la partecipazione comunitaria come strumento di contrasto alle disuguaglianze in salute....
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Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva
Direttore Prof. Paolo Villari
LA PARTECIPAZIONE COMUNITARIA COME STRUMENTO DI CONTRASTO
ALLE DISUGUAGLIANZE IN SALUTE. L'ESPERIENZA DELLA CURA COMUNITARIA
Dott. Alessandro Rinaldi
n° matricola: 1446029
Relatore Correlatore
Prof. Maurizio Marceca Prof. Gianfranco Tarsitani
A.A. 2014/2015
“[...] Altre foglie cadranno senza che alcuno se ne accorga. In altri fiori si compiaceranno altri fiori,
senza che la Borsa di New York per ciò subisca alcuno scossone. Semplici differenze: tesori assai più gradi
di ogni indifferenza.”
Nel Bosco di Bistorco
INDICE Pag.
LATO A
Premessa 1
INTRODUZIONE 3
CAPITOLO I. INSIEME: DAL CORPO PROPRIO AL CORPO COMUNITARIO 8
1.1 Origine della scissione mente/corpo e la nascita del pensiero biomedico 10
1.2 I limiti e le conseguenze del pensiero biomedico 12
1.3 Dalla scissione mente/corpo alla relazione corpo-mondo 15
1.4 La malattia come causa e conseguenza di un'alterata relazione corpo-mondo 19
1.5 Dal corpo biologico al corpo comunitario 22
1.6 Verso una buona vita in una società giusta 25
CAPITOLO II. LA PARTECIPAZIONE COMUNITARIA COME STRUMENTO DI SANITÀ PUBBLICA PER IL CONTRASTO ALLE DISUGUAGLIANZE IN SALUTE 31
2.1 Dalle disuguaglianze sociali nella salute alla partecipazione comunitaria 33
2.2 L'ascesa, il declino e il riemergere della partecipazione comunitaria 45
2.3 Le parole della partecipazione comunitaria 48
2.3.1 Comunità 52
2.3.2 Partecipazione 54
2.2.3 Empowerment 57
2.2.4 Capitale sociale 61
2.4 I metodi della partecipazione comunitaria 64
2.5 La valutazione della partecipazione comunitaria 76
CAPITOLO III. L'ESPERIENZA DELLA CURA COMUNITARIA 82IN UN'OCCUPAZIONE ABITATIVA
3.1 Introduzione 82
3.2 Il contesto di intervento 90
3.3 Metodologia di intervento e strumenti di ricerca 92
3.3.1 Le fasi della terapia comunitaria 93
3.3.2 Strumenti di ricerca 95
3.4 Esiti dell'esperienza e discussione 98
3.4.1 Esiti quantitativi di processo (output) 98
3.4.2 Esiti qualitativi di processo 102
3.5 Conclusioni 112
CONCLUSIONI 115
Bibliografia e sitografia 121
Ringraziamenti 129
Allegati 132
LATO B
Diario di esplorazione
Premessa
Questa tesi è frutto del caso e della necessità. Sono arrivato a conoscere la Terapia
Comunitaria (o cura comunitaria) per caso; nel senso che non era mio interesse specifico
cercarla. Tuttavia, visto che era proprio quello di cui avevo bisogno, è stata la mia necessità
a dare valore al caso.
Il mio percorso di studi è stato caratterizzato principalmente dall'approfondimento delle
tematiche relative alla Salute Globale (SG) e alla Promozione della salute. A queste ho
affiancato l'interesse personale per discipline quali la pedagogia (soprattutto per quanto
riguarda le metodologie di insegnamento e la critica agli approcci classici di formazione),
l'antropologia (principalmente l'antropologia medica), la sociologia (l'analisi istituzionale) e
la psicologia (psicologia di comunità, con particolare attenzione alle dinamiche di gruppo).
Se pur questi approfondimenti procedevano, da un punto di vista istituzionale, su binari
paralleli, in me è stato costantemente presente il tentativo di trovare dei punti di incontro.
Questo processo potrebbe sembrare solo uno sforzo di sistematizzazione teorica, sganciata
cioè da un reale contesto sociale. In realtà, tutto quello che ho imparato in questi anni, lo
devo soprattutto a delle esperienze sociali concrete, grazie alle quali sono entrato in
contatto con diverse persone e dal cui confronto sono nate domande e curiosità.
All'interno del percorso di studi ufficiale, è stata significativa la partecipazione al gruppo di
lavoro in Salute Globale della Sapienza e alla Rete Italiana Insegnamento Salute Globale
(RIISG), grazie soprattutto a questi due contesti di apprendimento ho potuto approfondire i
contenuti propri della SG e sperimentare diverse metodologie di formazione.
Al di fuori del contesto accademico, e tuttavia in continuità con esso, la partecipazione al
gruppo di auto-formazione “medici senza camice” e alla rete nazionale e internazionale del
“People's Health Movement”, mi ha consentito di approfondire, in maniera radicale
(andando cioè alla radice), tutti gli ambiti descritti sopra.
In entrambi i casi, la necessità di approfondire e studiare nasceva a partire dalla pratica, dal
mio coinvolgimento personale in esperienze concrete con persone reali. Lo studio teorico
ha sempre seguito l'esperienza, l'esperienza infatti faceva sorgere in me la curiosità che mi
portava ad approfondire per dare senso a ciò che vivevo.
Grazie a tutto ciò, ho potuto vivere, nel bene e nel male, quello di cui parlerò nella tesi.
L'esperienza di gruppo mi ha permesso di esplorare il concetto di comunità, apprezzandone
i suoi punti di forza e anche i suoi limiti. Inoltre, ho toccato con mano cosa significhi
sentire aumentare il proprio potere sulla propria vita (empowerment) e quanto di buono si
possa generare se condiviso insieme ad altre persone (empowerment di comunità). Infine,
1
ho percepito la forza che può essere sprigionata dalla creazione di relazioni umane
significative (capitale sociale).
Quando mi sono imbattuto nella Terapia Comunitaria, questa mi sembrava raccogliere tutte
le diverse esperienze e successive riflessioni fatte negli anni, in più rappresentava una
proposta concreta, qualcosa che era possibile realizzare. Ero alla ricerca di uno strumento
pratico in grado di valorizzare il percorso fatto fino a quel momento e questa ha saputo
casualmente rispondere alla mia esigenza.
Anche la scelta del contesto di intervento, il palazzo occupato di via di Santa Croce in
Gerusalemme, è il risultato di questo cammino svolto a cavallo tra percorsi istituzionali ed
extra-istituzionali. Sono entrato nel palazzo come 'attivista' insieme al gruppo dei 'medici
senza camice' e da 'attivista' ho messo al servizio delle persone quello che potrebbe essere
definito come il mio “sapere accademico”.
In poche parole, questa tesi rappresenta la volontà di sconfinare. Sconfinare continuamente
dagli ambiti pensati a priori per noi. Siano essi ambiti disciplinari, sociali, politici ed
esistenziali. Ho sconfinato tra le diverse discipline, tra i diversi ruoli sociali previsti per me,
tra le diverse classi sociali. E, almeno per il momento, quello che posso dire è che, al di là
dei confini, mi sembra di incontrare da persona libera, persone liberate.
E forse, uno dei ruoli della Sanità pubblica, che questa tesi vuole indicare, potrebbe essere
proprio quello di contribuire a costruire spazi e contesti sociali dove le persone possano
incontrarsi e condividersi per quello che sono: esseri umani.
2
INTRODUZIONE
Scopo principale di questa tesi è quello di raccontare un'esperienza di partecipazione
comunitaria in un contesto di marginalità sociale come quello di un'occupazione abitativa.
Anche se gli interventi sanitari che coinvolgono la comunità si rifanno ai principi espressi
più di trent'anni fa nelle dichiarazioni di Alma Ata (1978) e di Ottawa (1986) e sono alla
base quindi della Primary Health Care e della Promozione della Salute, ci sono ancora oggi
molte resistenze da parte della Sanità pubblica a concepire i propri interventi secondo
questi approcci.
Poco dopo le storiche dichiarazioni sopra riportate, l'interesse a livello internazionale da
parte del mondo della Sanità pubblica si è spostato soprattutto verso interventi centrati sul
singolo individuo i cui risultati siano misurabili e a breve termine. Questo tipo di approccio
obbedisce ad una visione della salute di tipo economico oggi imperante. A questa visione
ben si presta un modello di essere umano ridotto soprattutto alla sua componente biologica
che fa riferimento all'approccio definito 'biomedico'. L'approccio biomedico considera
solamente gli aspetti biologici della salute dell'individuo, estrapolandolo dal suo contesto
sociale, politico e storico di appartenenza. Ciò comporta che gli unici a potersi esprimere
sulla salute e la malattia delle persone siano quelle figure professionali che detengono il
sapere tecnico sul corpo biologico degli individui. Questi ultimi vengono considerati
solamente come destinatari passivi di interventi e servizi pensati e organizzati dai
professionisti della salute.
Anche se, per molti aspetti, l'approccio biomedico è stato ed è molto efficace nel tutelare la
salute delle persone, da alcuni anni ormai questo sta mostrando i suoi limiti. Di fronte alle
crescenti disuguaglianze in salute sia tra i paesi che al loro interno, sta diventando sempre
più evidente come questa non sia determinata solamente dalla sua componente biologica.
Le moderne teorie sui determinanti sociali affermano il peso rilevante esercitato dalle
condizioni sociali e politiche sulla salute delle persone. Affermare che la salute e la malattia
non sono solo il risultato di variabili biologiche ma anche e soprattutto di condizioni di tipo
sociale, vuol dire mettere in discussione il concetto di “neutralità” scientifica con la quale
viene percepita e si percepisce la medicina.
Riscoprire la dimensione sociale della salute, non per questo disconoscendo quella
biologica, significa pensare a degli interventi in grado di modificare i contesti di vita delle
persone. Ciò vuol dire passare da una visione individuale ad una collettiva di salute.
Secondo questo principio sono soprattutto le persone, organizzate in gruppi e/o in
comunità, a dover essere messe nelle condizioni di prendere consapevolezza delle proprie
3
condizioni di vita e agire per modificare i propri contesti.
Compito principale della Sanità pubblica sarà quello di favorire azioni comunitarie il cui
principale obiettivo sarà quello di rendere più salutari le organizzazioni e le strutture sociali
attraverso una più equa distribuzione del potere all'interno della società. Il professionista di
Sanità pubblica, secondo questa visione, è chiamato ad abbandonare la visione “neutra”, e
per certi aspetti tranquillizzante di salute, e lavorare con le persone all'interno della
comunità, impegno questo che ha caratterizzato il suo ruolo sin dalla sua nascita.
Da questa visione generale di partenza, nel primo capitolo si è cercato di presentare un
modello di essere umano diverso da quello cui la medicina, e ormai la società, fa
riferimento.
Il moderno sapere medico si fonda su una concezione di essere umano considerato come
mero corpo biologico o corpo organico. Questa visione di un individuo scisso dal proprio
corpo e dalla società nella quale vive è a sua volta il frutto della filosofia cartesiana. La
filosofia cartesiana si fonda sulle dicotomie mente/corpo, corpo/mondo, individuo/società,
ragione/passione.
Il tentativo compiuto nel primo capitolo è soprattutto quello di mettere in luce come questa
visione dell'essere umano, più che corrispondere ad una verità ontologica, sia soprattutto il
frutto di una costruzione culturale della realtà per esigenze metodologiche. Infatti, al fine di
scoprire il funzionamento biologico dell'essere umano, la sua complessità è stata ridotta alla
somma di parti e funzioni distinte e separate tra loro: gli organi e le loro funzioni. Il limite
principale di questo approccio è stato quello di voler far coincidere questa visione parziale
dell'essere umano all'unico punto di vista possibile attraverso cui concepirsi tale. Infatti, nel
corso del tempo, questa, oltre ad aver acquisito lo status di dogma del sapere medico, è
anche divenuta parte integrante della cultura occidentale, vale a dire di come ci percepiamo
come essere umani. E siamo ormai talmente abituati a tutto ciò, che non facciamo più
alcuna fatica a svalutare la nostra esperienza e a considerare il nostro corpo, non più come
il nostro punto di vista sul mondo, ma come un insieme di organi e funzioni.
Su questa idea di essere umano si sono costruiti anche il moderno sapere medico e la
società nella quale viviamo. Per tale ragione, la seconda parte del capitolo è dedicata alla
descrizione di un altro modello di essere umano sul quale fondare un'altra pratica medica e
un'altra possibile società. Il tipo di persona cui si fa riferimento è una persona comunitaria e
relazionale, una persona la cui identità si costruisce nella relazione con l'altro e nel vivere
comunitario. Questo modello consente all'essere umano di riappropriarsi della propria
4
esperienza soggettiva e superare le dicotomie imposte dal pensiero cartesiano, stabilendo
una relazione tra corpo-mente e corpo-mondo. Da questo punto di vista la salute coincide
con la capacità dell'individuo di entrare in relazione con se stesso e con gli altri, di esistere
quindi. Di conseguenza, il medico non è l'unico depositario del sapere e del potere sulla
salute e sulla vita delle persone, e la comunità ricopre un ruolo centrale nel processo di cura
e assistenza alla persona.
Avere come riferimento un altro modello di essere umano, ci consente di pensare non solo
ad altri modi di intendere la salute, la malattia e i processi di cura ma anche in che tipo di
società si voglia vivere. Che tipo di società cioè possa mettere nelle condizioni l'essere
umano di esistere. Ciò apre la riflessione su concetti quali la società giusta, la libertà, la
felicità, l'autodeterminazione e la realizzazione di sé. Riflettere su tutto ciò ci implica da un
punto di vista etico, sociale e politico e ci sollecita a prendere una posizione critica rispetto
alla società nella quale viviamo.
Con il secondo capitolo si è cercato di mettere in relazione -creare una continuità tra- le
riflessioni ampie, di tipo filosofico, con quelle più tecniche proprie della Sanità pubblica.
Ciò è stato reso possibile dall'evidenza degli effetti negativi sulla salute delle persone degli
attuali modelli di vita e di società. Alla evidente riduzione della mortalità e morbosità
avvenuta nel corso degli ultimi decenni nelle società occidentali, si stanno affiancando
fenomeni quali la crescita delle diseguaglianze in salute tra le nazioni e al loro interno,
l'aumento dei suicidi e delle dipendenze patologiche. Non solo, anche il livello di benessere
percepito, stabile per lungo tempo, sta diminuendo a causa soprattutto dell'erosione della
solidarietà familiare, del peggioramento delle relazioni tra i membri della comunità e della
perdita di fiducia nelle istituzioni.
Partendo dall'impatto che la situazione ha sulla salute delle persone attraverso la
descrizione delle diseguaglianze in salute sia a livello nazionale che internazionale si è
introdotto il possibile ruolo che gli interventi di partecipazione comunitaria possono avere
nel contrastare questa tendenza.
Dopo aver percorso la nascita e l'evoluzione storica degli interventi di partecipazione
comunitaria, sono stati approfonditi i principali concetti ad essa associati. Comunità,
partecipazione, empowerment e capitale sociale sono le parole chiave della partecipazione
comunitaria. Tutte queste sono mutuate da discipline diverse da quella di Sanità pubblica e
si rifanno a concetti più ampi quali quello di democrazia, cittadinanza e potere. Questi
interventi, prevedendo infatti una redistribuzione del potere all'interno della società,
5
possono realizzarsi solo in contesti in cui le istituzioni, rispettando gli ideali di democrazia,
sono in grado di cambiare, ascoltando le esigenze dei propri cittadini.
Infine, nel presentare gli approcci metodologici con cui mettere in atto e valutare gli
interventi di partecipazione comunitaria, si è fatto riferimento alla necessità di cambiare
paradigma, passando da uno di tipo 'bio-riduzionista' ad uno di tipo 'ecologico'.
L'ultimo capitolo, facendo proprie le riflessione dei primi due capitoli, ha descritto
un'esperienza concreta di partecipazione comunitaria. Lo strumento utilizzato è quello della
Terapia Comunitaria Sistemico Integrata. Questo approccio, sviluppato in Brasile nel 1986,
si configura come uno spazio sociale all'interno del quale le sofferenze del quotidiano
possono essere accolte, condivise e affrontate a partire dalla condivisione delle esperienze
di vita di altre persone. É uno strumento grazie al quale le persone possono scambiare
informazioni ed emozioni e creare una rete sociale di supporto.
Gli incontri di Terapia comunitaria si sono svolti all'interno di un palazzo occupato nella
città di Roma. L'esperienza descritta è ancora in corso ed è nelle sue prime fasi di
realizzazione. Pertanto, la descrizione dei suoi esiti deve necessariamente essere
considerata parziale e in divenire.
