appunti di storia dell'economia europea

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1 L’INDUSTRIALIZZAZIONE DELL’EUROPA CENTRALE Qui si presentano alcuni casi-paese, da un lato senza la pretesa di esaurire tutte le diversità europee e dall’altro con l’obiettivo di mantenere vivo un filo interpretativo basato sulle concettualizzazioni relative all’industrializzazione inglese. La trama fattuale, quindi, non sarà molto dettagliata, solo quel tanto necessario per avere un’idea dei principali sviluppi e poter collocare il caso trattato in un contesto comparativo. In questo capitolo, tratteremo i tre principali casi di successo, con una particolare attenzione a notare differenze e somiglianze con il modello inglese. Il periodo considerato si ferma alla vigilia della prima guerra mondiale. La Grande Guerra fu un caso evidente di differenziale della contemporaneità, che andò ad interferire pesantemente con gli sviluppi di tutte le economie che vi parteciparono, e anche, seppur in minor misura, con, quelle che non vi parteciparono, per cui, pur nella diversità degli stadi di sviluppo raggiunti, tutti i paesi dovettero reagire alla guerra, generando una catena di reazioni che si studiano più agevolmente come «effetti» della prima guerra mondiale. Tale guerra diventa, quindi, un evento periodizzante. 1. Belgio Incominceremo col Belgio, che era il paese con una dotazione di risorse più simile all’Inghilterra, con una lunga tradizione marittima (soprattutto il porto di Anversa), commerciale e manifatturiera preindustriale (nelle Fiandre) e una significativa migrazione di imprenditori, parti- colarmente dalla Gran Bretagna. Si tratta di un piccolo paese (7,7 milioni di abitanti nel 1913) che consiste in pratica di due sole regioni: le Fiandre (di lingua olandese) e la Vallonia (di lingua francese), unite dalla capitale Bruxelles. Il Belgio aveva attraversato difficili sconvolgimenti politici, prima sotto gli spagnoli, poi sotto gli Asburgo, quindi era stato incorporato nell’impero francese e dopo la restaurazione accorpato ai Paesi Bassi. Si rese infine regno autonomo dopo una rivoluzione poco cruenta nel 1830. Tutto questo non aveva però impedito di sviluppare l’industria sul modello inglese, il che mostra quanto forte è il radicamento regionale del meccanismo di sviluppo: il Belgio è appartenuto a diverse «nazioni», da cui non ha assunto né direttive né incentivi, continuando in contesti politici diversi, ma per fortuna non soffocanti, a coltivare autonomamente i propri interessi economici. Prima fu il turno della lana, impiantata a Verviers a partire dall’inizio del Settecento da una famiglia originaria della Savoia; poi vennero le miniere, specie quelle di carbone, equipaggiate con caldaie a vapore da numerosi imprenditori; quindi fu la volta delle macchine filatrici, introdotte da William Cockerill, un meccanico originario di Leeds, che in seguito costruì una grande fabbrica metalmeccanica nei pressi di Liegi (nel 1830 era la più grande impresa belga) imitato da altri imprenditori. L’industria cotoniera si localizzò nei dintorni di Gand già alla fine del Settecento e nel 1810 dava lavoro a diecimila operai; la meccanizzazione venne estesa al lino, tradizionalmente lavorato a mano in Belgio. Sorsero poi zuccherifici, vetrerie, cantieri navali, quindi fabbriche di materiale ferroviario e tranviario; in seguito, si sviluppò anche l’industria chimica a partire da una grande innovazione nella produzione di carbonato sodico introdotta nel 1862 da quel Solvay, che sarà in grado di mettere in piedi una delle prime e più importanti multinazionali belghe, tuttora attiva. A rafforzare e coordinare questa intensa attività imprenditoriale vennero create banche che rivelarono ben presto un notevole dinamismo. Nel 1822 venne fondata a Bruxelles con l’appoggio del re Guglielmo I come società per azioni la Société générale pour favoriser l’industrie nationale des Pays Bas, nota dopo il 1830 come Société générale de Belgique, una particolare banca di investimento, che non solo deteneva pacchetti azionari di imprese industriali, ma le creava in prima

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L’INDUSTRIALIZZAZIONE DELL’EUROPA CENTRALE Qui si presentano alcuni casi-paese, da un lato senza la pretesa di esaurire tutte le diversità

europee e dall’altro con l’obiettivo di mantenere vivo un filo interpretativo basato sulle concettualizzazioni relative all’industrializzazione inglese. La trama fattuale, quindi, non sarà molto dettagliata, solo quel tanto necessario per avere un’idea dei principali sviluppi e poter collocare il caso trattato in un contesto comparativo. In questo capitolo, tratteremo i tre principali casi di successo, con una particolare attenzione a notare differenze e somiglianze con il modello inglese. Il periodo considerato si ferma alla vigilia della prima guerra mondiale. La Grande Guerra fu un caso evidente di differenziale della contemporaneità, che andò ad interferire pesantemente con gli sviluppi di tutte le economie che vi parteciparono, e anche, seppur in minor misura, con, quelle che non vi parteciparono, per cui, pur nella diversità degli stadi di sviluppo raggiunti, tutti i paesi dovettero reagire alla guerra, generando una catena di reazioni che si studiano più agevolmente come «effetti» della prima guerra mondiale. Tale guerra diventa, quindi, un evento periodizzante.

1. Belgio Incominceremo col Belgio, che era il paese con una dotazione di risorse più simile

all’Inghilterra, con una lunga tradizione marittima (soprattutto il porto di Anversa), commerciale e manifatturiera preindustriale (nelle Fiandre) e una significativa migrazione di imprenditori, parti-colarmente dalla Gran Bretagna. Si tratta di un piccolo paese (7,7 milioni di abitanti nel 1913) che consiste in pratica di due sole regioni: le Fiandre (di lingua olandese) e la Vallonia (di lingua francese), unite dalla capitale Bruxelles. Il Belgio aveva attraversato difficili sconvolgimenti politici, prima sotto gli spagnoli, poi sotto gli Asburgo, quindi era stato incorporato nell’impero francese e dopo la restaurazione accorpato ai Paesi Bassi. Si rese infine regno autonomo dopo una rivoluzione poco cruenta nel 1830. Tutto questo non aveva però impedito di sviluppare l’industria sul modello inglese, il che mostra quanto forte è il radicamento regionale del meccanismo di sviluppo: il Belgio è appartenuto a diverse «nazioni», da cui non ha assunto né direttive né incentivi, continuando in contesti politici diversi, ma per fortuna non soffocanti, a coltivare autonomamente i propri interessi economici.

Prima fu il turno della lana, impiantata a Verviers a partire dall’inizio del Settecento da una famiglia originaria della Savoia; poi vennero le miniere, specie quelle di carbone, equipaggiate con caldaie a vapore da numerosi imprenditori; quindi fu la volta delle macchine filatrici, introdotte da William Cockerill, un meccanico originario di Leeds, che in seguito costruì una grande fabbrica metalmeccanica nei pressi di Liegi (nel 1830 era la più grande impresa belga) imitato da altri imprenditori. L’industria cotoniera si localizzò nei dintorni di Gand già alla fine del Settecento e nel 1810 dava lavoro a diecimila operai; la meccanizzazione venne estesa al lino, tradizionalmente lavorato a mano in Belgio. Sorsero poi zuccherifici, vetrerie, cantieri navali, quindi fabbriche di materiale ferroviario e tranviario; in seguito, si sviluppò anche l’industria chimica a partire da una grande innovazione nella produzione di carbonato sodico introdotta nel 1862 da quel Solvay, che sarà in grado di mettere in piedi una delle prime e più importanti multinazionali belghe, tuttora attiva.

A rafforzare e coordinare questa intensa attività imprenditoriale vennero create banche che rivelarono ben presto un notevole dinamismo. Nel 1822 venne fondata a Bruxelles con l’appoggio del re Guglielmo I come società per azioni la Société générale pour favoriser l’industrie nationale des Pays Bas, nota dopo il 1830 come Société générale de Belgique, una particolare banca di investimento, che non solo deteneva pacchetti azionari di imprese industriali, ma le creava in prima

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persona e ne seguiva da vicino gli interessi, configurandosi come l’antenata presente in Gran Bretagna. TAB. Tassi di crescita annui del PIL pro capite

1820-1870 1870-1913 1913-1950 1950-1973 1973-1992 Austriaa Belgio Francia Germaniab Italia Gran Bretagna Spagna Russiac Stati Uniti Giappone

0,7 1,4 0,8 1,1 0,6 1,2 0,5 0,6 1,3 0,1

1,5 1,0 1,5 1,6 1,3 1,0 1,2 0,9 1,8 1,4

0,2 0,7 1,1 0,3 0,8 0,8 0,2 1,8 1,6 (),9

4,9 3,5 4,0 5,0 5,0 2,5 5,8 3,4 2,4 8,0

2,2 1,9 1,7 2,1 2,4 1,4 1,9 -1,4 1,4 3,0

a Confini attuali. b Confini della Germania Federale. c Confini dell’Unione Sovietica del 1990. Fonte: A. Maddison, Monitoring the world economy, Paris, OECD, 1995. TAB. Livelli di reddito pro capite

Gran Bretagna = 100 Stati Uniti = 100

1820 1870 1913 1950 1973 1992 Austriaa Belgio Francia Germaniab Italia Gran Bretagna Spagna Russiac Stati Uniti Giappone

74 74 69 63 62 100 61 43 73 40

57 81 57 59 45 100 42 31 75 23

69 82 69 76 50 100 45 30 105 27

39 56 55 45 36 72 25 30 100 20

68 72 78 79 63 72 53 36 100 66

77 76 80 85 73 73 56 21d 100 86

a Confini attuali. b Confini della Germania Federale. c Confini dell’Unione Sovietica del 1990. d Dato 1992. Fonte: A. Maddison, Monitoring the world economy, Paris, OFCD, 1995.

Tale fu il successo di questa «banca» che nel 1835 ne venne creata delle moderne holding finanziarie e dando al Belgio un originale strumento finanziario non un’altra simile, la Banque de Belgique, che in meno di quattro anni fondò o rilevò ventiquattro imprese industriali, alcune di notevole dimensione. Inoltre, dopo l’indipendenza, il nuovo governo finanziò la costruzione di un’estesa rete ferroviaria, che diede altro lavoro alle industrie metalmeccaniche e del carbone. Fu così che nel 1840 il Belgio era sicuramente il paese più industrializzato del continente e tale rimase in termini relativi almeno fino alla prima guerra mondiale, come mostrano le tabelle.

Queste, da qui in poi, serviranno ad apprezzare i risultati delle trasformazioni delle varie economie in termini di aumento del reddito pro capite nei vari periodi e di livelli relativi raggiunti

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(sono stati riportati anche i periodi successivi al 1913, sui quali ci soffermeremo in seguito, per offrire subito una prospettiva di lungo periodo). Si noti che nella tabella i livelli sono stati riferiti prima alla Gran Bretagna, fino al 1913, poi agli Stati Uniti che avevano sostituito la Gran Bretagna come paese leader. Inoltre, la banca dati qui utilizzata è quella di Maddison, che è quella comparativamente più accurata dal punto di vista del materiale documentario utilizzato e anche più corretta statisticamente, basata com’è sulla conversione del reddito espresso nella moneta di ciascun paese in dollari internazionali o a parità di potere d’acquisto e non ai tassi di cambio di mercato.

2. Francia

Se il Belgio si configura, pur con qualche originalità propria, come un’estensione del modello inglese al continente, la Francia presenta, invece, già una sua forte differenziazione da tale modello. Proprio queste differenze della Francia in tiri periodo in cui ancora si consideravano aberrazioni le devianze dal modello inglese hanno prodotto una visione negativa dello sviluppo francese, considerato a lungo dalla storiografia lento e ritardato anche perché non studiato direttamente da Gerschenkron, che aveva preferito interessarsi della Germania, della Russia e persino dell’Italia.

È solo con il volume di O’Brien e Keyder che incomincia alla fine degli anni Settanta una revisione di questa tradizionale visione, che conta ormai tanti altri importanti lavori ed è riuscita a reinserire la Francia fra i casi di industrializzazione di successo, sia pur sui generis.

Innanzitutto esiste una interessante questione storiografica che potremmo definire come segue: perché la Francia non fu prima nell’industrializzarsi? Nel Settecento, infatti, la Francia era un paese assai più popoloso della Gran Bretagna, con un mercato interno grande e unificato già dal medioevo, un’agricoltura generalmente prospera, anche se non così dinamica come quella inglese, e con una zona mediterranea assai più povera e istituzionalmente arretrata, una buona tradizione di manifatture preindustriali, una crescita economica nel Settecento comparabile a quella inglese. C’è chi è arrivato fino ad ammettere che la Francia aveva tutti i prerequisiti per industrializzarsi se non prima almeno contemporaneamente alla Gran Bretagna. Ma non ritengo che sia così: i livelli di diffusione della cultura erano più bassi, la distribuzione del reddito più polarizzata, l’aristocrazia meno orientata agli affari, soprattutto perché la monarchia era più assoluta di quella inglese. Non è molto noto che gli inizi della rivoluzione francese furono determinati proprio da un forte contrasto fra monarchia e borghesia sulla questione di chi avesse la responsabilità ultima di introdurre nuove tasse, una questione che gli inglesi avevano definitivamente risolto a favore del parlamento un secolo prima. La rivoluzione francese, poi, con i suoi estremismi e infine la salita al potere di Napoleone, trascinò la Francia in un conflitto permanente per 25 anni (1790-1815) che, se stimolò certe industrie, tagliò però fuori la Francia dalle innovazioni inglesi e distorse l’uso delle risorse.

Quanto detto sopra chiarisce dunque perché la Francia non fu prima; in sostanza, furono proprio i fattori istituzionali a rivelarsi meno favorevoli rispetto alla Gran Bretagna, anche se di certo la Francia non poteva contare su miniere di carbone altrettanto abbondanti, superficiali e di buona qualità come la Gran Bretagna. All’indomani della restaurazione, la Francia si scopriva in ritardo rispetto alla Gran Bretagna, senza quell’egemonia sul continente europeo per la quale aveva a lungo lottato e con una proiezione incomparabilmente minore di quella inglese sul piano del com-mercio mondiale. Ciò probabilmente rafforzò l’attaccamento alla terra da parte dei francesi, che nel 1851 avevano ancora il 64% della popolazione attiva in agricoltura, a fronte del 22% in Gran Bretagna, e fu alla base del lento sviluppo demografico francese dell’Ottocento, dovuto probabilmente in gran parte al tentativo delle famiglie agricole di contenere lo spezzettamento della terra facendo pochi figli.

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Ma uno sviluppo industriale ci fu e, se calcolato pro capite per scontare l’effetto della lenta crescita demografica, fu di tutto rispetto, perché permise alla Francia di tener dietro allo sviluppo della Gran Bretagna, ma con un andamento ciclico senza periodi di particolare accelerazione che possano essere identificati come un decollo reso più rapido dai «vantaggi dell’arretratezza» e capace di permettere alla Francia l’aggancio con la Gran Bretagna. Si mantennero molto importanti la tradizionale industria dei tessuti di seta, localizzata particolarmente a Lione, e quella della moda, in cui la Francia era leader; crebbe l’industria meccanizzata del cotone (che nel decennio 1840 consumava circa 60.000 tonnellate di cotone grezzo, a fronte delle oltre 240.000 inglesi); si impiantò la moderna industria siderurgica, di cui il complesso di Le Creusot, aperto nel 1785 con l’aiuto finanziario di Luigi XVI, fu il più famoso. Le raffinerie di zucchero erano già oltre 100 nel 1827, mentre veniva introdotta l’illuminazione a gas, e le industrie del vetro, della ceramica, della carta e della gomma si modernizzavano. Poi iniziò l’epoca delle ferrovie, quindi quella dell’elettricità e dell’automobile, automobile, che vide la Francia in prima linea, come leader in Europa con le sue famose case automobilistiche: Panhard (1885), Peugeot (1895), Renault (1898), le quali tuttavia non seppero volgersi alla produzione di massa se non più tardi, come imitatrici degli Stati Uniti. Particolarmente prospera fu la belle époque, il periodo immediatamente precedente la prima guerra mondiale, che vide l’immagine della Francia sempre più proiettata su una dimensione internazionale.

L’industria francese era dunque molto più diversificata di quella inglese, più dispersa nelle campagne, quando non era localizzata nei dintorni di Parigi, di dimensioni generalmente più ridotte, perché spesso impegnata in lavorazioni di carattere ancora molto più artigianale, ad alto valore aggiunto, per consumatori di elevato potere d’acquisto, ancora più della Gran Bretagna volta verso la produzione di beni di consumo e largamente finanziata dagli stessi proprietari mediante il reinvestimento dei profitti. La Haute banque parisienne, fra cui si segnalava particolarmente la De Rothschild, finanziava principalmente il commercio e gli investimenti internazionali (particolar-mente i prestiti pubblici, che formavano il 78% degli investimenti esteri della Francia nel 1850 e il 52% nel 1880). Fu solo durante il secondo impero che Napoleone incentivò la creazione di nuovi istituti finanziari, il più famoso dei quali, la Société générale de Crédit mobilier, nota come Crédit mobilier, venne fondato nel 1852 dai fratelli Pereire (che erano stati dipendenti dei Rothschild). Il Crédit mobilier avrebbe dovuto funzionare come i grandi istituti belgi, ma il diverso contesto economico non ne permise la completa affermazione, fino al suo fallimento nel 1867. In seguito fu fondata la Banque de Paris et des Pays Bas (1872, nota come PARIBAS) e altre banche d’affari, ma l’importanza della banca a scopi di finanziamento dell’industria francese non fu mai grande.

TAB. Chilometraggio delle ferrovie in servizio 1870 1913 Belgio Francia Germania Italia Gran Bretagna Spagna Impero Asburgico Russia Stati Uniti Giappone

2.897 15.544 18.876 6.429 21.500 5.295 6.112 10.731 85.170 0

4.676 40.770 63.378 18.873 32.623 15.088 44.800 70.156 40.197 10.570

Fonti: B.R. Mitchell, European Historical Statistics, London, Macmillan, 1992; Id., International Historical Statistics: Africa and Asia, London, Macmillan, 1982; Id., International Historical Statistics: The Americas and Australasia, London, Macmillan, 1983.

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Lo Stato fu assai meno interventista che non nel periodo prerivoluzionario, limitandosi ad

appoggiare la costruzione di infrastrutture (specialmente le ferrovie), a mantenere un certo protezionismo (argomento sul quale torneremo più avanti, in chiave comparativa) e a sostenere una serie di importanti scuole superiori tecnico-professionali. La capostipite era stata la scuola per ingegneri civili, l’École des ponts et chaussées (1747). Durante il periodo rivoluzionario venne fondata l’École des mines e la più famosa École polytechnique (1794), in seguito il Conservatoire des arts et métiers e l’ École normale superieure (1798); nel 1828 si creò l’École centrale des arts et manufactures. Il colonialismo francese fu assai meno significativo dal punto di vista economico di quello inglese.

3. Germania Contrariamente alla Francia, che aveva prestissimo formato uno stato nazionale, la Germania

conservò a lungo le proprie tradizioni localistiche, restando nel Settecento frammentata in una pluralità di staterelli (oltre 400), fra cui uno solo si stagliava per dimensione e potenza, la Prussia degli Hohenzollern, una dinastia arrivata al potere nel XV secolo in Brandeburgo e ingranditasi per via ereditaria, che aveva attivato una macchina statale efficiente e un potente esercito, ma non era riuscita a modernizzare l’economia. Anche dopo il periodo napoleonico, che aveva visto l’abolizione della servitù della gleba (1807), l’eliminazione delle corporazioni e la liberalizzazione della terra, e dopo che il congresso di Vienna aveva semplificato la geografia politica della Germania in 39 stati, l’area non decollava, a dispetto della notevole disponibilità di bacini car-boniferi, particolarmente nella Ruhr.

Fu ancora la Prussia nel 1818 ad iniziare, abbassando e semplificando i dazi, quell’apertura agli scambi internazionali che l’avrebbe posta al centro di un processo di aggregazione degli altri stati in un’unione doganale (Zollverein), definitivamente introdotta nel 1833, che aboliva i dazi interni e adottava i moderati dazi esterni della Prussia. Si trattava di un risultato importante, che rivelò subito tutto il suo impatto strategico con un primo periodo di espansione nel periodo 1840-50; fu comunque dopo l’unificazione avvenuta nel 1871 che la Germania ebbe il suo vero e proprio decollo, rapido e sostenuto.

Per capire le caratteristiche distintive del caso tedesco, occorre subito notare che il decollo tedesco si colloca a cavallo tra l’epoca delle ferrovie (e delle grandi acciaierie) e la seconda rivoluzione industriale, basata su elettricità, chimica organica e motore a scoppio. Si tratta di settori ad alta intensità di tal capitale, che richiedono imprese di notevoli dimensioni e flussi di finanziamento che eccedono le capacità di singole famiglie. La Germania riuscì, come vedremo, a sfruttare al massimo le potenzialità dei nuovi settori industriali, diventando il più grande produttore europeo di acciaio e leader in Europa e nel mondo nell’elettricità e nella chimica, dotandosi di numerose banche costituite in società per azioni (Kreditbanken), che finanziarono ampiamente le nuove iniziative industriali. La prima di queste banche — la Schaaffhausen’schen Bankverein di Colonia del 1848 — non diventò particolarmente famosa, come invece le successive Disconto Gesellschaft di Berlino (1851), Darmstaedter (1853), Berliner Handelsgesellschaft (1856), ma soprattutto la Deutsche Bank (1870) e la Dresdner Bank (1882).

Si tratta di banche con modalità di funzionamento del tutto innovative rispetto a quelle di tipo anglosassone. Esse, infatti, erano al contempo normali banche commerciali, che raccoglievano i depositi da una vasta clientela e davano credito a breve termine, e banche d’investimento, che incanalavano verso il credito a lungo termine non solo i propri capitali, ma anche parte dei depositi dei loro clienti, superando la specializzazione del credito di stampo anglosassone. Per questo motivo venivano chiamate banche miste. Venivano anche chiamate banche universali, non solo perché non erano specializzate, ma anche perché offrivano alle imprese loro clienti numerosi altri servizi, come collocamento di azioni, operazioni di ristrutturazione del capitale, interventi di

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salvataggio, cosicché si diceva che assistessero le imprese «dalla culla alla bara». Queste banche divennero molto potenti in Germania, così che già all’inizio del Novecento si

parlava di un loro predominio. Esse spesso possedevano qualche pacchetto azionario di imprese, soprattutto allo scopo di piazzare qualche loro uomo nei consigli di amministrazione di tali imprese per poterne seguire l’andamento da vicino, ma in generale evitavano di diventare azionisti di riferimento (la banca mista non è e non vuole normalmente diventare una holding alla belga, che dirige le imprese ed è legata solo ad esse). Poiché ogni singola banca sedeva in più consigli di amministrazione, si trovava a possedere informazioni di prima mano su complessi industriali, a volte su interi settori, favorendo, anche per abbassare i propri rischi, forme di protezione del mercato interno e di organizzazione della produzione come i cartelli, di cui se ne contavano nel 1914 quasi mille, e un moderato protezionismo esterno, che poteva essere rafforzato dal dumping. Ancora, per far fronte a crisi temporanee necessitavano di una banca centrale molto più interventista della Bank of England o della Banque de France e così infatti si comportò la Reichsbank. In generale, dunque, il tipo di sistema economico che emerse da questa innovazione istituzionale della banca mista è un sistema molto più coeso e coordinato ex ante, che Chandler ha definito «cooperativo» e gli studiosi tedeschi preferiscono definire «organizzato», molto diverso dal sistema quasi-concorrenziale, con imprese di piccole dimensioni, tipico della Gran Bretagna e anche dal sistema americano.

L’importanza della banca mista venne per primo segnalata da Gerschenkron, che ne fece il suo esempio preferito di fattore sostitutivo (che sostituiva, cioè, la finanza familiare o le merchant banks inglesi). Da allora, la letteratura sul ruolo della banca mista è stata abbondante, con controversie ancora aperte sul grado di coinvolgimento diretto della banca mista negli affari delle imprese affidate, in funzione di controllo e/o indirizzo, ma soprattutto sulla validità comparativa di un sistema economico basato sulla banca mista rispetto al modello anglosassone basato sulla borsa.

TAB. Indicatori comparativi di produzione attorno al 1911 Popolazione

(milioni) Acciaio prodotto

(milioni di tonnellate)

Energia elettrica prodotta (miliardi

di kWha)

Acido solforico (migliaia di tonnellate)

Gran Bretagna Francial Germania Irripero Asburgico Italia Russia Stati Uniti Giappone

41 39 65 65 35

122d 98 52

758 4,7 17,6 2,6 0,9 43

30,0 -

3,0 2,1 8,8 1,() 2,2 2,0 43,4 1,5

1.082b 900b 1.500 350 596 275

2.500a -

a Dato 1914. b Dato 1913. c Escluse Alsazia e Lorena. d Con le province asiatiche 165. Fonti: B.R. Mitchell, European Historical Statistics, London, Macinillan, 1992; Id., International Historical Statistics: Africa and Asia, London, Macmillan, 1982; Id., International Historical Statistics: The Americas and Ausiralasia, Lon-don, Macmillan, 1983.

Il successo del sistema tedesco è evidenziato chiaramente dai dati della tabella. Acciaio, elettricità e chimica, oltre a una buona industria delle macchine, furono i settori portanti dell’industria tedesca. Nella chimica, nacquero le tre famose imprese Bayer, Basf e Hoechst, che impiantarono con sistematicità la carbochimica, ossia quella catena di lavorazione del carbone che produceva intermedi da cui potevano derivare tutti i coloranti artificiali, una quantità sorprendente di farmaceutici (fra cui la famosa aspirina, brevettata dalla Bayer nel 1899) e gli esplosivi. All’alba della prima guerra mondiale, la Germania deteneva i tre quarti di tutte le esportazioni chimiche del

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mondo e non aveva rivali, nemmeno negli Stati Uniti (che furono in seguito più solerti nello sviluppo della petrolchimica). Nell’elettricità, le due grandi imprese Siemens e AEG investirono in tutta Europa e rivaleggiarono a livello mondiale con le due grandi imprese americane General Electric e Westinghouse, mentre nell’acciaio i nomi di Krupp e Thyssen diventarono mitici.

Si trattava di imprese di grandi proporzioni, tutte collocate in quella che è stata definita «l’industria pesante», che può facilmente essere convertita in industria di guerra, il che favori la politica nazionalistica degli Hohenzollern che poterono pensare di guadagnarsi con le armi l’egemo-

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nia in Europa fino a portare la Germania alla prima guerra mondiale. La base scientifica della tecnologia utilizzata in queste imprese era più avanzata di quella necessaria nelle imprese tessili e meccaniche della prima rivoluzione industriale e questo richiedeva un maggiore sforzo di ricerca e di diffusione dell’istruzione secondaria e superiore. La Germania si dotò di un efficiente sistema pubblico di scuole tecniche secondarie e di politecnici a livello superiore, producendo un notevole numero di ingegneri, che acquisirono un’importante posizione sociale. Inoltre, i laboratori di ricerca delle università e delle grandi imprese si scambiavano tecnici di alto livello, in un’osmosi inedita, imitata solo su larga scala dagli Stati Uniti. Gran parte delle imprese industriali stavano nell’ovest della Germania, mentre l’est restava più agrario, con un’agricoltura di tipo estensivo non troppo avanzata, generando un dualismo est-ovest, che segnò il destino del paese fino ad oggi. Questo fatto è responsabile del livello non troppo elevato raggiunto dal reddito pro capite medio del paese nel 1913 (76% della Gran Bretagna, solo di poco superiore al risultato francese – 69% –) ed è una con-ferma della validità dell’approccio regionale di Pollard: in realtà, la Germania come nazione ospitava aree molto avanzate, più avanzate di corrispondenti aree inglesi, ma anche aree molto arretrate, che abbassavano notevolmente i dati medi nazionali.

Resta da trattare un ultimo aspetto. La Germania fu la prima nazione europea a introdurre un sistema di previdenza sociale gestita dallo stato e generalizzata a tutti i lavoratori già con Bismarck negli anni Ottanta dell’Ottocento. Tra 1883 e 1889 vennero introdotte assicurazioni obbligatorie gestite sotto il controllo pubblico contro gli infortuni sul lavoro, l’invalidità e la vecchiaia, allo scopo di garantire pace sociale e di tenere a bada il sindacato, permettendo l’ordinato svolgimento dell’industrializzazione. La Germania era il primo paese al mondo che realizzava una copertura assicurativa così generalizzata, anche se non universale, perché basata sul rapporto di lavoro e non sui diritti di cittadinanza.

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LA PARZIALE MODERNIZZAZIONE DELLA PERIFERI A Abbiamo visto che, ad eccezione del piccolo Belgio, anche due nazioni di successo nel

processo di imitazione della Gran Bretagna come Francia e Germania non furono in grado di coinvolgere nella modernizzazione tutto il loro tessuto economico, anche se le loro aree arretrate erano nel complesso minoritarie. Ebbene, quello che succede in nazioni meno «centrali» e meno «vicine» (in tutti i sensi: geografico, culturale, istituzionale) alla Gran Bretagna è che solo una minoranza delle loro regioni decolla, così che come nazioni esse restano molto meno trasformate industrialmente di Francia e Germania, pur non essendo interamente tagliate fuori dal processo di imitazione della Gran Bretagna. Le particolari modalità con cui questa parziale modernizzazione si verifica in quattro di tali nazioni sono oggetto di queste prossime pagine.

I. Impero Asburgico L’impero Asburgico si era costruito nel tempo, aggregando per periodi più o meno lunghi

attorno alla piccola Austria che ospitava la capitale Vienna i territori più diversi. Nell’Ottocento, riuniva undici diverse nazionalità, con le rispettive lingue. Il territorio non era molto favorevole dal punto di vista agricolo, poiché i due terzi erano formati da montagne e colline; l’unico sbocco al mare era nell’Adriatico, con il porto di Trieste; le dotazioni di carbone erano poco abbondanti e infelicemente localizzate. Come entità politica (è in realtà impossibile chiamarla «nazione») era importante e potente e nel Settecento era stata anche relativamente avanzata, ma successivamente non riuscì a tenere il passo, anche se la visione interamente negativa della sua performance nel-l’Ottocento è stata ampiamente rivista. Innanzitutto, va detto che l’impero ritardò molto l’abolizione della servitù della gleba, che avvenne solo dopo la rivoluzione del 1848, e anche l’abolizione dei dazi interni si fece attendere fino al 1850, quando venne instaurata un’unione doganale sul modello dello Zollverein. Un altro elemento negativo fu la sua politica protezionistica, che la tagliò fuori dal commercio internazionale (si pensi che agli inizi del Novecento, il piccolo Belgio aveva un commercio internazionale più grande di quello dell’intero impero); per di più quel poco commercio che c’era era fortemente concentrato, attorno alla metà del totale, con la Germania. Ancora, la politica di accentramento amministrativo venne temperata solo dall’autonomia concessa all’Ungheria nel 1867.

