nero su bianco santarcangelo 41 n. 2

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numero 2 17 luglio 2011 giornale di critica e approfondimento di Santarcangelo 41

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Editoriali di chiusura (futuro di Santarcangelo, la crisi, l'attore); Rubrica sull'attore: Latini, Mazza, Sotteraneo; Incontro con le opere: Mundruczo, Artefatti, Latini, Menoventi/Ciprì, Sotterraneo; Disegni di Anna Deflorian e Brochendors Brothers

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numero 2 17 luglio 2011

giornale di critica e approfondimentodi Santarcangelo 41

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Questa è la fine. La fine non solo del festival ma di un triennio. L’Osservatorio critico è nato nella “strana estate” del 2008 quando un coordinamento di artisti aveva sostituito la direzione artistica del dimissionario Bouin. Quell’esperienza, Potere senza potere, è stata per noi il nucleo fondativo, portatore di un’idea di festival ben precisa e differente: tornare a un festival internazionale in piazza, non fare una notte bianca, incontrare i cittadini attraverso laboratori e altre occasioni di confronto al di là delle opere. La direzione artistica è stata affidata in tre anni alle tre compagnie storiche del territorio (Socìetas Raffaello Sanzio, Motus e Teatro delle Albe), affiancate da un coor-dinamento critico-organizzativo composto da Silvia Bottiroli, Rodolfo Sacchettini, Cristina Ventrucci. C’era dunque una volta uno spazio sospeso, senza “direttori”, una sorta di crepa nel sistema in cui si è inserito il progetto triennale.

Le parole d’ordine di quel momento indeciso e “anarchico” adesso sono difficili da pronunciare, perché sono entrate nel lessico di questa gestione triennale, e la rottura iniziale è divenuta progetto di costruzione nel tempo.Se nel 2008 i discorsi sul futuro erano sulla bocca di tutti, in questi mesi è sembrato lecito parlare solo del presente. Diciamo subito una cosa: il portato di questi tre anni è stato altissimo, in tre anni si è riusciti a passare dal “problema Santarcangelo” all’eccezione Santar-cangelo. Non discutere di futuro mostra già segnali di futuri problemi, e speriamo che non sia così.

Stiamo veramente diScutendo del futuro? Dovendo immaginare un ipotetico Santarcangelo 42, ci disponiamo quindi a cercare un’idea che sostenga la responsabilità culturali che i tre direttori e il coordinamento critico e organizzativo si sono presi in questi anni.Le edizioni 39, 40 e 41 sono state caratterizzate da tre differenti idee forti di festival, tre percorsi ai quali corrispondono, piacciano o meno, tre differenti idee di teatro. Chiara Guidi ha contagiato il festival, la selezione delle opere, con una visione molto forte di un teatro basato sulla voce, il suono e quindi l’ascolto. Enrico Casagrande ha aperto un discorso sullo spazio pubblico, su un’istanza di realtà, con un’esplosione controllata del festival che ha previsto il coinvolgimento dello spettatore e una riflessione sulla possibilità della rivolta oggi. Ermanna Montanari ha spostato l’attenzione sull’attore, consegnando le chiavi per aprire la porta principale di un teatro abitato da solitu-dini e comunanze, da poeti sulle torri e musicanti fra la folla. A ben vedere, ogni annata ha messo al centro almeno una domanda forte, presentando il festival come concreta approssimazione alle risposte: nel teatro, possiamo consegnare al suono la responsabilità di una visione? Riesce, il teatro, a vedere la realtà, e a esserne attraversato? Infine: la parola attore è la porta di ingresso del teatro? La possibilità di una risposta negativa non dovrebbe misurare il fallimento di un’idea, semmai una sua discussione, una critica e quindi una crescita. Il lavoro dell’osservatorio critico è certamente quello di dare un valore all’epifania della visione, mettendo alla prova insieme agli spettatori la connessione delle opere con l’immagine artistica, individuando le domande pubbliche seguite dai direttori nella costruzione e forse cercandone di inaspettate. È un lavoro di compresenza che si è trovato a confermare una porzione considerevole della visioni, ma anche a discutere quello che è rimasto irrisolto. Forse in questo triennio si è trovata una chiave nella strutturazione dell’irrisolto, a vantaggio non solo dell’opera singola, non solo dell’opera-festival ma del Teatro stesso, quello che si cerca quotidianamente. Dentro a un festival come questo certi processi accelerano: si parla di opere ma si guarda all’arte, quindi alla società. Questo è il “valore aggiunto” di Santarcan-gelo 09/11: un luogo in cui il teatro ha sempre guardato fuori, ha tentato di connettersi a un’idea di quotidianità da rifondare, attraverso la pubblica arena della scena; se c’è stato un progetto oltre le visioni dei singoli artisti, qui ha trovato la possibilità di respirare.

