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"Quando l'ultimo albero sarà abbattuto, l'ultime fiume avvelenato, l'ultimo pesce catturato, soltanto allora ci accorgeremo che i soldi non si possono mangiare." (Antica profezia Cree) ANNO 2 NUMERO 2 - MARZO 2010 Rivista universitaria della Statale di Milano

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Rivista universitaria della Statale di Milano "Quando l'ultimo albero sarà abbattuto, l'ultime fiume avvelenato, l'ultimo pesce catturato, soltanto allora ci accorgeremo che i soldi non si possono mangiare." (Antica profezia Cree)

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"Quando l'ultimo albero sarà abbattuto, l'ultime fiume avvelenato,

l'ultimo pesce catturato, soltanto allora ci accorgeremo

che i soldi non si possono mangiare."(Antica profezia Cree)

ANNO 2 NUMERO 2 - MARZO 2010Rivista universitaria della Statale di Milano

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Collettivo RedazionaleMarco Onofri

Guido AnselmiFrancesca Delcarro

Ilaria VillaUmberto Bettarini

Anna Giulia FerrarioAlberto Di Monte

Carlo BedoniRem0 Fambri

Valentina SturialeMichele Biella

Fabio GalantucciFabio Vercilli

Davide SchmidMarzio BalzariniMartina Mazzeo

Cosimo De MonticelliElio Catania

Martino IniziatoGiulio D’Errico

Tommaso PedrazziniSilvia Toti

Saverio RomaniAlessandro CapelliAndrea Candrian

StampaBINE EDITORE SRLC.so porta Vittoria, 43

20122 MilanoStampato con il contributo derivante dai fondi previsti

dalla Legge n. 429 del 3 Agosto 1985

Nelle facoltà qualcosa si sta muovendo...

SOTTOTRACCIAIl progetto di questa rivista è nato dall’iniziativa di un grup-po di studenti delle Facoltà di Scienze Politiche; Scienze MFN; Lettere e Filosofia; Medicina Veterinaria. Alcuni di noi fanno parte di realtà che già da tempo operano nell’ambito universita-rio promuovendo eventi cultu-rali, iniziative politiche e spazi di inchiesta e informazione. Tessere relazioni e favorire contaminazioni tra studenti di diverse facoltà, che spesso vivo-no l’università in maniera pas-siva e isolata, è importante per favorire l’osservazione di una realtà articolata e problema-tica come quella che viviamo, per stimolare approfondimenti teorici e per imparare a svolgere attività di inchiesta. Sottotraccia presenta sia diverse rubriche di carattere multidisci-plinare, sia una parte mono-grafica, lo “speciale”, costituita da un’inchiesta, da alcuni arti-

coli di approfondimento del-le problematiche sollevate, e

da un editoriale di invito alla riflessione teorica. In questo nu-mero lo speciale affronta il tema delle problematiche ambientali e prende criticamente in con-siderazione la green economy quale possibile soluzione. Le rubriche che abbiamo ideato trattano le tematiche del lavoro, delle discriminazioni di genere e etniche, della politica inter-nazionale, dell’arte e degli arti-sti, della storia contemporanea e ovviamente dell’università. C’è inoltre una rubrica poetica. La rivista è caratterizzata da un approccio aperto alla par-tecipazione, ponendosi come

obiettivo l’aggregazione di un numero sempre maggiore di studenti. Per partecipare

a questo progetto e per contri-buire alle rubriche scrivici a

[email protected]

4 IO UNA MENSA ME LA MERITOOsservatorio sull’università

5 OCCHIO NON VEDE, CUORE NON DUOLEOsservatorio sul mondo

6 FENOMENOLOGIA DI QUEST’ULTIMACRISI MONDIALERubrica di storia contemporanea

8 POSOLOGIA DELL’ABORTO CLANDESTINO: IL CYTOTECRubrica de-genere

25 IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIARubrica di arte di strada

26 ESSERE POESIA A MILANO #1Rubrica poetica

9 CI SALVERA’ LA GREEN ECONOMY?Speciale ecologia

12 LA CORAZZATA A2A 16 LA STORIA DI ZINGONIA 19 BIOCARBURANTI: SI MA CON CAUTELA 20 IL MERCATO DELL’ENERGIA 23 LA SFIDA DELLA DECRESCITA 24 COP15: ABBANDONATE OGNI SPERANZA VOI CHE ENTRATE

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La mercificazione dell’acqua: quando l’inalienabile incontra le logiche del mercatodi Martina MazzeoRicordate tutti il celeberrimo decreto legge 112 di Tremonti e Gelmini, star d’eccellenza del primo numero di Sottotrac-cia? Pensavamo di sapere tut-to sulla sua identità e invece quest’ultimo ha deciso di stupir-ci ancora! Ebbene si, perché il tal decreto non conteneva solo indicazioni per la distruzione del mondo dell’istruzione bensì andava anche ad intaccare il sis-tema della gestione dei servizi pubblici; un decreto, insomma, nocivo su tutti i fronti, anima e corpo per farla breve.Mentre infatti si discuteva della scuola pubblica, il governo Ber-lusconi approvò in Parlamento l’articolo 23bis del decreto legge 112. Questo articolo prevede che la gestione dei servizi idri-ci venga sottomessa alle regole dell’economia capitalistica. L’acqua potrebbe non essere più un bene pubblico, ma sarà gestita privatamente da multi-nazionali internazionali. Quelle stesse multinazionali che at-tualmente gestiscono le acque minerali.Dopo un paio di mesi dall’approvazione del decreto, quest’ultimo viene convertito nell’altrettanto famigerata leg-ge 133 e l’articolo 23bis viene mantenuto, per poi subire una ulteriore evoluzione rafforzativa verso la fine del 2009.Mercoledì 4 novembre il Senato della Repubblica dà il suo placet definitivo al decreto legge 135/09, dal titolo “Dispo-sizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comu-nità europee”, dove il 23bis as-sume maggior forza e si trasfor-ma nell’articolo 15.L’opinione pubblica si infer-vora di fronte ad una legge la cui sostanza è inaccettabile:

l’operato del Ministro Ronchi mira infatti a privatizzare certi servizi fino a quel momento di gestione pubblica come rifiuti, trasporti e, inorridite, l’acqua.Si, avete capito bene… l’acqua, quel diritto inalienabile, in-negabile, sacro e sinonimo di vita, diventerà mezzo di profitto per le grandi multinazionali e per tutte quelle spa che vince-ranno la gara d’appalto indetta dai comuni e si incaricheranno della distribuzione dell’acqua nelle aree municipali.A primo impatto un qualunque cittadino che legga il titolo della norma sicuramente pensa che la riforma sia inevitabile dato l’obbligo di rispettare le diret-tive comunitarie, del resto se facciamo parte dell’Unione Eu-ropea dobbiamo adeguarci no?Ma navigando un po’ nel web in un uggioso pomeriggio in-vernale quello stesso cittadino potrebbe accorgersi che il tal ti-tolo non è che un cappello mes-so in testa alla legge per conferi-re ad essa una veste facilmente vendibile alla “opinione” ( o meglio, pseudo-opinione) pub-blica.

Ecco cosa di interessante il nos-tro concittadino curioso potreb-be trovare:• Risoluzione Europea 11 marzo 2004, “Strategia per il mercato interno, priorità 2003-2006”, paragrafo 5: “Essendo l’acqua un bene comune dell’umanità, la gestione delle risorse idriche non deve essere assoggettata alle norme del mercato interno”.• Risoluzione Europea 15 marzo 2006, “Risoluzione del Parla-mento europeo sul quarto Fo-rum mondiale dell’acqua”, para-grafo 1: “Dichiara che l’acqua è un bene comune dell’umanità e come tale l’accesso all’acqua costituisce un diritto fonda-

mentale della persona umana; chiede che siano esplicati tutti gli sforzi necessari a garantire l’accesso all’acqua alle popola-zioni più povere entro il 2015”.Nonostante l’Europa, nella realtà dei fatti troppo spesso ignorata dall’informazione così come viene ignorata dagli stessi autori del provvedimento, non imponga alcuna privatizzazio-ne dell’acqua; e nonostante le due chiare risoluzioni europee, il nostro paese, in una evidente condizione di anomalia, pro-cede spedito verso la piena pri-vatizzazione del servizio idrico integrato.

Non è questa la sede adatta a sviscerare questa ennesima legge-vergogna del “nostro” governo però un elemento cre-diamo sia degno di nota: nel giro di un anno o al massimo entro il 2012 l’affidamento dei servizi pubblici locali passerà in mano a «imprenditori o so-cietà in qualunque forma costi-tuite». Anche con capitale misto dunque, purché «l’attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio» sia nelle mani del privato che non può «avere una quota inferiore al 40%» della società. Il pub-blico può rimanere ma è il pri-vato che decide quanto o come investire. E il privato, si sa, deve fare profitti. E i profitti, si sa an-che questo, si fanno abbassando gli investimenti e alzando le tariffe; dati statistici (fonte Utilitatis) dimostrano che gli aumenti più marcati sono stati registrati laddove la gestione è già stata privatizzata.Bene, cos’altro dire… grazie, è meraviglioso!

Nel frattempo, finché ce n’è, godetevi l’acqua, non sprecatela e… buona indignazione a tutti!

Editoriale

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Io una mensa me la merito!di Michelass

Osservatorio sull’univeristà

“Il popolo non ha pane? Che mangi brioches!”. Sembra que-sto, come una novella Maria Antonietta, l’atteggiamento del Politecnico di Milano. Il “pane”, in questo caso, è la mensa uni-versitaria di via Golgi in Città Studi; le “brioches” sono invece bar e tavole calde della zona.Nel polo universitario di Città Studi il servizio di ristorazione è svolto da alcune mense divise tra Poli e Statale, tra le quali quella di via Golgi (appaltata alla ditta SeRist) è l’unica di ca-pienza elevata. Tra maggio e settembre 2009 il CdA del Poli decide di rifor-mare il servizio a disposizione dei propri studenti: chiusura della mensa di via Golgi il 31 dicembre e aumento delle con-venzioni coi bar della zona (15, per ora), sostenendo che troppo pochi borsisti usufruivano dei buoni pasto e che la maggioran-za dell’utenza proveniva dalla Statale. Le convenzioni consi-stono in buoni pasto (ridotti ris-petto a prima) per gli studenti borsisti e “prezzi calmierati” (non si capisce in base a quale meccanismo) per gli altri. Non si fa cenno al resto dell’utenza, studenti e lavoratori. Come se tale decisione non costituisse un problema per tutta Città Studi, privata improvvisamente e unilateralmente di un servizio

essenziale (ricrearne in zona uno analogo è pressoché impos-sibile) e che vedrebbe migliaia di studenti riversarsi nei pochi locali (già saturi) durante la pausa pranzo. La decisione (forse legata anche a interessi sugli spazi) inizialmente non vi-ene divulgata né comunicata ai lavoratori che avrebbero perso il posto; segue uno scaricabar-ile con la Statale sulla man-cata soluzione condivisa. Un pasto completo a un prezzo contenuto e un luo-go di socialità confortevole sono parte imprescindi-bile del diritto allo studio (dovrebbe ben saperlo il Poli che si vanta di essere una “meritevole eccellenza” tra gli atenei italiani. Ma tant’è).Il 17 novembre, al termine di un corteo promosso dai lavoratori, si decide di creare un comitato di lotta unitario, espressione della collettività che si riunisce per difendere un bene comune. Nasce il comitato “Giù le mani dalla mensa”, fron-te comune tra l’utenza e i lavo-ratori, nonché ambito di coor-dinamento tra tutte le realtà e i singoli interessati. L’obiettivo è chiaro: la mensa non deve chiu-dere, bisogna salvare il servizio e i posti di lavoro. Si chiede an-che che Statale e Politecnico ne riconoscano il valore sociale,

per arrivare ad un miglioramen-to sul piano economico e della qualità e ad una gestione con-divisa e trasparente, in modo che la questione del diritto allo studio sia anteposta ai conten-ziosi tra gli atenei e ai profitti di un’azienda. Tra cortei, scioperi, irruzioni nei CdA, c’è il tempo di immagin-

are un uso diverso degli spazi: du-rante l’occupazione dell’edificio del 10 dicembre si tiene un’assemblea pub-blica su demo-crazia diretta e beni comuni, cui partecipano collet-tivi studenteschi, il Comitato per l’acqua e No Expo. Emerge un’idea di

gestione dei servizi basata su partecipazione e trasparenza, anziché relegata nelle alzate di mano dei pochi eletti di un Con-siglio d’Amministrazione.Le intenzioni del comitato sono quelle di continuare la lotta ad oltranza; per ora sono stati otte-nuti la proroga della chiusura al 31 luglio 2010 e l’impegno for-male della Statale a trovare una soluzione.

