parigi vista dall'uomo, dalla donna e dalla macchina da presa
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Parigi vista dall'uomo, dalla donna e dalla macchinada presa
Paris vu par – Chabrol, Douchet, Godard, Pollet, Rohmer,Rouch 1965
Quando si parla di storie di città, di flussi di persone e di
cose urbane e quando si parla di Lei1, non possiamo non parlare di
Paris vu par, sei storie realizzate nel 1965 (unite in lungometraggio)
scritte e dirette da 6 autori - diciamo pure - “vicini” a quello
straordinario respiro che chiamiamo Nouvelle Vague.
L’idea produttiva di fondo è quella di raccontare delle storie
di Parigi città, attraverso sei diversi quartieri, in cui il
cinema si identifica con la città e viceversa. Nella loro
avventura, i sei registi scelgono delle storie che in qualche modo
possono ricondursi tutte alla stesso rapporto dell’individuo con i
flussi urbani, o con le loro esperienze, le loro pulsioni. A
partire da questa idea narrativa, in modo stavolta originale ed
indipendente, le scelte stilistiche (regia, recitazione) di genere
(dramma o parodia) e di contenuto, si articolano attraverso i sei
cortometraggi.1 Dello stesso anno è il film di Godard “Deux ou trois choses que je sais d’elle” tradotto “Due o tre cose che so di lei”
A quanto pare il progetto che motiva la realizzazione del film
doveva essere stato assai ambizioso, se “Les cahieurs du cinema”
ne parla in questi termini:
“ce n’est pas le regne d’une avant-guard
stérile, que nous voulons instaurer [..]
mais celui des auters”2
che fanno un cinema moderno.
“[..] mais le cinema vraimont moderne,
celui de demain, celui que nous entrevoyons
et voudrions aider à percer, ne sera pas le
fait des auteurs incapables à montrer la
réalité actuelle et à venir, de se dégager
du reflet de leurs obsessions [...]”
sarà quello che attuerà “une nouvelle esthétique de realism”3.
In sostanza si affermano alcune innovazioni, che acquisiscono
valore di paradigma - o questo è perlomeno ciò che vorrebbero
acquisire - al momento dell’uscita del film, ovvero “l’emploi du son
direct et la couleur, dont nous voudrions faire la régle”. Nel numero
171 dei Cahiers, si considera che l’innovazione tecnica sia andata
incontro all’economia. Se è vero che il corrente formato cinema
era 35mm, Paris vu par, che è girato tutto in 16mm, costituisce non
solo una risorsa produttiva (si immagini gli episodi Gare du Nord, La
2 “Cahiers du cinema”, numero 171, Ottobre 1965, p.83 Ibidem
place de l’Etoile e Montparnasse et Levallois girati con le grandi cneprese),
ma anche una proposta estetica. Le possibilità produttive che
offrì la macchina a 16 mm sono state citate da tutti e sei i
registi, che esaltarono la snellezza del dispotivo in funzione del
rodaggio, diamo alcuni di quei contributi
“La 16mm m’a permis de m’attacher
totalement au movement meme de ces personnages,
pour les suivre dans leurs moindres réactions
et traquer leurs intentions dans leurs regards
ou leurs paroles..”4. “..grace àu seize
millimétres, puisque c’est quand meme moins
cher que le treinte cinq. Et qu’on peut tourner
plus vite, je me suis senti plus libre et j’ai
mis certains choses qu’il m’aurait été
difficile mettre dans d’autres films..”5
Dal punto di vista analitico riuscire ad approfonditamente
ognuno dei sei cortometraggi potrebbe rappresentare un lavoro per
il quale non avremmo spazio a sufficienza. Cerchiamo quindi di
cogliere i punti salienti di quanti più frammenti possibili e poi
tracciare alcune conclusioni.
Gare du nord di Rouch, rappresenta quasi l’emblema di tutta
l’ideologia di Paris vu par (che ricordiamo essere di Barbet
Schroeder). Il regista infatti, che è anche antropologo6, concentra
4 Jean Duchet, “Cahiers du cinema”, numero 171, Ottobre 1965, p. 95 Claude Chabrol, “Cahiers du cinema”, numero 171, Ottobre 1965, p. 96 Quando gira questo cortometraggio Rouch, ha realizzato solo qualche isolatolavoro di finzione, mentre invece ha concentrato quasi tutto il resto della suaopera in documentari etnografici o al massimo alcuni mokumentary che ricordanoin qualcosa le tecniche dei cinegiornali zavattiniani, ma lavorati sempre inchiave etnografica.
la sua attenzione, quasi esclusivamente ai personaggi che
interpretano l’episodio, la loro vita le loro relazioni, ma nella
seconda parte non dimentica di rappresentare il loro rapporto con
il tessuto urbano. Diremo però che allaccia un forte legame non
alla città di Parigi nella specifico, ma a quella generale, alla
Großtadt, la metropoli, che costrusice quindi un ponte di raccordo
tra l’individuo e la geografia delle attrazioni, quella della nuova
città, che non è più quella di Ruttamnn7, Strand8 o la stessa
Parigi di Clair che dorme9 ma la metropoli del dopoguerra, che suona
nuove sinfonie urbane, più vicine alle psicologie che alle
fisicità dei personaggi.