Dal punto di vista settoriale, lo sviluppo industriale che si realizzò privilegiò l’industria leggera – alimentare (specialmente in Ungheria), tessile (lana e cotone), vetro, carta – ma si svilupparono anche l’industria metalmeccanica, le ferrovie, l’industria elettrica, tuttavia con risultati comparativamente insoddisfacenti. Il sistema finanziario imitò quello tedesco, con la creazione di numerose banche miste, di cui le più famose furono il Creditanstalt (1855) e la Wiener Bankverein. Alla vigilia della prima guerra mondiale, le due banche viennesi detenevano interessi di controllo sul 43% del capitale azionario totale dell’impero. Il Creditanstalt, che è sempre stata la banca più importante, aveva interessi nei settori degli armamenti, dell’acciaio, della meccanica (fra cui l’im-presa automobilistica ceca Skoda), del petrolio, dello zucchero e di altre industrie alimentari. Anche

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la formazione di cartelli seguì l’esempio tedesco, con quasi 200 cartelli in esistenza alla vigilia della guerra.

In realtà, il problema principale dell’impero agli inizi dell’Ottocento era quello di ospitare

aree con diversissime dotazioni di prerequisiti per lo sviluppo (condizioni dell’agricoltura, diffusione dell’istruzione, infrastrutture) e di non essere riuscito a far fare alle aree più arretrate un salto di qualità. Quindi nella seconda metà dell’Ottocento tutte le aree crebbero, chi un po’ più, come l’Ungheria, chi un po’ meno, come la Bassa Austria ma, essendo partiti da basi diverse e comunque assai più basse di quelle dei paesi europei più avanzati, il risultato alla vigilia della prima guerra mondiale restava complessivamente insoddisfacente. Il livello di reddito pro capite medio dell’impero era infatti simile a quello di Italia e Spagna, anche se nettamente superiore a quello di Russia e Giappone.

Osservando le differenze per area, si nota che vi erano due aree a buon livello di sviluppo – l’Austria e la regione ceca –, mentre anche le regioni italiane erano abbastanza prospere. Seguivano poi Slovacchia, Ungheria e Slovenia a un livello simile a quello di Italia e Spagna, mentre tutto il resto dell’impero, nonostante la crescita nel periodo 1870-1910, si collocava fra le aree più arretrate d’Europa.

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TAB. Indicatori economici delle regioni dell’impero Asburgico che formarono gli stati successori

Livello del reddito pro capite (1910)

Tasso di crescita annuo del reddito

pro capite (1870-1910) Austria= 100 Gran Bretagna= 100 Austria 1,44(0,99) 100 70(57) Repubblica Ceca 1,54 90 63 Slovacchia 1,85 57 40 Ungheria 2,15(1,37) 69 48(34) Italiaa 1,85 80 56 Poloniaa 1,53 42 29 Slovenia 1,62 63 44 Croazia 1,76 43 30 Serbia 1,83 51 36 Ucrainaa 1,56 40 28 Romaniaa 1,85 46 32 Media dell’impero

1,63 (1,13)

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47(40)

a Solo le aree appartenenti all’impero. Nota: La colonna 3 è stata costruita connettendo le stime di Good con quelle di Maddison (si veda la tabella 3.1). In stime successive, questi tassi di crescita sono stati ulteriormente abbassati, fino ad arrivare alla stima di M. Schulze (riportata tra parentesi). Fonti: D.G. Good, The economic lag of Central and Eastern Europe. Income estimates for the Hapsburgh successor states 1870-1910, in «Journal of Economic History», LIV, 4, 1994; A. Maddison, Monitoring the world economy, Paris, OECD, 1995, tab. 3.2.; M. Schulze, Patterns of growth and stagnation in the late 19th Hapsburgh economy, in corso di pubblicazione su «European Review of Economic History», 2000.

Il divario regionale era dunque molto profondo nell’impero. Vedremo che non meno profondo

era in Italia e se disponessimo di stime regionali per la Spagna e la Russia, queste non mancherebbero di rivelare un’analoga realtà di forti squilibri regionali, tipici delle nazioni dove la storia precedente aveva lasciato eredità diversissime da area ad area dal punto di vista delle dotazioni infrastrutturali, dell’elaborazione culturale, della diffusione dell’istruzione e del-l’accumulazione di capitale.

Gerschenkron ha dedicato un volume a un episodio che riteneva significativo della paralisi che caratterizzò la politica economica dell’impero verso la fine della sua esistenza: come fu che agli inizi del Novecento non si riuscì a decidere la costruzione di un canale tra il Danubio e l’Oder che avrebbe molto migliorato i trasporti interni e stemperato i conflitti nazionalisti all’interno dell’impero, raccogliendo un vasto consenso attorno ad un comune programma di sviluppo economico.

Il primo ministro Ernest von Koerber, che fu l’ideatore del progetto, finì col dare le dimissioni nel 1904 per il continuo sabotaggio da parte del ministero delle Finanze. Gerschenkron termina il suo volume sottolineando che l’impostazione economica di Koerber sarebbe stata l’unica capace di imprimere una svolta ai destini dell’impero, ma noti ebbe successo, condannando così l’impero alla dissoluzione.

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2. Russia Alla vigilia della prima guerra mondiale la Russia rimaneva certamente una nazione molto

arretrata, con un reddito pro capite pari a un terzo di quello inglese, con il 75% della forza lavoro ancora impegnata in agricoltura (a fronte del 59% in Italia e 62%, in Giappone), con il 72% di analfabeti (contro il 48% in Italia) e solo il 15% della popolazione insediata in aree urbane. Eppure, un esame mostra che essa vantava più chilometri di ferrovia di qualunque altro paese europeo e pro-duceva tanto acciaio e tanta elettricità quanto la Francia (e il doppio dell’impero Asburgico). Come era dunque possibile? Naturalmente il «segreto» sta nel fatto che la Russia era grandissima e quindi, pur possedendo una base industriale di qualche importanza in valori assoluti, gli effetti in termini relativi e pro capite venivano a dissolversi nel mare di arretratezza in cui venivano annegati. Sarà dunque particolarmente interessante cercare di capire da un lato perché la Russia era rimasta generalmente così arretrata e dall’altro lato dove e da quali incentivi si era sviluppata quell’industria che c’era.

Va subito detto che la Russia, trovandosi all’estremo lembo orientale dell’Europa, aveva subito notevoli influenze dall’assolutismo orientale e solo per iniziativa dall’alto da parte degli zar si aprì a qualche maggiore influenza europea. Tradizionalmente, si fanno risalire a Pietro il Grande (1696-1725) i primi tentativi di importare la tecnologia occidentale, ma senza alcuno sforzo di cambiare le istituzioni del paese in modo che questo potesse evolvere dall’interno verso una modernizzazione della sua struttura economica. La perdita della guerra di Crimea (1855) fece toccare con mano l’arretratezza del paese e lo zar Alessandro Il si decise ad abolire (1861) la servitù della gleba che ormai era rimasta in vigore solamente in Russia. Tuttavia, il modo in cui ciò venne fatto non liberò affatto né la coltivazione della terra né la mobilità dei contadini. Infatti, le decisioni sulla distribuzione delle terre da coltivare e il controllo dei lavori furono demandate alla comunità di villaggio (mir), a cui chi voleva emigrare doveva anche continuare a pagare le imposte e le rate del riscatto. Fu solo nel 1907 che il ministro Stolypin abolì i pagamenti residui del riscatto e permise l’effettiva privatizzazione delle terre. Se questo assetto istituzionale della terra fu a lungo considerato causa del basso livello di produttività agricola in Russia, abbiamo ora una revisione di tale visione negativa dell’agricoltura russa, che mostra che ci fu un discreto aumento della produttività nella seconda metà dell’Ottocento, anche se a partire da livelli molto bassi.

Alessandro II incoraggiò anche la costruzione di ferrovie e la riorganizzazione delle banche. A partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento l’industrializzazione in Russia fece un grande balzo in avanti, crescendo a ritmi rapidissimi particolarmente negli anni Novanta, localizzandosi non solo nell’area di Mosca e di San Pietroburgo, ma anche negli Urali, nell’Ucraina e nelle regioni polacche. Decollò l’industria pesante (carbone e acciaio, macchine) legata alle ferrovie, ma anche agli armamenti; non mancavano del tutto l’industria tessile e alimentare, ma non avevano una grande spinta, vista la (paradossale) ristrettezza del mercato interno per beni di consumo.

La crescita si interruppe all’inizio del XX secolo, poi ci fu la guerra russo-giapponese (1904-05), persa dalla Russia, e la rivoluzione del 1905-06, che furono occasione per l’introduzione di qualche debole riforma in senso meno assolutista: scioperi e sindacati vennero legalizzati con una legislazione però molto restrittiva; venne introdotta la riforma agraria, già sopra citata, ma un vero parlamento non venne concesso e molta parte dell’intellighenzia (l’élite culturale della nazione) si allontanò sempre di più da un’opposizione democratica. Ci fu quindi una certa ripresa successiva, ma alla vigilia della prima guerra mondiale l’economia russa era ben lontana dall’avere trovato un

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suo equilibrato sentiero di crescita autosostenuta e gli imprenditori russi erano ancora pochi, male organizzati e relativamente emarginati dal punto di vista sociale.

Il particolare ruolo dello stato nell’industrializzazione della Russia è stato segnalato con forza da Gerschenkron, che ha visto nel caso russo un altro esempio di fattore sostitutivo dei canali privati di investimento prevalenti in Gran Bretagna. Se in Germania era stata la banca mista a canalizzare capitali verso l’industria, in Russia, paese molto più arretrato della Germania rispetto alla Gran Bretagna, fu lo stato. Lo stato finanziò le ferrovie, introdusse il gold standard per attirare investi-menti stranieri, impose dazi sulle industrie strategiche per incentivare la costruzione di impianti sul territorio nazionale, ordinò armamenti, fu largo di sussidi agli imprenditori, specialmente stranieri. In realtà, il capitale straniero fu strategico, tanto che alla vigilia della guerra esso finanziava metà del debito pubblico russo (in larga parte utilizzato per le ferrovie) e il 40% del capitale di tutte le società per azioni. Per svolgere questo ruolo, lo stato russo tassò redditi già bassi, contribuendo alla ristrettezza della domanda privata, che rendeva ancor più rilevante l’importanza di quella pubblica.

Gerschenkron ritiene che, se non ci fosse stata la partecipazione della Russia alla prima guerra mondiale a destabilizzare la situazione economica del paese, forse si sarebbe vista una lenta evoluzione verso equilibri politici più favorevoli a una crescita autosostenuta e verso un’economia in cui la domanda privata contasse di più. La guerra, invece, si rivelò fatale per i destini del capitalismo russo.

3. Italia Molte delle innovazioni istituzionali che precorsero la rivoluzione industriale tra fine

medioevo e rinascimento furono introdotte in Italia, espressione che aveva allora una valenza meramente geografica, essendo l’area occupata da numerose entità politiche tanto piccole quanto instabili. In realtà l’Italia ospitava attività manifatturiere avanzate per l’epoca ed era molto prospera, come è segnalato anche dall’elevato numero di città che vi si poteva contare, che non trovava confronti nel resto dell’Europa. Un po’ la frammentazione politica e la conflittualità endemica, un po’ l’esagerata insistenza su manifatture di lusso ad alto prezzo, insieme allo spostamento dell’asse dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico produssero un vistoso declino dell’Italia nel Seicento e una sua persistente arretratezza nel Settecento, pur in presenza di un’élite di pensatori ed economisti profondamente legati agli sviluppi del resto dell’Europa. Superati gli anni travagliati delle guerre napoleoniche, l’Italia venne riorganizzata dal congresso di Vienna in sette stati, due dei quali molto piccoli e uno (il Lombardo-Veneto) sotto diretta dominazione austriaca.

Fra questi stati, il solo Regno di Sardegna si rivelò dinamico istituzionalmente (diventò una monarchia costituzionale nel 1848) ed economicamente, con la costruzione di ferrovie, di manifatture (tessili, meccaniche, cantieristiche) e di banche (1849, Banca Nazionale degli Stati Sardi). Con l’ascesa al potere di Cavour, trovò anche l’uomo politico di larghe vedute che seppe tessere alleanze internazionali tali da condurlo a sostenere l’irredentismo degli italiani, che si volevano liberare in primo luogo degli austriaci e poi anche di altri governi non amati perché pervicacemente assolutisti. Come è noto, le trame abilmente tessute da Cavour, accoppiate alla focosità di quell’altro cittadino del Regno Sardo che era Garibaldi, il quale concepì l’idea di «liberare» il Regno delle Due Sicilie dai Borboni, portarono all’unificazione politica del paese, in presenza di profonde differenze di tradizioni culturali, infrastrutture economiche, diffusione dell’istruzione e produttività dell’agricoltura.

I nuovi governi dell’Italia unificata, modernizzarono il paese dal punto di vista istituzionale, introducendo una legislazione commerciale liberista e un fisco allineato ai più avanzati sistemi europei, varando già nel 1859 una fra le più avanzate leggi europee sull’istruzione (la legge Casati) e legando la moneta italiana al gold standard. Quello che non si riuscì a fare fu un’unica banca centrale, perché le banche di emissione di alcuni degli stati preunitari riuscirono a mantenersi in esistenza, benché la Banca Nazionale degli Stati Sardi, ribattezzata Banca Nazionale nel Regno

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d’Italia , fosse chiaramente leader. Tuttavia, il paese stentava a decollare, nonostante il programma di ferrovie lanciato dai primi

governi. Le attività tradizionali, particolarmente la produzione di seta grezza per il mercato internazionale, continuavano; quello che non si vedeva era l’introduzione di nuovi settori in-dustriali. Va detto che l’Italia era completamente priva di carbone e aveva poco ferro; il debito pubblico era elevato, per le cattive condizioni delle finanze degli stati preunitari, le molte guerre e il tempo occorso a mandare a regime il nuovo sistema fiscale; non mancavano le banche (casse di risparmio, banche cooperative, monti di pietà), ma poche erano quelle costituite in società per azioni che avessero come obiettivo il finanziamento industriale. Fra queste, le più importanti erano due banche d’affari alla francese, il Credito Mobiliare (1863) e la Banca Generale (1870). Gli affari si ravvivarono un po’ all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, anche per iniziativa dello stato, che si occupò di rimodernare la Marina italiana, finanziò nel 1884 la creazione della prima importante acciaieria italiana, la Terni, e reintrodusse un po’ di protezionismo nel 1887. Ma una vasta speculazione edilizia precipitò verso la fine del decennio il sistema bancario in una pesante crisi, che vide il fallimento del Credito Mobiliare e della Banca Generale, la liquidazione della Banca Romana e la fusione di altre due piccole banche di emissione nella Banca Nazionale, che, nel 1893, venne ribattezzata Banca d’Italia ( e continuò a condividere il potere di emettere banconote con altri due istituti (il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia) di minore importanza.

La ristrutturazione del sistema finanziario italiano continuò con la fondazione di banche miste alla tedesca: la prima fu la Banca Commerciale Italiana (nota come COMIT, 1894), poi il Credito Italiano (noto come CREDIT, 1895), mentre un istituto romano sorto nel 1880, il Banco di Roma, verso la fine del secolo si convertì a pratiche di banca mista. Nel 1898, fu ristrutturata un’altra banca milanese in Società Bancaria Italiana (SBI).

Fu proprio dopo il 1895 che iniziò la fase di decollo industriale dell’Italia, proseguita fino alla prima guerra mondiale. Tutti i settori industriali decollarono, ad eccezione della chimica (solo i fertilizzanti fosfatici), con particolare successo per quello elettrico, che aveva affrancato parzialmente l’Italia dalla dipendenza dal carbone (alla vigilia della prima guerra mondiale l’Italia produceva tanta elettricità quanto la Francia e la Russia, e il doppio dell’impero Asburgico; si trattava per lo più di idroelettricità), quello meccanico (la Fiat venne fondata nel 1899), quello della gomma (la Pirelli, fondata nel 1872, divenne presto la prima multinazionale italiana). Al termine di questo periodo, però, l’Italia appariva dai dati aggregati ancora piuttosto arretrata avendo raggiunto solo il 50% del reddito pro capite della Gran Bretagna, un traguardo simile a quello medio dell’impero Asburgico.

Una spiegazione di questo «insoddisfacente» risultato venne offerta da Gerschenkron, che ebbe il merito di rilanciare il dibattito sull’economia dell’Italia contemporanea in un periodo — fine anni Cinquanta/primi anni Sessanta — in cui gli storici economici italiani erano prevalentemente occupati in studi sul medioevo e l’età moderna. Gerschenkron ritenne che le politiche economiche dei governi italiani (particolarmente il protezionismo mal concepito e la fretta nella costruzione delle ferrovie) avessero impedito di sfruttare appieno i «vantaggi dell’arretratezza» e che né lo stato né il sistema bancario furono in grado di offrire potenti fattori sostitutivi come in Russia e in Germania. Seguì un dibattito, non molto affollato, per la verità, in cui si riconosceva del vero in quanto sostenuto da Gerschenkron.

Ma la base statistica sulla quale le considerazioni di Gerschenkron si fondavano mostrava evidenti difetti, ai quali ancor oggi si sta cercando di porre rimedio, il che rinvia al futuro una più definitiva interpretazione del periodo.

Inoltre, è un fatto che anche l’Italia soffriva, come già sopra si anticipava, di profondi squilibri regionali solo un po’ meno forti di quelli dell’impero Asburgico. In realtà, solo tre erano le regioni dove il decollo industriale era pienamente avvenuto (Piemonte-Liguria-Lombardia, note come triangolo industriale); vi erano poi altre regioni che si erano messe in movimento, ma ancora assai parzialmente, mentre l’intero sud del paese era rimasto quasi immobile, a tal punto da attirare ai primi del Novecento una serie di leggi speciali di intervento (di particolare importanza la legge

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per Napoli del 1904, che tentò di incentivare qualche attività industriale nell’area), senza, tuttavia, apprezzabili miglioramenti.

4. Spagna Anche la Spagna aveva goduto di un periodo di splendore nel Cinquecento, sebbene assai

diverso da quello italiano, ma un insieme di politiche mal concepite non le permise di consolidare né il suo primato politico, né la sua struttura economica, così che successivamente declinò, fino a perdere le sue colonie ai primi dell’Ottocento (1824) e a trascinare una travagliata esistenza tra inflazione e disavanzi cronici del bilancio pubblico. L’agricoltura era in generale arretrata, anche per le condizioni climatiche e del suolo, benché non mancassero prodotti per l’esportazione, come lo sherry (Andalusia), mentre l’istruzione era gravemente carente. In questo panorama non certo esaltante, si fecero strada due regioni dinamiche, la Catalogna e i Paesi Baschi, oltre naturalmente alla capitale Madrid. La prima sviluppò a partire già dalla fine del Settecento l’industria del cotone e, più tardi, quella meccanica, dei mezzi di trasporto, elettrica e dei servizi pubblici. La seconda a partire dalla fine dell’Ottocento impiantò un’industria siderurgica, sfruttando le importanti miniere di ferro della zona, che prima lavoravano per l’esportazione del minerale grezzo.

Per effetto della passata ricchezza, la Spagna nella prima metà del XIX secolo manteneva comunque un livello di reddito simile a quello dell’Italia, attorno al 60%, circa del reddito pro capite inglese. Durante l’Ottocento ambedue le nazioni vennero distanziate dalla migliore performance della Gran Bretagna, ma l’Italia, come sopra si diceva, ebbe un decollo, sia pur geo-graficamente limitato, tra fine Ottocento e prima guerra mondiale. Altrettanto non si può dire della Spagna, che non ebbe una buona performance relativa in tale periodo, anche se la crescita continuò. Alcuni sostengono che ciò fosse dovuto al protezionismo troppo elevato esistente in Spagna, particolarmente dopo gli aumenti daziari del 1906; altri al non avere aderito al gold standard. In seguito, la crescita spagnola continuò negli anni Venti a un buon ritmo, non fu disturbata gravemente dalla Grande Crisi, ma accusò una battuta d’arresto molto pesante con la guerra civile del 1936 e i primi due decenni di forsennata autarchia da parte del nuovo regime franchista. Furono questi i veri motivi per cui la Spagna accumulò un notevole ritardo rispetto all’Italia.

IL DECLINO INGLESE E L’EMERGERE DI TEMIBILI COMPETI TORI FUORI DELL’EUROPA: STATI UNITI E GIAPPONE

Di seguito presenteremo i due casi di industrializzazione extraeuropea di maggior successo,

uno dei quali, quello degli Stati Uniti, non può mancare in un volume sull’Europa, essendo in moltissimi modi connesso alla storia europea fin dalle origini: l’emigrazione dall’Europa lo ha creato e profondamente caratterizzato; i legami con l’Europa sono sempre stati molto stretti, non solo dal punto di vista economico, ma anche militare e politico. Il secondo caso, invece, il Giappone, viene esposto per mostrare quanto grande è stata l’influenza dell’Europa anche in un luogo così distante geograficamente e culturalmente. Inoltre, poiché dopo la seconda guerra mondiale tre sono state le grandi potenze mondiali – Stati Uniti, Europa e Giappone – è anche importante conoscerne le radici per comprenderne le mosse e i comportamenti reciproci e nei confronti dei paesi emergenti. Il capitolo, tuttavia, si aprirà con la trattazione di un’altra importante questione che ha originato una larga letteratura, ossia il declino della leadership della Gran Bretagna

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a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.

1. Il declino della Gran Bretagna

Non vi è una potenza che, sul lungo periodo, abbia resistito al logorio della storia, nemmeno quell’impero romano che ha certamente avuto vita più lunga di tante altre potenze. Di per sé, quindi, una storia di declino fa parte della dimensione storica da sempre. L’interesse del declino inglese è dato dal fatto che è il primo a verificarsi in età industriale, mostrando che il first mover, anche in età industriale, ha sì grandi vantaggi, ma non sufficienti da garantirgli di mantenere tale posizione automaticamente.

Inoltre, il declino della potenza inglese, diversamente da declini precedenti, ha motivazioni economico-sociali-culturali e non politico-militari — la Gran Bretagna è rimasta nella sua integrità territoriale, ha sempre vinto le guerre, non ha avuto rivoluzioni politiche — e anche questo è molto significativo di un diverso impatto della rivoluzione industriale. È, sempre più, sul piano economico che si decide una leadership, piuttosto che su quello politico-militare. Ancora, si tratta del declino della leadership inglese, non della scomparsa del suo destino industriale. La Gran Bretagna ha continuato a crescere economicamente e ad approfondire la sua trasformazione strutturale: è stato il primo paese in cui l’agricoltura si è fortemente ridotta a favore dell’industria, già nella seconda metà dell’Ottocento, ed è stato il primo paese in cui l’industria si è fortemente ridotta a favore dei servizi. Ma i tassi di crescita del reddito sono stati complessivamente inferiori a quelli di molti altri paesi industriali a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, permettendo un catching up dei suoi livelli di reddito pro capite, non solo da parte degli Stati Uniti già prima della prima guerra mondiale, ma, dopo la seconda guerra mondiale, anche da parte di quasi tutti i paesi europei più avanzati, compresa l’Italia, e dal Giappone.

Non ci meraviglia, dunque, che l’argomento del declino inglese abbia attirato l’interesse di molti studiosi, che hanno cercato soprattutto di identificarne le cause. Trattandosi di un fenomeno molto complesso, i fattori presi in considerazione sono stati molti, tutti per un verso o un altro significativi. Ne presenteremo qui una sintesi schematica, senza alcun tentativo di metterli in un qualche ordine di importanza, ordinandoli in tre gruppi di considerazioni. 1. L’inizio precoce (early start). Potrà sembrare una spiegazione paradossale, perché un inizio precoce diede sicuramente vantaggi dal punto di vista competitivo, ma si può vedere questa questione come l’altra faccia della medaglia dei «vantaggi dell’arretratezza». Come l’arretratezza può rivelare dei vantaggi, avere incominciato presto ha degli svantaggi. I modelli adottati di macchine e infrastrutture erano i primi, meno perfezionati, che raggiunsero presto tiri elevato grado di obsolescenza economica (non erano, cioè, più efficienti e competitivi), mentre erano ancora perfettamente funzionanti. La tentazione di lasciarli funzionare fino ad esaurimento fisico era grande e così la Gran Bretagna perse di competitività. L’esempio sono i treni: i primi treni erano piccoli, a scartamento ridotto, ed erano quindi costruiti con gallerie piccole e curve a gomito. Quando prevalsero treni più grandi e larghi, l’intero impianto inglese divenne obsoleto e si faticò a modernizzarlo. 2. Rigidità istituzionali. La Gran Bretagna aveva avuto un’evoluzione interna tale da renderla capace di realizzare la rivoluzione industriale e non seppe vedere nelle innovazioni istituzionali che si realizzavano nell’Ottocento nei paesi che cercavano di imitarla qualcosa cui ispirarsi per rendere più efficienti i suoi comportamenti economici. Questo aspetto è stato indagato con riferimento a quattro applicazioni principali. 2.1. La finanza. La Gran Bretagna non riuscì né a rendere efficiente la sua borsa né a introdurre banche più legate al finanziamento industriale, lasciando le sue industrie prive di un efficace sostegno finanziario. Nel caso della borsa, la necessaria trasparenza informativa non era disponibile al pubblico, che subì anche serie perdite da emissioni azionarie di nuove industrie e preferiva quindi investire in titoli più sicuri. Nel caso delle banche, le merchant banks erano troppo legate al

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finanziamento di attività internazionali per essere interessate all’industria nazionale, mentre le banche d’affari alla francese o la banca mista tedesca non vennero mai neppure prese in considerazione. 2.2. L’istruzione. La Gran Bretagna introdusse solo molto tardi un sistema pubblico di istruzione come gli altri paesi del continente e particolarmente non si interessò specificamente dell’istruzione tecnica. Nelle scuole private (denominate, si ricordi, public schools) prevaleva l’istruzione classica, mentre all’università, oltre alle discipline classiche, si insegnavano le discipline scientifiche pure. Quindi i tecnici erano autodidatti e non avevano uno status sociale elevato, come gli ingegneri in Germania o Francia o Italia o Giappone. La mentalità degli imprenditori era spesso più legata agli affari in generale (finanza, commercio) che al lato tecnico dell’attività produttiva. Questo impedì alla Gran Bretagna di fare bene nella seconda rivoluzione industriale, che necessitava di un’istruzione tecnica media e superiore più diffusa. 2.3. La grande impresa. L’evoluzione verso forme di organizzazione manageriale delle imprese in Gran Bretagna fu molto più lenta degli Stati Uniti, ma anche della Germania. Chandler ha battezzato il capitalismo inglese come «personale». Lazonick ha notato che la fabbrica inglese era lasciata in mano agli shop stewarts, ossia a capireparto che mantenevano un rapporto da maestro-apprendista con i lavoratori loro sottoposti, invece che essere organizzata secondo principi tayloristici e con una precisa gerarchia funzionale. La produttività di una simile organizzazione non «scientifica» del lavoro non poteva essere competitiva con quella americana o tedesca. 2.4. Lo stato. Anche lo stato non si adeguò in Gran Bretagna verso l’assunzione di maggiori responsabilità nei confronti dello sviluppo del paese, preferendo impegnare larghe risorse in quel colonialismo dai dubbi effetti e in quella leadership internazionale il cui peso verrà analizzato nel prossimo punto. 3. Il peso della leadership. Anche in questo caso, si è abituati a vedere nella leadership internazionale di un paese un fattore di sostegno dei suoi redditi, il che può anche essere vero, benché non si siano mai viste analisi formali dell’importanza quantitativa di questo sostegno. Quello che si tende a dimenticare è che la leadership impone dei pesi, che ora verranno esaminati partitamente nel caso inglese. 3.1. Le colonie. Costi militari e amministrativi, eccessivo impegno in mercati poco sofisticati (overcommitment) sono gli elementi negativi principali. 3.2. Il sostegno del gold standard. La Bank of England amministrava le sue politiche monetarie più con l’obiettivo di mantenere la stabilità internazionale che con quello di sostenere la congiuntura interna.Essa amministrò a lungo le riserve di Giappone e Stati Uniti, fin che questi paesi crearono le loro banche centrali, e anche le riserve dell’India. 3.3. Il predominio della City. Gli interessi della City, la più grande piazza finanziaria dell’epoca, erano ritenuti più importanti di quelli delle industrie inglesi e l’abilità da essa dimostrata nelle attività internazionali fu tale da attirare gli investitori e le merchant banks verso investimenti esteri più che verso investimenti nazionali, con la promessa di tassi di rendimento superiori. 3.4. Il ruolo di «poliziotto del mondo». La Gran Bretagna venne coinvolta in molte guerre, allo scopo di mantenere un bilanciamento dei poteri in Europa (praticamente tutte le guerre europee da quelle napoleoniche in poi). Questo la portò ad eccessivi investimenti militari e a notevoli perdite. Il declino relativo della Gran Bretagna ebbe una battuta d’arresto solo negli anni Trenta e Quaranta, come vedremo, ma precipitò negli anni successivi alla seconda guerra mondiale in un modo del tutto inaspettato, soprattutto dagli inglesi, che faticarono a rendersene conto e quindi ad impostare una politica più realistica di collaborazione con il resto dell’Europa.

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2. La prepotente ascesa degli Stati Uniti Il modello americano di industrializzazione discende direttamente da quello europeo e non

presenta alcuna differenza per quanto riguarda ispirazione ideale e valori di fondo. Presenta, invece, notevoli differenze nel contesto in cui si inserisce e nelle sue modalità di realizzazione, differenze che, formano l’oggetto di questo paragrafo. In primo luogo, occorre richiamare qualche elemento fondamentale di cronologia. Benché la colonizzazione degli Stati Uniti fosse cominciata già nella prima metà del XVII secolo, il popolamento europeo dell’area come colonia inglese procedette con molta lentezza. Un secolo dopo non aveva raggiunto più di 250.000 persone e alla vigilia della rivoluzione i coloni erano solo 2 milioni.