Di fronte alla privatizzazione autoritaria di beni e risorse tanto in auge nei palazzi del potere (compreso il CdA di un’università pubblica che de-cide all’unanimità, studenti compresi), aprire vertenze e conflitti territoriali è un impor-tante mezzo di resistenza e pre-sa di parola dal basso, e, unito ad un adeguato e consapevole lavoro di rete, può essere lo strumento per un’inversione di tendenza globale rispetto a queste politiche, caratterizzate da deficit di democrazia e ris-petto per uomo e ambiente.

“L’obiettivo è chiaro: la mensa non deve chiudere, bisogna salvare il servizio e i posti di lavoro.”

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Occhio non vede, cuore non duole di Remo Fambri

Osservatorio sul mondo

La società occidentale si crogi-ola nella ricchezza e nelle frivo-lezze mentre milioni di cittadini del mondo vivono la brutalità della guerra sulla loro pelle; i mezzi d’informazione tacciono mentre ventinove conflitti im-perversano in tutto il globo e le parole d’ordine restano sempre le stesse: potere e ricchezza.Questa rubrica di politica inter-nazionale vuole aprire le porte all’informazione che “non fa no-tizia”, scrivere di popoli sfrut-tati e di guerra (il motore che fa girare il mondo da millenni), di potenti e di rapporti in-ternazionali. É necessario aprire gli occhi,guardare al di là dei confini nazio-nali ed iniziare vera-mente a dire no ad un mondo dove l’interesse di pochi distrugge la vita di molti.

La maggior parte della popolazione mondiale non ne ha mai sentito parlare ma questa viene ritenuta dagli es-perti come il conflitto più crudele dopo la Seconda Guerra Mondiale: la Guerra Mondiale Africana. Essa viene distinta in tre parti: Prima Guerra del Con-go (1996-97), Seconda Guerra del Congo (1998-2003) e Guer-ra del Kivu (2004-2009). Tutto inizia nel 1996 quan-do l’AFDLC, capeggiata da Laurent-Désiré Kabila, sfida le forze di Mobutu Sese Seko, dit-tatore dello Zaire: Kabila prende il potere creando la Repubblica Democratica del Congo; inizia la Seconda Guerra: le mino-ranze dell’est rifiutano il nuovo governo innescando una guer-riglia, alcuni Paesi intervengono in aiuto delle minoranze ed altri del governo. Gli schieramenti si compongono in questo modo: da un lato Repubblica Demo-

cratica del Congo, Namibia, Zimbawe, Angola e Ciad affian-cati dalle milizie Hutu e Mai Mai e dall’altro lato Uganda, Burun-di e Rwanda con l’appoggio dei ribelli Tutzi e dei vari Fronti di Liberazione. Nel 1999 si giunge ad un accordo di pace ma solo nel 2003 Uganda, Burundi e Rwanda decidono di ritirarsi. Ma il fragile equilibrio di pace appena instaurata si spezza dopo poco: nel 2004 i ribelli Tutzi del CNDP comandati da

Nkunda ed a f f i a n -

cati dall’ LRA (ribelli u g a n d e s i ) iniziano una violenta guer-riglia nella regione del Kivu che vede impegnato il governo con-golese ed il MONUC (mis-sione ONU pre-sente in RDC dal 2000 e ritenuta un v e r o e proprio fallimento) fino alla pace del 23 marzo 2009 ed all’arresto di Nkunda.Oggi gli scontri continuano fra le varie fazioni ribelli; il bi-lancio delle vittime al 2009 è di circa 5,4 milioni di cui gran parte a causa delle carestie cre-ate dal conflitto, 6 milioni sono i profughi congolesi che vivono

ancora in situazioni socio-umanitarie terribili, molti stati occidentali sono intervenuti nel conflitto attraverso finanzia-menti e vendita di armi mentre i Paesi UE si sono rifiutati di partecipare con un contingente di peace-enforcement europeo proposto inizialmente dal Bel-gio. Come la maggior parte delle guerre, questo conflitto nasce per cause puramente econo-miche (il territorio orientale della RDC è ricco di diamanti, oro e Coltan per la produzione

di articoli High-Tech), gli Stati occidentali e le multinazio-

nali dell’estrazione hanno un grande interesse eco-

nomico nella instabilità della RDC: se lo Stato

non è unitario e non riesce a control-

lare il pro-prio territo-rio vengono

a mancare i presupposti per

regole, licenze, dazi doganali e tasse:

quindi maggior sfrut-tamento e meno pro-blemi!

Il mondo è governato da una politica internazi-

onale guidata dall’interesse puramente economico: ripu-

dia la violazione dei diritti umani e la violenza mentre lu-cra sulla vendita di armi, procla-ma la libertà per tutti i popoli ed allo stesso tempo usa la forza per aggiudicarsi le risorse dei Paesi deboli e poveri; la Guer-ra del Congo è solo uno degli esempi terrificanti della logica politica ed economica interna-zionale, altri 28 conflitti sparsi per il globo distruggono e ucci-dono intere popolazioni. E noi? Noi non ne sappiamo nulla!

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Fenomenologia di quest’ultima grande crisi mondialedi Giulio D’Errico, Fabio Vercilli e Martino Iniziato

Rubrica di storia contemporanea a cura di Lapsus

Dalla metà del 2008 si sono susseguite innumerevoli analisi sull’ultimo crack finanziario. Si è parlato di fine del capitalis-mo, di fine della finanza. Pochi però hanno cercato di volgere lo sguardo indietro a ricercare le cause profonde di quello che è successo dalla crisi dei mutui subprime dell’estate 2007 in poi.Per farlo è necessario focalizza-re il discorso su un periodo sto-rico ben preciso: quello che va dall’inizio degli anni 80 fino al 2008. All’interno di questa pe-riodizzazione sono gli anni ’90 a risaltare come momento cru-ciale per lo sviluppo economico in cui giungono al loro apice diversi fattori che, nati molto prima, solo qui si incrociano l’uno con l’altro e danno vita a sviluppi tutt’altro che aspettati.Il dato storico da cui partire è la fine della guerra fredda. Con la caduta dell’Unione Sovietica del 1991 nulla sembra più os-tacolare l’avanzata del “nuovo” vento culturale neoliberista nel mondo. A livello mondiale dal 1992-93 assistiamo alla più grande crescita economica mai regis-trata prima; a livello europeo, più silenziosamente, nello stesso periodo viene costituito il Mercato Comune (accordi di Maastricht, 1992), primo passo verso la creazione di un sistema di cambi fissi all’interno del vec-chio continente. In Asia il Giap-pone sta esaurendo la sua spinta propulsiva, ma in compenso si assiste alla strepitosa asce-sa economica di Cina e India. Nella prima, lo stop alle riforme impresso dalla crisi del 1989 ha avuto breve durata, e dal 1992 si sono susseguite liberalizzazioni e privatizzazioni, permettendo tassi di crescita del 7-8% annui e imponendo la Cina come prima potenza industriale. Nel sub-

continente indiano le riforme degli anni ’90 si sono spinte an-cora più in là, facendo del paese uno dei principali fornitori di servizi, con tassi di espansione del 5-6% del PIL. Al contrario negli Stati Uniti la situazione non è delle più rosee. Il decennio si apre con la pri-ma guerra del Golfo, il declino industriale e la competizione giapponese si fanno sentire, aumentano la disoccupazione e le diseguaglianze economiche e sociali, numerose saranno le rivolte (la più importante quella di Los Angeles dell’aprile-mag-gio 1992). È proprio dagli Stati Uniti che, però, si impone un nuovo settore che caratterizzerà l’economia degli anni a venire: la “New Economy”. Solo ora ven-gono capitalizzati quarant’anni di sviluppo di “data processing” grazie allo sviluppo di Internet su larga scala e la produttivi-tà delle nuove tecnologie rag-giunge vette mai viste prima.Abbiamo detto fine della guerra fredda. Questo è probabilmente l’evento storico più significativo dalla conclusione della seconda guerra mondiale, spesso trascu-rato, ma sicuramente gravido di implicazioni, buona parte delle quali ancora poco chiare. Proprio lo studio degli anni ’90 come fase post-bellica ha permesso la nascita di un filone di analisi concentrato sulla com-parazione tra anni 90 e anni 20. Diversi lavori hanno apportato un fondamentale contributo per

far luce sui nodi economici di questi due periodi e offrono un buon punto di vista per meglio comprendere l’attuale momen-to storico. Il primo tratto caratteristico di un periodo post-bellico è quello della riduzione delle spese per la difesa che negli Stati Uniti degli anni 90 calano di un punto per-centuale (almeno fino al 2001). Gli anni 20, come i 90, si gio-vano dell’impatto delle nuove tecnologie (elettricità e chimica in primo luogo), grazie alle quali si ha un sensibile aumento della produttività. Entrambi i periodi si aprono con quella che è stata definita “un’euforia finanziaria”, collegata all’estensione dei flus-si di capitale internazionale. È proprio qui che notiamo però la prima differenza. Il ruolo degli attori in gioco si rovescia: con la fine della prima guerra mondia-le gli Stati Uniti scal-zano la Gran Bretagna e si im-pongono a livello globale come primo paese creditore, come paese che fornisce capitali al resto del mondo; negli anni ’90 al contrario gli Stati Uniti sono un paese fortemente debitore, in particolare verso la Cina. Negli anni ’20 gli sviluppi di questi squilibri della bilancia dei paga-menti internazionali (la Ger-mania uscirà dal conflitto come paese maggiormente debitore) saranno tra le cause principali delle “infelici” evoluzioni po-litiche del ventennio seguente.Le conseguenze del debito

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Statunitense (quintuplicato nel frattempo) saranno visibili negli anni a venire. Ultimo parallelo tra i due de-cenni riguarda l’ineguale dis-tribuzione del reddito, sia tra un paese e l’altro, sia all’interno di ogni nazione. Le disuguaglianze economiche tornano a crescere dopo settant’anni di lenta ma continua erosione.Come si diceva, gli anni ’90 ve-dono il precipitare contempo-raneo di fattori di lungo corso; non si può a tal proposito non parlare della globalizzazione, la categoria passe-partout del decennio, sotto la quale sono stati indicati di volta in volta elementi e valori diversi. In sé, la globalizzazione rappresenta l’integrazione di tre mercati: quello delle merci (commer-cio internazionale), quello dei capitali (investimenti interna-zionali) e quello del lavoro (mi-grazioni). Si può far risalire il processo di globalizzazione alla fine del XIX secolo, ma ora si impone con caratteristiche dif-ferenti rispetto al passato. È il livello finanziario a giocare il ruolo di protagonista, le cifre del turnover finanziario gior-naliero (il totale degli scambi a livello globale) passano dai 15 milioni di dollari del 1973, al miliardo e 200 milioni del 1995, per intenderci, più del totale del commercio internazionale, del debito e dell’investimento es-tero globale.Un altro processo che rivela tutte le sue potenzialità solo alla fine degli anni ’80 è l’innovazione fi-nanziaria: cruciale per questo è la creazione del nuovo mercato dei cambi nato con l’abolizione della parità del dollaro rispetto all’oro (1971); da quel momento viene abolito il sistema a cambi fissi imposto dagli accordi di Bretton Woods e inizia il regime della fluttuazione dei cambi. Il nuovo mercato che viene a na-scere è enorme e permette speculazioni di ogni genere. Questo tipo di innovazione

sarebbe impensabile senza lo sviluppo delle tecnologie infor-matiche e delle teorie, matema-tiche e finanziarie, per il calcolo del rischio.Il ruolo dell’accademia comincia così a mutare, una trasformazio-ne ambivalente, che vede sem-pre più economisti e matematici sedere nei cda di banche, as-sicurazioni e società finanziarie oppure fungere da consulenti ai più svariati governi, accom-pagnata dalla conseguente riduzione dell’indipendenza e dell’autonomia delle accademie. Questa crescente commistione ha portato all’incapacità di pre-visione della crisi attuale.Ultimo tassello del nostro dis-corso, linea guida delle politiche neoliberiste inaugurate da Ronald Reagan e Margareth Tatcher negli anni ’80, è la cosiddetta “deregolamenta-zione”. Una continua erosione del ruolo dello stato di control-lore dei processi economici, ruolo che si era imposto come necessario a seguito della crisi economica del 29 e si era svi-luppato fino agli anni 70. Le politiche di deregolamentazione si concentrano su tre ambiti: le telecomunicazioni, il trasporto aereo civile e i mercati finan-ziari. In quest’ultimo vengono smantellate rapidamente tutte le restrizioni ai flussi di capitali tra paesi, vengono fortemente ridotti, se non del tutto aboliti, i controlli sui tassi di cambio e sui capitali in uscita e in en-trata, vengono cambiate le re-

gole che vigono per lo scambio dei titoli, vengono riformate le Borse attraverso l’abolizione del monopolio della compra-vendita di titoli degli agenti di cambio, e la soppressione della “commissione fissa” su ogni scambio. Una trasformazione necessaria in un’economia pres-sata dallo sviluppo tecnologico e dall’innovazione finanziaria, ma ancora troppo imbrigliata da controlli nazionali per po-ter dispiegare completamente i suoi effetti di produttività e crescita economica incontrol-lata. Alla riforma delle borse segue quella del sistema ban-cario. Di fondamentale impor-tanza ciò che succede negli Stati Uniti dove, in un lento percorso legislativo, viene abrogato nel 1999 il Glass-Steegall Act, vie-ne meno cioè la distinzione tra banche d’investimento e banche d’affari. Mossa che permetterà la nascita dei più grossi colossi finanziari (Citigroup su tutti).Pur nella limitatezza dello spazio, il puzzle è completo. Gli anni 90 rappresentano il tentativo di realizzazione delle idee neoliberiste: un’economia mondiale guidata dalla finanza che, potenziata dall’ innovazio-ne informatica e finalmente li-bera da vincoli geografici e con-trolli politici, avrebbe potuto dispiegarsi in tutta la sua forza “rigeneratrice”. Proprio quella forza che nel 2007 si è scontrata con la bolla immobiliare, e nel 2008 ha provocato il collasso di alcuni dei suoi maggiori araldi.

