stesso di cancellare la viltà in chi la incontra.
Le donne si rivolgono a Dante per consolarlo umilemente ed egli riferisce loro
nella canzone la visione che lo ha riempito di timore; la descrizione si concentra
su Beatrice e “lo imaginar falace della sua morte”, infine torna sull’io lirico che
diviene umile a causa dell’effetto che Beatrice ha su di lui. “Nella Vita Nuova
designa l'atteggiamento di cortese premura delle donne nei confronti del poeta
sofferente (pregava l'una l'altra umilemente, XXIII 20 24).”
L’ultimo termine è riferito all’interesse di chi possiede animo gentile nei confronti
di chi soffre per amore. Non a caso le donne si curano dello stato di Dante. Sono
anch’esse anime prese come Dante stesso affermava nel sonetto A ciascun’ alma
presa.
La catena di umilmente, umiltà, umile, umiltà è un filo conduttore che parte
dall’interessamento delle donne per la condizione di Dante, passa attraverso la
73
grandezza di Beatrice morta che parla di pace, si riverbera sullo stesso Dante nel
dolore e infine si rinnova ancora nella lode della donna amata.
Nella canzone analizzata la manifestazione onirica di Beatrice rovescia del tutto
l’immagine che ci è stata trasmessa dalla lirica delle origini: l’umiltà di lei lega
tutte le figure descritte nel componimento tra di loro, è a causa sua che Dante
trova il conforto delle donne ed è a causa sua che muta il proprio animo
rendendolo simile al suo, umile.
Quindi secondo quanto ci suggerisce il Tateo in ED: “(umile) Nella Vita Nuova
l'attributo di u. viene generalmente riferito alla condizione spirituale dell'uomo
trasfigurato dalla vista della donna-angelo. [...]; (umiltà) Conformemente al
valore che assume anche l'aggettivo ‛ umile ', nel cap. XXIII l'u. designa
l'atteggiamento sereno, proprio della beatitudine, del volto di Beatrice apparsa
morta al poeta (pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d'umilitade,
XXIII 8: cfr. i §§ 26 69, 27 72), e che al poeta stesso comunica tanta pace e
serenità d'animo, condizione propria della gentilezza: mi giunse tanta umilitade
per vedere lei (§ 9).”
Beatrice è rappresentata sempre con il volto sereno, è attraverso questa virtù, che
diventa il contenitore di tutte le altre (gentilezza, nobiltà) che la donna esercita il
suo influsso benefico sull’io lirico e chiunque la incontri, anche quando si
presenti in una visione.
74
CONCLUSIONI
Sulla base dei risultati emersi dalla ricerca, possiamo trarre qualche conclusione.
Nella lirica delle origini, il lemma risponde al suo valore semantico più comune in
quasi tutte le situazioni, ed è indice del giusto atteggiamento di sottomissione e
devozione che l’amante deve tenere nei riguardi della donna amata.
In riferimento alla donna è spia del desiderio dell’io lirico che il suo
atteggiamento altero muti nel suo contrario umile, accennando a quanto questo
gioverebbe all’amante, che non proverebbe più timore nell’avvicinarsi a lei.
Il verbo umiliare, nella sua forma transitiva, corrisponde ad ammansire, addolcire
(come il lat. mollire) ed è utilizzato sempre in relazione alla figura femminile.
Un timido accenno verso la valenza alta di tale aggettivo, è stata rilevata nel
componimento Poi non mi val merzé né ben servire, dove il motivo dell’accusa
ingiusta da parte della donna diventa, assieme al retto comportamento
dell’amante, una prova dell’alto valore di umiltà. Quest’ultima finisce con il
rispecchiare una condotta virtuosa dell’io lirico, in contrapposizione con la
superbia della donna.
In Guittone d’Arezzo umiltà compare accostata all’aggettivo “alta” nel sonetto
Amor merzè, per Deo merzè merzede Ritengo possa considerarsi un primo
allontanamento dal valore semantico più diffuso del termine. Quello che Guittone
inizia a dipingerci è un duplice volto dell’umiltà: è la caratteristica che
contraddistingue il perfetto amante (vedi Ho da la mia donna in comandamento,
v.11) , ma al tempo stesso come ho avuto modo di riscontrare in Tu costante e
sicuro fondamento, è la virtù associata al divino e baluardo contro il male.
Certamente rispetto alla lirica siciliana rappresenta una presa di distanza, poiché
Guittone ne utilizza le molteplici sfumature positive, ma al tempo stesso, come
ogni amante frustrato giunge a rinnegarne l’efficacia: nel sonetto Gioia d’onne
gioì e movimento, dove l’io lirico con veemenza afferma che spesso la via
migliore per ottenere ciò che si desidera è la scortesia (“non mi repento, - se villan
so stato”, v.2).
L’estensione nell’utilizzo di umiltà tocca anche la sfera dell’amicizia (Picciul e
vile om grande e car tenire) dove è impiegata per sottolineare come Don Zeno,
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che ha sempre avuto scarsa considerazione di sé, ha ecceduto per troppa bontà e
troppo amore verso l’amico, nel lodarlo oltre ogni ragionevolezza.