Distaccatasi dalla Gran Bretagna con la Dichiarazione dei diritti del 1776 e poi con la vittoria delle guerre di indipendenza, si diede un governo confederale nel 1789, che eliminò i motivi di conflittualità tra stati. L’unico episodio di contrasto aperto fu la guerra di secessione (1861-65) che oppose gli stati del nord a quelli del sud e che vide la vittoria dei primi sui secondi e l’abolizione della schiavitù.

Lo sviluppo industriale degli Stati Uniti non iniziò in modo particolarmente rapido. Quando si costituirono come nazione indipendente alla fine del Settecento, 1’80-90% della forza lavoro era impiegata in agricoltura, con una elevata produttività del lavoro, data l’abbondante terra disponibile, e una remunerazione pro capite elevata. Le prime industrie vennero fondate già in quell’epoca, e continuarono ad espandersi nella prima metà dell’Ottocento; i salari erano elevati e la tendenza alla meccanizzazione forte, sia per la scarsità di manodopera, sia per il suo alto costo. Ma furono le ferrovie dopo la metà del secolo e la fine della guerra civile a segnare il vero e proprio decollo del paese, unificandone il già ampio mercato. La crescita continuò a ritmi sostenuti e senza importanti soluzioni di continuità fino alla Grande Crisi del 1929 e si caratterizzò per l’affermazione della grande impresa (corporation) nei settori ad alta intensità di capitale propri della seconda rivoluzione industriale.

La domanda principale da farsi a questo punto è la seguente: perché la grande impresa fu la carta vincente e perché ebbe tanto successo negli Stati Uniti rispetto all’Europa, che pure era stata l’ispiratrice dello sviluppo americano? Il primo elemento da considerare è il rapporto risorse-popolazione. Quello che divenne territorio degli Stati Uniti in un lungo processo di colonizzazione era un’area immensa e scarsissimamente popolata da popolazioni indigene a stadi di sviluppo del tutto primitivi. I colonizzatori europei, come è noto, non trovarono alcuna difficoltà nel marginalizzare le popolazioni locali e nell’appropriarsi, dunque, di questo immenso territorio ricco di ogni ben di Dio, e particolarmente di terra da coltivare, oro e petrolio. Questa abbondanza di risorse lasciò un marchio indelebile nella mentalità degli americani, che si trovarono da sempre ad affrontare il problema di governare nel modo più efficiente possibile il processo di sfruttamento delle risorse, piuttosto che il problema di come sottrarre qualche risorsa scarsa a chi ne era in possesso per eredità storica e magari non la usava efficientemente, come in Europa.

La scarsità è una tipica dimensione europea, che evoca immediatamente il conflitto distributivo: guerre, rivoluzioni, conflitti sociali sono stati endemici nella cultura europea e hanno finito col segnarne il destino per molto tempo anche in quell’epoca industriale in cui la capacità di aumentare le risorse senza necessariamente doverle sottrarre a qualcuno, che è propria del processo industriale, avrebbe dovuto consigliare un cambiamento. Negli Stati Uniti, invece, i conflitti distributivi furono secondari e marginali, perché di risorse ce n’erano in abbondanza, e prevalse, dunque, come si diceva, un atteggiamento costruttivo: come organizzare al meglio lo sfruttamento delle risorse.

Il secondo elemento significativo deriva dalle implicazioni dell’essere una popolazione di emigranti. Innanzitutto, l’emigrante è per definizione mobile, proprio perché emigrante, e considera normale andare a cercare il lavoro dove c’è piuttosto che restare a far la fame dove è nato, o dove si trova. Quindi la nazione americana è fatta di gente che non si contenta di quello che ha (o che non ha), ma che cerca di migliorare la sua condizione con un atteggiamento disponibile allo

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spostamento, al rischio, al costruirsi il destino con le proprie mani (il tipico self-made man). Inoltre, da subito gli emigranti negli Stati Uniti non vennero da una sola fonte, ma da molti paesi, con retroterra culturali molto diversi, ma pronti a trovare, sia pur con qualche inevitabile frizione, un terreno di convivenza reciproca, sviluppando valori «americani» che divennero condivisi da tutti, in un melting poi che annullò il rischio di formazione di etnie diverse, fonte di insanabili divisioni e di lotte, come in Europa. La stessa proclamazione dello Stato Federale va vista in questa luce, anche se, come sopra si diceva, fu precipitata dalla necessità di fronteggiare la potenza della Gran Bretagna. Non vi erano, in realtà, fondamentali motivi di conflitto fra gli stati, né economici né culturali, e fu quindi relativamente facile prendere la decisione di coordinarsi sotto certi aspetti, in particolare la moneta e la lingua, pur mantenendo una forte decentralizzazione dei poteri.

Tale decisione si rivelò in seguito strategica per la realizzazione di un mercato unico di proporzioni inedite, all’interno del quale poté prosperare la grande impresa.

C’è un terzo importante elemento, senza il quale i primi due non avrebbero potuto agire con la medesima efficacia. Il territorio non era solo vuoto di gente e di culture, ma naturalmente anche di leggi. Per introdurre una nuova legge, non si doveva lottare contro gli interessi di chi appoggiava quella già esistente. Le nuove leggi venivano introdotte per consenso in un ambiente politico che da subito si organizzò democraticamente, man mano che gli sviluppi dell’economia e della società le richiedevano, con una coerenza rispetto alle esigenze di produttività ed efficienza molto maggiore di quella che si poteva raggiungere in Europa, dove i compromessi necessari con i regimi precedenti erano molteplici. Persino l’urbanistica delle nuove città americane era più adatta alla nuova era industriale di quanto non lo fosse l’urbanistica medievale delle città europee. Anche su questo versante, dunque, venne rafforzata la mentalità americana costruttiva, la mentalità del «si può fare» purché ci si ingegni a trovare il modo, rispetto alla mentalità europea che oscillava spesso tra i due estremi della rassegnazione al non poter fare o, al contrario, della rivolta violenta.

E a questo punto più facile capire perché la grande impresa ebbe tanto successo proprio negli Stati Uniti. In tale paese non si trovavano mercati già funzionanti come in Europa, né artigiani con una loro professionalità. La gran parte degli emigranti arrivava senza molta istruzione alle spalle e quindi il miglior modo di sfruttare efficientemente le risorse per aumentare la produzione così da servire un mercato che si allargava prodigiosamente fu quello di creare imprese che controllassero da cima a fondo il processo produttivo, attraverso integrazioni a monte e a valle e attraverso un macchinario automatico per disciplinare a dovere la forza lavoro. La grande impresa nacque nelle ferrovie, la cui lunghezza assolutamente eccezionale imponeva un forte coordinamento, che si realizzò attraverso la nascita di una struttura manageriale che combinava la line, con responsabilità operative, e lo staff, con responsabilità di pianificazione e di stato maggiore, e attivava un sistema informativo capillare, basato sui reports che permettevano una dettagliata analisi dei costi.

Poi fu la volta dei telegrafi e dei telefoni (Western Union e AT&T); quindi dell’acciaio, dove Andrew Carnegie (che era stato supervisore nelle ferrovie) iniziò a costruire impianti sempre più colossali. All’acciaio fece seguito l’ascesa del petrolio, settore in cui David Rockefeller costruì i più grandi impianti del mondo e- con la sua Standard 011 minacciò di diventare un monopolista. Seguirono l’elettricità con la Generai Electric e la Westinghouse e quindi iniziò l’avventura dell’automobile, con Henry Ford che, introducendo per primo nel 1913 una catena di montaggio completa, abbassò i tempi di produzione del suo famoso modello T nero da 12 ore e 8 minuti a 1 ora e 35 minuti, più che dimezzandone il costo. Fu così che, come scrive Chandler, Henry Ford riuscì a quadrare il cerchio, costruendo «l’automobile più economica del mondo, [che gli permise] di pagare i salari più alti del mondo e di diventare uno degli uomini più ricchi del mondo». Solo la chimica non riuscì da subito a rivaleggiare con la Germania, anche se erano già sorte negli anni Novanta del-l’Ottocento due grandi imprese come la Dow Chemicals e la Du Pont; fu negli anni Venti con la petrolchimica che gli Stati Uniti faranno un balzo in avanti anche in questo settore. Nel settore del commercio si affermarono grandi imprese, come Woolworth, che a partire dal 1879 inventò i magazzini a prezzo unico, dove la merce era in vendita già pesata, confezionata e prezzata con prezzi standard facili da sommare.

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Si configurò dunque un paese in cui il centro sistemico era rappresentato dalle grandi imprese. Secondo il monumentale lavoro di Sklar, la centralità della grande impresa è stata preferita negli Stati Uniti a quella dello stato, in quanto l’impresa è una espressione più diretta del «popolo» (negli Stati Uniti la sovranità è del popolo). L’impresa ha quindi teso ad assumere responsabilità sociali, e per questo motivo si è managerializzata, per garantire stabilità e continuità; inoltre, ha ben presto voluto una legislazione antitrust, per proteggersi dalle conseguenze perverse dell’eccessivo gigantismo.

In questa ottica, si capisce perché le grandi imprese non vedessero di buon occhio l’ascesa di altri poteri forti. Le banche vennero perciò mantenute piccole da una legislazione restrittiva, che impediva loro di diffondersi fuori dai confini di ogni singolo stato, in tal modo evitando che diventassero sufficientemente grandi da rivaleggiare con le corporations. Venne rafforzata la borsa, al diretto servizio delle imprese. I poteri statali, particolarmente quelli del governo federale, vennero mantenuti nei confini più ristretti possibili; persino la costituzione di una banca centrale (la Federal Reserve) fu ritardata fino al 1913. Ciò che fu richiesto allo stato fu solo il protezionismo, per poter sfruttare senza preoccupazioni il proprio mercato nazionale.

Già alla fine dell’Ottocento il reddito pro capite americano superò quello inglese, mentre anche in valore assoluto l’economia americana diventò la più grande e potente del mondo. Tuttavia, gli europei non ne sentivano ancora né la grande competizione, perché il commercio estero degli Stati Uniti era modesto e così i suoi investimenti esteri, essendo il paese assai più interessato al suo mercato interno, né l’egemonia, perché gli Stati Uniti erano ritirati su se stessi e non avevano ancora pensato di potere o dovere sostituire la leadership mondiale inglese. Inoltre, la Germania stava crescendo in capacità competitiva e in molti mercati teneva testa agli Stati Uniti, quando non li sopravvanzava. Sarà la prima guerra mondiale a cambiare questo quadro, dando agli Stati Uniti la consapevolezza della loro potenza e spezzando il ciclo virtuoso di crescita della Germania.

3. Perché il Giappone fu l’unico paese di cultura non europea a decollare nell’Ottocento Il Giappone aveva avuto nel corso della sua lunga storia forti influenze dalla Cina ed era

quindi un paese dalla civiltà sofisticata e complessa, basata sulla cultura confuciana della lealtà, della rettitudine, del decoro e dell’armonia e su di un nazionalismo spinto, sviluppato per distinguersi dalla Cina.

A differenza di quest’ultima, però, aveva un imperatore che, con termini occidentali, divenne già a partire dal VII secolo d.C. «costituzionale», in quanto conservava un ruolo simbolico, ma non esercitava direttamente il potere, che tese a frazionarsi localmente, dando luogo ad tiri sistema multicentrico simile al sistema feudale europeo. Il Giappone preindustriale aveva grandi città e mer-cati funzionanti e un sistema creditizio abbastanza sviluppato; la diffusione dell’istruzione nelle classi più elevate (samurai) era eccellente, anche se queste non si potevano dedicare agli affari, lasciati nelle mani del popolo, a quale, arricchendosi, incominciò a interessarsi alla cultura. Come la Cina, tuttavia, si era chiuso all’influenza occidentale, proibendo ai suoi cittadini di viaggiare all’estero e limitando il commercio a una nave olandese l’anno cui era permesso di attraccare su una piccola isola del porto di Nagasaki. Per questo motivo, non aveva potuto tenere il passo con gli sviluppi europei e americani.

Tra il 1853 e il 1854 l’ammiraglio Matthew Perry arrivò con le sue navi nel porto di Tokyo e minacciò di bombardare la capitale se la politica estera del Giappone non fosse cambiata. L’imperatore della dinastia dei Tokugawa che era al potere dovette cedere e, di conseguenza, gli fu-rono imposti dei «trattati ineguali», in base ai quali non solo il Giappone si doveva aprire, ma non poteva introdurre dazi superiori al 5%.

Il paese inizialmente tentò la strada delle rivolte xenofobe, quindi salì al trono un giovane e intelligente imperatore, Mutsuhito, che diede una svolta al destino del Giappone, iniziando una serie di riforme istituzionali (1868). Tale movimento è noto come restaurazione Meiji, dal nome che

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Mutsuhito volle dare al suo governo (Meiji significa governo illuminato). Vennero abolite le caste, i samurai non ricevettero più uno stipendio, e vennero così spinti a intraprendere carriere negli affari, mentre la burocrazia statale veniva modernizzata e il sistema educativo reso più efficiente e generale. Vennero mandati in occidente giovani preparati, per studiare le istituzioni occidentali e consigliare il governo giapponese sul da farsi; così le riforme vennero modellate sii ispirazione occidentale: il sistema feudale fu abolito e il governo si dotò di un’amministrazione centralizzata sul modello francese; l’esercito venne organizzato come quello prussiano; la flotta come quella inglese, mentre industria e finanza seguirono prevalentemente i modelli americano e tedesco. Anche l’istru-zione venne riformata sul modello europeo continentale.

Nel 1882 venne creata la banca centrale e riformato l’intero sistema bancario. Con questa nuova base istituzionale, diventava possibile per il Giappone l’avventura

industriale. Il tentativo iniziale del governo Meiji di creare imprese pubbliche fallì presto; queste vennero vendute e da lì in poi il governo giapponese non tentò più di gestire direttamente le impre-se, limitandosi a un ruolo di promozione e coordinamento. Non fu facile per il Giappone trovare il modo di decollare, perché il paese era piccolo, montuoso e le risorse del sottosuolo assai scarse (un po’ di carbone e di rame); quindi per poter produrre necessitava di molte importazioni, che si dovevano pagare con le esportazioni. Ma cosa esportare? Per fortuna soccorse il Giappone un’industria tradizionale, che gli fornì la staple (prodotto-base) per l’esportazione: la seta grezza. Il Giappone rafforzò e modernizzò il suo ciclo produttivo, e divenne un grande esportatore di seta grezza, soppiantando l’Italia agli inizi del Novecento. L’incidenza delle esportazioni di seta grezza si mantenne tra un terzo e un quinto del totale fino al 1940. Anche il tè fu inizialmente un’esportazione importante, che in seguito, però, declinò più rapidamente della seta grezza. Alla disperata ricerca di risorse, il Giappone divenne ben presto una potenza coloniale, con una prima guerra contro la Cina nel 1894-95, con cui guadagnò Taiwan (che venne ribattezzata Formosa). In seguito, sconfisse la Russia nella guerra del 1905, acquisendo diverse aree di influenza di cui una, la Corea, particolarmente importante.

Decollò l’industria tessile e anche quella pesante, ma lentamente e su piccola scala, perché solo alla fine dell’Ottocento vennero abrogati i trattati ineguali e il Giappone poté offrire un po’ più di protezione ai suoi imprenditori; furono costruite ferrovie (11.000 chilometri nel 1913 non erano pochi, per un paese più piccolo della California), si diffuse l’elettricità e il reddito pro capite crebbe tra il 1870 e il 1913 a tassi paragonabili a quelli europei, tuttavia la distanza con il reddito pro capi-te della Gran Bretagna restava nel 1913 molto grande (27%, poco meno della Russia). Il fatto è che il peggiora mento relativo nel corso dei primi tre quarti dell’Ottocento era stato notevole, data la chiusura del Giappone, e i risultati del primo mezzo secolo di apertura furono buoni, ma non particolarmente brillanti e non tali da permettere un processo di catching up. Fu comunque in questo primo periodo dello sviluppo giapponese che nacquero quelle costellazioni di imprese che agiscono sinergicamente, ente, le quali resteranno una caratteristica del paese. Esse erano denominate zaibatsu e avevano legami prevalentemente di tipo familiare. Al centro avevano una banca, che agiva da polmone finanziario, restando spesso coinvolta nelle crisi delle imprese del gruppo, nonostante la propensione della banca centrale al salvataggio. I più famosi zaibatsu hanno nomi ancora noti oggi, Mitsubishi, Sumitomo, Mitsui ed erano controllati da famiglie di origine mercantile.

Furono le occasioni che il Giappone colse durante la prima guerra mondiale e la crisi del ‘29 (che colpì tale nazione in modo molto leggero) a permettergli di realizzare con maggiore successo quel processo di catching up con l’occidente europeo e gli Stati Uniti che, violentemente interrotto dalla seconda guerra mondiale, verrà ripreso con grande successo a partire dagli anni Cinquanta, fino a portare il Giappone al rango di grande potenza a fianco degli Stati Uniti e dell’Europa.

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CAMBIAMENTI SOCIOECONOMICI

Una vita sempre più lunga e una famiglia sempre più piccola

I cambiamenti nella popolazione sono fra gli effetti più mirabolanti della rivoluzione industriale e meritano quindi un cenno. Risulta immediatamente evidente che lo sviluppo della popolazione mondiale è iniziato solo con la rivoluzione industriale, che ha permesso ad un tempo tassi di incremento annui più consistenti (dovuti, come vedremo, noti tanto a tassi di natalità più elevati, ma a tassi di mortalità più contenuti) e un innalzamento nella speranza di vita (ossia nella vita media), che prima si attestava melanconicamente al di sotto dei 30 anni. La speranza di vita ha avuto un mi-glioramento particolarmente significativo a livello mondiale solo dopo il 1950, mentre nei paesi più sviluppati tale miglioramento era iniziato già nell’Ottocento, ad ulteriore conferma della stretta connessione tra demografia e sviluppo economico. Noterò, en passant, che le notevoli difficoltà nello sviluppo economico della Russia, che mostra un notevole ritardo di tale nazione (ad eccezione del 1959), mentre non si nota alcun vantaggio degli Stati Uniti, nonostante la sua posizione di leader, ma anzi un dato finale marginalmente meno soddisfacente che in Europa e, soprattutto, in Giappone.

Passando ad alcune riflessioni su come è avvenuto il notevole miglioramento nella speranza di vita, riprenderò subito una nota prima anticipata, ossia che esso è dovuto fondamentalmente all’abbassamento del tasso di mortalità, che passa da livelli del 3-4% a livelli inferiori all’1%. Anche il tasso di natalità si abbassa dal 3-4,5% a valori inferiori a 2 ed è proprio questo drastico mutamento di regime demografico che va sotto il nome di «transizione demografica». È tuttavia storicamente provato che l’adeguamento del tasso di natalità avviene con ritardo, il che genera grandi aumenti di popolazione in certe aree in certi periodi storici. Questo ritardo è risultato particolarmente preoccupante in paesi altamente popolati come Cina e India, dove si sono viste campagne pubbliche dai dubbi risvolti etici per accelerare l’adeguamento del tasso di fecondità. Risulta, tuttavia, ormai provato che «nessuna popolazione ha resistito a lungo con alta fecondità al diffondersi del benessere e della caduta della mortalità».

Ci possiamo ora volgere alla questione di fondo: perché la rivoluzione industriale e lo sviluppo economico hanno generato una tale evoluzione della demografia? ossia, quali sono le cause dell’abbassamento della mortalità? Tre sono i fattori che sono stati considerati rilevanti: i miglioramenti della scienza medica, legati alla scienza e alla tecnologia, la migliore nutrizione e la migliore igiene. Se è ovviamente vero che tutti e tre i fattori sono stati rilevanti, è ormai opinione condivisa che l’alimentazione conti di meno, eccettuando periodi di vera e propria carestia. Anzi, un’alimentazione eccessiva è fonte di serie malattie anche mortali". Tutto ciò, invece, che ha diminuito l’incidenza di epidemie, come i vaccini, gli antibiotici e la migliorata igiene (acquedotti, fogne e trattamento adeguato dei rifiuti) ha innalzato la speranza di vita in maniera significativa. E, infatti, provato che le maggiori ecatombi del periodo preindustriale erano provocate proprio dalle epidemie, dalla peste al colera, dal tifo al vaiolo, ma anche dalle malattie gastroenteriche, veneree, esantematiche e dalla tubercolosi. A riprova di ciò, abbiamo l’esperienza dei paesi sottosviluppati di oggi che, pur essendo poveri e spesso sottoalimentati, ma vivendo in un’era tecnologica avanzata, hanno una speranza di vita assai superiore a quella che avevano i paesi oggi sviluppati prima della rivoluzione industriale, quando avevano livelli di povertà analoghi (o anche inferiori, avendo i paesi oggi ricchi goduto di una civiltà agricola spesso meno avanzata di quella dei paesi oggi poveri).

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Qualche altra osservazione importante sugli effetti della transizione demografica. La vita media più lunga ha permesso innanzitutto di ridurre il dispendio di energie per l’allevamento della prole, accrescendo l’impiego della popolazione in attività direttamente produttive; ha permesso curricula di studi più lunghi, il che ha elevato in modo notevole le capacità tecnologiche di una vasta parte della popolazione; ha reso possibile comportamenti legati a progettualità di più lungo periodo. La crescita della popolazione ha portato ai benefici di specializzazione del lavoro e delle economie di scala anche nelle attività di ricerca. Ci sono anche effetti negativi legati all’agglomerarsi della popolazione in metropoli disumane e inquinate, particolarmente nei paesi in via di sviluppo, alla disoccupazione (spesso tuttavia maggiormente legata agli effetti di cattive politiche economiche che non a eccessi di popolazione) e all’invecchiamento della popolazione, con l’esplosione dei costi di assistenza, ma si tratta di effetti che possono trovare sollievo se non soluzione dal proseguire della ricerca scientifica e delle applicazioni tecnologiche, oltre che dal contenimento della crescita globale della popolazione man mano che anche i paesi in via di sviluppo abbassano i loro tassi di incremento demografico.

Ultimamente, nei paesi sviluppati siamo arrivati a una tale contrazione della natalità da portare a una diminuzione della popolazione perché i tassi di fecondità sono caduti al di sotto dei livelli cosiddetti «di rimpiazzo», ossia al di sotto dei due figli per coppia". In questi paesi, la tradizionale «piramide» per età della popolazione si è tramutata in una «trottola» dalla base sottile, che non solo rende l’incidenza degli anziani sul totale della popolazione assai più elevata, con grandi mutamenti nella società e nei consumi, ma provoca seri problemi ai sistemi di welfare che si finanziavano con le imposte pagate dai lavoratori più giovani (che ora hanno un rapporto sempre minore rispetto alla popolazione anziana). La famiglia è diventata sempre più piccola (la cosiddetta famiglia mononucleare), non solo perché si è ormai persa la tradizione delle famiglie allargate, anche là dove aveva un forte radicamento, ma anche perché ci sono pochi figli, mentre divorzi, diffusione dell’omosessualità e un diverso modo di concepire il matrimonio hanno ulteriormente ristretto la convivenza in nuclei familiari stabili, diffondendo il fenomeno di abitazioni occupate da singles. Questi sviluppi si stanno accompagnando anche a una notevole diminuzione della fertilità, che spinge alla procreazione assistita, con ulteriori complicazioni per la famiglia. Si tratta di uno scenario che solleva seri interrogativi etici e che non può certo essere governato solo con strumenti tecnologici.

La nascita della grande impresa

Nella seconda metà del XIX secolo, quando i costi di trasporto diminuirono rapidamente con l’espandersi della ferrovia e della navigazione a vapore, le informazioni incominciarono a viaggiare rapidamente, prima con il telegrafo, poi con il telefono, e la tecnologia produsse impianti che risparmiavano sui costi fissi quanto più , i grandi erano (economie di scala), si pose il problema di creare imprese di grandi dimensioni. Poiché, per motivi del tutto specifici, furono gli Stati Uniti il paese che comprese per primo le potenzialità della grande impresa (Corporation, in americano) e ne elaborò le caratteristiche organizzative tra gli anni Sessanta dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, noi, ci meravigliamo che il più noto storico della grande impresa sia un americano dell’università di Harvard, Alfred Chandler.

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Chandler rileva che la grande impresa è stata creata non solo per sfruttare le economie di scala, ma anche quelle di diversificazione (che traduce l’inglese scope) a partire dalle stesse materie prime e prodotti intermedi (una caratteristica tipica chimica) e le economie di rapidità. A quest’ultimo scopo, occorre procedere a una organizzazione «scientifica» del lavoro per evitare perdite di tempo nei vari passaggi delle 1avorazìoni". Questo processo di «scorrimento» venne attentamente studiato darli ingegneri americani, di cui il più famoso è Frederick Taylor (da cui taylorismo), che ritenne che la soluzione migliore fosse quella di costruire una catena di montaggio, dove tutte le lavorazioni da effettuarsi fossero poste in linea secondo la sequenza migliore, i pezzi i lavorali non venissero portati a mano da un lavoratore all’altro ma giacessero sulla catena mentre i lavoratori stavano fermi ad effettuare la loro lavorazione specializzata e il ritmo di scorrimento della catena fosse tale da lasciare appena il tempo bastante per ciascuna lavorazione. Questo richiedeva un investimento di notevoli proporzioni in impianti programmati per produrre un certo modello di prodotto e quindi spingeva alla standardizzazione, ma in compenso abbassava incredibilmente i costi unitari di produzione (come successe coli il modello T nero di Ford).

L’incentivo delle economie di scala e di diversificazione fu tale che la grande impresa mostrò subito la tendenza a diventare sempre più grande, attraverso l’integrazione orizzontale, fondendosi, cioè, con altre imprese simili, e verticale, acquisendo imprese a monte e a valle del suo processo produttivo, per assicurarsi sempre di più che lo scorrere del suo processo di produzione non fosse intralciato da mercati imperfetti. Se, infatti, l’impresa produceva internamente le sue materie prime e i suoi prodotti intermedi, poteva essere sicura di averne sempre la quantità sufficiente e la qualità adatta; se, poi, l’impresa si integrava con imprese utilizzatrici del suo prodotto, o addirittura impiantava una rete di filiali di vendita diretta, poteva essere sicura di essere efficacemente presente sui mercati di sbocco.

In questo modo, diventando la grande impresa sempre più grande, il controllo diretto da parte del proprietario non era più possibile, come non bastavano certo le finanze famíliari a finanziarla (si veda il paragrafo successivo), così che si fece strada un’organizzazione «scientifica» del controllo dell’impresa attraverso una complessa gerarchia impiegatizia, o di manager, vocabolo americano ormai di uso generalizzato. A capo sta l’amministratore delegato (CEO, che ha sotto di sé uno staff dirigenziale funzionalmente suddiviso (il capo dell’ufficio legale, il capo del personale, il capo tecnico, il capo del laboratorio di ricerca) e quindi tutta la catena (line) di manager operativi. Tutti devono produrre non solo decisioni, ma memorie scritte delle stesse, in modo che tutto quello che avviene possa essere studiato, reso più efficiente e monitorizzato continuamente e si possano individuare con precisione i costi operativi. Col passare del tempo, si instaurano routine di comportamento che vengono codificate, e quindi possono essere oggetto di insegnamento formale. Come avvenne molto prima per gli ingegneri, anche per le carriere manageriali si sviluppa dunque un corpo di nozioni da impartire a livello universitario (Business Schools).

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La proprietà di queste grandi imprese diventa dunque frammentata; solo in pochi casi resta presente un azionista «di riferimento», che può essere il fondatore o un discendente. È così, quindi, che avviene la separazione tra proprietà e controllo. Il manager a capo della grande impresa può non possedere eppure un’azione della medesima impresa; viene nominato dal consiglio di amministrazione, in cui siedono i rappresentanti della proprietà, ma è solitamente del tutto libero di prendere le decisioni che crede, a patto che l’impresa vada bene e renda ai suoi azionisti. Quando questo non avviene può essere licenziato e sostituito. Se questo è vero in generale, esistono importanti differenze fra le strutture proprietarie delle grandi imprese di paesi diversi, dipendenti sia dalle diverse forme di finanziamento sia da una diversa cultura manageriale. La managerializzazione delle imprese le rende più stabili e continuative nel tempo, non dovendo esse affrontare crisi di passaggi generazionali, come nelle imprese familiari, né l’alea di avere cattivi dirigenti solo perché, sono i figli del fondatore. E per questo che l’impresa che nasce per prima – il first mover, come lo chiama Chandler – conserva un vantaggio competitivo difficile da erodere da parte dei nuovi entranti, se non per qualche errore degli azionisti responsabili della nomina dei manager o per qualche inno-vazione tecnologica che spiazza radicalmente il first mover dalla sua posizione.

Il sistema economico che si forma in presenza di queste grandi imprese è un misto di mercato (tuttavia oligopolistico e non concorrenziale, con comportamenti strategici che vengono studiati dalla teoria dei giochi) e programmazione da parte delle imprese (con coordinazione ex ante). Il gigantismo delle, imprese le porta a non guardare a limiti di sorta, pur di continuare ad ingrandirsi; i confini nazionali vengono oltrepassati attraverso la multinazionalizzazione; la coerenza tecnologica viene abbandonata attraverso la formazione di conglomerate e la ten-denza al monopolio si manifesta ben presto. Per evitare questo ultimo esito, ritenuto non accettabile per il consumatore, gli Stati Uniti vararono ben presto leggi antitrust (la prima fu lo Sherman Act del 1890), mentre l’Europa tardò molto ad adottare una legislazione antitrust e anzi permise i cartelli e spesso rese pubblici i monopoli naturali. Come sopra si notava, non tutti i settori vengono ugualmente coinvolti da questa trasformazione dell’impresa, ma quelli dove il prodotto è più altamente standardizzabile (mezzi di trasporto, metallurgia, meccanica di serie, petrolio) c/o più grandi sono le economie di diversificazione (chimica, alimentari).

Sebbene vi siano differenze dovute alla diversa specia-lizzazione dei tre paesi alle quattro date considerate, si vede che, in generale, il numero maggiore di grandi imprese è rinvenibile nell’industria metallurgica, chimica, petrolifera (dove c’è), dei mezzi di trasporto, alimentare e solo in subordine del macchinario, molto del quale continua a venire prodotto in imprese di dimensione medio-piccola. Interessante è il caso dei tessili, dove negli Stati Uniti non appaiono esserci mai state grandi imprese, mentre in Germania e Gran Bretagna nel 1913 ve ne comparivano un certo numero, perché in tali paesi 200 imprese comprendevano più società relativamente piccole che non negli Stati Uniti. Col tempo, tuttavia, le imprese tessili tendono a scomparire dal novero delle grandi imprese anche nei due paesi europei.