In linea con le riflessioni fatte nel secondo capitolo circa la valutazione degli interventi di
partecipazione comunitaria, per la raccolta e la presentazione dei dati sono state utilizzate
metodologie sia quantitative che qualitative. Rispetto a quest'ultimo approccio, lo strumento
utilizzato è stato quello del “diario di esplorazione” i cui stralci sono stati utilizzati per
compiere una prima valutazione generale su come l'intervento abbia interagito con lo
specifico contesto. Tuttavia, partendo dalla consapevolezza metodologica che il diario di
per sé è un risultato della ricerca, chi scrive ha deciso di restituirlo nella sua interezza come
allegato. A differenza degli altri documenti che sono presenti alla fine del testo, questo è
stato inserito sul retro delle pagine della tesi. Anche se potrebbe sembrare un modo di
procedere poco “accademico” e confusionario, il tentativo è quello di rappresentare in
maniera simbolica la possibilità di far dialogare due linguaggi tra loro diversi: quello
accademico e oggettivo da una parte e quello personale e soggettivo dall'altra. L'esercizio di
provare a stare contemporaneamente su registri linguistici differenti è lo stesso che nella
pratica viene fatto quando si lavora con la comunità. Provare cioè a lavorare con la
differenza nel dialogo, non rinunciando a mettere in relazione tra loro linguaggi e saperi
distanti e apparentemente inconciliabili.
Proprio per tali ragioni, chi scrive ritiene che per una comprensione completa del lavoro qui
6
presentato si dovrebbe prevedere la lettura di entrambe le parti, poiché queste si integrano a
vicenda. Al singolo lettore poi, la libertà di decidere da quale parte iniziare, se dalla lettura
della tesi o da quella del diario.
7
CAPITOLO I
INSIEME: DAL CORPO PROPRIO AL COMUNITARIO
L'uomo è una contraddizione: è questa contraddizione che noi siamo che ci
fa essere uomini, altrimenti saremmo animali e noi, invece che medici,
potremmo essere dei veterinari. […] Perché la nostra società possa
cambiare deve utilizzare un nuovo modello di uomo, un modello molto più
dinamico, sul quale fondare una nuova medicina, consapevole del fatto che
l'uomo è un prodotto di lotte, è un corpo sociale oltre che un corpo
organico. Ed è su questo corpo sociale che la nuova medicina deve lavorare,
non più solo sul corpo organico. […] Noi vogliamo cambiare lo schema che
fa del malato un corpo morto […]. Non lasciamo la persona che sta male
nelle mani del solo medico, ma cerchiamo di costruire un nuovo schema di
vita insieme con altre persone, che non sono solo malati. Quando cerchiamo
di coinvolgere la comunità nella cura del paziente, stiamo tentando di
eliminare il corpo morto,[...], e di sostituirlo con la parte attiva della
società. Questo è il modello che proponiamo e che è disfunzionale alla
logica della società in cui viviamo.1
Così scriveva Franco Basaglia nel 1979. In questo testo tratto dal libro “Conferenze
brasiliane”, lo psichiatra veneziano è riuscito a fotografare con estrema chiarezza i limiti
della medicina moderna e le sue possibilità di cambiamento (1).
Nel testo si fa riferimento al fatto che il moderno sapere medico si fonda su una concezione
di essere umano considerato come mero corpo biologico o corpo organico. La complessità
umana, per esigenze metodologiche, è stata ridotta alla somma di parti e funzioni distinte e
separate tra loro: gli organi e le loro funzioni. Questa visione dell'essere umano, oltre ad
aver acquisito lo status di dogma del sapere medico, è anche divenuta parte integrante della
cultura occidentale, vale a dire di come ci percepiamo come essere umani (2). In nome di
questa visione, abbiamo scelto di sostituire la nostra personale percezione del corpo e del
mondo, mediata dall'esperienza, con l'idea scientifica del corpo e del mondo, valida cioè
per tutti, in tutti i tempi e in tutti i luoghi. E siamo ormai talmente abituati a tutto ciò che
non facciamo più alcuna fatica a svalutare la nostra esperienza e a considerare il nostro
corpo, non più come il nostro punto di vista sul mondo, ma come un insieme di organi e
1 Galimberti U. Psichiatria e fenomenologia. Milano: Feltrinelli, 2006, cit., p. 246
8
funzioni (3). Non ci percepiamo più come un corpo che vive ma come un un corpo che
viene osservato e ridotto a cosa tra le cose (3; 4). Scrive Galimberti: “dal corpo non più
soggetto, ma oggetto, nasce l'oggettivazione del mondo, un mondo che non è più per noi
[...]”2.
Il modo attraverso cui guardiamo a noi stessi determina anche il modo attraverso cui
guardiamo il mondo e la società nella quale viviamo. Basaglia nel testo citato afferma che
per rifondare la nostra società e la nostra medicina sia necessario ripartire da un “nuovo
modello di uomo”. E la persona cui fa riferimento sembra essere una persona comunitaria e
relazionale, una persona che sappia fondare la sua identità nella relazione con l'altro, nel
vivere comunitario. Se così è, la nuova medicina che ci propone, e che era contenuta in
embrione nella legge per la chiusura dei manicomi (legge 180/78), è una medicina in cui il
medico non è l'unico depositario del sapere e del potere sulla salute e sulla vita delle
persone e che restituisce l'individuo alla comunità, riconoscendo ad essa il proprio ruolo nel
processo di cura e assistenza alla persona. Pensare ad una nuova medicina ci pone di fronte
alla domanda su “come vogliamo vivere” e che cosa intendiamo quando parliamo di società
giusta, società buona, libertà, felicità, autodeterminazione e realizzazione di sé (5).
Riflettere su tutto ciò ci interroga da un punto di vista etico, sociale e politico e ci sollecita
a prendere una posizione critica rispetto alla società nella quale viviamo.
A partire dalla storia della tradizione epistemologica (il pensiero cartesiano) che ha operato
la scissione dell'essere umano in mente e corpo e sulla quale ha preso vita la medicina
clinica, arriveremo poi a considerare in questo capitolo altri modi di concepire l'essere
umano e la comunità. Il tentativo è quello di superare la scissione mente/corpo/mondo
proponendo invece una relazione corpo-mondo, tra il corpo proprio e il corpo comunitario.
Concepire infatti l'essere umano come un essere relazionale e la comunità come un corpo
sociale (i cui singoli individui sono degli organi, delle parti di un tutto) ci permetterà di
aprire degli spazi di possibilità per pensare a forme altre di vivere insieme e di essere
umani. Ci proietteremo quindi verso delle proposte di buona vita e buona società dove la
salute umana possa fiorire anche grazie ad un modo nuovo di intendere la salute e le
pratiche per promuoverla.
2 Galimberti U. Psichiatria e fenomenologia. Milano: Feltrinelli, 2006, cit., p. 95
9
1.1 Origine della scissione mente/corpo e la nascita del pensiero biomedico
Ci viene in mente il caso di una donna di mezza età che soffriva di mal di
testa cronici e debilitanti. La paziente spiegò, con frasi zoppicanti, di fronte
a una affollata classe di studenti di medicina del primo anno, che suo marito
era un alcolista che talvolta la picchiava, che era stata letteralmente
relegata in casa negli ultimi cinque anni per accudire l'anziana e
incontinente suocera e che era costantemente preoccupata per suo figlio,
adolescente, che stava per essere espulso dalla scuola superiore. Benché la
storia della donna avesse riscosso una grande solidarietà da parte degli
studenti, alla fine una studentessa interruppe il professore per chiedergli:
“Ma quale è la vera causa del mal di testa?3
Questa storia mette in luce il processo di riduzione della persona a corpo biologico messa in
atto dal pensiero biomedico.
Secondo questo modello, la malattia è vista come il cattivo funzionamento di meccanismi
biologici e il medico ha il compito di intervenire per riparare tale alterazione (2).
Questo approccio si basa su un pensiero radicalmente materialistico ed è il prodotto
dell'epistemologia occidentale. Se pur questa tradizione epistemologica può esser fatta
risalire al pensiero di Platone e di Ippocrate, è con Cartesio (1600 circa) che ha trovato la
sua radicalizzazione fino alla nascita del pensiero scientifico in cui ancora oggi l'Occidente
si riconosce (3; 4).
La ragione cartesiana ha diviso l'essere umano in mente (res cogitas) e corpo (res extensa).
Su questa divisione è nata la scienza occidentale, la quale considera reale solo ciò che è
nell'ordine quantitativo e misurabile della res extensa. Ciò ha prodotto la scissione dello
spirito dalla materia, vale a dire ciò che è irreale e non quantificabile da ciò che è reale e
quantificabile (3; 4).
In base a questo modo di intendere la realtà, l'esistenza può essere intesa solo con due
significati: o come 'cosa' o come 'coscienza'. Nel corso dei secoli siamo stati abituati a
percepirci più come un corpo anatomico che non come un soggetto di vita, un corpo in idea,
concepito dall'intelletto, e non un corpo in carne e ossa, un corpo che ha un male e non che
sente un dolore (1; 3).
3 Quaranta I. Antropologia medica. I testi fondamentali. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2006, cit., p. 155
10
In altre parole, Cartesio isolò il corpo dal mondo e lo privò di tutte quelle sensazioni che si
generano direttamente dall'esperienza che il corpo fa del mondo, e lo trasformò in semplice
materia, oggetto, che al pari di tutti gli altri corpi esistenti, è soggetto alle leggi fisiche di
natura. A sua volta, separando la mente dalle influenze corporee e mondane la concepì
come puro intelletto, grazie al quale è possibile dare senso al mondo e a ogni Io personale e
soggettivo che lo abita (1; 3).
In questo modo l'io sensibilmente intuitivo della vita quotidiana venne de-corporeizzato e
de-mondanizzato e scisso in res extensa e res-cogitas. Tutte quelle informazioni di senso
che si fondano sull'esperienza corporea vennero ignorate, venendo considerate informazioni
superflue ai fini della comprensione della realtà (1; 3).
É proprio questo il tipo di pensiero espresso dalla studentessa di medicina quando
domanda:“Ma quale è la vera causa del mal di testa?”. Questo pensiero materialistico,
basato sul dualismo mente/corpo, ha permesso lo sviluppo delle scienze naturali e cliniche
così come noi le conosciamo oggi (ed è proprio questo materialismo radicale la ragione
della elevata efficacia della biomedicina) (4).
L'eredità cartesiana della medicina clinica consiste nel considerare il corpo umano come
una macchina il cui funzionamento può essere analizzato scomponendola nelle sue parti
(2). La medicina clinica è fondata, come scrive George Engel, sulla “nozione del corpo
come macchina, della malattia come conseguenza di un guasto della macchina e del
medico come colui che ha il compito di intervenire per riparare la macchina” .4
Considerando il corpo come mero corpo biologico, la medicina e i medici hanno preso
l'abitudine a riferirsi a questo come un elenco di funzioni: la vista, l'udito, il tatto, la
motilità; e ad associare a ciascuna funzione il suo organo e le sue cause (1; 3). Secondo
questo approccio, sono considerati reali solo quegli stati somatici, o quelle alterazioni, le
cui cause sono verificabili oggettivamente attraverso delle analisi diagnostiche. Ancora una
volta, è a causa di questo modo di concepire la realtà che la studentessa di medicina si
sforza di trovare la 'vera causa' del mal di testa della paziente; causa che, secondo il modo
cartesiano di categorizzare le afflizioni umane in o 'organiche' o 'psicologiche', andrà
cercata o nel corpo o nella mente (4). La conseguenza negativa di tutto ciò è che la
dimensione soggettiva del disagio umano viene disconosciuta e mortificata; e molto spesso,
in una società che riconosce come reali le malattie dell'organismo, ma molto meno i
problemi dell'esistenza, l'unica via praticabile per le persone di farsi ascoltare resta quella di
4 Capra F. Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente. Milano: Feltrinelli, 2013, cit., p. 104
11
esprimere in termini di malattia i problemi personali (1; 3; 4). In tal senso, a volte, la
malattia è solo l'estremo tentativo di un individuo di farsi ascoltare (1; 3). In questo modo il
pensiero biomedico, non essendo in grado di riconoscere come 'vero' un disagio sociale in
una sofferenza personale, lo trasforma, o tenta di trasformarlo, in un problema biologico
medicalizzandolo e individualizzandolo. Ciò che invece dovrebbe essere fatto è
collettivizzare tale disagio facendo emergere anche la sua dimensione politica; non
facendolo, la medicina, legittima quelle condizioni sociali e politiche causa della sofferenza
sociale manifestata (4).
Quanto appena descritto è forse il limite più grande dell'approccio biomedico; riducendo la
persona a corpo biologico, la medicina moderna perde di vista il paziente come essere
umano, trascurando gli aspetti esistenziali, psicologici, sociali, politici e ambientali della
sofferenza e della malattia (2).
1.2 I limiti e le conseguenze del pensiero biomedico
Come abbiamo visto, il pensiero biomedico su cui si fonda la medicina clinica origina dal
pensiero cartesiano. Questo pensiero ha introdotto la scissione mente/corpo e l'idea del
corpo concepito come una macchina che può essere capita in funzione della disposizione e
del funzionamento delle sue parti. Quando questa macchina risulta essere ben costruita e
funzionante si può parlare di 'salute', viceversa quando gli ingranaggi di questa non
funzionano nel modo appropriato si può parlare di 'malattia' (2).
Gli unici meccanismi della macchina umana che la scienza medica si è occupata di
esplorare per comprendere il suo cattivo funzionamento sono stati quelli di tipo biologico.
Come già affermato in precedenza, procedendo in questo modo, sono state escluse tutte le
influenze che i fattori non biologici hanno su processi biologici (2).
Le principali conseguenze di questo approccio sono che:
• il paziente scompare come persona e ridotto alla sua alterazione organica viene
espropriato della possibilità stessa di prendere decisioni intorno alla sua malattia (2;
6);
• l'attenzione a parti sempre più particolari del corpo umano ha accelerato la
tendenza verso una sempre maggiore specializzazione della medicina clinica (2; 7);
• i servizi sanitari sono costruiti esclusivamente intorno alla centralità del medico,
alla sua funzione curativa e alle specializzazioni cliniche esistenti (6);
• i saperi e le professioni di cura si sono scissi in due campi separati con pochissima
comunicazione tra di loro: i medici interessati al trattamento del corpo organico e
12
gli psicologi a quello della mente (1; 2; 3);
• la terapia medica è considerata esclusivamente come un'operazione tecnica i cui
principali strumenti sono rappresentati dall'uso di farmaci o di tecnologie (2);
• la medicina clinica si è convinta che il suo compito sia quello di eliminare
definitivamente il problema delle malattie e della morte (1; 3; 6);
• le persone hanno sempre più la percezione di essere dipendenti dalla medicina per
mantenere la loro salute (2);
• la salute viene considerata come mera assenza di malattia e vengono trascurate le
sue dimensioni sociali, ambientali e politiche (2);
• la medicina è considerata una scienza obiettiva e pertanto le riflessioni etiche
riguardanti il suo operato non sembrano doverla riguardare (2).
A partire dagli anni '70 del secolo scorso il modello biomedico viene messo in discussione
alla luce soprattutto di due eventi che hanno segnato quel particolare momento storico:
l'aumento delle malattie croniche e la scoperta, da parte dell'epidemiologia, che la
distribuzione delle patologie all'interno della popolazione non è legata esclusivamente a
fattori biologici ma segue soprattutto il gradiente sociale (disuguaglianze in salute, capitolo
2) (6).
Fino ad allora la medicina clinica aveva visto crescere esponenzialmente la sua credibilità e
il suo potere all'interno della società grazie soprattutto alle numerose innovazioni
scientifiche e ai sorprendenti successi ottenuti, soprattutto dal secondo dopoguerra in poi,
nel contrasto della malattie infettive grazie all'avvento della terapia antibiotica. Tutto ciò
contribuì ad alimentare il mito di una medicina in grado di sconfiggere ogni tipo di malattia
e forse, anche la morte. La convinzione che tale sogno fosse più che realizzabile, incentivò
l'aumento di investimenti economici nei confronti della ricerca e dell'innovazione
tecnologica, soprattutto nel campo delle tecnologie diagnostiche e terapeutiche (6). Ad
oggi, una delle principali conseguenze di questo processo storico è rappresentato dal ruolo
di subalternità della medicina nei confronti del potere finanziario e industriale (8).