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FINE DELLE TRASMISSIONI?DA SANTARCANGELO 2009/2011A SANTARCANGELO xxxx/xxxx

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la qualità dell’ariaTre anni, tre direttori, tre “coordinatori” ma un progetto comune: quello a cui abbiamo assistito non è stato una fusione, ma un percorso dai precisi confini interni. Prima di tutto c’è l’artista, a cui si chiede la responsabilità di una scelta che sia in corrispondenza con una poe-tica. Santarcangelo 39/41 è stato il disegno di un festival come un’unica opera, o almeno la richiesta di attraversarlo come se lo fosse. In questo si è trattato di qualcosa di poco visto, almeno nel panorama della ricerca teatrale italiana degli ultimi anni. Non si è mai trattato di prendere solo opere di qualità, ma di cercare lavori che stessero dentro a un discorso sul teatro. In seconda battuta abbiamo visto la capacità di queste visioni di concretizzarsi in fatti teatrali, grazie all’azione del coordinamento, che ha saputo dubitare, approfondire, aprire le idee degli artisti. Si è trattato di un lavoro interno, al servizio di tre idee di teatro, ma senza il quale quelle idee non avrebbero avuto un sostegno di senso per trasmettersi di anno in anno.

Come Osservatorio abbiamo tentato di tracciare il percorso, stando sui fatti, e ora ci sembra importante discutere del futuro alla luce di ciò che abbiamo visto. Ripercorrendo le analisi e i ragionamenti degli anni passati ci domandiamo come si possa garantire uno spazio di libertà, di indeterminatezza nella griglia di un festival, quella necessaria a far muovere le idee. Non è difficile da formulare, più complesso sarà individuarne una concretezza progettuale: è necessario preservare una definizione che non deve comprendere tutto, dando voce a uno spazio di ragionamento critico. Come si preserva uno spazio di navigazione in zone franche, in spazi non controllati eppure guidati da una rotta? È necessario provare a comporre le diversità, facendo leva sull’autonomia dei soggetti che prenderanno il timone, scommettendo sul valore aggiunto dell’incontro. Questa idea si è manifestata nel lavoro del coordinamento, nella tessitura, nel passaggio da una visione di teatro all’altra: se il progetto triennale ha mantenuto una sua innegabile coerenza, questo è dovuto al trasmettersi delle tre differenti visioni nelle mani, nei pensieri, nei desideri del coordinamento. Un “passag-gio di consegne”: quando un’idea prende forma si trasmette, e quando si trasmette si modifica. Bottiroli, Sacchettini, Ventrucci hanno accolto le tre idee, le hanno discusse e modificate. Le hanno connesse fra loro, oltre i confini delle visioni degli artisti.

PenSare PluraleNon si può quindi ignorare il dato davvero “nuovo” di questo triennio: la nascita di tre figure chiamate ad ascoltare le ragioni dell’arte e di ciò che arte non è. Tre figure che sono state chiamate a creare un contesto in cui l’arte stesse al centro sia di una riflessione teorica che di una fruizione pratica. Dopo tre anni il contesto si vede e si sente. Per questo non è possibile immaginare un Santarcangelo 42 che fac-cia a meno di queste tre persone: tornare alla purezza delle idee - che siano di singoli operatori o di singoli artisti - sarebbe come tornare al problema Santarcangelo, perché le idee, se lasciate sole, sono tutte sostituibili, o non riescono a fare rumore nel flusso melmoso dello spettacolo odierno. Mentre di contesti se ne trovano ormai pochissimi. Chiaramente il coordinamento dovrà farsi carico della responsabi-lità delle idee, curandole in autonomia come non ha mai fatto fino ad ora o facendosi affiancare dagli artisti attraverso una formula nuova, che non replichi ciò che è stato. Ma su questo, dato il silenzio che appare programmatico, ha forse poco senso fare previsioni.

Se questa è la fine del triennio dobbiamo dire che allora è anche la fine dell’Osservatorio Critico.Siamo partiti con parole di protesta, agganciate all’arte. Abbiamo attraversato tre anni incontrando le visioni, cercando connessioni: un tentativo di ragionamento, condiviso da quindici persone dalle formazioni differenti. Ci siamo radunati a Santarcangelo in cerca di aria da respirare, e l’abbiamo trovata. Se siamo riusciti a alimentare una “funzione critica”, almeno qui al festival, non sta però a noi dirlo: ci basta sottolineare che qualsiasi piega prenderà il futuro, sarà necessario preservare quell’apertura, quel pensare plurale che è condizione necessaria per qualsiasi idea di critica, e di arte.