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Negli altri settori, dunque, l’impresa medio-piccola continua a vivere, e quindi la diffusione della grande impresa varia dipendentemente dalle specializzazioni nazionali. Tuttavia, va anche notato che in Europa in generale, a causa delle storiche tradizioni artigianali, di barriere pro-tezionistiche nazionali che tenevano separati i piccoli mercati e di una legislazione non sempre adeguata, la diffusione della grande impresa venne fortemente ostacolata, così che la peculiarità americana, e insieme a questa il divario di produttività tra Stati Uniti ed Europa, vennero esaltati maggiormente. A peggiorare la situazione vennero poi le due guerre

mondiali, come vedremo, così che la vera transizione verso la grande impresa si

fece in Europa solo dopo la seconda guerra mondiale, negli anni della grande espansione. Dagli anni Settanta in poi, i cambiamenti nei mercati e le tecnologie elettroniche della industriale riaprirono spazi per una organizzazione di impresa meno accentrata.

Evoluzione dei sistemi finanziari

Tutti i paesi che si modernizzavano crearono, talora seguendo un percorso assai

accidentato, come nel caso italiano, una banca centrale, che divenne presidio di uno dei più indiscussi beni pubblici, la moneta. La prima fu la Banca di Svezia (1667), poi venne la Bank of England (1694); l’ultimo fra i paesi considerati in questo volume furono gli Stati Uniti, che crearono la Federal Reserve solo nel 1913. La banca centrale aveva il monopolio dell’emissione di carta moneta e del mantenimento delle riserve; ma aveva anche molte altre responsabilità: la fissazione del tasso di sconto, che faceva da riferimento di tutti i tassi bancari e segnalava politiche monetarie restrittive (salita del tasso) o espansive (discesa del tasso); la supervisione del tasso di cambio (quando si era in regime di cambi fissi); i rapporti col Tesoro (che potevano essere più o meno stretti, a seconda del grado di autonomia della banca centrale); la supervisione del sistema bancario (anche qui, più o meno stretta, a seconda delle varie legislazioni); infine, molto importante, la funzione di prestatore di ultima istanza (pur, in inglese fender of fast resort, LLR).

TAB. Distribuzione per settori delle 200 maggiori imprese della Gran Bretagna tra 1919-1973

delle 200 maggiori Gruppi Settori 1919 1930 1948 1973 Alimentare 61 63 53 33 Tabacco 3 4 6 4 Tessile 26 21 11 10 Abbigliamento o 1 2 0 Legname 0 0 o 2 Mobili 0 0 0 0 Carta 3 5 6 7 Stampa ed editoria 5 10 7 7 Chimica 14 11 17 21 Petrolio 3 4 3 8 Gomma 3 3 2 6 Pellami 1 1 1 3 Pietra, argilla e 2 7 8 16 Metalli primari 40 24 25 14 Metalli lavorati 1 8 7 7 Meccanica 7 6 10 26 Elettromeccanica 6 10 11 14 Mezzi di trasporto 23 17 21 16 Strumentistica o 2 1 3 Varie 2 3 3 1 – Conglomerate o o o 2 Totale 200 200 200 200

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Quest’ultima funzione veniva svolta, con solerzia molto diversa a seconda delle tradizioni e del funzionamento del sistema economico, quando vi era una crisi, per bloccare il panico che si diffondeva quando si verificavano troppi fallimenti, particolarmente di banche, e molti agenti economici erano alla disperata ricerca di liquidità. La banca centrale interveniva, ma non si doveva sapere prima quando e come per evitare speculazioni, offrendo liquidità con larghezza a un tasso d’interesse fisso, in questo modo bloccando la tendenza a vendere titoli, che ne deprimeva no esageratamente le quotazioni, e favorendo il recupero dell’equilibrio.

Per quanto riguarda l’organizzazione del sistema finanziario, quello che si profilò accanto alla borsa fu una diversificazione dei tipi di banca che vennero in esistenza rispetto al periodo preindustriale, quando prevalevano accanto ai banchieri privati, banchi pubblici (antenati delle banche centrali) e i monti di pietà per il credito al consumo". Nella seconda metà del Settecento, furono le casse di risparmio le prime nuove banche ad essere create; esse comparvero prima nell’impero Asburgico e si diffusero poi dappertutto. Si trattava di banche non profit, create per raccogliere piccoli risparmi allo scopo di abituare la gente di modesto reddito al risparmio remunerato, evitando nel contempo il tesoreggiamento (ossia la detenzione di moneta sotto i materassi) che sottraeva liquidità al sistema e limitando l’usura. Gli «avanzi» di gestione che queste banche realizzavano venivano destinati a beneficenza e alla realizzazione di opere sociali. Le casse di risparmio ebbero un grande successo e diventarono talora banche di notevoli dimensioni, con un impatto importante sul territorio. In vari paesi, anche le poste istituirono delle casse di risparmio postali, estendendo ancora maggiormente la presenza sul territorio di sportelli di raccolta del piccolo risparmio. Ricorderò poi che alcuni monti di pietà (che pure erano banche non profit) si modernizzarono diventando simili alle casse di risparmio, con la denominazione di banche del monte.

Si diffusero nel medesimo periodo le società per azioni bancarie, che assunsero due configurazioni: o istituti di credito a breve termine (banche commerciali), che conta- vano molto sui depositi, o istituti di credito a lungo termine (dalla varia denominazione: joint stock banks in Gran Bretagna, banques d’affaires in Francia, investment banks Stati Uniti) che rischiavano in genere il capitale sottoscritto.

Abbiamo già notato sopra la peculiare caratteri- stica del modello tedesco, dove molte delle banche di que- sto tipo erano miste. Alla metà dell’Ottocento nacquero in Germania le banche cooperative, in due versioni, una urbana sul modello stilato da Schulze Delitzsche l’altra rurale (a responsabilità illimitata) sul modello di Raffeisen. Anche queste banche ebbero una notevole diffusione sul continente europeo; erano più orientate agli affari delle casse di risparmio, soprattutto al sostegno di attività locali di piccola dimensione.

In questo modo, si creò un potente reticolo di riciclo finanziario del risparmio, che da un lato

eliminò, come già sopra si diceva, il tesoreggiamento e dall’altro riuscì a coprire le più diverse esigenze di credito, cosicché l’usura, mai interamente debellata, venne confinata in ristretti limiti. Per quanto riguarda le grandi imprese, che costituivano la struttura più avanzata dei vari sistemi economici nazionali, l’importanza relativa della borsa o della banca nel loro finanziamento ha configurato l’esistenza di due sistemi finanziari alternativi. Il primo è quello anglosassone orientato al mercato, dove la borsa ha un primato assoluto e la banca svolge un ruolo molto secondario e di supporto alle attività correnti e non a quelle di investimento. In questo sistema le grandi imprese rispondono singolarmente solo al mercato borsistico (quindi agli azionisti, che sono dei privati e degli investitori istituzionali, come i fondi pensione, ma in generale non altre imprese) e non hanno forme di collaborazione o circolazione di informazioni al di fuori di quelle rese note al mercato borsistico. Il secondo è quello tedesco orientato alla banca e la borsa è di dimensioni più ristrette e

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di importanza secondaria. La connessione delle grandi imprese con le banche si traduce anche in un’interconnessione fra imprese, che spesso detengono pacchetti azionari incrociati, e fa circolare informazioni riservate nel gruppo di riferimento, che non sono disponibili né alla borsa né al pubblico, favorendo un maggiore coordinamento ex ante nelle decisioni.

Esistono vantaggi e svantaggi in ambedue i sistemi, che hanno mostrato comunque di essere in grado di sostenere compagini produttive molto dinamiche, sapendo far fronte a molte sfide, a tal punto che sono rimasti in esistenza fino ad oggi, anche se ora la tendenza alla globalizzazione di cui sopra si parlava sta facendo convergere verso modelli ibridi.

L’ECONOMIA INTERNAZIONALE TRA FINE OTTOCENTO E PRIM I DEL NOVECENTO

Dopo aver presentato i mutamenti che la rivoluzione industriale inglese causò nei paesi europei tra fine Settcento, Ottocento e primi del Novecento, è tempo di prendere in considerazione altri mutamenti, quelli nelle relazioni economiche internazionali, che non sono meno significativi e rivoluzionari. In questo capitolo tratteremo tre temi: l’enorme aumento della mobilità dei beni e dei fattori (lavoro e capitale); il primo tentativo di stabilire una cornice di compatibilità nella finanza internazionale attraverso il Gold standard; infine, toccheremo il vasto tema del colonialismo, che svilupperemo qui in uno solo dei suoi molteplici aspetti, ossia l’impatto economico degli imperi coloniali sulla madrepatria, per restare coerenti all’impostazione del volume, centrato sulla storia dell’Europa.

Mobilità dei beni e dei fattori

L’industrializzazione ha prodotto un incredibile aumento del commercio internazionale, precedentemente tenuto a freno dagli alti costi di trasporto, dal basso potere d’acquisto della gente e dalla scarsa diversificazione dei prodotti, tutti limiti che andarono continuamente allentandosi man mano che le economie si trasformavano. La Gran Bretagna fu naturalmente il primo paese ad espandere notevolmente il suo commercio internazionale, cosicché nel 1913 era ancora la più grande esportatrice mondiale, tallonata però da vicino dalla Germania. Gli Stati Uniti erano ancora a una notevole distanza, mentre la Francia si attestava a solo un terzo. Tra il 1820 e il 1913 le esportazioni mondiali erano cresciute di ben 33 volte, mentre di altre 16 volte crebbero tra il 1913 e il 1992, scontando la battuta d’arresto degli anni fra le due guerre. I due periodi migliori risultano essere il primo (1820-70), quando prevalse un’apertura di molti paesi al commercio internazionale e ancor più l’ultimo (1950-92), quando pure si avviò un consistente processo di liberalizzazione del commercio; ma anche il secondo, che scontò un aumento del protezionismo, non andò male, mentre il periodo tra le due guerre fu disastroso, non solo per il commercio. Con l’allargarsi del commercio internazionale, la sua incidenza sul PII aumentò, in misura tanto maggiore quanto più i paesi erano piccoli e potevano specializzarsi solo in una gamma ristretta di prodotti. Inoltre, vi fu un processo di

multilateralizzazione del commercio. I paesi, cioè, non avevano bisogno di bilanciare esportazioni e importazioni con ogni singolo partner commerciale, perché le compensazione si potevano effettuare sull’aggregato, permettendo in questo modo maggiore flessibilità di uso delle risorse mondiali.

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Il commercio internazionale, infatti, è sempre stato visto dagli economisti, fin dai classici Adam Smith e David Ricardo, come un’importante estensione del principio della specializzazione del lavoro già applicato a livello nazionale, che aumenta la produttività globale del sistema economico mondiale, rendendo più efficiente l’uso delle risorse. Esso, inoltre, è veicolo di modernizzazione, in quanto permette tra le altre importazioni quelle di materie prime strategiche (come il cotone grezzo o il carbone o il petrolio) e di macchinari avanzati, mentre per ragioni di vicinanza o di altri legami facilita l’esportazione di prodotti manifatturieri anche se non troppo avanzati, permettendo alle industrie nascenti di consolidarsi attraverso l’allargamento del mercato estero.

Per questi motivi, la prescrizione degli economisti è sempre stata quella di lasciare il commercio libero (free trade), in modo che potesse dispiegare tutta la sua forza benefica. Eppure, se si guarda alla storia del capitalismo industriale, si nota che nessun paese di una qualche dimensione si è mai industrializzato in presenza di una totale libertà di commercio, nemmeno la Gran Bretagna, che diventò liberista negli anni Quaranta dell’Ottocento, quando la sua rivoluzione industriale era ormai terminata sono piuttosto i paesi piccoli, che sono fortemente dipendenti dal commercio internazionale, ad essere più favorevoli a una libertà di commercio, come dimostrano i bassi livelli di protezione di Olanda e Danimarca.

Fra i paesi grandi, la sola Inghilterra era liberista (aveva qualche dazio a scopi fiscali), mentre il basso livello di protezione del Giappone era stato imposto da trattati internazionali fino alla fine dell’Ottocento, dopo di che si nota un forte rialzo. I paesi più grandi - Stati Uniti e Russia - erano anche i più protezionisti, mentre fra i paesi piccoli, il solo Portogallo fa eccezione. In realtà, i paesi più grandi avevano ragioni per ritenere che un po’ (la protezione all’industria nascente, come suggerito da List, avrebbe potuto avere successo nell’avviare settori industriali non ancora presenti, ma con buone probabilità di riuscita, viste le potenzialità del mercato interno di un grande paese. In ogni caso, fino agli anni Trenta non si trattò mai di livelli protettivi tali da avere un forte impatto negativo sul commercio internazionale, come si è visto. Va anche ricordato che il rialzo del protezionismo nel periodo 1880-90 fu dovuto in buona parte ai dazi difensivi sui cereali, che molti paesi europei introdussero per risollevare l’agricoltura dalla crisi che l’aveva colpita a seguito dei grani americani e russi a buon mercato arrivati sui mercati europei con il diffondersi delle navi a vapore. Comunque, vantaggi e svantaggi del protezionismo sono uno degli argomenti ancor oggi più controversi sia tra gli economisti sia tra gli storici dell’economia. Tutti concordano, tuttavia, sul fatto che un protezionismo troppo elevato ha effetti solo negativi, mentre le più moderne teorie del commercio strategico danno qualche giustificazione a una moderata protezione temporanea accompagnata da un rafforzamento delle capacità competitive.

Un’ultima osservazione riguarda i trattati e il commercio. Proprio l’esistenza del protezionismo portava i paesi ad avere interesse a negoziare are vantaggi reciproci dall’ ab bassamento di qualche dazio selezionato. Tali negoziati nell’Ottocento erano sempre bilaterali, ma se ne cercava di «multilateralizzare» gli effetti attraverso la cosiddetta clausola della nazione più favorita (NPF). Se, cioè, un paese X riceveva da un altro V questa clausola, aveva automaticamente diritto a vedersi applicato un trattamento di maggior favore negoziato da Y con un terzo paese Z, senza bisogno di riaprirei negoziati con Y.

Se il commercio internazionale ebbe dunque quella fenomenale espansione sopra illustrata, anche i fattori della produzione, lavoro e capitale, divennero internazionalmente molto più mobili. Incominciamo col lavoro. Come nel caso dei commercio, anche l’emigrazione era sempre esistita, ma quello che colpisce è anche in questo caso l’esplosione che si registra nel corso dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento.

Da poco più di due milioni di emigrati alla metà del secolo scorso, si passa a 10,5 milioni nel primo decennio del XX secolo, con una flessione successiva dovuta solo alla Grande Guerra. Si può notare l’assenza della Francia, che ebbe un’emigrazíone irrilevante e fu invece presto meta di immigrazione, come il Belgio e la Svizzera; spicca anche molto

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bene la flessione della Germania a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento, quando il paese si stava industrializzando rapidamente; al contrario, l’emigrazione da Spagna, Russia e soprattutto Italia prende vigore di decennio in decennio, per effetto della diffusione di in-formazioni e della maggiore dinamicità generale delle economie di questi paesi, che faceva ancor più risaltare il divario delle loro zone arretrate. L’emigrazione dall’Irlanda (comp-

attata nella fonte con quella modesta della Gran Bretagna) resta sempre molto alta, a testimonianza da un lato della mancata soluzione dei problemi economici dell’isola e dall’altro alla grande facilità dell’emigrazione dovuta alla lingua comune e alle innumerevoli relazioni e di chi era ancora in patria con i molti che erano già emigrati.

Le mete erano in parte paesi europei già avanzati, ma in larga misura l’America (sia settentrionale sia meridionale, ma particolarmente gli Stati Uniti) e anche l’Australia. Gli effetti di questa emigrazione sono stati una convergenza nei salari e nei redditi tra paesi di emigrazione e paesi di immigrazione, secondo gli approfonditi studi di Jeff Williamson.

Per quanto riguardai movimenti di capitale, nemmeno questi erano una novità, in quanto i banchieri anche nell’età preindustriale avevano effettuato finanziamenti nazionali,internazionali ma nell’Ottocento particolarmente di guerre, molte economie diventarono più dinamiche, le borse si allargarono, nacquero le prime multinazionali e i flussi di capitale a lungo termine aumentarono sostanzialmente. Minori sono le informazioni quantitative a livello globale e comparativo su questo fenomeno rispetto ai due precedenti. Il primo quadro mondiale disponibile descrive la situazione alla vigilia della prima guerra mondiale. Si vede chiaramente che la Gran Bretagna è di gran lunga il maggior investitore mondiale, seguita dalla Francia. Importanti sono alcuni paesi piccoli, come Olanda, Belgio, Svizzera e Svezia; gli Stati Uniti avevano ancora una proiezione esterna modestissima. Da altre fonti risulta che l’America Latina attirava poco più del 19% del totale, l’Asia il 14%, l’Africa l’11%, mentre il resto andava ai paesi di insediamento europeo (Stati Uniti, Canada, Australia, ecc.). Per quanto riguarda la suddivisione settoriale, ben oltre la metà era impiegato nello sviluppo di risorse naturali indispensabili per le nuove industrie, venivano poi le infrastrutture, mentre alle industrie manifatturiere andava solo il 15%.

E con un prepotente allargamento dei mercati internazionali dei beni, del lavoro e della finanza che nasce una vera e propria economia internazionale e ogni paese deve

prestare attenzione alla sua bilancia dei pagamenti, che mette a confronto tutti i pagamenti da effettuare all’estero a qualunque titolo (importazioni, lavoro straniero da remunerare, capitali da mandare all’estero) con tutti i pagamenti ricevuti dall’estero (esportazioni, rimesse degli emigranti, capitali investiti), per vedere qual è la situazione del paese. Se la bilancia dei pagamenti è in pareggio, il paese può continuare indisturbato nei suoi progetti di modernizzazione economica. Se la bilancia dei pagamenti è in avanzo, è in una situazione di squilibrio, che tenderà a produrre aggiustamenti, ma in generale le attività economiche interne non ne sono influenzate negativamente. I problemi sorgono invece quando la bilancia dei pagamenti è in deficit, perché il paese non riceve dall’estero abba-stanza valuta per effettuare i propri pagamenti sull’estero. Se ha delle riserve, può temporaneamente utilizzarle, altrimenti può farsi concedere del prestiti, ma alla fine dovrà comunque trovare il modo di raddrizzare la situazione agendo sulle variabili economiche interne. Questa nota finale sulla bilancia dei pagamenti è essenziale per capire il funzionamento del primo sistema internazionale dei pagamenti che, si affermò, alla discussione del quale ora ci rivolgiamo.

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Il gold standard (trattato anche nel file Storia dell’economia europea 2)

Come fu reso possibile il funzionamento di un’economia internazionale che diventava sempre più complessa in assenza di organismi internazionali di supervisione? La risposta a questa domanda è semplice: attraverso la genera-lizzazione di un sistema monetario internazionale noto come gold standard (regime aureo). Per arrivare a comprendere gli elementi essenziali di questo sistema monetario, va ricordato che fin dal medioevo si era sviluppato in vari paesi europei uno standard misto di circolazione monetaria metallo prezioso/banconote. Alcuni paesi utilizzavano due metalli (oro e argento), e lo standard si chiamava allora bimetallico, altri utilizzavano solo l’argento o solo l’oro, e si parlava allora di monometallismo. Convenzionalmente, si fa risalire al 1717 l’inizio del gold standard in Gran Bretagna, quando Isaac Newton, responsabile della zecca, fissò il prezzo dell’oro a 3 sterline, 17 scellini e 10,5 pence. Poiché il paese leader, ossia la Gran Bretagna, preferì l’oro, quello che entrò in funzione internazionalmente nella seconda metà dell’Ottocento fu il monometallismo aureo.

Originariamente c’erano solo monete metalliche in circolazione, ma il diffondersi delle pratiche bancarie di uso di cambiali, tratte, quindi di banconote, più facili da circolare e anche da moltiplicare, aveva relegato sempre più il metallo come «riserva» in lingotti nelle casseforti delle banche, una riserva che non copriva interamente la circolazione cartacea. Uno dei cardini del sistema restava, tuttavia, il diritto di convertibilità della cartamoneta in metallo prezioso, che serviva ad impedirne, in linea di principio, l’eccessiva emissione, a una parità fissata, che si doveva mantenere pari a tiri multiplo fissato dalla consuetudine prima, e poi dalle leggi, nei confronti della «riserva» di metallo prezioso. Per aumentare la circolazione cartacea oltre quanto permesso dalla riserva esistente, occorreva acquisire più metallo prezioso, il che non era mai facile, mentre, viceversa, quando il metallo prezioso diminuiva, occorreva restringere la circolazione cartacea. Era questa la «disciplina» del sistema legato al metallo prezioso.

Poiché si trattava comunque di un sistema Fiduciario, dato che non esisteva abbastanza metallo in riserva per convertire tutte le banconote in circolazione, esso si reggeva sulla corretta applicazione delle regole del gioco, altrimenti si avevano corse agli sportelli delle banche per effettuare la conversione, il che portava l’intero sistema al collasso e all’uscita dalla convertibilità (che si chiamava corso forzoso, quando cioè il pubblico era forzato a detenere moneta cartacea). Fin qui il suo funzionamento interno a ciascun paese. Quello che ha attirato l’attenzione di moltissimi studiosi è il fatto che questo regime ha prodotto un meccanismo automatico di riaggiustamento internazionale degli squilibri nelle bilance dei pagamenti tale da mantenere i cambi fra le monete fissi e quindi un notevole ordine e stabilità dell’economia internazionale, che poteva contare su monete che non cambiavano di valore. Ora, non è un caso che i due periodi più prosperi ed espansivi del capitalismo industriale fino ad oggi, ossia 1870-1914 e 1947-73, sono stati anche i due periodi in cui hanno prevalso mantenuti fissi dal gold standard. I nessi fra cambi fissi ed espansione internazionale hanno suscitato una vivace letteratura, di cui qui si potranno dare solo le conclusioni principali.

Ma vediamo come funziona il gold standard a livello internazionale. Quando in un paese le cose non vanno troppo bene ed emerge un deficit nella bilancia dei pagamenti, il paese ha difficoltà ad avere sufficienti quantità di moneta straniera e tenderà ad offrire più unità di moneta nazionale per acquisirla, in questo modo portando a svalutare la propria moneta. Poiché, però, vige un regime di convertibilità, chiunque debba essere pagato in quella moneta che tende a svalutarsi preferirà essere pagato direttamente in oro, che mantiene una parità prefissati sia con la moneta che tende a svalutarsi sia con la moneta in cui poi si andrà a convertire l’oro, in questo modo evitando qua-lunque perdita sul cambio. Succede, dunque, che un paese con un deficit nella bilancia dei pagamenti vedrà le sue riserve di oro diminuire (deflusso di oro). Scattano a questo punto le regole del gioco. Con una riserva diminuita, il paese deve diminuire la circolazione cartacea, con una restrizione del credito e un innalzamento del tasso di interesse. A sua volta, queste manovre faranno restringere la domanda interna (e quindi anche quella di importazioni), abbassare i prezzi (e quindi

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rendere le esportazioni più competitive), mentre tassi di interesse più alti attireranno capitali dall’estero. Tutto questo porta a riequilibrare la bilancia dei pagamenti e a impedire l’effettiva svalutazione della moneta che, quindi, pur con lievi fluttuazioni, resterà in sostanza fissa.

Il meccanismo funziona anche, viceversa, per riequilibrare una bilancia dei pagamenti in

avanzo, che vede un afflusso di oro e quindi un’espansione della circolazione cartacea, in questo modo portando alla condivisione dell’onere del riaggiustamento tra paese in deficit e paese in avanzo . Va notato, tuttavia, che i paesi in avanzo talora amavano aumentare le loro riserve e quindi non osservavano le regole del gioco, evitando di allargare la circolazione monetaria (questa operazione si chiama sterilizzazione dell’oro) e creando maggiore difficoltà al paese in deficit, che si vedeva costretto a sostenere da solo tutto l’onere del riaggiustamento. Proprio la gravità di questo onere poteva costringere qualche paese a uscire dal gold standard, lasciando fluttuare la propria moneta, ma gli svantaggi di non far parte del club delle nazioni «a posto» era grande e i governi ricorrevano a questa misura quando proprio non potevano farne a meno e in genere solo temporaneamente.

A questo punto, ci si chiede perché allora il mondo non è sempre rimasto con questo sistema. Alcune osservazioni serviranno a chiarire la questione. Innanzitutto, occorre un’economia internazionale non turbata da eventi troppo traumatici per permettere il corretto funzionamento del sistema. Non è un caso che prolungati periodi di guerra hanno sempre visto l’abolizione del gold standard; inoltre, paesi in difficoltà interne hanno sempre dovuto sottrarsi alla disciplina ferrea del gold standard. Alla luce di questo, alcuni studiosi hanno finito col concludere che sono stati periodi di grande stabilità internazionale a per mettere il gold standard e non è stato il gold standard a generare stabilità, anche se ha certo contribuito a mantenerla.

È poi noto che un sistema di cambi fissi lega indissolubilmente la politica monetaria e fiscale di tutti i paesi che ne fanno parte a quelle del suo leader, attraverso la catena di azioni e reazioni sopra sommariamente descritta. Se e quando si trova un leader in grado di reggere bene il peso di questa leadership dell’intero sistema monetario interna-zionale, le cose funzionano, altrimenti il meccanismo si inceppa. Il gold standard classico fu sostenuto dalla sterlina inglese, non senza problemi per la Bank of England, che non sempre aveva a disposizione abbastanza oro. L’altro episodio di gold standard di successo, deciso nel 1944 a Bretton Woods, e per questo noto anche come sistema di Bretton Woods, fu sostenuto dal dollaro statunitense, e fu una versione depotenziata del gold standard classico, chiamato gold exchange standard, perché la gran parte dei paesi non deteneva sufficienti riserve di oro, ma di dollari, e solo attraverso il cambio con il dollaro poteva accedere all’oro. Anche in questo caso si evidenziarono alla fine degli anni Sessanta problemi che ne decretarono la fine.

Per capire questi problemi, occorre focalizzarsi sul pilone portante del sistema, ossia l’oro. L’oro ha un suo mercato, come qualunque altro bene. Quando è scarso, il suo prezzo tende ad aumentare e viceversa quando è abbondante. Il fatto è che le miniere di oro sono limitate e, soprattutto, vengono scoperte con ritmi che non sono necessariamente collegati all’espansione delle attività economiche. Quindi un sistema di gold standard non mantiene generalmente i livelli dei prezzi fissi: quando c’è poco aumento dell’oro, anche la moneta in circolazione aumenta poco e se contemporaneamente meri te invece le attività economiche aumentano, il livello dei prezzi tende a diminuire (deflazione); quando c’è una forte immissione di oro e quindi la moneta cartacea aumenta più che proporzionalmente all’aumento delle attività economiche, il livello dei prezzi tende ad aumentare (inflazione). Però in un sistema di gold standard inflazione e deflazione si propagano internazionalmente e quindi i cambi possono rimanere fissi.

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Si giunse col tempo a due conclusioni: a) poiché la deflazione non è favorevole all’attività economica, la scarsità di oro che il grande aumento delle attività economiche rendeva inevitabile venne vista come un inutile fattore limitante che, causando la deflazione, interferiva negativamente con le attività economiche; b) al contempo, la necessità (una disciplina «esterna» per impedire l’eccessiva inflazione venne notevolmente ridimensionata dalla maggior consapevolezza e correttezza delle autorità monetarie dei paesi che contavano, cosicché si capì che era possibile mantenere condizioni di stabilità dei cambi (e dei prezzi) anche senza l’oro. Fu a questo punto (1973) che il gold standard venne definitivamente abbandonato, dopo aver insegnato molte lezioni sui meccanismi dei cambi fissi, del riaggiustamento delle bilance dei pagamenti e dei prezzi. E vero che alla fine del sistema di Bretton Woods seguì un periodo travagliato di grande instabilità dei cambi e delle monete, ma la molto maggiore disciplina recuperata negli anni Novanta e la decisione di introdurre una moneta unica europea (quindi un sistema di cambi fissi irrevocabili) mostrano, appunto, che la stabilità è in definitiva legata alle decisioni di politica economica e all’andamento del sistema economico internazionale, di cui la moneta è uno strumento, in una catena di azioni e reazioni, e non la causa.

Gli effetti del colonialismo sui paesi d’origine

Dal momento che questo volume non si occupa dell’in-tero mondo, ma solo dell’Europa, non

è parso coerente trattare esaurientemente il tema del colonialismo, che implicherebbe l’analisi dell’impatto del colonialismo su una sconfinata quantità di paesi dell’America, dell’Asia e dell’Africa. E, tuttavia, opportuno dare conto di alcune recenti analisi che hanno sottoposto a revisione l’opinione prevalente sull’impatto che il colonialismo ha avuto sui paesi co-loniali stessi. Come è noto, gli Stati Uniti noti sono stati una potenza coloniale, al contrarlo di molti paesi europei, e anche del Giappone (Taiwan, Singapore, la Corea).

L’opinione dominante fino a tempi recenti, accreditata soprattutto da una letteratura ispirata al leninismo, era che i paesi coloniali avessero tratto grandi benefici dal colonialismo, mentre i paesi colonizzati non ne avevano avuto che effetti negativi. Questa visione è, fra l’altro, basata sull’idea che il gioco economico sia sempre a somma nulla, ossia quello che una parte perde l’altra guadagna. Il gioco economico, invece, è molto più complicato e può dar luogo a risultati a somma positiva, in cui tutte le parti in causa guadagnano, ma anche a giochi perversi a somma negativa, in cui tutte le parti in causa perdono. Il giudizio su una vicenda, inoltre, dipende anche dall’orizzonte temporale considerato. Quello che sul breve periodo può essere considerato un guadagno, sul lungo si può rivelare una perdita e viceversa. Ora, il colonialismo è tipicamente una vicenda che va analizzata sul lungo, anzi sul lunghissimo, periodo.