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Posologia dell’aborto clandestino: il Cytotec!di Valentina Sturiale

Rubrica de-genere

Per abortire clandestinamente oggi non si usano più i ferri da calza ed il prezzemolo ha lascia-to il posto ad un metodo molto più efficace, quasi invisibile: si chiama Cytotec ed è un gastro-protettore utile per la terapia delle ulcere gastroduodenali.Può essere acquistato dietro ri-cetta medica alla modica cifra di 14 euro in farmacia e, se fos-se un problema, il mercato nero può facilmente sopperire alla mancanza di prescrizione. Le fasce “deboli”, quelle più sog-gette all’uso del Cytotec, sono “casualmente” le meno tutela-te dalla Legge 194: le stranie- re e le minorenni, soprattutto all’interno di quei contesti dove l’educazione sessuale scarseg-gia.Se assunto nelle dosi indicate il farmaco non implica conse-guenze diverse da un aborto spontaneo, per questo è difficile quantificarne l’uso.

Data la lenta assimilazione si assiste spesso a casi di sovrado- saggio che implicano seri effetti

collaterali, non ultimo, la morte.

L’uso del Cytotec è for-temente sconsigliato per l’ interruzione di gravidanza: la stessa azienda produttrice elenca fra gli effetti collaterali la morte ma-terna e fetale, l’ipersti-molazione uterina, la rottura o perforazione dell’utero, emboli da fluido amniotico, emor-ragie severe, ritenzione placentare. L’aumento dell’uso di questo farmaco come interruttore di gravi-

danza, nell’ultimo periodo, non stupisce: i numerosi attacchi alla 194, l’imbarazzante nume-ro di medici obiettori e le fan-tozziane trafile burocratiche, sono già motivazioni più che sufficienti, ma se a questi dati si aggiunge il terrore suscita-to dal Pacchetto Sicurezza e la convinzione, fomentata a lungo dai media, che i medici possano denuncia- re i migranti clande-stini, si ottiene un quadro com-pleto della situazione.

Il problema è particolarmente ostico e complesso, si tratta in realtà di due settori che non go-dono oggi di buona salute: il pri-mo è l’autodeterminazione della donna, la possibilità di conosce-re ed avere a disposizione tutti i mezzi per potere essere padro-na del proprio corpo, il secondo riguarda i diritti umani delle donne straniere. Da una parte una società patriarcale, sempre più invadente, che vede la ma-ternità come funzione ultima e naturale della donna in quanto angelo del focolare e l’uomo, ov-

viamente eterosessuale, potente capo della famiglia. Tutto ciò che non si conforma a questo modello viene quindi definito “deviante”, qualcosa di malato che deve essere estirpato (qual-cuno ha riassunto tale ottusa posizione utilizzando il termine “contro natura”). Dall’altra parte siamo di fron-te ad una fascia di popolazione che viene tagliata completa-mente fuori dai diritti umani. Sulle spalle dei clandestini si sta costruendo un mercato vergo- gnoso, in cui anche i diritti fon-damentali, come quello alla sa-lute, devono essere acquistati in soldoni sonanti, un mercato in cui l’unica legge è dettata dal potente.

Le continue dichiarazioni razziste dei nostri governan-ti riempiono le prime pagine, mentre altre notizie vengono accennate appena: una transes-suale che si toglie la vita la vi- gilia di Natale nel CIE di Corelli; una prostituta a Bari che muo-re di tubercolosi, troppo terro-rizzata dalla possibile denuncia per andare in ospedale, le donne che muoiono ogni anno di Cyto-tec perché a loro è preclusa la possibilità di abortire in ospe-dale.

Chi pensa che la 194 sia solo una legge che difende l’aborto è fuori strada: essa è nata per tutelare la salute e la consa- pevolezza della donna.L’efficacia con cui viene applica-ta, parimenti, indica il livello di attenzione del nostro paese alle pari opportunità ed il fatto che ci siano tuttora molte persone che non riescono a beneficiarne implica che c’è ancora molto da fare.

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SPECIALE GREEN ECONOMY - EDITORIALE

Per rendersi conto del livello della crisi economica ed ecolo-gica non c’è nulla di meglio che osservare il numero di parole spese per glorificare solu- zioni che, nel migliore dei casi, ri-mangono puramente retoriche e, nel peggiore, fungono da pre-supposti per un ulteriore ag-gravamento della situazione. Il fallimento del summit danese di COP 15 (e dei summit preceden-ti) è sotto gli occhi di tutti, tal-mente palese che non vale nem-meno la pena di spenderci più di due parole. E allora perché ovunque intorno a noi si molti-plica la retorica del capitalismo verde? Mercato delle emissio-ni, biocarburanti, addirittura il nucleare “amico dell’ambien-te”, fiumi di inchiostro ed ore di conversazione celebrano il capi-talismo ecocompatibile, ed ecco allora moltiplicarsi autobus a biodiesel, linee di montaggio a ridotto impatto ambientale, condizionatori “ecosostenibili”,

mele “biosolidali”.La soluzione ad un problema che si ammette essere com- plesso appare semplice, il discorso che la sostiene è tranquillizzante: “comprate prodotti “verdi”, non preoccupatevi del problema, la mano invisibile del mercato cu-rerà anche la febbre del pianeta, del resto non ha avuto successo in passato?” Diseguaglianza, sottosviluppo e povertà sono concetti oramai consegnati al passato. Ironia a parte, può es-sere utile indagare le ragioni di questa infatuazione bucolica del mercato. Il capitalismo rappre-senta un modo di produzione “rivoluzionario”, strutturalmen-te senza fine, in cui lo scambio denaro-merce produce un sur-plus di denaro che deve essere necessariamente reinvestito per garantire la tenuta del sistema; il reinvestimento è possibile solo se la “sfera del mercato” si amplia, solo se, in poche parole, il mercato riesce a creare nuovi

bisogni o a soddisfare necessità che precedentemente trovavano risposta in altri ambiti di produ-zione.Ma questa crescita illimitata, necessaria al funzionamen-to dell’apparato economico, si scontra in primo luogo con i limiti fisici di un sistema-terra dalle risorse limitate e in via di esaurimento. Ciò crea una fortissima contraddizione tra la sfera ambientale e quella dell’economia. Il sistema-terra, infatti, è governato dalle leg-gi fisiche di conservazione e trasformazione della materia-energia. L’uomo, in sostanza, non è in grado di creare né di di-struggere, ma può soltanto tra-sformare la materia e l’energia. Ognuna di queste trasformazio-ni comporta, però, anche dei co-sti: al termine di ogni processo, infatti, una certa quota di ener-gia viene dispersa in modo irre-cuperabile. Tutto questo, per-ciò, risulta incompatibile con il

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concetto stesso di sviluppo illi-mitato, proprio perché ciò non è in grado di far fronte ai vincoli fisici dati dal contesto ambien-tale. L’unica soluzione possibile al problema ambientale parreb-be quindi quella di una forte li-mitazione dei consumi. Questa, però, risulta incompatibile con un sistema economico basato sul reinvestimento del surplus. Proprio per tale motivo, il pro- blema in questione viene total-mente ignorato, continuando a spingere sull’acceleratore della crescita per far sopravvivere l’intero sistema. Qualora non trovi questo “spazio vitale” il ca-pitalismo entra, infatti, in crisi. Per quanto la retorica neolibe- rista tenti di rivenderci il mito del mercato che bada a se stes-so, nella realtà storica lo Stato si è sempre occupato di garantire l’ampliamento della sfera del mercato oppure di inserire dei correttivi per impedirne il col-lasso. Lo Stato assicura la pos-sibilità del reinvestimento del surplus mediante la costruzione di infrastrutture, programmi di riarmo, favorendo l’espansione urbana e geografica del capi-talismo, “esportando la demo-crazia” e conquistando nuovi territori da annettere al “mondo libero”; qualora tutto questo sia impossibile non rimane altro che intervenire direttamen-

te per scongiurare il collasso, ad esempio stampando carta mo neta per salvare le banche insolventi. Quando si tratta di sostenere le rendite da ca-pitale tutto diventa possibile, e tutto può venire sacrificato per correggere le disfunzio-ni di un sistema economico in grado garantire sviluppo eco-nomico e benessere diffuso.

Quanto c’entra tutto questo con il “capitalismo verde”? Molto, perché se consideriamo che fino ad oggi la priorità del sistema politico internazionale, nelle sue varie articolazioni, è stata quella di garantire la “tenuta” del mercato, allora possiamo ve-dere al di là della retorica ed ini-ziare a chiederci quanto questa “riconversione spirituale” del liberoscambismo sia da impu-tarsi alla crisi ecologica o quan-to, più realisticamente, sia da imputarsi alla necessità di cre-are un nuovo programma infra-strutturale ed una nuova serie di necessità a cui il mercato fornirà equa soddisfazione; in altre pa-role, la priorità non è il taglio delle emissioni (che in ogni caso continua a non avvenire) ma la garanzia di poter reinvestire il surplus presso nuovi lidi. “Se realmente si tagliano le emissio-ni, che importanza può avere se qualcuno riesce a ricavarne pro-

fitto?” Potrà sembrare che noi si butti via il bambino con l’acqua sporca, eppure, anche ammet-tendo che si riesca a tagliare le emissioni, (cosa tutt’altro che scontata visti i risultati di COP 15 ) i problemi permangono e stanno proprio nel profitto.