Ricollegandoci a quest’epoca (quella degli anni venti), in
quanto ricca di sperimentazioni, sulla raccolta di documenti,
sulle sinfonie urbane e dello sguardo che esse conferisocno alla
visione umana della città, proviamo a tracciare delle differenze
tra gli individui di quell’epoca (1920-1930) e i personaggi del
1965. Questi ultimi hanno un rapporto con la città, probabilmente
neanche molto più consapevole dei personaggi delle avanguardie, in
quanto ogni personaggio (nel senso di inviduo di una storia)
giunge nella propria storia senza una precedente esperienza di
vita; ma se negli anni a cavallo dei secoli e fino agli anni
trenta, le innovazioni, invenzioni, novità, in campo
ingegnieristico, tecnico, elettronico ed anche artistico,
stravolgono il dinamismo e la velocità dei rapporti fisici
dell’individuo, non possiamo certo dire la stessa cosa dei loro
successori. La grande maggioranza dei personaggi che vivono in Paris
7 Walter Ruttmann, Die Sinfonie der Großstadt, 19278 Charles Sheller e Paul Strand ,Manhatta, 19219 René Clair, Paris qui dort, 1923
vu par infatti, sono figli degli anni 40-50 (eccetto la prostituta
in Rue Saint-Denis e i genitori del bambino in La Muette, infatti tutti i
perosnaggi si aggirano dai 20 ai 40 anni) può assistire ad alcuni
evoluzioni dei media (tv), dei mezzi di trasporto (automobile e la
vespa), ad alcune novità politiche (guerra Vietnam, uomo nello
spazio) ma non si può certo asserire che queste siano allo stesso
livello di quelle che stravolsero il mondo degli uomini che hanno
visto la generazione precedente. Ciò che differenzia questi
individui perciò è l’accento che essi porgono agli stimoli esterni
che caratterizzano la loro vita, le loro reazioni, le loro scelte
quotidiane, la loro pulsioni. Come vediamo in sostanza, si è
spotato l’obiettivo della macchina da presa, che non sta più sulle
rotaie di un treno, ma dentro al treno, sulla bocca e lo sguardo
dei passeggeri, filmando un primo piano di un dramma anteriore,
anziché su un paesaggio mangiato dalla tecnica. Il dinamismo della
città, della sua tecnica, non è quindi più al centro dei pensieri
di questi personaggi, in quanto ne conoscono dalla nascita le
dinamiche, anche se sorprendentemente faranno fatica a
svincolarsene completamente (Montparnasse et Levallois ce lo dimostra).
Ciò forse che contamina le vite di questi personaggi è piuttosto
una sottile mostruosità, per dirla con le parole di Chabrol, che
trapela dalla conduzione quotidiana che questi personaggi hanno
raggiunto. Una mostruosità che viene sviluppata attraverso le loro
pulsioni, progressivamente occultate, fuggite (Place de l’Etoile),
otturate per non farsi contagiare (La Muette), oppure scambiate,
tradite (Montparnasse et Levallois).