Un’ulteriore premessa è ancora necessaria. Il colonialismo è un fenomeno che ha avuto molteplici dimensioni: l’avventura di nuove scoperte geografiche, la spinta alla conversione religiosa di nuove popolazioni, il desiderio di avere nuove terre di insediamento, l’orgoglio di espandere la propria cultura, la necessità di controllare zone militarmente strategiche, la spinta a competere con altre potenze e anche l’interesse economico, il quale spesso non era predominante. Sulla base di queste premesse, possiamo ora tentare un’analisi comparativa basata su un indicatore che ci dà la misura del coinvolgimento della madrepatria nell’economia delle colonie: il commercio. Dalle scarse informazioni sugli investimenti di capitale, questi si rivelano strettamente correlati all’importanza del commercio.

La Gran Bretagna era l’unica nazione che già alla vigilia della prima guerra mondiale aveva un forte legame con le colonie, mentre Francia e Giappone li rinsaldarono molto nel periodo fra le due guerre. Per gli altri paesi il coinvolgimento era irrilevante,

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particolarmente per la Germania (a cui poi le colonie vennero tolte con il trattato di Versailles). Il campo, quindi, si restringe a ben pochi paesi, per uno solo dei quali, la Gran Bretagna, possediamo accurate analisi quantitative basate su uno schema costi-benefici. Poiché le colonie costavano (in spese militari e amministrative ma, come vedremo, anche in opportunità alternative perdute, oltre che alla fine per gli effetti della decolonizzazione), per capire se ci furono dei benefici, questi vanno calcolati al netto.

Ciò è quanto è stato fatto in un volume di Davis e Huttenback. Gli autori hanno considerato il tasso di profitto delle imprese inglesi nell’impero nel periodo 1865- 1914 come il beneficio ottenuto dall’essere là insediati. Hanno quindi calcolato i costi diretti (militari e amministrativi) e li hanno sottratti, per ottenere un tasso di profitto al netto dei costi. Confrontando poi questo tasso di profitto netto cori il tasso di profitto ottenuto dalle imprese inglesi sugli altri mercati non coloniali, hanno concluso che ci furono dei vantaggi nelle colonie fino agli anni Ottanta dell’Ottocento, soprattutto perché molte imprese inglesi fino ad allora vi operavano come monopolisti.

In seguito, questa condizione cambiò e anche altre cose mutarono,così che i tassi di profitto fuori dalle colonie furono superiori. Naturalmente, gli investitori guadagnavano il tasso di profitto nominale e quindi continuarono a ritenere l’investimento profittevole e a spingere i governi inglesi a rimanere nelle colonie. Chi ci perdeva era la Gran Bretagna come paese e coloro che pagavano le tasse che servivano a far fronte ai costi delle colonie.

Va notato che i costi considerati nel lavoro citato sono solo quelli diretti. E’ stato già anticipato sopra che ci possono essere anche costi indiretti. La cosa è rilevante soprattutto nel caso inglese, dato il forte coinvolgimento della struttura economica della madrepatria nelle colonie. Ebbene, è stato notato da molti che l’eccessiva insistenza dell’industria inglese (overcommitment) in produzioni della prima rivoluzione industriale (tessili, acciaio e ferrovie) che causò il declino della leadership inglese è proprio da collegarsi alla disponibilità di mercati coloniali per questi prodotti, ormai superati tecnologicamente in i più sofisticati conte quelli europei già prima della guerra mondiale. Se a questo aggiungiamo l’impatto negativo della decolonizzazione successiva alla seconda guerra mondiale, possiamo certamente concludere con Davis e Huttenback che: «the British as a whole certainly did not benefit economically from the Empire. On the other hand, individual investors did».

LE CONSEGUENZE SOCIALI ED ECONOMICHE DELLA PRIMA GU ERRA MONDIALE E DELLA PACE DI VERSAILLES

Molte sono le ragioni che hanno scatenato la prima guerra mondiale e non è questo il luogo per offrirne una sintesi esaustiva; ci si limiterà a richiamare quelle legate a motivazioni economiche. Il dissenso franco-tedesco sul possesso di Alsazia e Lorena aveva anche un importante risvolto economico, ossia le miniere di ferro, di zinco e di carbone ivi localizzate; il successo e l’espansionismo delle imprese tedesche veniva visto con forti preoccupazioni negli ambienti nazionalisti italiani; i contrasti economici nei Balcani fra tutte le principali potenze erano vivaci; era sorto un serio dissenso tra Germania e Russia (che all’epoca confinavano, non esistendo la Polonia) sul protezionismo. Nessuna di queste motivazioni, tuttavia, sarebbe stata sufficiente a scatenare una guerra, se non avesse ancora avuto profonde radici in Europa la convinzione che la guerra fosse uno strumento valido per far prevalere un’egemonia e per acquisire nuovi territori, in questo modo arricchendo il vincitore.

Si trattava di un’eredità del passato preindustriale, quando la stagnazione della produttività e

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lo scarso stock di capitale accumulato potevano offrire qualche giustificazione a una simile convinzione. Il fatto è che nell’epoca industriale, non solo tale convinzione non aveva più fon-damento, perché altri erano diventati i modi per arricchirsi (l’investimento per aumentare la produttività e quindi il reddito pro capite), ma la guerra diventava motivo di rallentamento dell’accumulazione, attraverso le distruzioni del capitale fisso e lo scompiglio dei mercati, e spesso si concludeva con notevoli economiche per tutti i combattenti (gioco a somma negativa). Questa nuova consapevolezza, tuttavia, tardò molto a diffondersi in Europa, particolarmente in certi paesi come la Germania, dove persino industriali importanti come Rathenau erano favorevoli alla guerra.

La prima guerra mondiale fu lunga e distruttiva, in capitale umano e in capitale fisico. Quasi 9 milioni furono i soldati morti in guerra, ma circa 40 milioni di persone furono falciate tra 1918 e 1919 dall’epidemia di «spagnola», un’influenza letale che si diffuse a causa della guerra, senza contare i morti della guerra civile in Russia. Se fu in larga misura una guerra di posizione, non mancarono però incursioni aeree e occupazione del territorio in Francia, Belgio, Polonia, Veneto, che venne messo a ferro e fuoco e dove sono da registrare gli effetti delle prime incursioni aeree della storia. Le finanze dei belligeranti vennero messe a dura prova, perché le spese militari furono molto pesanti, con effetti che si faranno sentire a lungo, come vedremo. In alcuni paesi, poi, come in Francia e Italia, ci fu la necessità di allargare l’insufficiente base produttiva nell’industria dell’acciaio, degli armamenti e degli esplosivi, il che comportò ulteriori impegni finanziari da parte dello stato. Poiché risultò impossibile, con la parziale eccezione della Gran Bretagna, far fronte a questi impegni solo con l’aumento delle imposte e l’allargamento del debito pubblico, i governi fecero ampio ricorso alla stampa di cartamoneta, con conseguente processo di inflazione, in parte represso dai controlli durante la guerra, ma esploso successivamente, e uscita dal gold standard.

L’inflazione, il riaggiustamento dei conti pubblici, il ritorno al gold standard, il reinserimento dei militari non deceduti in attività talora assunte dalle donne, la conversione delle industrie dalle produzioni di guerra a quelle di pace, la riparazione dei danni materiali furono tutti problemi non facili che vinti e vincitori dovettero risolvere in assenza di qualunque aiuto internazionale, problemi che causarono forti tensioni sociali e politiche e noti sempre portarono a soluzioni adeguate, come vedremo nel caso delle quattro principali economie europee. Oggetto di questo capitolo saranno invece i due più macroscopici effetti delle clausole della pace di Versailles del 1919, ossia lo smembramento dell’impero Asburgico e le riparazioni tedesche.

Lo smembramento dell’impero Asburgico e la riorganizzazione territoriale dell’Europa

Alla Germania fu tolto il 13% del suo territorio, restituendo l’Alsazia e la Lorena alla Francia e accorpando le regioni polacche al resto della Polonia ristabilita come nazione, attraverso il recupero anche della parte russa e di quella asburgica. Dalle ceneri dell’impero Asburgico vennero forniate 10 nuove (in parte o totalmente) nazioni, più due città libere (Fiume e Danzica) e le regioni che passarono all’Italia. Le frontiere doganali furono aumentate, le monete in circolazione si moltiplicarono e con esse le banche centrali, nuovi sistemi fiscali dovettero essere impiantati, il che significò l’ulteriore frammentazione dell’Europa. Ma ancora più foriero di instabilità futura fu il modo in cui le nuove nazioni dovettero migliorare la loro vita economica, prive di qualunque aiuto internazionale che non fosse di consulenza. Ci fu solo un piccolo fondo privato americano di aiuto (ARA, American Relief Administration) che durò da gennaio a luglio del 1919. La debole Lega delle Nazioni creata a Versailles fu in grado solo di organizzare qualche conferenza internazionale e di fornire consulenze per la messa in funzione delle finanze e della moneta in alcuni dei nuovi paesi nati dalla rottura dell’impero Austro-Ungarico, ma tutti i capitali necessari dovettero essere raccolti sui mercati internazionali a tassi correnti, con un conseguente grosso peso

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debitorio gravante sulla finanza pubblica degli stati appena costituiti.

Quali furono, oltre alle incertezze istituzionali e all’indebitamento estero, gli altri principali problemi che dovettero affrontare i nuovi stati? Sostanzialmente quattro:

1. La riforma agraria. Per motivi politici ed economici insieme, i latifondi di cui erano ancora largamente popolate queste aree dell’est europeo andavano ridimensionati e questo richiedeva riforme politicamente difficili ed economicamente travagliare, nel senso che il latifondo, appena smembrato, di solito dà come risultato un calo di produttività, superato dopo la costruzione di opportune infrastrutturazioni da uno sfruttamento più intensivo.

2. Il ridirezionamento del commercio. I legami commerciali di aree che precedentemente facevano parte di compagini nazionali diverse dovevano essere da un lato riorganizzati in funzione del mercato interno e dall’altro di mercati esteri più diversificati, un processo che richiedeva tempo.

3. 1l ricompattamento e ridimensionamento delle infrastrutture. Anche le infrastrutture interne erano o appartenute a nazioni diverse e quindi avevano standard diversi o costruite in funzione di direzioni e dimensioni diverse. Si pensi a Vienna, che era stata la capitale dell’impero e si trovava ad essere solo la capitale di un piccolo paese o alla Iugoslavia e alla Polonia, che ereditarono ferrovie con tre standard diversi.

4. La promozione dell’industria. P o c h e d e l l e n u o v e n a zioni (sostanzialmente solo Cecoslovacchia e Austria) avevano una base industriale di qualche importanza (relativa, naturalmente) e quindi tutte si trovarono a dover promuovere l’industrializzazione in un contesto non certamente favorevole. Tutte pensarono subito ad aumentare i dazi, causando una tendenza generale in Europa al loro aumento, che poi verrà ancora rafforzata, come vedremo, dopo la crisi del ‘29. Il successo in questi tentativi di forzare l’industrializzazione fu molto deludente; successivamente la grande crisi peggiorò la situazione dovunque. Solo la Cecoslovacchia ebbe un buon tasso di crescita e quasi raddoppiò il suo indice della produzione industriale, partendo da una base nel 1920 abbastanza buona; seconda per tasso di crescita viene la Iugoslavia, tuttavia il livello di reddito pro capite nel 1929 la colloca poco sopra Romania e Bulgaria; Polonia e Bulgaria mostrano risultati veramente deludenti, la Polonia soprattutto per gli effetti particolarmente negativi della guerra (la produzione industriale nel 1920 era caduta ad un terzo del livello prebellico) e la Bulgaria per una totale disorganizzazione del paese. Se teniamo a mente che il livello di reddito pro capite della stessa Austria nel 1929 era poco più della metà di quello degli Stati Uniti, ci rendiamo conto della povertà di questi paesi.

In conclusione, si può affermare che la riorganizzazione territoriale dell’est europeo avrebbe avuto bisogno di un lungo periodo di prosperità internazionale e di pace per consolidarsi ed evolvere verso un assetto più prospero di quelle aree; ma questo non avvenne, in primo luogo perché si scatenò la grande crisi e quindi perché scoppiò la seconda guerra mondiale, foriera di una soluzione che rinviò ancora di almeno cinquant’anni il consolidamento economico dell’area. La povertà e le difficoltà dell’Europa orientale la resero instabile e debole, facile preda delle convulsioni che attanagliarono l’Europa occidentale.

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Le riparazioni tedesche

Nei 14 punti del presidente americano Woodrow Wilson che costituirono la base della pace di Versailles, ve n’era uno che prevedeva che la Germania, ritenuta responsabile della guerra, pagasse una somma «riparatrice» per i danni subiti dagli alleati. Il punto in questione così recitava: «La Germania pagherà un compenso per i danni arrecati alla

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popolazione civile degli alleati e alle loro proprietà a causa dell’aggressione da parte della Germania per terra, per mare e dall’aria». Come ognuno può giudicare, non vi erano fissati dei parametri quantitativi e l’interpretazione dei danni poteva essere più o meno estensiva. Si poteva infatti pensare che la Germania dovesse pagare anche i costi delle truppe di occupazione e le pensioni di guerra dei paesi alleati. Per arrivare ad una proposta operativa, venne nominata una commissione per le riparazioni con sede a Berlino e intanto vennero fatte requisizioni di materiali in natura.

Ma prima di seguire le intricate vicende della fissazione delle riparazioni, fermiamoci un attimo a riflettere sulla cosa in sé. Anche in passato, alla parte che perdeva una guerra era talora stato richiesto di pagare un’indennità, ma in generale si trattava di una somma una tantum, in alcuni casi versata in qualche rata. Alla fine della guerra franco-tedesca del 1871, alla Francia fu richiesto di pagare una somma in oro alla Germania, il che venne fatto rapidamente, aumentando le riserve di oro della Germania e causando (in regime di gold standard) un episodio inflazionistico che non giovò alle esportazioni tedesche. È noto che Bismarck si pentì di aver chiesto un’indennità, arrivando a dire che la prossima volta che vinceva una guerra avrebbe pagato lui un’indennità al perdente (per causarne la rovina economica). Emerge da questo episodio che il pagamento di un’indennità destabilizzava l’equilibrio economico esistente, oltre ad essere odioso per la parte perdente e anche difficoltoso, se le riserve di oro erano state tutte perse, come nel caso tedesco (ma non in quello francese citato sopra).

Si capisce a questo punto perché una mente fine come quella di Keynes, in uno dei suoi primi scritti che ebbero grande circolazione, raccomandasse prudenza e moderazione con le richieste di riparazioni, se non si voleva incentivare la vendetta da parte dei paesi oppressi. Poiché, come vedremo tra breve, le riparazioni tedesche erano anche collegate al pagamento dei debiti di guerra da parte degli alleati, Keynes suggeriva che questi venissero cancellati, anche perché riteneva che né le riparazioni né i debiti di guerra sarebbero comunque stati pagati per più di qualche anno, perché «non sono compatibili con la natura umana né con lo spirito dei tempi (they do not square with human nature or agree with the spirit of the time)».

Le raccomandazioni di Keynes terminavano con un’esortazione agli Stati Uniti, che lui

già vedeva chiaramente come la potenza egemone, ad essere larghi di aiuti per la rico-struzione europea.

Nessuno dei suggerimenti di Keynes fu accolto e la realtà superò tutte le sue più tragiche previsioni con il secondo grande conflitto mondiale. Il fatto è che gli Stati Uniti furono inflessibili nel richiedere il pagamento dei crediti che avevano inviato agli alleati durante il conflitto e questo rese altrettanto rigidi i paesi europei vincitori nel pretendere che la Germania pagasse riparazioni in quantità almeno sufficiente a rimborsare il debito con gli Stati Uniti. Questo legame tra debiti di guerra e riparazioni determinò un circolo vizioso che finì col provocare molti danni. Vediamo ora di capire come gli eventi si inanellarono. La prima proposta della commissione berlinese per le riparazioni fu avanzata alla conferenza di Boulogne del 20 giugno 1920 ed era di 269 miliardi di marchi-oro. Per capire l’ordine di grandezza di questa somma, la si può confrontare con il PIL tedesco dell’epoca: si trattava di una somma pari a circa 6 volte il PIL tedesco. Non ci si sorprende dunque nell’apprendere che i tedeschi non ritennero la somma realistica e chiesero una revisione. Nella conferenza di Parigi del gennaio 1921, la commissione fissò una somma minore – 226 miliardi di marchi-oro –, ma vi aggiunse un prelievo del 12%, sulle esportazioni tedesche per 42 anni, oltre ai pagamenti in natura già sopra citati. La Germania replicò che si trat-tava di condizioni . ancora inaccettabili, al che gli alleati risposero nel maggio del 1921 con «l’ultimatum di Londra», nel quale le riparazioni erano fissate a 132 miliardi di marchi, da pagarsi a rate con un tasso d’interesse al 6%. Per assicurarsi il flusso dei pagamenti, la commissione aveva individuato una serie di cespiti fiscali che avrebbero dovuto essere dedicati allo scopo. Questo ammontare era ancora tre volte maggiore di quello che Keynes

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aveva ritenuto il massimo possibile. Questa volta la Germania non aveva scelta, ma poiché la situazione economica interna

era caotica, chiese una moratoria dei pagamenti in danaro, mentre continuavano quelli in natura. Fu proprio su questi pagamenti in natura (partite di pali telegrafici e di carbone) che si aprì un contenzioso che finì col portare all’invasione della Ruhr da parte di truppe francesi e belghe nel gennaio del 1923. Gli invasori pretesero di dirigere loro stessi le operazioni di fornitura dei prodotti, una cosa che generò una reazione di resistenza passiva da parte della popolazione tedesca, che cessò di produrre e dovette essere mantenuta attraverso sussidi governativi.

La situazione monetaria della Germania, già molto precaria, incominciò a peggiorare drasticamente. Se nel 1921 le imposte coprivano il 47% delle spese e nel 1922 il 40%, nel corso del 1923 la copertura precipitò fin che in agosto solo il 7% delle spese era coperto da entrate, e in ottobre solo 1’1%, il resto essendo coperto dalla stampa di cartamoneta. L’inflazione si tramutò in iperinflazione e il sistema monetario tedesco venne distrutto. Mentre rinviamo al prossimo capitolo la descrizione di come la Germania si riorganizzò dopo questa vicenda, portiamo qui a conclusione quella delle riparazioni, sulle quali non si volle recedere nemmeno dopo aver visto gli effetti perversi che avevano provocato. Nel dicembre del 1923, quando si decise di ricostituire il sistema monetario tedesco, venne affidato a una commissione presieduta da un alto funzionario americano, Charles Dawes, il compito di fissare un piano ragionevole di pagamento delle riparazioni. Il Piano Dawes, che entrò in funzione nel 1924, prevedeva il paga mento di rate annuali che aumentavano con un indice di prosperità dell’economia tedesca, senza fissare un orizzonte temporale. Inoltre, per facilitare l’inizio del meccanismo, prevedeva un prestito di carattere commerciale da piazzare sulla borsa di New York, che ebbe notevole successo, permettendo all’economia tedesca non solo di iniziare il pagamento delle riparazioni coni proventi di tale prestito, ma anche di coprire qualche altro «buco» della bilancia dei pagamenti.

Nel 1928, poiché la situazione sembrava migliorata, si pensò di rendere più definitivo il metodo delle riparazioni con un nuovo piano, affidato a una commissione presieduta dal banchiere americano Owen Young, che nel 1929 produsse un altro piano, noto come Piano Young. In esso si abbassava la rata annuale (prevedendone un aumento successivo) e si fissava l’orizzonte temporale del pagamento in trentasette anni. Quando l’accordo fu raggiunto l’economia tedesca era già in crisi, mentre quella mondiale precipitò di lì a poco con la crisi americana. Il pagamento di riparazioni e debiti di guerra venne sospeso nel giugno del 1931, al culmine della crisi finanziaria internazionale, e non venne più ripreso in seguito.

In conclusione, le riparazioni effettivamente pagate furono un ammontare assai modesto, soprattutto se si accoglie la stima della Commissione berlinese, che escludeva gran parte dei pagamenti in natura e del valore dei beni tedeschi all’estero confiscati, che invece comparivano nella stima del governo tedesco. Permise un così misero risultato, dunque, si mise in campo una determinazione degna di miglior causa e, soprattutto, si ottennero gli effetti perversi che Keynes aveva anticipato. Le responsabilità di tale insipiente politica vanno equamente divise fra gli Stati Uniti, ancora troppo isolazionisti per pensare di assumersi l’onere di equilibrare l’economia — e la politica — mondiali, e i paesi europei, che ancora non avevano capito che occorreva abbandonare interamente la logica nazionalistica e della vendetta, per abbracciare una nuova logica di integrazione europea. Va infine notato che la vicenda delle riparazioni tedesche non fu solo un grande errore politico. Anche dal punto di vista economico era mal congegnato il circuito dei trasferimenti internazionali. Gli Stati Uniti, intatti, che volevano essere ripagati dei loro crediti, avrebbero dovuto avere una bilancia dei pagamenti in deficit, per assorbire capitali dall’estero. Continuavano, invece, ad avere una bilancia dei pagamenti in avanzo, trovandosi, così, nella necessità di finanziare essi stessi i trasferimenti a loro rivolti, in questo modo rendendo di fatto impossibile quello che loro stessi pretendevano.

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LE DIFFICOLTA DELL’ECONOMIA EUROPEA NEGLI ANNI VENT I

Gli anni Venti, che furono assai vivaci ed espansivi per gli Stati Uniti e il Giappone, videro

un’Europa incapace di dar vita a un nuovo ciclo di sviluppo, fondamentalmente per i motivi strutturali e di relazioni internazionali. A questi motivi, alcuni paesi aggiunsero altre difficoltà proprie, che portarono a sviluppi diversi e ad esiti talora inaspettati e paradossali. Delle quattro maggiori economie, che verranno illustrate in questo capitolo, furono proprio le due che avevano maggiori potenzialità nel periodo prebellico – Germania e Gran Bretagna – che, per motivi diversi, presentarono l’andamento più insoddisfacente ed è alla debolezza dei due paesi europei economicamente più solidi che va fatto risalire il ritardo dell’Europa intera in questo decennio. In questo contesto economicamente depresso, Francia e Italia, a dispetto delle loro travagliate vicende politiche, ebbero risultati economici meno negativi, anche in questo caso per motivi assai diversi. Un’analisi comparativa servirà a confrontare politiche economiche interne e condizionamenti internazionali, per arrivare ad alcune conclusioni,

Germania: dall’iperinflazione alla crisi

La nuova Repubblica di Weimar iniziò la sua vita eco-nomica sotto i peggiori auspici. Non solo le perdite umane della guerra erano state elevate (2 milioni di soldati uccisi), ma il paese aveva perduto il 13 % del suo territorio, con il 75% delle sue miniere di ferro, il 68% di quelle di zinco, il 26% di quelle di carbone. Tutte le colonie erano state confiscate, come pure la marina militare e tutto il materiale bellico, oltre alle navi mercantili superiori a 1.600 tonnellate di stazza, un quarto della flotta di pescherecci e varie migliaia di locomotive, carri ferroviari e camion. Né le requisizioni di beni terminarono lì, perché la Germania fu costretta ad invii in natura agli alleati di svariati prodotti in conto riparazioni fino al 1923.

Quando poi l’inflazione si tramutò in iperinflazione, il funzionamento già precario del paese venne ulteriormente a peggiorare. In un simile contesto, la ripresa economica fu lenta e contraddittoria, con un esagerato potere lasciato in mano agli industriali siderurgici che, nel caos generalizzato e nei numerosi vuoti di potere che si determinarono, formavano il gruppo più coeso e organizzato. Secondo le stime esistenti, nel 1924, primo anno successivo alla stabilizzazione monetaria (di cui diremo fra breve, il reddito pro capite tedesco era 1’89% di quello prebellico, mentre le esportazioni raggiungevano solo il 51%.

Nel novembre 1923, dopo che l’iperinflazione aveva reso il marco inservibile, venne introdotto un nuovo marco, chiamato Renten Mark con un vago richiamo al valore dei beni immobili del paese. Ma fu solo nell’agosto 1924, in corrispondenza con l’applicazione del Piano Dawes che la circolazione monetaria fu alla fine stabilizzata con il Reichs Mark. Poiché fu un afflusso di capitali stranieri che permise questa stabilizzazione, l’economia tedesca si trovò altamente dipendente da tali capitali, che finanziarono, negli anni 1925-27, un terzo degli investimenti interni (di cui due terzi dagli Stati Uniti) e più che finanziarono, con le divise straniere che affluivano, le rate delle riparazioni, mantenendo la bilancia dei pagamenti in equilibrio.

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È dunque vero, come ha scritto Costigliola, che «il Piano Dawes fu il pilastro degli sforzi americani degli anni Venti per sostenere l’economia europea; tiri pilastro, tuttavia, che poggiava su sabbie mobili»’, per molti motivi. La Germania doveva mantenere elevati tassi d’interesse per attirare i capitali, che erano privati e non pubblici. Ma poiché questi capitali venivano presi a prestito per lo più dai comuni, per progetti infrastrutturali pubblici, e dal settore agricolo, non ci si poteva aspettare da tali settori una profittabilità sufficiente alla copertura di interessi così elevati, che tesero, dunque, a calare. In questo modo, l’attrattiva del mercato tedesco per gli investitori stranieri diminuì, particolarmente per i capitalisti americani che a partire dal 1928 videro una borsa in costante espansione. Quando poi, alla fine del 1927, si profilò un raffreddamento della congiuntura tedesca, il ritiro dei capitali americani divenne inevitabile, provocando un aggravamento del rallentamento dell’economia tedesca e quindi una vera e propria crisi, che iniziò verso la fine del 1928, un anno prima della grande crisi americana. Nel 1928, anno postbellico

migliore per la Germania, il reddito pro capite te era solo del 13%0 superiore a quello prebellico, un risultato, tuttavia, che non fu il peggiore fra quelli raggiunti dalle quattro economie che stiamo analizzando. È dunque provato che furono le conseguenze della vicenda delle riparazioni a mantenere depressa e debole l’economia tedesca, fino al punto da renderla uno dei poli della grande crisi. Un altro aspetto di tali conseguenze va qui ricordato ed è la questione della «rivalutazione». L’iperinflazione aveva azzerato tutti i capitali liquidi (depositi bancari, titoli di stato), oltre alla moneta corrente, provocando grandi perdite alla classe media, che era la maggiore detentrice di tali capitali. Dopo la stabilizzazione, si trascinò in parlamento una interminabile discussione sui possibili modi per compensare almeno parzialmente tali perdite, ma alla fine non se ne fece nulla, aumentando la disaffezione della classe media nei confronti della Repubblica di Weimar e spingendo tale classe verso partiti estremi, che vennero poi ulteriormente rafforzati dalle disastrose conseguenze della grande crisi.

Anno di stabilizzazione

Nuova parità rispetto a quella prebellica (%)

Svezia 1922 100 Olanda 1924 100

Gran Bretagna 1925 100

1talia 1926 27,3

Francia 1926 20,3

Cecoslovacchia 1923 14,6

Belgio 1920 14,5

Iugoslavia 1915 8,9

Grecia 1927 6,7

Portogallo 1929 4,1

Ungheria 1924 0,0069

Austria 1922 0,00007

Polonia 1922 0,000026

Germania 1923 0,0000000001

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Gran Bretagna: primato della sterlina a qualunque costo Se le difficoltà della Germania erano prevedibili, date le irragionevoli condizioni ad essa imposte

dal Trattato di Versailles, certo più sorprendente fu vedere che la Gran Bretagna, la potenza vincitrice, si avvitò negli anni Venti in una spirale negativa, che le impedì quasi del tutto di ac-crescere il suo reddito pro capite, che nel 1929 risulta solo impercettibilmente superiore al livello prebellico. La disoccupazione rimase alta, fluttuando tra il 7 e l’1 % per l’intero decen-nio, un tasso simile solo a quello della Danimarca, mentre le esportazioni ristagnavano. Grande è quindi la curiosità di capire che cosa produsse risultati tanto disastrosi.

La Grande Guerra aveva ulteriormente indebolito la Gran Bretagna sia finanziariamente, sia sul piano industriale e commerciale. I suoi impianti non erano stati rinnovati; le sue esportazioni tradizionali erano state soppiantate da altri paesi, mentre aveva accumulato un debito di 4,7 miliardi di dollari nei confronti degli Stati Uniti, a fronte di crediti nei confronti di alleati europei che si rivelarono largamente inesigibili. L’inflazione, benché più contenuta di quella degli altri paesi europei, era superiore a quella americana, rendendo inevitabile una svalutazione della sterlina. Ma proprio questo fu l’evento che si volle evitare a qualunque costo. Vi era la convinzione, largamente condivisa da politici e operatori economici, che i problemi dell’economia inglese sarebbero stati risolti se si fossero ristabilite le condizioni prebelliche, una delle quali era la stabilità monetaria. Quando, su pressione americana collegata al Piano Dawes, gli europei ritornarono al gold standard, la decisione della Gran Bretagna nell’aprile del 1925 fu di ritornarvi allo stesso tasso di cambio con il dollaro che vigeva prima della guerra, ossia 4,86 dollari per sterlina.

Morridge descrive dettagliatamente l’analisi superficiale che venne fatta del funzionamento del golfi standard prebellico, insiste sulla fiducia che gli inglesi avevano di essere ancora leader e quindi di non poter subire contraccolpi negativi da decisioni non cooperative eventualmente ente prese da altri paesi, chiarendo che la teoria economica cui si faceva

riferimento era quella tradizionale che garantiva il

ritorno all’equilibrio

mediante la flessibilità di prezzi e salari e la corretta applicazione delle «regole del gioco» nei pagamenti internazionali e nell’uso delle riserve. Viene anche sottolineato dalla letteratura che la decisione del primo ministro Winston Churchill, non fu soltanto appog-giata dalla City, che non poteva non vedere di buon occhio il rafforzamento della sterlina, ma sorprendentemente persino dalla Confederazione degli industriali, che non sembravano preoccupati della perdita di competitività delle esportazioni.

Fu soltanto Keynes ad alzare una voce inascoltata contro la decisione di Churchill, in un accorato articolo pubblicato subito dopo la stabilizzazione della sterlina, dove si scagliava contro l’uso di una teoria obsoleto, che non corrispondeva a comportamenti effettivi e anticipava che la decisione presa avrebbe mantenuto l’economia inglese in una «cronica posizione di equilibrio spurio», per la combinazione perversa di «sopravvalutazione e deflazione». In-fatti, il governo, per sostenere il cambio sopravvalutato della sterlina, dovette far uso di una politica monetaria restrittiva con alti tassi d’interesse che disincentivarono gli investimenti, mentre le esportazioni cadevano, anche a seguito di un lunghissimo sciopero dei minatori nel 1926. La bilancia dei pagamenti divenne negativa e le riserve si assottigliarono, causando notevoli problemi alla Banca (l’Inghilterra, che non voleva fare ricorso a prestiti. Solo alla fine del decennio la situazione prese a migliorare, per invertirsi nuovamente ben presto, a seguito della grande crisi.