Per chiarire utilizziamo un esempio considerando un sin-golo prodotto: una saponetta ad “emissioni zero”; detta saponet-ta ovviamente costerà legger-mente di più per coprire le spese di ripiantumazione, ammettia-mo anche che i produttori siano sinceri e che l’intera popolazio-ne mondiale, presa da crisi di coscienza, decida di acquistare la saponetta miracolosa (già ora siamo abbondantemente nella fantapolitica) e che tale prodot-to miracoloso abbia saturato completamente il mercato azze-rando le emissioni connaturate alla propria produzione… e poi?La saturazione del mercato ci ri-porterebbe al punto di crisi, sur-plus da investire e necessità di spazi per poterlo fare, il surplus ricavato dal sapone dei miracoli dovrebbe essere reinvestito, po-trebbe essere reinvestito in altre attività ad impatto zero certo, ma se dovessero aprirsi nuovi spazi? Spazi che garantiscono un ritorno economico superiore a quello che si può ricavare dalla

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sostenibilità ecologica?Se domani si scoprisse un modello di business che assi-cura profitti stratosferici ri-versando mercurio nei fiumi o sparando arsenico nelle nubi, è veramente così realistico pensa-re che buona parte dei surplus ottenuti commerciando prodot-ti “amici dell’ambiente” non sa-rebbe reinvestito in queste atti-vità ? Qui è dove muoiono tutte le buone intenzioni.Il mercato non possiede gli an-ticorpi necessari contro questo tipo di speculazione, quando ci si riduce a sperare nel “buon cuore” delle multinazionali e dei centri finanziari, o nella capaci-tà di autoregolazione del merca-to, le prospettive per un futuro sostenibile non sono alla frutta ma hanno abbondantemente superato l’ammazzacaffè.Perché, invece, non confidare in un secondo New Deal verde, un welfare state climatico? Magari simile a quello tanto glorificato da Obama, una soluzione eccel-lente per salvare capra e cavoli: le multinazionali guadagnano un po’ meno e lo stato garan-tisce la buona fede ecologista delle stesse. Eppure anche qui si rischia di peccare di ingenuità.Abbiamo già visto come lo Stato e le politiche di espansione del mercato rappresentino un tas-sello fondamentale del sistema

e garantiscano lo spazio di ma-novra basilare per assicurare il reinvestimento del surplus, quindi perché fidarsi?Anche lo stesso paragone con lo welfare state è completamente fuori luogo dato che lo stato so-ciale rappresentò un tentativo di mediazione fra le istanze capita-listiche e quelle potenzialmente rivoluzionarie del movimento operaio. Anche ammesso e non concesso che la mediazione sia una strada percorribile, quali istanze si dovrebbero mediare oggi? Di quali soggetti? La real-tà è che non esiste alcun tavolo di dialogo né, oggettivamente, se ne avverte il bisogno.Alcuni se ne stanno chiusi den-tro un palazzo concentrati non sulle emissioni ma su come riu-scire a estrarre profitto dalla cri-si, altri stanno fuori dal palazzo reclamando giustizia e trovando solo manganelli. Nel migliore dei casi le decisioni che emergono dalle conferenze programmatiche (quando e se emergono) presuppongono una gestione autoritaria della crisi. Presuppongono la cooptazione di parole d’ordine ed associazio-ni ambientaliste per costruire una nuova verginità ideologica alla solita macchina che consu-ma risorse e sfrutta il lavoro per produrre profitti la cui redistri-buzione riposa ormai sulla sola

filantropia “dei ricchi”. Quanto detto ci spinge a pensare che le varie crisi di cui sentiamo parla-re sempre più spesso (ecologica, finanziaria, produttiva, climati-ca e biologica) siano in realtà da ricondurre alla crisi del modello di produzione contemporaneo.

Questa ipotesi indica la natu-ra politica del problema che ci troviamo di fronte. Al di là di quanto sostengono i profeti del neoliberismo, nelle sue versio-ni di destra e di sinistra, una soluzione efficace non può es-sere consegnata alla capacità di autoregolazione del mercato, all’intervento statale per correg-gere alcune disfunzioni o per sostenere i consumi attraverso politiche ridistributive. La so-luzione deve essere politica, in quanto il problema è politico. Non si possono produrre so-luzioni efficaci che lascino im-mutato il sistema economico, si può e si deve invece pensare e continuare a pensare alla solu-zione del riscaldamento globale e dell’esaurimento delle risorse come ad un qualcosa di pro-fondamente legato al problema della concentrazione di potere e reddito, ed al deficit di parte-cipazione che questi implicano, nonché di una visione economi-ca noncurante dei vincoli fisici dati dal contesto ambientale.

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Nulla di meglio di un esempio per comprendere le dinamiche del capitalismo “verde”.Per una qualche contorta forma di esterofilia, ci aspettiamo che gli alfieri del rinnovamento“ecosostenibile” provengano da qualche landa lontana, magari dal Nord Europa o dagli Stati Uniti, ed invece uno degli esempi più interessanti vive proprio accanto a noi, distante non più di pochi passi dalle nostre vite, produce la nostra elettricità, riscalda le nostre case, smaltisce i nostri rifiuti. In poche parole costituisce l’ossatura infrastrutturale del Comune di Milano, i suoi destini finanziari sono legati a filo doppio con la salute del bilancio dell’amministrazione pubblica, il suo controllo rappresenta uno dei punti cardine dell’egemonia politico-finanziaria milanese. Stiamo parlando di A2A, una corazzata il cui giro di affari si aggira intorno ai seimila milioni di euro, proprietaria, fra le altre, del 60% di Edison, del 25% di Metroweb, del 100% di Amsa, operatore accreditato per

il trading di emissioni, certificati verdi ed infine presenza significativa nel mercato dei termovalorizzatori (sua è infatti la “nuova”gestione del termovalorizzatore di Acerra).Questo gigante multiutility, almeno a parole, ha costruito il suo business attorno alla “sostenibilità”, pubblicando addirittura un bilancio a proposito e fregiandosi del fatto che “A2A ha sempre

praticato la Sostenibilità anche verso l’intera comunità dei suoi Clienti, erogando servizi di qualità e producendo energia con tecnologie innovative ed adeguate alle esigenze sociali ed economiche oltre che ambientali.”.Ripercorrere le vicende di A2A può aiutarci a comprendere meglio quelle che sono le dinamiche reali del capitalismo “verde” in salsa lombarda, gli scontri di potere al suo interno ed il peso reale della fin troppo citata “sostenibilità” in confronto al più banale profitto. A seconda del livello di lettura, la storia di A2A è estremamente semplice o mostruosamente intricata. I libri di storia ne registrano la nascita il 1 gennaio 2008 in seguito ad una complessa fusione delle aziende di servizi municipalizzate di Milano e Brescia (AEM ASM AMSA); conseguentemente a questa operazione l’ azienda è stata quotata in borsa.I comuni delle due città d’origine, tuttavia, hanno mantenuto un significativo controllo sia in virtù delle quote azionarie

in loro possesso sia in sede di nomina del management. Quello che i libri di storia spesso omettono , però, è il ruolo delle agevolazioni fiscali concesse dallo Stato sul finire degli anni ‘90 per favorire la quotazione in borsa delle aziende municipalizzate, permettendo l’ingresso di capitale privato all’interno delle stesse. La Commissione Europea, nel giugno 2002, ha considerato questa iniziativa equiparabile ad un aiuto di Stato e perciò ha condannato A2A, fra le altre, alla corresponsione di una multa maximilionaria; il governo, recepita la direttiva, ne ha disposto il pagamento, ma l’azienda, dal canto suo, ha minacciato di azzerare il pagamento dei dividendi per far fronte alla maximulta.E fin qui non sembrerebbe esserci nulla di particolarmente interessante se non fosse che i Comuni di Milano e di Brescia in veste di azionisti di maggioranza avrebbero fatto affidamento sui dividendi 2009 per garantire la tenuta finanziaria corrente e non stiamo parlando di bruscolini ma di una cifra che si aggira attorno ai 166 milioni di euro (dividendo anno 2008). Come se non fosse già abbastanza assurdo che la stabilità finanziaria di amministrazioni pubbliche dipenda dalla performance di aziende private, il Comune di Milano, per aggiungere al danno la beffa, “incoraggiato”dal mancato rimborso del taglio dell’ICI (disavanzo di 30 milioni), starebbe pensando di risolvere il problema trasformando i crediti in titoli vendibili, ovvero, in gergo

di Guido Anselmi

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTAtecnico, cartolarizzando una serie di immobili di proprietà comunale fra cui sedi ANPI e centri sociali (Cox, Ponte della Ghisolfa), riuscendo in questo modo anche nell’intento di liberarsi di “scomode spine nel fianco”.Da questa iniziativa possiamo comprendere una delle caratteristiche centrali del rinnovamento capitalista in analisi: non si evolve nel vuoto politico come vorrebbe il vangelo secondo il mercato, ma la sua genesi deriva da un equilibrio di poteri (e di nomine) strettamente connesso ai giochi delle forze politiche e, nello specifico lombardo, al “sultanato formigoniano”. Per essere brutalmente chiari la situazione è questa: un’azienda privata entra in possesso,grazie ad aiuti di stato, della rete energetica lombarda, di fatto privatizzando l’erogazione di quanto, fino al giorno prima, costituiva un bene pubblico; quando questo stato di cose arriva alla sua logica conclusione, l’unica risposta compatibile con la stabilità finanziaria del sistema risulta essere un ulteriore ciclo di privatizzazioni e di svendita dei beni comuni; una strategia, quest’ultima, che fa decisamente emergere una linea di tendenza che, a guardarla con occhi disincantati, risulta avere più a che fare con il saccheggio che con la “libera impresa”. Tuttavia, per comprendere A2A, il semplice dato finanziario non basta. Come scritto nelle righe precedenti, la sua redditività la rende una preda ambita nei giochi di potere lombardi: le nomine del management, secondo questi tristi maneggi, risultano perciò ostaggio del conflitto/cooperazione fra varie cordate politico-finanziarie. Al momento i centri di potere principali sono due: uno organico al potere ciellino ed

alla Compagnia delle Opere di Brescia, l’altro espressione del sindaco Moratti e della sua legione di consulenti “d’oro”; questi si spartiscono le poltrone più ambite ma in futuro non è da escludersi che c o m p o n e n t i minori quali Lega e la holding politica della famiglia La Russa (ora confinati alla periferia del sistema) possano rosicchiare posizioni importanti.Come già nel sistema sanitario lombardo, la Compagnia delle Opere ha il ruolo del leone tant’è che l’uomo chiave di A2A è proprio Graziano Tarantini, avvocato d’ affari, presidente del Consiglio di Sorveglianza, ex presidente della Cdo bresciana e, fra le altre cose, presidente di Akros, nata in seno all’Opus Dei. Un secondo ruolo di assoluto interesse, quello di direttore delle aree Corporate e Mercato, risulta essere occupato da un secondo esponente di CL, Renato Ravanelli.Oltre a questo, la cordata ciellina detiene anche parecchie posizioni di rilievo all’interno delle banche ed è quindi determinante per l’accesso al credito: lo stesso Tarantini è consigliere della Bpm, commissario della fondazione Cariplo ed azionista di Intesa.L’altra metà della società risulta essere in mano ai fedayin del sindaco Moratti: uomini di particolare risalto sono Rosario Bifulco, vicepresidente del Consiglio di Sorveglianza, già direttore di Lottomatica (da cui ha ricevuto un compenso di 32 milioni per 4 anni di

lavoro) e Giuseppe Sala, ex direttore generale del Comune. In quota Lega possiamo annoverare incarichi relativamente prestigiosi fra cui quello di Bruno Caparini padre di Davide, parlamentare lumbard: in ogni caso non è un mistero che i bossiani stiano spingendo per ottenere una fetta più grossa. Questa lottizzazione terminale è uno dei molti paradossi di A2A: si tratta di una compagnia privata a guida politica, un po’ come le vecchie aziende di Stato ma nel tal caso spartirsi la torta è legale. Con un curriculum simile non sorprende che la compagnia viva perennemente in quella zona grigia esistente fra commesse di Stato, appalti e libero mercato. Alcuni esempi permetteranno di rendere più chiaro il tutto. In primo luogo il nucleare perché, nonostante tutta l’enfasi sulla sostenibilità e le energie rinnovabili, costruire centrali è un’attività assai proficua e di fronte al vil denaro anche le scorie radioattive possono diventare “amiche dell’ambiente”. Del resto, non è un segreto per nessuno la guerra serrata che si sta combattendo per chi fra Edison, Enel e A2A si debba aggiudicare la cascata di denaro legata alla riattivazione del nucleare nel belpaese (al

