rivista fralerighe crime n.7

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Il 7° numero della rivista Fralerighe. Questa è la parte dedicata alla narrativa crime.

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FRALERIGHE DICE

NO ALL’EDITORIA

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GEMELLAGGIO CON PESCEPIRATA

FORUM SCRITTORI

Pesce PiratA Forum di Scrittura Lettura Editing collettivo Perche pesce? Pesce perche lo scrittore e un po' come un pesce... parla poco, e silenzioso, si muove rasente al fondale muovendo appena coda e pinne, ma scruta tutto, vede perfino quello che succede alle sue spalle. Perche Pirata? Perche come i pirati informatici sposiamo in pieno la filosofia dell'web 2.0 Ovvero il voler rendere pubblico e accessibile il lavoro frutto del singolo o della collettività.

http://www.pescepirata.it/

ei bassifondi della nave, nelle stive più losche e misteriose, a cui per accedere si devono percorrere cunicoli incredibili, là dove nessuno

immagina ci sia forma di vita, qualcuno ha progettato qualcosa. Niente rapine o atti terroristici, niente assalti o azioni contro la legge. Tassello su tassello, menti creative leggermente deviate, uomini e donne che non riescono a stare sui binari del normale, si sono riuniti in gran segreto. Hanno parlato, discusso, si sono presi a pugni. Hanno bevuto molta birra e qualcuno, per fumare, ha aperto la finestra dimenticando di essere su una nave. Da quello, da quei posti maleodoranti, da quelle persone poco raccomandabili, è nata la

Associazione Culturale PescePirata.

N

Associazione Culturale Pescepirata COD. FISC. 90047710372

IBAN: IT 43 K 05080 21000 CC0000632125

Perché?

Per strutturare i servizi letterari che nascono nel Laboratorio di Scrittura. Per dare una partecipazione attiva a tutti i soci, i quali si possono candidare per le cariche di gestione, possono partecipare alle assem-blee in cui vengono decise le attività. Nasce per dare GRATUITAMENTE a tutti i soci servizi di: Valutazione Testi, Editing Personalizzati, Segnalazione Romanzi agli Editori. Abbiamo collaborazioni con Agenzie Letterarie che ci affiancheranno, insomma, gran bella roba, un sacco di divertimento e molta energia.

Quanto costa tesserarsi?

L'undicesima parte del canone Rai. La ventottesima di quello Sky.

Come 2 pacchetti di sigarette (ma non fa male). Più o meno come una scatola di preservativi.

10 euro all'anno.

Per info: [email protected]

EDITORIALE

Eccoci qui, siamo arrivati al settimo numero di Fralerighe, il primo a essere pubblicato nel 2013. Credo che sia giusto iniziare questo editoriale parlando di cosa è successo dall’ultima pubblicazione, ovvero dal 14 dicembre 2012.

Il nostro numero di lettori fissi è aumentato in modo massiccio,

specialmente su Twitter, dove abbiamo conquistato ben 282 followers. Siamo passati, infatti, dai 626 fan su Faceook e 545 su Twitter del

14 dicembre agli attuali 665 su Facebook e ben 827 su Twitter! Altro punto che merita di essere evidenziato è il lavoro svolto da

Simona Tassara, la quale ha caricato sul nostro blog buona parte delle recensioni, degli articoli e delle interviste apparse sui numeri precedenti di Fralerighe (attualmente è arrivata al numero 4).

Guardando avanti, invece, credo sia opportuno parlare di due

cose: il nostro programma per il nuovo anno e il contenuto del 7° numero.

Per quanto riguarda il 2013, abbiamo deciso di lavorare a un minore quantità di numeri (da 6 a 4, escluse le raccolte di racconti, che dovrebbero restare due, Halloween e Natale) in favore della qualità e di una più serena gestione del tempo.

In questo settimo numero troverete tre interviste: due singole, a Massimo Rossi e Giuliano Pasini, e una terza multipla. Quest’ultima consiste nelle risposte che sei autori più o meno noti del romanzo criminale italiano hanno dato a tre quesiti piuttosto dibattuti in rete riguardo i cliché. Gli autori in questione sono: Loriano Macchiavelli, Massimo Carlotto, Maurizio De Giovanni, Grazia Verasani, Bruno Morchio e Margherita Oggero.

Oltre a tali interviste, troverete degli articoli di approfondimento su Fred Vargas e Massimo Carlotto, oltre ché sui Murder Party e l’ironia (o l’assenza della stessa) nei romanzi crime, sei recensioni e le schede di dodici romanzi potenzialmente interessanti.

Non ci resta che salutarvi e augurarvi buona lettura.

Lo Staff

La sorpresa della nonna In altre circostanze non l’avrebbe fatto, non sarebbe rimasto a mangiare dalla nonna, ma visto il momento delicato non aveva potuto rifiutare. Tutte le altre volte sì, aveva trovato una scusa, una qualsiasi. Gli aveva sempre fatto schifo mangiare da lei. Piatti, bicchieri, posate e vasellame erano sempre tutti sporchi, unti. C’era polvere ovunque, la roba tenuta in frigo chissà da quanto tempo. E poi, nonna cucinava sempre le stesse cose, erano quarant’anni che le vedeva preparare sempre gli stessi piatti. Già di suo, per tutta la sua vita, era stata una donna senza una particolare varietà di gusti, e da vecchia aveva perso ogni voglia e attenzione nel prepararsi i pasti. Considerato il momento delicato, da bravo nipote qual era, non aveva potuto dirle di no. «Ti ho preparato la mia specialità, la minestrina con il brodo di carne, la preferita del nonno. Dopo c’è anche una sorpresa.» «Ah. Bene.» Perlomeno la minestra era una cosa calda, c'era minor rischio di avvelenamento. Temeva di più la sorpresa. «Mi manca già tanto, sai» disse la nonna di spalle, trafficando nel cucinino. «E’ normale, avete vissuto insieme più di cinquant’anni.» «Sessantatré.» «Cavoli.» «Pensa che in questi ultimi giorni mi è sembrato di rivederlo qui, a casa, nel suo letto. Era come se lo sentissi respirare, nel buio vedevo i suoi occhi umidi, qualche sera l'ho anche sentito chiamarmi. Ogni volta, però, mi giravo e lui non c’era più.» «Si, nonna.» «Quanto mi manca. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma sento ancora il suo odore per casa. Dici che è normale?» «Sì, non ti preoccupare.» «Se lo dici tu.» Ora erano a tavola insieme, con i piatti fondi rasi di brodo e la pastina a stelline sul fondo, tra le bolle di grasso.

«Scusa, mai io il brodo lo faccio sempre così. Me l’ha insegnato il nonno.» A un certo punto, nonna si versò nel brodo il fondo del bicchiere di vino e un cucchiaio pieno di grana. Mischiò tutto col cucchiaio. «So che a qualcuno fa schifo, - disse - ma a noi piace tanto.» «Va benissimo così, non ti preoccupare» lo disse cercando di non pensarci, di non guardare nel piatto della nonna. «Allora dimmi, qual è la sorpresa?» «Ho fatto il dolce. Anche questo era il preferito del nonno, è tanto che non lo faccio. Sono dei pasticcetti.» «Nonna, non mi dire che hai fatto i cenerini.» «Sì.» La nonna era già andata a prenderli in camera, coperti con uno strofinaccio su un vassoio di cartone da pasticceria. «Fantastico, ti rendi conto che saranno vent’anni che non ne assaggio uno.» «Eccoli, prendili tutti. Portali a casa per la mamma e per Andrea.» «Certo, grazie.» Ne mangiarono due a testa. Lui era davvero sorpreso: la nonna sembrava quasi un’altra persona, aveva fatto da mangiare persino decentemente. Anche la casa, a essere sincero sembrava più pulita. Poi, improvvisamente, nonna si mise a piangere, senza far rumore, ma singhiozzando, in silenzio. «Nonna, dai non fare così. Ci sono qua io adesso, non resterai sola, ti verrò sempre a trovare.» «Lo so, non è per questo, è che vorrei solo non aver fatto una stupidata.» «Quale stupidata dovresti aver fatto, nonna?» Lo disse con la bocca piena di cenerino. «Spero solo che non ti faccia male. Forse sono stata un po’ avventata, spero di non aver combinato un guaio.» «Ma cosa, nonna?» «Il fatto è che tu sei sempre stato il suo nipote preferito, capisci, senza togliere niente a tuo fratello.» «Sì, lo so.» «Volevo che ci fossi tu, capisci, da sola avevo paura a farlo… prendi un altro cenerino, prendilo.»

«Grazie» e ne abboccò un altro. «E’ una cosa che io non avrei mai neanche pensato, è stato lui il nonno a suggerirmelo, tanti anni fa. Ne avevamo parlato, forse l’avevamo sentita al telegiornale, non ricordo. Lui aveva detto che non gli sarebbe dispiaciuto…» «Ma cosa, nonna?» «Ne vuoi ancora?» «No, grazie, va bene così sono davvero fantastici, ma cosa allora?» «Ti devo fare vedere una cosa.» Fece per alzarsi. «Aspetta vado io, dimmi cos’è.» «No, no ci penso io. Tu bevi un altro goccio di vino.» La nonna tornò con una scatola cilindrica in alluminio bianco col tappo giallo, quella della vecchia Citrosodina. «Ecco. È qui» la nonna si sedette e continuò a sorseggiare il vino. «Cos'è?» La nonna attese qualche istante, dopo l’ultimo morso al suo cenerino, dopo essersi pulita le labbra flaccide col tovagliolo del suo matrimonio, e disse: «Il nonno.» «Scusa?» «Sì, non proprio tutto: un po’ è al cimitero, il resto ce lo siamo appena bevuto e mangiato. Qui dentro ce n’è ancora un pochino.» Aveva capito bene, fin troppo bene. Non riuscì a fare altro che correre in bagno e tentare di vomitare. Ma non ci riuscì, la minestra e i cenerini non volevano tornare indietro. Allora uscì, di corsa senza chiudere la porta, senza salutare la nonna, senza nemmeno guardarla, non ce l’avrebbe fatta. Quella vecchia era andata completamente fuori di testa. Non poteva credere di essersi appena bevuto e mangiato i resti del nonno. Uno schifo senza fine, come mai aveva provato in quella casa, nella quale (lo giurò su ciò che aveva di più caro), non avrebbe più messo piede, viva o morta che fosse quella vecchia demente. Lei però, la vecchia demente, ora era davvero contenta, certa che non si sarebbe più separata dal suo grande amore, almeno per i pochi giorni che le sarebbero rimasti da vivere. Il suo amore se lo sarebbe portato sempre dentro di sé. Se un giorno suo nipote avrebbe avuto

dei nipotini, un po’ del loro bisnonno sarebbe stato anche dentro di loro. Lui, il nipote, scese le scale di corsa, saltando tre gradini la volta, rischiando di rompersi l’osso del collo, per andare via, per volare lontano da quel posto maledetto. Nonostante l'avesse fatto ogni volta uscendo dalla casa dei nonni e la tentazione di farlo era forte, nel cortile non si voltò verso la finestra della nonna. Lei però era lì, come sempre, seduta sulla seggiola bianca e il maglioncino sulle spalle. Le spuntava solo la testa. La sentì gridare verso di lui: «Tesoro, hai dimenticato il vassoio con i pasticcetti, te li lascio da parte, va bene? Torna a prenderli quando vuoi, te li metto in frigo. La prossima volta dimmelo che te li faccio ancora, se vuoi. Fatti sentire presto, tesoro, capito? Saluta tutti. Fatti sentire.»

Samuel Giorgi

Innanzitutto benvenuto su Fralerighe... 1) Per prima cosa ti chiederei di presentarti ai nostri lettori. Chi sei, cosa fai, perché (ma anche perché no...)?

Sono Massimo Rossi, veneto di San Donà di Piave, in provincia di

Venezia, dove abito tuttora. Sono un ingegnere meccanico e da quasi trent’anni svolgo con passione questo lavoro nel mondo dell’industria privata. Attualmente sono dirigente d'azienda in una importante realtà produttiva di Treviso. A ottobre compirò 55 anni, e da un po’ di tempo ho sentito che era arrivato il momento di dedicarmi a una vecchia passione: la scrittura. Perché? Perché nella vita si deve cercare di fare solamente le cose che si sente di poter fare, quelle per le quali ci si sente portati, quelle per le quali gli obiettivi da raggiungere, anche se ambiziosi, non sono sogni irraggiungibili ma stimoli per migliorarsi e dare un senso a ogni giorno che si vive.

2) Come scrittore, da quali autori - non solo letterari, ma anche cinematografici, musicali, ecc - ti consideri influenzato?

Nella mia vita ho letto tanto, fin da piccolo, e ho letto di tutto. Quindi mi è difficile nominare quali scrittori possano aver influenzato il mio stile. Ho amato profondamente Giuseppe Berto e Malaparte, e la scrittura secca, senza fronzoli, di Montanelli. Osservando la mia libreria, vedo che ci sono diversi titoli di Wilbur Smith, di Grisham, di King. Ultimamente mi sono appassionato alla scrittura di Maxime Chattam, giovane e davvero bravo. Per quanto riguarda il cinema, sono abbastanza selettivo: e solo con le grandi storie del Clint Eastwood regista vado sul sicuro. Utilizzo la musica come colonna sonora della mia scrittura, suoni armoniosi che riempiono ciò che mi sta intorno senza distogliere l’attenzione da ciò che sto facendo. Loreena McKennit, Secret Garden, Moya Brennan, per fare alcuni nomi. 3) Com'è nata l'idea per L'ombra del bosco scarno?

Il germe della storia, l’idea attorno alla quale pensavo di cos-truire il romanzo, era incentrato sulla capacità comunicativa delle immagini, foto e dipinti. Per dare enfasi maggiore, qualcuno, impossi-bilitato a farlo normalmente, avreb-be “parlato” con le immagini. E per risultare ancora più interessante, avrebbe dovuto essere una persona con un ritardo psichico a fargli da insegnante. Come spesso accade, l’idea di fondo del romanzo è poi diventata un’altra, e il germe iniziale è rimasto solamente come suppor-to a tutto il resto.

4) I personaggi: come sono nati? C'è qualcuno più vicino a te per carattere?