FRA GER ITA GB USA

Reddito pro -capite 135 113 121 104 130

Produzione industriale 142 120 [ 58 128 193

Esportazioni 147 92 123 W I 158

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Francia: una stabilizzazione monetaria realistico

Molti sono i paradossi dell’economia francese degli anni Venti. Il primo è certamente dato dal fatto che la Francia, che subì grosse perdite dalla guerra, riteneva indispensabile ottenere mezzi per la ricostruzione attraverso le riparazioni e su questo basò la sua diplomazia della pace, mentre in realtà finì col ricostruirsi con i suoi propri mezzi, data la lentezza e l’esiguità dei pagamenti effettuati. Di sicuro il recupero dell’Alsazia e della Lorena, regioni ricche di materie prime e industrializzate, giocò un ruolo positivo, come pure fu positivo l’allargamento della capacita produttiva nell’industria pesante realizzata durante la guerra. Ma un altro paradosso va menzionato ed è la grande instabilità politica che afflisse il paese in un crescendo che sembrava inarrestabile, fino a che tra il marzo 1924 e il luglio 1926, nello spazio di 29 mesi si susseguirono Il diversi governi, senza che questo determinasse un rischio di dittatura. In una situazione analoga, la democrazia italiana non resistette. La Francia trovò, invece, un galantuomo credibile e capace come Raymond Poincaré che il 23 luglio 1926 stabilizzò il franco di fatto (legalmente solo nel giugno 1928), riportando ordine nella finanza pubblica e nella politica monetaria, senza danni per la democrazia francese.

Il terzo paradosso è legato al tipo di stabilizzazione che venne effettuata. Contrariamente ai suggerimenti inglesi, il franco venne stabilizzato al tasso corrente, 25,53 franchi per dollaro, contro i 5,18 franchi prebellici, prendendo semplicemente atto della svalutazione del franco che si era avuta tra guerra e dopoguerra, senza tentare improbabili recuperi dei livelli prebellici. E successo francese fu il rovescio della medaglia dell’insuccesso inglese, anche se gli inglesi non vollero ammetterlo, continuando a rim-proverare alla Banca di Francia di avere accumulato oro e al governo francese di avere permesso la svalutazione allo scopo di sottrarre mercati esteri alle esportazioni inglesi. Il fatto è che in un mondo come quello degli anni Venti dove mancavano organismi economici internazionali multilaterali, non vi era modo di armonizzare le decisioni, né era legittimo criticare come improvvido ed egoistiche decisioni prese unilateralmente, quando tutti si muovevano in tale ottica ( Gran Bretagna inclusa!).

L’economa francese fu in generale la migliore fra le quattro qui analizzate, anche se superata dall’Italia quanto a produzione industriale. Particolarmente brillanti le esportazioni, aumentate di circa il 50%, e notevole l’aumento del reddito pro capite, pari ad oltre un terzo.

Italia: dalla democrazia alla dittatura

Se le difficoltà politiche della Francia furono grandi, quelle dell’Italia furono

senz’altro drammatiche, facendola scivolare in vent’anni di dittatura. Sono molti i fattori che hanno spinto il paese a questa uscita dalla democrazia impensabile negli anni prebellici. Li elencherò rapidamente qui e di seguito:

1. il difficile processo di riconversione delle industrie dalla produzione di guerra a quella di pace – che non po-teva essere sostenuto dallo stato, le cui finanze erano già in grosso deficit –, con i conseguenti fallimenti di imprese e banche;

2.il conflitto sociale esacerbato dalla disoccupazione e dall’inflazione, che portò

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all’occupazione delle terre e delle fabbriche nel «biennio rosso» 1919-20;

3.gli sviluppi politici, che videro la creazione del Partito Popolare nel 1919, anno del cambiamento del sistema elettorale da maggioritario a proporzionale, che vide la sconfitta del Partito Liberale e la vittoria di due partiti – il Socialista e il Popolare –, nessuno dei quali con esperienza di governo e per di più non desiderosi di collaborare. I governi minoritari che ne derivarono erano privi della necessaria autorevolezza;

4.la nascita nel 1919 del movimento fascista di Benito Mussolini, che fece ampio uso di azioni illegali non adeguatamente contrastate dalla polizia;

5.l’atteggiamento scarsamente garantiste del re, che non volle bloccare con l’esercito la marcia su Roma dell’ottobre 1922, consegnando il potere a Mussolini che aspettava a Milano e raggiunse Roma con un vagone letto per formare il suo primo governo.

Non è facile giudicare quale di questi fattori pesò di più nel portare al risultato

finale dell’ascesa al potere di Mussolini, ma di certo le condizioni alterate dalla guerra e la mancanza di qualsiasi aiuto internazionale per la ricostruzione furono l’iniziale causa scatenante di tutto il processo, mentre la scarsa pratica di una democrazia di massa (il suffragio universale maschile era stato introdotto solo nel 1912) costituì l’altro motivo di fondo. Ancora, la salita al potere di Mussolini non segnò immediatamente una qualche forte discontinuità con le politiche precedenti, perché Mussolini nominò ministro delle Finanze Alberto De Stefani, un economista accademico liberista, anche se vicino al fascismo. De Stefani continuò nel processo di riequilibrio della finanza pubblica, già iniziato precedente-mente, fino ad arrivare al pareggio di bilancio. Gli scioperi vennero proibiti (ma i sindacati vennero aboliti solo nel 1925) e l’economia si riprese, con un trend troppo infla-zionistico che fece decidere Mussolini alla fine del 1924 a sostituire De Stefani con Giuseppe Volpi, un grande finanziere e imprenditore veneziano, che aveva, fra l’altro, fondato la società elettrica SADE e la compagnia dei grandi alberghi CICR. Volpi dovette affrontare il problema del pagamento dei debiti verso Gran Bretagna e Stati Uniti, che egli riuscì a farsi quasi interamente condonare, e poi dovette effettuare la stabilizzazione della lira per rientrare nel gold standard.

In questo frangente, la sua volontà di stabilizzare la lira al tasso di cambio di mercato, come i francesi, venne superata da Mussolini, il quale impose con il suo famoso discorso tenuto a Pesaro il 18 agosto 1926 la famosa «quota 90», ossia un tasso di cambio sopravvalutato di 90 lire per sterlina, press’a poco lo stesso valore in vigore quando Mussolini era salito al potere. Ciò perché non si pensasse che Mussolini lasciava «perdere di valore» alla lira! Contemporaneamente si consolidò il debito pubblico e si fece una riforma bancaria, in cui la Banca d’Italia diventava per la prima volta la sola banca di emissione.

A seguito di queste misure, molti economisti, fra cui Keynes, preconizzarono una crisi, dovuta alla caduta di esportazioni e investimenti. Il consolidamento del regime, tuttavia, che portò il governo a manovrare al ribasso prezzi e salari senza troppe difficoltà, evitò una crisi di gravi proporzioni così che nel 1928 si vedeva già à una ripresa. Il governo si dedicò allora all’organizzazione della «bonifica integrale», che doveva migliorare strutturalmente l’agricoltura italiana e le condizioni del paese parevano tornate alla «normalità». In complesso, gli anni Venti furono abbastanza positivi per l’economia italiana, che vide la sua produzione industriale aumentare sensibilmente tiri po’ in tutti i settori, particolarmente quello chimico, dove per la prima volta si affacciarono imprese importanti come la Montecatini e la Snia Viscosa. Non è quindi accettabile l’interpretazione tradizionale di un’economia italiana che ristagnò durante il fascismo, anche se vedremo nei capitoli successivi che la reazione del governo fascista alla crisi del 1929 mise il paese su binari sicuramente diversi da quelli che ci si sarebbe potuti aspettare da un governo democratico.

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LA GRANDE CRISI Alcuni richiami teorici

Alla fine degli anni Venti si sviluppò nei paesi capitalistici occidentali una crisi di proporzioni

mai viste. In verità economisti e storici dell’economia lo hanno sempre osservato che il sistema capitalistico ha un andamento ciclico, ma molta discordanza vi è sull’interpretazione dei cicli. Sostanzialmente, esistono tre scuole di pensiero al riguardo:

1. La scuola dell’instabilità, che sostiene che il sistema capitalistico è intrinsecamente instabile, vede fra i suoi aderenti Malthus, Marx e Keynes. Marx arrivò a parlare di contraddizioni interne del sistema dovute all’anarchia del mercato e al sottoconsumo cronico (un aspetto quest’ultimo già illustrato da Malthus), contraddizioni che avrebbe-ro potuto portare il capitalismo anche alla stia autodistruzione. Keynes formulò, proprio in seguito alla crisi di cui parleremo, una teoria di intervento stabilizzatore da parte dello stato per contrastare cadute della domanda effettiva.

2. La scuola della stabilità ritiene che il mercato sia in grado di «digerire» gli shock di varia natura cui e sottoposto, riportando infallibilmente il sistema all’equilibrio. Questa scuola raccoglie la maggior parte degli economisti, soprattutto di matrice neoclassica, e non ha mai avuto interesse all’analisi dei cicli, come si vede anche dalle reazioni attendiste («passerà, non c’è da preoccuparsi»!) di molti economisti dell’epoca alla grande crisi.

3. La scuola dei cicli, che invece mette il ciclo al centro della sua teorizzazione. Il più noto rappresentante di tale scuola è Schumpeter, con il suo ciclo lungo di svilup-po che si ispira all’economista russo Kondratieff,. Da menzionare anche Kuznets, con la sua teoria del ciclo delle infrastrutture (15-20 anni), che accompagna e rafforza il ciclo lungo legato ai regimi tecnologici. Esiste anche una teoria finanziaria del ciclo, che spiega come si arriva all’«euforia» e poi al «panico», e che ha formalizzato l’analisi del Pil.

Sono soprattutto le teorie del ciclo citate da ultimo che ci saranno utili per spiegare che cosa successe tra fine anni Venti e primi anni Trenta, ma prima di passare alle interpretazioni occorre una sintetica esposizione delle particolari congiunture storiche in cui il mondo si venne a trovare.

Fatti e interpretazioni

Tradizionalmente, la grande crisi è stata fatta incominciare dalla caduta della borsa di New, York con una serie di giornate «nere» a partire dal 24 ottobre 1929, Avvisaglie di andamenti negativi vi erano state però negli Stati Uniti anche precedentemente, mentre dobbiamo ribadire che la Germania, la quale, come vedremo, fu il secondo polo della crisi, era già entrata in forti difficoltà un anno prima, a partire dalla fine del 1928. La situazione economica di molti paesi precipitò poi senza ripresa fino al 1932, con particolare contrazione del settore industriale e del commercio internazionale, che, collasso a tiri terzo in valore (perla forte caduta dei prezzi) e a tre quarti in il volume. I due paesi più colpiti furono Germania e Stati Uniti, e poiché la crisi tedesca iniziò prima, possiamo affermare che ci fu un bipolarismo della crisi, con un focolaio in Europa e uno negli Stati Uniti, anche se quest’ultimo è stato molto più studiato. La durata della crisi e la sua gravità furono superiori rispetto a qualsiasi crisi precedente e successiva del sistema capitalistico industriale. Il Giappone fu in gran parte risparmiato da essa, mentre anche i paesi europei che sembrarono cavarsela meglio in termini di reddito ebbero conseguenze a volte ancora più negativi. Gli effetti sociali in un

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contesto dove il welfare state forniva reti di protezione modeste furono dirompenti, con lunghe code di disoccupati, che cercavano un piatto di minestra o un aiuto per la casa.

Esiste una vastissima letteratura sulle cause di una crisi di così vaste proporzioni, che qui non può essere passata in rassegna, ma ormai è emerso un certo consenso sui seguenti cinque elementi esplicativi fondamentali:

1.I mutamenti strutturali che avevano avuto luogo negli anni Venti avevano reso sia il mercato dei prodotti (aumentando il grado di monopolio) sia quello dei fattori (specialmente il fattore lavoro) molto meno flessibili di prima, il che rendeva più arduo ristabilire automaticamente l’equilibrio dopo uno shock.

2.Il sistema monetario internazionale degli anni Venti aveva sì reintrodotto il gold standard, ma a condizioni molto squilibrate.

3.Inoltre, gli Stati Uniti avevano cambiato il loro ruolo da debitori netti a creditori netti, senza seguire «le regole del gioco» per il buon funzionamento del gold standard e sen-za permettere quei trasferimenti netti dall’Europa. Questo rendeva il sistema scarsamente solido e mal funzionante.

4.Il ruolo della caduta della borsa di New York è stato eccessivamente enfatizzato sia come motivo scatenante della crisi (la produzione, il reddito, gli investimenti e i prezzi avevano iniziato a declinare negli Stati Uniti almeno tre mesi prima, mentre in Germania almeno un anno prima) sia come causa principale. A riprova di ciò, si può ricordare che si sono avute crisi di borsa, sia prima sia dopo quella del 1929, di maggiori proporzioni senza conseguenze di crisi così gravi.

Ciò che rese la crisi subito così seria fu una politica monetaria statunitense (ma anche tedesca) molto restrittiva che produsse panico finanziario, fallimenti a catena, deflazione, in assenza di un prestatore di ultima istanza a livello internazionale"). (Vedremo in seguito che in qualche paese si ebbe invece la presenza di un PUI più o meno tempestivo ed efficace che agì a livello nazionale.)

La trasmissione della crisi dai paesi che la generarono agli altri avvenne attraverso i meccanismi del gold standard, della mancanza di coordinamento, della caduta dei prezzi, di una mal interpretata ortodossia fiscale (si continuò a credere nei bilanci in pareggio, anche quando la diminuzione delle entrate spingeva i governi a tagliare la spesa e aumentare le tasse nel bel mezzo della crisi) e di un crescente protezionismo (nel 1931 tutti i paesi, inclusi gli Stati Uniti che non avevano problemi di bilancia dei pagamenti, aumentarono sostanzialmente i livelli di protezione).

Si potrebbe dire che tutte le politiche economiche che utilizzate fino ad allora con risultati generalmente positivi diedero pessima prova in una congiuntura come quella che stiamo analizzando, perché una sincronia quasi generale privò l’economia interna e internazionale di fattori di compensazione. Si prenda ad esempio il protezionismo: se un paese lo inasprisce, potrà pensare di importare meno ed esportare di più; ma se tutti i paesi lo inaspriscono contemporaneamente, la diminuzione delle importazioni di tutti i paesi farà diminuire le esportazioni di tutti i paesi, dato che a livello aggregato importazioni ed esportazioni si equivalgono. La diminuzione delle esportazioni farà diminuire il reddito e così via in una spirale negativa. Si rifletta anche sulla politica fiscale: se, in generale, un bilancio in pareggio è una buona regola, in presenza di una grave crisi occorre porre in essere fattori compensativi controciclici, come Keynes insegnò al mondo con il suo famoso volume elaborato proprio in connes-sione con le drammatiche vicende della grande crisi.

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Le ripercussioni finanziarie

La catena di eventi legata alla parte finanziaria della crisi è quella più spettacolare e dà la dimensione del livello di interconnessione ormai raggiunto dall’economia mondiale e della necessità di un governo internazionale dell’economia, che verrà posto in essere solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Seguiamola in qualche dettaglio. La situazione delle banche iniziò a peggiorare nella primavera del 1931. La prima crisi scoppiò in Austria, dove il Creditanstalt fallì nel maggio del 1931. Si trattava della più grande banca mista del paese, con una storia negli anni Venti simile a quella delle banche miste italiane: le difficili condizioni del paese spinsero il Creditanstalt a sostenere sempre di più le imprese cui era legato, finendo con l’acquisire il 60% delle azioni delle SPA austriache, anche sotto la pressione del governo. I crediti inesigibili costituivano il 70% del totale delle perdite al momento del fallimento. Inoltre, diversamente dalle banche italiane, il 50% delle sue azioni era in mani straniere (a causa soprattutto della divisione dell’impero Asburgico) e il 40% delle sue attività era all’estero. Poiché le richieste di aiuto non vennero accolte (abbiamo già detto dell’inesistenza di un Pil internazionale), il governo austriaco intervenne mediante la banca centrale, ma con molto ritardo. Solo nell’ottobre 1931 vennero introdotti controlli dei cambi e lo stato si decise a diventare l’azionista di riferimento della banca, rimettendola in piedi senza alterarne il funzionamento come banca universale.

L’incapacità di bloccare subito il fallimento della banca viennese ebbe ripercussioni ancora più serie. Le banche ungheresi furono le prime ad andare in crisi, ma ben presto le difficoltà si spostarono in Germania. Tra la fine di maggio e la metà di giugno la Reichsbank perse metà delle sue riserve di oro (si ricordi che era ancora in vita il gold standard). Gli Stati Uniti dovettero correre in aiuto della Germania, e il 20 di giugno il presidente Hoover accordò una moratoria nei pagamenti delle riparazioni e dei debiti di guerra, superando a stento l’ostilità della Francia. Si provò ad organizzare tiri prestito internazionale, ma con scarso successo. In luglio la crisi bancaria esplose, con il fallimento di una delle quattro più grandi banche miste (la Danat). Il governo decise di chiudere banche e borsa per una settimana, predisponendo un pacchetto di misure, fra cui l’aumento del tasso d’interesse al 10% e un’ iniezione di liquidità nelle banche miste. La Danat venne fusa con la Dresdner Bank e il suo capitale, come quello della Commerz, divenne a maggioranza pubblico, mentre alla Deutsche Bank bastò una partecipazione pubblica di un terzo. Anche in questo caso, non si alterò il funzionamento delle banche, che ritornarono private alla fine del decennio 1930.

La crisi bancaria tedesca diffuse i suoi effetti in tutta Europa, con una corsa all’oro che finì col mettere sotto pressione la Banca d’Inghilterra, che aveva riserve modeste, per le difficoltà dell’economia inglese negli anni Venti. Molte furono le divergenze di opinioni sul come affrontarla fino al punto da provocare una crisi di governo. Il nuovo governo costituito il 28 agosto aumentò le imposte e diminuì le spese, in un disperato tentativo di pareggiare il bilancio. Ma il 16 settembre uno sciopero del personale di Marina di stanza a Invergorden che protestava per la riduzione delle paghe venne gonfiato dalla stampa come un ammutinamento e provocò altre gravi perdite di oro da parte della Banca d’Inghilterra. Fu così che la decisione di abbandonare il gold standard si profilò come inevitabile e il 19 di settembre la Banca d’Inghilterra ne informò la Federal Reserve e la Banca di Francia. Il 21 settembre la Gran Bretagna uscì dal gold standard, con ripercussioni particolarmente negative in quei paesi – e furono molti – che non abbandonarono anch’essi il gold standard. In particolare, gli Stati Uniti dovettero dare un altro giro di vite alla loro politica monetaria, il che produsse una nuova spettacolare

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ondata di fallimenti bancari: dal 1929 al 1933, circa 11.000 delle 26.000 banche chiusero i battenti, deflazionando pesantemente l’economia.

La crisi giunse anche in Italia, dove nel settembre del 1931 i direttori delle tre più grandi banche miste dovettero andare a fare visita a Mussolini per chiedere aiuto, Mussolini incaricò il suo uomo di fiducia Alberto Benedice (che divenne noto come il dittatore economico degli anni Trenta) di provvedere. Beneduce organizzò un salvataggio delle banche in due tempi, fondando nel 1931 un nuovo istituto di credito industriale a lungo termine pubblico, l’Istituto mobiliare italiano (IMI), che doveva assumere il ruolo di finanziatone al posto delle banche miste, e sollevando poi le banche miste dalle loro ímmobilizzazioni in azioni, attraverso un altro istituto, l’Istituto di ricostruzione industriale (IRI); che, doveva gestire le partecipazioni della grande holding. Nel 1936, infine, emanò una norma bancaria con la quale aboliva le pratiche di banca mista in Italia, riducendo le tre ex banche miste a banche commerciali possedute dall’IRI. Si può veramente dire che in Italia gli effetti della crisi del ‘29 furono strutturali e duraturi.

L’unico paese europeo che fu risparmiato dalla crisi finanziaria fu la Francia, a causa della sua ampia riserva d’oro (pari al 24% dello stock mondiale); il suo più grave problema sembrava quello di liberarsi delle riserve in sterline svalutate senza rimetterci troppo, ma questa relativa tranquillità non la mise al riparo da un peggioramento l’economia, che anzi, come vedremo non riusciva a riprendersi mentre le altre pian piano recuperavano.

Assenza di cooperazione internazionale

Se qualche timido tentativo fu fatto, a livello internazionale, di direzionare qualche flusso di aiuto verso i punii via via più caldi della crisi, questi aiuti furono del tutto inadeguati e discontinui e contrattati bilateralmente. Ricorderò qui le uniche iniziative degne di nota che la comunità internazionale fu in grado di prendere, iniziando con la fondazione il 20 gennaio 1930 a Zurigo della Banca dei regolamenti internazionali (BRI, in inglese Bank of International Settlements, Bis), che doveva supervisionare il pagamento delle riparazioni. Persa la sua funzione con la moratoria di Hoover, e poi con la fine dei pagamenti decretata da Hitler, diventò un luogo di incontro per i banchieri centrali, dove si potevano concordare prestiti internazionali. La BRI fu anche un luogo privilegiato per la formazione di economisti con competenze internazionali, che poi furono assunti negli organismi internazionali postbellici, e tiri luogo di produzione di idee e piani per la riorganizzazione del sistema economico internazionale. Negli anni del dopoguerra, funzionò come luogo di coordinamento informale degli interventi delle banche centrali europee, anticipando le funzioni della Banca centrale europea

Un cenno merita anche il Convegno economico di Londra del giugno 1933, deciso alla fine del 1932 per studiare i modi per uscire dalla crisi. Poco prima dell’incontro, nell’aprile 1933, anche gli Stati Uniti uscirono dal gold standard, mentre Francia e Italia continuavano a restarvi ancorate in un «blocco dell’oro» di scarsa coerenza interna, insieme alla Germania, che non poteva uscirne in base ai dettami della pace di Versailles. Le speranze di riuscire a raggiungere un’opinione comune su qualche obiettivo non erano molte, anche perché tutti i paesi mettevano al primo posto la loro ripresa interna. Non si riuscì a discutere di abbassare il protezionismo, né di stabilizzare le Monete e nemmeno di lanciare un programma comune di spesa pubblica. Il Convegno terminò con qualche accordo marginale di facciata, come quello sulle vendite di cereali e sul prezzo dell’argento. Infine, ricorderò che nel 1936 venne negoziato tra Stati Uniti, Gran Bretagna

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e Francia l’Accordo Tripartito, secondo il quale i tre paesi si rendevano disponibili a sostenere reciprocamente il corso delle loro monete per 24 ore, in modo che tutte le misure decise dal paese sotto attacco potessero andare in funzione senza che si generasse panico. Inoltre, gli Stati Uniti accettavano di fornire agli altri due paesi oro o dollari a tassi di cambio concordati qualora fosse stato necessario. Si trattava di un accordo limitato, che viene di solito ricordato solo perché si trattò del primo. Ben più sostanziosi e coinvolgenti furono gli accordi internazionali che si sarebbero sottoscritti dopo la fine della seconda guerra mondiale.

In conclusione, si può veramente affermare che da un lato l’assenza di cooperazione internazionale rese il gold standard una camicia di forza e impedì di mettere in funzione un prestatore di ultima istanza, mentre dall’altro le politiche interne volte al pareggio di bilancio non fecero che peggiorare la situazione. Gli automatismi e le ortodossie economiche cui si era abituati non avevano più alcuna presa su un’economia mondiale fortemente interrelata e molto più complessa rispetto alla prima rivoluzione industriale. Priva di un governo adeguato, l’economia mondiale divenne disarticolata e discriminatoria, con l’emergere di blocchi economici e lo scivolamento verso un nuovo conflitto mondiale.

da V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, Bologna, Il Mulino, 2002.

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LA RICOSTRUZIONE E LA GOLDEN AGE (1945-1973)

La seconda guerra mondiale consumò nel fuoco della battaglia un’incredibile quantità di risorse ancora maggiore di quanto non si fosse speso durante la prima guerra mondiale. L’Italia ebbe la mobilitazione più modesta, probabilmente perché il regime fascista non credeva più di tanto nella guerra e non riteneva di poter pretendere da cittadini che ci credevano ancor meno sacrifici consistenti, ma anche perché mancavano le materie prime per poter produrre di più.

L’escalation della Germania e dell’Unione Sovietica a partire dal 1942 e degli Stati Uniti a partire dal 1943 è evidentissima. Gli incredibili livelli raggiunti dalla Germania e particolarmente dall’Unione Sovietica, un paese molto povero, hanno parte della loro spiegazione nel fatto che ambedue queste nazioni (ma anche la Gran Bretagna) potevano contare su risorse aggiuntive provenienti dall’esterno, dagli Stati Uniti per la Gran Bretagna e per l’Unione Sovietica, e dai paesi occupati per la Germania.

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Se dopo le devastazioni del secondo conflitto mondiale si definisce un assetto economico internazionale radicalmente diverso rispetto al precedente, le linee della ricostruzione monetaria e commerciale fanno riferimento, in termini di principio, al solco già tracciato dalla rete di convenzioni che abbiamo visto strutturarsi in origine; quelli che in seguito furono ritenuti gli errori compiuti fra le due guerre proprio nel rifissare parità con l’oro troppo alte, nel non adeguare il regime aureo-valutario internazionale ai nuovi rapporti di forza e nell’adottare politiche nazionalismo economico e di beggar-my-neighbour, divennero una vera e propria fissazione per i policy-makers del secondo dopoguerra. Gli Stati Uniti, usciti dal conflitto consapevoli di essere di gran lunga la prima potenza produttiva, distributiva e finanziaria mondiale, erano tesi alla ricerca di un sistema economico internazionale liberale, fondato sul commercio multilaterale e capace di vincere qualsiasi forma di discriminazione; la sfida sovietica al loro sistema di potere e di valori aveva contribuito a dissuaderli dal ricadere nell’isolamento sperimentato dopo Versailles e proiettava la soluzione del problema europeo – dei rapporti tra l’economia tedesca e quella francese – in un contesto nuovo e sempre più complesso, in cui la formazione dei blocchi avrebbe da quel momento condizionato la forma e la struttura degli spazi d’interazione economici.

Gli esperti e gli uomini di governo occidentali stabilirono quindi un’agenda di priorità differente rispetto a quella infrabellica, puntando sulla piena occupazione e sulla crescita economica, e, come sostiene James Foreman-Peck, finirono per creare, in parte per caso, un ordine cooperativo. Per questi scopi e per evitare di ripetere gli sbagli precedenti vennero create delle istituzioni internazionali alle quali furono chiamati a partecipare tutti i paesi capitalisti e in via di sviluppo.

Già nel corso della guerra erano emersi diversi fattori che avrebbero influenzato e contribuito a caratterizzare il nuovo sistema delle relazioni economiche internazionali postbelliche. Innanzitutto, come si è già accennato, il potere economico degli Usa era notevolmente aumentato sia in termini relativi che assoluti; tra il 1939 e il 1944, anche grazie alle commesse di armamenti effettuate dagli alleati europei al momento dell’invasione della Polonia e all’assenza degli effetti diretti delle incursioni nemiche, il prodotto nazionale lordo, o PNL, statunitense crebbe in termini reali di 1,5 volte, mentre la produzione industriale triplicò; tra il 1941 e il 1944 vennero creati 19 milioni di nuovi posti di lavoro (nel 1944 solo il 20,5% della manodopera aveva un’occupazione legata alla guerra contro il 33% di quella inglese); l’utilizzo medio degli impianti industriali passò da 40 a 90 ore la settimana e la produttività aumentò ulteriormente; tutti i rami del settore secondario trassero beneficio dalla guerra, in particolare quelli più moderni e con maggiori possibilità di sviluppo (aereonautico, automobilistico, metalmeccanico, chimico ed elettrotecnico); l’industrializzazione raggiunse zone vergini del sud e dell’ovest, e la crescita fu così vigorosa che anche i consumi salirono del 13%, portando l’economia americana a livelli che non avevano paragone nel resto del mondo. In secondo luogo, il coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto era stato così intenso che era apparso subito evidente che per loro sarebbe stato impossibile ritornare all’isolazionismo precedente; oltre 30 miliardi di dollari di armi e servizi vennero fatti affluire in Gran Bretagna (e per cifre inferiori in Russia e in altri paesi) in base al Mutual Aid Agreement (Accordo di mutuo soccorso), approvato nel febbraio del 1942 a seguito di una dichiarazione d’intenti (la Carta atlantica, firmata nell’agosto 1941) in cui il Regno Unito si impegnava a ridiscutere l’eliminazione delle preferenze nei confronti del Commonwealth; secondo uno schema noto come Lend-Lease (affitti e prestiti), che prevedeva che i beni forniti agli alleati non dovessero essere pagati in contanti ma rifusi sottoforma di mantenimento delle truppe statunitensi nei loro paesi alleati, una cifra tra il 4 e il 5% del reddito nazionale statunitense venne trasferita all’impero britannico; nel dicembre del 1945, convenendo che il pagamento di grandi indennità avrebbe creato effetti perversi, l’intero conto di mutuo soccorso fra i due paesi, marcatamente pendente verso il Regno Unito, venne cancellato, anche per sollecitare la Gran Bretagna ad allentare gli stretti legami economici esistenti all’interno del suo impero; l’insistenza degli Stati Uniti in questa direzione e la loro avversione verso il sistema di preferenze del Commonwealth nascevano dalla convinzione che, nel commercio

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mondiale, la discriminazione costituisse una causa di contrasti politici e di contrazione di benessere.

L’espansione in Estremo oriente del Giappone – che li aveva trascinati in guerra e che, producendo durevoli cambiamenti politici in questo scacchiere, aveva dato vita ad un altro elemento di novità nel panorama dell’economia mondiale – derivava proprio dall’esclusione del paese del Sol levante dai grandi circuiti commerciali che si erano creati negli anni Trenta; così, dopo la fine delle ostilità, molti stati che erano stati organizzati dal Giappone, al fine di superare l’embargo economico, nella Sfera di prosperità congiunta, ottennero l’indipendenza (nel 1946 le Filippine, e due anni dopo, la Birmania, la Federazione della Malesia e Ceylon) e incominciarono a partecipare come soggetti autonomi all’economia internazionale. Sempre nello stesso quadrante, l’India beneficiò durante la guerra di un buon periodo di prosperità per il surplus delle esportazioni, ma il suo modesto patrimonio tecnologico non fu in grado di avviare una qualche forma di industrializzazione, e, nel 1947, l’indipendenza e la divisione non pacifica con il Pakistan (suo fornitore di materie prime) ne aggravarono l’equilibrio economico.