Il mito di onnipotenza della medicina clinica inizia a vacillare con l'avvento delle patologie
croniche, nei confronti delle quali non si è riuscito a replicare i successi ottenuti con le
malattie infettive (6). Se nel caso delle malattie infettive, la terapia antibiotica, nella
maggioranza dei casi, è in grado di far ritornare l'organismo alla condizione fisiologica di
partenza, decretandone la guarigione, con l'avvento delle malattie croniche ciò non è stato
più possibile. Nelle malattie croniche, la medicina fallisce nel suo ruolo di guarigione
poiché non è in grado di restituire una condizione fisiologica come quella di partenza (9).
13
Inoltre, la loro origine multifattoriale ha messo in discussione il modello 'causa-effetto' di
produzione della patologia su cui si fonda il pensiero biomedico. In questo caso, il concetto
di 'causa', assume una valenza probabilistica e la malattia è il frutto dell'interazione tra la
suscettibilità individuale e i diversi fattori patogenetici che agiscono sul soggetto (6).
Tale situazione ha rappresentato un'opportunità per tutte quelle persone che all'interno del
mondo della medicina, già a partire dagli anni '50, stavano cercando di integrare il modello
biomedico con una visione più ampia, anche definita socio-ecologica (6, 8, 10).
Diversi studi scientifici iniziarono a dimostrare come la riduzione dei livelli di mortalità
osservata nel corso di tutto il '900, più che dalla scoperta di terapie specifiche, fosse da
attribuirsi soprattutto al miglioramento delle condizioni igieniche e dell'alimentazione e ai
cambiamenti avvenuti nell'assetto urbanistico delle città. Queste stesse condizioni
generarono anche un altro importante fenomeno: l'invecchiamento della popolazione (6).
Oggi, le società industriali nelle quali viviamo sono caratterizzate dall'invecchiamento della
popolazione e da un'elevata prevalenza di malattie croniche e degenerative. Anche nel caso
in cui migliorerà la capacità di controllare e addirittura curare qualche patologia, ci sarà
comunque sempre una malattia cronica che condurrà a morte la popolazione anziana.
Stando così le cose, è oggi più che mai opportuno che la medicina clinica metta in secondo
piano il sogno di essere capace di eliminare il problema delle malattie e della morte,
facendo ricorso agli effetti speciali della medicina d'avanguardia, e provi a ricondurre i
propri atti sanitari soprattutto ad una funzione di assistenza. Funzione d'assistenza che
“sarà superlativa solo se saprà essere umanamente significativa”5 (6).
L'altro fenomeno nei confronti dei quali la medicina clinica si è scoperta impotente e per
certi versi complice è quello delle disuguaglianze in salute. Sempre intorno agli anni '70 del
secolo scorso esce in Inghilterra un rapporto sullo stato di salute della popolazione
(rapporto Black) che descriveva le differenze di salute esistenti tra le classi sociali (11). A
questo ne sono seguiti altri che hanno testimoniato come il fenomeno delle disuguaglianze
in salute fosse presente in tutti i Paesi industrializzati. Dimostrando che la salute e la
malattia riflettono le caratteristiche del sistema sociale e culturale all'interno del quale le
persone vivono, gli studi sulle disuguaglianze in salute hanno messo fortemente in
discussione il mito della neutralità scientifica della medicina (6).
Da quel momento in poi, i medici non hanno più potuto, se non colpevolmente, escludere i
fattori socio-economici dai confini della medicina. In tal senso, Capra afferma in maniera
5 Lemma P. Promuovere salute nell'era della globalizzazione. Una nuova sfida per “antiche” professioni. Milano: Edizioni Unicopli, 2005, cit., p.22
14
provocatoria che finché i medici: “manterranno le loro posizioni al vertice della gerarchia
al potere all'interno del sistema di cura sanitaria, avranno la responsabilità di doversi
occupare di tutti gli aspetti della salute”6.
Affermando che le origini delle malattie non sono solo biologiche ma anche sociali, le
patologie non possono essere più considerate, in maniera fatalista, come un'inappellabile
condanna biologicamente determinata. Venendo considerate anche come socialmente
determinate queste possono essere anche socialmente affrontate (6).
Infine, è possibile affermare che gli studi sulle disuguaglianze in salute hanno aggiunto un
significato etico e politico alla critica culturale posta nei confronti del modello biomedico
(6). Le riflessioni e le proposte concretamente messe in campo dal 'movimento' di critica
alla medicina clinica saranno oggetto di approfondimento del secondo capitolo.
1.3 Dalla scissione mente/corpo alla relazione corpo-mondo
Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come la scissione mente/corpo, attraverso la quale
percepiamo noi stessi, è frutto di una costruzione culturale e storica. Pensare al nostro corpo
come un oggetto nel mondo, in cui le uniche relazioni possibili e reali sono quelle fisico-
chimiche, è diventato ormai “buono da pensare”; e mettere in discussione tutto ciò farebbe
vacillare le nostre certezze epistemologiche. Sentendoci private di una fondazione sicura e
oggettiva della conoscenza, verremmo sopraffatte dall'ansia cartesiana, vale a dire dalla
paura di cadere nel vuoto, nel caos del relativismo e della soggettività assoluti (4).
“Lei non ha alcuna convinzione. Impostando le cose come lei dice non si
può fare alcuna ricerca. Senza una teoria generale non c'è scienza, la
scienza nasce e si sviluppa solo mediante la teoria. Lei distrugge la solidità
delle posizioni mediche. Lei è un nichilista pericoloso.”7
Queste le parole che un medico rivolse a Karl Jasper, psichiatra e filosofo del '900, di fronte
alle sue intenzioni di mettere in discussione il paradigma cartesiano come unico strumento
per la comprensione umana e esplorazione del reale. Tale reazione testimonia in maniera
emblematica come la scienza tenti di scongiurare l'ansia cartesiana accusando di nichilismo
e inconcludenza chiunque provi a metterla in discussione (1). Ciò nonostante, è oggi più
che mai necessario (per tutte le ragioni evidenziate in precedenza) tentare di superare il
6 Capra F. Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente. Milano: Feltrinelli, 2013, cit., p.118
7 Galimberti U. Psichiatria e fenomenologia. Milano: Feltrinelli, 2006, cit., p. 187
15
paradigma cartesiano come unico modo di pensare al reale e all'umano (1; 3). A tal fine è
necessario che “i medici e gli psichiatri devono cominciare a pensare”8 tenendo “ben fermo
cosa significa essere un uomo”9 (1).
Per comprendere cosa l'essere umano sia e superare il dualismo cartesiano è necessario
riappropriarsi di un'immagine del corpo come corpo vivente (Leib) e non come mero corpo
fisico (Korper) (1; 3).
Il 'corpo vivente' è il corpo che noi viviamo attraverso i nostri sensi e grazie al quale
facciamo esperienza del nostro vissuto quotidiano. Il 'corpo vivente' è riconosciuto come
fonte di rivelazione del mondo, come il mezzo attraverso il quale scopriamo il mondo (12).
Se per il pensiero cartesiano la mente è l'unico strumento affidabile per conoscere il mondo
e può fare a meno del corpo, per l'approccio fenomenologico10 la mente non può evitare di
affidarsi al corpo. Quando la mente tenta di scoprire il mondo che la circonda, per esempio
toccando degli oggetti, si accorge di non poterlo fare se non con il corpo; o ancora quando
si tocca il proprio corpo ci si sente al tempo stesso esploranti ed esplorati. Inoltre, il proprio
corpo non si trova in nessun luogo ma è sempre con se stessi. Per questo chi fa esperienza
del mondo non è l'intelletto puro, come vorrebbe la logica cartesiana, ma un intelletto
incorporato che agisce nel mondo non come 'io penso' ma come 'io spingo', 'io trascino', 'io
sollevo' le cose nel mondo. É attraverso la scoperta delle cose nel mondo che il corpo si
conosce. Scrive Galimberti: “[...] sono gli oggetti del mondo a indicare al corpo le sue
possibilità, è la loro fisionomia ad allontanarlo o ad avvicinarlo, è il loro mistero ad
attrarlo. Il significato delle mie mani non è nella loro struttura scheletrica, muscolare e
nervosa, ma è negli oggetti che riesco ad afferrare e in quelli che mi sfuggono. La potenza
ambulatoria delle mie gambe non è nella loro posizione anatomica, ma nelle cose che
voglio raggiungere e in quelle da cui voglio fuggire. Le possibilità del mio sguardo non mi
sono indicate dalle leggi dell'ottica, ma dalla prossimità o dalla lontananza dalle cose,
dalla loro bellezza o dalla loro ripugnanza”11
8 Galimberti U. Psichiatria e fenomenologia. Milano: Feltrinelli, 2006, cit., p. 185 9 Galimberti U. Psichiatria e fenomenologia. Milano: Feltrinelli, 2006, cit., p. 187 10 La fenomenologia e l'esistenzialismo sono stati due approcci filosofici che hanno tentato dicomprendere l'essere umano e la sua esperienza in termini propriamente umani e non naturalistici (ocartesiani). I principali interpreti di queste correnti di pensiero, cui nel testo si farà riferimento, sonostati: S. Kierkegaard, F. Nietzche, E. Husserl, J.P Sartre, M. Heidegger, G. Marcel, Merleau-PontyM, Jasper K etc...(13). Queste due correnti filosofiche affermano che tra le principali cause della crisidella nostra società c'è quella di aver elevato la scienza al livello di indiscusso a priori esistenzialeattraverso il quale decidere il modo umano di vivere e pensare. In questo modo è l'uomo adappartenere alla scienza più di quanto la scienza non appartenga all'uomo per l'interpretazione dellanatura (1).11 Galimberti U. Psichiatria e fenomenologia. Milano: Feltrinelli, 2006, cit., p 259
16
Superare il dualismo mente/corpo e riappropriarsi del 'corpo vivente' vuol dire
riappropriarsi della propria esperienza corporea, sensoriale. Dobbiamo iniziare di nuovo a
fidarci dei nostri sensi, della nostra vista, del nostro udito, del nostro tatto, in generale del
nostro sentire. Se a un corpo viene meno la possibilità di vedere, toccare, sentire (de-
sensorializzazione), questo perde il suo sostentamento e, di conseguenza, ogni sua vitalità
(14). E, tuttavia, il 'corpo vitale' è ancora qualcosa di più della possibilità che gli concedono
i sensi; a decidere il suo livello di vitalità è il suo interesse per il mondo (contatto vitale) più
che il suo contatto sensoriale con esso (1; 3).
“Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un
saggio ignoto che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo. Vi è più
ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza”12.
Con queste parole Nietzsche fa corrispondere il 'corpo vivente' con l'Io, stabilendo
un'identità tra corpo ed esistenza. Così inteso, non può esistere un essere umano al di fuori
del suo corpo, perché il suo corpo è lui stesso nel realizzarsi della sua esistenza (3).
L'essere umano può realizzare la sua esistenza solo se è in grado di uscire fuori di sé e si
apre alla comprensione del mondo. É proprio questa sua capacità di relazionarsi con il
mondo, comprendendolo e valutandolo, che distingue l'essere umano dalle cose del mondo
che semplicemente vivono ma non esistono come per esempio gli animali e gli alberi (5).
Per tale ragione disporre di una perfetta organizzazione anatomica e fisiologica non è una
condizione sufficiente per disporre del proprio corpo, e quindi di noi stessi; per poterlo fare
è necessario disporre di un mondo dove il corpo possa muoversi ed esprimersi con senso. Il
corpo organico cui fa riferimento il pensiero cartesiano è un corpo isolato dall'esistenza, un
corpo che non è fuori di sé ma in sé, cosa tra le cose. In questo caso, ciò che si studia, che si
descrive, non è più la corporeità che l'esistenza vive, ma l'organismo che la biologia
descrive. Sarebbe tuttavia un errore contrapporre il 'corpo vivente' così descritto al corpo
organico che la scienza descrive; questi rappresentano infatti due modi diversi di descrivere
la stessa realtà. La distorsione nasce quando la scienza, trasformandosi in superstizione
scientifica, pretende di elevare il corpo organico al solo corpo reale dell'essere umano. Le
scienze naturali, basandosi esclusivamente sull'oggettivismo matematico, sulla scissione
mente/corpo e corpo/mondo sono incapaci di considerare il corpo come soggetto di vita e di
12 Fabbrichesi R. In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario. Milano-Udine: Mimesis Edizioni, 2012, cit., p 112
17
avere una comprensione propriamente umana dell'esistenza. Per tale ragione, se si vuole
riscoprire la soggettività corporea, è necessario tornare al mondo-della-vita (quello delle
esperienze vissute, comuni e immediate) dove il nostro corpo non è solo ciò che la biologia
descrive ma un rapportarsi al mondo (1; 3; 15).
L'apertura del corpo al mondo, consente all'essere umano di esistere e di avere un mondo;
come abbiamo visto, il corpo vivente non è al mondo come le cose sono al mondo, ma è al
mondo come colui che ha un mondo nel quale si proietta e al quale conferisce significato. Il
mondo che esiste per noi è quello che viviamo, quello che abitiamo. Abitare il mondo
significa riuscire a conferire alle cose dei significati che vanno al di là della loro oggettività
rendendole familiari (1; 3).
“Abitare è sentirsi a casa […] tra cose che dicono il nostro vissuto, tra volti
che non c'è bisogno di riconoscere[...]. Abitare è sapere dove deporre
l'abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l'altro.”13
Solo abitandolo e frequentandolo il mondo può acquisire per noi la sua forma, una forma
che non è mai giusta in sé, ma giusta per noi, e che si realizza attraverso la nostra
quotidiana esperienza, le nostre abitudini (1; 3).
L'essere umano in relazione con il mondo che si va così costituendo è una persona situata,
legata a una corporeità vissuta, vulnerabile, limitata, consegnata a un'originaria
indeterminatezza e per questo rimessa al compito di definirsi e di determinarsi, in un
processo aperto dagli esiti non prevedibili (5).
In questo processo imprevedibile di determinazione, in cui viene integrato ciò che è altro da
sé, sta la capacità propria dell'essere umano di trasformare se stessi e il mondo. Questo vuol
dire abitare il mondo. Posso dire di abitare il mondo quando me ne approprio, ossia quando
sono in grado di mettermi in relazione con esso e con me stesso. É attraverso questo
processo di appropriazione che l'essere umano può dare contemporaneamente forma a se
stesso e al suo mondo. Ciò vuol dire che l'essere umano come tale non è qualcosa di
essenzialmente dato, il cui compito è semplicemente quello di realizzarsi; egli piuttosto è il
risultato delle modalità attraverso le quali sarà in grado di rapportarsi con il mondo. Le sue
capacità, i suoi sensi e i suoi bisogni, si svilupperanno attraverso l'interesse e il
coinvolgimento, cognitivo ed affettivo, che prova per esse (5).
La persona, entrando in relazione con le cose del mondo le fa diventare parte di sé. E
13 Galimberti U. Psichiatria e fenomenologia. Milano: Feltrinelli, 2006, cit., p. 258
18
facendole diventare parte di sé non le lascia inalterate ma le conferisce un'impronta
individuale, ponendo in esse i suoi obiettivi e le sue determinazioni. Attraverso l'atto di
appropriazione cambia sia chi si appropria sia ciò di cui ci si appropria. Ciò non significa
che l'essere umano abbia un potere illimitato di disporre di sé e del mondo; il processo di
appropriazione infatti non consiste in una semplice presa di possesso ma più
specificatamente in una relazione di adattamento e in una risposta alle specifiche
caratteristiche della situazione in cui, di volta in volta, ci si viene a trovare. É la capacità di
gestire situazioni alle quale ci troviamo a dover far fronte e alle quali possiamo rispondere
in modo più o meno adeguato. “L'appropriazione di sé significa quindi una formazione di
sé senza però l'onnipotenza di un demiurgo che inventa se stesso”14. Il sentimento di
onnipotenza nei confronti delle nostre capacità sul mondo è figlia del pensiero cartesiano
che ci concepisce come puro intelletto sprovvisto di un mondo e di un corpo in relazione
con esso. Il processo di appropriazione di se stessi e del mondo prevede invece un sé, un
'corpo vivente', che sia in grado di confrontarsi con la realtà dandogli forma. Non solo, la
persona deve essere anche in grado di riflettere sulla realtà nella quale , nel bene o nel male,
si trova ad essere coinvolta (5).
L'essere umano è quindi un 'progetto' il cui compito esistenziale è quello di provare a
determinarsi consapevolmente in qualcosa trasformando il mondo nel tentativo di riuscirci.
Per realizzarsi come persona, bisogna prendere parte attiva nel mondo. Avere interessi e
investire il mondo di significato sono condizioni irrinunciabili per essere una persona (5).