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTAmomento sembrerebbe averla spuntata Enel ma i giochi sono tutt’altro che chiusi). D’altronde le opinioni di A2A sull’atomico sono abbastanza chiare: il direttore del Dipartimento Energia Gilardi ha recentemente affermato che il fotovoltaico è remunerativo solo perché sovvenzionato dallo Stato; in poche parole al progressivo ritiro delle sovvenzioni corrisponderà anche il ritiro di A2A dal suddetto mercato. Per quanto riguarda il nucleare i toni cambiano, infatti Zuccoli, presidente del Consiglio di Gestione, da tempo sostiene la necessità del ritorno al nucleare arrivando anche a chiamare in causa il destino produttivo, la volontà della nazione, nonché il libero mercato, indispensabile grimaldello ideologico per contrastare la posizione dominante di Enel/EDF. Curioso poi il fatto che ci si lamenti dei contributi “verdi” per il fotovoltaico ,dato che buona parte del business di A2A risulta essere finanziato dal sistema dei “certificati

verdi” e non stiamo parlando di eolico o solare ma dei cari vecchi inceneritori di rifiuti. La storia dei certificati verdi è molto interessante e merita di essere raccontata: nel lontano 1992 il Comitato Interministeriale Prezzi dispose il pagamento di sovrapprezzi sul costo dell’energia elettrica da destinare in seguito, con l’altisonante nome di certificato verde, allo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili ed “assimilabili”; tra tali fonti fu a poco a poco ammesso di tutto, dagli scarti di raffinazione del petrolio fino all’incenerimento dei rifiuti. Per renderci conto dell’assurdità, consideriamo che nel solo 2005 circa 4000 milioni di denaro pubblico sono stati destinati al finanziamento delle energie “assimilabili” contro i 1700 milioni dedicati allo sviluppo delle fonti realmente rinnovabili; nel 2004 ASM, una delle genitrici di A2A, ha ricevuto 55 milioni come “certificati verdi”, tanti da potersi permettere annuali donazioni milionarie all’Assessorato all’Ecologia del comune di Brescia, ma abbiamo visto come in questo settore di mercato il conflitto di interesse non sia un eccezione quanto piuttosto, la norma. Questo sarebbe già abbastanza, ma la nostra bolletta dell’energia elettrica non è l’unica sorgente di finanziamento per gli inceneritori in quanto anche parte della Tarsu (tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani) contribuisce al sovvenzionamento degli stessi. Quindi, l’incenerimento non solo si trova ad essere la soluzione più deleteria per lo smaltimento dei rifiuti con il peggiore equilibrio costi benefici, ma dobbiamo anche pagarne le spese di sviluppo; in pratica corrispondiamo il nostro denaro ad un’azienda privata perché ci fornisca un

servizio che però si scopre essere di qualità inferiore ad altre alternative non sovvenzionate e, per completezza, ci sarebbe da ricordare che se in Italia paghiamo tasse per sostenere i termovalorizzatori, nel resto d’Europa sono i termovalorizzatori a pagare le tasse. Un’altra storia interessante per comprendere i fasti del capitalismo verde in salsa morattiana è quella della Zincar, società di proprietà di Comune (51%) ed A2A (27%) con quote minoritarie in mano a Provincia (12%) e Coldremar Italia (12%). Lo scopo dichiarato di questa società avrebbe dovuto essere quello di sviluppare soluzioni per la circolazione automobilistica a zero emissioni di carbonio e dico “avrebbe dovuto” perché allo stato attuale la società risulta fallita: in perdita dal 2007, nell’aprile 2009 è venuto alla luce un buco nel bilancio di circa 18 milioni di euro che ha poi contribuito al fallimento datato maggio 2009. Per quanto celebrati dalla stampa, gli affari di Zincar non sono mai decollati: al suo attivo ricordiamo l’installazione di una stazione di rifornimento per auto ad idrogeno nel quartiere Bicocca che, se non ci fosse il pericolo di trasformare la farsa in tragedia, potremmo definire l’ennesima cattedrale nel deserto.

Quale possibilità, infatti, di veder funzionare quel distributore dal momento che non solo nel nostro paese le automobili ad idrogeno sono considerate illegali e quindi prive del permesso di vendita e circolazione ma anche, soprattutto, i prezzi dell’idrogeno non sono nemmeno lontanamente competitivi con quelli di diesel, benzina e gpl?

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTALa storia tuttavia non finisce qui, infatti i nostri non si limitavano a produrre carburante per auto inesistenti ma percepivano pure finanziamenti dalla Comunità Europea nell’ambito del progetto Urban II con lo scopo di costruire un “centro per la sicurezza” nella periferia milanese di Quarto Oggiaro, ora destinato a rimanere incompleto. Purtroppo nella città delle “consulenze dorate”, dei Moratti, dei Grossi e degli Abelli, il fallimento di Zincar non suscita nemmeno particolare scalpore, rappresentando piuttosto solo l’ultimo elemento di una serie di società in cui il pubblico paga i conti ed il privato miete i guadagni, con la sostenibilità che giustifica consulenze, studi di fattibilità e progetti che nemmeno si pensa di poter portare in essere; l’importante sembra essere spendere soldi, non certo generare profitto, meno che mai sostenibile e forse solo in questo senso l’esperienza di Zincar è miratamente significativa. Nel 2006 il Comune di Milano rileva la società da Aem che fino ad allora ne aveva detenuto la quota di maggioranza, ma nessuno si preoccupa di controllarne i bilanci; proprio da qui nasce il sospetto che il buco sia precedente al 2006 e che il Comune abbia voluto comprare la società per togliere “la patata bollente” alla municipalizzata che, di lì a poco, avrebbe cominciato il cammino per confluire all’interno di A2A.Ricostruire le spese di Zincar rischia di diventare complesso e poco significativo dal punto di vista teorico ma basandoci sulle note spese ritrovate dalla Guardia di Finanza possiamo ricomporre la fibra morale del capitalismo dal volto verde: 2000 euro per coprire una trasferta di Baldanzi e “ospiti” da Milano a Brindisi, 1500 euro

spesi in “biglietti di Natale”, 180.000 euro investiti in una delle tante consulenze della società pubblicitaria AP&B che vanta fra i suoi soci Massimo Bernardo, fratello dell’assessore regionale Maurizio; si finisce poi nel surreale considerando che Zincar erogava contributi a pioggia per iniziative nemmeno remotamente collegabili con la sostenibilità quali la “valorizzazione delle pietre tradizionali del Verbano Cusio Ossola” (circa 20.000 euro). Se, come esplicato nell’editoriale, il “capitalismo verde” rappresenta gli “abiti nuovi” di un vecchio padrone, quella lombarda si configura come una situazione particolarmente drammatica in cui anche il termine “capitalismo” rischia di essere fuori posto dal momento che non esiste alcun ciclo di reinvestimento ma solo una logica di

appropriazione della cosa pubblica che continua imperterrita dal craxismo fino all’attuale equilibrio ciellino- morattiano- leghista in cui il denaro pubblico viene utilizzato non tanto per costruire alternative sostenibili quanto per finanziare ulteriori sperequazioni, in una chiave più feudale che moderna. L’ultima storia è forse la più preoccupante: parla di acqua, di chi quell’acqua la eroga ( e può rifiutarsi di farlo) e di una città che non è nemmeno quello ma soltanto un’ “area”: Zingonia, presso Bergamo.

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C’era una volta Renzo Zingo-ne, noto ed influente banchiere romano che un bel giorno, ca-valcando un sogno di evidente megalomania, decise di costru-ire una città che portasse il suo nome: Zingonia.Zingonia nacque proprio così, nel 1964, come progetto di pia-nificazione urbanistica privata e ridente archetipo di “città mo-derna”: sorta nello strategico crocevia logistico tra Bergamo-Milano-Brescia, sarebbe dovuta diventare un efficiente connubio tra “produzione, residenza e so-cialità”, con nuove strutture re-sidenziali edificate ad hoc, uni-tà produttive nell’estremo sud dell’area ed infrastrutture per lo sport ed il tempo libero colloca-te come cuscinetto tra le prime due; un enorme complesso, in-somma, destinato ad accogliere 50000 abitanti e circa 1000 uni-tà produttive.I notevoli capitali necessari per la costruzione della sopracitata città modello derivavano tut-ti dalle molteplici attività eco-nomiche del suo fondatore: in quanto presidente del Gruppo Zeta, poteva infatti disporre li-beramente dei quattrini deri-vanti dalla Zingone Strutture (ZS), Zingone Iniziative Fondia-rie (ZIF) e dalla Banca Generale di Credito, nate e cresciute du-rante gli anni ’50 e ’60.Il sogno di una città autono-ma e razionale, tuttavia, morì nella metà degli anni Settanta, quando il signor Zingone si tol-se improvvisamente di scena per continuare le sue attività imprenditoriali in Costa Rica e Guatemala, investendo i mas-sicci capitali del Gruppo Zeta nell’ agribusinnes e nell’alleva-mento, accaparrandosi succes-

sivamente il monopolio del riso in Costa Rica e Nicaragua (dove ne acquisì l’impresa demaniale) e creando la Corporaciòn Me-gasuper, seconda catena di su-permercati in Costa Rica. (Una piccola nota di colore: la signora Donatella Pasquali Zingone, ve-dova di Zingone, moglie in se-conde nozze del senatore Lam-berto Dini e presidentessa del Gruppo Zeta dal 1981, nel 2007 è stata condannata a Roma a due anni e quattro mesi di re-clusione per bancarotta fraudo-lenta mediante falso in bilancio a conclusione del processo sulla vicenda del Gruppo Zeta).Zingonia è stata lasciata da sola, quindi e nella più comple-ta schizofrenia amministrativa, dal momento che, in assenza di un governo unitario, si è ritro-vata ad essere frazione di cin-que comuni diversi (Boltiere, Ciserano, Osio Sotto, Verdello e Verdellino), impegnati nel di-sinteresse più totale piuttosto che nell’assunzione delle re-sponsabilità verso questa zona abbandonata a se stessa.

Attualmente, la popolazione to-tale dell’area di Zingonia è di cir-ca 1778 abitanti, di cui 1328 (il 74,7%) migranti e sono rimasti soltanto la cadente fontana con l’obelisco spaziale ed il fatiscen-te Grand Hotel a testimonianza di fasti mai realizzati né vissuti. Zingonia non è un paese e nem-meno una città: è semplicemen-te “un’area”, nemmeno segnata sulle cartine stradali. Ci sono i tre enormi complessi condomi-niali “Athena”, gialli e cadenti, che dal momento della loro co-struzione non hanno MAI subi-to un intervento di manutenzio-ne: l’intonaco va sbriciolandosi

in strada, cadono le tegole dai tetti e nessuno se ne cura. Gli abitanti di Zingonia vivono in un duplice ghetto: quello dei comuni limitrofi, che vedono quest’”area” come un cancro, pericoloso ed indesiderabile e quello della malavita organizza-ta la quale, approfittando della generale indifferenza, opera in-disturbata nell’ormai solido ra-cket di spaccio e prostituzione. La polizia staziona tronfia e inu-tile davanti alla fontana: poco più in là, nella “Piazza Affari”, dimorano pusher e magnaccia ma lì spesso e volentieri le que-stioni si risolvono a pistolettate nelle gambe ed ecco il motivo per cui i nostri tutori dell’ordine se ne tengono ben lontani.Intorno ai condomini Athena, si sollevano al cielo decine di ca-pannoni e non è un segreto per nessuno: lì dentro c’è lavoro per tutti, in nero ovviamente, per-ché tanto si sa, con il nuovo DdL Sicurezza che sancisce la clan-destinità come “reato grave”, il non avere permesso di soggior-no rende automaticamente “in-visibili” e perciò i padroni pos-sono permettersi di speculare a cuor contento sopra le schiene dei migranti. Un pezzo di pane

di Francesca Delcarro

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guadagnato senza diritti: ecco cosa rende gli appartamenti Athena così appetibili. Le agen-zie immobiliari, gli ammini-stratori ed i padroncini che, di regola, dovrebbero regolare gli affitti, sanno rendersi opportu-namente invisibili: le strutture non ricevono manutenzione da anni, sono clamorosamente fa-tiscenti EPPURE gli affitti sono salatissimi e nessuno fa doman-de né si preoccupa se, nella stes-sa stanza, dimorano più di dieci persone.Zingonia, nel 2008, è stata an-che appannaggio della cam-pagna elettorale leghista: uno sfortunato corteo verde, nato “per ripulire Zingonia prima che infetti i paesi vicini” è stato pa-cificamente bloccato dagli stessi migranti, irritati, probabilmen-te, dallo sconcertante utilizzo del loro disagio nell’ottica di un’insensata speculazione poli-tica. Questo fatto, tuttavia, ebbe notevoli ripercussioni mediati-che: su Zingonia si espressero addirittura da Montecitorio e tutto ciò che ottenne questa “in-dignazione d’alto bordo” furono una serie di tremende retate nei comprensori (più di cento i carabinieri impegnati volta per volta, provenienti dai comandi di Bergamo, Zogno, Treviglio e Milano) che null’altro concluse-ro se non la reclusione di qual-che irregolare (ricordiamoci la Bossi-Fini…) nei Centri di Per-

manenza Temporanea di Mila-no e Gorizia. Gli spacciatori e i malavitosi, lo dicono gli stessi abitanti, non sono così sprov-veduti da abitare in quei palaz-zi, così fatiscenti e ciclicamente nell’occhio del ciclone mediati-co: se ne tengono ben lontani, dribblando opportunamente le periodiche retate.