Guinizzelli a sua volta interpreta cautamente l’amore come periglioso inganno,
eppure in Madonna il fino Amor prospetta l'eventualità di chiedere umilemente
mercé. La situazione descritta nella canzone rimanda a un contesto di
sottomissione già incontrato nei testi siciliani, ciononostante la richiesta di
“merzede” non viene attuata, poiché né i sentimenti, né Amore stesso hanno avuto
la meglio sulla donna: umilemente è incastonato nella stanza, a ricordare il
rispetto per l’asimmetria vigente tra l’amante e l’amata nel rapporto amoroso, ma
non ha sviluppo, poiché l’io lirico non fa alla donna richiesta alcuna.
Un’ulteriore svolta, a mio avviso è riscontrabile in Cavalcanti, poiché il concetto
di umiltà è associato al carattere salvifico della donna. Innalzata a detentrice delle
più alte virtù, la donna cavalcantiana è umile anziché altera, ma non certo
ammansita o addolcita nella propria alterigia (come il Notaro avrebbe desiderato
in Ben m’è venuto prima cordoglienza), piuttosto è dipinta, ragionata nella sua
ineffabilità.
In Chi è questa che ven ch’ogn’om la mira, ai vv.7-8, troviamo: “cotanto
d’umiltà donna mi pare / ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ ira”. Il passo non ci
vuole offrire, a mio parere, una visione religiosa, come suggerirebbero invece le
possibili fonti bibliche del testo e lo stesso De Robertis nel commento, l’umiltà
piuttosto ha a che vedere con un’inclinazione virtuosa, la sua benevolenza, che
allontana iperbolicamente ogni donna dall’eguagliarsi a lei in questo aspetto.
Così, per le “foresette” di Tolosa, nel dialogo che l’io lirico intrattiene con loro, la
donna è vista essere interlocutrice privilegiata del discorso amoroso e questa
umiltà la eleva anche quando è in fin dei conti una contadina. Uno dei fattori che
rendono umile, cioè, benevola la donna è certamente l’influsso di Amore: “quest’
è lo spiritel che fa tremare, / lo spiritel che fa la donna umìle” (vv.7-8)
Invece, per quanto concerne il tema della servitù amorosa e quindi, quando nel
testo l'umiltà (perlopiù nella forma avverbiale o nell’aggettivo), è riferita all’io
lirico, la linea che era stata dei predecessori, rimane la medesima e viene
ripercorsa.
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Nel sonetto Tu m’hai sì piena di dolor la mente il sintagma “prego umilemente”
(v.47) torna a sfruttare il valore semantico più antico di questo avverbio: difatti se
tale termine è riferito all’amante o alla circostanza che lo interessa, a differenza di
quanto avviene per la donna, esso conserva le proprietà originarie. L’io lirico
infatti riconosce sempre la superiorità della figura femminile. Umilemente
rimarca quella distanza che i siciliani sottolineavano abitualmente e che Guittone
ci dice essere necessaria perché l’amante sia perfetto e all’altezza del proprio
ruolo: “Incontro amore e servir e merzede / ed umiltate e preghero e sofrenza”
(vv.10-11).
La disparità del valore semantico di questo termine inizia a farsi nettamente più
omogenea nel Dante della Vita Nova, in particolar modo in relazione ai soggetti ai
quali si riferisce. Salvo rare eccezioni scompare l’accezione di umile inteso come
dimesso o modesto; questo aggettivo diventa un contenitore di una gamma di virtù
positive per quanto riguarda la donna (metaforicamente in Tanto gentile e tanto
onesta pare, dove qui Beatrice è descritta come rivestita d’umiltà) e si estende
all’uomo indicando l’influsso positivo che egli riceve dalla donna e che lo
trasfigura, da una condizione di viltà lo eleva ad una condizione virtuosa.
Non mancano certo le occasioni nelle quali Dante torna all’antico valore
semantico del termine (Se Lippo amico se’ tu che mi leggi dove il sonetto si dice
umil per cortesia) oppure indicando una condizione di sottomissione, di richiesta
di merzede (Parole mie che per lo mondo siete dove le parole sono invitate a
mostrarsi umilemente ad una "donna di valore") o in alternativa supplica per aver
salva la vita dai colpi mortali di Amore in Così nel mio parlar.
Non manca nemmeno quel valore semantico di umile inteso come benevolo: lo
possiamo leggere in Per una ghirlandetta, rivolto all’angiolel che vola sulla
donna, lo possiamo vedere riferito alla donna (forse la Filosofia) in Voi che savete
ragionar d'Amore dove ella afferma che non si mostrerà benevola.
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BIBLIOGRAFIA
Testi
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Vocabolario degli Accademici della Crusca: edizioni 1612, 1623, 1691, 1729-38 e lemmario dell'edizione 1863-1923, disponibili in rete: http://www.lessicografia.it/
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