Infine, visto che per riuscire ad essere persona è necessario poter far proprie le condizioni
nelle quali si vive e che farle proprie significa essere liberi, la libertà è un presupposto
dell'essere persona e l'essere persona è un presupposto della libertà (5).
1.4 La malattia come causa e conseguenza di un'alterata relazione corpo-mondo
“[...] essa si percepisce [...] come una specie di senso di benessere e ancora
di più quando, in presenza di tale sensazione, siamo intraprendenti, aperti
alla conoscenza, dimentichi di noi e quasi non avvertiamo neppure gli
strapazzi e gli sforzi: questa è la salute. La salute non consiste in una
sempre crescente preoccupazione per se stessi, nel timore che le proprie
condizioni fisiche oscillino e nemmeno nell’inghiottire pillole amare (…) La
salute non è precisamente un sentirsi, ma un esserci, un essere nel mondo,
14 Jaeggi R. Alienazione. Roma: Editori Internazionali Riuniti, 2015, cit., p 321
19
un essere insieme agli altri uomini ed essere occupati attivamente e
gioiosamente in compiti particolari della vita”15
Essere nel mondo, impegnati gioiosamente in attività della vita e dimentichi di noi, questa
per Gadamer è la salute. Siamo in salute quando siamo in relazione con il mondo e il nostro
sé aderisce al nostro corpo; pervasi allora da un senso di benessere ci ascoltiamo vivere,
lasciandoci invadere dalla calma e dal silenzio (1; 3).
Paradossalmente, il dualismo cartesiano origina proprio dal modo in cui noi ci percepiamo
in salute. Quando stiamo bene, quando ci sentiamo in salute, siamo dimentichi di noi dice
Gadamer, di fatto ci dimentichiamo del nostro corpo, questo sparisce dalla nostra
consapevolezza di come facciamo esperienza. Quello che ci accomuna quando ci sentiamo
bene è proprio la percezione di un'assenza del corpo, dandolo per scontato questo sparisce.
Il malinteso dell'epistemologia cartesiana si basa quindi sull'aver attribuito i caratteri
dell'universalità all'esperienza vissuta dell'assenza del corpo (12).
É soprattutto con l'esperienza del dolore e della malattia che il corpo emerge dalla sua
assenza ed esige attenzione (12).
“[...] tutto questo con cui ho a che fare è una […] massa decadente di
tessuti, niente di buono, e io, io mi ritrovo ancora a guardarlo in questo
modo; come se la mia mente fosse separata dal mio sé, credo. Non mi sento
integrato. Non mi sento come una persona intera perché sono sempre alle
prese con qualche difetto fisico...”16
Queste sono alcune delle parole che un giovane afflitto da dolore cronico ha rilasciato
durante un'intervista antropologica. L'esperienza del dolore e più in generale della malattia
produce un capovolgimento: “io, che prima vivevo per il mondo, mi trovo improvvisamente
a vivere per il mio corpo”17. Il corpo domina la coscienza e così facendo minaccia di disfare
il mondo per come, fino a quel momento, lo abbiamo conosciuto (1; 3; 15).
La biomedicina, riferendosi al corpo come corpo biologico, è in grado certamente di
spiegare la malattia (considerandola come l'effetto di una causa) ma non di comprenderla
15 Zannini L. Salue, malattia e cura. Teoria e percorsi di clinica della formazione per gli operatori sanitari. Milano: FrancoAngeli, 2010, cit., p. 49
16 Good BJ. Un corpo che soffre. La costruzione di un mondo di dolore cronico. In: Quaranta I.(a cura di) Antropologia medica. I testi fondamentali. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2006, cit.,p. 248
17 Galimberti U. Psichiatria e fenomenologia. Milano: Feltrinelli, 2006, cit., p. 270
20
(come il significato di un rapporto alterato tra corpo e mondo). Questo modo di intendere
l'esistenza umana ci aiuta a comprendere la malattia e a considerarla come un evento che
impedisce all'essere umano di inserirsi nel mondo e di abitarlo come lo abitava prima (1; 3).
La medicina clinica concentrandosi solo sull'organismo espropria la persona della sua
malattia e la trasferisce nell'ambiente tecnico dell'ospedale, isolandola dalla società. Le
conseguenze di tale approccio sono che la malattia perde il suo senso sia per il paziente che
per la società nella quale è insorta. Questa viene vissuta individualmente e all'interno di una
relazione duale e non reciproca (relazione medico-paziente), in cui al paziente non si
concede di scambiare il senso della sua malattia. Riconoscendo la supremazia del valore
biologico della vita su quello esistenziale, il sapere medico si definisce in termini di
frequenze statistiche e non di vissuti e così facendo riduce la vita a “bivalenza polare che
conosce solo la disgiunzione del normale e del patologico”18 (1; 3).
“[...] chi mangia l'ennesimo hamburger industriale non sarà molto eccitato
dal suo gusto, ma siccome questo gli è familiare lo trova tranquillizzante. Lo
stesso vale per il tipo sedentario, sprofondato in poltrona davanti al
televisore acceso a guardare distrattamente un programma che non gli
interessa particolarmente”19
I comportamenti descritti sopra sono la descrizione di un sentimento di indifferenza
attraverso il quale le persone mettono alla porta gli stimoli provenienti dal mondo. Ciò
avviene quando il mondo viene percepito come un luogo inospitale nel quale il soggetto
non riesce più ad esprimere la propria esistenza (1; 3; 5; 16).
Quando il mondo perde di interesse e di significato anche la vita non ha più alcun interesse
e senso. Così, assentandosi progressivamente dal mondo, la persona si ammala e con la
malattia ha la possibilità di non occuparsi più del mondo, ma esclusivamente di sé. L'unico
modo che ha trovato per esistere è quello della malattia. In tal senso, più che essere la causa
di determinati sintomi, la malattia può essere considerata il sintomo di un compromesso
rapporto con il mondo. In altre parole, può essere concepita anche come un atto di reazione
e rifiuto del contesto sociale nel quale ci si trova a vivere (1; 3; 15). Questo alterato
rapporto con il mondo prende il nome di alienazione (5).
Il termine alienazione si riferisce ad un'alterata qualità della relazione che si ha con il
18 Galimberti U. Psichiatria e fenomenologia. Milano: Feltrinelli, 2006, cit., p. 9719 Sennett R. Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione. Milano: Feltrinelli, 2014,
cit., p. 210
21
mondo e con se stessi. É una “relazione in assenza di relazione”20 che impedisce il
processo di appropriazione della propria vita (5).
Le persone che sperimentano uno stato di alienazione sono caratterizzate da forme di
comportamento irrigidite, ipernormali e passive, accompagnate da sentimenti di:
indifferenza, assurdità, artificialità, isolamento, insensatezza, impotenza, mancanza di
autenticità e vuoto interiore, apatia e scissione, perdita di interesse e indifferenza nei
confronti del mondo (5).
La perdita di un coinvolgimento dotato di senso nel mondo e la sensazione di aver perso il
potere di influenzare gli avvenimenti della propria vita si compenetrano a vicenda. La
percezione di un mondo privo di senso produce un senso di impotenza e la sensazione di
impotenza esita in una complessiva mancanza di senso. Anche se l'alienazione può essere
certamente associata a forme di potere effettivo (istituzioni che si presentano come
immodificabili e potenti, costrizioni strutturali che non lasciano alcuna libertà d'azione,
come per esempio forti costrizioni imposte dall'economia), il senso di impotenza qui
descritto ha a che fare con la perdita di consapevolezza circa la libertà e le possibilità di
azione cui si può avere accesso. Qualcosa rispetto a cui si ha il potere di decidere non è più
oggetto di decisione, viene cioè percepito come dato e non come il risultato delle proprie
azioni. La capacità di compiere delle azioni, degli esperimenti, al fine di risolvere i propri
problemi subisce una paralisi e le situazioni della vita non vengono più percepite come
campi di possibilità. Per riuscire a scorgere dei margini di possibilità di azione è necessario
essere accessibili a se stessi, cioè riuscire ad accedere ai propri desideri ed esprimere i
propri bisogni. Quando questo non avviene il soggetto diventa estraneo a se stesso e
percependosi come un oggetto passivo in balia di forze sconosciute perde la capacità di
chiedersi che tipo di vita voglia vivere (5).
1.5 Dal corpo biologico al corpo comunitario
Dalle riflessioni fino ad ora riportate si è giunti a definire il soggetto come il risultato della
relazione reciproca che questo ha con il mondo. Questo modo di concepire l'essere umano,
oltre a superare il dualismo cartesiano corpo/mente, stabilisce una continuità tra l'esperienza
interna (o interiorità) e l'esperienza esterna (1; 3; 5) .
Con ciò viene a cadere un'altra eredità del pensiero cartesiano, quella dell'esistenza di un
“Io riflessivo e che osserva, di un sé consapevole che sta al di fuori del corpo e distante
20 Jaeggi R. Alienazione. Roma: Editori Internazionali Riuniti, 2015, cit., p. 41
22
dalla natura”21 (17).
É proprio grazie a questa continuità tra un 'mondo dentro' e 'un mondo fuori' che l'essere
umano è in grado incorporare, fare entrare dentro di sé, nella propria carne, la molteplicità
del mondo. Facendo corpo con la molteplicità del mondo la persona più che un singolo, un
individuo (in-dividuum, non diviso), può essere considerata come una pluralità (14).
“Una persona in realtà è come una costellazione di stelle, che appare essere
un'unica stella a occhio nudo, ma quando è vista con il telescopio della
psicologia scientifica si scopre da una parte essere molteplice al proprio
interno e dall'altra come qualcosa che non ha assolutamente demarcazione,
nel rapporto con una costellazione vicina”22.
Inizia a prendere forma l'immagine di un individuo che non è più tale, cioè non diviso al
suo interno, ma il risultato di un continuum relazionale tra le sue parti come fosse una
comunità. Se l'individuo può essere concepito come una comunità, anche la comunità può
essere concepita come un grande individuo. Così come l'individuo non è costituito dal
semplice assemblaggio delle sue parti anche la comunità non è un semplice insieme di
individui (14).
“È una specie di unità organica che ha i suoi organi come li ha il corpo
dell'individuo. La comunità cresce e deperisce, è sana o malata, è giovane o
vecchia nello stesso preciso modo come accade ai singoli membri della
comunità”23.
Così cade un'altra separazione dell'epistemologia occidentale: la contrapposizione
individuo-società (17); e il corpo proprio dell'individuo diventa parte di un corpo più
esteso: quello comunitario (14). Per questo motivo, più ci addentriamo nella scoperta del
nostro mondo interno più ciò che scopriamo sono gli altri, la comunità. La nostra identità si
costituisce dunque in un dialogo costante con sé e con gli altri. Nell'incontro con l'altro e
21 Lock M, Scheper-Hughes N. Un approccio critico -interpretativo in antropologia medica. Rituali e pratiche disciplinari e di protesta, cit., p. 162. In: Quaranta I.(a cura di) Antropologia medica. I testi fondamentali. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2006
22 Fabbrichesi R. In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario. Milano-Udine: Mimesis Edizioni, 2012, cit., p. 99
23 Fabbrichesi R. In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario. Milano-Udine: Mimesis Edizioni, 2012, cit., p. 103
23
con la comunità i suoi confini diventano vaghi, mutevoli ed essa continuamente si
trasforma al punto tale che non può che essere considerata come “un essere bastardo,
meticcio, una chimera”24 (14).
Tutto ciò, è importante sottolinearlo, non implica il fatto che gli essere umani non abbiano
una percezione del sé corporeo distinta dagli altri. A tal proposito, Winnicott sostiene che
tale capacità sia del tutto naturale, pre-culturale e universale (17)25.
La costruzione del sé è un processo che dipende dall'interazione sociale, per costruire
quindi il proprio sé un individuo deve essere membro di una comunità. In tal senso, non
possiamo mai considerarci come gli unici autori della nostra vita poiché possiamo diventare
qualcuno solo attraverso la relazione con gli altri (5; 14).
“Da solo io sono perduto e sono meno di niente. Ho bisogno di un
consigliere; ho bisogno della mia comunità. […] Fate esistere la comunità.
[...]”26.
“È dunque puerile credere che siamo solo una scatola di carne e ossa, con
un'anima che dimora al suo esatto centro e che la muove alla bisogna.
Quando comunico i miei sentimenti ad un amico in una conversazione tesa,
quando partecipo ad una gioia collettiva, quando ragiono come il soldato in
battaglia, io esco dal recinto dell'Io (se mai si può credere che tale recinto
davvero ci sia) e la mia anima si scioglie nel comune”27.
Questa visione dell'essere umano, lo ripetiamo, è diversa da quella individualista imperante
nella società occidentale (16). Così Tocqueville nel 1840 descrive l'individualismo:
“Ciascun cittadino, ritirato/ripiegato in se stesso, si comporta come se fosse estraneo al
destino di tutti gli altri. I suoi figli e la cerchia dei suoi amici costituiscono per lui l'intera
specie umana. Quanto agli scambi con i concittadini, egli li incontra, ma non li vede; li
tocca, ma non li sente nell'animo; egli esiste solo in se stesso e per se stesso. E se in queste
24 Fabbrichesi R. In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario. Milano-Udine: MimesisEdizioni, 2012, cit., p. 79
25 Winnicott D. In: Lock M, Scheper-Hughes N. Un approccio critico -interpretativo inantropologia medica. Rituali e pratiche disciplinari e di protesta, cit., p. 164. In: Quaranta I.(acura di) Antropologia medica. I testi fondamentali. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2006
26 Fabbrichesi R. In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario. Milano-Udine: MimesisEdizioni, 2012, cit., p. 107
27 Fabbrichesi R. In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario. Milano-Udine: MimesisEdizioni, 2012, cit., p. 101
24
condizioni gli rimane nell'animo un senso della famiglia, è scomparso invece il senso della
società”28
Nel '900, un celebre psicologo austriaco (R. Spitz), osservò a lungo i bambini in molti
orfanotrofi. Sebbene questi venissero ben accuditi dal punto di vista fisico, molti
deperivano senza alcuna causa apparente e in alcuni giungevano drammaticamente alla
morte. Spitz notò che i bambini, anche se nutriti, non ricevevano nessuna cura relazionale e
affettiva. Questa drammatica testimonianza, dimostra che senza relazione non solo la
formazione del sé viene compromessa ma anche la sopravvivenza fisica è minacciata (14).
1.6 Verso una buona vita in una società giusta
La citazione di Basaglia proposta all'inizio di questo capitolo finisce affermando che un
nuovo modello di essere umano sul quale fondare una nuova pratica medica è disfunzionale
alla logica della società nella quale si vive. Come abbiamo avuto modo di vedere nel
precedente paragrafo, una persona si definisce tale quando riesce a sentirsi parte di una
comunità e a relazionarsi con gli altri. Nella società in cui viviamo è imperante invece
un'idea di soggetto del tutto indipendente e autore del proprio destino. Per tale ragione, ai
fini di descrivere ancora meglio cosa significhino concetti quali 'buona vita' e 'buona
società, quest'ultima parte della nostra riflessione prenderà le mosse dall'analisi delle
strutture sovraindividuali che determinano comportamenti individuali (5).
Analizzare come il pensiero cartesiano, e di conseguenza quello biomedico, abbiano
contribuito a dare forma ad un modello di individuo e di società non è tuttavia sufficiente
per comprendere l'attuale condizione umana. Per farlo è necessario svolgere anche una
riflessione critica del capitalismo come forma di vita (5).
Le attuali organizzazioni sociali fondate sul capitalismo come forma di vita promuovono un
ideale di persona che sia indipendente, autonoma, competitiva, sempre giovane e
invulnerabile (16; 17). Questi valori sono plasticamente rappresentati da un'idea 'salutista'
del corpo che dovrebbe essere magro, forte e fisicamente in forma. Così chi si impegna a
diventare forte e agile vince, chi invece è grasso e fiacco perde e viene emarginato dalla
società. In questo modo la salute più che come uno stato di fatto, diventa una condizione da
conquistare, e chi non ci riesce è da biasimare. Non solo, alcuni autori ritengono che il
fitness, la mania della forza fisica, sia l'espressione indiretta di una preparazione
internazionale alla guerra (17). “L'irrobustirsi e indurirsi della fibra nazionale verrebbe a
28 Sennett R. Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione. Milano: Feltrinelli, 2014, cit., p. 208
25
corrispondere all'irrobustirsi dei corpi individuali”29.