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CRISIDEL TEATROIN CRISINell’estate del 2008 regnava l’incertezza sul futuro del festival di Santarcangelo. La cosa era sotto i riflettori perché quell’anno la manifestazione era acefala e tutti si attendevano una soluzione. Oggi, a tre anni di distanza, è di nuovo l’incertezza il tema di fondo che accompagna il futuro del festival. A prescindere dai motivi specifici che hanno portato a questo, la situazione odierna credo sia emblematica dell’Italia di questi anni. La crisi di cui tanto si parla in questi mesi è di due ordini, lo sappiamo bene: economico e culturale – è per questo che proprio il mondo dell’arte e della cultura ne risente in modo macroscopico ed esemplare. È ovvio che ci siano differenze tra le problematiche di aree geografiche più ricche e attente al sostegno dell’arte e le carenze di quelle più povere o peggio amministrate; eppure esistono degli aspetti ricorrenti.L’attendismo è uno di questi, che ne nasconde uno più grande e spinoso: la difficoltà, quando non l’impossibilità, di progettare. Più che sprofondando, l’Italia si sta incagliando sempre di più a causa di un’evidente incapacità di immaginare il futuro. Perché mancano persone competenti, o nuove generazioni intelligenti da formare? Tutt’altro. Il problema risiede in uno dei tratti storici del nostro paese, che è il paese della pacificazione forzata che genera conflitto. In Italia le politiche culturali si possono sintetizzare nel seguente modo: diamo una briciola a tutti quanti, la cui consistenza varia in base al peso politico e alla visibilità. Era inevitabile che, davanti a una crisi economica, questa “pacificazione” si trasformasse in esclusione. Soprattutto generazionale.Il sistema teatrale italiano è il risultato dell’accomodarsi di diverse generazioni di artisti in circuiti anch’essi diversi e non comunicanti tra loro. Stabili, stabili di innovazione, festival, eccetera. Ovviamente si tratta di una divisione grossolana, perché esistono artisti in grado di muoversi da un settore all’altro; ma nel suo schematismo è in grado di leggere uno stato delle cose, che si traduce nella grande difficoltà di accesso ai luoghi e alle risorse che queste ultime generazioni stanno incontrando.Partendo da questi presupposti è ovvio che, in una società dove la creatività ha raggiunto una dimensione di massa, il teatro – che è l’arte antieconomica per eccellenza e che per esistere deve essere in qualche modo foraggiata – entri in crisi. Questa dimensione di precarietà diffusa infetta, inevitabilmente, anche la riflessione degli artisti e le loro estetiche, soprattutto di quegli artisti che, per nascita, si ritrovano dentro questa precarietà. Le compagnie più giovani, ad esempio, hanno risposto allo strozzamento del mercato e dei circuiti teatrali giocando la carta della riconoscibilità, in qualche caso addirittura della “brandizzazione”, marcando una forte inversione di rotta rispetto all’imperativo – anche troppo debordante – della ricerca a tutti i costi che ha carat-terizzato i decenni precedenti. I gruppi con più anni di esperienza, che si sono affacciati a questo mondo quando ancora la crisi non c’era e hanno vissuto biograficamente un progressivo smottamento del mondo del teatro e dell’arte, denunciano in qualche modo anche loro una difficoltà. La si può leggere in maniera esplicita anche attraverso gli spettacoli, che mettono in scena lo sprofondare del sistema Italia (come il Titanic di Roberto Latini), o tornano a interrogare con insistenza – con esiti e prospettive anche molto diverse – i sistemi ideologici del pensiero forte (come gli ultimi progetti dei Motus o la scelta degli Artefatti di portare in scena Brecht).Niente di nuovo sotto il sole, tutto sommato, perché il teatro ha sempre parlato delle criticità che attraversano la società. Eppure, mai come oggi è forte l’impressione che sia il teatro stesso ad esserne pesantemente attraversato a sua volta.La crisi – e chi la gestisce – ci comunica che è finito il tempo della ricreazione. Che non ci sono più risorse per mantenere il mondo dell’arte allargando il cerchio a ogni nuova ondata di artisti. E tutto sommato si può essere perfino d’accordo, ma a un patto: occorre tornare a distinguere tra arte e comuni-cazione, tra teatro e spettacolo (alla maniera di Claudio Morganti), e dire in modo chiaro che il compito delle risorse pubbliche è sostenere il primo e non ottenere consenso attraverso il secondo. Se la crisi può essere almeno in parte rovesciata in un’opportunità, ciò è vero soprattutto sui modelli di gestione. Se esistesse un’effettiva mobilità delle compagnie attraverso i diversi circuiti; se si ripensassero le gestioni faraoniche di alcune strutture pubbliche; se le generazioni si parlassero e contaminassero anche nella gestione delle risorse; se si formassero nuove figure di operatori in grado di ripensare i modelli; forse un piccolo spostamento potrebbe avere luogo.

Nota: C’è un terzo aspetto della crisi, che non va sottovalutato, quello del linguaggio. Prendiamo come cavia questo stesso articolo: è facile immaginare che alla sua analisi sullo stato fatiscente del sistema culturale italiano potrebbero aderire un vasto numero di persone, compreso chi si è trovato in ruoli gestionali e ha tranquillamente perpetuato l’esistente anziché metterlo in discussione. Questo avviene perché nel nostro paese contestare lo stato delle cose a parole per poi conformarsi nei fatti è una pratica diffusa, praticamente endemica, da cui nessuno può dirsi totalmente immune. È vero, confrontarsi con una realtà così compromessa significa necessariamente fare a propria volta compromessi piccoli o grandi. Ma quello che a volte ci sfugge è che, nonostante la messa in crisi del lessico politico del Novecento, tra presa di coscienza e presa del potere può esistere uno scarto profondo.