Il bambino Aron e il giovane Barnabas sono nati per primi, e risultano tra i più amati. La storia è stata costruita partendo da loro e tra i tanti personaggi resteranno gli unici “innocenti”. Tutti gli altri saranno in qualche modo toccati da comportamenti riprovevoli, o da atti delittuosi. E’ una storia di contrasti, tra un mondo che vorremmo avere e che non è, tra persone che vorremmo essere e che non siamo, almeno fino in fondo. Il personaggio principale, la psicologa Helena, coi suoi limiti e le sue virtù, è molto umano e, magari inconsciamente, l’ho costruito attingendo ad alcuni aspetti del mio carattere. Ma forse è solo un’illusione. 5) L'ambientazione: come l'hai scelta?

La storia doveva essere ambientata in un posto isolato che, nelle

mie intenzioni, doveva costituire una barriera fisica all’ integrazione sociale, e una rappresentazione dell’isolamento delle nostre coscienze. Potevo scegliere un’isola o un posto di alta montagna. Ho scelto il

secondo, perché conosco bene quei posti, ed è sempre preferibile scrivere di cose che si conoscono direttamente. 6) La pedofilia. Perché questo tema?

Perché, fedele alla mia idea di rappresentare una storia di grandi contrasti, in quel paradiso terrestre doveva compiersi il crimine più abbietto. E non c’è nulla di più vergognoso che l’uomo possa commettere rispetto alla violazione dell’innocenza. Tuttavia, per rispetto del tema, ho cercato di usare toni delicati, di sfiorare e di non toccare. E comunque, anche quell’episodio, funge da supporto all’altro problema centrale, quello dell’accettazione del diverso in una società che tende a chiudersi su stessa per difendere ipocritamente interessi e ipotetica felicità. 7) Qual è stato lo scoglio più grande da superare durante la stesura?

Sulla base di esperienze precedenti, ho scelto di raccontare una

storia che avevo completamente progettato prima di scrivere, e di utilizzare una scrittura semplice, come se la stessi raccontando a qualcuno seduto in poltrona. Quindi c’è stato un grande lavoro di preparazione, ma poi la stesura è andata avanti senza intoppi, e in un tempo breve (circa sei mesi). 8) Ci racconti un aneddoto legato alla stesura del romanzo?

Come detto prima, avevo cercato di progettare (sfruttando il mio lato razionale) tutto fin dall’inizio. In realtà, a un certo punto mi sono perso nell’intrico dei sentieri, proprio come Aron. Le distanze non combaciavano più coi tempi di percorrenza e ciò non mi poteva assolutamente soddisfare. Allora mi sono disegnato una mappa topografica dei luoghi , cartina che poi la casa editrice ha pensato fosse utile anche per i lettori, tanto è vero che si trova stampata nel libro.

9) Ci parleresti dell'esperienza legata alla pubblicazione con Scrittura & Scritture?

Sono arrivato a Scrittura & Scritture consigliato dalla mia Agenzia Letteraria Tempi Irregolari. Premetto che avevo escluso fin dall’inizio qualsiasi tipo di auto pubblicazione e di editoria a pagamento. Allo stesso modo avevo ignorato i vari servizi che proliferano sul WEB e che offrono letture e giudizi dei manoscritti, dietro com-penso. Scrittura&Scritture si è rivelata essere quello che la mia agenzia aveva descritto, una casa editrice medio-piccola, che spesso investe anche su autori alla prima pubblicazione, che partecipa alle fiere, che ha un suo ufficio stampa, e che è molto ambiziosa, dinamica e piena di nuove idee. Le editrici, le due sorelle Chantal ed Eliana Corrado, tendono a coinvolgere gli autori facendoli sentire parte dello stesso team, e danno grande importanza al rapporto umano con loro. Entrambe svolgono con passione anche il lavoro di editing, personalmente l’aspetto che ho maggiormente apprezzato. L’arricchimento di cui ha goduto il testo durante le lunghe e minuziose sessioni di revisione è stato impagabile, penso che nessuna pagina si sia salvata da suggerimenti, consigli, tagli, capovolgimenti. Ne approfitto per ringraziarle pubblicamente anche per l’arricchimento professionale di cui spero aver fatto tesoro. 10) La natura umana è corruttibile, a ogni latitudine. Cosa fare, davanti a questa verità?

Esserne coscienti è già un buon risultato. Nessuno deve sentirsi immune dalle debolezze del genere umano. Saper riconoscere i propri errori, e la nostra fallibilità, saper essere umili, dà un segno della grandezza di ogni persona. Nessuno è mai così innocente da poter scagliare la prima pietra.

11) Secondo te quali sono i tratti distintivi della nostra epoca? Credi che ci sia qualcosa di buono, oltre al progresso tecnologico?

Il progresso tecnologico ha decisamente cambiato marcia negli ultimi 50 anni e ciò ha determinato un miglioramento generale delle condizioni di vita medie del genere umano. Tuttavia dispiace vedere come si continui a morire di fame, e come il progresso in campo medico sia molto più rallentato. Penso che in questo secondo caso non ci sia tanto un problema di investimenti, quanto di qualità di cervelli che si occupano della materia, probabilmente meno attraente, dal punto di vista economico, di tante altre. Peraltro migliore qualità di vita non significa maggiore felicità: anzi, disturbi psichici come la depressione e l’anoressia sono in grande sviluppo e questo deve far riflettere. 12) Progetti per il futuro?

Un nuovo romanzo è già in valutazione presso Scrittura&Scritture, e ad un altro sto lavorando da qualche mese. Mi piacciono le grandi sfide, quelle che esigono sacrificio ed entusiasmo. Quindi, anche se ciò comporterà un massacro del mio tempo libero, e tante notti insonni, per i prossimi mesi tutte le mie energie saranno dedicate alla scrittura. Buona fortuna, allora. Ciao!

Massimo Rossi e Aniello Troiano

RECENSIONE - L’OMBRA DEL BOSCO SCARNO

La valle di Stille è un altopiano alpino, situato in un punto imprecisato tra Italia, Svizzera e Austria. I suoi abitanti seguono delle regole di vita antiche e sane, basate sul culto di San Mathias e sul lavoro a stretto contatto con la natura.

Il fatto che poi la valle sia difficile da raggiungere, aiuta la gente del posto a stare lontane dal degrado del mondo frenetico.

Insomma, un paradiso in terra, o forse sarebbe meglio dire tra le Alpi. Un posto tranquillo, scombussolato da due eventi non previsti: l'acquisto di un maso (abitazione rurale tipica della zona) da parte di uno stilista svizzero omosessuale, intenzionato a passarvi il tempo libero lontano dal mondo ipocrita della moda; e l'asilo offerto a una donna nordafricana e a suo figlio, per proteggerli dal marito/padre, prossimo al rilascio dalla detenzione e convinto della responsabilità della donna nel suo arresto.

Eppure, in quel paradiso esente dal peccato, il bambino subisce abusi sessuali.

Mentre tutti si convincono che il nuovo arrivato, in quanto gay libertino ma soprattutto straniero, sia il potenziale colpevole, Helena Ziegler, psicologa che in passato ha lavorato per la polizia, viene assunta come consulente per cercare di chiarire la questione, nel modo più discreto possibile.

Questo romanzo è popolato da un numero di personaggi abbastanza alto. Non sarebbero bastate altre duecento pagine per rendere tutti i personaggi vivi e “visibili”, per ovvi motivi di spazio. I principali sono ben tratteggiati, mentre alcuni dei minori, giocoforza, risultano un po' bidimensionali. Ciò rappresenta sì un difetto, ma piuttosto marginale, in quanto la storia non manca di personalità verosimili e intriganti. La psicologa Helena, il menomato Barnabas, il

prete, don Basilius, per citare tre nomi, sono personaggi ben riusciti e coinvolgenti.

Rossi ci racconta questa storia torbida con calma e minuzia, riempiendo la narrazione di dettagli visivi e uditivi molto specifici. Ciò può piacere o meno, ma denota in ogni caso la formazione di uno stile personale, cosa non scontata in uno scrittore alla prima pubblicazione. I dialoghi tra i personaggi sono quasi sempre ben fatti. Solo saltuariamente, infatti, vi è qualche piccolo calo di tono, comunque più che perdonabile.

Sotto certi aspetti il romanzo mi ha ricordato la “scuola nordica” del giallo. Un po' per l'ambientazione montana, per i nomi germanici e per l'atmosfera che traspare; un po' per la sensazione che in alcuni punti Rossi si sia ispirato a “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson, attingendo in modo intelligente ma assolutamente senza “scopiazzare”.

Interessante il parallelo tra la valle apparentemente paradisiaca e i vizi della società moderna, volto a far emergere la fragilità e la corruttibilità dell'essere umano a qualsiasi coordinata geografica.

Una buona lettura con qualche piccolo difetto, che nel complesso non sfigura se paragonata a titoli pubblicati da case editrici grandi.

Voto: 7 e mezzo pieno, tendente all'8.

Infine, trattandosi del romanzo di una casa editrice emergente, la napoletana Scrittura & Scritture, credo sia d'obbligo una piccola parentesi sulla qualità del volume.

La copertina dallo stile essenziale ha il suo perché, riuscendo a incuriosire il lettore. La qualità della rilegatura, della carta e della stampa è davvero di buon livello. Non si percepiscono, al tatto o alla vista, differenze sostanziali con libri di case editrici grandi, se non in una minore elaborazione della copertina (che come ho già detto fa comunque bene il suo dovere).

Sicuramente una realtà interessante da tenere d'occhio.

Aniello Troiano

RECENSIONE - CHI E’ MORTO ALZI LA MANO Editore: Einaudi Collana: Stile libero • Noir Pubblicazione: 2006 ISBN: 9788806182663

Pagine: 254 Prezzo di copertina: € 12,50 Titolo originale: Debout les morts (1995 Viviane Hamy, Paris) Traduzione di Maurizia Balmelli - Pierre, in giardino c’è qualcosa che non va - , disse Sophia. Comincia così, con un faggio spuntato incomprensibilmente nel giardino della cantante lirica Sophia Siméonidis, la prima avventura dei tre “evangelisti”, i simpatici e surreali investigatori per caso scaturiti dalla talentuosa, originalissima penna di Fred Vargas. Ai piedi dell’albero un cerchio di terra dissodata di fresco, nel volgere di una notte. Nessun biglietto. Certo, potrebbe trattarsi di una bizzarria di poco conto: il gesto plateale di un ammiratore desideroso di mettersi in mostra, ad esempio.

Eppure… Eppure, a ben guardarla, quella pianta enorme interrata accanto al

muro di cinta ha un che di morboso e di sinistro: che tipo di persona può decidere di trapiantare un albero gigantesco in un giardino privato, di notte, all’insaputa dei padroni di casa? Quale messaggio si può nascondere, dietro un gesto del genere?

Chi è morto alzi la mano, romanzo del 1995 pubblicato per la prima volta in Italia nel 2006, apre la fortunata serie degli “Evangelisti” (l’epopea di tre giovani storici disoccupati squattrinati – “San Marco” Vandoosler, “San Luca” Devernois e “San Matteo” Delamarre – che condividono giravolte e beffe del destino nella topaia parigina di rue Chasle e si dilettano a risolvere misteri inestricabili con l’ausilio di due sbirri in disarmo e dell’adorabile rospo Bufo) e rimane, a tutt’oggi, una delle migliori opere di Fred Vargas. Un noir atipico che attinge a piene mani dall’armamentario del poliziesco tradizionale senza mai indulgere, tuttavia, in luoghi comuni e stucchevolezze. Una storia cupa e disperata, più nera del nero e al tempo stesso divertente, narrata costantemente sul filo dell’ironia. Il finale, croce e delizia di tutti gli autori e lettori del poliziesco, una volta tanto è davvero a sorpresa: la regina indiscussa del noir d’oltralpe confeziona un’autentica “bomba” che stupirà e manderà nel proverbiale brodo di giuggiole anche i giallomaniaci più smaliziati.

Il tutto in perfetto “stile Vargas”: poetico, evocativo e di grande eleganza. Ogni singola parola è scelta con cura (se non suonasse troppo melenso pot-remmo dire persino con amore); i dialoghi, vivaci e brillantissimi, costituiscono il vero punto di forza della narrazione e conferiscono al romanzo quell’aura onirica e fiabesca che contraddistingue tutta la produzione “nera” della Vargas; quel pizzico di follia che le con-sente di farsi beffe delle più elementari regole del tempo e dello spazio.

Simona Tassara http://unostudioingiallo.blogspot.it

RECENSIONE - VENTI CORPI NELLA NEVE

Venti corpi nella neve, edito da TimeCrime Fanucci, è il romanzo d’esordio di Giuliano Pasini.

Case Rosse, un paesello sull’Ap-pennino tosco-emiliano abitato da meno di mille anime. Insomma, il pos-to perfetto per staccare la spina e tentare di ritrovare sé stessi. È per questo che il commissario Roberto Serra vi si è trasferito: nella sede del commissariato più piccolo d’Italia, non dovrebbe disturbarlo nessuno, no?

No. Primo gennaio 1995. Tre morti.

Un esecuzione. Padre, madre e figlio-letta. Un solo colpo sparato alla nuca. Le teste parzialmente spappolate. Ma la cosa più inquietante è che i corpi sono stati deposti sotto un monumen-to ai martiri della Seconda Guerra mondiale, vittime di un eccidio nazi-fascista.

La storia si ripete?

I personaggi sono ben fatti. Molto credibili gli abitanti del paesello, contadini nelle usanze e nei modi, chiusi, diffidenti al limite dell’omertà. Credibili e coerenti anche i personaggi principali, Roberto Serra e Alice; anche se, volendo cercare il pelo nell’uovo, la “danza” (specie di malattia in cui il poliziotto vede alcune cose già avvenute dalla prospettiva delle vittime o degli assassini) tende ad apparire un po’ troppo artificiale, e qualche piccolo passaggio nella biografia della donna è già sentito. Ciò non inficia, però, la buona riuscita del romanzo.

Lo stile di Pasini è pulito senza essere asciutto, è ricco ma misurato. La lettura ne risulta fluida e avvincente. Ottima anche la suddivisione in capitoli molto brevi, a volte anche di una sola pagina (!), che impedisce al lettore di perdere la visione d’insieme.

Interessantissima e toccante la parte legata alla storia della Resistenza, di cui si intuisce da subito l’importanza nella vicenda narrata.

Il romanzo carbura con il procedere della lettura. Le ultime cento pagine si divorano letteralmente.

Tirando le somme, un buon

romanzo dalla forte identità italiana (per i collegamenti con le vicende della guerra e per la verosimiglianza del paesello, tipico borgo dell’estrema provincia), che si fa leggere con piacere, nonostante qualche piccola nota stonata (o forse sarebbe meglio dire già sentita) nella primissima parte. Voto: 8.