In generale, per i paesi non direttamente coinvolti nei combattimenti il secondo conflitto mondiale non produsse politiche di sostituzione delle importazioni paragonabili a quelle avviate durante la Grande guerra; la protezione offerta dal conflitto nei confronti della concorrenza manifatturiera dei paesi più avanzati, travolti dalle ostilità, non si rivelò sufficiente ad incentivare una produzione di massa e ad innestare lo sviluppo industriale; all’interno di questa categoria di paesi, ad eccezione del Canada (la cui produzione manifatturiera crebbe di 2,5 volte fra il 1939 e il 1945) e dell’Australia, che segnarono progressi decisivi nella struttura del settore secondario, le conseguenze più rimarchevoli furono il forte aumento della quota latinoamericana di esportazioni mondiali, che passò dal 7,8% del 1938 al 13,4% del 1946, e il vantaggio che alcuni territori africani (Congo belga, Sud Africa, e Africa orientale) trassero dall’estrazione di materiali strategici. Fu sul vecchio continente che nel corso della guerra si verificarono le alterazioni più rilevanti, destinate a ripercuotersi profondamente – come effetti indiretti – sul successivo strutturarsi delle relazioni economiche internazionali; nell’Europa occidentale la terza invasione tedesca della Francia (da cui nel 1943 vennero ottenuti pagamenti pari all’8-9% del prodotto interno lordo della Germania) nell’arco di un secolo, invece di intensificare, come era avvenuto in passato, la reciproca aggressività al termine del conflitto, si risolse di fatto in una decisiva spinta verso l’istituzione di unioni economiche come superamento definitivo del ripetersi delle guerre; nell’Europa orientale, sottoposta ad una politica di occupazione assolutamente distruttiva, la liberazione ad opera della Russia, fece sì che questi territori fossero sottratti alle relazioni stabilite nel periodo infrabellico con l’altra metà del continente e venissero inclusi nel sistema economico sovietico a pianificazione centralizzata, definendo così una linea di separazione dal resto dell’Europa, che ne avrebbe segnato gli orientamenti sia politici che economici.

In questo contesto, caratterizzato da un nuovo equilibrio economico sia in termini di leadership che di influenze geopolitiche, presero forma i vari progetti sull’organizzazione da dare all’economia internazionale dopo la fine della guerra. La Carta atlantica del 1941, cui si è già fatto riferimento, esprimeva una sorta di compromesso fra la posizione degli Stati Uniti, che volevano precisi impegni da parte degli inglesi sulla liberalizzazione dell’economia al termine delle ostilità (soprattutto sull’abolizione delle preferenze imperiali, destinate a rimanere un punto caldo nei rapporti angloamericani) e sulla reintroduzione del gold standard, e quella della Gran Bretagna, per la quale John Maynard Keynes riteneva sarebbero stati necessari molti controlli e interventi pubblici per affrontare la ricostruzione; sottoscritta da Franklin Roosevelt e Winston Churchill, in un drammatico incontro a bordo di un nave da guerra nella Placentia Bay dell’isola di Terranova, non obbligava ad iniziative concrete ma affermava il principio del multilateralismo (contro il bilateralismo infrabellico) e raccoglieva l’impegno dei rispettivi firmatari (e in futuro di altri paesi delle Nazioni Unite) a ripristinare un assetto mondiale cooperativo per espandere produzione, occupazione e scambi, bandendo pratiche discriminatorie e riducendo le barriere al libero commercio. Nella sostanza e sulla base di quanto previsto anche dall’Accordo di Mutuo soccorso

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del 1942 gli inglesi assicuravano di reinstaurare, dopo fine del conflitto, la convertibilità dei conti monetari1 e accettavano il principio della non discriminazione commerciale; i nordamericani garantivano di fornirgli assistenza finanziaria a condizioni favorevoli e di rispettare la loro priorità al raggiungimento della piena occupazione.

Secondo queste linee Keynes, per i britannici, e Harry Dexter White, per gli statunitensi, continuarono a sviluppare i progetti di pianificazione sul fronte monetario e la versione finale dei loro programmi, pubblicata nel 1943, fece da base per il testo comune degli accordi di Bretton Woods. Se i punti di contatto fra la proposta del grande vecchio dell’economia, consulente del Cancelliere dello Scacchiere, e quella dell’irruente ex docente universitario, economista del Tesoro americano, stavano nell’opposizione di fondo ai tassi di cambio flessibili e alle restrizioni commerciali competitive, oltre che nel sostegno al diritto nazionale di controllare i movimenti di capitale a breve termine, le differenze venivano però proprio dall’ordine di variabilità dei cambi e di mobilità dei capitali, oltre che dagli obblighi a carico della nazioni creditrici; per entrambi il tasso di cambio ancorato ad altre valute, e indirettamente all’oro, costituiva una solida difesa contro le esplosioni inflazionistiche (e i conseguenti vantaggi per le esportazioni), promosse dai politici al fine di guadagnare popolarità, ma mentre Keynes prevedeva che per conciliare la piena occupazione con l’equilibrio della bilancia dei pagamenti gli stati potessero variare i tassi di cambio e imporre restrizioni sugli scambi commerciali, sui cambi e sui movimenti di capitali, White configurava un sistema senza controlli (solo con correttivi ex post) e con cambi invariabili, regolato da un’istituzione internazionale con poteri di intervento sui rapporti di parità valutaria.

Il progetto dell’autore della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta avrebbe condotto ad un vero e proprio governo mondiale dei flussi finanziari, per eliminare ex ante gli squilibri nelle bilance dei pagamenti attraverso un monitoraggio centralizzato che introduceva disincentivi sia per le nazioni in deficit che per quelle in surplus: la Clearing Union ideata da Keynes avrebbe infatti concesso i finanziamenti necessari al riequilibrio a condizioni sempre meno favorevoli e con penalità al crescere dell’importo; concepita come una sorta di banca centrale del mondo, l’Unione di compensazione avrebbe trasformato i saldi attivi dei paesi creditori in bancor – una nuova unità monetaria convenzionale da lui proposta come mezzo di pagamento internazionale – le cui quote teoriche avrebbero funzionato come remora e limite per i paesi debitori e come base di intervento per correggere gli eventuali squilibri. Questo significava che se un paese si fosse trovato in costante situazione creditoria verso gli altri, si sarebbe visto costretto a finanziare tutti i loro saldi negativi, che, secondo le stime di Keynes, potevano arrivare ad un equivalente di 23 miliardi di dollari.

Naturalmente gli Stati Uniti, che come potenziali creditori avrebbero dovuto caricarsi di passività illimitate, rifiutarono questa proposta e la loro supremazia economica fece sì che l’Accordo sottoscritto al Mount Washintgon Hotel di Bretton Woods nel New Hampishire, durante il luglio del 19442, quando oramai la Seconda guerra mondiale stava finendo, seguisse da vicino più il loro piano che quello britannico.

1I conti monetari sono la componente della bilancia dei pagamenti che riguarda le transazioni di beni e servizi; quest’ultima categoria dà vita ai conti invisibili, che registrano gli interessi e i dividendi derivanti da investimenti esteri, i proventi della attività di spedizioni marittime e assicurative legate alle transazioni internazionali e i compensi per i servizi finanziari; un disavanzo nelle partite monetarie di un paese significa che gli acquisti (importazioni) di beni e servizi dall’estero sono superiori alle vendite (esportazioni), e quindi ristabilire la loro convertibilità significa che la divisa che esce per saldare questa voce deve essere convertibile ad una determinata parità aurea (o di valuta di riferimento, che come vedremo sarà il dollaro). Oltre che dai conti monetari la bilancia dei pagamenti – che è il confronto fra tutti i pagamenti da effettuare all’estero a qualunque titolo con tutti quelli ricevuti dall’estero a qualunque titolo – è composta anche dai conti capitale, che riguardano gli investimenti esteri. 2I tempi della conferenza di Bretton Woods furono dettati dall’intenzione di definire l’accordo prima che si svolgessero le elezioni statunitensi del novembre del 1944, in cui era prevista la vittoria dei repubblicani isolazionisti; il luogo, nel New Hampshire, fu deciso anche per guadagnare alla causa dell’intesa il senatore repubblicano dello Stato, Charles Tobey.

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La prima delle due istituzioni create (dopo la ratifica degli articoli della conferenza nel dicembre 1945, da parte di 45 paesi)3, il Fondo monetario internazionale (FMI), ricalcava infatti quella prevista da White e il fondo di stabilizzazione internazionale introdotto finiva per impegnare gli americani per una cifra massima di 2,75 miliardi di dollari4, molto più vicina a quella calcolata dallo statunitense (2 miliardi) che a quella quantificata dal britannico. Ma il limite di questi finanziamenti agiva contro il proposito americano di fissare cambi rigidi fra le monete (più esiguo era il fondo con cui si sarebbe dovuti intervenire per difendere le parità dei cambi fra le valute, più i loro rapporti di cambio avrebbero dovuti essere flessibili), e a favore di quello del Regno Unito, che li voleva a parità mobile; la mediazione dette origine al ‘limite di aggiustabilità’ e le nazioni definirono quindi il valore di parità delle loro divise in termini aurei, o in termini di una valuta convertibile in oro (in pratica il dollaro), prevedendo un’oscillazione massima dell’1% rispetto ai termini stabiliti.

Il sistema monetario internazionale postbellico, comunemente noto come ‘sistema di Bretton Woods’, si sarebbe quindi fondato sul cosiddetto Gold Exchange Standard (regime aureo-valutario), in base al quale ogni moneta avrebbe stabilito la propria parità rispetto all’oro, o il proprio tasso di cambio con la moneta di riserva, il dollaro, che assicurava la propria convertibilità nel metallo giallo al prezzo fisso di 35 dollari l’oncia troy (equivalente a 31,10 grammi d’oro); in questo modo si sarebbe creata la correlazione fra le divise di tutti i paesi, che avrebbero detenuto riserve in oro o nella valuta chiave. Per mantenere la quotazione della propria moneta entro il margine dell’1% sopra o sotto la parità fissata (la massima fluttuazione consentita), i governi sarebbero dovuti intervenire sul mercato dei cambi, comprando propria valuta in cambio di oro (o di divise), se essa tendeva al ribasso, vendendone contro valuta straniera, se tendeva al rialzo; le riserve per questi interventi potevano essere integrate dal FMI, alle cui risorse ogni paese membro partecipava con quote parametrate in base al reddito nazionale, al commercio, alle riserve stesse e versate per il 25% in oro (o in dollari) e per il 75% in valuta propria; ogni nazione in difficoltà avrebbe potuto ottenere a prestito dal Fondo (in base al ‘diritto di prelievo’) moneta straniera o oro, di cui aveva bisogno per operare sul mercato, fino al massimo del 200% della sua quota di partecipazione; e se l’accesso era automatico fino al 25% di questa quota, per superarla era necessario negoziare misure economiche stabilizzatrici. Le limitazioni in termini di disponibilità e di concessione dei finanziamenti imposero di mantenere – allo scopo di evitare ulteriori pressioni sui cambi – anche i controlli sui movimenti internazionali di capitali, in contraddizione con la piena libertà dei flussi finanziari del piano statunitense. Il valore nominale delle diverse valute, fissato in termini di oro, o di dollari, e conservato attraverso questo tipo di interventi e di provvedimenti, avrebbe potuto essere variato del 10% solo nel caso in cui la bilancia dei pagamenti di un paese avesse presentato un ‘disequilibrio fondamentale’, il cui significato restava però abbastanza vago.

Anche l’altra istituzione di natura finanziaria, prevista dal testo di Bretton Woods, la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS), pur rappresentando una modificazione, ispirata alle idee di Keynes, rispetto al progetto americano, aveva finito per concretizzarsi con un profilo funzionale radicalmente diverso da quello teorizzato dall’economista di Cambridge; si trattava infatti di una struttura di credito internazionale che doveva contribuire al recupero delle economie devastate dalla guerra e che in seguito doveva venire incontro alle necessità di finanziamento dei paesi in via di sviluppo

Tra il 1946 e il 1948, in base alle deliberazioni di Londra, Ginevra e Avana di venne elaborata la Carta dell’Avana per la creazione dell’Organizzazione Internazionale del Commercio, che però non venne mai ufficialmente convalidata. Nel 1946, il Comitato preparatorio della Conferenza dell’Avana, sottolineò, in un incontro svoltosi a Londra, l’importanza di intraprendere dei negoziati 3L’adesione dell’Italia agli accordi di Bretton Woods avvenne con una votazione parlamentare che si tenne il 15 marzo 1947. 4Del resto, in una lettera del luglio del 1943, White aveva scritto a Keynes che il Congresso americano era troppo isolazionista per ratificare un sostegno superiore a 2 o 3 miliardi di dollari.

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per la diminuzione delle barriere commerciali sotto l’egida dello stesso Comitato. Da ciò ebbe origine il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), cioè l’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio, che si fondava su due principi fondamentali: un approccio multilaterale e non discriminatorio nell’ambito del commercio internazionale, e la condanna alle restrizioni commerciali di tipo quantitativo. I negoziati che si svolsero nel corso di quegli anni portarono nel 1952 a raggiungere la quota di 34 paesi firmatari del GATT, che gestivano l’80 per cento del commercio mondiale.

Il “dollar gap” Nel periodo post bellico, i paesi colpiti dalla guerra furono dominati dall’emergenza legata alla

ricostruzione e dalla necessità di reperire i beni di consumo di tipo ordinario. Una risposta a queste urgenze venne fornita dagli Stati Uniti, che alla fine degli anni Quaranta, rappresentavano l’unico vero mercato di approvvigionamento per queste zone; un dato su tutti la vera e propria egemonia nel campo manifatturiero, dove gli USA producevano approssimativamente il 50% dei beni. La capacità di scambio delle controparti, così duramente provate anche in termini economici dagli eventi bellici, era compromessa. Ciò determinò uno squilibrio drastico fra importazioni ed esportazioni, causa a sua volta del severo incremento del deficit, che nel 1947 era pari a 7,1 miliardi di dollari.

Il Piano Marshall e la ricostruzione dell’Europa Occidentale Per contenere il deficit degli stati che operavano considerevoli importazioni dagli USA venne

creato un ente che avrebbe dovuto in parte finanziare tali paesi: l’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration). Tali aiuti si esaurirono però già attorno alla metà del 1947. All’inizio dello stesso anno esperti americani provenienti dai Ministeri degli Esteri, della Marina e della Guerra, riunitisi in un Comitato, convennero che gli squilibri commerciali internazionali non potevano reggere a lungo. Si suggerì pertanto di stanziare dei finanziamenti per i paesi importatori che avrebbero così continuato a favorire le esportazioni americane, scongiurando la recessione industriale e allontanando lo spettro della disoccupazione statunitense. Nel marzo del 1947, grazie al sostegno di Truman, vennero erogati i primi stanziamenti. Ma sarà solo nel giugno dello stesso anno che Marshall, l’allora segretario di stato statunitense, formalizzerà compiutamente tali soluzioni in un piano, che passerà alla storia come “Piano Marshall” le cui finalità oltre che di tipo strettamente economico erano anche politiche, si intendeva allontanare l’Europa occidentale dalla sfera di influenza del comunismo sovietico. Nel quadriennio 1948-52, l’Europa beneficiò di 13.150 milioni di dollari; ad avvantaggiarsi maggiormente furono soprattutto Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania occidentale. Grazie al Piano Marshall l’economia europea conobbe segni di ripresa, quali l’incremento degli investimenti, l’aumento del PIL e in generale, una maggiore fiducia nei rapporti economici europei (nacquero in quel periodo, l’OECE –Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea-, l’UEP –Unione Europea dei Pagamenti- e la CECA –Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio).

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Il Piano Marshall aveva tra i suoi obiettivi l’indebolimento dell’influenza sovietica sui flussi commerciali fra est e ovest europeo. Gli Stati Uniti cercarono inizialmente di includere gli URSS nel programma di aiuti previsti dal piano, ma le trattative non andarono a buon fine e i rapporti fra le due potenze si inasprirono. Nel 1949 venne promulgata una legge americana per il controllo delle esportazioni, l’Export Control Act, che evidenziò come i contrasti tra USA e URSS trascendessero ormai la sfera economica e assumessero sempre più una valenza politica; nello stesso anno l’Unione Sovietica istituì il COMECON – Consiglio di Mutua Assistenza Economica – che favorì fortemente, fra i paesi del blocco, la sviluppo degli interscambi interni che crebbero dal 15 % nel 1949 all’80 % nel 1953.

Gli URSS erano carenti di materie prime, quali gomma, lana e rame, che dovevano necessariamente acquistare dai paesi dell’Europa occidentale. Per reperire la valuta estera necessaria per le importazioni, l’Unione Sovietica favorì l’industrializzazione degli stati membri dell’Europa orientale, come la Romania e la Polonia, così da stimolare gli scambi con l’Europa dell’ovest. Per i paesi nell’orbita sovietica, questo fu un forte impulso per il superamento del nazionalismo che aveva segnato le politiche commerciali del passato.

La Jugoslavia, che aveva manifestato forme di chiusura nei confronti dell’URSS, rimarrà esclusa dalle iniziative sovietiche e riuscirà a superare i momenti di maggiore crisi solo grazie agli aiuti provenienti dall’occidente.

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L’andamento del commercio e della finanza L’economia post bellica dell’Europa occidentale venne sostenuta in maniera significativa dai

contributi interstatali e dai sussidi forniti dalla Banca Mondiale, i cui finanziamenti erano, per statuto, rivolti solo a progetti definiti produttivi. Risulta quindi evidente che tale istituzione non garantiva aiuti economici a settori quali la sanità o l’istruzione, la cui produttività risultava difficilmente quantificabile, ma rivolgeva i propri finanziamenti a programmi quali la costruzione di reti stradali e ferroviarie. Questo organismo internazionale perseguiva la crescita economica attraverso sia la stabilità finanziaria che l’incremento degli investimenti privati.

I paesi non industrializzati continuarono, comunque, a dipendere inesorabilmente da quelli industrializzati.

Il commercio dei prodotti primari conobbe una modesta crescita negli anni fra il 1937 e il 1955; il protezionismo agricolo degli stati più avanzati non avvantaggiò di certo le aree meno sviluppate. Sorte migliore conobbero i produttori di petrolio che, grazie alle crescenti esigenze del mercato, legate soprattutto allo sviluppo tecnologico, videro incrementare sia la quantità che il valore del loro prodotto (nel 1955 l’esportazione di petrolio crebbe del 20%).

Aumentò anche l’esportazione di manufatti legati alla ricostruzione e all’industrializzazione, mentre decrebbe il commercio dei tessili.

Le materie prime avevano raggiunto costi molto elevati e gli Stati Uniti, che ne erano grandi importatori, temettero che tale squilibrio avrebbe portato ad un incremento massiccio della disoccupazione. Nel corso della International Materials Conference, la Conferenza Internazionale sulle Materie Prime, del 1950, vennero definiti i criteri di razionamento delle risorse; successivamente il governo americano mise in atto delle politiche tese ad aumentare l’autonomia degli Stati Uniti, favorendo, per esempio, la ricerca di nuovi giacimenti di materie prime sul proprio territorio.

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Paesi ricchi, paesi poveri Negli anni Sessanta erano state avviate iniziative per un “nuovo ordine” economico

internazionale. Da quel momento in poi i paesi in via di sviluppo cominciarono ad usare il loro peso elettorale all’interno delle Nazioni Unite (60 voti su 104 nel 1960, 115 su 151 nel 1980) e delle agenzie ONU, e ad esercitare una pressione morale sull’opinione progressista occidentale per dare maggiore sostanza alle richieste di finanziamenti indirizzate all’Occidente. Nel 1964 i paesi più poveri sollecitarono la convocazione della conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e sullo sviluppo e in quella sede presero avvio le prime battaglie. Una “carta dei diritti e doveri economici dei paesi”, varata nell’ambito delle Nazioni Unite tra il 1974 e il 1975 enfatizzava il diritto di questi paesi di impossessarsi delle proprietà delle multinazionali e di altri soggetti stranieri alle condizioni che loro stessi avrebbero stabilito. Tutte queste richieste trovarono il sostegno della commissione indipendente sulle questioni dello sviluppo internazionale, composta da eminenti figure del “nord” e del “sud” (i nuovi sinonimi di paesi ricchi e poveri), che si riunì tra il 1977 e il 1979 sotto la presidenza di Willy Brandt e all’inizio del 1980 pubblicò il suo rapporto Nord-Sud che invitava ad un’attenzione maggiore per i paesi più poveri.

In un certo senso si bussava ad una porta già aperta. Le Nazioni Unite e i singoli paesi occidentali erano generalmente disposti a continuare con gli aiuti, soprattutto a beneficio delle nazioni più povere. Nel 1973 venne annunciato un importante mutamento di rotta: la Banca mondiale, invece di finanziare, come in precedenza, progetti finalizzati soprattutto al miglioramento delle infrastrutture dei paesi solvibili, avrebbero prestato sempre più ai paesi poveri con l’obiettivo di alleviarne la miseria. Attraverso il meccanismo dell’Associazione internazionale per lo sviluppo, la Banca mondiale non gravava di alcun interesse i prestiti rimborsabili solo dopo cinquant’anni.

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Più importanti di tutte furono le iniziative del FMI che finanziò diversi progetti innovatori che avevano l’obiettivo di rendere disponibili prestiti e crediti ai paesi più poveri. Il risultato di queste misure fu che i paesi in via di sviluppo, destinatari di meno di metà dei crediti concessi dal Fondo negli anni Cinquanta e Sessanta, ne ricevevano oltre il 90 per cento all’inizio degli anni Ottanta. Nel 1983 essi avevano beneficiato di 40 miliardi di dollari in contanti.

Tuttavia nessuna di queste azioni ufficiali internazionali riuscì ad impedire che gli aumenti dei prezzi petroliferi e la recessione nei paesi progrediti avessero serie ripercussioni sui paesi in via di sviluppo. Possono essere individuate tre fasi:

1. l’impatto della prima crisi petrolifera e la conseguente stagnazione del 1974-79 in Occidente;

2. il secondo aumento dei prezzi petroliferi e la crisi debitoria internazionale del 1980-84; 3. la ripresa successiva.

In base a tale schema è possibile suddividere i paesi del Terzo Mondo in tre categorie: 1. esportatori di petrolio; 2. importatori di petrolio con un reddito nazionale medio; 3. importatori di petrolio poveri. L’aumento dei prezzi petroliferi, se da un lato assicurò improvvisamente ai paesi esportatori

di petrolio un enorme avanzo della bilancia dei pagamenti, pose problemi immediati ad altri paesi del Terzo Mondo. Non solo erano più costose le importazioni di greggio, ma anche le importazioni di prodotti industriali, che provenivano da paesi essi stessi colpiti da un’inflazione provocata, tra l’altro, dai prezzi maggiorati del greggio. Inoltre, vedendo rallentare la crescita, i paesi sviluppati reagirono alla “stagflazione” frapponendo ostacoli alle importazioni che resero impossibile ai produttori primari del Terzo Mondo alzare i prezzi delle loro esportazioni. Nel frattempo i crescenti tassi di interesse facevano lievitare il costo del denaro. Il risultato di tutti questi fattori fu un immediato brusco innalzamento dei disavanzi correnti dei paesi in via di sviluppo.

Nondimeno, con l’eccezione dei paesi africani, essi continuarono a sostenere politiche di crescita. Tale crescita, considerato il disavanzo con l’estero, poteva continuare solo mediante prestiti internazionali sempre più ingenti, ad un ritmo che nel 1980 equivaleva a circa il 5 per cento del loro PNL medio. Le enormi somme necessarie a sostenere quel livello di indebitamento eccedevano le capacità delle istituzioni internazionali elargitrici dei fondi, che erano ostacolate sia dalle proprie regole che dalle difficoltà in cui si dibattevano le stesse economie avanzate, fornitrici in ultima analisi dei fondi stessi. Il vuoto fu colmato dalle banche private che, di fronte al ristagno della domanda interna di capitali, non desideravano altro che collocare i propri capitali all’estero. Con le somme così ottenute i prestatari non costruivano più le infrastrutture o le unità produttive che potevano garantire il rimborso degli interessi e coprire i costi di ammortamento, cosa che in precedenza erano stati obbligati a fare dalla Banca mondiale. Piuttosto, le usavano per mantenere un livello di reddito e di spesa pubblica che non erano più in grado di permettersi con i propri sforzi. Crescevano le somme dovute annualmente a titolo di interessi e per il servizio del debito, ma nulla veniva creato per far fronte a tali pagamenti. Tali passivi annuali gravavano sempre di più sui proventi delle esportazioni.

Chiaramente questo tipo di politica economica non poteva andare avanti indefinitamente. A partire dal 1984 diverse soluzioni cominciarono a essere proposte per il problema dell’indebitamento. Nel caso delle nazioni più povere si arrivò ad una drastica riduzione del debito o addirittura ad una sua cancellazione; negli altri casi si giunse ad una ridefinizione consensuale dei tempi di rimborso, tale da non danneggiare eccessivamente la solvibilità dei singoli paesi. Tra il 1980 e il 1986 furono conclusi 181 accordi in tale direzione. Soprattutto, attraverso misure drastiche imposte frequentemente dalle agenzie internazionali, si produsse un fondamentale cambiamento di rotta: il livello di ulteriore indebitamento annuo fu tenuto basso, anche se al prezzo di un rallentamento della crescita e dello sviluppo complessivi, dell’aumento della disoccupazione e di

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un’inflazione galoppante in paesi come l’Argentina e il Brasile. LA RICERCA DI UN NUOVO REGIME E LE RELAZIONI ECONOM ICHE

INTERNAZIONALI NEGLI ANNI 80 E 90 Commercio e politica commerciale Con i due shock petroliferi degli anni settanta, a cui seguono ondate di inflazione e notevoli

aumenti della disoccupazione, si interrompono le politiche di liberalizzazione che avevano caratterizzato il periodo post bellico di crescita.Gli anni ottanta sono caratterizzati da una diminuzione del prezzo del petrolio, da politiche fiscali più rigorose e dall’Uruguay round del GATT. La crescita degli anni settanta si era fondata su un’espansione monetaria esorbitante e su un eccesso di prestiti, al contrario negli anni ottanta si hanno politiche più accorte.

L’apertura della Cina dal 1978 alimenta l’espansione delle economie asiatiche che guideranno la crescita mondiale, seguite da quelle del Nord America e dell’Europa Occidentale. In Africa e in Medio Oriente, a fronte di un notevole incremento demografico, le importazioni rimangono invariate, mentre diminuiscono le esportazioni. A causa della diminuzione delle esportazioni di petrolio e della caduta dei prezzi delle materie prime, il rapporto volume degli scambi/PIL subisce una vertiginosa diminuzione.

In America latina le esportazioni crescono mentre sono in diminuzione le importazioni pro capite. Alla fine degli anni settanta, a causa dei due shock petroliferi ed alla costante lontananza dalla parità dei tassi di cambio, i flussi commerciali regolati da accordi di limitazione volontaria aumentano fino a rappresentare quasi la metà del totale.

Negli anni ottanta il volume complessivo degli scambi commerciali cresce meno rispetto al decennio precedente, tuttavia, grazie alla liberalizzazione derivante dagli accordi commerciali regionali, aumenta il rapporto tra volume degli scambi commerciali e flusso di produzione.

Portogallo e Spagna aderiscono alla Comunità Europea, Canada e Stati Uniti stipulano nel 1989 un accordo di libero scambio (Free Trade Agreement), infine Australia e Nuova Zelanda negoziano un nuovo accordo commerciale (Closer Economic Trade Agreement).

La composizione dei flussi commerciali vede un significativo mutamento con la crescita dei flussi di servizi commerciabili a discapito di quelli di merci, tra queste ultime l’abbigliamento vede una crescita rapida, seguito dalle apparecchiature da ufficio e dal materiale telefonico. L’abbigliamento è un bene che risponde al paradigma Hecksher-Ohlin, i cui scambi dipendono dalle dotazioni relative dei fattori; i materiali telefonici e da ufficio invece dipendono principalmente dalle nuove tecnologie.

L’espansione del commercio nel settore dell’abbigliamento è dipesa in gran parte dalla crescita delle esportazioni della Cina, dei paesi dell’Asia meridionale e dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, nonché all’apporto dell’Europa meridionale. Il riassetto mondiale degli scambi di petrolio grezzo, dopo i due shock petroliferi degli anni settanta, ha sfavorito il Medio Oriente, che perde il 50 per cento della sua offerta nei confronti del mercato mondiale.

Per quanto riguarda l’Europa occidentale si ha una rilevante crescita della quota delle esportazioni di cereali che, tra il 1980 e il 1987, passa dal 24 al 38 per cento, soprattutto a causa dell’eccessiva elargizione dei sussidi da parte della Politica Agricola Comunitaria.

Il Giappone, con il suo persistente surplus commerciale, rappresenta sempre di più una minaccia per USA ed Europa. Le quota mondiale delle esportazioni nipponiche passa dal 6,6 per cento del 1970 al 9,8 per cento, mentre quella degli Stati Uniti scende dal 14,9 per cento al 10,6 per cento. Tra il 1984 ed il 1988 lo yen giapponese si rivaluta notevolmente sul dollaro, tuttavia fino alla metà degli anni ottanta il rapporto tra le due valute è stato tale da compromettere notevolmente la competitività dei prodotti americani. Negli Stati Uniti, dove questa concorrenza viene percepita come sleale, diminuisce la fiducia in un sistema commerciale multilaterale e la legislazione riflette

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sempre più il diffuso sentimento protezionista. In un contesto di crescenti tensioni commerciali tra USA, Giappone ed Europa vanno

sottolineati i risultati positivi raggiunti in termini di liberalizzazione dal GATT. Il Tokyo round, che durò dal 1973 al 1979, giunse ad un accordo sui tagli delle tariffe paragonabile a quello del Kennedy Round. La liberalizzazione riguardava solamente alcuni prodotti industriali, mentre il settore agricolo continuò ad essere protetto. Le tariffe concordate entrarono in vigore tra il 1980 ed il 1987.