Nel’arte infromale degli anni 50-60, si suol inserire un certo
malessere, un pessimismo di fondo, legati ai postumi della seconda
guerra mondiale. Se dai primi anni sessanta si respira già un
discreto cambio di tendenza con nuovi sviluppi culturali (pop art,
la minigonna, la tv, La dolce vita, lo sviluppo edile, solo per
dirne alcuni) tutto ciò non basta ad allontanare l’individuo da
una sentita lontananza ed inter-incomunicabilità che affora. Non a
caso, un anno dopo (1966), Antonioni ci ricorda questa sfuggevole
serenità, questa probabile possibilità all’impossibile, girando
Blow up. Questo film, nonostante finisca in modo semi-positivo,
emana uno sconfinato negativismo. Sarà per l’imminente caso
Vietnam e guerra fredda, o forse per una coincidenza artistica, ma
a metà degli anni sessanta, mentre ci si prepara ad alcune grandi
rivoluzioni culturali, sociali e politiche (gli hippy e Woodstock,
il sesssantotto europeo, le dittature europee che cadono qualche
anno più tardi), una riflessione profonda attanaglia lo
spettatore sul grande schermo. Oltre al già citato Blow up, in
questo periodo viene realizzato Farhenheit 451, film che sottolinea
il pericolo delle classi povere di venire trafugati della cultura
da parte del potere. Nel 1964, un anno prima, Kubrick realizzava Il
dottor Stranamore, pellicola che accenna l’apocalisse della terra10,
mentre del 1966 è Persona, di Ingmar Bergman, che il regista
scrisse durante una depressione e che ha come tema principale
l’incomunicabilità e le crisi esistenziali11. I pugni in tasca di Marco
Bellocchio è del 1965, parla di una storia di una famiglia di
anormali, nella quale un figlio uccide gli altri componenti della
famiglia, venendo a sua volta lasciato morire dalla sorella
incestuosa. Pierrot le fou di Godard, sempre dello stesso anno di Paris vu
par, è un altro film, nel quale i personaggi non riescono ad
ottenere nessuna salvezza e concludono la loro avventura con la10 http://www.occhisulcinema.it/Dos-Il%20Dottor%20Stranamore.htm11 Sergio Trasatti, Ingmar Bergman, Il castoro, Milano 1995, pp. 83-90
morte. Nel 1966 Godard realizza Masculin, feminin e sappiamo quanto
poco ottimistico fosse.
Ciò che non possiamo sostenere come un verdetto, ma
sicuramente come uno spunto di riflessione e di ricerca è perciò
un evidente ritorno dei caratteri dell’arte informale. Un
negativismo che fa da basso continuo a storie che nello stile
rappresentano dei nuovi modelli, nel modo di raccontare
significano conquiste e nei contenuti e nelle retoriche delineano
allo stesso modo uno sfrontato coraggio, una sincerità forse
persino inquietante.
Le storie di Paris vu par, secondo chi scrive ripercorrono il
cinema di un periodo forse troppo falcidiato da una negativa
visione indivuiduale e di insieme; una settima arte che racconta
un momento difficile, nei contesti più variegati.
La famiglia ad esempio è raccontata da Chabrol in La Muette. La
breve stora è vista dagli occhi di un bambino, che non sempre far
parte dello stesso mondo dei grandi, ne ignora le dinamiche, non
ne conosce le regole. La sua unica possibilità di tenersi lontano
da questo mondo, è quella di non poterlo ascoltare. È importante
pensare come vi possa essere una differenza sostanziale fra i due
verbi sentire e ascoltare. Il bambino pratogonista, pobabilmente
non ascolta i suoi genitori, nè la città, ma li sente e ciò lo
inquieta, lo fa star male. Per fuggire a questa tortura, decide di
mettere dei tappi alle orecchie, che non gli permettono di sentire
il minimo rumore. Questa soluzione gli costerà molto cara. Non
iruscirà infatti a sentire la madre claudicante che caduta dalle
scale incontrerà la morte. Nel finale anche la città stessa
diventa un teatro muto, fatto solo di movimento e luce, nel quale
i suoni appaiono quaai superflui. Il linguaggio della città, ormai
stereotipato, con i suoi clacson, con le sue campane e le sue
ambulanze, vive ugualmente anche non ascoltandolo. Chabrol decise
di recitare in prima perosna, assieme alla moglie
In Gare du nord, si possono trovare molti dei caratteri moderni
che cotraddistinguono le nuove insoddisfazioni. La protagonista è
Odile una giovane che durante una colazione qualunque con il
fidanzato Jean-Pierre intravede l’inizio di un lento declino delle
sue aspettative di vita.