Aniello Troiano

RECENSIONE – I CORPI LASCIATI INDIETRO

Dopo aver parlato nel numero dell'inizio della saga su Lincoln Rhyme, adesso vale la pena di parlare di uno stand-alone firmato ancora una volta da Jeffery Deaver.

Sembra una normalissima serata al Lago Mondac, Winsconsin, quando la polizia riceve una telefonata insolita da una delle case più isolate della zona. Una mezza richiesta di soccorso da parte dei coniugi Feldman, che poi si rivela essere stato un falso allarme. Ma questo non basta allo sceriffo per rassicurarlo, così invia uno dei suoi agenti, Brynn McKenzie a far luce sulla faccenda. Una volta

giunta alla dimora si accorge di non essere da sola e di trovarsi sul luogo di un delitto, in compagnia dei due probabili killer. Inizia dunque una lunga fuga tra i boschi in compagnia di Michelle, un personaggio dalla personalità curiosa, amica delle due vittime ed unica testimone del delitto. Tra colpi di scena ed indagini sul filo del rasoio, Brynn dovrà far luce sulla vera natura del delitto prima che sia troppo tardi.

Anche con questo romanzo Deaver dà prova delle sue incredibili doti narrative: lo stile è incalzante, molto scorrevole e assolutamente ben scritto.

La cosa - a mio parere - particolarmente degna di nota è proprio la narrazione: Deaver ha fatto sì che il lettore fosse coinvolto appieno nella corsa per la salvezza delle due donne, coinvolgendolo

emotivamente e riuscendo a procurare in lui un certo stato d'ansia che, paradossalmente, rende il libro ancor più piacevole.

Inoltre Brynn è un personaggio davvero interessante, ben lungi dall'essere la poliziotta modello d'eroismo che sa di fasullo; attento come sempre ai dettagli, Deaver non tralascia alcun aspetto del suo background, creando un personaggio sempre coerente e per nulla scontato.

Il voto finale è un 4.5 su 5, una lettura davvero consigliata ad ogni amante del thriller. Titolo: I corpi lasciati indietro Autore: Jeffery Deaver Editore: Rizzoli Data di pubblicazione: 2010 Pagine: 461 Prezzo di Copertina: 10,90€

Jeffery Deaver è uno scrittore, giornalista ed avvocato americano, nato nello stato dell'Illinois nel 1950. Vincitore di numerosi premi lette-rari, è stato più volte finalista all'Ed-gar Award. Noto per la sua saga su Lincoln Rhyme, Jeffery Deaver ha dato il suo contributo nella stesura di un nuovo capitolo dell'agente 007.

Christine Amberpit

RECENSIONE - COCAINA

Editore: Einaudi Collana: Stile libero Big Pubblicazione: 5 febbraio 2013 ISBN 978-88-06-21547-7 Pagine: 200 Prezzo di copertina: € 13,00 Ebook: € 6,99

Tre storie nere, che più diverse non si potrebbe.

Tre paia d’occhi e tre

diversi sguardi sul mondo. Tre racconti che, a dis-

petto delle differenze d’ap-proccio e di stile, fanno un romanzo.

La forza di Cocaina,

pregevole trittico noir fir-mato da un terzetto di au-tentici “pesi massimi” della narrativa italiana contempo-ranea, risiede in primo luo-go in questa sua compat-tezza, in una felicissima – e

sorprendente – continuità di narrazione. E’ come se un filo impalpabile, una “sottile linea bianca”, cucisse il primo racconto al successivo e questo all’altro ancora, legandoli inscindibilmente. Il tema, come recita il titolo, è la sostanza che più profondamente ha segnato la società dagli anni Ottanta ai giorni nostri, che ha travolto destini e generazioni; la droga trasversale e apparentemente “pulita” che un silenzio complice ha finito col normalizzare e rendere invisibile.

Il risultato è un noir magistrale che si legge d’un fiato (saranno sufficienti un paio di “tirate”, provare per credere) ma lascia tracce indelebili e fa quel che un pur validissimo trattato in materia non sarebbe in grado e condizione di fare: coinvolge cuore e cervello, tocca le corde più profonde della nostra coscienza.

E’ la (buona) letteratura, bellezza.

La pista di Campagna, di Massimo Carlotto

Picchiettò l’indice sulla pagina de “Il Mattino di Padova”. – Leggi qua, Campagna. L’ispettore girò il quotidiano e sbirciò il titolo. Padova capitale veneta del consumo di cocaina.

In questo bel racconto, che apre la raccolta, Massimo Carlotto

torna a scavare nel cuore nero dell’Italia industrializzata e lo fa riportando sulla scena l’ispettore Giulio Campagna, cane sciolto dell’Antidroga padovana già protagonista di Little dream (in Crimini italiani – Einaudi, 2008) qui alle prese con un’indagine che potrebbe costargli la vita e una carriera da sempre in bilico.

E’ lo stesso Carlotto a raccontare, in una recente intervista, la gestazione dell’opera: «ho girato all’alba, quando le donne delle pulizie smettono di lavorare e trovano un po’ di consolazione nella striscia consumata in fretta nei locali di periferia dove prendono il caffé. Un tiro e le paure di una vita sempre più precaria sembrano svanire. Lo stesso nei grandi parcheggi dove si ritrovano i lavoratori giornalieri dell’edilizia. O negli autogrill dove gli spacciatori aspettano i camionisti e i piccoli padroncini che si fermano per fare il pieno di benzina e di polvere bianca. Durante il boom era la droga dell’euforia, ora con la crisi è la droga della consolazione».

La droga di tutti che scorre a fiumi negli scarichi dell’operoso Nordest, dietro la facciata perbene del motore d’Italia. La panacea che ha fatto saltare le regole e cambiato per sempre il volto del crimine (e non solo): “da quando la cocaina è dilagata” si sfoga l’ispettore Campagna nella prima parte del racconto, “si sono rotti gli argini e un esercito di incensurati si è arruolato nelle bande criminali. E allora un poliziotto deve scegliere chi bisogna castigare e chi si merita di non

finire in galera perché è meno pericoloso degli altri o perché è diventato un informatore prezioso.”.

Navigare a vista, insomma, con la consapevolezza che il traffico di cocaina – “una marmellata che come la tocchi ti sporchi le dita” – non lascia innocenti, dietro di sé.

Un racconto duro, formalmente impeccabile, che non deluderà gli estimatori di Massimo Carlotto.

La velocità dell’angelo, di Gianrico Carofiglio

Ecco, io ero una bambina che correva coprendosi gli occhi e andava troppo veloce perché il suo angelo custode riuscisse a starle dietro.

Un caffè in riva al mare, uno scrittore in crisi e una donna carica di

mistero che non si cura di nascondere le proprie cicatrici: questi i principali ingredienti del racconto di Gianrico Carofiglio. Il dialogo fra i due personaggi – monadi alla deriva tratteggiate con grande cura e sensibilità – porta alla luce un’intensa storia d’amore e dipendenza, di dannazione e riscatto. Una vicenda intima e al tempo stesso universale che il “papà” dell’avvocato Guerrieri sceglie di narrare in punta di penna; un viaggio denso e doloroso che ci costringe a riflettere su quella che potremmo definire l’insostenibile leggerezza dell’essere umano, sulla impossibilità di tracciare il confine tra colpa e innocenza, tra la vittima e il suo carnefice.

Ballo in polvere, di Giancarlo De Cataldo

La vita era salire, salire, salire sempre più in alto. La coca, sia benedetta, era l’ascensore.

“Ballo in polvere” è un autentico gioiello della narrativa noir,

felicità di narrazione allo stato puro. Un Giancarlo De Cataldo in stato di grazia ci racconta il percorso di una partita di cocaina dalla foglia alla finanza, dai trafficanti del Cartél de Sinaloa alle bolge profumate della “Milano bene” verso la sua destinazione naturale e finale: il denaro. Nel descrivere il cammino della “neve”, l’autore dell’indimenticabile

Romanzo criminale sembra volerci ricordare una volta di più, se mai ce ne fosse bisogno, che alle origini del male non vi è la sostanza in sé quanto piuttosto il suo utilizzo da parte dell’uomo, la sua trasformazione in merce.

Il racconto – lungo e articolato, quasi un romanzo breve – ha la struttura di un vorticoso e ubriacante giro di pista dove, come sottolinea lo stesso De Cataldo in un’intervista recentemente pubblicata sul web, “a ogni passo qualcuno perde qualcosa”: apre le danze una bellissima e struggente “suite messicana” e quindi via di minuetto, giga, sarabanda, gran finale (che lascia, com’è giusto che sia, un bel po’ di amaro in bocca).

Chapeau.

Simona Tassara

http://unostudioingiallo.blogspot.it

RECENSIONE – L’INVERNO DI FRANKIE MACHINE

“L’inverno di Frankie Machine” è un romanzo di Don Winslow,

pubblicato in Italia da Einaudi.

Frank è sulla sessantina, vive a San Diego, per lavoro vende esche e rifornisce ristoranti. Ha una ex-moglie, una figlia che va all’università e un’amante. Si diletta col surf, è amato dalla gente e si gode la vita.

Ma chi era Frank Machianno? Un killer di Cosa Nostra americana,

detto Machine per l’abilità e il sangue freddo.

Un passato così, lo sanno tutti, non va via. Ti segue, come un’ombra silen-ziosa, e quando meno te lo aspetti ritor-na, distruggendo tutto ciò che hai fatto nel frattempo, come uno tsunami.

Frank si ritroverà costretto a fare un favore a un “amico” a cui deve mostrare “rispetto” in quanto boss. Peccato che le cose degenerino presto, costringendo Machine a una fuga disperata, fatta di scontri armati e ricordi dolorosi.

I personaggi sono credibili, tutto sommato aderenti all’archetipo di

mafioso americano immortalato da alcune pellicole, Quei bravi ragazzi in testa. Ciò non entra minimamente in contrasto con le aspettative del lettore, ma contribuisce a rendere il romanzo un po’ piatto.

Di Frankie Machine veniamo a sapere tutto, da come si prepara la colazione, al primo omicidio, passando per il Vietnam e le esperienze sentimentali. Ciò lo rende “vivo” agli occhi del lettore. L’eccessiva

abilità del personaggio, però, a tratti lo fa sembrare più uno 007 che usa “capisci” come intercalare, piuttosto che un mafioso canonico.

La caratteristica principale dello stile di Winslow è la minuziosità.

Niente è lasciato al caso, ogni piccola cosa viene sviscerata e mostrata al lettore, senza però incappare nel cosiddetto “spiegone”. Ciò è sicuramente indice di talento, di padronanza del mestiere. Il romanzo è scorrevole e – se si escludono le prime 40 pagine preparatorie – mai noioso. Nota stonata: gli ultimi due capitoli, avrei preferito che non ci fossero.

Passando a una valutazione soggettiva, devo dire che mai ho avuto

così tante difficoltà nel recensire un romanzo come in questo caso. Il libro è scritto molto bene, ma la storia non brilla. E’ l’ennesima

vicenda di mafiosi, e l’idea di un criminale che vuole uscire più volte dal giro ma non ci riesce ricorda troppo “Il Padrino”. Winslow ha attinto in modo forse troppo evidente da Quei bravi ragazzi, Casinò, le vicende del killer della malavita Richard “The Iceman” Kuklinski (tutte e tre storie vere, al contrario del Padrino, da cui ha scelto di attingere pochissimo) e in generale dagli archetipi della mafia sfruttati dalle pellicole di genere.

Vi chiederete: e allora perché l’hai comprato? Perché mi aspettavo qualcosa di più profondo di un romanzo ben

scritto e dal buon ritmo. Non so, riflessioni sulla vita, cose adatte a un vecchio che “riavvolge il nastro”. Qualcosa all’altezza dello spessore introspettivo/esistenziale de “I Soprano”, ecco cosa mi aspettavo.

Il finale consolatorio e le scene “alla Rambo”, poi, danno il colpo di grazia definitivo all’alone tragico che mi sarei aspettato, ma che, di fatto, non c’è.

Voti: 8/9 per la scrittura, 6/7

per la trama. Media: 7/8, Stelline 4 --. Aniello Troiano

Innanzitutto benvenuto su Fralerighe… 1) Presentati ai nostri lettori. Chi sei, cosa fai, perché esisti?

Se il "perché" prima di "esisti" è

causale... non ne ho idea. Ti direi che i miei genitori, quella sera, dovevano avere bevuto un bicchiere di troppo. Solo che erano quasi astemi... Se invece è "finale"... non ne ho idea. Ma so che mi diverto e mi piace. E chi sono? Giuliano, 38 anni, una moglie, un figlio in arrivo (o forse già arrivato), un lavoro da comunicatore d'impresa dalle 8 alle 20, una passionaccia per la scrittura dalle 5 alle 7. Una volta correvo, ora ingrasso.

2) Come scrittore, da quali autori - non solo letterari, ma anche cinematografici, musicali, ecc - ti consideri influenzato?

Come lettore, prima (molto prima) che come autore devo moltissimo a diversi autori. Ho una passione per la letteratura classica, in particolare per le tragedie greche. Quindi Eschilo, Sofocle (soprattutto lui, per Venti corpi nella neve. Lui e il suo destino immanente) ed Euripide. Per non parlare di Omero, chi ha inventato una trama dopo l'Odissea? Per restare più vicini a noi: Stephen King è una passione adolescenziale mai spenta (il primo romanzo che leggo ogni anno è suo), senza dimenticare Connelly, Lehane... o le recenti scoperte di Vonnegut e Durrenmatt. Italiani, dirai tu. Piero Chiara sopra tutti, e la sua descrizione della vita di provincia. Giovannino Guareschi, per lo stesso motivo. E Loriano Macchiavelli, il papà di tutti noi che proviamo a scrivere gialli italiani. Senza dimenticare Francesco Guccini. Ecco, con Guccini usciamo dalla passione ed entriamo nella religione. E sicuramente ne ho dimenticati chissà quanti... Musicalmente non posso dimenticare i "visionari" Pink Floyd, e la

chitarra di Mark Knopfler. Recente è la scoperta della musica classica, e persino dell'opera. Forse sono pronto anche per i romanzieri russi, allora. Sempre stati uno scoglio insormontabile per me! 3) Com'è nata l'idea per Venti corpi nella neve?