Graziano Graziani

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«Non si può essere autori di un’opera d’arte, si è capolavoro», diceva Carmelo Bene e mai come adesso, alla fine di questo festival, ci appare chiaro quanto questa visione sia in grado di aderire alla realtà della scena e dei suoi abitanti.Santarcangelo 41 ci ha chiamato a fare cerchio intorno a qualcosa che è “senza perimetro”, una parola che va oltre la parola, un “attore” che non è (solo) corpo e/o voce in scena, ma continuamente ne fuoriesce come esposizione e generosità senza luogo. Ci ha invitato ad attraversare questo passaggio, a sceglierlo ancora una volta – e di più – come nodo da cui partono tutte le riflessioni.Osservare gli attori è mestiere difficile, forse tanto quanto esserlo. Occorre oscillare, stare e non stare, avvicinarsi e allontanarsi, abbandonarsi al gioco e mantenersi costantemente vigili. Questi giorni sono stati l’occasione per fare esercizio intensivo di sguardo mobile. Quando si incontrano tante opere in un tempo condensato come quello di un festival, al vago disagio che ci dà la quantità “tossica” delle visioni si associa il sentimento costante di perdita per l’impossibilità di addentrarsi negli angoli di ogni cosa. Si sta all’incrocio di tensioni contrarie, ma che ci possono portare in quella dimensione di “spaesamento” tanto cara a Marco Martinelli quando parla del suo lavoro con la moltitudine adolescente di Eresia della Felicità: qualcosa che ci trasporta in un altro paese, in un altrove dove diventa possibile avere occhi e orecchie nuovi.

In questi giorni abbiamo visto tanti attori, li abbiamo guardati, ascoltati a lungo. Ci siamo interrogati sul loro modo di stare in scena, sull’incertezza di parole che possano definire, raccontare e spiegare quello che lì accade. Perdere il proprio “paese”, sradicarsi e spostarsi, in questo caso ha significato anche, per un attimo, prendere le distanze dai libri e dalle pratiche: provare a guardare da lontano il panorama intorno a noi, senza mai comprenderlo e abbracciarlo del tutto.In questi giorni abbiamo visto tanti attori sfinirsi nei modi più diversi, uscire da se stessi per entrare nel teatro. Oltre le storie e le identità degli individui, è emerso qualcosa che ci pare attraversare l’“oggetto” attore, questa possibilità tendenzialmente infinita di poter essere “capolavoro”, “opera d’arte”, cosa tra le cose della scena, più reale della realtà stessa.

Sfiniti sono (da una parte) Marco Cavalcoli e (dall’altra) Chiara Lagani in T.E.L, dove l’attore è segno di mancanza, traccia visibile che rimanda a un Termine Eternamente Lontano, mentre il dispositivo dell’eterodirezione, stringendolo in una partitura gestuale imposta e serrata, modifica il livello della sua presenza, tanto più forte quanto più separata dalla volontà delle azioni compiute. Si sfinisce Silvia Calderoni che inscena e “si provoca” ripetutamente, - dichiarandone la finzione rappresentativa, ma portandola fino al limite della resistenza - un male “politico” violento e devastante in The plot is the revolution di Motus. Sfiniti gli attori di Oriza Hirata in Tokyo Notes, dove solo le parole pronunciate disegnano lo spazio fragile delle relazioni e la quotidianità del contesto rappresentato si dilata fino allo svuotamento. Lo “spreco” professato da Ivo Dimchev sfinisce e lacera il corpo della performance in Som Faves, esautorando nella ripetizione ossessiva e ostinata qualsiasi riferimento alla proprio biografia, giungendo all’apertura di una vera ferita del corpo d’attore, che mostra il sangue sulla scena come aderenza perfetta di forma e contenuto. E ancora: il Rire di Antonia Baehr, l’inseguimento dei limiti della menzogna di Menoventi in Il contratto e in Perdere la faccia, la sopravvivenza del naufrago di Roberto Latini in Noosfera Titanic. A guardarli sotto quest’ottica, la sensazione è quella di essere sull’orlo di un precipizio, di rischiare la caduta dopo l’estrema tensione. Se attore è, come scrive Ermanna Montanari all’inizio del festival, una figura-baratro, sembra disegnare con la sua presenza sotto i nostri occhi i contorni di questo buco. «Rompete le righe», ripete Latini all’inizio dello spettacolo, mentre gli spettatori restano irrimediabilmente immobili di fronte a lui. «Rompete le righe» è una possibilità di fuga, il desiderio di una dispersione. Tutti gli artisti presenti al festival hanno portato con sé, in qualche modo, questo slancio. Non tutti si sono gettati per raggiungere un nuovo “paese”. Qualcuno è caduto giù. Rompere le righe può voler dire scrivere una poesia, andare a capo ricominciando ogni volta la propria rivoluzione, ma c’è il rischio di imparare a spezzarle sempre nello stesso punto, dove è più semplice farle cedere, più semplice non rischiare.