A tutto questo si aggiunga anche che, ai fini dell'attuale produzione capitalistica, il corpo è
stato prima concepito come macchina (con il beneplacito della medicina clinica) e poi come
merce. Così facendo, la vita più che il fine dei meccanismi di produzione e della società
tutta è diventata un mezzo, e non sorprende che questa venga sacrificata obbedendo al
ricatto “o il lavoro o la morte” (18).
Infine, il nuovo spirito del capitalismo è stato anche in grado di trasformare a suo vantaggio
quei valori sui quali si fondava la sua critica. Così gli ideali di autorealizzazione,
responsabilità personale, autonomia, flessibilità e creatività, da fattori di emancipazione
sono stati utilizzati come strumenti di legittimazione di dispositivi che pregiudicano le
condizioni di possibilità di vite realizzate e veramente autoresponsabili (5; 19). Così la
realizzazione di sé e la responsabilità personale sono state fatte proprie da una 'cultura del
narcisismo' che prevede individui unicamente interessati alla realizzazione ossessiva del
proprio valore senza la minima considerazione dei bisogni e diritti altrui. Gli altri, per
queste persone, possono rappresentare al massimo un mezzo attraverso il quale raggiungere
i propri obiettivi (5; 19).
Aver piegato la creatività e la flessibilità alle esigenze della produzione capitalistica, sta
contribuendo a determinare la diffusione di un generale senso di incertezza e di fallimento
nella vita delle persone. Recenti studi hanno dimostrato che ciò che oggi determina la
depressione come patologia sociale del nostro tempo è la fatica che le persone fanno ad
essere se stesse in una società che impone a tutti il culto della prestazione, della
performance, e di percepirsi come imprenditori di se stessi (5; 20).
Tra le principali conseguenze involontarie dell'attuale capitalismo flessibile c'è proprio
quella di aver contribuito a generare un desiderio di comunità. In altre parole, la sensazione
di isolamento nella quale le persone si trovano a vivere, fa nascere in queste un bisogno di
solidarietà rassicurante. Questo bisogno di solidarietà può pervertirsi in una forma di
contrapposizione che vede un 'noi' comunitario contro un 'loro' che non fa parte della
comunità. Semplificando, si potrebbe dire che la società nella quale ci troviamo a vivere è
dominata da due polarità, da una parte c'è quella del “ciascuno da solo” dell'individualismo
e dall'altra c'è quella del “noi contro loro” del cosiddetto tribalismo (16; 19).
Il 'tribalismo' è caratterizzato dalla combinazione tra la solidarietà per chi è simile a me e
l'aggressività nei confronti di chi è diverso da me. In questo caso il concetto di comunità è
29 Lock M, Scheper-Hughes N. Un approccio critico -interpretativo in antropologia medica. Rituali e pratiche disciplinari e di protesta, cit., p. 178. In: Quaranta I.(a cura di) Antropologia medica. I testi fondamentali. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2006
26
utilizzato in termini difensivi; basti pensare all'attuale rifiuto nei confronti degli immigrati.
Questo desiderio di autoprotezione è del tutto naturale quando si è soprattutto in una
condizione di vulnerabilità; non è un caso che tale sentimento venga utilizzato
strumentalmente dai politici per far leva nei confronti delle fasce più deboli della
popolazione e non di quelle socialmente più forti (16; 19).
L'altra faccia del tribalismo viene definita come 'collettivismo'. Anche questo modo di fare
comunità rappresenta una risposta all'assenza di fiducia e responsabilità reciproca generate
dal capitalismo. In questo caso viene dato molto risalto alla condivisione di valori comuni e
la diversità interna viene guardata con timore perché potenziale fonte di conflitti interni.
Tuttavia, si può dire di avere dei rapporti autentici con gli altri quando si è in grado di
riconoscere le incomprensioni reciproche e saper gestire le conflittualità che da queste
possono nascere. Legami interpersonali forti richiedono infatti la disponibilità a lavorare
con le differenze; le comunità caratterizzate dal mito del collettivismo tendono a
valorizzare soprattutto valori condivisi e a minimizzare il più possibile le diversità
interindividuali (16; 19). Il collettivismo dice Buber “comprende solamente l'uomo come
parte e lo rende incapace di porsi il problema di sé. […] induce l'uomo a perdersi nella
massa del generale, che rimuove la solitudine, la responsabilità e l'angoscia cosmica […]
questa via fallisce perché è illusoria, e quando l'illusione cessa l'uomo si ritrova nella
situazione precedente”30 (21).
Se così stanno le cose quali possono essere le caratteristiche di una 'vita buona' in una
'società giusta'? Intanto, per iniziare, possiamo dire che per entrambi i casi non esiste un
modello di vita e di società autentico e riconoscibile come universalmente corretto. La tesi,
qui proposta è che non esiste né un unico modo di vivere autenticamente la propria vita né
un'unica idea di 'società giusta'. Scansato l'equivoco di un'armonia prestabilita da dover
raggiungere sia su un piano individuale che sociale, ciò che qui si tenta di proporre è la
possibilità umana di dare vita a forme di esistenza nuove e inedite attraverso una prassi
comune di appropriazione di sé stessi e del mondo.
Il soggetto, esistendo per mezzo della società, da questa può esserne anche minacciato.
Pertanto, per esistere una persona non può prescindere dal confronto con il contesto sociale
e materiale nel quale essa vive; un rapporto autentico con se stessi è tale solo se si è in
grado di rapportarsi alle pratiche sociali che determinano le nostre vite e non attraverso una
30 Buber M. Il principio dialogico e altri saggi. Milano: Edizioni San Paolo, 2014, cit., pp.14-5
27
loro negazione astratta. É proprio perché è importante non lasciarsi definire dalle
limitazioni imposte dalla realtà che bisogna conoscerle (16; 19). Se l'individuo finisce per
considerarsi solamente come un giocattolo in balia di forze anonime e oscure (sociologiche,
ideologiche, pulsionali), riduce la sua capacità di presa sul mondo e la sua capacità di
poterlo modificare appropriandosene (22). Per conoscere la realtà nella quale viviamo è
importante non smettere mai di porsi delle 'domande pratiche' sulla propria esistenza (5).
Chiedersi “cosa fare?” e “come agire?” di fronte ad una situazione pratica apre sempre un
margine di azione e di possibilità (5). Come vedremo meglio in seguito, è soprattutto
l'incapacità di porsi questo tipo di domande che mantiene le fasce più deboli della
popolazione nella condizione di marginalità, sfruttamento e disuguaglianza (23). Le
condizioni di vita nelle quali si è costretti a vivere vengono così percepite come inevitabili,
frutto del proprio destino, e da sopportare con rassegnazione (23). “Essi imparano ad
adattare di conseguenza desideri e piaceri, perché non ha molto senso continuare a
struggersi per quanto non sembra loro realizzabile e le cui prospettive essi non hanno mai
avuto motivo di considerare attentamente”31. É questo modo di pensare che confina le
persone nelle cosiddette 'zone del non essere' dove vengono considerate come mera vita
biologica (nuda vita) e non più come essere umani (24). Risulta quanto mai evidente che
questo atteggiamento è funzionale al mantenimento del potere economico-politico
dominante poiché rende lo status quo una condizione naturale e quindi immodificabile (25).
Per tali ragioni, anche se la realizzazione di cambiamenti strutturali in seno alla società è
auspicabile per modificare la vita degli individui, per parlare di 'vita buona' è necessario che
le persone siano in grado di imprimere alla loro vita una direzione cosciente (24). Il ruolo
del soggetto nel determinare la propria esistenza, da questione strettamente filosofica,
diventa in questo modo una questione politica e contribuisce a mettere in discussione il
ruolo centrale attribuito all'economia nel determinare per intero la vita delle persone (24).
Porsi domande pratiche implica la capacità di prendere la distanza da se stessi e,
guardandosi come un oggetto, esaminarsi, comprendersi, correggersi (22). “Solo se io so
chi sono, infatti, posso e so scegliere; so cioè cosa fare e dove andare” 32. L'essere umano
può dirsi libero solo se può disporre di se stesso e disporre di se stessi richiede un lavoro
costante di cura di sé (14). La parola cura (epimeleia) viene dal greco melete che significa
esercizio, allenamento. Attraverso il lavoro di cura si costruisce ciò che siamo e si diventa
consapevoli dei propri assoggettamenti per potervi resistere. Il lavoro di cura può essere
31 Sen A. La libertà individuale come impegno sociale. Milano: Editori Laterza, 2007, cit. p 2532 Starace S. Anarchismo e psicologia del profondo. Il fondamento ontologico dell'egualitarismo.
Roma: Sensibili alle foglie, 2013, cit., p. 35
28
inteso come una pratica di libertà che nasce ogni qual volta si è soggetti a quelle forme di
potere che ci dirigono e soggiogano. Questo lavoro di cura è un lavoro di auto-etica
attraverso il quale il soggetto si impegna a non essere schiavo del senso comune, del volere
degli altri, e di se stesso (14; 22; 26-29).
Divenendo accessibili a se stessi attraverso un lavoro costante di auto-etica, gli individui
riescono ad emanciparsi dalle imposizioni della comunità nella quale vivono e al tempo
stesso a connettersi con essa e con gli altri che ne fanno parte. Questo perché si può
comprendere l'altro solo se si è in grado di comprendere se stessi come essere umani (22).
Questa comprensione è una comprensione complessa che si rifiuta di ridurre l'essere
umano, e quindi me stesso e l'altro, ad un solo tratto, ad un solo comportamento; e lo
considera invece sempre nella sua multidimensionalità (22).
É l'incapacità di comprendersi in maniera complessa che riduce l'umanità alla barbarie,
l'incomprensione è infatti all'origine di tutti i mali umani. Per questo motivo è più che mai
necessario riuscire a sviluppare la comprensione umana (22). Questa ci richiede di: “[...]
comprendere noi stessi, di riconoscere le nostre insufficienze, le nostre carenze […]. Nel
conflitto delle idee, di argomentare, di confutare invece che scomunicare e anatemizzare.
Ci chiede di superare odio e disprezzo. Ci chiede di resistere alla legge del taglione, alla
vendetta, alla punizione, che sono così profondamente iscritte nelle nostre menti. Ci chiede
di resistere alla barbarie interiore e alla barbarie esteriore specialmente nei periodi di
isteria collettiva ”33.
La difficoltà della comprensione umana non risiede nei suoi enunciati quanto in quella di
riuscire a fare corpo con essa e a trasformare i suoi significati in azioni e forme di vita (22).
Infatti, più che una predisposizione etica presente in tutti gli essere umani, la capacità di
comprendere in maniera complessa scaturisce dalla pratica (16). Per questo è necessario
fare esercizio (si veda il significato di cura), fare pratica di comprensione umana per
riuscire a vivere una 'vita buona' in una 'società giusta'. Imparare ad ascoltare e a
comportarsi con tatto; saper comunicare in maniera dialogica mettendo se stessi in secondo
piano, astenendosi dall'imporsi o dal ribattere; prestare attenzione alle proprie e altrui
differenze sono solo alcuni degli esercizi che è possibile fare per imparare a collaborare e a
comprendere (16). Per sviluppare al meglio queste capacità, possiamo scegliere di vedere
come un'opportunità tutte quelle situazioni in cui ci troviamo di fronte a problemi o persone
che oppongono resistenza alla nostra volontà (16).
La capacità di comprendersi ci mette in comunicazione con l'altro e con la comunità. É
33 Morin E. Il metodo. Etica. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2005, cit., p. 118
29
interessante notare che parole come 'comprensione' e 'comunità' siano accomunate dal
prefisso 'com', presente nel verbo complectere che significa abbracciare. Ciò sta a
significare che termini come 'comprensione' e 'comunità' si riferiscono all'abbraccio sia nel
suo senso affettuoso che cognitivo, ossia alla capacita di accogliere il diverso e riunire il
separato (22).
Abbiamo visto come le comunità possano chiudersi in se stesse rifiutando di aprirsi e
integrarsi in una comunità più ampia: quella dell'umanità planetaria. Per percepirsi come
un'unica comunità di destino è necessario lavorare per sviluppare un'etica comunitaria che
sappia integrare e comprendere le differenti comunità tra loro. A tal fine è necessario
promuovere una riforma della società fondata sui principi di responsabilità e collaborazione
(22).
Il principale impegno di una società di questo tipo sarebbe quello di garantire la libertà
dell'individuo e promuovere forme di organizzazione in grado di aumentare le capacità che
le persone posseggono (23). Ciò implica la tutela di due forme di libertà definite come
positiva (libertà di) e negativa (libertà da). La prima consiste nell'essere liberi di scegliere la
vita che si preferisce mentre la seconda si concentra sull'assenza di ingerenza di altri nella
vita di una persona. Secondo quanto detto fino ad ora l'impegno sociale nei confronti della
libertà individuale e collettiva in una 'società giusta' dovrebbe riguardare entrambe le libertà
(23). Per garantire quindi la libertà positiva occorre sopperire alla mancanza di risorse
sociali, materiali e culturali, dando a tutti le stesse opportunità di poterne disporre (libertà
negativa); e per affermare la libertà negativa è necessaria la cessione di una parte delle
libertà individuali alla comunità ai fini della costituzione di un patrimonio di risorse
pubblico, comunitario e collettivo (9).
La realizzazione di una 'società giusta' e di una 'vita buona' si trova al centro di un conflitto
tra due concetti banali di realismo e utopismo. Il realismo banale ignora le possibilità e
l'utopismo banale le impossibilità. La proposta con la quale si vuole chiudere questo
capitolo è quella di non essere né realistici né irrealistici in senso banale ma di provare a
comprendere che c'è del possibile ancora impossibile nel reale (22).
“Sappiamo che, nella storia, tutto comincia da movimenti marginali,
devianti, incompresi, spesso ridicolizzati e talvolta scomunicati. Ora, questi
movimenti, quando riescono a radicarsi, a propagarsi, a legarsi, diventano
una vera forza morale, sociale e politica”34.
34 Morin E. Il metodo. Etica. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2005, cit., p. 179
30
CAPITOLO II
LA PARTECIPAZIONE COMUNITARIA
COME STRUMENTO DI SANITÀ PUBBLICA PER IL CONTRASTO ALLE
DISUGUAGLIANZE IN SALUTE
Nel capitolo precedente è stata fornita la descrizione di un soggetto isolato dal contesto
sociale in cui vive (de-mondanizzato) e scisso dalla sua corporeità (de-corporeizzato).
Abbiamo visto come questo soggetto sia il frutto di una specifica costruzione filosofica,
quella cartesiana, dalla quale ha preso origine il pensiero bio-medico.
L'essere umano della moderna cultura occidentale è un soggetto che è stato isolato dal suo
contesto sociale e privato del suo corpo vivente in nome di una presunta “neutralità”
scientifica e di una specifica idea di progresso economico, quella capitalistica.
Il capitolo si è concluso cercando di individuare delle alternative possibili, anche se
apparentemente ancora impossibili nel reale. Queste possibilità ci parlano di un essere
umano in grado di riprendere possesso del proprio corpo e della propria soggettività. Una
soggettività caratterizzata dal superamento del dualismo cartesiano mente/corpo e
individuo/società. La persona che ne emerge è un essere umano relazionale, che ha bisogno
cioè dell'altro per diventare ciò che è, per esistere. Un essere umano accessibile a se stesso e
in grado di imprimere alla propria vita una direzione cosciente tesa al pieno sviluppo delle
sue capacità. Tutto ciò può essere possibile solo se la società nella quale esso vive è
impegnata a garantirne la libertà e a promuovere forme di organizzazione in grado di
aumentarne le capacità in suo possesso.
L'esigenza di proporre una riflessione critica sugli attuali modelli di vita e di società è
legata al fatto che si stanno facendo sempre più strada le evidenze sugli effetti negativi che
questi hanno sulla salute delle persone e delle comunità.
Alla evidente riduzione della mortalità e morbosità avvenuta nel corso degli ultimi decenni
nelle società occidentali, si stanno affiancando fenomeni quali la crescita delle
diseguaglianze in salute tra le nazioni e al loro interno, l'aumento dei suicidi e delle
dipendenze patologiche. Non solo, anche il livello di benessere percepito, stabile per lungo
tempo, sta diminuendo a causa soprattutto dell'erosione della solidarietà familiare, del
peggioramento delle relazioni tra i membri della comunità e della perdita di fiducia nelle
istituzioni. L' 'economismo' (interpretazione del mondo attraverso le sole lenti
dell'economia e della finanza, senza nessuna importanza per gli elementi valoriali a
fondamento di una società), il 'materialismo' (i beni materiali prevalgono su quelli di altra
31
natura), il 'consumismo' (convinzione che la felicità e il senso della vita possano essere
acquisiti attraverso il possesso esclusivo di beni materiali) e l'individualismo, tra gli aspetti
caratterizzanti la cultura moderna, sembrano essere tra le principali cause della contrazione
del benessere percepito. Gli individui, infatti, a causa della pressione delle regole imposte
dal mercato, sembrano rinunciare al controllo delle loro vite (si veda la riflessione
sull'alienazione nel capitolo 1) e con ciò aumentano l'insicurezza e la frammentazione
sociale, che riducono il benessere percepito (30).