Una sintesi tra le esperienze della mia famiglia e la storia della terra in cui sono nato. Io vengo da una striscia di Appennino sospesa tra Modena e Bologna, che durante l'ultimo anno di guerra divenne fronte. Paesini restati sempre isolati divennero il teatro di scontri cru-enti, lungo la Linea Gotica, e videro nascere il movimento partigiano (la prima "Repubblica Libera" nacque a Montefiorino, un villaggio tra i colli dell'Appennino) e videro morire persone trucidate nei modi peggiori. Per chi è nato da quelle parti, come me, è normale crescere sentendo racconti di eccidi, rapimenti, esecu-zioni. Case Rosse non esiste, per cui l'eccidio del Prà Grand non si è mai verificato. Il 18 luglio 1944 però, a Ciano di Zocca vennero impiccate venti persone con il fil di ferro che si usava allora per legare le balle di fieno. Un racconto che io ho sentito dalla voce di chi c'era, ma che chi verrà dopo la nostra generazione avrà solo riportato come un "sentito dire". Io non voglio che succeda. Il mio obiettivo era portare testimonianza, o meglio prolungare la memoria. La scelta di vestire di giallo quella storia mi ha consentito di portarla a conoscenza di un pubblico più vasto. Il messaggio dietro Venti corpi nella neve è: "mai più la guerra". Perché la guerra non risolve i problemi ma ne crea. La guerra apre ferite che non si richiudono nemmeno dopo secoli.

4) Ci racconti un aneddoto legato alla stesura del romanzo?

Ci si raccomanda sempre di non fare leggere le proprie opere a parenti o amici perché tenderebbero a essere troppo indulgenti. Ecco, la prima stesura del romanzo, che ancora si intitolava "La giustizia dei martiri", la feci leggere a mia moglie. Me la stroncò. Sul momento la presi male, ma dopo un sano bagno di umiltà capii che aveva ragione. Ci ho lavorato molto, dopo. Soprattutto sullo stile di scrittura, alla ricerca di una voce "mia". Ma il mio aneddoto preferito riguarda la prima presentazione, a Bologna.

Un signore anziano si avvicinò e mi disse: "Io sono figlio di uno dei venti corpi." Si riferiva ai morti dell'eccidio di Ciano di cui abbiamo parlato prima. Ho fatto fatica a iniziare quella presentazione, avevo un groppo in gola. Voleva dire che il messaggio era arrivato. Un'emozione indescrivibile. 5) Qual è stato lo scoglio più grande da superare durante la stesura?

Venti corpi nella neve è il primo romanzo che ho scritto nella mia vita (non l'ultimo, è una minaccia!). Posso dire di aver commesso tutti gli errori dell'esordiente. Ne ricordo due: non ho preparato una scaletta prima di iniziare la stesura, per cui la storia si “intorcolava” su se stessa e finiva in vicoli ciechi; poi, non ho scritto con continuità per cui quando riprendevo in mano il romanzo, non ricordavo tutto lo svolgimento o molti dettagli. Morale: ho sprecato molto tempo. Ora procedo a scrivere solo dopo aver preparato una traccia dello svolgimento, una carta d'identità di ogni personaggio... Anche se non è semplice tenere a bada la foga di scrivere. Quando poi inizio la stesura, cerco di scrivere tutti i giorni. Ovunque mi trovi. Sono campione di scrittura estrema!

6) Ci parleresti del percorso che ti ha portato a pubblicare con TimeCrime di Fanucci?

Riprendiamo dalla opportuna stroncatura di mia moglie. Dopo, ho lavorato molto al romanzo, l'ho asciugato, reso più omogeneo. Sarebbe rimasta la classica tela di Penelope, fatta e disfatta, però, senza IoScrittore, un concorso del gruppo Mauri Spagnol (Longanesi, Garzanti, Guanda, Nord...) che consentiva di essere letti e giudicati in anonimo da altri concorrenti. Mi sono iscritto per vedere cosa pensassero del mio romanzo lettori "indipendenti". E invece sono arrivato fino alla fine, e "La giustizia dei martiri" (il titolo era ancora quello) è uscito in ebook a inizio 2011. Il gruppo Mauri Spagnol aveva un'opzione anche sull'edizione cartacea, che non esercitò. La cosa mi è bruciata, eccome (aspiranti "pubblicanti" non demoralizzatevi. Le bocciature fanno parte del percorso) ma non mi sono perso d'animo. Ho scelto una decina di case editrici e le ho contattate nel modo più diretto e "ignorante": via mail. Tra queste, Fanucci che adoro per aver portato in Italia Dick, Matheson, Lansdale... Siamo a maggio 2011. A luglio mi ha telefonato il direttore editoriale, Alfredo Lavarini. Ad agosto mi ha scritto Sergio Fanucci. A settembre ci siamo incontrati anche con la editor Giovanna De Angelis (scomparsa da poche settimane, davvero un brutto colpo). Lavoro di editing frenetico ma entusiasmate, ma a gennaio Venti corpi nella neve (nuovo titolo) è uscito nella nuova iniziativa TimeCRIME. Unico romanzo italiano per tutto il 2012, ora ripubblicato nella bellissima collana Nero Italiano dedicata proprio ai gialli "nostrani". Insomma, devo tutto al fatto che - contrariamente a quello che si pensa - ci sono editori che controllano i manoscritti ricevuti. Quando la racconto, vedo occhi sgranati e increduli e "seeee" bisbigliati a mezza voce. Ma a me è successo esattamente questo.

7) Adesso, una domanda/curiosità: la Y incisa sulla guancia da Sfregio ai soldati violentatori, è un omaggio alla svastica incisa da Aldo Raine in Bastardi senza Gloria?

Grandissimo film, ma nessun legame. Correva l'anno 2006 quando ho iniziato a lavorare a "Venti corpi nella neve", "Bastardi senza gloria" è del 2009, se non sbaglio. Quindi è evidente che Tarantino ha citato te. :D Tornando seri, ecco l'ottava domanda: 8) Secondo te, cosa porta le persone ad agire come il Boia? Sadismo? Rancore? O la "forza" delle ideologie?

L'ideologia è una brutta bestia. Io sono contro dogmi e dogmatismi, di ogni genere. Purtroppo, la tendenza al male è radicata nell'uomo tanto quella al bene e ci sono circostanze scatenanti che portano una a prevalere sull'altra. In Enrico Zanarini (unico personaggio realmente esistito nel mio romanzo, a parte il geniale gastronomo Ilvano Prostrati) si assommano tutti i valori o disvalori che citi tu. E' un po' la sindrome dei "volenterosi carnefici di Hitler", come da titolo dell'illuminante saggio di Daniel Goldhagen. Io credo che esistano carnefici perché costretti ("o si ammazzava o si veniva ammazzati", come dice un personaggio di "Venti corpi nella neve") ma anche carnefici, appunto, volonterosi. C'è sempre una scelta, io credo. E credo anche che non sempre l'uomo scelga il bene. 9) La vendetta non risana le ferite, il sangue non lava il sangue. Secondo te, qual è l'atteggiamento migliore da avere rispetto a fatti così atroci avvenuti in passato, oltre alla memoria di quanto è stato?

Appunto, non è scontato che la memoria venga preservata. Io ho sentito dalla viva voce dei protagonisti i racconti relativi agli eccidi della seconda guerra mondiale. Mio figlio non avrà questa possibilità. Sta a noi portare testimonianza, preservare la memoria. Fatto questo, l'atteggiamento migliore dovrebbe essere non pensare che si tratti di pagine di storia lontane e irripetibili. Pensa a cosa è successo a pochi chilometri da casa nostra, nella ex Jugoslavia, a metà anni '90. O cosa sta succedendo in Rwuanda, Kosovo... 10) Cosa ne pensi, come uomo, dell'ondata di neo nazi-fascismo che sta imperversando in Europa? Trovi che sia un'esagerazione dei media o che sia un fenomeno reale e pericoloso?

È un fenomeno indiscutibile. Il Nazismo - come quasi tutti gli altri totalitarismi, anche di matrice apparentemente opposta - nacque in un contesto di grave crisi economica, poggiandosi sui bisogni delle classi più deboli. Non mi stupisce si ripropongano oggi istanze neo naziste: dal punto di vista economico, la situazione mondiale è complessa come non mai. Non mi stupisce, insomma, che la gente che fatica a mangiare senta la necessità di rifugiarsi in nazionalismi o teorie che rivendicano l'esistenza di un "nostro" che "gli altri" non possono toccare. Resto basito, però, che avvenga dimenticando quello che è stato e a cosa hanno portato certi eccessi. E che qualcuno si accodi a queste aberrazioni per spirito di emulazione o perché - peggio ancora - va di moda. "Il nostro", "gli altri"... teorie stupide. E pericolose. Ecco perché non bisogna dimenticare ciò che è accaduto, e perché. 11) So che è prossimo all'uscita un nuovo romanzo. Ce ne parli?

Nonostante tutti i miei tentativi di farlo fuori, Roberto Serra resiste. La sua prossima avventura è ambientata in Veneto, in mezzo ai colli del Prosecco. Sono passati cinque anni dalle vicende di Case Rosse, è iniziato un nuovo millennio. E Roberto sembra avere trovato le medicine per vincere la Danza. E poi... e poi... e poi ci sono molti temi che abbiamo toccato in questa intervista. Ai lettori scoprire quali.

Il titolo è "Io sono lo straniero", l'editore è cambiato (Mondadori) e sarà nelle librerie il 26 marzo. In alto i calici (di prosecco, ovviamente). 12) Beh, non mi resta che farti i migliori auguri per il futuro. Ciao!

Grazie a te per la pazienza di avermi ascoltato e... buona lettura!

Giuliano Pasini e Aniello Troiano

ARTICOLO – MURDER PARTY, Prima Parte

Non morirà nessuno

Si sente spesso parlare di cene con delitto. In chi non le conosce, spesso l’espressione genera una miscela di divertimento e preoccupazione: si avverte subito che si tratta di qualcosa di conviviale, con il termine cena, e si arriva a capire nell’insieme che si tratta di uno spettacolo di intrattenimento. Eppure quel “con delitto” ogni tanto genera una leggera apprensione.

Come se gli invitati non credessero affatto che qualcuno possa essere assassinato a una cena, certo, ma non vorrebbero comunque correre il rischio. Per tranquillizzare gli animi possiamo dire subito che non morirà nessuno.

Nessuno degli invitati, per lo meno. I murder party, conosciuti come cene con delitto, sono una

piacevolissima alternativa a una serata al cinema o in pizzeria, miscelano il teatro (lo spettacolo dal vivo) a un pasto in una location intrigante.

E, soprattutto, non possono che soddisfare tutti gli amanti dei gialli, dei thriller e delle crime story.

Nate quasi esclusivamente in ambito dilettantistico, soprattutto tra i giocatori di ruolo che avevano voglia di cimentarsi con gli amici in una competizione investigativa, ha sempre più preso piede tra il pubblico e gli appassionati, fino a diventare un genere teatrale vero e proprio.

Cosa aspetta, dunque, chi si appresta a partecipare a un murder party?

I murder party

Inutile dire che la cena è il momento più quotato per un murder party, ma non l’unico: nulla impedisce di organizzare e partecipare a dei pranzi con delitto, a degli spuntini con delitto se non – interessante variazione – a degli aperitivi con delitto.

Si tratta di un gioco teatrale molto semplice: i commensali – più invitati ci sono e più il divertimento sale – dovranno seguire una storia dalle tinte fosche che si snoda sotto i loro occhi, tra una portata e l’altra. La vicenda è interattiva: i personaggi dialogano con pubblico, allietano la serata e cercano di accattivarsi le simpatie di coloro che sono seduti a mangiare, perché è grazie alla bravura dell’attore e all’acume e alla disponibilità dello spettatore che il gioco va avanti.

Saranno gli ospiti, seduti al tavolo durante la cena, a dover scoprire chi tra i personaggi è il responsabile di un delitto efferato.

Compito degli attori è quello di condurre per mano i commensali durante una strada tortuosa, offrendo scene ambigue che offrano dettagli agli spettatori più attenti, interrogatori pieni di false piste o vere, indizi che possano condurre al colpevole.

L’ingrediente principale, tuttavia, è e deve essere la comicità. Le cene con delitto hanno tutte un tono frizzante e, nonostante il tema che prevede un assassinio, una messa in scena leggera che abbia come primario scopo quello dell’intrattenimento.

Giochi di atmosfera

La prima cosa da fare è calarsi nell’atmosfera più realistica e coinvolgente. Si può scegliere qualsiasi ambientazione: un delitto nel medioevo dantesco, per esempio, potrà avvalersi di una sala rustica, di musiche arpeggiate e, perché no, potrà incoraggiare gli stessi commensali a una partecipazione in costumi a tema; un crimine consumato in una patinata festa nella New York degli anni Venti potrà fare leva su musiche swing e un’atmosfera più disinibita. Ci sono ambientazioni per tutti i gusti, quello che conta è che siano curate in modo da catalizzare l’attenzione e permettere di calarsi subito nell’ambiente del delitto.

Che è già buona parte del lavoro di indagine, come sanno gli appassionati.

Proprio per questo i menu offerti durante un murder party sono spesso in linea con la messa in scena. Un delitto dantesco può vantare un menu dell’epoca; una cena in pieno proibizionismo americano può giocare con la mancanza di vini o, al contrario, con la sovrabbondanza di cocktail di contrabbando.

La scena deve svolgersi in un’unica sala, preferibilmente senza infrastrutture o colonne, in modo che la scena, che si svolge al centro della stanza e tra i tavoli, sia il più possibile visibile da tutti e possa permettere una buona mobilità degli attori tra i tavoli e tra i commensali.

E con questo, giunge per voi il momento di sedervi a tavola e gustare l’antipasto. Le portate principali riguardo allo svolgimento del murder party vi verranno servite sul prossimo numero.

Scilla Bonfiglioli

ARTICOLO - IL BLUES DI MASSIMO CARLOTTO Approfondimento di Noir Italiano, scritto da Omar Gatti in

collaborazione con Massimo Carlotto

Se Scerbanenco è ritenuto il padre del noir italiano e Macchiavelli colui che ha saputo dare al genere consistenza letteraria, allora Carlotto può essere considerato l’autore che ha regalato al poliziesco del nostro paese un respiro più ampio. Infatti nei romanzi dell’autore padovano è possibile trovare spunti di riflessione e fotografie della “realtà” criminale della società italiana, che pongono il noir su un livello più elevato, quello di strumento di denuncia sociale. Questo modo d’intendere e di vivere il poliziesco lo ha portato ad avvicinarsi alla scuola di grandi del noir internazionale come Manchette ed Helena e a diventare l’esponente di spicco del noir mediterraneo in Italia.

Ma cominciamo con ordine.