Alessandra Cava

FUORI DI Sé L’ARTE DELLOSFINIMENTO

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Santarcangelo 41 è l’invito a un viaggio dentro la parola “attore”. Monade o coro, artista-mondo o complice in una squadra teatrale, l’attore è un punto attraversato da infinite rette, ciascuna delle quali rappresenta una diversa possibilità di essere. Abbiamo cercato di guardare il più possibile dentro quel punto, ora con un cannocchiale, per contemplare l’intorno che circonda le singole esperienze, ora con un microscopio, per scoprire i dettagli delle smorfie e inseguire i contorni delle ombre dei corpi sulla scena.

È difficile isolare questioni sull’attore senza cadere nelle trappole di un linguaggio spesso usurato, o che finisce per restringere un campo che vediamo estremamente aperto. Ci sono delle parole: rappresentazione, finzione, personaggio, allenamento, tecnica, trasmissione, testimonianza. Proveremo a usarle come possibili lenti attraverso le quali guardare il lavoro dell’attore, durante l’Osservatorio critico di Santarcangelo 41. Per ora vogliamo so-stare attorno a due punti piccoli e sostanziali: attore è chi agisce sulla scena, luogo socialmente riconosciuto; attore è chi viene guardato da persone convenute nello stesso luogo e con lo stesso preciso fine. Cosa sei tu, mentre abiti la scena, luogo dell’azione e della visione? Cosa vedi, mentre sei in scena? Quanto e come ti senti (o non ti senti) dentro ciò che viene definito “rappresentazione”? E ancora: cosa vedi mentre guardi il lavoro degli attori? Come guardi il loro lavoro? Chi è quella figura che abita la scena, quando sei tu a guardarla? Queste domande le abbiamo rivolte agli attori presenti a Santarcangelo 41. Qualcuno ci ha risposto, e di seguito pubblichiamo l’inizio dei loro scritti, che proseguono per intero sul blog dell’Osservatorio Critico (www.santarcangelofestival.com) e sul sito di Altre Velocità (www.altrevelocita.it).

roBerto latiniUn qualsiasi discorso sull’attore deve includere a parer mio quanto completa e si completa nel teatro: lo spettatore.Attore e spetttatore sono figure inscindibili. Interlocutori di una relazione senza la quale “il teatro non sarebbe”.Non si può essere “attori” senza la risposta alla proposta. Lo spettacolo non si rappresenta, si propone.Ad ogni attore corrisponde una platea. La parola “corrisponde” ha un significato in italiano che trovo consolante e preciso. Le accezioni possibili e le possibili declinazioni di questa relazione costituiscono l’indefinibilità di quanto è così straordinariamente soggettivo da poter essere misteriosamente condiviso.La disposizione generale degli attori e quella della platea, nel senso di disponibilità, è la risposta continua all’appuntamento teatro. Il teatro è un appuntamento, non il luogo o il tempo di un’esibizione.Non esiste la bravura, esiste la capacità.Voglio estendere un concetto prezioso che ci viene da Leo De Berardinis quando parlava dell’attore dicendo che non è colui che agisce la scena ma colui che “reagisce”.Voglio estendere questo concetto alla platea, allo spettacolo che viene proposto, ripeto, non rappresentato. Gli spettatori reagiscono non a quanto avviene sul palcoscenico ma a quanto viene dal palco, quanto arriva ai singoli che sono un coro.

franceSca maZZaSono io, Francesca, e Francesca è un’attrice al “servizio” di un progetto - lo spettacolo - e di un’idea di teatro, che è quella del regista con cui lavoro in quel momento.Dunque, a volte, mi si chiede di essere anche un personaggio, ma altre volte la richiesta è più sfumata.Se poi oltre al “cosa” sono, posso aggiungere anche “come” sono, dico felice, sempre.

Certi spettacoli di Leo erano talmente bui che ci si doveva addestrare alla cecità. A volte, mi servo ancora di questo addestramento perché è una forma di concentrazione. In altri spettacoli vedi/guardi il pubblico e può essere difficilissimo, come può essere la giusta soluzione di ogni problema. In tutti, gli occhi di chi è in scena con te, dove devi prendere la luce, dove sono le uscite in quinta, dove finisce il palco, dove sono gli oggetti di cui ti devi servire, dov’è la consolle dei tecnici, dove metti i piedi...

Il termine “rappresentazione” si adatta male al teatro che ho quasi sempre fatto. Quando mi è capitato, l’ho sempre trovato divertente e più “facile”.

teatro SotterraneoCosa. Sottoscriviamo la scelta di questa parola nella prima domanda. Non chi, ma cosa sei. Perché è l’azione a qualificare chi va in scena sotto il nome di Teatro Sotterraneo. Non c’è alcun altro filtro se non la partitura prevista, quello che sappiamo di dover fare. In scena siamo autori ed esecutori di un discorso, un meccanismo pensato e progettato per essere ripetuto. Vediamo funzionare o non funzionare i tempi, i nodi drammaturgici, gli scarti, percepiamo la risposta del pubblico, sentiamo quanta vita stiamo riuscendo o non riuscendo a immettere nel contratto che ogni replica stipula – infine non vediamo la parte più importante (non nell’immediato almeno): l’appropriazione di senso da parte di chi guarda.