“Qu’on juge du degré d’improbabilité:
l’aspiration majeure à laquelle l’héroine
vient de reprocher à son mari de faire obstacle
par son conformisme et son inertie, un inconnu
rencontré quelques instants plus tard par
accident lui offre de la réaliser séance
tenante; affollée, la jeune femme le repousse”12
Le passant e Odile hanno quindi praticamente una conversazione
sullo stesso argomento che avevano avuto poco prima la ragazza e
Jean-Pierre. Ma le convinzioni appena dichiarate al proprio
partner, di fronte al giovane sconosciuto, vengono meno. E’ palese
qui che Odile rappresenti il tratto dell’incomunicabilità per il
regista; l’impossibilità dell’individuo di riotravare esternamente
i ppropri pensieri.Il giovane automobilista invece giudica la
vicinanza possibilie di Odile - che invece gli è negata – come una
condanna finale. La disperazione con cui il giovane si propone ad
Odile, è folle. Sembra come se fosse al casino e tentasse il tutto12 “Cahiers du cinema”, Numero 172, Novembre 1965, p.51
per tutto bleffando una mano a poker. Un all in fallito. C’è come una
fantastica impressione, che egli sapesse che il suo destino
passasse in quella strada a quell’ora. E Odile, che
“devant la possibilité qui lui est
offerte d’une realisation immediate, intégrale,
du reve qu’elle vient de formuler, et la chaine
de verre reliant soudain les objets de son
désir la livre à une épouvente qui va croissant
des premiers instants de la rencontre au cri
boulversant qu’elle pousse à la vue de l’homme
soutant dans le vide”13
Il teatro composto tra Odile e l’automobilista, o le passant,
conferma che le cose sono sempre uguali, mentre ciò che cambia è
il nostro modo di vederle. In questo passaggio è assai chiara
l’analogia tra vita dell’inviduo e vita della città, le persone
cambiano le proprie ambizioni o possono restare le stesse,
alterano la loro attitudine a sentimenti o a passioni, ma non è
sempre così. La città in tutto ciò è l’emblema di una similitudine
vita – geografia. Una città o un amore possono annoiare sin da
subito o essere amate per sempre. Nella fattispecie, per le passant,
la città è camnbiata per diventare anche strumento di morte. La
grandezza delle nuove strutture, come ad esempio le nuove sontuose
stazioni, i ponti che collegano due strade lontane e che
oltrepassano le ferrovie (costruiti per favorire le dinmaiche
fisiche dell’uomo) in questo caso diventano strutture per
suggerire lui un suicidio . Il fischio del treno, forse il più
paradigmatico e rappresentativo della tecnica del 900, giunge
13 Ibidem
esattamente nel momento in cui il ragazzo decide di uccidersi e
scandisce quindi la sinfonia della sua vita.
Il piano sequenza del cortometraggio (se si esclude la prima e
l’ultima panoramica d’insieme) non possono che applicarsi, nel
caso, alla storia di un personaggio seguito da una cima all’altra
della sua traiettoria14, che in realtà è traiettoria di morte,
perché Odile in realtà muore con le passant, non sopravvive, nel
senso che i suoi pensieri, le sue paure, i suoi sogni, vengono
messi in discussione, sia esternamente che internamente. Claude
Ollier, giudica il lavoro di Rouch, da alcune di queste analisi,
come un lavoro nuovo, di inquiesta sociologica, di psicodramma.15
In Rue Saint - Denis, concordo parzialmente con ciò che afferma
Jean Eustache nei Cahiers. Il critico dice “quand on n’a plus rien
en dire sur quelque chose, on n’a plus rien en dire”16 Con questa
tesi, in realtà non mi trovo molto d’accordo. L’episodio di
Pollet è sicuramente il pià fiacco di Paris vu par. Rue Saint - Denis è
una via conosciuta in tutto il mondo soprattutto per le sue
prostitute e per questo appare perolmeno assai poco originale
comunicare per immagini, la storia tra una prostituta e un suo
cliente, ovvero la più banale che possa immaginare qualsiasi
spettatore comune. Da un cineasta ci si aspetterebbe qualcosa di
più. Probabilmente gli unici spunti interessanti sono sempre
legati alle dinamiche urbane. La prostituta è il simbolo della
città, essendo lei stessa come una donna di facili costumi, cara,
divertente e possibilimente pericolosa. Il cliente in questo caso
non è un ragazzo di provincia, che non conosce bene queste14 Ivi, p.5215 Ivi, p.5216 Ivi, p.53
dinamiche. Il racconto quindi vuole raccontare come una persona
esterna possa non intersecare le sue attitudine con la vita
urbane. Leon, il protagonista è impacciato, alla fine non ottiene
nemmeno ciò per cui aveva cercato la prostituta, un po’ come se
volesse dirci che si parte verso la città con uno scopo e poi si
finisce con l’accettarne un altro. In Rue Saint - Denis, l’incontro di
sesso si trasforma in una cena, ma che sa molto di nutrimento,
anziché di rituale, più vicino ad una cena solitaria, ovvero
noiosa, che ad una cena romantica. I due finiscono per parlare
come se fossero una coppia navigata, non proprio sul punto di
lasciarsi, ma nei botta e risposta della conversazione c’è quella
disattenzione tipica di chi dialoga più per parlare che per
condividere.