Si tenga presente che queste riflessioni non avvengono all'interno di un vuoto politico e
culturale, bensì a breve distanza dalla crisi economico-finanziaria avvenuta nel 2008 a
livello globale. Senza avere nessuna pretesa di esaustività, è importante sottolineare come
questa crisi più che il frutto di scelte rivelatesi erronee (per esempio il proliferare dei mutui
subprime35) è l'epifenomeno dell'attuale modello di sviluppo, quello cioè rappresentato
dalle politiche neo-liberali e dall'ideologia dell'auto-regolamentazione dei mercati (con la
conseguente de-regolamentazione finanziaria, flusso indiscriminato dei capitali e
concentrazione di ricchezza nelle mani di una piccola percentuale di popolazione). E
sempre questo modello di sviluppo, entrato nella scena politica mondiale a partire dagli
anni '70 del secolo scorso, perseguendo la logica del profitto continua a prevedere
un'espansione infinita in un mondo finito con conseguenze negative sulla salute del pianeta
e dell'umanità che in esso vive (30).
E la Sanità pubblica? Quale sono le sue implicazioni in questo scenario? Sarà in grado di
compiere delle azioni in grado di tutelare la salute delle attuali e future generazioni? Se si,
in che modo?
Rispondere a queste domande è forse sempre stata la principale sfida della Sanità pubblica;
la sua storia è infatti caratterizzata dal tentativo costante di mettere in atto delle azioni
lungimiranti a partire dall'analisi del contesto economico e sociale. Ad oggi, tuttavia, questa
sembra aver sposato la logica del sistema economico dominante prima descritto: priorità ad
interventi centrati sui rischi immediati e con benefici a breve termine, con un enfasi tutta
spostata sulla responsabilità individuale circa gli esiti in salute della popolazione (30).
Questo approccio di Sanità pubblica è fortemente influenzato dal riduzionismo cartesiano
che prevede la scomposizione razionale di problemi complessi in unità semplici, in modo
da poter individuare, almeno per alcune di esse, un nesso di causalità con la conseguente
soluzione efficace. Questo modello, tutto teso a raccogliere evidenze scientifiche sul
problema in questione, ha la pretesa di aderire ad un'idea di neutralità che non fa altro che
35 I mutui subprime consistono in prestiti economici a soggetti ad alto rischio debitorio.
32
allontanare i professionisti della Sanità pubblica da quell'impegno all'interno della società
che l'ha caratterizzata sin dalla sua nascita. Con ciò non si vuole mettere totalmente in
discussione l'approccio basato sulle evidenze scientifiche, quello che in questo contesto si
sta tentando di affermare è che questo modello, se non opportunamente integrato e rivisto,
rischia di alimentare esso stesso i problemi di cui si dichiara volersi occupare (30).
In questo capitolo si cercherà di proporre e approfondire un altro approccio di Sanità
pubblica, quello definito ecologico. Questo approccio, apparso sulla scena mondiale intorno
agli anni '80 del secolo scorso, nasce dalla consapevolezza che non tutti i problemi
riguardanti la salute delle persone e delle comunità possono essere affrontati con un
approccio lineare. Avendo questi problemi (per esempio aumento delle disuguaglianze in
salute, epidemia di obesità, degrado ambientale etc...) molteplici cause tra loro
interdipendenti, più che azioni di tipo individuale, richiedono delle soluzioni complesse,
messe in atto a livelli diversi del sistema sociale (30).
La visione di Sanità pubblica qui proposta prevede la capacità di sviluppare interventi in
grado di adattarsi costantemente ai contesti in cui si opera, partendo dalla consapevolezza
che gli sviluppi delle soluzioni messe in atto non si possono prevedere con precisione a
partire dalle sole evidenze scientifiche. Inoltre, ponendo particolare attenzione all'analisi dei
fattori che a livello sociale sono responsabili dello sviluppo delle diseguaglianze in salute,
fa propria la dimensione politica della salute. Pertanto, il principale obiettivo delle sue
azioni è quello di rendere più salutari le organizzazioni e le strutture sociali attraverso una
più equa distribuzione del potere all'interno della società (30).
A tal fine, verrà qui proposta la partecipazione comunitaria come possibile strumento in
grado di aumentare il livello di controllo/potere delle persone sulle proprie vite e sui
contesti nei quali vivono (empowerment) e di migliorare le loro relazioni sociali (capitale
sociale).
2.1 Dalle disuguaglianze sociali nella salute alla partecipazione comunitaria
Nascere oggi in un paese come il Giappone o la Svezia vuol dire avere un'aspettativa di vita
superiore agli 80 anni, mentre in un paese africano questa non non supera i 50 anni (31).
Più o meno in questo modo si apre il rapporto finale della commissione dell'Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) sui determinanti sociali della salute (Closing the Gap in a
generation. Health equity through action on the social determinants of health, 2008).
Il testo prosegue affermando che tali differenze nell'aspettativa di vita non sono
riscontrabili solo tra le nazioni ma anche all'interno dei paesi stessi.
33
Come visto nel capitolo 1, queste differenze vengono definite disuguaglianze in salute e
sono la conseguenza dell'iniqua distribuzione di potere e ricchezza all'interno della società
(31). Queste possono essere definite in base a (32):
• la loro natura sistemica: si distribuiscono in maniera costante e non casuale
all'interno della popolazione (più si scende nella posizione socioeconomica e più
aumentano mortalità e morbilità);
• la loro produzione sociale: sono la conseguenza di processi sociali e non di fattori
biologici.
Proprio perché prodotte socialmente, e non da leggi naturali immutabili, queste sono non
necessarie ed evitabili e quindi considerate anche ingiuste (32). Pertanto, come affermato
dalla commissione dell'OMS, contrastarle è una questione di giustizia sociale e un
imperativo etico (31).
Di seguito si cercherà di fornire una breve descrizione della loro distribuzione a livello
internazionale e nazionale, delle principali teorie sulla loro origine e di alcuni modelli alla
base delle principali politiche di contrasto.
A livello internazionale, lo studio sistematico sulle disuguaglianze in salute viene
inaugurato negli anni '80 con la pubblicazione di un rapporto (Black Report) sulle
differenze di salute esistenti tra le classi sociali della popolazione inglese (11; 33). Da
allora, soprattutto in Europa, sono stati condotti numerosi studi comparativi tra i diversi
paesi, e tutti hanno dimostrato la presenza di eccessi significativi di mortalità tra le persone
più svantaggiate (35). Dalle ultime evidenze in possesso, emerge come in Europa, i paesi
con maggiori disuguaglianze siano quelli baltici e dell'Europa dell'Est (ex blocco sovietico),
mentre in quelli dell'Europa meridionale risultano più modeste (figura 1) (34; 35). Ciò
risulta vero anche per quanto riguarda i dati relativi alla frequenza di morbosità (maggiore
prevalenza di ictus, artrosi, diabete, disturbi del sistema nervoso, obesità tra le persone con
bassa posizione socioeconomica) e di accesso alla prevenzione e all'assistenza specialistica
(34).
In questo scenario, la situazione dell'Italia è abbastanza positiva. I dati relativi alle
disuguaglianze nella mortalità generale sono di intensità più moderata rispetto a quelli
dell'Europa del Nord e continentale, mentre non si può affermare la stessa cosa per quelli
relativi alla morbosità cronica riferita (34). Questa sembrerebbe essere una delle principali
ragioni della scarsa attenzione (culturale, scientifica e politica) verso il tema delle
disuguaglianze in salute e delle sue possibili strategie di contrasto (36). Tuttavia, se tale
34
“disattenzione” continuerà a persistere, è più che probabile che nel prossimo futuro si
assisterà ad un aumento delle disuguaglianze sociali nella salute (anche a causa dei possibili
impatti, non ancora del tutto misurabili, dell'attuale crisi economica) con gravi conseguenze
sulla giustizia e la coesione sociale, nonché sulla sostenibilità economica (36).
Quanto descritto a livello Europeo avviene anche nel resto del mondo. In questo caso i
maggiori livelli di mortalità e morbosità (sia per malattie infettive che per malattie
croniche) si registrano soprattutto ai danni delle aree più povere del pianeta (il 98% dei 6
milioni di bambini morti al di sotto dei cinque anni di età avviene in queste zone) (figura 2).
Le principali cause che determinano questo ingiustificabile eccesso di mortalità sono
rappresentate soprattutto dalla povertà assoluta, da bassi livelli di istruzione e dalla carenza
di infrastrutture e servizi sanitari (37).
35
Figura 1. Aspettativa di vita nei paesi appartenenti alla Regione Europea WHO, 2010. Fonte: WHO health for all database.
Purtroppo, la condizione di povertà assoluta in cui versano milioni di persone nel mondo è
andata sempre più peggiorando nel corso degli ultimi trent'anni (38). Nell’Africa sub-
sahariana, per esempio, il numero di persone che vive con meno di un dollaro al giorno è
raddoppiato tra il 1981 e il 2001 (da 164 milioni a 313 milioni), così come quello di chi
vive con meno di due dollari al giorno (da 288 milioni a 516 milioni) (38). All'aumento
della povertà assoluta ha coinciso anche quello delle disuguaglianze nel reddito tra paesi e
al loro interno (38). Tutto ciò sembra essere la principale conseguenza negativa del
processo di globalizzazione delle politiche neo-liberiste, nonostante queste abbiano come
loro principale obiettivo la crescita economica (38). Crescita economica che c'è stata, ma
solo a vantaggio di una percentuale irrisoria della popolazione mondiale. Le 85 persone più
ricche della Terra possiedono una ricchezza pari a quella del 50% più povero della
popolazione mondiale; o ancora, negli Usa, tra il 1979 e il 2007, la ricchezza dello 0,1% più
ricco della popolazione è aumentata del 390%, mentre quella del restante 90% solo del 5%
(39).
Dalla curva epidemiologica (curva di Preston) in figura 3 è possibile notare come
l'aspettativa di vita sia fortemente influenzata anche da minime variazioni del prodotto
interno lordo pro capite (31; 40). Ciò dimostra, ancora una volta, quanto le condizioni di
salute siano fortemente determinate da condizioni non strettamente sanitarie (31; 40).
Tuttavia, una volta raggiunto un certo livello di ricchezza pro capite (all'incirca 5.000
36
Figura 2. Aspettativa di vita alla nascita negli anni 1970-75 e 2000-05. Fonte: Human Development Report, 2005.
dollari), è possibile notare come tale relazione diventi sempre più debole e variabile (31;
40). Ciò vuol dire che, man mano che i paesi diventano più ricchi, ulteriori incrementi di
ricchezza hanno un'influenza sempre minore sulle condizioni di salute e che si può avere la
stessa aspettativa di vita con livelli di ricchezza differenti (31; 40).
Da tutto ciò è possibile dedurre due considerazioni. La prima, per migliorare le condizioni
di salute nei paesi a basso reddito è necessario aumentare i livelli di ricchezza media. La
seconda, la salute della popolazione nei paesi a reddito medio-alto non è influenzata da
ulteriori incrementi nel reddito medio (40).
Per comprendere come mai, raggiunto un certo valore soglia, la ricchezza non produce più
salute è necessario approfondire meglio i rapporti esistenti tra diseguaglianze economiche e
salute. A tal fine verranno presentati e messi brevemente a confronto i principali modelli
teorici sullo sviluppo delle disuguaglianze in salute.
Uno studio apparso nel 1992 sull'autorevole rivista “British Medical Journal” ha avuto il
merito di mettere in luce come, nei paesi ad alto-medio reddito, non sia tanto la ricchezza
complessiva ad influenzare i livelli di mortalità e di salute quanto la maniera in cui tale
ricchezza è distribuita (41).
Ciò vuol dire che nelle società con minori disparità economiche la salute della popolazione
sarà migliore di quella in cui queste sono più accentuate (figura 4 e 5) (40) .
37
Figura 3. Curva di Preston (2000)
38
Figura 4. Problemi sanitari e sociali sono debolmente correlati al reddito medio nazionale pro capite tra i paesi ricchi. Fonte: Wilkinson R, Pickett K. La misura dell'anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici.
Figura 5. Problemi sanitari e sociali sono strettamente correlati alle diseguaglianze di reddito tra i paesi ricchi. Fonte: Wilkinson R, Pickett K. La misura dell'anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici.
I dati e le riflessioni da questi scaturite hanno messo bene in evidenza come la salute delle
persone sia influenzata dalle disparità economiche e dalla posizione sociale che occupano
nella società. A questo punto, ciò che è importante capire è come sia possibile tutto ciò.
Quali sono cioè i processi che portano le persone ad ammalarsi più o meno facilmente in
ragione del loro status socio-economico. Una prima importante precisazione da fare è che le
disparità economiche sono solo uno dei molteplici aspetti della struttura sociale nella quale
le persone vivono. Pertanto, studiare le disuguaglianze in salute vuol dire ricercare nella
struttura della società tutte quelle condizioni a cui è associato un rischio elevato di malattia
(40-42).
Queste condizioni sono definite dall'OMS come determinati sociali di salute. Ad oggi, le
principali teorie che, nel campo dell'epidemiologia sociale, tentano di spiegare le complesse
relazioni attraverso cui i determinanti sociali agiscono sulla salute delle persone sono tre:
approccio psicosociale (o interpretazione psicosociale); produzione sociale delle malattie (o
approccio materialista); teoria eco-sociale (33). Tra loro differiscono soprattutto per il
diverso peso che attribuiscono alle condizioni sociali e biologiche negli esiti in salute e, di
conseguenza, per le azioni di contrasto proposte (33). Tuttavia, nonostante le differenze, è
importante considerare questi tre modelli come strumenti di lettura e non come la
rappresentazione della realtà stessa; non confondere la “mappa” con il “territorio” può
essere utile per non considerare questi tre approcci in maniera mutualmente esclusiva tra
loro (33).
Secondo l'approccio psicosociale, sarebbero gli effetti dello stress cronico, generato dalla
consapevolezza di appartenere ad un livello della scala sociale più basso di quello di altri, a
compromettere la salute delle persone più svantaggiate socialmente (33).
L'interpretazione della produzione sociale delle malattie, pur riconoscendo le conseguenze
psicosociali delle diseguaglianze socioeconomiche, afferma che ciò che più conta per la
salute delle persone è la possibilità di accedere a condizioni materiali tangibili (cibo, casa,
reddito, servizi socio-sanitari, etc...) e non la percezione psicologica di una loro
deprivazione (33).
Infine, la più recente teoria ecosociale, tenta di guardare in chiave dinamica e non statica le
interazioni tra l'individuo e il suo contesto sia geografico che storico (42). I primi due
approcci stabiliscono una correlazione statistica tra l'esposizione ad uno specifico
determinante sociale e le sue conseguenze sulla salute delle persone (42). L'approccio
ecosociale cerca invece di capire in che modo i singoli determinanti sociali entrano in
relazione tra loro influenzando la salute della persona (42). La vita di ogni individuo si
39
caratterizza infatti da una molteplicità identitaria che lo colloca contemporaneamente in
diverse strutture di disuguaglianza (ad esempio, uomo, bianco, omosessuale, impiegato in
un lavoro manuale; o donna, immigrata, eterosessuale, occupata in un lavoro dirigenziale)
(42). Sarebbe tuttavia assurdo e irrealistico tentare di inserire tutti questi livelli di
complessità all'interno degli studi epidemiologici; chi ha proposto questo nuovo approccio
lo ha fatto soprattutto con lo scopo di migliorare la costruzione delle evidenze e facilitare le
azioni di contrasto da parte della Sanità pubblica (43). Infine, attraverso il concetto di
incorporazione (embodiment), questo approccio restituisce al corpo delle persone una
dimensione relazionale con il contesto nel quale esse vivono (42; 43). Utilizzando le
riflessioni sul corpo del primo capitolo, è possibile dire che il termine incorporazione fa
riferimento all'integrazione tra quello che è stato definito il corpo biologico con il corpo
vivente. Non solo, mettendo in relazione la dimensione biologica del corpo con le influenze
sociali nel quale si inserisce, supera l'approccio dialettico corpo/mondo e fa propria la
relazione dialogica corpo-mondo. Come già descritto nel capitolo precedente, ciò implica
che la malattia è l'espressione biologica di relazioni sociali patogene e che, allo stesso
tempo, attraverso i loro corpi, le persone, entrando in relazione con il mondo
contribuiscono a crearlo attraverso il processo di appropriazione.