Non c’è mai una rappresentazione pura, né una presentazione che basti a se stessa. È più un tentativo di stare nell’interzona fra questi due luoghi, perciò è più corretto dire che ci sentiamo - e cerchiamo di stare - sistematicamente fuori luogo.

di coSa Parliamoquando Parliamodi attore

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incontroconle oPere

Un attore-prisma, tetraedro di diversi linguaggi: teatrale, televisivo, cinematografico e radiofonico. Ma anche attore-mondo, cuore e istantanea di im-maginazioni. Frankestein–Project (2007), esperimento teatrale del regista ungherese Kornél Mundruczó, poi sviluppato nel film in concorso a Cannes 2010 Tender son, è un dispositivo di straniamento che parte dal microcosmo sentimentale dei suoi protagonisti e arriva a coinvolgere lo spettatore in un patto dialogico ferocemente instabile. Un attimo presente agli occhi di chi recita, l’attimo dopo completamente assente, in grado di spiare l’intimità della scena senza essere visto, lo sguardo è continuamente sollecitato, chiamato a tutti gli effetti a inserirsi in una storia di cui è allo stesso tempo attore e testimone.Un adolescente scappato da un istituto minorile si imbatte per caso nel casting di un ansioso regista che, mentre ci chiama ad aiutarlo nella scelta finale, snocciola, tra un candidato e l’altro, insegnamenti sull’arte cinematografica. L’interno è una fabbrica dismessa, la stessa in cui assistiamo allo spettacolo, ora divenuta mensa sociale. Sul palco ci sono anche una donna, che ci viene presentata come responsabile del refettorio, una ragazza e un uomo più anziano. Non conosciamo ancora i rapporti che intercorrono tra di loro, ma presto, quando il ragazzo uccide una delle candidate del ca-sting, c’è uno scarto e l’azione cambia completamente. Siamo così introdotti in una cupa tragedia familiare, dai tratti talvolta melodrammatici, scandita dall’indagine di un commissario di polizia, ridondante voce narrante che continuamente ci chiama in causa. Gli attori sono sotto l’occhio di una sorta di Grande Fratello, incoscienti nelle loro azioni, nonostante la presenza di telecamere che li mandano in onda su due televisori. Sembra di essere sul medesimo confine dei sentimenti messi in mostra negli show televisivi, in questo caso estremizzati dall’assenza del filtro del tubo catodico. In scena c’è chi agisce come si trovasse da solo, ma con lampi improvvisi di lucidità: tutti hanno osservato quanto è successo, e azioni che fino a un attimo prima si credevano intime, segrete, prive di peso cambiano di segno. Idealmente ispirato al romanzo di Mary Shelley, Frankestein-Project contiene in sé un’ulteriore riflessione, quella sulla mostruosità dei prodotti umani. Come nel caso dell’abbandono di un figlio, in cui il corpo vivente diviene metafora di un passato di colpe e ombre che ci ostiniamo a rifiutare. In nome di un generico “va tutto bene”, eludiamo il baratro della caduta, portandolo alle sue estreme conseguenze.L’attore è materia che a Mundruczó interessa osservare molto da vicino, indicandone le storie nei volti, fotografandone baleni. La famiglia, una co-stante della sua ricerca tecnico-artistica, diviene il suo strumento prediletto, un grande simbolo per parlare di umanità, «qualcosa che tutti capiscono immediatamente come una casa».

Paolo Bottiroli e Lucia Cominoli

LAMPI DI LUCIDITàFRANKESTEIN–PROjECT DI KORNéL MUNDRUCzó

Sul palco c’è un salotto con tanti poster: Marx, Lenin, Che Guevara e le bandiere rosse. Entrano quattro personaggi con le maschere antigas, indossano tute in amianto gialle, hanno con sé un contatore geiger. Tutto mima il dopobomba, dalle luci dei neon intermittenti al fumo di scena diffuso in sala. Una bandiera rossa con la scritta “Cobas” provoca il pianto di uno degli esploratori: pianto malinconico che serve per decontaminare. Il pianto è interrotto da un personaggio che cammina disinvolto senza tuta, si beve una birra, prende una chitarra e suona “In a manner of speaking” di Winston Tong. Durante la canzone una sirena avvisa la fine dell’introduzione. I personaggi si cambiano i vestiti e tornano in divisa blu da operaio; sono nove in totale e si siedono allineati di fronte al pubblico, al centro c’è una corifea vestita secondo una possibile tradizione asiatica, ai suoi lati le due squadre: Orazi e Curiazi, due famiglie della Roma antica in lotta per il duello che vide sottomessa Albalonga, testo di Bertolt Brecht messo in scena dall’Accademia degli Artefatti. Proprio come in un gioco televisivo, dove l’azione si svolge caotica, in questo volontario protrarsi del combattimento c’è anche la lavagna segna punti: armi e vittime. Una delle frasi finali della corifea fa dubitare di ogni speranza: «Basta ridere», la cui ambiguità è amica della loro ultima risposta: abbandoniamo la nostra identità sia unendoci, seguendo il gruppo, sia allontanandoci, perdendoci di vista.L’Accademia degli Artefatti fabbrica un linguaggio dotato di una simbologia semplice: bandiere rosse, icone socialiste, continui riferimenti alla pop-culture e una telecamera digitale che riprende il dietro le quinte e il pubblico. Tutto questo crea un’apparenza illusoria del già visto. Si insegue il bisogno di una libertà che possa far leva su una moltitudine di linguaggi contemporanei, anche quelli che spesso vengono bistrattati per la loro apparente superficialità.