La scenografia a mio avviso è perfetta per questo tipa di
storia, diegetica al massimo livello. La piattezza del plot, così
come quella della regia, senza movimenti di macchina, con molte
inquadrature girate con lo stesso punto macchina e obiettivo
diverso, è basilare come la scenografia, ma le due cose vanno a
braccetto e sono in un certo modo armoniose. Anche il montaggio è
impreciso, probabilmente Pollet non ebbe molti ciak a disposizione
e in realtà il suo più grosso errore è stato quello di pensare a
troppe inquadrature nello stesso ambiente. E’ l’ episodio più
corto (11.37) e l’unico episodio che si gira in unico ambiente, ma
nonostante ciò è quello con più inquadrature (trentasette solo
nella stanza per dieci minuti di film, non considerando le
inquadrature di presentazione agli ambienti urbani, che fanno sono
una media di un’inquadratura ogni sedici secondi, senza
considerare che al montaggio gli stacchi sono ottantaquattro,
ovvero uno ogni sette secondi di media, non proprio cifre da
nouvelle vague) se si esclude Place de l’Etoile, girato quasi completamente
in esterni ampi. In tutto l’episodio si respira un’aria di
dilettantismo nonostante sia il settimo lavoro di Pollet. Lo
scavalcamento di campo, considerato da molti come il più grave
degli errori lo troviamo quando Leon è sulla sedia e la prostituta
sul letto che parla delle sue gambe. Non pensiamo che ci siano dei
buoni motivi per supporre che sia una trasgressione voluta, in
quanto la drammaturgia non ci offre in quel preciso istante alcun
suggerimento; si tratta semplicemnte di un errore tecnico. Altre
pressapochezze si trovano nel sonoro, tra uno stacco e l’altro di
alcune inquadrature si sente una forte discontinuità di ambiente e
di fruscìo, diremmo tipica di chi è alle prime armi. Nonostante
queste imprecioni si salva la drammaturgia degli attori. La loro
storia può sembrare leggermente strana, ma è verosimile. La
recitazione del ragazzo, Claude Melki, come ricorda lo stesso
regista nelle pagine dei cahiers, è il motivo per il quale è stato
ideato il cortometraggio, anche nella stessa intervista dichiara
che
“On ne reve pas de personnages, mais des
objets, des moments, le temps, l’espace, la
durée; tout cela, dans eun film a plus
importance que la psychologie”17
Place de l’Etoile – Il nostro eroe, come lo chiama Rohmer, è Jean –
Marc, commesso che lavora in un negozio in zona Avenue des Champs-
Élysées. Ma dall’uscita della metropolitana al negozio, di cose ne
17 Jean - Daniel Pollet, Cahiers, “Cahiers du cinema”, numero 171, Ottobre 1965, p. 10
possono succedere. Rohmer, che è già un esperto nonché grande
sostenitore delle riprese in esterni veri (uno su tutti ricordiamo
La boulangère de Monceau), immagina nella piazza dell’Arco di Trionfo,
le gesta di una storia di un uomo normale che vive il dramma di
uno scampato delitto ed anziché mostrarlo con la tecnica ormai
nota a Rohmer, ossia quella del flaneur parigino, lo fa
raccontando questo personaggio che improvvisamente, impaurito
dalle conseguenze della colluttazione con un barbone, inizia a
scappare freneticamente. A tal proposito il regista ci fa notare
una cosa:
“..aucun parisien n’est pressé au pointde courir quatre cents
mètres à la suite..”18
I monumenti cambiano i flussi urbani, così come i lavori in
corso. Il progresso dell’uomo nelle sue forme tecniche, determina
poi anche la sua sociologia. La giornata tipo di Jean – Marc
subisce gli eventi della grande città. Sulla metropolitana che lo
porta a lavoro, una passeggera le pesta un piede. Il fatto lo
turberà tanto, che uscito dalla metro, continuerà a toccarsi la
scarpa e sovrappensiero si socntra con il vagabondo che
rappresenta a livello sceneggiatoriale un evento scatenante. Le
abitudine duramente conquistate dal protagonista nell’arco degli
anni (aver imparato a che ora prendere la metro per arrivare in
orario, dove scendere, quale strada fare) diventano in questa
giornata dei riferimenti perduti. Nella grande geografia urbana i
cittadini si muovono per punti fermi che li rassisurano, senza i
quali sarebbero persi. Jean – Marc sembra molto infastidito,
quando a causa dei lavori in corso deve cambiare itinerario. Tutto
18 Ivi, p.10
ciò mette a contatto gli individui a volte con porzioni di
geografia alle quali non sono interessati e che potrebbero
riservar loro delle sorprese, positive, come ad esempio ne La
boulangere de Monceau, in cui le narrateur (interpretato pensate un po’
da Barbet Schroeder, ideatore di Paris vu par) per cercare Silvye,
s’imbatte nella fornaia (si noti come nel primo minuto del
cortometraggio del 1963, ci sia un altro riferimento alla
trasformazione della città “À l’ouest, le boulevard de Courcelles. Il conduit au
parc Monceau tout près duquel un chantier de démolition marque actuellement l’emplacement de
l’ancien Cité club, un foyer d’étudiants. C’est là que j’allais dîner tous les soirs quand je préparais
mon droit”)19.