Con la teoria ecosociale e il concetto di incorporazione è stato possibile intrecciare tra loro
le riflessioni di carattere umanistico del capitolo precedente con la tematica, propriamente
di Sanità pubblica, delle disuguaglianze in salute.
I contributi teorici apportati da tutti e tre i diversi approcci sono stati utilizzati dall'OMS per
costruire uno schema esplicativo in grado di rappresentare graficamente e concettualmente i
meccanismi di generazione delle disuguaglianze (figura 6) (33). Individuare questi
meccanismi di produzione è di fondamentale importanza per cercare di capire quali
interventi di contrasto sia possibile mettere in atto.
Nella colonna gialla è riportato il contesto sociopolitico al quale appartengono tutti quei
fattori (come per esempio il mercato del lavoro, il sistema scolastico, le politiche sociali,
valori culturali e la condizione epidemiologica) che contribuiscono a generare e mantenere
le gerarchie sociali all'interno della società. Questi fattori influenzano la posizione
socioeconomica che il singolo individuo occuperà all'interno della gerarchia sociale (area
delimitata con la linea rossa tratteggiata) (33). Il livello di gerarchia sociale cui si
appartiene determina la possibilità di accedere o meno al potere e alle risorse presenti nella
società così come quella di ricevere prestigio o discriminazione (33). Gli studi di
epidemiologia sociale utilizzano il reddito, l'istruzione e l'occupazione rispettivamente
40
come proxy del potere, del prestigio e dello status economico (33). I fattori (per esempio
reddito, istruzione, occupazione, genere, classe sociale, “etnia”), che definiscono la
posizione sociale dell'individuo all'interno della gerarchia sociale vengono definiti
determinanti strutturali (33). Questi sono in relazione di interdipendenza con il contesto
sociopolitico e insieme a questo concorrono a definire tutti quei processi sociali (social
determinants of health inequities) che influenzano la distribuzione iniqua dei determinanti
intermedi di salute (area blu dello schema) (33).
Ciò comporta che le persone più svantaggiate socialmente, abbiano un maggior livello di(44):
• esposizione ai fattori di rischio (fattori psicosociali; stili di vita insalubri; fattori dirischio ambientali e condizioni di suscettibilità/fragilità clinica);
• vulnerabilità: rischio più elevato di ammalarsi a parità di esposizione con lo stessofattore di rischio o, nel caso sia già presente una condizione patologica, di avereesiti peggiori (disabilità o morte);
• conseguenze sociali di malattia: lo stato di salute della persona retroagiscenegativamente sulla sua condizione socioeconomica.
Gli effetti delle disuguaglianze sociali non si traducono solo sulla salute degli individui ma
anche su quella della comunità. Le società con un basso livello di uguaglianza sono
41
Figura 6. Schema dei determinanti sociali e loro meccanismi di generazione delle diseguaglianze in salute. Fonte: Commission on Social Determinants of Health CSDH. A Conceptual Framework for Action on the Social Determinants of Health.
caratterizzate da una scarsa qualità delle relazioni sociali. Ciò che viene meno è soprattutto
il sentimento di fiducia tra le persone. L'altro non viene più visto come qualcuno con cui
cooperare ma come una minaccia, qualcuno di cui aver paura. Le diseguaglianze sociali
erodono il capitale sociale, ossia la partecipazione complessiva della popolazione alla vita
della comunità. Il capitale sociale è stato inserito dall'OMS all'interno dello schema sopra
proposto come un determinante trasversale in quanto le persone che vivono in contesti
caratterizzati da buone relazioni sociali percepiscono un maggior controllo sulla propria
vita, che contribuisce a migliorarne sia la qualità che la quantità (40).
Chiarire quali sono i principali meccanismi di generazione delle disuguaglianze in salute è
utile per capire a quali livelli sia possibile agire per mettere in atto delle efficaci politiche di
contrasto. Uno dei modelli più utilizzati (Diderichsen) (33) propone di agire su:
• il contesto socioeconomico;
• la stratificazione sociale;
• i livelli di esposizione e vulnerabilità ai determinanti intermedi di salute;
• le conseguenze sociali di malattia.
Se i primi due punti sono di principale pertinenza delle politiche sociali (politiche sul
lavoro e l'istruzione, per esempio), gli ultimi due riguardano direttamente le politiche
sanitarie e i servizi sanitari (33).
Inoltre, le politiche di contrasto dovrebbero (33):
• adattare le strategie di intervento alle specificità dei singoli contesti;
• sviluppare interventi che sappiano agire contemporaneamente sui determinanti
strutturali e su quelli intermedi;
• andare oltre il settore sanitario sviluppando azioni intersettoriali;
• favorire la partecipazione sociale e l'empowerment.
Infine, queste dovrebbero essere applicabili ad un livello (33):
• 'micro' o individuale;
• 'meso' o di comunità;
• 'macro' (regionale, statale o internazionale).
42
Il seguente schema (figura 7) sintetizza quanto detto.
In base a quanto fino ad ora argomentato, in che modo gli interventi di partecipazione
comunitaria possono contribuire a contrastare le disuguaglianze in salute?
Intanto, risulta importante notare come l'OMS consideri lo sviluppo della partecipazione e
dell'empowerment comunitario uno dei principali obiettivi degli interventi e delle politiche
di contrasto alle diseguaglianze (33). Non solo, la comunità, nello schema riportato in
figura 7, viene presentata anche come contesto specifico di intervento (meso-livello).
Gli interventi di comunità hanno la caratteristica principale di spostare l'attenzione
dall'individuo ai contesti di vita in cui questo vive (famiglia, scuola, lavoro, quartiere di
residenza, luoghi associativi, etc...) (45).
La parola 'contesto' definisce i diversi ambienti di vita in cui l'individuo vive e i rispettivi
sistemi culturali e relazionali di riferimento. Questo gioca un ruolo importante nel
43
Figura 7. Schema delle azioni di contrasto alle diseguaglianze di salute. Fonte: Commission on Social Determinants of Health CSDH. A Conceptual Framework for Action on the Social Determinants of Health.
condizionare la capacità di scelta dell'individuo poiché incide direttamente sulla gamma di
opportunità ad esso realmente accessibili (45).
Di conseguenza, intervenire sui contesti piuttosto che sul singolo individuo, vuol dire
aumentare sia le capacità di trasformare positivamente le risorse di cui si dispone sia le
opportunità di scelta realmente accessibili (45). In altre parole, riferendosi a quanto già
detto nel capitolo 1, potremmo dire che gli interventi sul contesto hanno la capacità di
intervenire sia sulla libertà positiva (sviluppando le abilità dell'individuo) sia su quella
negativa (aumentando la gamma di possibilità effettive di scelta a sua disposizione).
Le riflessioni fino ad ora fatte sul contesto rinforzano quanto già precedentemente detto
circa la necessità di andare oltre la visione riduzionista e individualista tipica di alcune
teorie sui meccanismi di generazione delle disuguaglianze in salute. L'analisi individuale
del rapporto tra causa (determinante sociale) ed effetto (malattia) va infatti inserita
all'interno dei vincoli e delle opportunità all'interno dei quali la persona, con le sue risorse e
capacità, è inserita (45).
Capire come il contesto possa favorire o meno l'autostima, l'autodeterminazione e la libertà
delle persone è un compito assai complesso, che tuttavia non può essere riducibile alla pur
importante somma dei parametri utilizzati per misurare la deprivazione e lo svantaggio di
gruppi sociali. A tal fine, è necessario andare oltre i nessi di causalità 'oggettiva' messi in
luce dagli indicatori comunemente utilizzati, e valorizzare il senso 'soggettivo' che le
persone attribuiscono alla loro condizione (45).
In sintesi, si può affermare che gli interventi di partecipazione comunitaria hanno come
principale obiettivo proprio quello di far emergere collettivamente dalle persone quale sia il
senso che queste danno agli eventi della loro vita. Infatti, nel momento in cui queste
acquisiscono consapevolezza circa i contesti nei quali si trovano a vivere, possono essere
maggiormente stimolate ad agire per mettere in atto miglioramenti sia dal punto di vista
fisico (determinanti intermedi di salute) che socio-relazionale (autodeterminazione; buone
relazioni sociali, elevata partecipazione) (45). Attraverso questo processo, aumenta il livello
di autonomia (empowerment individuale) e di coinvolgimento (capitale sociale) degli
individui, nonché la loro capacità di dotarsi di beni e risorse collettive (empowerment di
comunità) (45). Il risultato sperato da questi interventi consiste nello stimolare la capacità
delle persone di generare cambiamenti duraturi della loro esperienza vissuta, attraverso
l'aumento dei livelli di autonomia, autodeterminazione e capacità di apprendimento
individuale e collettivo (45). Infine, per tornare ai meccanismi di generazione delle
diseguaglianze e ai possibili livelli di azione individuati, è possibile affermare che gli
44
interventi di partecipazione comunitaria agiscono riducendo sia i livelli di esposizione che
di vulnerabilità dei soggetti in condizione di svantaggio sociale. Non solo, questi interventi,
attraverso il cambiamento del contesto, possono avere anche un impatto relativo sulla
posizione socioeconomica dell'individuo. Pur disponendo infatti delle stesse risorse, le sue
opportunità di scelta potrebbero aumentare se inserito in un contesto favorente; inoltre,
lavorando anche sulla costruzione dei significati collettivi dell'esperienza di vita, cambierà
anche la percezione soggettiva della propria posizione all'interno della gerarchia sociale
(46).
Infine, in un momento storico in cui viene dichiarato che le risorse pubbliche così come
quelle individuali sono scarse, la partecipazione comunitaria può rappresentare un valido
strumento di contrasto alle diseguaglianze, in quanto questa è in grado di promuovere lo
sviluppo di contesti in cui le persone possono raggiungere livelli adeguati di libertà,
autodeterminazione e controllo della propria vita e della propria salute (45).
2.2 L'ascesa, il declino e il riemergere della partecipazione comunitaria
La prima volta in cui l'OMS ha indicato la partecipazione comunitaria come strumento di
contrasto alle disuguaglianze in salute è stato ad Alma Ata nel 1978. In quell'occasione
venne dichiarata la volontà di raggiungere la “Salute per tutti entro l'anno 2000” attraverso
la strategia della Primay Health Care36 (PHC) (47).
La partecipazione comunitaria venne identificata come uno dei principi cui la PHC faceva
riferimento insieme a quelli di giustizia sociale ed equità, promozione della salute, azioni
intersettoriali e uso appropriato delle tecnologie e risorse (49).
La dichiarazione di Alma Ata (allegato 1), più che dare indicazioni tecniche affermava che
la salute delle persone fosse influenzata soprattutto da fattori sociali (quelli che oggi
chiameremo determinanti sociali) e che per tutelarla fosse necessario mettere in discussione
l'attuale modello di sviluppo economico e il paradigma biomedico con cui venivano
concepiti gli interventi sanitari (49; 50). Questi infatti non riuscivano a raggiungere le
persone più svantaggiate socialmente e si erano dimostrati inefficaci nel contrastare le
36 Definizione di Primary Health Care “Primary health care is essential health care based onpractical, scientically sound and socially acceptable methods and technology made universallyaccessible to individuals and families in the community through their full participation and at acost that the community can a ord to maintain at every stage of their development in the spirit of�self-reliance and self-determination. It forms an integral part both of the country's healthsystem, of which it is the central function and main focus, and of the overall social andeconomic development of the community. It is the first level of contact of individuals, the familyand community with the national health system bringing health care as close as possible towhere people live and work, and constitutes the firrst element of continuing health careprocess”(48-49).
45
cosiddette malattie della povertà (51). Ciò che invece sembrava funzionare erano quegli
interventi con un'impostazione di stampo democratico in cui la salute veniva garantita
soprattutto attraverso l'empowerment e il coinvolgimento della popolazione (50; 51).
La seconda occasione internazionale in cui l'OMS ha ribadito l'importanza della
partecipazione comunitaria è stata durante la conferenza di Ottawa nel 1986 in cui è stata
redatta la “Carta di Ottawa per la promozione della salute” (allegato 2) (51; 52).Con questo
documento si volevano rendere operativi i principi espressi ad Alma Ata (53; 55). Per farlo
vennero individuate tre azioni e cinque strategie specifiche, tra queste ultime c'era quella
che ribadiva la necessità di rafforzare la partecipazione comunitaria (53). Nello specifico,
veniva affermata l'importanza per la comunità di acquisire potere per avere un maggior
controllo sulla propria vita; di attingere alle risorse umane e materiali esistenti al suo
interno al fine di aumentare l'auto-aiuto e il supporto sociale. Infine, la libertà di accesso
alle informazioni, la possibilità di conoscere le opportunità di salute e un adeguato supporto
economico vennero indicati come prerequisiti per la realizzazione di tutto ciò (6).
La “Carta di Ottawa”, oltreché per aver reso operativi i principi espressi ad Alma Ata, è
importante soprattutto perché essa ha definito il concetto e i principi della promozione della
salute37.
A trent'anni di distanza, i principi espressi ad Alma Ata e Ottawa sono rimasti solo dei
buoni propositi e le successive dichiarazioni internazionali sono sembrate più degli esercizi
di retorica che dei reali tentativi di attuazione pratica (55). E, tra tutti quanti, la
partecipazione comunitaria è stato quello ad essersi maggiormente indebolito (49; 56). I
fattori che hanno portato a questa situazione sono molteplici. Poco dopo Alma Ata, la
Rockfeller Foundation iniziò a proporre con successo un approccio alternativo alla PHC
definito come “selective primary health care”. Questa strategia, essendo caratterizzata da
interventi centrati esclusivamente sulla malattia e sui suoi principali fattori di rischio,
soppiantò quelli “irrealistici”e “costosi” della PHC, basati invece sul coinvolgimento della
comunità e sul cambiamento delle condizioni sociali di vita (56). Da allora, la
partecipazione comunitaria è stata utilizzata in modo strumentale soprattutto per
neutralizzare possibili resistenze sociali nei confronti di decisioni imposte dall'alto, per
37 Definizione di promozione della salute. “Health promotion is the process of enabling people toincrease control over, and to improve, their health. To reach a state of complete physical, mentaland social well-being, an individual or group must be able to identify and to realize aspirations,to satisfy needs, and to change or cope with the environment. Health is, therefore, seen as aresource for everyday life, not the objective of living. Health is a positive concept emphasizingsocial and personal resources, as well as physical capacities. Therefore, health promotion is notjust the responsibility of the health sector, but goes beyond healthy life-styles to well-being”(52).
46
compensare la mancanza di supporto da parte dello stato e per aumentare il numero di
persone, coinvolte solo come beneficiari, nei progetti di assistenza sanitaria (56). Infine, in
questi decenni, la gestione della salute a livello internazionale è passata di fatto dalle mani
dell'OMS a quelle della Banca Mondiale. Questa, con il motto “investire in salute” e
attraverso l'imposizione di politiche neo-liberiste (caratterizzate soprattutto dalla
privatizzazione dei servizi sanitari) principalmente ai danni dei paesi più poveri, ha
'trasformato' la salute da diritto da tutelare a bene economico da acquistare e consumare
(56).
In un contesto di questo tipo, in cui la visione della salute è ancora di tipo biomedico ed è
considerata come un bene economico, chi scrive pensa che riaffermare l'importanza della
partecipazione comunitaria per una gestione democratica del diritto alla salute sia un atto di
responsabilità etica, politica e professionale. E a tal proposito ben si prestano le parole
pronunciate da Halfdan Mahler come Direttore Generale dell'OMS nel discorso di apertura
della conferenza di Ottawa nel 1986.