Massimo Carlotto, nato a Padova nel 1956, si fa conoscere al mondo della letteratura nel 1995 con il romanzo affresco “Il fuggiasco”, cronaca del suo periodo da latitante (Carlotto è stato al centro di un lungo e controverso caso giudiziario).

Ho compreso che la scrittura sarebbe stata la “strada” giusta da percorrere, quando me lo ha detto in maniera esplicita Grazia Cherchi, scrittrice, critica, editor di chiara fama. Essendo noti il suo rigore e inflessibilità ho capito subito che stava parlando sul serio e mi sono dedicato in modo esclusivo alla scrittura. Inoltre il successo de Il fuggiasco è stata la spinta definitiva e ha convinto l’editore a credere in progetti futuri, totalmente diversi.

Lo stesso anno esce “La verità dell’Alligatore”, che può essere considerato l’equivalente della “Venere Privata” di Scerbanenco, ovvero un romanzo che stravolge il modo di percepire il noir in Italia. Un hard-boiled nero e avvincente, che ha molti agganci con la realtà.

L’Alligatore è il soprannome di Marco Buratti, detective privato veneto. Buratti ha un passato da cantante blues e ha scontato sette anni di carcere per aver dato asilo a un terrorista, nonostante fosse totalmente estraneo ai fatti. L’aver vissuto quest’ingiustizia lo ha reso ossessionato dalla giustizia, che cerca di

raggiungere a ogni costo. Egli infatti, grazie agli anni di carcere che l’hanno visto nel ruolo di “mediatore”, viene contattato da avvocati, giudici, privati cittadini che hanno problemi e non possono fare affidamento sulla legge per risolverli.

Con il mio personaggio condivido la passione per il blues e il calvados e l’essere stati ospiti dello Stato. Nulla di più. L’Alligatore, un omaggio evidente al filone hard-boiled (a mio avviso non si tratta di noir ma di un romanzo poliziesco con finale non consolatorio), è nato nel periodo in cui gli avvocati difensori, grazie al nuovo codice, hanno potuto, finalmente, ingaggiare professionisti per indagare a favore dei propri assistiti. E io ne ho approfittato inventando un investigatore senza licenza, un modo per uscire dalla logica dei personaggi tradizionali e legati alle istituzioni. A me serviva un uomo ossessionato dalla verità che non avesse scrupoli ad attraversare il confine della legalità pur di arrivare a scoprire e a svelare la realtà che circonda gli avvenimenti narrati.

I romanzi dell’Alligatore (ne seguiranno altri sei) prendono tutti spunto da una situazione o da un fatto di cronaca realmente avvenuto. Questo è un fattore peculiare della produzione di Carlotto: il noir deve raccontare la verità. Se il tempo della grande inchieste giornalistiche è tramontato, vuoi per col-pa delle lobby, delle que-rele o della perdita d’inte-resse da parte dell’opi-nione pubblica, allora toc-ca al noir raccoglierne l’eredità. I romanzi di Carlotto mi piacciono (pura opinione sogget-tiva), perché possono essere letti su due livelli differenti. Il primo è quello della semplice storia noir, denominata da uno stile asciutto, un ritmo veloce e da una scrittura che cattura. Il secondo è quello della riflessione. Carlotto non cerca di spiegare la realtà o di trovare la verità dei fatti ma lancia la cosiddetta “pietra”. Una pista, un ragionamento, un semplice indizio. Sta poi al lettore comprendere e approfondire.

Il bisogno di raccontare la realtà attraverso lo strumento del romanzo nasce dalla convinzione che questo Paese abbia da sempre un rapporto perverso con la verità, e di conseguenza tutta la realtà storica sia una nebulosa e raffazzonata ricostruzione di comodo. Una percezione collettiva che distorce totalmente la capacità di interpretare il presente. Defunto il giornalismo d’inchiesta, il romanzo è rimasto uno strumento straordinario per narrare la complessità di una società in perenne trasformazione ma che è incapace di liberarsi della sua natura criminogena.

Uno dei romanzi del ciclo dell’Alligatore che più mi ha colpito è stato “Nessuna cortesia all’uscita”, nel quale il detective si trova a doversela sbrigare con la “liquidazione” della mala del Brenta da parte del capo (riconducibile alla figura di Maniero). Raccontare la storia e i retroscena del pentimento del più importante criminale veneto è una grande lezione di letteratura: con il noir è possibile raccontare la verità, anche scomoda, non solo intrattenere.

La genialità di Maniero è stata comprendere per primo la fine della mala italiana ed è il capo banda che ne è uscito, non solo senza danni, ma con

vantaggi economici non indifferenti. I criminali veneti ora lavorano per le mafie tradizionali o per quelle estere, al massimo sono in grado di mettere in piedi micronuclei dediti alle truffe o allo spaccio.

I romanzi di Carlotto sono dunque basati su una documentazione approfondita e meticolosa, che spesso dura molto di più del tempo di scrittura della storia stessa. Per fare un esempio, il romanzo “Perdas de Fogu” (scritto con il collettivo Mama Sabot e che verte sul poligono militare di Salto di Quirra, in Sardegna), ha richiesto due anni di ricerche e un volume di articoli e di documenti che è arrivato a sfiorare le millecinquecento pagine. Una quantità incredibile di materiale, se si considera che il romanzo supera appena le centosessanta.

Sono sempre alla ricerca di temi che abbiano un senso generale. In particolare mi interessa narrare l’intreccio tra criminalità e classe dirigente e questo mi ha trasformato in un osservatore attento della realtà che usa i

metodi del giornalismo investigativo per raccogliere il materiale utile al romanzo. Una trama nasce sempre da una riflessione precisa basata su dati raccolti sul campo (interviste, sopralluoghi etc.) e dalla sua trasformazione in intreccio romanzesco.

Nel 2000, smessi i panni dell’Alligatore, Carlotto da vita a un personaggio unico nel suo genere: Giorgio Pellegrini. Un pezzo di merda fatto e sputato. Un personaggio repellente che ispira al lettore un senso di disprezzo profondo. Pellegrini, bergamasco, è un ex attivista di sinistra, finito a fare il guerrigliero e che vive ai bordi del grande crimine. E’ un uomo senza scrupoli, pronto anche a vendere sua madre per qualche euro in più. Uccidere, tradire e stuprare non sono certo dei problemi. Se l’Alliga-tore era un personaggio buono, con i suoi difetti ma che comunque rappresentava la sete di giustizia, Pellegrini è il lato oscuro dell’uomo. E qui sta la capacità di Carlotto nel rinnovarsi. Raccontare il “male”, il crimine dall’interno, non come semplice delitto da sbrogliare, bensì come effettivo fil-rouge della vicenda. E l’infiltrazione criminale che si sta propagando a macchia d’olio nel tessuto della società italiana, per una sorta di alleanza con politica e imprenditoria e per la miopia dell’opinione pubblica, abituata a intendere il mafioso come l’uomo con la coppola e la lupara.

Giorgio Pellegrini è nato dalla necessità di entrare in conflitto con i lettori sulla qualità criminale dei personaggi proposti nei romanzi. Troppo spesso romantici e caratterizzati da un’umanità degna di altre esperienze esistenziali. Così ho voluto raccontare la diversità antropologica che ci divide da quel tipo di criminali ed è nato Giorgio Pellegrini, frutto di un attento studio sugli aspetti psicologici di alcuni personaggi reali.

Un’altra differenza tra i romanzi di Carlotto e la tradizione noir italiana è che nella produzione letteraria dell’autore veneto non esiste (o è molto annac-quato) il lieto fine. E’ uno sche-ma consolidato, nel poliziesco italiano in genere, che il roman-zo termini comunque con un

finale consolatorio, dove il crimine viene estirpato e la situazione iniziale ristabilita. Scerbanenco aveva provato a far comprendere che, nonostante tutti gli sforzi possibili, il crimine non si sarebbe potuto vincere, poiché è insito nell’animo dell’uomo. Lo stesso si può dire di Macchiavelli. Ma nei romanzi di Carlotto il finale è un pugno nello stomaco, perché anche se il criminale di turno viene ammazzato o catturato, si capisce benissimo che ce ne sono altri cento pronti a sostituirlo.

Quando la criminalità è vincente ed è riuscita a infiltrarsi in ogni piega della società, nessun finale può essere consolatorio. Io credo che possa esserlo, al contrario, la volontà di conflitto perché la criminalità, nata dalla globalizzazione dell’economia, è una nemica assoluta della democrazia e del progresso. Non si può tollerare ma solo combattere. Ritengo importante una riflessione e cioè che oggi si stanno evidenziando sempre di più le differenze tra le diverse concezioni della letteratura di genere. Comunità di lettori con idee e gusti precisi. Io spero che questo contribuisca al rilancio di un confronto necessario.

E’ dunque obbligatorio, per un appassionato di noir all’italiana, leggere i romanzi di Carlotto. Probabilmente non vi cambieranno la vita (pochi libri possono vantare questa capacità, forse Hemingway, Hesse e Kerouac) ma sono di sicuro divertenti da leggere e vi lasceranno qualcosa dentro. Starà poi a voi farla germogliare oppure no.

BIBLIOGRAFIA

Ciclo dell’Alligatore

• La verità dell’Alligatore • Il mistero di Mangiabarche • Nessuna cortesia all’uscita • Il corriere colombiano • Il maestro di nodi • L’amore del bandito

Ciclo di Giorgio Pellegrini

• Arrivederci amore, ciao • Alla fine di un giorno noioso

Altri scritti

• Il fuggiasco • Le irregolari • L’oscura immensità della morte • Niente, più niente al mondo • con Marco Videtta, Nordest • La terra della mia anima • con Francesco Abate, Mi fido di te • Cristiani di Allah • con i Mama Sabot, Perdas de Fogu • con Francesco Abate, L’albero dei microchip • Respiro corto • Cocaina

Omar Gatti Articoli originariamente pubblicati (in quattro parti) su Noir Italiano. http://noiritaliano.wordpress.com

ARTICOLO – IL CRIMINE PAGA BENE... MA RIDE POCO

C'è una tendenza diffusa, nel genere criminale, ma più nello specifico nel noir, che inizia a starmi davvero stretta.

Qualcuno potrebbe dire: “Problemi tuoi.” Magari è vero, magari no. Vediamo di cosa si tratta. Noto con un certo fastidio, nei romanzi del genere, una pressoché

totale mancanza di ironia. Qualcuno, sempre lo stesso, potrebbe obiettare: “Il noir, l'hard

boiled, il thriller, il giallo, ecc parlano del lato oscuro, non sono mica commedie.”

Ok, è vero. Parlano del lato oscuro. Ma di cosa? Della vita, no? E allora perché non inserire l'analisi - o anche la semplice rappre-sentazione - del lato oscuro, in un contesto più completo, che includa i diversi aspetti della vita e non solo una parte di essi, col rischio di rendere la storia monca e parziale?

E ancora, inizia a starmi molto stretta la tendenza alla narrazione splatter o forzatamente cupa, come se parlare di omicidi e corruzione esigesse la totale mancanza di brio e vitalità.

Qualcuno (che parla troppo, ormai è assodato) potrebbe dire: “Eh, e allora che fai, parli di temi come violenza, corruzione e

quant'altro con il sorriso sulle labbra?” Be’ proprio col sorriso sulle labbra no, ma un minimo di

leggerezza in più, perché no? A parte il fatto che potrebbe essere innovativo, ma poi, mai sentito parlare di satira? Usare l'ironia per evidenziare le storture della società, rendendo al contempo la storia più piacevole?

Non mi riferisco solo all'ironia, attenzione. Qualsiasi approccio naturale e adatto andrebbe bene. Basterebbe evitare questa tendenza all'omogeneizzazione dello stile, principale causa del manierismo nel genere.

Volendo, si potrebbe fare lo stesso discorso anche per altri generi, ma non essendo ferrato in materia evito di avventurarmici.

Tornando al romanzo criminale, per me il punto è questo: è opinione diffusa che le storie del genere siano scritte, oltre che per finalità narrative (raccontare una bella storia) anche per fare denuncia sociale. Perché non farlo in modo più piacevole?

L'unico vero freno, secondo me, nell'adozione di uno stile più leggero sta nella sopravvalutazione del proprio potenziale di denuncia in quanto romanzieri.

Signori miei, prendiamoci meno sul serio... In fondo, sono solo storie stampate su libri, oggetti fruiti da poche persone. Forse, e qui azzardo una teoria spiccia, anche perché spesso poco divertenti e troppo ingabbiati in sindromi pedagogiche.

Aniello Troiano

ARTICOLO - SPALATORI DI NUVOLE

L’aggettivo che ricorre più frequentemente nell’ormai cospicua e variegata letteratura sul “fenomeno Vargas” è atipico.

Che Fred Vargas sia un personaggio alquanto sui generis, del resto, lo dice in primo luogo il suo nom de plume: maschile, latineggiante, dal sapore avventuroso. Frédérique Audouin-Rouzeau, questo il vero nome della regina del noir d’oltralpe, lo ha adottato in omaggio alla sorella gemella Joëlle, pittrice contemporanea meglio conosciuta come Jo Vargas (Vargas, a proposito di scelte atipiche, è il cognome del personaggio interpretato da Ava Gardner nel film La contessa scalza). Ricercatrice di archeozoologia presso il Centro Nazionale Francese per le Ricerche Scientifiche (C.N.R.S.) ed esperta in medievistica, Fred Vargas si è occupata a lungo dei meccanismi di trasmissione della peste – la Morte Nera, sì, avete capito bene – dagli animali all’uomo; altra scelta singolare ma di sicura rilevanza ove si consideri che, come ha avuto modo di ricordare la stessa scrittrice in un’intervista rilasciata qualche tempo fa, “per mille anni nessuno ha messo in dubbio che la peste fosse stata inviata sulla terra da Dio per punire i nostri peccati”. Come a dire: ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio…

I romanzi della Vargas, che hanno costituito (e tuttora costituiscono) un elemento di assoluta originalità nel panorama letterario poliziesco moderno, sono figli di questo vissuto, rispecchiano fedelmente il particolare background culturale dell’autrice. Atipici nello stile: lirico, musicale, evocativo (e divertente, in barba alla scarsa propensione alla sperimentazione linguistica che ha contraddistinto la narrativa noir degli ultimi anni). In una parola: unico. Atipici, persino, nella gestazione: si narra (verità?, leggenda editoriale?) che la loro stesura venga completata in soli ventun giorni.