Il regista nella sua analisi, ci ricorda anche che ha
effettuato un voluto rimarcamento dei colori verde e rosso. In tal
caso le inquadrature numerose ai semafori ricordano ancor di più
ilsenso moderno del tempo scandito dal progresso. Nella
fattispecie, come ci ricorda lo stesso Rohmer20, all’inizio del
cortometraggio ha potuto inserire alcune riprese della visita del
presidente della Repubblica Italinao a Parigi, per cui erano state
affissa delle bandiere tricolore all’Arco di Trionfo.
Uno spunto che potrebbe farci riflettere su alcuni stili degli
autori di questi cortometraggi è anche l’utilizzo delle didascalie
da parte di Rohmer. Nelle sei parti del film, è l’unico ad
utilizzarle. Se si vuol essere sostenitori di un cinema fatto solo
ed esclusivamente per immagini, si potrebbe ritenere che almeno la
didascalia “Rien dans le presse, ni ce jour-la ni les soivants”, che compare dopo
che Jean – Marc compra un periodico (sicuramente vuol vedere se il19 Inizio del film “La boulangère de Monceau”, trascrizione tratta da http://www.cahiersducinema.com/Evenement-Rohmer-Reussir-sa-vie.html20 “Cahiers du cinema”, numero 171, Ottobre 1965, p. 10
vagabondo è morto) potesse essere sostiutita da immagini. Capendo
bene che quindici minuti sono pochi per chiunque per presentare un
personaggio, ritengo che la voce fuori campo sia già un grosso
aiuto per il realizzatore, mentre le didascalie sarebbero da
escludere totalmente. Ci viene in mente però che nel 1965 potevano
essere ancora fresche le nozioni di Qu’est que c’est le cinema di
Bazin. Nella parte seconda, Bazin sostiene, anziché un cinema
fatto di sole immagini (cellule uniche e fondamentali del film),
un cinema impuro che sia contagiato dalle altre arti. La nostra è
solo un’interporetazione, tra l’altro da verificare, ma la
sensazione è che essendo Rohmer il regista che è rimasto più
fedele ai concetti della Nouvelle vague (intesa come cinema dove
non succede niente, cinema di flaneur, riprese in esterni reali,
di presa diretta del sonoro), rispetto a Godard per esempio o a
Truffaut, possa avere in qualche modo seguito più scrupolosamente
le teorie di André Bazin, che considerato il padre dei Cahiers, da
quelle teorie si può dire abbia ideato il movimento
cinematografico francese21. Nel finale credo che il regista abbia
voluto concludere con un’altra suggestione. Jean - Marc uscendo
dalla metro scontra il suo ombrello a quello di una bella
signorina. Sarebbe potuto essere l’inizio di un’altra storia.
Sarebbe potuto.
La Muette – Abbiamo già accennato alla mostruosità dei
personaggi di questo episodio. Chabrol, tra l’altro, che interpeta
il protagonista, nell sua analisi si sofferma proprio
sull’interpretazione dei personaggi, quando vuole spiegare come è
21 Per più ampie riflessione e analisi si vedanoi capitoli 1 e 2 della secondaparte alle pagine 119 – 190 di André Bazin, Che cos’è il cinema, Garzanti editore,Milano 1994
riuscito ad ottenere l’atmosfera che si respira in La Muette. Si
tratta evidentemente di un cortometraggio classista, specchio
della borghesia parigina,
“La bourgeoisie c’est une classe, mais c’est
aussi un était d’esprit, et la classe resistera
moins que l’était d’esprit. L’était d’esprit
grand –bourgeois va certainement résister à
tous les régimes sociaux [..] Le pire est que
une fois installés dans leur travaille de
monstres, ils ne sont pas tellement malheureux.