Nel 1980 e nel 1981, grazie alle pressioni esercitate dai lavoratori e dai produttori americani, il Giappone decise di limitare volontariamente le esportazioni di automobili negli Stati Uniti, tale decisione permise alle aziende automobilistiche americane di aumentare i prezzi delle automobili e dare respiro alle rispettive casse, tuttavia le vendite non crebbero sensibilmente e neppure sul piano dell’occupazione si ebbero effetti di grande portata.

Anche per quanto riguarda l’acciaio Unione Europea e Stati Uniti si impegnarono a fondo per limitare le esportazioni nipponiche, si giunse ad un accordo che prevedeva barriere non tariffarie in tre fasi successive.

Nella prima e il Giappone stipulò degli accordi bilaterali con Unione Europea e Stati Uniti sulla limitazione delle esportazioni di acciaio giapponesi. La CECA aveva aperto delle trattative in questa direzione con il MITI dal 1965, nel 1978, dopo la costituzione di un cartello europeo di produttori (Eurofer), si giunse ad un accordo su prezzi e quantità.

La seconda fase fu segnata da un conflitto tra l’Unione Europea e gli USA; la Comunità Europea sussidiava notevolmente il settore dell’acciaio e la sua concorrenza era vista oltreoceano come sleale, per cui con i nuovi dazi e contingentamenti del 1983 si limitarono le esportazioni europee al 18,5 per cento. L’anno seguente la CEE, che non intendeva raggiungere un accordo reagì con ritorsioni dirette contro le restrizioni statunitensi.

La terza fase culmina con i quindici accordi mediante i quali nel 1985 i paesi in via di sviluppo accettarono di limitare le esportazioni di acciaio verso Unione Europea e Stati Uniti. Il Giappone limitò le sue esportazioni di acciaio al 5-6 per cento del mercato statunitense, pago dei maggiori margini di profitto realizzati e delle partecipazioni in numerose imprese americane produttrici di acciaio. Attraverso fitti colloqui bilaterali tra Stati Uniti e Giappone si giunse ad una progressiva liberalizzazione del mercato nipponico, vennero eliminati 1.800 dazi. Sarà tuttavia il significativo apprezzamento dello yen a determinare, verso la fine degli anni ottanta, la progressiva riduzione del surplus commerciale giapponese.

Una valutazione complessiva dei tentativi con cui Giappone , Unione Europea e Stati Uniti hanno tutelato alcuni settori industriali deve tenere conto del disincentivo alla modernizzazione che essi hanno prodotto; la limitazione della concorrenza estera o i sussidi accordati (pratica quest’ultima diffusa soprattutto in Europa) spesso hanno promosso una “sclerosi industriale” del settore che si intendeva proteggere.

Con l’Uruguay round il GATT intendeva estendere la liberalizzazione raggiunta per quanto riguarda il commercio di alcuni prodotti industriali all’agricoltura ed al settore tessile, allentando le restrizioni poste dall’accordo multifibre. Nel 1993-94 si giunse ad un accordo meno ambizioso.

Durante i negoziati, nel 1988, gli Stati Uniti approvarono una legge che permetteva loro, attraverso la clausola “super 310”, di indicare i patners che adottavano pratiche commerciali scorrette, l’idea era quella di giungere ad accordi bilaterali con quei paesi ed eventualmente, in caso di un mancato accordo, applicare loro delle ritorsioni. Si trattava di un sostanziale spostamento della politica statunitense dal multilateralismo al bilateralismo, tale inversione di rotta fu dettata probabilmente più da ragioni di politica estera che da interessi commerciali. Del resto l’abbandono del multilateraliso, che sostanzialmente si confaceva più del bilateralismo agli interessi economici degli Stati Uniti, era anche il riflesso della rassegnazione dell’amministrazione americana alle strettoie nelle quali le trattative multilaterali troppo spesso si arenavano.

Un accordo bilaterale di notevole importanza fu il Free Trade Agreement del 1989, con il quale nei dieci anni successivi vengono eliminati tutti i dazi tra Canada e Stati Uniti. Anche il Messico venne incluso nella North American Free Trade Agreement, quest’ultimo paese, aderendo

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al GATT nel 1986, aveva già ridotto dal 22 per cento al 9 per cento i dazi nel 1992. Gli investimenti esteri diretti in Messico raddoppiarono tra il 1990 e il 1992.

La grande distribuzione americana vide nei consumatori messicani un nuovo mercato e l’industria messicana venne ristrutturata per far fronte alla concorrenza di quella statunitense sul mercato interno.

I sindacati americani si opposero all’inclusione del Messico nel NAFTA, tuttavia l’amministrazione non portò a compimento ugualmente l’accordo.

Le migrazioni Lo spostamento di forza lavoro, essendo un’alternativa a quello delle merci ovvero al

commercio, viene incoraggiata dalle restrizioni agli scambi commerciali internazionali. Attraverso le politiche protezioniste infatti si riducono le possibilità di lavoro all’estero; ad esempio negli Stati Uniti le restrizioni commerciali hanno causato l’espansione dei settori labour-intensive , di conseguenza è cresciuta la domanda di forza lavoro in quei settori ed infine l’immigrazione di manodopera poco qualificata. Si è visto che nei vari settori dell’economia americana la percentuale dei lavoratori immigrati è più elevata nei settori altamente protetti quali il tessile, qualcosa di molto simile si può osservare anche in Francia e Spagna.

Negli anni ottanta i paesi dell’Europa meridionale, che erano stati a lungo origine di importanti flussi migratori, sono divenuti la meta di grandi flussi migratori, provenienti soprattutto dal Mediterraneo meridionale. Tra i paesi europei, in questi anni, la Germania occidentale è quello che assorbe la quota maggiore di manodopera straniera, vi trova lavoro il 7,5 per cento degli stranieri residenti in Europa.

L’immigrazione contribuisce insieme con gli scambi commerciali a favorire la convergenza, i paesi ricchi si oppongono in misura diversa a questo processo con le politiche per l’immigrazione e il protezionismo.

Rallentamento della produttività e convergenza Dopo il 1973 la crescita della produttività statunitense si dimezza rispetto a quella registrata

negli ottanta anni precedenti, la convergenza con l’economia leader diviene così sempre più alla portata. Nel frattempo il Giappone, grazie all’organizzazione del lavoro toyotista, più efficace nel nuovo contesto di quella fordista, vede crescere la propria produttività più di quella americana ed europea.

I paesi industrializzati ormai possedevano le stesse tecnologie, a questo punto l’organizzazione del lavoro, gli investimenti e la preparazione della forza lavoro potevano fare la differenza. Negli USA gli investimenti diminuirono, una quota più ampia del risparmio era stata dirottata verso il deficit del bilancio federale.

Le economie di Germania e Giappone potevano lanciare la sfida a quella statunitense. Nel 1970 la Germania aveva il più basso costo unitario di produzione delle automobili, inferiore del 34 per cento rispetto a quello americano, anche per effetto del maggiore costo del lavoro degli Stati Uniti. I produttori tedeschi in questo settore superavano i concorrenti americani e giapponesi anche per quanto riguarda l’efficienza.

Nel corso degli anni settanta la produttività totale dei fattori nei diversi settori dell’economia nipponica è stata mediamente superiore dell’1,7 per cento rispetto a quella statunitense. Nonostante l’apprezzamento dello yen nel 1980 l’industria automobilistica giapponese aveva conquistato il primato, sopravanzando di otto punti percentuali quella tedesca. Nel 1970 lo svantaggio tecnico del Giappone nei confronti degli USA era del 10 per cento, nel 1984 la situazione era capovolta con un vantaggio giapponese del 17 per cento.

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Molte economie nazionali sfruttarono in modo eccellente le opportunità di raggiunge il leader, in molti altri casi tuttavia non vi fu convergenza. In questo senso sono state decisive le politiche nazionali aperte al resto del mondo più che l’economia mondiale.

I casi di non convergenza (Africa e America Latina) L’Africa e l’America Latina non riuscirono negli anni ottanta ad aggrapparsi al treno della

crescita. Gli shock petroliferi avevano messo in difficoltà le economie di queste aree, tuttavia fino alla fine degli anni settanta i prestiti internazionali con bassi tassi d’interesse avevano dato loro respiro, nel decennio successivo con il crescere dei tassi d’interesse la situazione è ulteriormente peggiorata.

Tra il 1973 e il 1981 il rapporto debito/esportazioni dell’America Latina è cresciuto da 1,4 a 2,5, intanto la spesa per interessi giunge al 23 per cento del valore complessivo delle esportazioni. Le valute di Messico, Argentina, Equador, Cile, Bolivia e Uruguay subirono forti svalutazioni, l’intento era quello di incentivare le esportazioni e limitare le importazioni per poter pagare gli interessi sui debiti. L’efficacia di tali misure era ridotta visto che nello stesso tempo anche i diretti concorrenti avevano svalutato, inoltre la svalutazione fece lievitare il costo dei fattori di produzione usati in agricoltura impedendo la modernizzazione del primario. L’agricoltura in questi anni è comunque cresciuta più dell’industria, seppure limitatamente ai prodotti d’esportazione, mentre è rimasta incapace di soddisfare le esigenze dell’aumentata popolazione.

Gli investimenti dell’America Latina in rapporto al PIL diminuirono nel corso degli anni ottanta dal 23 per cento del 1981 al 15 per cento del 1984.

L’aumento dell’inflazione tra 1987 e 1990 ha annullato gli effetti del complessivo miglioramento dell’economia sudamericana nel biennio 1984-86.

La situazione già difficile dell’Africa venne complicata dalla siccità che colpì il continente nella prima metà degli anni ottanta, l’arretratezza dei sistemi d’irrigazione portò venticinque paesi alla carestia. Nonostante il notevole aumento degli aiuti alimentari nel 1985 la disponibilità calorica pro capite non era maggiore di quella del 1970.

La caduta delle ragioni di scambio e la stasi delle esportazioni dei prodotti agricoli ridussero di un quinto la capacità dei paesi subsahariani di finanziare le importazioni di manufatti e petrolio. Come per i paesi dell’America Latina il pagamento degli interessi sui debiti pesava notevolmente sul PIL, con l’aggravante di una maggiore quota della produzione volta alla sussistenza.

Otto paesi del continente vennero coinvolti durante gli anni ottanta in conflitti militari, molti altri dovettero fronteggiare guerre civili e situazioni politicamente instabili. Intanto la crescita demografica rimase la più alta a livello globale, toccando in questo decennio il 3,1 per cento.

I tentativi di regolamentazione degli scambi interni di prodotti alimentari furono inefficaci. I successi del Sud Est Asiatico L’area asiatica fu quella che nel corso degli anni ottanta vide una crescita più rapida, con una

media di sette punti percentuali all’anno di incremento del PIL. Numerosi paesi a pianificazione centrale, a partire dalla Cina, volsero maggiormente le loro

politiche al mercato. L’industrializzazione delle “tigri asiatiche” sfrutto le opportunità labour-intensive offerte dal

mercato de prodotti elettronici di largo consumo. Alla fine degli anni ottanta Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong avevano un tasso

medio di crescita dell’otto per cento ed esportavano manufatti per un ammontare che era circa la metà di quello degli Stati Uniti.

Il settore agricolo rimase di fondamentale importanza per il continente, rappresentando il 30

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per cento del PIL; negli anni ottanta tuttavia gli investimenti vennero risucchiati dal settore industriale, ne conseguirono numerosi problemi ambientali quali deforestazione, desertificazione, inondazioni e inaridimento del suolo.

Il processo cinese di apertura al mercato iniziò nel 1978 con la riforma agricola e proseguì negli anni ottanta con il sistema a responsabilità familiare, nei primi sei anni la produzione di grano aumentò di un terzo.. Vennero accolti gli investimenti stranieri, inizialmente sotto forma di joint-venture, e create le Zone Economiche Speciali nel Fujian e Guandong, in quest’ultima regione ben presto le imprese di Hong Kong dislocarono gran parte della produzione dando lavoro a due milioni di cinesi. Negli anni ottanta le Zone Economiche Speciali vennero estese per attrarre tecnologia, capitali e dirigenti stranieri, intanto nelle campagne il sistema a responsabilità familiare soppiantò le aziende statali.

Anche la Thailandia compì in questi anni il suo processo di liberalizzazione, vennero progressivamente eliminati i dazi sulle esportazioni di riso, allo stesso tempo la liberalizzazione sul fronte delle importazioni rese meno costosi i fertilizzanti, di conseguenza la produzione di riso aumentò tanto che la Thailandia divenne uno dei maggiori esportatori mondiali. Nello stesso periodo l’industria manifatturiera aumentò notevolmente la sua produzione.

Alla fine del decennio i paesi del sud-est asiatico erano divenuti grandi esportatori di prodotti dei settori tessile, dell’abbigliamento, delle materie plastiche, delle calzature e dei semiconduttori. In questi paesi, a differenza di quanto mostrato dal modello di crescita giapponese, il settore primario in generale mantenne una notevole importanza e divenne esso stesso fonte di esportazioni.

L’Opec e il petrolio I profitti per i produttori di petrolio diminuiscono notevolmente negli anni ottanta, mentre

negli anni settanta il petrolio era stato più o meno ciò che l’oro fu nel XVI e XVII secolo, ovvero il bene più prezioso e ricercato la situazione mutò notevolmente nel decennio successivo. Rallentare il ritmo di estrazione era conveniente per i produttori di petrolio, il ritmo ideale, come dimostra un’analisi economica, è quello in corrispondenza del quale l’incremento percentuale del suo prezzo è pari al tasso d’interesse. Fu così che negli anni settanta i paesi dell’OPEC limitando la disponibilità di greggio ne fecero lievitare il prezzo, con gravi conseguenze per i paesi industrializzati che ne erano i maggiori consumatori, nonché su quelli in via di sviluppo che videro diminuire a causa della stagnazione economica le loro esportazioni nei paesi più ricchi. In questa fase una crisi politica nella quale erano coinvolti i paesi dell’OPEC aveva come immediata ripercussione una crisi energetica mondiale.

Gli shock degli anni settanta tuttavia indussero i paesi industrializzati a cercare soluzioni al problema dell’approvvigionamento petrolifero, dopo il primo shock, nel 1974 venne istituita l’Agenzia Internazionale per l’energia, con il compito di facilitare la ripartizione del petrolio nei momenti critici. Allo stesso tempo si intensificarono le ricerche di nuovi giacimenti al di fuori dei paesi dell’OPEC, tra la fine degli anni settanta e l’inizio del decennio successivo il petrolio estratto in Messico e nel Mare del Nord aumentò notevolmente.

Quando, nell’ultimo trimestre del 1980, l’offerta mondiale di petrolio scese per effetto del conflitto Iraq-Iran i prezzi del greggio a pronti aumentarono relativamente poco. Il sistema di regolamentazione predisposto dai paesi industrializzati, insieme con l’iniezione di greggio derivante dai giacimenti di recente sfruttamento, resero il secondo shock meno sensibile.

Nel 1983 i paesi dell’OPEC si accordarono per una riduzione dei prezzi e per la ripartizione delle quote, intanto migliorava anche il funzionamento del mercato del petrolio, alla borsa di New York vennero introdotti gli scambi a termine per il greggio.

Il terzo shock petrolifero si verificò nel 1986, quando Arabia Saudita e Kuwait pretesero maggiori guadagni ed accrebbero le rispettive quote di mercato, il prezzo del greggio crollo a 10 dollari al barile.

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All’inizio degli anni novanta il prezzo del petrolio si riprese ma l’OPEC aumentò le quote, il che unitamente al ridimensionamento dei consumi mondiali fece nuovamente scendere il prezzo.

Quando, nel nell’estate del 1990, l’Iraq invase il Kuwait per accaparrarsi i ricchi giacimenti del paese confinante l’Arabia Saudita accrebbe nuovamente il ritmo di estrazione compensando gli effetti della guerra. A questo punto però l’equazione tra crisi politica mediorientale e crisi energetica non era più così scontata.

L’Integrazione economica europea; SME, UEM ed Euro; politica agricola comunitaria A partire dal 1979 il Sistema Monetario Europeo fissò le parità centrali delle valute dei paesi

membri, con un margine di oscillazione del 2,25 per cento. Si fece temporaneamente anche una "banda larga" di oscillazione, che prevedeva un massimo del 6 per cento, l’Italia fu il primo paese al quale venne concesso questo margine meno restrittivo.

Lo SME, per certi versi simile al sistema di Bretton Woods, prevedeva un meccanismo di crediti a breve termine per finanziare i saldi dei bilanci delle banche centrali causati dal loro intervento sul mercato dei cambi.

L’ECU era l’unità di conto dello SME, definita come paniere di monete, tale valuta ebbe una grande importanza per i prestiti.

Le monete di Francia e Italia, nella prima metà degli anni ottanta, ebbero le maggiori difficoltà a mantenere fisso il tasso di cambio e vennero ripetutamente svalutate nei confronti del marco tedesco, tuttavia si stabilizzarono, rispettivamente nel 1983 e nel 1984. Nel 1990 l’Italia passò alla banda stretta di oscillazione del cambio.

Nel 1989 anche la Spagna aderì allo SME, adottando però la banda di oscillazione più larga come l’anno seguente fece anche la Gran Bretagna.

Con il Rapporto Delors del 1989 e con il Rapporto sull’unione monetaria ed economica dell’anno successivo veniva proposto un mutamento senza precedenti della politica macroeconomica europea. Per realizzare l’unione monetaria si richiedeva che i tassi di cambio tra le valute dei paesi membri venissero fissati irrevocabilmente. La convergenza dei tassi d’inflazione europei, insieme ad un solo riallineamento dei tassi di cambio tra il 1987 e il 1992, provocarono una sottovalutazione del marco rispetto alle altre valute dello SME.

La riunificazione della Germania, avvenuta nel 1990, diede origine ad un enorme squilibrio interno al paese, il cambio paritetico tra le due parti del paese indusse una sopravvalutazione del 200 per cento della moneta orientale, causando in questa regione un’ondata di disoccupazione.

Il caso tedesco poteva essere paradigmatico rispetto alla futura unificazione monetaria europea. Nonostante ciò nel dicembre del 1991 l’accordo di Maastricht fissò i "criteri di convergenza", riguardanti i parametri finanziari e l’inflazione, che dovevano essere soddisfatti prima dell’unificazione. Erano richiesti una bassa inflazione, un tasso di cambio stabile, un deficit di bilancio contenuto e un rapporto tra debito pubblico e PIL inferiore al 60 per cento.

La rigidità dei "criteri di convergenza" ha impedito alle economie dei paesi europei di compensare la recessione attraverso politiche fiscali, comportando un elevato tasso di disoccupazione.

Nel 1992 Italia e Gran Bretagna furono costrette dalla fuga di capitali a uscire dallo SME, vi fu con il summit di Edimburgo il tentativo di adottare degli accorgimenti per sostenere gli investimenti, tuttavia nel 1993 Francia e Spagna furono costrette a svalutare le rispettive monete.

Nonostante questi problemi il percorso verso l’unificazione monetaria proseguì secondo le previsioni, giungendo a compimento nel 1999 con l’adozione della moneta unica.

Nella fase embrionale e fino alla raggiunta maturità il cuore della CEE era stata la Politica Agricola Comunitaria. Di fatto si trattava per i politici europei di una fonte di consenso

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irrinunciabile, resa ancora più appetibile dal fatto che le politiche tese a difendere gli interessi degli agricoltori apparivano agli occhi dei consumatori, che tutto sommato ne erano danneggiati, come politiche di stabilizzazione più che di sostegno. La progressiva diminuzione del numero di occupati in agricoltura e, dagli anni settanta, la maggiore mobilità dei tassi di cambio resero la PAC sempre meno sostenibile.

Il Regno Unito, entrato nella CEE nel 1973, non aveva interesse data l’esiguità del settore agricolo britannico a sostenere la PAC e ne chiese la riforma. Tuttavia la svolta concreta per quanto riguarda la PAC si ebbe con il 1988, da quell’anno infatti ci fu un’inversione di rotta nella politica agricola comunitaria, anziché incentivare la produzione e sostenere i prezzi si iniziarono a pagare gli agricoltori per non produrre.

Durante l’Uruguay round ed il Tokyo round si fecero alcuni progressi nel tentativo di eliminare le distorsioni prodotte dalla PAC, tuttavia non furono risolti i conflitti tra Europa e USA sul commercio dei prodotti agricoli . Le ragioni interne e quelle internazionali portarono comunque le istituzioni comunitarie ad una progressiva riforma della PAC.

Il disordine monetario: la fluttuazione dei tassi di cambio, movimenti di capitale e debiti,

coordinamento delle politiche, collaborazione e consultazione A partire dal 1979 gli Stati Uniti adottarono una politica monetaria restrittiva che fece il

aumentare i tassi d’interesse ed apprezzare il dollaro. La rivalutazione del dollaro, tra 1980 e 1983, fece scendere l’inflazione negli USA dell’1-1,5% all’anno, tuttavia aggravò la recessione e la disoccupazione con effetti disastrosi sull’economia dell’America Latina.

In realtà Europa e USA necessitavano di interventi di politica economica opposti a quelli praticati: l’Europa doveva attuare una politica espansiva mentre gli Stati Uniti dovevano ridurre il deficit.

Il sistema dei tassi di cambio flessibili si dimostrò inadatto ad una combinazione di politica fiscale e monetaria non sincronizzate.

L’amministrazione americana nei primi anni ottanta era persuasa che i tagli alle spese avrebbero saputo ridurre il deficit, da tale errore di valutazione derivò anche una conseguenza positiva: gli USA uscirono dalla recessione prima di Europa e Giappone. Tuttavia, tra 1980 e 1985, il dollaro si apprezzò del 40 per cento avvantaggiando le importazioni e di conseguenza le richieste di protezione da parte delle industrie americane.

Nell’autunno del 1985 i cinque paesi più industrializzati del mondo concordarono delle politiche monetarie per indurre un deprezzamento del dollaro. Nel 1987 con il successivo incontro dei paesi più industrializzati, il cui gruppo si era allargato a sette, si prese atto della riuscita delle politiche monetarie, il dollaro era tornato sui livelli dei primi anni ottanta. In quella occasione i sette concordarono sulla necessità di un consolidamento fiscale degli Stati Uniti e di un’accelerazione della crescita europea. Nel frattempo la crescita giapponese era stata sostenuta da una politica fiscale espansiva.

Nel 1987 si verificò il crollo borsistico, la Federal Reserve allentò la stretta monetaria ed il dollaro riprese a svalutarsi, un nuovo intervento del G7 interruppe questo trend.

Gli Stati Uniti erano ancora alle prese con il problema del deficit, l’apice venne raggiunto nel 1987. Gli interessi da pagare sul debito, con un tasso del 10 per cento, ammontavano a 10 miliardi di dollari l’anno. La fine dell’Unione Sovietica sembrò l’occasione americana per ridurre il deficit, di fatto però gli effetti della pace tardarono a farsi sentire.

La politica che aveva indotto la sopravvalutazione del dollaro fece si che gli USA, il maggiore creditore mondiale, divenissero il principale debitore mondiale. Il ruolo di maggiore creditore venne assunto dal Giappone.

Le ricadute che gli elevati tassi d’interesse statunitensi avevano causato sull’economia dei

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paesi sudamericani rischiava, a causa dell’ampia esposizione nei confronti di quei paesi da parte delle banche americane, di provocare un terremoto nel sistema bancario degli Stati Uniti.

Fino ai primi anni 80 le esportazioni dei paesi debitori erano state sostenute dalle importazioni dei paesi industrializzati, il debito si muoveva così parallelamente alle esportazioni, quando però l’economia mondiale rallentò le esportazioni dei paesi debitori crollarono. Allo stesso tempo l’apprezzamento del dollaro rendeva più costoso il rimborso dei debiti.

Nel 1992 il Messico dovette dichiarare una moratoria sul pagamento degli interessi sul debito. La vicinanza del Messico ispirò agli USA un trattamento particolare, del resto il collasso dell’economia messicana avrebbe provocato ingenti ondate di immigrazione illegale attraverso l’interminabile confine che separa i due paesi. Il segretario del Tesoro americano, James Baker, tentò di persuadere le banche a riscadenzare i prestiti del 1985, ma non ebbe molto successo.

Una via d’uscita venne intravista con l’istituzione di un mercato secondario per il debito pubblico, gli investitori potevano barattare il debito estero con titoli denominati nella valuta nazionale del paese debitore. Paesi come il Cile riuscirono grazie a questo strumento a ridurre il loro debito.

Nel 1989 il nuovo segretari del Tesoro, Nicholas Brady, propose che il FMI erogasse prestiti per finanziare la riduzione volontaria del debito. Il primo accordo in questa direzione sgravò il Messico del 30 per cento del debito accumulato.

I riscadenzamenti non ebbero comunque grande successo, nella maggior parte dei casi dovettero essere rinnovati. Messico, Venezuela ed Ecuador pagarono interamente i rispettivi debiti soprattutto grazie ai proventi dell’esportazione di petrolio.

La situazione che vedeva tassi di cambio instabili ed una persistente fuga all’estero dei capitali favorì delle politiche coordinate tra i paesi più industrializzati. Collaborazione, consultazione e coordinamento sono prassi diverse attraverso le quali gli stati tentano di rispondere alle sfide che , di volta in volta, vengono lanciate dalla situazione economica internazionale.

La consultazione si limita ad uno scambio di informazioni che non implica necessariamente impegni reciproci, viene favorita da istituzioni quali il FMI e l’OCSE preposte anche a questo scopo.

La collaborazione presuppone che i paesi coinvolti attuino politiche volte ad obbiettivi comuni, seppure senza assumere impegni reciprocamente vincolanti.

Nel periodo in cui era in vigore il sistema di Bretton Woods un esempio di collaborazione fu quella basata sulle reciproche consultazioni, che portavano a collaborazioni occasionali. Il Working Party 3 dell’ OCSE a sua volta incoraggiava la ricerca di convergenze tra le politiche nazionali.

Il coordinamento implica l’impegno a modificare le proprie politiche per perseguire un obiettivo comune. In presenza di tassi di cambio flessibili sorge una maggiore esigenza di coordinamento. Le circostanze che si presentano pongono gli stati di fronte al "dilemma del prigioniero", non mantenere gli impegni assunti può essere conveniente in determinate circostanze, tuttavia gli stati devono coesistere nel tempo, cosicché il comportamento non cooperativo viene alla lunga sanzionato dagli altri attori, dunque in un ambiente internazionale stabile sono attendibili da parte da parte degli stati comportamenti cooperativi.

Anche la consapevolezza della scarsità delle risorse ambientali spinge i paesi, per non privarsi in modo definitivo delle comuni risorse ambientali, ad adottare politiche coordinate. Lo sfruttamento dell’ambiente crea problemi simili a quelli imposti dall’eccesso di pesca. I pesci dell’oceano sono un patrimonio comune, nessuno però ha un interesse diretto a difenderlo, se un paese decidesse di limitare la pesca, in un contesto privo di accordi internazionali in merito, si troverebbe ad aver rinunciato al pescato ed al contempo a veder ridotte le risorse ittiche dai

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concorrenti.

L’inquinamento atmosferico prodotto da un paese può creare problemi ai paesi circostanti o addirittura a paesi lontani. Anche l’uso dei combustibili di carbone è un caso di spillover, infatti la politica energetica di un paese può avere delle conseguenze sul clima di un altro.

Nel 1985 la scoperta del “buco dell’ozono” ricondusse concretamente la responsabilità delle nazioni davanti a questi problemi. Nel 1989 ventinove paesi firmarono il Protocollo di Montreal per ridurre e poi eliminare i CFC, ovvero i clorofluorocarburi, le sostanze responsabili del deterioramento dello stato di ozono.

Anche per quanto riguarda lo sfruttamento dei minerali presenti nei fondali oceanici al di fuori delle giurisdizioni nazionali si giunse ad una soluzione concordata; nel 1982, nonostante le defezioni di Germania occidentale, Gran Bretagna e Stati Uniti, 117 paesi firmarono il trattato sulla Legge del mare, con il quale delegavano ad un’autorità mondiale la regolamentazione delle estrazioni dai fondali marini.

Tra il primo shock petrolifero ed il secondo i tassi di crescita dell’ OCSE rimasero più elevati che nel periodo prebellico. Dopo il secondo shock le politiche deflazionistiche e la stretta monetaria dei paesi più industrializzati ebbero forti ripercussioni anche sui paesi in via di sviluppo. La caduta della domanda fece crollare le esportazioni dei paesi dell’America Latina e dell’Africa, senza entrate di valuta straniera costanti divenne impossibile per questi paesi gestire il debito accumulato. Nel 1982 il Messico dichiarò la sua insolvenza.

Gli anni ottanta segnarono, con la caduta del prezzo del petrolio nel 1986, un notevole ridimensionamento dei paesi dell’OPEC.

In questa fase i paesi asiatici stavano conoscendo una crescita senza precedenti, mentre la produttività giapponese aumentava vertiginosamente quella americana stava rallentando.

Gli USA del resto non seppero adeguare le proprie politiche macroeconomiche alla smisurata crescita del debito pubblico e al contemporaneo apprezzamento del dollaro. Su quest’ultimo fronte divennero invece più efficaci gli interventi sincronizzati dei paesi industrializzati, il G7 favorì infatti con gli incontri del Louvre e del Plaza politiche economiche volte alla soluzione dei problemi contingenti, grazie a tali politiche il dollaro tornò entro il 1987 su valori normali.

La mobilità dei capitali, in un contesto internazionale di sempre maggiore integrazione, rese alle maggiori economie insostenibile un sistema di tassi di cambio fissi. I raggruppamenti monetari su base regionale sembrarono una via d’uscita da questa situazione, il NAFTA e lo SME ne furono i principali esempi. La questione diveniva così quella di definire quale fosse l’area valutaria ottimale, in questa direzione la volontà politica ebbe, in particolare in Europa, un peso maggiore rispetto alle valutazioni economiche.

Nel 1987 il crollo mondiale delle riserve valutarie interruppe l’espansione. Non ci fu in questo caso un crollo della domanda aggregata, tuttavia la lievitazione dei crediti gettò le basi per il ritorno delle politiche deflazionistiche e per una nuova recessione.

L’ Uruguay round del GATT e la creazione del WTO nel 1995 rilanciarono la politica degli accordi commerciali multilaterali.

Una valutazione complessiva dell’operato delle istituzioni economiche non può prescindere dalla capacità da esse mostrata di evitare, in situazioni tutto sommato simili, le catastrofi economiche degli anni trenta. Tuttavia le politiche deflazionistiche generate dalla gestione dell’economia internazionale hanno dato luogo, soprattutto in Europa occidentale, ad alti tassi di disoccupazione.

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