Si era parlato, sapete, dopo tut-to questo assurdo clamore, della possibilità, per Zingonia, di en-trare in un “Contratto di Quar-tiere”, stipulato tra la Regione Lombardia, gli assessorati dei comuni limitrofi e fortemente caldeggiato dall’ultraleghista presidente della Provincia ber-gamasca, Pietro Pirovano. Si parlava di “fondi trovati tra le pieghe del bilancio”, di “neces-saria riqualificazione” e “nuove strutture”. Peccato però che il progetto sia stato giudicato in sintesi “troppo complesso”: for-se perché, oltre alla demolizione di immobili, prevedeva anche la costruzione di centri d’integra-zione, di strutture popolari con affitti calmierati e di accompa-gnamento all’affitto per quegli inquilini rimasti senza casa in seguito alle riqualificazioni. Per salvare faccia ed apparenza, quindi, la Regione Lombardia ha ben pensato di inserire Zin-gonia nei progetti FAS (Fondo Aree Sottosviluppate), snellen-do gli obiettivi: i comprensori

Athena saranno rasi al suolo, verranno ampliate le aree com-merciali e nessun accenno a futuri propositi di edilizia po-polare: gli alloggi ad affitto cal-mierato non saranno edificabili “poiché si assisterebbe ad una perpetuazione del problema”. Ma la vera perpetuazione del problema è un’altra, ben nasco-sta sotto l’ennesima facciata dei buoni propositi: LA SPECULA-ZIONE. Vi dice nulla il nome di Grossi, braccio della Compagnia delle Opere nonché costola eco-nomica di Comunione e Libe-razione? Ecco, parte del futuro cemento che annegherà quest’ ”area”, sarebbe dovuto arriva-re proprio dalle sue betoniere, se solo non l’avessero arrestato negli ultimi mesi del 2009 per frode fiscale ed appropriazione indebita. Che strano. Nessun accenno, ovviamente, agli abitanti, racchiusi senza distinzione sotto lo stemma di “problema” e alla meglio ritenu-ti come branco indifferenziato di spacciatori e criminali. Nes-suno si è scandalizzato, infatti, dopo aver letto sui giornali che il giorno 3 dicembre 2009 è stato effettuato il taglio dell’acqua per morosità ai complessi Athena 2 e 3 (l’1 si è salvato grazie ad una fortuita colletta tra i condomi-ni), dove tra l’altro si vive senza riscaldamento da anni. Nessuno si è preoccupato del fatto che, in realtà, molti condomini fossero effettivamente in regola con i pagamenti ed i debiti derivas-sero dalle morosità pregresse degli inquilini precedenti. Nes-suno ha fatto caso alle svariate famiglie appena arrivate, diso-rientate e confuse e senza ac-qua nel rubinetto. Nessuno si è interessato ai destini dei bambi-ni residenti, senza acqua calda: due tubi, posizionati all’esterno del complesso in pieno inverno e la tranquillità del dovere com-piuto (“non avevano pagato le bollette”), hanno tranquillizzato numerose, troppe coscienze.

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTALa reazione degli abitanti, co-munque, non si è fatta attende-re: un folto gruppo di persone ha occupato la strada statale Francesca, al grido di “Acqua e diritti per tutti!”, bloccando il traffico nell’ora di punta ed ob-bligando il sindaco del Comune di Ciserano a programmare un incontro tra i rappresentanti dei condomini senz’acqua ed i portavoce della BAS, società che fornisce l’acqua, facente par-te del gruppo A2A. Il rimborso complessivo richiesto dalla so-cietà è altissimo ed ammonta a 400000 euro. Dopo giorni di estenuanti trattative, si è giun-ti ad un accordo: ciascun com-prensorio dovrà versare subito una quota parte di 2500 euro e poi ciascun condomino si vedrà arrivare a casa, oltre alla bollet-ta consueta, un bollettino per il versamento della rata per il ri-entro del debito (circa 125 euro al mese in più per appartamento oltre al normale pagamento per il consumo dell’acqua). Tutta questa trafila, tremendamente burocratica, è comunque an-

cora dagli esiti incerti: se gli inquilini prossimamente non rispetteranno il “Piano di Ri-entro”, resteranno un’altra vol-ta all’asciutto, l’attenzione è al massimo livello.

C’era una volta Linda Davis, ventitré anni. “C’era una vol-ta”, perché adesso non c’è più: è morta il 22 dicembre 2009 in uno degli sbriciolati apparta-menti del complesso Athena, in-tossicata dal monossido di car-bonio prodotto dal braciere che utilizzava per scaldarsi in quelle stanze gelate, senza riscalda-mento per i debiti accumulati negli anni. A2A, come un macigno duran-te una frana, è inesorabilmente passata sopra tutto: a Linda, alle difficili condizioni economi-che delle famiglie di Zingonia, alla problematica situazione dell’area stessa, a coloro che, al grido di “ACQUA! ACQUA!”, in-vocavano i propri diritti seduti in mezzo ad una strada. Ed ec-cola qui, la vera faccia della pri-vatizzazione dell’acqua, il vero

disastroso marciume malamen-te nascosto dietro l’Articolo 15 del Decreto Ronchi: l’esclusione sociale. Verranno infatti attac-cati gli ultimi, i più deboli, i più fragili, coloro che non potranno permetterselo, coloro che ver-ranno addirittura colpevolizzati poiché poveri.

C’era una volta Renzo Zingone , c’era una volta Linda Davis e c’è, ancora, Zingonia, solcata da tut-te quelle cicatrici che ricordano, irrimediabilmente spesso, ciò che di peggio caratteristico c’è in Italia: speculazione, assen-za d’integrazione, mancanza di pianificazione, sviluppo indu-striale incontrollato. Sopra tutto ciò, come una soffocante coltre di nebbia, ecco a voi l’In-differenza a far da padrona: il sentimento odioso del Cittadi-no Bene che non sa vedere oltre una bolletta non pagata.cominciato, cocciuta, a bussare.

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SPECIALE GREEN ECONOMY - APPROFONDIMENTO

Biocarburanti: Sì, ma con cauteladi Cosimo De Monticelli“L’uso di oli vegetali per il car-burante dei motori può sembra-re insignificante oggi, ma tali oli possono diventare, nel corso del tempo, importanti quanto i de-rivati dal petrolio e dal carbone dei nostri giorni” - Rudolf Die-sel, 1912.Solo ora, dopo 70 anni di domi-nazione dei combustibili fossili, si ritorna a parlare di biocarbu-ranti, i combustibili gassosi o liquidi ricavati da materiale ve-getale, e quindi da fonti rinno-vabili, che, al contrario del GPL o del GNC, sono perfettamente compatibili con gli attuali siste-mi di utilizzo (dall’autotrazione al riscaldamento) e miscelabili con i normali carburanti ad oggi maggiormente utilizzati. Due sono le principali tipolo-gie: il biodiesel e il bioetanolo. Il primo deriva da oli vegetali, il secondo dalla fermentazio-ne di colture zuccherine. I loro effetti benefici sull’ambiente si misurano in una riduzione dei gas serra dal 40% al 100% per quanto riguarda il bioetanolo rispetto alla benzina; e fino al 70% per quanto riguarda il biodiesel rispetto al diesel. Non contribuirebbero, quin-di, all’incremento dell’effetto serra, in quanto rilasciano nell’aria solo la quantità di anidride carbonica utilizzata dalla pianta durante la sua crescita, e diminuirebbero notevolmente l’emissione di monossido di carbonio e di idrocarburi incombusti.La loro produzione, ancora molto bassa (in testa Stati Uniti e Brasile), sale ogni anno anche grazie a politiche di in-centivi attuate da molti Paesi. Un importante fattore che po-trebbe contribuire al successo di questi combustibili è, infat-ti, la volontà politica dell’Eu-

ropa e degli USA di rendersi il più possibile indipendenti dal petrolio del Medio Oriente e dal gas naturale russo. Fu questa la ragione che spinse l’allora presi-dente americano Bush ad attua-re una politica di forti incentivi (7 miliardi di dollari l’anno) vol-ta all’incremento della produ-zione di etanolo da granoturco (136 miliardi di litri nel 2022). Aree sempre più vaste, una vol-ta destinate alla produzione ali-mentare, sono state quindi de-stinate alla produzione di mais. Ma è proprio questo il “crimine contro l’umanità” di cui parlò, nel 2007, Jean Ziegler, inviato speciale dell’ONU per il diritto al cibo. Il boom dell’etanolo ha infatti notevolmente contribui-to all’impennata dei prezzi agri-coli. Per ovviare a queste pro-blematiche iniziano a prendere piede i cosiddetti biocarburanti di seconda generazione, ricavati da materiale lignocellulosico, la parte “no food” della pianta. Il processo di conversione è però

molto complesso e costoso, cosa che potrebbe vanificare i benefi-ci ottenuti.

Ma quanto effettivamente que-sti biocombustibili giovereb-bero all’ambiente in termini di riduzione di gas serra, e in par-ticolare di CO2? Una previsione completa dei costi sia economici sia energetici (e quindi anche in termini di emissioni di gas serra) deve infatti prendere in considerazione, oltre all’im-patto dell’etanolo al momento dell’utilizzo, anche gli effetti della produzione su larga scala della biomassa: dall’uso mas-siccio di fertilizzanti alla con-versione di nuovi vasti appezza-menti di terra in terreni agricoli. La rimozione di foreste o prate-rie causerebbe il rilascio, per combustione o decomposizione, del carbonio fissato durante la loro crescita, per di più se l’area convertita aveva alti valori di fissazione del carbonio, le emis-sioni di CO2 dovute alla con-

versione dei terreni possono essere notevoli. Altri effetti di un’intensa agricoltura sono un aumento dell’erosione del suolo, il suo impoverimento, l’inquinamento delle acque e un declino della biodiversità.Oggi sta prendendo piede sempre più velocemente una nuova generazione di biocar-buranti: quelli derivati da mi-croalghe. Queste potrebbero rappresentare un’interessan-te alternativa alle specie ter-restri, grazie alla produttività notevolmente maggiore e al fatto che non sottrarrebbero terreni e acqua alle normali coltivazioni, evitando quindi una pericolosa competizione con la produzione di cibo per uomini e animali da alleva-mento.

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INTERVISTA

L’Italia, già paese firmatario della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici, ha ratificato il Proto-collo di Kyoto con legge 1 giugno 2002, n.120. L’impegno è quello di ridurre le emissioni ad effetto serra del 6,5% rispetto ai valo-ri del 1990, nel periodo 2008-2012. Le politiche nazionali in materia mirano, però, non tan-to a ridurre effettivamente tali emissioni sul territorio nazio-nale - che sono, al contrario, aumentate del 7,1% nel 2007 rispetto all’anno di riferimento - ma a sfruttare il più possibile i cosiddetti meccanismi flessibi-li previsti dal Protocollo. Questi meccanismi consentono di com-prare crediti di emissione da chi non inquina, o inquina meno, e in particolare dai Paesi in via

di sviluppo (tra l’altro non sottoposti a obbli-

ghi di riduzio-ne delle

emissioni).

Tale bislacco mercato delle emissioni è in uso non solo tra le varie nazioni, ma anche tra sin-gole aziende, per mezzo dei c.d. certificati verdi. Cosa esatta-mente essi siano e in che modo viene incentivata la produzione di energia “pulita” nel nostro paese lo chiediamo a Luca De Angeli, consulente strategico nel mercato dell’energia.

Ma partiamo dal principio: com’è strutturato il sistema produttivo dell’energia in Italia?

Dunque, tre sono le fasi che lo compongono: la generazione di energia elettrica, la sua tra-smissione attraverso reti ad alta tensione, e la sua distribuzione, a bassa intensità, ai singoli con-sumatori. Il mercato del gas se-gue una struttura simile.

Quali sono i principali me-todi di produzione di ener-gia?

Se fino al secolo scorso l’energia era prodotta unicamente dalla combustione del carbone, oggi il petrolio, a fronte del suo più elevato rendimento energetico, ne ha soppiantato l’uso. Solo recentemente, l’esaurirsi delle risorse petrolifere e la sempre crescente emergenza ambien-tale hanno aperto la strada a nuove fonti energetiche. Alle

tradizionali e molto inquinanti centrali a carbone e a petrolio si sono affiancate, infatti, centrali a gas naturale, come il metano, e centrali ad energia rinnova-bile (che non necessariamente è “verde”), come l’eolico e il fo-tovoltaico. Queste ultime sono sempre più importanti dato che viviamo in un mondo dalle ri-sorse non illimitate.

Quindi, diceva, vi è una dif-ferenza tra energia rinno-vabile ed energia verde?

Certamente: le energie rinnova-bili sono generate da fonti che per le loro proprietà si rigenera-no o non sono “esauribili” nella scala dei tempi umani, mentre le energie verdi sono caratteriz-zate da un basso impatto am-bientale. Non sempre una cosa implica l’altra.

Nel 1999, a seguito di una direttiva europea, il decre-to Bersani ha liberalizza-to il mercato dell’energia. Cos’è cambiato nella gestio-ne della produzione ener-getica?