Ainsi, aussitot, que le type peut satisfaire sa
petite libido. Et gagner de l’argent, et que la
femme peut utiliser cet argent pour s’acheter
des pommades pour la peau, il n’ya plus de
problème.”22
Il regista era convinto che nessuno avrebbe potuto capire che
cos aaveva in mente, quando pensava al suo protagonsita, un padre
di famiglia distratto, un marito infedele, un cochon, come lui
stesso osa dire. Il suo personaggio è caricaturale, come i
personaggi della borghesia. Ma c’è anche un altro tema
nell’episodio, che riguarda il vero protagonista, quello dai cui
occhi vediamo la narrazione, ovvero il bambino. Un figlio che
passa quasi inosservato, nella città e a casa sua. Ma la sua
invisibilità non lo rende passivo, anzi lo fa soffrire al punto
dal voler provare la sensazione di non esistere più e per fare un
tentativo, con dei tappi alle orecchie, si isola dal mondo, dalla
sua città, dalla sua fredda casa, da una stanza nella quale non
22 Claude Chabrol, “Cahiers du cinema”, numero 171, Ottobre 1965, p. 8
vuole mai restare. L’episodio è quindi al tempo stesso storico,
perché rappresenta una delle possibili storie a livello sociale,
quindi una sorta di documento, con la mostruosità delle ipocrisie
borghesi, dei loro falsi costumi e menzogne e in secondo luogo è
anche sociologico, ovvero indaga le individualità dei personaggi.
Ognuno di loro è chiuso nel suo mondo. C’è un padre che prova a
fare il padre ma non è capace (una musica dolce parte quando il
padre è in stanza col figlio, tutto ci fa sembrare che voglia dar
lui una lezione di vita, incoraggiarlo mentre invece riesce ad
insegnar lui una regola matematica, ovvero quanto di meno
sentimentale possa dirgli), che tradisce la moglie, una domestica
che si vende al padrone, ed è odiata dal figlio, una moglie che
non si sa con certezza, ma potrebbe pensare ad un altro uomo e fa
finta di non sapere che il marito la tradisce perché non le
converrebbe divorziare e un figlio che cammina solo nella città,
che deve reggere il gioco al padre e che alla fine è, ironia della
sorte il più colpevole perché non si accorge della madre ferita. È
interessante anche l’uso che Chabrol fa delle conversazioni
familiari:
“Et comme la plusparts du temps, ils ne parlent
qu’aux repas, (c’est pour cela que mon film est
construit sur des conversations à table), ces
horreurs déviennent encore plus
extraordinaires.Simplement parce qu’ils ont
rien à se dire, leur monstruosité resort dès
qu’ils ouvrent la bouche.”23
23 Ibidem
Se pensiamo che Chabrol per rendere tutto così vero, ha
preferito andare lui stesso in scena con la moglie, questo ci fa
supporre che sia lui che la moglie conoscessero bene in prima
persona I personaggi che hanno rappresentato.
Montparnasse et Levallois - L’episodio di Godard è molto complesso,
come sempre nella sua opera. Il regista come soggetto sceglie di
citarsi, ovvero di girare una sotria che Belmondo racconta in Une
femme est une femme, Godard per girarlo sceglie la scenografia,
gli attori, ma lascia quasi in mano agli intepreti i dialoghi e i
movimenti di macchina all’operatore. Il suo è un esperimento
meraviglioso in cui cerca di dimostrare quanto il cinema possa
superare il senso in convinzione e dimostri la sua propria
libertà.24
“Moi, j’avais le sens, les acteurs ont le
signe, et l’operateur a donné la signification.
Le trois étapes de la sémantique”25
Il suo scopo ricorda quello Zavattiniano, ovvero di creare un
cinema che non abbia motlo da organizzare, ma che vive di istinto,
di impressioni, di flussi; Godard dice che “l’existènce c’est un
fleuve”. Egli vuole dare un’idea di Montparnasse, della sua
pittura, della vita degl iartisti, ma anche degli artigiani, dei
meccanici, degli operai. Il senso del lavoro si respira molto qui,
addirittura supera le parole, i sentimenti. Il sonoro lo
sottolinea in modo evidente, quando Monika, parlando con i suoi
due amanti deve quais sempre ripetere ciò che dice, perché il
lavoro dei due uomini sovrasta le sue parole Godard durante tutta24 André Techine, “Cahiers du cinema”, numero 172, Novembre 1965, p. 5325 Jean - Luc Godard, “Cahiers du cinema”, numero 171, Ottobre 1965, p. 9
la sua carriera ha sempre indagato sulla difficoltà di poter
esprimersi, di farsi capire, di non fraintendersi e in Montparnasse
et Levallois ribadisce queste difficoltà.
“Una delle idee divertenti del film è che uno dei due fa il
meccanico, l’altro lo scultore in ferro d’avanguardia: atelier e
garage sono ambienti che si assimilano nel comune rumore delle
saldatrici e dei martelli, la confuzione penetra in tutti gli
aspetti della vita”
Rispetto a questa tecnica, ovvero quella di creare
volontariamente un sonoro non molto chiaro al pubblico, Godard
rispoonde così
“Nei primi film parlati non si capivano tutti i dialoghi e
questo la gente l otrovava meraviglioso. Ascoltava il suono.