Atipiche sono poi le storie che racconta, cupe e misteriose ma sempre velate d’ironia. La Vargas attinge a piene mani da miti e leggende popolari e mette a frutto le conoscenze che le derivano dalla sua professione per costruire trame avvincenti che superano i cliché più sfruttati del genere senza tradire, tuttavia, lo spirito del giallo tradizionale. Atipici, infine – poteva essere altrimenti? – i personaggi, che costituiscono, a mio parere, il segreto del successo della noirista francese.

I lettori, si sa, e gli appassionati di narrativa criminale in particolare, amano i personaggi seriali; la Vargas ne fa largo uso, tanto da aver dato vita a due filoni letterari ben distinti: il cosiddetto “ciclo Adamsberg”, che ruota intorno allo stravagante commissario del XIII arrondissement parigino e al suo altrettanto stravagante entourage, e la bizzarra serie degli “evangelisti”, incentrata sulle peripezie di tre giovani storici disoccupati e perennemente al verde.

Il ciclo Adamsberg

- Risolvi i casi spalando nuvole? - In un certo senso, - disse Adamsberg con un sorriso.

(F. Vargas: Sotto i venti di Nettuno, Einaudi, 2005) Svagato, contemplativo, sognatore: il commissario Jean-Baptiste

Adamsberg, poliziotto di spicco dell’Anticrimine parigina, assesta un colpo durissimo al mito dell’investigatore onnisciente e iperrazionale à la Hercule Poirot. Lento, lunare, quasi evanescente, Adamsberg rifiuta con trasognata noncuranza l’impiego dell’analisi logico-deduttiva ed è

refrattario ai ragionamenti troppo complessi: spala nuvole, vagheggia, si perde in lunghe e confuse passeggiate e finisce immancabilmente – anche grazie a un formidabile intuito e a doti empatiche fuori dal comune – con l’inciampare nella verità. “Doveva camminare, guardare, contemplare. Senza peraltro approfittarne per riflettere in modo coerente. Formulare un problema per trovare una soluzione era un procedimento diretto a cui aveva rinunciato da tempo. In lui, le azioni precedevano i pensieri, e mai il contrario.” (F. Vargas: Salute e libertà, in Scorre la Senna, Einaudi, 2009).

Anche il suo aspetto esteriore sembra riflettere la sua personalità: “sì, era bello, eppure nessuno dei suoi tratti preso separatamente avrebbe fatto pensare a un risultato simile. Nessuna regolarità, nessuna armonia e nulla d’imponente. Una perfetta impressione di disordine, ma di un disordine he produceva un caos affascinante, sontuoso a volte, quando s’infervorava.” (F. Vargas: Parti in fretta e non tornare, Einaudi, 2004).

La razionalità e le capacità di analisi che mancano al commissario sono tutte concentrate in un'altra figura a dir poco formidabile: il capitano Adrien Danglard, vice di Adamsberg. Bruttino (“poco favorito dalla natura – per dirla con parole sue – … faceva assegnamento su un’eleganza impeccabile per compensare i lineamenti senza struttura e le spalle cascanti, e per conferire un vago fascino inglese al suo corpo molle” – F. Vargas: Sotto i venti di Nettuno, cit.), coltissimo (“quando non sai qualcosa, devi chiedere a Danglard” suole ripetere, come se fosse un mantra, il commissario), è convinto che le uniche idee apprezzabili siano quelle scaturite dalla ponderazione e diffida di qualsiasi forma di intuizione informe. “Amante della carta in tutte le sue forme, dalle più nobili alle più umili – fascicoli, libri, rotoli, fogli, dall’incunabolo alla carta da cucina – , era … un tipo concentrato che pensava standosene fermo, un ansioso dal fisico molle che scriveva bevendo e che, con il solo aiuto della sua inerzia, della sua birra, della sua matita mordicchiata e della sua curiosità un po’ fiacca, produceva idee

schierate in assetto di marcia, di un genere del tutto diverso dalle sue”, che somigliavano piuttosto ad “ammassi di alghe” (F. Vargas: Parti in fretta e non tornare, cit.).

Completa la triade Violette Retancourt, personaggio che, al pari del capitano Danglard, compensa l’immaterialità di Adamsberg con la sua dirompente fisicità. A dispetto del nome di battesimo, che evoca romantici effluvi floreali, il tenente Retancourt è quel che si dice una femme formidable. Ecco come la descrive la sua creatrice in Sotto i venti di Nessuno (romanzo di cui Violette è protagonista ed eroina indiscussa): “donna impressionante, trentacinque anni, un metro e settantanove per centodieci chili, tanto intelligente quanto forte, e capace, come aveva spiegato lei stessa, di trasformare l’energia a proprio piacimento. E in effetti la

varietà di mezzi di cui Retancourt aveva dato prova … , con una forza d’urto sbalorditiva, aveva fatto del tenente uno dei pilastri dell’edificio, la macchina da guerra polivalente dell’Anticrimine, adatta a ogni frangente, celebrale, tattico, amministrativo, combattimento, tiro di precisione”.

La regina del noir d’oltralpe non si fa mancare neppure il triangolo amoroso (che si consuma tra lo svagato commissario, la sua eterna “non-fidanzata” Camille e il tenebroso tenente Veyrenc dai capelli rossi e bruni e l’eloquio in versi); cliché dei clichés, si dirà, ma il multiforme ingegno della Vargas lo rielabora con grande originalità, rendendolo appetibile anche per i lettori più esigenti. Triangolo aperto, fluido – e atipico, ça va sans dire – , perché a ben guardare le spalano un po’ tutti, le nuvole, nell’universo scaturito dalla penna di Fred Vargas.

Perfino l’irresistibile mascotte del commissariato, l’abulico gatto Palla, sembra coltivare un legame assai peculiare con il mondo che lo circonda e con la specie umana: “… era l’incarnazione stessa della dipendenza e del sonno permanente… . Agli antipodi dell’animale totem di

una squadra di poliziotti … Palla passava gran parte della giornata sdraiato sul coperchio tiepido di una delle fotocopiatrici, che non si poteva più utilizzare per non infliggere alla bestia uno choc mortale” (F. Vargas: Nei boschi eterni, Einaudi, 2007).

La serie degli evangelisti

L’ordine cronologico prima di tutto: al piano terra l’ignoto, il

mistero originale, il disordine generale, il magma primordiale, insomma le stanze comuni. Al primo piano, vago superamento dei caos, qualche modesto tentativo, l’uomo nudo si raddrizza in silenzio, insomma, tu, Mathias. Risalendo la scala del tempo … , scavalcata l’antichità, l’agevole ingresso nel glorioso secondo millennio, i contrasti, gli ardimenti e gli stenti medievali, insomma, io al secondo piano. Dopodiché, al piano superiore, il degrado, la decadenza, il contemporaneo. Insomma, lui, - proseguì Marc scuotendo Lucien per un braccio, - lui, al terzo piano, che con la sua vergognosa Grande Guerra chiude la stratigrafia della Storia e della Scala. Ancora più su il padrino, che in un modo tutto suo porta avanti lo scardinamento del presente.

(F. Vargas: Chi è morto alzi la mano, Einaudi, 2002)

Mathias “San Matteo” Delamarre (archeologo specializzato

nella preistoria), Marc “San Marco” Vandoosler (medievista) e Lucien “San Luca” Devernois (storico della Grande Guerra) condividono miserie e speranze nell’angusta “topaia” parigina di rue Chasle. Poveri in canna e dotati di un talento tutto speciale per le investigazioni, i tre sono legati alle rispettive materie di studio al punto da esserne condizionati nei comportamenti quotidiani… persino, come si evince dal brano citato, nella razionalizzazione degli spazi di casa!

Il solaio della stamberga è temporaneamente riservato a Vandoosler “il Vecchio”: padrino di Marc, ex poliziotto corrotto che “con la giustizia e con la vita si prende le sue libertà”, Vandoosler guida e protegge i tre “evangelisti”, poco avvezzi alle insidie del mondo del crimine. Si tratta di un personaggio di grande fascino, così descritto dal nipote Marc nel romanzo che dà il via all’epopea dei tre storici

investigatori per caso: “qualunque posto non goda della sua presenza gli sembra un luogo desolato che gli tende le braccia. Dopo quarant’anni di onnipresenza, non sa più bene a che punto si trova, e nessuno lo sa. In realtà è un conglomerato di migliaia di padrini concentrati in uno. Parla normalmente, cammina, fa la spesa, ma se vai a rovistare non sai mai cosa salterà fuori. Un fabbro, un grande sbirro, un traditore, un robivecchi, un creatore, un salvatore, un distruttore, un marinaio, un pioniere, un barbone, un assassino, un protettore, un poltrone, un principe, un dilettante, un fanatico, insomma, tutto quello che vuoi” (F. Vargas: Chi è morto alzi la mano, cit.). Si uniranno poi alla sgangherata “famiglia” di rue Chasle una prostituta dal cuore d’oro, il poliziotto in disarmo Louis Kelweihler soprannominato “Il Tedesco” e un adorabile rospo di nome Bufo.

Spalatori di nuvole anch’essi, a ben vedere, aggrappati al sogno più che al mondo reale. Vien da pensare che spali nuvole a volontà anche la loro creatrice: voce perennemente fuori dal coro, noirista ancorata alla tradizione del poliziesco continentale ma dispostissima a sacrificare una trama gialla a orologeria se minacciasse di compromettere la musicalità del linguaggio.

D’altro canto la signora lo ha messo in chiaro sin dall’inizio: “il poliziesco è una specie di favola, ironica o tragica o cerebrale”. E negli ultimi due decenni ce ne ha regalate parecchie, di favole: tragiche,

talvolta celebrali, sempre narrate sul filo dell’ironia: sette romanzi – L’uomo dei cerchi azzurri (1991), L’uomo a rovescio (1999), Parti in fretta e non tornare (2001), Sotto i venti di Nettuno (2004), Nei boschi eterni (2006), Un luogo incerto (2008) e La cavalcata dei morti (2011) – e un trittico di racconti (Scorre la Senna, 2002) del ciclo Adamsberg, e tre romanzi dedicati alle avventure degli evangelisti – Chi è morto alzi la mano (1995, recensito in questo numero), Un po’ più in là sulla destra (1996) e Io sono il Tenebroso (1997) – che Einaudi ha riunito

nella silloge I tre evangelisti (2010). Nel 2012 Einaudi

ha inoltre pubblicato, nei Super ET, la uniform edition comprendente I casi dei tre evangelisti e I casi del commissario Adamsberg.

Una curiosità: i due filoni s’incontrano in Parti in fretta e non tornare, romanzo nerissimo e d’impatto cinematografico nel quale Adamsberg si vede costretto a fronteggiare, tra simboli misteriosi dipinti sulle porte delle case e incomprensibili missive, lo spettro del Medioevo e della Morte Nera… ovvero le principali materie di studio della sua inventrice. Ed ecco che il cerchio – atipicamente? – si chiude.

Simona Tassara

http://unostudioingiallo.blogspot.it

Mi sono chiesto per molto tempo quali fossero i cliché del genere, non dico gli archetipi inevitabili, ma appunto le situazioni da evitare; e ancora, quali figure poco sfruttate vi fossero nel genere, e come fare per evitare di scrivere un romanzo già sentito. Non sapendo dare risposte a queste domande, ho deciso di chiederne ad alcuni nomi grossi del romanzo criminale italiano.

Ecco le risposte.

LORIANO MACCHIAVELLI - Secondo lei, quali sono i cliché del genere? O comunque,

quali sono gli elementi da evitare? Se ci riferiamo all’intera

storia del genere, i cliché sono di una quantità che ci vor-rebbero pagine e pagine per ricordarli tutti. Mi occupo dei cliché del giallo (o noir) e comincio dal maggiordomo. Poveretto, non ha fatto male a una mosca ed è diventato, per un certo periodo storico let-terario, l’immagine classica del delinquente più incallito. Solamente perché una volta, in un romanzo, si è presentato bene, molti scrittori se ne sono impossessati e lo hanno sfruttato. Per curiosità, si trattava di un romanzo del 1878, Il mistero delle due cugine, di Anna Katarine Gree. In quella storia appariva un personaggio che era destinato a inondare i romanzi gialli del periodo, tanto da diventare un classico: il maggiordomo. Esso maggiordomo, camminava lungo corridoi in penombra con aria furtiva

e senza farsi sentire; serviva porto con un inchino sinistro e apriva le porte con inquietante aplomb.

Altro topos: il capo della polizia stupido e presuntuoso che, alla fine, farà la figura del coglione; poi il protagonista e lo sfigato che gli fa da spalla solo perché l’autore possa spiegare al lettore come sono andate le cose; poi la cucina. Quante ricette di cucina sono passate fra le pagine dei romanzi di genere.

Ancora: l’eredità, un parente lontano appare improvvisamente, i meandri della psiche, una lettera misteriosa che spiega tutto, un diario … Insomma, come si diceva una volta, chi più ne ha, più ne metta. E, vi assicuro: ne hanno messo.

Adesso va di moda il poliziotto (o comunque chi indaga) gay. Chi fra noi scrittori (del passato e del presente) non è caduto nei

cliché? Ma, attenzione: si possono usare tutti i cliché che si vuole. Basta

farlo con intelligenza. Cosa piuttosto difficile. - Lei crede che ci siano figure ancora poco sfruttate nel

macro genere "criminale"? Ce ne sono sì. Il genere vive di nuovi personaggi e nuove

situazioni. Si tratta di trovare gli uni e le altre. Non mi chieda quali: quando lo saprò, li userò io.

- Quali sono, a suo parere, le premesse per la scrittura di

un romanzo che non risulti "già sentito"? Potrei rispondere come sopra. se lo sapessi, eccetera. Ma poiché

la cosa è piuttosto importante per la sopravvivenza del genere, ci ho riflettuto a lungo e posso riportare quanto credo di aver capito.

La premessa: è difficile che si possa scrivere di cose non ancora scritte.

Allora? Allora scriviamo ciò che altri hanno scritto, ma facciamolo con il nostro linguaggio, con la nostra cultura e collochiamo gli avvenimenti nei nostri tempi. Anche se la storia è situata in altri tempi. Il che non significa che dobbiamo riportare tutto a noi. Significa che possiamo scrivere di altri tempi utilizzando le esperienze che ci

appartengono, che sono proprie della nostra epoca. La nostra esperienza non sarà mai la stessa di altri scrittori. Approfittiamone per essere unici.

Il difficile è riuscirci.

MASSIMO CARLOTTO

- Secondo lei, quali sono i

cliché del genere? O comunque, quali sono gli elementi da evitare?