Prima del 1999 il mercato dell’energia era nazionalizzato. Gli attori presenti sul mercato erano l’Enel, che deteneva il 90% del mercato, alcuni produttori indipendenti (tra cui Edison), e alcune aziende municipaliz-zate, come la ASM di Brescia e l’AEM di Milano (che adesso si

di Cosimo De Monticelli, Umberto Bettarini e Anna Giulia Ferrario

SOTTOTRACCIA intervista Luca De Angeli,consulente strategico nel mercato dell’energia

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INTERVISTA

sono unite in a2a). Anche la tra-smissione e la distribuzione era-no affidate al 90% all’Enel. Per liberalizzare un mercato come questo, in cui la rete è una sola, si è dovuto separare la proprietà della rete dai produttori: ognu-no può produrre e vendere a chi vuole e la rete diventa un opera-tore indipendente (pubblico con partecipazione di Enel). Stessa cosa è avvenuta per il gas. Inol-tre, dato che centrali nuove non si costruiscono in tempo zero, Enel è stata obbligata a vende-re 5 grosse centrali di energia elettrica. Nonostante in un pri-mo periodo siano sorte nuove aziende del settore, oggi vedia-mo fenomeni di riaggregazione, come il caso di a2a, che di fatto lasciano il mercato nelle mani di pochi soggetti.

Esistono degli incentivi per costruire nuove centrali ad energia rinnovabile sfrut-tando lo spazio aperto dalle liberalizzazioni?

Sì, il principale è il conto ener-gia, un finanziamento a fondo perduto che può arrivare a co-prire il 50% del costo di instal-

lazione dei pannelli fotovoltaici. A beneficiarne, però, non sono state le aziende già operanti nel campo energetico, ma princi-palmente tante altre piccole e medie imprese non del settore, che in questo modo hanno potu-to installare pannelli fotovoltai-ci per proprio uso. Esistono poi i certificati verdi…

Ecco… cosa sono i certificati verdi?

Sono delle forme di incentiva-zione per la produzione di ener-gia rinnovabile da parte di ogni singola azienda, che funzionano attraverso il rilascio di titoli. Inizialmente riguardavano an-che la produzione di energia at-traverso le cosiddette “fonti as-similabili” (come il trattamento dei rifiuti). Successivamente questa distorsione è stata elimi-nata.

Può spiegare meglio come funziona, di fatto, il mecca-nismo dei certificati verdi?

Dunque, va premesso che, con la liberalizzazione del settore, per rispondere alle esigenze di

un mercato con più attori, si è creata una borsa dell’energia elettrica: ogni operatore com-pra o vende quote di energia a seconda della sua curva di do-manda.

La legislazione vigente preve-de, inoltre, che ogni azienda del settore elettrico debba produrre una certa percentuale di energia attraverso fonti rinnovabili. Tut-to ciò ha dato vita ad una com-pravendita di certificati verdi. In pratica, chi produce energia da fonti rinnovabili in ecceden-za rispetto alla quota prevista per legge, cioè possiede diversi certificati verdi, può vendere sul mercato una parte di essi ad al-tre aziende che, invece, sono al di sotto di tale quota. In linea teorica questo sistema incentiva i possessori di certificati verdi a continuare ad investire nel rin-novabile per ottenerne sempre di nuovi da vendere, dall’altro lato chi produce attraverso fon-ti inquinanti è incoraggiato, per non dover più comprare certifi-cati, a costruire centrali pulite. In realtà, dato che l’intero siste-ma della green energy si basa su decisioni puramente economi-

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INTERVISTA

che, entrano in gioco anche altre scelte aziendali nella decisione di investire o meno nel “verde”.

In questo sistema liberaliz-zato chi controlla il rispetto delle normative?

Da una parte l’antitrust attua un controllo su eventuali au-menti ingiustificati dei prezzi e garantisce la libera concorren-za; dall’altra parte l’authority per l’energia elettrica verifica il rispetto delle normative sulla produzione. Essa ha però po-teri coercitivi molto bassi. In-fatti, oltre a segnalare eventua-li violazioni, può unicamente infliggere multe, le quali, oltre ad avere tempi di applicazione molto lunghi, hanno un impatto economico piuttosto lieve sulle aziende per costituire un deter-rente davvero efficace.

Da chi è composta questa authority?

In gran parte è composta da per-sonale tecnico, e diciamo che, salvo alcuni personaggi legati al mondo delle grandi aziende del settore, è abbastanza autono-ma dal mondo della produzione energetica. L’unico problema è che essa è fortemente influenza-

ta dalla politica.

Un’ultima domanda. In questa nostra chiacchiera-ta abbiamo parlato esclusi-vamente di grandi centrali elettriche. Non crede che sia possibile concepire un modello di produzione elet-trica sempre più decentra-to e con centrali che via via siano sempre più piccole?

Sì, io penso che in futuro si deb-ba andare verso questa dire-zione. Diciamo che le basi per questo progresso ci sono già. Il conto energia, ad esempio, per-mette la costruzione di piccoli apparecchi fotovoltaici prati-camente dimezzandone i costi d’installazione. Per compren-dere questo processo possiamo prendere ad esempio quello che è accaduto all’informatica: da una serie di enormi macchinari si è passato con gli anni ad avere strutture a rete con unità peri-feriche piccolissime collegate ad un server centrale. Nell’energia elettrica, possiamo raggiungere risultati simili se concepiamo il sistema come una grossa rete, in cui piccole unità autoprodu-cono il loro fabbisogno medio di energia e si rivolgono alla rete per recuperare energia durante i loro picchi di consumo. Questo sarebbe decisivo per la diffusio-ne di fonti di energia rinnovabi-le e aiuterebbe anche a togliere una grossa fetta di potere alle grandissime imprese del settore che operano spesso in regimi di fatto oligopolistici.

Il picco di Hubbert è una stima sul punto massimo di produzione del petrolio elaborata a partire dalle teorie del geofisico M. K. Hub-bert. Esaminando la quantità di greggio raffinato negli Stati Uniti nel 1956, l’analisi di Hubbert si è rivelata fondata; ripartendo dai suoi studi, diversi scienziati hanno cercato di stimare il picco di Hubbert mondiale, individuandolo tra il 2006 e il 2020 a seconda degli studi e dei calcoli eseguiti.

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La sfida della Decrescitadi Carlo BedoniUno dei fondamenti dell’econo-mia (anzi, ciò che ne giustifica l’esistenza stessa) è l’inelutta-bile e inconfutabile limitatezza delle risorse. Questo è stato uno dei filoni su cui si è sviluppata la storia dell’uomo: per avere più risorse si è combattuto, conqui-stato, colonizzato. Nell’ultimo secolo, soprattutto grazie alla diffusione dell’industria, il con-sumo di risorse naturali (e la produzione di rifiuti) è aumen-tato in maniera esponenziale, tanto da farci iniziare a pensare al rischio del totale esaurimento delle risorse. Già nel 1956 il ge-ofisico Hubbert aveva previsto un picco della produzione del petrolio (vedi box pag.22) ma questo problema fu reso noto a tutti dal Rapporto sui limi-ti dello sviluppo compilato nel 1972 da una squadra di esper-ti del Mit guidata da Donatel-la Meadows e aggiornato nel 1992 e nel 2004. Grazie all’uso di simulazioni informatiche, gli autori del rapporto giungono alla conclusione che se l’attuale tasso di crescita della popola-zione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della pro-duzione di cibo e dello sfrutta-mento delle risorse continuerà inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno rag-giunti in un momento impreci-sato entro i prossimi cento anni. Gli aggiornamenti successivi hanno confermato le previsio-ni sull’esaurimento imminente, introducendo anche il concetto di impronta ecologica: un indi-ce statistico usato per misurare quanti pianeti servirebbero per sostenere l’umanità qualora tutti seguissero un dato stile di vita. Un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un europeo 4,5 mentre la media terrestre è di 1,8. Inoltre l’uma-

nità sta usando il 120% della biosfera, incidendo anche sulla rigenerazione delle risorse rin-novabili. Ma oltre al problema ecologico esiste anche un pro-blema sociale: il quinto più ricco della popolazione mondiale de-tiene l’86 % del Pil contro l’1% del quinto più povero. Appare dunque ovvio che lo sviluppo fine a se stesso che abbiamo co-nosciuto finora non è né giusto né salutare. Occorre sin da ora cominciare a lavorare ad un mo-dello alternativo prima di dover essere costretti dalle circostan-ze a farlo in fretta e male. Ma come? Esiste un movimento, il movimento della decrescita, che prova a dare una risposta par-tendo dalle teorie dell’econo-mista francese Serge Latouche il quale, iniziando dall’osservazio-ne dei popoli africani, propone una “decrescita conviviale” in cui le relazioni sociali acqui-stino predominanza sulle leggi economiche.

Il programma si può sintetizzare in pochi punti: rivalutare, cioè rivedere i valori in cui crediamo e vedere cosa dovrebbe avere più spazio avviando una riforma culturale e sociale che si rispec-chi anche in campo economi-co; rilocalizzare, cioè spostare i consumi e la produzione in area locale (il cosidetto “chilometro

zero”) in modo da evitare i costi ambientali ed economici del tra-sporto di beni; riduzione, cioè diminuzione dei consumi e del-la produzione e infine riutilizza-re e riciclare in modo da ridurre ulteriormente la produzione e il peso ambientale.

Gli interrogativi che la propo-sta della decrescita si trova ad affrontare sono chiaramente difficili: riusciranno i paesi oc-cidentali a diminuire spontane-amente il proprio tenore di vita? e i paesi in via di sviluppo, che si stanno affacciando ora al consu-mo di massa, saranno disposti a rinunciare al benessere appena acquisito?Quasi sicuramente le forze di mercato non riusciranno a evi-tare il collasso da sole, anzi peggioreranno la situazione. Bisogna infatti che esse siano accompagnate da una nuova visione socio-culturale oltre che normativa, una società in cui il mercato sia più mediato e non abbia un peso eccessivo sulla società e sull’ambiente è necessaria per evitare che le di-suguaglianze economiche e le emergenze ambientali non si aggravino ulteriormente, anche se questo comporterà sacrifici, probabilmente di lunga durata, per tutti. E’ questa la sfida del futuro.

SPECIALE GREEN ECONOMY - MOVIMENTI

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Cop 15: abbandonate ogni speranza voi che entrate! di A.

SPECIALE GREEN ECONOMY - MOVIMENTI

Cop15, o, per esteso, quindicesi-ma conferenza delle parti. Tanto per essere chiari: le “parti” sono le nazioni aderenti all’O.N.U. e la conferenza, tenutasi in quel di Copenhagen tra il 9 e il 18 di-cembre 2009, si preannunciava come l’appuntamento più atteso di sempre sul tema della lotta ai cambiamenti climatici.Sotto il profilo narrativo sareb-be elegante affermare che Cop15 non ha tradito le aspettative di quanti credevano nella possibi-lità di una svolta green dell’eco-nomia globale: la favola della green economy (malcelata dal paravento della responsabilità sociale d’impresa) l’abbiamo già conosciuta, e a dirla tutta puzza di grande presa per il culo. In tempi di crisi non solo finanzia-ria ma innanzitutto energetica, alimentare e climatica, chi vive sperando muore...non c’è Ho-penhagen che tenga.A distanza di poche settimane il bilancio sul tanto atteso accordo post Kyoto è unanime e scorag-giante: Copenhagen si è rivelata un fallimento di grande impatto mediatico.

La prima sfida della carovana milanese di VersusCop15, rag-giungere il suolo nordico bypas-sando il richiamo dei seducenti voli low cost, è vinta dopo venti

ore di pullman attraverso una Germania fredda, ventosa e co-stellata di pale eoliche. Il mito della Comunità Europea s’in-frange ad ogni posto di blocco: in occasione di grandi vertici, e si presume di grandi decisioni, il trattato di Schengen viene so-speso...ed ogni frontiera vale un paio di sospiri, ogni passaggio segna una tappa di avvicina-mento al controvertice.Altri attivisti hanno raggiunto la città con pullmini, in aereo o con semplici passaggi in mac-china, solo quelli italiani sono oltre quattrocento e in moltissi-mi sono alloggiati a Ragnildga-de, complesso industriale oggi in disuso, nella periferia a nord di Nørrebro.

La spinta propulsiva che ha por-tato alla delegittimazione del forum è un obiettivo rilevante e, in buona misura, raggiunto. La spinta propulsiva dei movimen-ti intervenuti a Copenhagen, ca-ratterizzata da azioni pink e di disobbedienza civile diffusa così come dall’azione diretta e da atti di blando sabotaggio, s’infrange però nel confronto con una ge-stione di piazza inquietante ed una cittadinanza danese spes-so sopita. Se è vero che c’è del marcio in Danimarca, è anche vero che mentre i riflettori degli

altri paesi europei erano tutti puntati sulla farsa di un vertice conclusosi settimane prima del suo inizio (si pensi al G2 USA-Cina), nell’Italia di White Chri-stmas è bastata una statuetta di marmo a distogliere l’attenzione dei media dalla risoluzione del-le grandi sfide che ci attendono tutti.In parecchi guardavano alle giornate di dicembre come ad una grande occasione costituen-te per i movimenti promotori di una critica anti sistemica, eco-logista ed emergente dal basso. Di sicuro, nell’esperienza di chi ha vissuto quei giorni, resta la sensazione di aver contribuito a riscaldare la fredda Copenha-gen ed il piacere di aver svelato alle telecamere di tutto il mondo puntate sulla città l’incapacità delle grandi potenze mondiali e l’irresponsabilità delle lobby af-faristiche che le manovrano.Se con la giusta vernice si può dipingere di verde uno sporco affare come con una superficie da celare, con il giusto solvente ed una buona raspa se ne può svelare la natura più cruda ed autentica. Ora che tutto è messo a nudo non occorre che mettersi in cerca.