Adesso invece la gente chiede che, se si pronuncia una parola,
questa debba sempre avere un significato preciso, e che se sfugge
è la catastrofe. Si tratta di una falsa idea di cinema. Al cinema
c’è il suono e c’è l’immagine”
La confusione in cui incappa Monika la ritroviamo in molti
film del maestro francese, ma qui entra in gioco implicando le
vite di Parigi, di Montparnasse dove lavora Ivan, e poi di
Levallois dove lavora Roger. Anche il linguaggio è un tema
dominante qui. Monika che crede di aver inverito le lettere, si
precipita a parlare con Ivan e Roger, cercando almeno di salvarne
uno, ma tramite le parole non si riesce a capire se davvero si era
sbagliata. Come in Vivre sa vie c’è un problema nelle parole. Pare che
più si parli, più ci si allontani dalla realtà, ovvero che più ci
si sforzi di aggirare il problema, più ci sfugga.
Nel 2001, i fratelli Coen girano un film: The man who wasn’t
there. Brevemente, il film parla di un barbiere che uccide l’amante
della moglie, ma non viene scoperto, anzi, la moglie stessa viene
accusata di omicidio, mentre a lui viene imputato un’ altra morte,
quella di un uomo di affari a cui aveva dato dieci mila dollari da
investire nel lavaggio a secco. Durante il processo, l’avvocato,
per scagionare il suo cliente utilizza come strategia, una teoria
di un fisico tedesco, Heisenberg, Ebbene il principio del fisico
tedesco afferma che
“...non tutte le proprietà di una particella quantistica possono
essere misurate con precisione illimitata. Per misurare la posizione di
una particella con una precisione elevata bisogna ricorrere a una luce di
lunghezza d'onda molto corta, e quindi altamente energetica. Ciò si
traduce nel trasferimento di una certa quantità di moto alla particella e
pertanto non è possibile misurare con esattezza sia la posizione sia il
momento. E lo stesso vale per altre coppie di grandezze fisiche. In
situazioni simili, un errore in una misura porta inevitabilmente a
ripercuotersi su altre misurazione altri e Heisenberg aveva stabilito che
il prodotto di errori e disturbi non puòessere inferiore a un certo
valore”26
L’applicazione che ne fanno i fratelli Coen, autori della
sceneggiatura, è ovviamente diversa. L’avvocato va in prigione a
spiegare la sua strategia al barbiere:
“Si chiama principio di indeterminazione.
26 http://www.lescienze.it/news/2012/01/18/news/principio_di_indeterminazione_meccanica_quantistica_heisenberg_posizione_velocit_spin_neutroni-799356/
Sembra un’idea bislacca, ma anche Einstein l’ha
presa in considerazione. La scienza, la
percezione, il dubbio, il ragionevole dubbio.
Sto dicendo che alcune volte, più guardi, più
guardi, meno conosci. È un fatto, è provato, è
un fatto e comunque è l’unico fatto appurato.”27
Al processo:
“L’avvocato gli gettò molta plvere negli occhi
[..]disse loro di guardarmi, di guardarmi bene,
tanto più mi avessero guardato, tanto meno
senso avrebbe avuto quella storia. Disse che
non ero il tipo d’uomo che può uccidere, che
per l’amor di Dio ero solo un barbiere, ero
come tutti loro, un uomo comune, la cui unica
copla era quella di non avere un posto nel
mondo e di provare ad investire nel lavaggio a
secco. Disse che ero un uomo dei nostri tempi e
che se mi avessero condannato sarebbe stato
come legare un cappio attorno al loro collo.
Disse di guardare non ai fatti, ma al
significato dei fatti. Poi disse che quei fatti
non avevano significato. Fece un gran bel
discorso, gli credetti persino io”
C’è la sensazione che Godard abbia in testa qualcosa del
genere quindi quando fa parlare i suoi personaggi.
L’approfondimento delle conoscenze linguistiche, personali,
sentimentali, non è quindi sinonimo di perfezionamento, ma spesso
di abbaglio.27 Versione tradotta in italiano di The man who wasn’t there, 2001
Bibliografia
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Sitografia
http://www.occhisulcinema.it/Dos-Il%20Dottor%20Stranamore.htmhttp://www.lescienze.it/news/2012/01/18/news/principio_di_indeterminazione_meccanica_quantistica_heisenberg_posizione_velocit_spin_neutroni-799356/