Non credo vi siano elementi da evitare a priori, perché è il contesto a renderli cliché.

- Lei crede che ci siano figure

ancora poco sfruttate nel macrogenere "criminale"?

Non saprei, non vorrei citare una

figura a mio parere poco sfruttata e poi ritrovarla in romanzi scritti da altri autori...

- Quali sono, a suo parere, le

premesse per la scrittura di un romanzo che non risulti "già sentito"?

Per non scrivere un romanzo già letto, visto e sentito il segreto è

immergerlo in una realtà credibile.

MAURIZIO DE GIOVANNI

- Secondo lei, quali sono i cliché del genere? O comunque, quali sono gli elementi da evitare?

Premessa necessaria: io non credo nel genere. Ovviamente un

crimine, e le indagini che ne derivano, sono un territorio narrativo particolarissimo, ma l'ambiente, la natura dei personaggi, la struttura del romanzo lasciano una libertà così ampia da proporre una diversità assoluta. Credo che l'unica cosa da evitare, nel romanzo nero come nella narrativa in genere, sia un atteggiamento manicheo. Il buono non è mai completamente buono, il cattivo assoluto non esiste.

- Lei crede che ci siano figure ancora poco sfruttate nel

macrogenere "criminale"? Più che le figure, credo non siano completamente indagati i

sentimenti. Quando un narratore fa lo sforzo di "spostarsi" all'interno dei personaggi, anche quelli minori, costruisce storie ampie e ricche, di maggiore spessore. Ritengo sia un esercizio fondamentale, poco percorso soprattutto da una narrativa che ritiene di dover essere violenta e dura per sembrare più realistica. Non credo sia così.

- Quali sono, a suo parere, le premesse per la scrittura di

un romanzo che non risulti "già sentito"? Una vera, profonda passione per l'indagine psicologica. Il lettore

riconosce se stesso e le persone che lo circondano nei personaggi di un romanzo solo se chi scrive ha una vera attenzione alla diversità delle anime.

GRAZIA VERASANI - Secondo lei, quali sono i cliché del genere? O comunque,

quali sono gli elementi da evitare? Be', non basta fare il contrario di

ciò che i classici di genere ci hanno "insegnato". Faccio un esempio. Philip Marlowe è un detective inquieto, la-cerato, che beve, guarda gli altri attraverso uno schermo di diffidenza, di romanticismo rinunciatario, è la sua umanità, sono le sue difficoltà emotive ad affascinarci. Scegliere come detec-tive un uomo (o una donna) comple-tamente diverso non è per forza di cose sinonimo di originalità.

Insomma, il rischio del cliché, esiste in entrambi i casi. Trovo fastidioso il detective che coltiva vizi con un atteg-giamento imitativo e di superficie, senza che la sua "parte oscura" ci convinca, ma trovo altrettanto irritante il detective "normale" che va fiero della propria normalità solo per essere in controtendenza e risultando invece piatto e noioso. Poi non sopporto l'umorismo retorico, la

battuta da caserma, l'abuso di ruoli femminili relegati allo standard della dark lady, la descrizione prolissa e iper dettagliata degli elementi tecnici (autopsie, condizione del cadavere, burocrazie d'indagine), l'assenza di uno sfondo-mondo, di una realtà testimoniata, osservata, e anche l'assenza del profilo psicologico dei personaggi a favore della trama poliziesca.

- Lei crede che ci siano figure ancora poco sfruttate nel

macrogenere "criminale"? Credo che l'umanità sia varia e vari i modi di descriverla. Ci

troviamo però ad affrontare una nuova dimensione, che non è più quella di una separazione netta tra bene e male, ma la sua inevitabile e ambigua commistione.

- Quali sono, a suo parere, le premesse per la scrittura di

un romanzo che non risulti "già sentito"? Le premesse sono scegliere questo genere perché ci piace, perché

abbiamo voglia di indagare la realtà, di essere scrittori dentro il mondo e non solo dentro di noi, perché abbiamo storie e personaggi che crediamo meritino un ascolto e c'è una visione delle cose che vogliamo comunicare. La prima cosa è sapere scrivere bene, avere una voce propria, una personalità distinguibile, e la seconda è avere qualcosa da dire che possa interessare non solo noi stessi. Ogni scrittore può dire cose che sono già state dette, ma lo fa a modo proprio, e quindi può aggiungere elementi nuovi, altri punti di vista, spunti e chiavi di lettura. Possiamo scrivere mille romanzi d'amore differenti. Il "già sentito" avviene quando ripetiamo quello che ha già detto qualcun altro nello stesso modo. Insomma, secondo me, è la personalità dell'autore a fare il romanzo.

BRUNO MORCHIO - Secondo lei, quali sono i cliché del genere? O comunque,

quali sono gli elementi da evitare? Attardarsi sul meccanismo enigmistico e offrire una soluzione

tranquillizzante e consolatoria; evitare i serial killer come la peste. - Lei crede che ci siano figure ancora poco sfruttate nel

macrogenere "criminale"? Figure non saprei, credo che un serio lavoro sui personaggi,

l'attenzione alla ricostruzione della vita di vittime e assassini sia un punto qualificante di un buon giallo.

- Quali sono, a suo parere, le premesse per la scrittura di

un romanzo che non risulti "già sentito"? Rendere le atmosfere, gli odori, le tensioni di ambienti reali,

spaccati di società, offre la possibilità di scrivere opere sempre nuove, non banali né scontate. In due parole: per scrivere un buon giallo bisogna saper fare della buona letteratura.

MARGHERITA OGGERO

- Secondo lei, quali sono i cliché del genere? O comunque, quali sono gli elementi da evitare?

Se per cliché si intendono gli

elementi imprescindibili in una crime-story direi che sono questi:

un delitto (meglio se di sangue), la ricerca di chi l’ha commesso, l’individuazione del medesimo. Le caratteristiche psicologiche del cri-minale e di chi indaga nonché le motivazioni del crimine sono ele-menti quasi sempre presenti, ma hanno un rilievo più o meno notevole e possono essere anche solo

accennati. Cliché negativi, cioè gli elementi da evitare: il criminale che esce

solo alla fine come il coniglio dal cappello del prestigiatore, le descrizioni paesistiche troppo lunghe (a meno che non risultino indispensabili nello sviluppo della storia), la presenza di riflessioni filosofiche/escatologiche (chi siamo, dove andiamo ecc, sempre che non sia implicato un filosofo nel plot), l’inserzione di scene hard come riempitivo o specchietto per i gonzi, i paragoni e le espressioni troppo logore (piangere come una fontana, bionda mozzafiato…)

- Lei crede che ci siano figure ancora poco sfruttate nel

macro genere "criminale"? Nel campo degli investigatori professionali: guardia di finanza,

sommozzatori, vigili del fuoco, vigili urbani. Tra gli investigatori dilettanti: infermieri, veterinari, portinai o

uscieri, archivisti.

- Quali sono, a suo parere, le premesse per la scrittura di un romanzo che non risulti "già sentito"?

Un intreccio ben congegnato, un crimine con un risvolto sociale,

protagonisti credibili, una certa leggerezza di scrittura che eviti lo splatter.

Intervista a cura di Aniello Troiano,

con la collaborazione di Omar Gatti.

P.D. James: Morte a Pemberley Editore: Mondadori Collana: Omnibus 2013 348 pagine, € 18,50 In libreria dal 22 gennaio 2013

Profonda estimatrice di Jane Austen, P.D.

James sceglie di confrontarsi con la sua opera più nota, Orgoglio e pregiudizio, rivisitandola con originalità e rispetto e conferendole il suo tocco inconfondibile con una sorprendente trama gialla.

Inghilterra, 1803. Sono passati sei anni da

quando Elizabeth e Darcy hanno iniziato la loro vita insieme nella splendida tenuta di Pemberley. Elizabeth è felice del suo ruolo di padrona di casa ed è madre di due bellissimi bambini. La sorella maggiore Jane, cui lei è legatissima, vive nelle vicinanze insieme al marito Charles, vecchio amico di Darcy, e il suo adorato padre, Mr Bennet, va spesso a farle visita.

Ma in una fredda e piovosa serata d'ottobre, mentre fervono gli ultimi preparativi per il grande ballo d'autunno che si terrà il giorno successivo, l'universo tranquillo e ordinato di Pemberley viene scosso all'improvviso dalla comparsa di Lydia, la sorella minore di Elizabeth e Jane. In preda a una crisi isterica la giovane donna urla che suo marito, l'ambiguo e disonesto Wickham, non gradito a Pemberley per la sua condotta immorale, è appena stato ucciso proprio lì, nel bosco della tenuta.

Di colpo, l'ombra pesante e cupa del delitto offusca l'eleganza e l'armonia di Pemberley, e i protagonisti si ritrovano loro malgrado coinvolti in una vicenda dai contorni drammatici.

Grande conoscitrice delle ambiguità dell'animo umano, P.D. James con Morte a Pemberley firma un romanzo giallo di grande atmosfera, regalando una seconda vita agli indimenticabili personaggi di uno dei classici più amati della letteratura.

Patricia Cornwell: Letto di ossa Editore: Mondadori Collana: Omnibus 2013 280 pagine, € 20,00 In libreria dal 28 febbraio 2013

Alberta, Canada. Quando Emma Shubert, una famosa paleontologa, sparisce durante gli scavi in un cimitero di dinosauri, l'unico indizio utile per ritrovarla viene spedito dall'aeroporto di Boston alla casella di posta elettronica di Kay Scarpetta, direttrice del Cambridge Forensic Center, a più di tremila chilometri di distanza. Il giorno seguente nella baia di Boston viene ripescato il cadavere mummificato di una donna di mezza età insieme a una rara specie di tartaruga marina, rimasta impigliata nella rete. Coinvolta nel caso, mentre le indagini partono a ritmo incalzante, Kay comincia a sospettare da alcuni particolari che la scomparsa della paleontologa sia collegata non solo a questo evento, ma anche ad altri verificatisi molto più vicino a casa. La moglie di un imprenditore accusato di aver assoldato un killer per ucciderla è svanita nel nulla qualche mese prima dalla sua villa sull'oceano a Gloucester e una cinquantenne dal tragico passato, che vive da sola a Cambridge con la sua gatta, da tempo non dà più notizie di sé. Qual è la connessione tra questi fatti? Cosa si nasconde dietro a tutto ciò? E di chi si può fidare Kay Scarpetta per risolvere un caso così intricato? I suoi più stretti collaboratori hanno con lei un atteggiamento sfuggente: il marito Benton Wesley, l'investigatore capo Pete Marino e la nipote Lucy le nascondono forse qualcosa? Sentendosi tradita e abbandonata, questa volta Kay teme di essere davvero sola ad affrontare un nemico scaltro e pericoloso che sembra impossibile da sconfiggere.

Letto di ossa è il ventesimo romanzo della serie incentrata sullo straordinario personaggio di Kay Scarpetta. Imperdibile per tutti i fan di Patricia Cornwell, è anche un ideale punto di partenza per chi voglia iniziare a seguire le appassionanti vicende dell'anatomopatologa più famosa del mondo.

Alicia Giménez-Bartlett: Gli onori di casa Editore: Sellerio - La memoria n. 912 528 pagine Prezzo di copertina: € 15,00 Ebook (epub): € 9,99

Petra e Fermín in trasferta a Roma. È stata riaperta una vecchia indagine le cui tracce portano proprio in Italia: l’omicidio dell’affermato imprenditore tessile Adolfo Siguán. Ai tempi, la sentenza era stata sbrigativa, ma ai due investigatori basta togliere un poco di polvere dalle vecchie carte per rendersi conto di alcune incongruenze. E come sempre l’ispettrice Delicado e il suo vice si muovono con intelligenza e ironia e giocare fuori casa dà alla coppia, conquistata dalla vacanza romana, una marcia in più.

L’omicidio del signor Siguán è quello che Petra Delicado chiama

con fastidio un «caso freddo». Cinque anni prima, l’affermato imprenditore tessile Adolfo Siguán era stato ucciso nell’appartamentino dove celebrava il suo vizio: le giovanissime prostitute, preferibilmente prese dal marciapiede. Ai tempi, la sentenza era stata sbrigativa: rapina con morto ad opera del protettore della prostituta con la complicità di lei. Ma, adesso, quando l’ispettrice della Policía Nacional con il suo vice Fermín Garzón, riaccende con scetticismo la macchina investigativa, le basta togliere un poco di polvere dalle vecchie carte per rendersi conto di alcune incongruenze. Soprattutto, resta enigmatico l’assassinio dell’assassino.

All’inizio Petra e Fermín, battono pigri le piste consuete. Ma un incidente, cruento e spietato, fa capire che c’è qualcuno che segue Petra. E questo qualcuno squarcia improvvisamente lo scenario, legando il delitto all’intricato registro degli affari di Siguán che si scoprono connessi alla criminalità italiana trapiantata nella capitale catalana. È quindi a Roma che prosegue la partita. Ed è in questa specie di Vacanze romane, omaggio dell’autrice a un paese che ama, che tutta

la forza comica tipica dei gialli della Giménez-Bartlett, si dispiega. Le sue storie, senza essere tinte di altro colore che non sia il noir, senza attenuare malinconie e frustrazioni dei personaggi, riescono a scatenare umori leggiadri di commedia. Un umore che sprigiona dalle galanterie, dalle cene, dalle passeggiate, dalle piazze, dalla complessità di sentimenti e di intelletto dei personaggi italiani, e soprattutto dal comico impazzimento che prende un provinciale di Salamanca per la prima volta a Roma. Gli onori di casa segue una trama insinuante inattesa e sinuosa. Le molte curve dell’intreccio sono riempite e rese frizzanti e vive. Per farlo il genio narrativo dell’autrice impugna le sue armi migliori. In primo luogo i dialoghi da commedia brillante. Secondo, i ripetuti, abilissimi cambiamenti d’ambiente, diversi per geografia o ceto, destinati a offrire lo spaccato sociale. La soluzione è probabilmente la verità più celata della serie di Petra Delicado, la dolce e dura della Policía Nacional di Barcellona, e di Fermín Garzón, il ruvido e tenero suo Watson, o forse meglio: il suo Sancho Panza.