Articolo completo consultabile su sottotraccia.tk

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Rubrica di arte di strada

In direzione ostinata e contraria di Marzio Balzarini

Con eccessiva frequenza i media e le autorità attaccano gli artisti di strada utilizzando espressio-ni come “graffitari” (se va bene), “imbratta-muri”, “vandali”, sen-za però sapere in realtà di cosa stanno parlando... Questa rubri-ca si propone di avvicinarvi al complesso mondo dei graffiti e più in generale dell’arte di stra-da, focalizzando la vostra atten-zione su questi esteti oltremodo bistrattati e sulla loro produzio-ne artistica. Nello scorso nume-ro ho scritto un’introduzione molto generale, ora però, prima di entrare nel cuore della produ-zione artistica , volevo proporvi degli spunti di riflessione.

Chi sono i vandali?!

Quando parliamo dobbiamo fare molta attenzione ai termini che usiamo e in particolare al loro corretto significato. Appun-to per questo vorrei soffermare la nostra attenzione sulla defini-zione della parola vandalo : “Chi, per ignoranza, inciviltà o puro gusto della violenza, distrugge senza motivo beni appartenenti al patrimonio artistico o cultu-

rale”. Il v a n -

dalo distrugge mentre l’artista crea. Quindi chiunque tacci gli artisti di strada di vandalismo è un ignorante, ma non è tutto perché il vandalo distrugge pro-prio l’arte, perciò i vandali sono i comuni, i privati, le direzioni di Trenitalia e Lenord che fanno scomparire sistematicamente le opere dei writer. Si potrebbe sollevare come obiezione che la loro non sia arte o che non tut-ti i graffitari siano artisti, ma su quale scala di valutazione pos-siamo distinguere l’arte da tutto il resto? Inoltre, come la storia ci insegna, le nuove correnti sono sempre state svalutate, ba-sti pensare all’impressionismo per averne una dimostrazione. Eppure ora i quadri dei vari pittori impressionisti occupano musei e gallerie.Ma la storia è noiosa quindi non studiamola (Mussolini? Un grande statista!). Forse è anche per questo che varie per-sonalità continuano a parlare di degrado urbano riferendosi principalmente a murales e vo-lantini (l’attacchinaggio, ossia la realizzazione di poster e la loro affissione per strada, è un’al-tra espressione della street art) usando inoltre due pesi e due misure dato che le scritte poli-tiche non provocano degrado e

i manifesti politi-ci appiccicati in aree non riser-vate a loro non vanno incontro

a provvedimen-ti. Perché poi un

po’ di colore e non lo smog sui palaz-zi, la ruggine sul-le saracinesche o i muri scrostati deb-ba essere definito degrado urbano non si capisce. I

murales coprono tutto questo, donano vita alla città, non im-porta se siano belli o brutti, se sia il tentativo di un artista alle prime armi o un capolavoro di Basquiat, perché ci fanno alza-re la testa mentre camminiamo seguendo un marciapiede. In-somma... danno un tono all’am-biente! Come ogni forma d’arte scatenano in noi pensieri ed emozioni perciò perché cancel-larli? Ciò che degrada davvero una città come Milano è trovare un McDonald’s in galleria, vede-re il Duomo circondato da pub-blicità che, invece di ravvivare la nostra anima, mandano un messaggio uguale a tutti stere-otipandoci sempre più. Ancora una volta i vandali sono le Isti-tuzioni.

Forse dovremmo imparare ad apprezzare di più queste forme di arte che possono animare le città, anche perché sempre sto-ria ci insegna che la repressione non funziona e i costi diventa-no sempre più insostenibili. Trenitalia non fa sconti per gli studenti, offre un servizio pieto-so che assicura solo ritardi, se-dili sporchi e vagoni freddi ma in compenso provvede il prima possibile a cancellare i dipinti sull’esterno dei vagoni, facendo riapparire alla nostra vista le loro carrozzerie rugginose, fati-scenti e pallide.

Io sogno un paese in cui i muri siano di chi li vuole colorare, i treni vengano affidati alle mani di artisti perché li rendano de-gli sfreccianti serpenti colorati e il rispetto per qualsiasi forma d’arte venga concepito da tutti come la base di una coesistenza pacifica. Rifiutiamo le campa-gne di odio verso l’arte promos-se dalle Istituzioni!

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Essere poesia a Milano #1di Francesca Delcarro

Rubrica poetica “Do it Yourself”, ovvero come la Poesia possa tranquillamente andare oltre l’endecasillabo

“Sono/ molto/ irrequieta/ quando/ mi legano/ allo spazio.” (Alda Merini, “La poesia”)Alda Merini nasce insieme alla primavera del millenovecento-trentuno.Nessun poeta, sapete, ha fede nel Caso, proprio perché all’in-terno della casualità avviene la sua realizzazione più profonda e allora, forse, si potrebbe anda-re oltre la sterile stampigliatu-ra in nero sulla carta d’identità dell’Alda, ventuno Marzo, e ve-dere in questa data una premo-nizione, un segno o quant’altro di simile possa esistere.Nell’universo mondo ci sono al-cune personalità che nel loro es-sere hanno già implicita la capa-cità unica di sconvolgere menti e cose: l’Alda era una di queste, indiscutibilmente, forse ancor prima di nascere.Al civico quarantasette della Ripa di Porta Ticinese, la tar-ghetta sul citofono porta il nome di “Merini Carniti”. Si poteva suonare all’ora che si desidera-va e allora una voce vetrosa ar-

rivava a tagliare l’interfono con queste semplici parole: “Non volete farmi del male, vero?” e poi il suono metallico e sordo della portineria che si apriva. Dentro, un labirinto di libri e di macchine da scrivere, scatolette di tonno vuote tra le coltri di un letto polveroso utilizzato come tavolo da pranzo.L’Alda è stata definita “la più grande poetessa vivente”, pro-prio lei che nelle mezzesere d’estate si aggirava per Ticine-se trascinandosi dentro stracci penzolanti, con gli orecchini spaiati e gettando intorno lun-ghe occhiate di ombra verde.La Poesia personificata respira-va forte dentro quel corpo appe-santito dagli anni e dalla follia, dentro quelle mani da zingara, con le unghie laccate male ed ingiallite dal fumo, dentro quei foglietti stropicciati di blu, sen-za le “a” perché la macchina da scrivere non funzionava, appun-

ti di poesia viscerale che spesso lasciava dietro di sé senza curar-sene.

Ed era proprio la Poesia vera, così sincera, meravigliosa e marcia perché umana trop-po umana, ad abitare in Ripa al civico quarantasette, quella Poesia naturale e spontanea e incontrollabile come un sospi-ro, una parola fuori luogo, una figuraccia, un innamoramento.

Alda Merini è stata un verso d’Amore, bipolare e contraddit-toria e magnifica nel suo contra-sto: ora sorridente e primaverile come l’aspettativa per il primo appuntamento e subito dopo dolorosamente contratta nel-la mancanza dell’abbandono, nell’angoscia di un’assenza “bol-lente ed insopportabile come le falangi immaginarie di un arto amputato”.

Lo spuntoSoleggia, sul riflesso del finestra,ivi nell’oscurità della perizia trovai ispirazioni sciarpeggianti.Tale genio, IO, lasciati archetipi di insolità,rinunciai a ricordo, ma solo ne apprezzai momento.Persi la musica sirenea di dolce verso e pensiero per unica voltasenza mai più riascoltarla. È ancor più prezioso magno,il pregio della mia bianca finestra.

Voltiamo pagina -non troppo bruscamente per cortesia- e torniamo a noi.In questo numero pubblichiamo un’opera di AnTonomasia, “scorbutico ingegnere che non sa parlare ed esprimersi con altri”.Mi ha particolarmente colpita in quanto racconta la nascita immediata di una sensazione poetica: il sole che colpisce di sbieco il vetro di una finestra diventa, per l’autore, “canto di sirene” e subito dopo “poesia” come memoria indelebile di valori volatili.

Questa rubrica appartiene a chi ci scrive, perciò inviate le vostre opere a: [email protected]

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Cosa si muove nelle facoltà e nelle accademie?

Collettivo Fuori Controlloattività: osservatorio sull’università, sindacalismo studentesco, anti-fascismo, iniziative su questioni di genere, tematiche del lavoro ed ecologia.ritrovo: mercoledì/giovedì alle 10 in cortileblog: [email protected]

Uninversiattività: osservatorio sulle patologie delle università milanesiritrovo: ogni giovedì alle 12.30 in atrio alla bachecasito: uninversi.orgmail: [email protected]

Collettivo di Città Studiattività: sociale - politica -culturale, autoformazione, serate, mobilita-zioniritrovo: ogni martedì ore 17:30 in patio di Architetturablog: cittastudi.noblogs.orgmail: [email protected]

S-tralci, periodico autoprodot-to di Agrariaritrovo: tutti i giovedi` alle 15 in Au-letta 3, Facoltà di Agrariamail: [email protected]

Veterinaria Con-Testaattività: rappresentanza studen-tesca, si preoccupa di fornire trasparenza d’informazione tra le parti, in modo tale da permettere a ciascuno studente di essere “parte attiva” nella vita accademica, per avere diritto di giudizio e di opi-nione sull’utilizzo delle risorse da parte della facoltà. ritrovo : ora di pranzo, quasi tutti i giorni, ai gazebos della facoltà, via Celoria 10forum : veterinariacontesta.4rumer.com

SCIENZE POLITICHE Via Conservatorio 7

MEDIAZIONE CULTURALEPolo di Sesto S.G.

Collettivo No Pasaranattività: antirazzismo, autoformazione.ritrovo: ogni martedì 10.30 in au-lettablog: collettivonopasaran.blogspot.commail: [email protected]

SEDE DI VIA FESTA DEL PERDONOLaboratorio Progettuale degli Studenti Universitari di Storia (LAPSUS)attività: iniziative di approfondi-mento di storia contemporanea con l’ausilio delle nuove tecnologieritrovo: ogni giovedì alle 14.30 in auletta Asito: laboratorio lapsus.itmail: [email protected]

GayStatale attività: aggregazione e socializ-zazione della comunità Glbt univer-sitaria, promozione di attività cul-turali e politiche per sensibilizzare l'ambito universitario ritrovo: settimanaleblog: gaystatale.blogspot.com,it.groups.yahoo.com/group/gay-statale

CITTA STUDILe cellule compagneattività: Festa di Primavera, rap-presentanza studentesca, progetto di una Copisteria degli Studenti e bike sharing ad Agraria.blog: lecellulecompagne.splinder.commail: [email protected]

Collettivo Aut Artattività: Sviluppo di progetti che valorizzano l’autonomia della espressività, distaccata dai mec-canismi arte-mercato. Auto-formazione nell’autoproduzione e sperimentazione in internet.ritrovo: martedì alle 12 in aula 21sito: autart.netmail: [email protected]

ACCADEMIA DI BRERAVia Brera 28 e viale Marche 71

I Chimici Reagisconoattività: rappresentanza studen-tesca, partecipa alle mobilitazioni in difesa dell’universitàsito e forum: [email protected]

Salvare formazione, ricerca e diritto allo studio!Il 23 gennaio 50 studenti delle facoltà e delle accademie di Milano hanno interrotto il Consiglio di Amministrazione della Statale per denunciare la mala gestione delle università milanesi che si regge su un ormai insos-tenibile livello di tassazione a carico degli studenti e su continui tagli ai fondi per la ricerca e per il diritto allo studio da parte del governo. Gli studenti hanno chiesto che le tasse per il prossimo anno siano ridotte del 90% per rientrare sotto il tetto del 20% del Fondo di Finanziamento Ordina- rio stabilito dal DpR 306/1997. Hanno inoltre chiesto che venga-no raddoppiati gli stanziamenti per il diritto allo studio e per la ricerca rispetto al 2009. E’ partita la campagna “Salvare la formazione, la ricerca e il di-ritto allo studio”. Tieniti informato sui blog dei collettivi!

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