Bernardo Brogi

SEMPLICE POP BERTOLT BRECHT ORAzI E CURIAzI DELL’ACCADEMIA DEGLI ARTEFATTI

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Come confessare un cortometraggio che non si può dire? In che modo raccontare un incontro artistico, come quello tra Menoventi e Daniele Ciprì, tale da non poter essere messo per iscritto? Le mie parole raccontano qualcosa che è stato: devono fare i conti con la menzogna che portano in sé. “Confessione e bugia sono la stessa cosa. Per poter confessare, si mente”.Perdere la faccia ha la forma di una presentazione, di un dialogo tra i suoi protagonisti e chi sta seduto nelle poltrone del cinema, ma bastano pochi minuti e questa comunicazione salta. Davanti allo schermo scorrono immagini ripetute, a compiacersi di se stesse, a non dire niente, rivolte a nessuno. Consuelo Battiston e Alessandro Miele vengono intrappolati in una macchina cinematografica costruita sulla riproduzione identica e ostinata di parole e gesti. Tutto viene schiacciato su due dimensioni e non c’è più spazio per la profondità, il senso, il vero: tanto un insipido dialogo convenzionale, quanto la ricchezza polisemantica di un aforisma kafkiano, rimbombano di vuoto nella moltiplicazione. Il pubblico che aveva partecipato si trova di fronte un muro, un vicolo cieco, capisce il meccanismo e se ne distacca. È ormai lontano quando interviene una ragazza che, da dentro, osserva i protagonisti come se fosse una vera spettatrice. Conquista subito la simpatia del pubblico per poi riportarlo nella menzogna rappresentativa precedente: l’attenzione torna così agli attori, ma passando attraverso i suoi occhi la finzione si raddoppia. Per la prima volta guardiamo sul serio. Il pianto della Battiston è esplicitamente indotto con irritazione oculare, la voce non trema di commozione, ma mai come in quel momento pendiamo dalle sue labbra, mai come in quel momento le sue parole ci appaiono tragiche, profondamente vere. “Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo: la menzogna”; ma l’attore sembra doverne mostrare il rovescio: non chiudersi nel circolo vizioso del linguaggio, ma prendersi cura della menzogna, unico strumento a nostra disposizione per mostrare una verità, per riuscire a vedere la carne in un’immagine, la vita nella rappresentazione. Anche se nel raccontarlo, forse, ho detto una bugia di troppo.