Manuel Vàzquez Montalbàn: La bella di Buenos Aires

Editore: Feltrinelli Collana: I narratori Anno di pubblicazione: 2013 ISBN 9788807019388 156 pagine

Una ragazza bonae-rense bellissima, destinata a diventare l'Emmanuelle argentina, fugge in Spagna inseguita dai militari. Anni dopo, il cadavere di una barbona assassinata viene ritrovato a Barcellona. Carvalho, insieme al fidato Biscuter, dovrà chiarire inquietanti misteri che

coinvolgono il giudice Garzón, l'ispettore-semiologo Lifante, tutta una serie di emarginati e un nucleo di alleanze segrete tra diversi stati. La Barcellona crepuscolare del Barrio Chino sta ormai diventando la città del design mentre, un po' dappertutto, nuovi cadaveri spuntano come funghi velenosi. E, sempre presente, il tango.

A dieci anni dalla sua scomparsa, torna Manuel Vázquez Montalbán con un romanzo inedito della serie Carvalho, quasi un prologo al Quintetto di Buenos Aires, ritroviamo qui personaggi, stile e temi ricorrenti nell'opera di Manuel Vázquez Montalbán, come la buona cucina, la figura di Pepe antieroe sexy, o il Biscuter consigliere-intellettuale-modernizzatore.

Håkan Nesser: la rondine, il gatto, la rosa, la morte Editore: Guanda Collana: Narratori della Fenice 522 pagine Prezzo di copertine: € 19,50 Traduzione di Carmen Giorgetti Cima In libreria dal 31 gennaio 2013

Martina e Monica Kammerle , madre e f ig l ia , condividono uno squall ido apparta-mento e un enigmatico amante , loro uni-co legame con i l mondo esterno. Martina,

affetta da sindrome bipolare , ha creato i l deserto intorno a sé con i suoi imprevedibi l i sbalz i d’umore; Monica, insegui-ta ovunque dalle dicerie sui comportamenti bizzarri del la madre, fat ica a stabil ire legami con gl i altri adolescenti.

E così, quando le due scompaiono, i poliz iott i della

squadra omicidi s i r itrovano a brancolare nel buio, senza i l minimo appig l io. Nessun indizio, nessuna pista concreta. Nessuno, nemmeno tra i vic ini e i famigliari , che sembri davvero sapere qualcosa delle due donne. Anche i l loro am-ante non è altro che un’immagine sfocata impossibile da id-enti f icare .

E così , ancora una volta , l ’ex commissario Van Veeteren

sarà costretto a lasciare la l ibreria antiquaria in cui lavora per venire in soccorso a ll ’a ffascinante Ewa Moreno, al la neo arrivata Irene Sammelmerk e agli altr i suoi colleghi , in-gaggiando una sf ida a distanza con l ’assassino. A spingerlo è i l r imorso per essersi lasciato sfuggire l ’unico potenzia le testimone del caso, ma anche la certezza che ogni crimina-le , perf ino i l più attento a non lasciare tracce, ha i propri punti deboli : un vezzo traditore , un’esitazione fatale , un minuscolo dettaglio riemerso dal passato.

John Grisham: L’ex avvocato Editore: Mondadori Collana: Omnibus 2013 372 pagine , € 20,00 In l ibreria dal 2 gennaio 2013

Chi è Malcolm Bannister? E cosa ha a che fare con la morte del giudice Fawcett? Quando un lunedì mattina il giudice non si presenta a un processo, i suoi collaboratori, preoccupati, chiamano l'FBI. Il corpo viene ritrovato nel seminterrato del suo cottage sul lago insieme a quello della giovane segretaria. La cassaforte aperta e svuotata. Nessuna impronta, nessun segno di scasso né di colluttazione, tranne piccole bruciature sul cadavere della donna. Solo Malcolm Bannister sa chi è stato e cosa è realmente successo. Apprezzato avvocato di colore, anzi, ex avvocato radiato dall'albo della Virginia perché coinvolto in una vicenda di riciclaggio di denaro, è attualmente detenuto nel Federal Prison Camp, nel Maryland, dove dispensa consigli legali ai compagni. Ha già scontato metà della sua condanna, ma vuole a tutti i costi uscire il prima possibile, e ora sa come fare: la sua libertà in cambio del nome del colpevole. Non avendo alcuna pista da seguire, l'FBI è interessato ad ascoltare le sue rivelazioni, anche perché Bannister sembra essere informato su molte altre cose, per esempio sul contenuto della cassaforte. Ma tutto ha un prezzo, soprattutto notizie così scottanti come quelle relative agli eventi che hanno portato alla morte del giudice Fawcett. Bannister è deciso a giocare le sue carte fino in fondo, e non è certo nato ieri. Ma niente è come sembra: i ruoli si capovolgono, gli scenari si alternano, in una sfida in cui ogni mossa è studiata nel minimo dettaglio. Come è stato ben definito dal "New York Times", L'ex avvocato è un romanzo trascinante, sorprendente e ingegnoso che appassiona il lettore fino all'ultimo colpo di scena confermando John Grisham grande scrittore e maestro indiscusso del legal thriller.

James Patterson: Il segno del male Editore: Longanesi Collana: La Gaja Scienza 288 pagine, € 16,40 In libreria dal 10 gennaio 2013

Alex Cross sta festeggiando il suo compleanno circondato dalle persone più care - i figli, la com-pagna, il migliore amico - quando una telefonata dal dipartimento di polizia di Washington gli comu-nica che c'è stato un brutale omi-cidio. La vittima aveva poco più di vent'anni. Ed è sua nipote, Caro-line.

Incredulo e profondamente scosso, Cross inizia a indagare sull'accaduto scoprendo presto cose che non avrebbe mai voluto sapere sul conto della figlia di suo fratello: Caroline era coinvolta in un giro di escort e si prostituiva

in un club frequentato dagli uomini più facoltosi della Virginia. Uomini potenti e con molti segreti da proteggere. Nel frattempo, alla Casa Bianca comincia a circolare il nome di "Zeus" in relazione ad alcuni casi di sparizioni di giovani donne, e diversi indizi sembrano collegare quel nome anche all'omicidio di Caroline.

Ma non tutti vogliono che la verità venga a galla. Cross si ritrova, suo malgrado, a dover fare i conti con il mondo di

Caroline, fatto di individui perversi e squallide prestazioni sessuali. Un girone infernale che rischierà di inghiottirlo...

Paolo Roversi: L’ira funesta

Editore: Rizzoli 324 pagine, € 17,00

A volte basta un niente per sconvolgere la vita di una placida cittadina di provincia. Basta, per esempio, che l’unico farmacista, corso in ospedale dove sta per nascere il suo primo figlio, debba tenere chiuso il negozio: niente medicine per gli anziani e, soprattutto, niente medicine per il Gaggina, un colosso di centotrenta chili con il carattere dell’attaccabrighe di professione. Quel giorno, senza i suoi tranquillanti, non riesce a tenere a bada la propria ira: in sella a un motorino scassato tenta di assaltare la stazione dei carabinieri, irrompe nel bar della locale polisportiva, picchia un vigile che vuole fargli la multa, per poi barricarsi in casa minacciando con una katana da samurai chiunque si avvicini. Al Piccola Russia – così viene chiamato il borgo, dove le strade hanno tutte nomi di “compagni” e la giunta è monocolore dal 1948 – si scatena il consueto passaparola. «L’ennesima follia del Gaggina, state tranquilli, non farebbe male a una mosca» assicura qualcuno. Ma quando il corpo del vecchio Giuanìn Penna, appena tornato dall’America dopo trent’anni di assenza, viene trovato tra i campi, trafitto proprio da una spada, la situazione prende una brutta piega. A sbrogliare la matassa sarà chiamato il maresciallo Omar Valdes, alias “tenente Siluro”, un militare tormentato e dal passato oscuro, in un’indagine ricca di sorprese e di una travolgente ironia.

Attraverso le astuzie e le ingenuità di una piccola folla di personaggi memorabili, L’ira funesta racconta l’anima della provincia italiana, l’apparente semplicità della vita di paese, dove le chiacchiere intorno al tavolo di un bar possono diventare, tra un bicchiere di Lambrusco e quattro risate, una fenomenale chiave d’indagine.

Karin Slaughter: Tra due fuochi Editore: Time Crime 146 pagine, € 16,90 In libreria dal 17 gennaio 2013

‘Voglio farla finita’. È il tragico messaggio

trovato nei pressi del lago Grant, dove i sommozzatori sono impegnati a estrarre dalle gelide acque il cadavere di Allison Spooner. Eppure, quello che sembrava doversi risolvere come un caso di suicidio rivela dettagli ben più oscuri e indecifrabili. Quando l’agente speciale Will Trent arriva sul posto, l’accoglienza al locale diparti-mento di polizia non è delle più cordiali: nessuna disponi-bilità a collaborare, nessuna

risposta alle tante domande sulla morte di un ragazzo con disturbi mentali tenuto sotto custodia perché sospettato di aver ucciso Allison. Anche l’agente Adams, incaricata di affiancare Trent nelle indagini, sembra a conoscenza di verità inconfessabili, qualcosa che ha a che fare con la morte, avvenuta anni prima, del capo della polizia della contea. E perché la vedova dell’uomo, Sara Linton, cerca a tutti i costi di coinvolgere Will in quella vecchia storia? Preso nella morsa di queste due donne illeggibili e determinate, Trent sta per portare alla luce segreti scomodi e oltrepassare quella sottile linea oltre la quale non si torna indietro.

Una vicenda torva, pericolosa, e la determinazione di un uomo nel portare a galla la più dolorosa delle umane verità, non importa quanto profondamente sia nascosta... o quanto possa essere devastante.

Francesca Battistella: La stretta del lupo Editore: Scrittura & Scritture Collana: Catrame ISBN 9788889682456 Pagine 288 Prezzo di copertina: € 14,50

L'estate è alle porte con i festeggiamenti per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Tutti si apprestano a vivere la bella stagione. Sul Lago d'Orta, Teresa è alle prese con i lavori alla villa, mentre Niki è immersa nei preparativi delle mostre d'arte nella sua galleria. A Massa Lubrense, invece, Alfredo riceve una telefonata inattesa.

Il clima sereno e vacanziero viene però sconvolto da un omicidio che fa riaffiorare casi sapientemente insabbiati.

Un assassino seriale è tornato a uccidere sulle sponde del lago. La ricerca dell'S.I. richiede l'intervento di Costanza Ravizza, una

delle prime profiler italiane. Costanza opera alla sua maniera, altro che profiler di Criminal Minds! avvalendosi anche di chi ha una speciale dote nel capire l'animo umano.

A complicare tutto, i tormenti dell'erudito professor Barberis, la gelosia di Esterina, la bella titolare del bar-ristorante Ai Due Santi, i serpeggianti pettegolezzi su Alberto, affascinante medico, il passato misterioso di Claudio, raffinato intenditore di arte contemporanea.

Un gustoso e vivace giallo con personaggi esilaranti e oscuri,

contornato da cene frizzanti, vernissage e gare di catamarani, che non farà rimpiangere lo stile, a tratti sornione e divertito, dell'autrice del fortunato Re di bastoni, in piedi.

Daniela Aldibrandi: Il bimbo di Rachele

Titolo: “Il Bimbo di Rachele” Autore/autrice: Daniela Alibrandi Editore: Apollo Edizioni Prezzo: € 18,00 Quarta di copertina:

Rachele, una donna come tante che si sveglia in un giorno uguale agli altri nel quale, inspiegabilmente, alla soglia dei suoi quarant’anni sente di dover fare un bilancio della sua vita. Così lei, sola e ancora molto piacente, volge il suo sguardo al passato, una forma invisibile, coperto da una nebbia tanto fitta da farle credere che i suoi quarant’anni siano fatti di nulla. Man mano che la sua giornata si svolge, però, la nebbia si dissipa e lei, in una serie di flashback, inizia a rivedere l’amore che ha profuso, le cocenti delusioni che ha avuto e le decisioni che ha preso nel suo percorso che, al contrario, trasuda sentimento, passione ed è ricco di colpi di scena. Lasciare una città come Roma per trasferirsi in una cittadina di provincia, sul mare, è stata una delle decisioni che ha dovuto prendere, anche per sfuggire al suo passato. Ma è proprio qui, in questo che le sembra un rifugio sicuro, che il suo passato tornerà a cercarla. Una storia complessa, che regala momenti intensi nei quali il lettore si immergerà e verrà coinvolto dalle molteplici sensazioni che la narrazione dell’autrice riesce a suscitare. Si troverà a camminare in una Roma insolita e ad ammirare gli scenari naturali di una scogliera solitaria. La passione, il sentimento, l’angoscia, il divertimento e la suspense che cresce e porta in modo sapiente al finale mozzafiato faranno vivere al lettore una storia indimenticabile.

Daniela Aldibrandi: Nessun segno sulla neve Titolo: Nessun segno sulla neve Autrice: Daniela Alibrandi Editore: Laboratorio Gutenberg Prezzo: € 14,00 Quarta di copertina:

La trama del romanzo inizia ai giorni nostri e porta ad un avvenimento di tanti anni fa, che risale al 1968 e al periodo nel quale il protagonista del racconto frequen-tava il liceo, quando accadde un orribile omicidio, all’epoca rimasto irrisolto. Ques-ta storia, che sembrava dimenticata e se-polta, torna ad essere improvvisamente e drammaticamente attuale per lui, ora bril-lante e stimato medico oncologo di mezza età, quando in un caldo e pigro pomeriggio settembrino, il pomeriggio “perfetto”, come lo definisce lui stesso, si diverte a navigare in internet insieme al figlio. Aiutato da quest’ultimo, infatti, entra nel sito di Facebook e si imbatte nel profilo della ragazza che amava disperatamente in quegli anni, dalla quale purtroppo non era mai stato ricambiato. E’ l’inizio di un viaggio interiore intriso di profonda nostalgia, ricordi e passioni, che porterà il suo destino ad intrecciarsi in modo imprevedibile con quello della ragazza, divenuta ormai una donna matura. Il racconto offre un appassionante, fedele e nostalgico spaccato della vita italiana durante i grandi avvenimenti e mutamenti sociali e politici, che segnarono in modo indelebile un’intera generazione, fornendo una nuova chiave di lettura su un periodo sto-rico controverso come è stato in molti casi il ’68. I suoi contenuti sapranno quindi parlare delle profonde passioni e dei disperati amori a chi li ha vissuti all’epoca e a chi ne è tuttora alla ricerca. Ad arricchire il racconto una trama gialla che parte da un episodio criminoso avve-nuto allora e termina, con un finale a sorpresa, ai giorni d’oggi.

CREDITI:

Direttore: Aniello Troiano Redattori: Simona Tassara Omar Gatti Silvia Di Mauro Scilla Bonfiglioli Autore del racconto: Samuel Giorgi Grafico: Alex Terazzan