Matteo Vallorani

INTERVISTA A DANIELE CIPRìPERDERE LA FACCIA DI MENOVENTI

Quanto più si va a fondo, tanto più è difficile raccontare. Il Titanic è affondato un secolo fa, e Roberto Latini ci porta lì, nell’attimo del crollo, dello scontro con una montagna di ghiaccio trasparente e inamovibile. Siamo nello schianto, dentro, o subito dopo. Il tempo dello spettacolo è un flusso che comprende e segue l’impatto, ma non lo descrive mai. Lo spettacolo è una lotta. Il corpo dell’attore contro la storia; le voci di quel corpo contro un’atmosfera grave; suoni e musiche che annullano continuamente un tempo e uno spazio altrimenti contingenti, didascalici.Noi vediamo un attore. Vediamo il suo corpo che si muove in un abisso di onde e buio. Tenace, feroce e aggrappato al fondale di un pozzo stretto e luminoso, Roberto Latini è una figura attraversata da più voci, che ora dettano ordini, ora sfuggono e si riparano sotto un braccio dichiarando un’im-possibilità a reagire. Un megafono e un telefono amplificano talvolta quelle grida interiori, che sgorgano da punti imprecisi di un contesto, che però si manifestano allo spettatore in forma nitida, messaggeri di più sfumature di uno stesso sentimento dell’abbandono.Che cosa veda Latini dal centro di quel fondo è difficile capirlo. Nello spazio tra la platea e la scena c’è un leggerissimo tulle nero, che fa da filtro allo sguardo e da limite all’azione. Latini non è in gabbia, è anzi sciolto da ogni catena, e oltre al corpo che costruisce gesti millimetrici o che sconvolge la scena con azioni rovinose, è il corpo-voce che invade lo spazio e trapassa quella cortina semitrasparente.Attore e spettatore sono vicini, prossimi l’uno all’altro in un luogo che non è una nave, che non è quel Titanic di cui la storia ci ha insegnato le sfortune e le glorie disilluse. Siamo su una zattera, piccola e personale, assi di legno che ci traghettano verso un altrove ancora sconosciuto. Non vorremmo essere lì, ma ci siamo. Allora vorremmo gridare aiuto, ma non possiamo. Vorremmo essere quella voce e liberarci verso l’alto con quella carica emo-tiva che ci è mostrata. Ma non possiamo. Ciò che vediamo è al contempo dentro e fuori l’attore che abbiamo di fronte. Quel baratro, che Latini porta dentro di sé, è mostrato con spudoratezza, calato dentro la visione di uno sprofondamento, che è contemporaneamente un naufragio e un distacco, un abbandono di qualcosa e un abbandonarsi a qualcuno.Noosfera Titanic è uno spettacolo teatrale. Il contratto è relazionale. La storia è la lotta. Chi si fronteggia sono un attore, ebbro di una biografia disordi-nata e vorticosa, e uno spettatore, chiamato a reagire senza mentire a ciò che ha di fronte. Ma la lotta è anche in quel corpo, è nella gola che dà origine al lamento, alla preghiera, alla richiesta di aiuto e all’ammissione di colpa. La lotta si consuma in una questione attoriale profonda, dove lo statuto dell’io è messo in crisi: un io si rivolge a un tu, ed entrambi i soggetti sono parti di mondi. E l’io che abbiamo di fronte questa volta non si nega nulla, e dà forma, nel finale, alla Donna Elvira riscritta in prosa da Molière. Chiede scusa per il proprio amore, si dichiara mutata dalla mattina alla sera. E la trasformazione, da maschile a femminile, da figura a personaggio, da indefinito a nominato, è una proposta, l’ennesima possibilità che l’attore si dà.

Serena Terranova

LA VOCE DOPO IL NAUFRAGIONOOSFERA TITANIC DI ROBERTO LATINI

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Se una serie infinita di suicidi, tentati da una ragazza tramite pistole giocattolo, finti zaini bomba, scosse elettriche senza elettricità è destinata a fallire miseramente; se ci viene raccontata una strage di omicidi in cui il criminale è di fronte a noi nello spazio, dopo aver preso in due minuti un aereo andata e ritorno per New York; se poco prima quello stesso criminale diceva di essere Gesù, allora la domanda di Homo Ridens più che “perchè ridiamo?” sembra essere “in cosa crediamo?”, mediata da una riflessione sui modi in cui la risata ci traghetta verso spudorate finzioni.

Lo spettacolo indaga l’attitudine umana alla risata misurandone i limiti e la complessità con il tipico piglio socio-antropologico da sempre cifra di Teatro Sotterraneo. La risata, strumento prettamente umano di libertà e di consenso, ma che si esprime in modalità bestiali, attraverso la rinuncia al respiro e il digrignare dei denti, viene qui indagata nei suoi meccanismi più o meno profondi attraverso la formula, non nuova alla compagnia, del test sul pubblico. Nel primo test una serie di “demotivational” interrogano il pubblico sul sarcasmo verso l’olocausto, l’attacco terroristico dell’undici settembre e la carestia nel terzo mondo. Si può ridere quando “non c’è niente da ridere?” Assistiamo alla morte in scena di un malato terminale e infine a un pestaggio violento seguito da una sparatoria. Episodi che nella realtà desterebbero preoccupazione qui non ci turbano minimamente, ma non trovano neanche distensione nella risata dissacrante. Si resta sospesi, ci si incunea in un vicolo cieco. Si finge sfacciatamente la finzione, tant’è che una spettatrice scelta tra il pubblico come possibile vittima esclama:«So che non lo farete!», e si sente rispondere: «No, ovviamente non lo faremo.» L’illusione di indagine scientifica sulla risata si scioglie davanti allo spettatore, che scopre la beffa dell’intero spettacolo.

Teatro Sotterraneo come sempre ci sfida a trovare una chiave, solo che questa volta le porte da aprire sembrano troppe. Il ridere è un’arma di libera-zione, un’inversione che ribalta i racconti e le visioni del potere? Il ridere è un modo di nascondersi nelle maggioranze, attraverso l’irrisione dell’altro? Il momento di maggiore “crisi” non sta nella ricerca delle risposte, bensì nell’istante di sbandamento del « è tutto finto!» gridato dalla ragazza suicida, che dichiara “a parole” la finzione, finge di uscire gridando, mostra di ribellarsi. In quei momenti però crediamo a lei, vorremmo intervenire, sostenere il suo grido per protestare a nostra volta, perché quello che vediamo è tutto finto, troppo finto. Solo a tratti questo Homo Ridens riesce a farci ridere, solo a tratti sceglie di farci riflettere. La restante parte del tempo è pervasa dai segni di quel grido, dalle sue sperate risonanze.

jennifer Malvezzi, Lorenzo Donati

CREDERE E NON CREDERE HOMO RIDENS DI TEATRO SOTTERANEO

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