“Each of us has to state seriously with what amount of commitment we are
willing to move into being advocates for health:... How willing are you to
give the community a true voice in matters of its health, living conditions
and well-being? How willing are you to acknowledge people as the main
health resource and support and to enable them to keep themselves and their
families and friends healthy?... Ladies and gentlemen, if you are indeed
willing to do all that, ready to commit yourself to doing it and to convince
all around you to do it, you will provide living examples of what health
promotion stands for”.38
Nonostante la situazione a livello internazionale corrisponda a quanto precedentemente
descritto, da qualche anno a questa parte si sta assistendo ad un ritorno verso i principi
espressi nelle due storiche dichiarazioni (57). Ciò sembra essere dovuto soprattutto alla
decisione che nel 2005 l'OMS ha preso di nominare una Commissione sui determinanti
sociali della salute (Commission on Social Determinants of Health- CSDH). La CSDH ha
pubblicato nel 2008 il già citato rapporto sulle disuguaglianze in salute “Closing the Gap in
a generation. Health equity through action on the social determinants of health”. Il lavoro
38 Rachel J, Murcott A. Community representatives: representing the “community”?. Soc. Sci. Med 1998, 46 (7): cit., p. 845
47
della commissione è stato sicuramente importante per riaccendere il dibattito a livello
internazionale sulle diseguaglianze e i determinanti di salute. Sempre nel 2008 infatti,
l'OMS ha pubblicato un altro rapporto dal titolo “Primary health care. Now more than ever”
in cui viene dichiarata l'importanza fondamentale della PHC nel contrastare le crescenti
disuguaglianze in salute (58). A questi rapporti di carattere più generale e descrittivo, ne
sono seguiti altri, soprattutto a livello europeo, il cui principale obiettivo è quello di fornire
indicazioni pratiche per mettere in atto azioni di contrasto alle diseguaglianze in salute (36).
Tra questi, quello più recente è “Health 2020”(59).
Health 2020 è stato approvato nel 2012 da tutti i paesi membri della Regione Europea
dell'OMS. Uno degli obiettivi generali che il documento si è dato è proprio quello di ridurre
le diseguaglianze; l'altro riguarda invece il miglioramento della leadership e della
governance partecipativa per la salute. Per raggiungere questi due obiettivi sono state
individuate quattro ambiti prioritari di azione:
1. investire sulla salute adottando un approccio che si riferisce all’intero ciclo di vita e
mirando all’empowerment delle persone;
2. affrontare le principali sfide per la salute della Regione relative alle malattie non
trasmissibili e trasmissibili;
3. rafforzare i servizi sanitari con al centro la persona, le capacità in sanità pubblica e
la preparazione, la sorveglianza e la risposta in caso di emergenza;
4. creare comunità resilienti e ambienti favorevoli.
Dalla lettura del documento e soprattutto da quella del primo e del quarto ambito di
intervento emerge come la partecipazione comunitaria stia rientrando nuovamente tra le
principali strategie individuate dall'OMS per far fronte alle diseguaglianze in salute.
2.3 Le parole della partecipazione comunitaria
Fino ad ora è stato fatto più volte riferimento al termine 'partecipazione comunitaria' senza
tuttavia darne una definizione.
In questa seconda parte del capitolo verrà esplicitato cosa si intende per 'partecipazione
comunitaria', quali sono i principali concetti ad essa associati, come può essere favorita e
valutata.
A tale scopo è stata compiuta una revisione della letteratura il cui obiettivo era quello di
approfondire il legame esistente tra gli interventi di partecipazione comunitaria -il cui fine
fosse la partecipazione stessa della comunità- e il contrasto delle disuguaglianze in salute.
48
La ricerca è stata effettuata su PubMed utilizzando la seguente stringa di ricerca:
("Community action" OR "community participation" OR "community engagement") AND
("health promotion" or “empower*” or "community building"). Il risultato iniziale è stato di
864 articoli; da questi sono stati scartati tutti quelli in cui la partecipazione comunitaria non
aveva come suo obiettivo principale la partecipazione. I 71 articoli rimasti sono stati
organizzati in ambiti tematici che sono andati a costituire gli argomenti di questo e dei
paragrafi successivi. A questo materiale è stato aggiunto anche quello proveniente dalla
letteratura grigia, costituito da 28 fonti di informazione che vanno da libri e rapporti
internazionali e locali a tesi di master e dottorati di ricerca.
La letteratura esistente sulla partecipazione comunitaria è abbastanza vasta per quanto
riguarda sia il numero che la distribuzione temporale delle pubblicazioni esistenti.
Muoversi all'interno di questo campo non è affatto facile poiché non ci sono definizioni
univoche a causa delle molteplici interpretazioni date in base ai contesti di applicazione e ai
diversi momenti storici (come visto nel paragrafo precedente) (46).
Iniziamo col dire che il termine generico 'partecipazione comunitaria' può essere utilizzato
come sinonimo o in associazione con i seguenti termini: 'sviluppo di comunità' (community
development), 'azione comunitaria' (community action), 'coinvolgimento di comunità'
(community involvement), community capacity-building, community empowerment e
community engagement (46; 60; 61). Anche se ad una lettura più approfondita questi
termini differiscono per alcune caratteristiche, pretendere di fissare dei confini di
demarcazione netta tra loro obbedirebbe più a delle esigenze accademiche che non trovano
invece riscontro nella loro attuazione pratica; come vedremo, sono altre le differenze su cui
vale la pena concentrarsi (62).
Secondo la definizione dell'OMS la partecipazione comunitaria è “un processo attraverso il
quale le persone sono realmente attive e coinvolte nella definizione dei loro problemi, nelle
decisioni che riguardano i fattori che influenzano le loro vite, nella costruzione e messa in
atto di politiche, nella pianificazione, sviluppo e erogazione dei servizi e nelle azioni per
raggiungere il cambiamento”39 (63).
In altre parole, grazie al processo di partecipazione la comunità può essere in grado di (50):
• identificare e valutare con una maggiore responsabilità i propri problemi e bisogni
di salute;
39 Versione originale: “A process by which people are enabled to become actively and genuinelyinvolved in defining the issues of concern to them, in making decisions about factors that affecttheir lives, in formulating and implementing policies, in planning, developing and deliveringservices and in taking action to achieve change”.
49
• pianificare e mettere in atto delle azioni per risolverli;
• mettere in atto delle strategie organizzative per sostenere gli sforzi compiuti per la
la loro risoluzione;
• valutare le azioni messe in atto al fine di apportare eventuali cambiamenti per
raggiungere gli obiettivi stabiliti.
Le persone che prendono parte a esperienze di partecipazione comunitaria, acquisendo la
capacità di risolvere i loro problemi attraverso un processo di riflessione e azione collettiva,
sperimentano una maggiore sensazione di controllo sulla propria vita (50).
Facendo riferimento ad un approccio prevalentemente di tipo ecologico, gli interventi di
partecipazione comunitaria considerano la comunità come un sistema umano complesso
inserito all'interno di sistemi più ampi e per tanto sottoposto ad influenze sia interne che
esterne. Inoltre questi valorizzano e prendono in considerazione aspetti come la spiritualità,
la saggezza popolare, elementi della cultura di provenienza dei partecipanti e i significati da
essi attribuiti alle esperienze della vita quotidiana; tutte dimensioni che gli interventi
caratterizzati da un approccio biomedico e riduzionista trascurano o ignorano (62).
In base a quanto fino ad ora detto, è necessario che le esperienze di partecipazione
comunitaria abbiano anche un'elevata attenzione circa l'eticità o meno delle loro azioni.
Questa ha a che fare non tanto con l'utilizzo di un metodo piuttosto che un altro, quanto con
la scelta dei valori posti alla base di ogni azione. I principali valori etici di riferimento sono
la solidarietà, l'equità, il rispetto per la diversità, la tutela dell'autonomia, la gestione non
violenta dei conflitti, la condivisione dei processi decisionali e l'intento di garantire ad ogni
individuo la possibilità di scegliere se partecipare o meno e di uscire dal processo in ogni
momento (64).
L'approccio di partecipazione comunitaria fino ad ora descritto è quello definito dalla
letteratura internazionale come 'empowerment'; ciò vuol dire che considera la
partecipazione come il suo principale fine. Inoltre, facendo riferimento alla pedagogia
popolare di Paulo Freire (che verrà approfondita meglio nel terzo capitolo), considera i suoi
interventi come processi di apprendimento attraverso cui le persone imparano a riconoscere
le relazioni di potere nelle quali sono inserite e ad agire per modificarle (64). In tal senso la
priorità è data alla costruzione collettiva di nuove opportunità piuttosto che a problemi la
cui soluzione è solamente di tipo medico (6).
Le dichiarazioni di Alma Ata e di Ottawa facevano riferimento soprattutto a questo modello
(56). Da allora, per le ragioni descritte nel paragrafo precedente, la partecipazione più che
un 'fine' è divenuta un mezzo tecnico per raggiungere determinati outcome in salute. Gli
50
interventi che considerano la partecipazione come 'un mezzo' vengono definiti 'target-
oriented'. Questo approccio prevede un coinvolgimento passivo delle persone e affida
esclusivamente ai professionisti il compito di individuare i problemi da affrontare e gli
obiettivi da raggiungere (56; 64). In questo caso il principale obiettivo è quello di
aumentare sia l'utilizzo e l'accessibilità dei servizi messi a disposizione della comunità
(principalmente quelli di prevenzione primaria e secondaria) che la soddisfazione della
stessa (6).
Nella tabella seguente (tabella 1) è possibile dividere schematicamente i due approcci sulla
base di alcune caratteristiche (64).
Empower o bottom-up Target-oriented o top-down
Gestione delle risorse Membri della comunità Professionisti
Risultati attesi Cambiamenti sociali Outcomes in salute
Valutazione Metodi qualitativi Metodi quantitativi
Questa distinzione è tale solo nella teoria, infatti nella pratica i confini diventano molto più
sfumati (64) e le distinzioni sono soprattutto di natura disciplinare (per esempio
l'antropologia è maggiormente attenta ai significati che le persone coinvolte attribuiscono
all'esperienza mentre l'epidemiologia a come mettere in atto e valutare l'esperienza) (65).
Tuttavia, essere consapevoli delle diverse origini storiche ed epistemologiche è sicuramente
utile per evitare gli eventuali scopi di manipolazione della collettività con cui questi
interventi possono essere messi in atto (54). A partire da questa consapevolezza teorica è
possibile muoversi con flessibilità e a 'mente aperta' tra i due approcci cercando di integrarli
(logica dialogica e/e) piuttosto che considerarli in maniera mutualmente esclusiva (logica
dialettica o/o); e, tra i due, il primo atteggiamento sembra quello che offre maggiori
possibilità di successo (56).
Dopo aver definito in termini generali a che cosa si fa riferimento quando si parla di
partecipazione comunitaria, nei paragrafi successivi verranno approfonditi i principali
concetti cui questa fa riferimento.
51
Tabella 1. Caratteristiche approcci di partecipazione comunitaria
2.3.1 Comunità
Il termine 'partecipazione comunitaria' implica la presenza di un soggetto partecipante, la
comunità appunto. Già nel primo capitolo si è iniziato a parlare di comunità e
dell'importanza che questa ha nel contribuire alla costruzione identitaria del soggetto. Pur
facendo riferimento ad alcuni di quei concetti, in questo paragrafo verrà fornita una
definizione di comunità più tecnica e operativa, cioè quella maggiormente utilizzata
nell'ambito della promozione della salute.
Le riflessioni fatte sul concetto di comunità possono essere distinte in due grandi ambiti:
sociale e sanitario. Questi due differiscono molto tra di loro: infatti se nel primo ambito
esiste un intenso dibattito, non ancora arrivato a compimento, sia sul significato del termine
sia proprio sull'utilità o meno di trovare una definizione univoca; nel secondo invece, a
partire proprio dalla dichiarazione di Alma Ata, il dibattito è quasi del tutto assente poiché il
concetto di comunità viene dato per scontato, come se il suo significato fosse evidente (51).
In ambito sociale le prime riflessioni sul concetto di comunità iniziano a comparire tra la
fine del '700 e l'inizio del '800 con l'avvento della rivoluzione industriale e il conseguente
processo di urbanizzazione. Secondo i principali filosofi sociali dell'epoca questi processi
stavano erodendo le relazioni esistenti tra gli individui e la società, con la conseguente
perdita di un senso comunitario di appartenenza. Tuttavia vi erano profonde differenze sia
su che cosa la comunità fosse sia sulle valutazioni riguardanti gli effetti della sua perdita
per la società (66).
Nel '900 le riflessioni teoriche sull'argomento cedono il passo ad approcci di tipo empirico
distinti in due principali linee di ricerca. Una, definita con il termine 'studi di comunità'
(studies of communities), aveva come obiettivo quello di comprendere i principi 'naturali' a
fondamento della comunità; l'altra portava all'interno delle comunità (studies in
communites) gli approcci metodologici di ricerca comunemente utilizzati per lo studio delle
organizzazioni sociali. Tuttavia, poiché nessuno dei due approcci riuscì a definire
chiaramente cosa la comunità fosse, si perse l'interesse per questo ambito di ricerca (66).
É con l'avvento dei movimenti sociali di comunità avvenuti a partire dagli anni '70 del
secolo scorso che tale concetto ha riacquistato importanza. A differenza dell'approccio
accademico, gli 'attivisti di comunità' sostenevano e sostengono che la cosa più importante
sia lavorare 'con' la comunità e non dibattere 'su' cosa la comunità sia. Influenzati da questo
tipo di approccio, alcuni ricercatori di quel periodo hanno abbandonato definitivamente
52
l'idea di scoprire cosa la comunità sia in realtà per indagare soprattutto i significati che i
membri della comunità attribuiscono ad essa. Gli aspetti più importanti emersi da questo
nuovo approccio di ricerca sono quelli che vedono la comunità come uno spazio
aggregativo e relazionale. La dimensione aggregativa fa riferimento a come i membri di
una stessa comunità si percepiscono tra loro, mentre quella relazionale a come questi
vedono quelli appartenenti ad un'altra comunità. Entrambe le dimensioni concorrono alla
costruzione simbolica di confini identitari attraverso cui è possibile distinguere una
comunità dall'altra. Questi confini possono riguardare sia aspetti tangibili (nazionalità;
geografia; lingua) sia aspetti culturali. Ed è allo studio di questi che ci si deve rivolgere per
comprendere la visione che le persone hanno della propria comunità di appartenenza (66).
Chi scrive è consapevole che il modo in cui la riflessione sociologica è stata presentata
potrebbe apparire fin troppo sintetica ed elementare, tuttavia l'obiettivo principale era
quello di storicizzare il concetto di comunità e far emergere la ricchezza delle riflessioni in
merito.
Il concetto di comunità fa la sua comparsa in ambito sanitario senza avere una definizione
specifica. Dall'utilizzo che ne viene fatto nella dichiarazione di Alma Ata emerge l'idea di
una comunità definita localmente i cui membri, oltre ad essere accomunati da problemi e
bisogni comuni, condividono anche le stesse caratteristiche socio-culturali, economiche e
politiche. Viene presentata quindi come un'unità coerente al cui interno le persone
collaborano insieme ai fini di uno scopo comune. Inoltre, è concepita come un livello
dell'organizzazione sociale che va dall'individuo alla nazione passando per la famiglia e la
comunità (66).
Da allora, tutte le dichiarazioni e riflessioni in ambito sanitario sulla comunità hanno
combinato differentemente tra loro queste caratteristiche. Alcune definizioni davano
maggiore enfasi alla dimensione spaziale, altre alla condivisione di interessi e bisogni, altre
ancora alla consapevolezza di un 'senso di appartenenza' comunitario. Ci sono state anche
definizioni quantitative secondo le quali superato il numero di 400 persone si poteva parlare
di comunità. Questa variabilità è esitata in una generale mancanza di specificità e accordo
su cosa la comunità, di cui si richiede la partecipazione, debba essere (66).
53
Attualmente quando si parla di comunità si fa riferimento alle seguenti caratteristiche (55;
64):
• strutturali/spaziali: fanno riferimento alle dimensioni geografiche (anche virtuali,
come Internet) e demografiche;
• funzionali/non-spaziali: condivisione di interessi, ideologie, valori culturali,etc...;
• interazioni sociali: sono dinamiche e legano le persone tra di loro attraverso le
relazioni;
• identificazione di problemi e bisogni comuni.
Ciò comporta per esempio che all'interno di una comunità definita secondo la dimensione
spaziale conviveranno tra loro comunità con caratteristiche funzionali differenti o che
singoli individui possono appartenere contemporaneamente a differenti tipi di comunità
(55).
Interessante notare come il concetto di comunità cambi in base anche all'approccio di
intervento messo in atto. Gli interventi definiti target-oriented danno maggiore importanza
alle dimensioni spaziali (geografiche e demografiche); in questo caso per comunità si
intende il target individuato da uno specifico programma in base a considerazioni di
carattere prevalentemente epidemiologico (per esempio gruppi a rischio per una
determinata patologia). Così facendo vengono perse tutte le altre dimensioni comunitarie
che invece possono fare la differenza sia nell'implementazione che nella riuscita del
programma. L'approccio definito “empowerment” cerca di prendere in considerazione tutte
le dimensioni al fine di contestualizzare al meglio l'intervento e garantirne la sostenibilità
(64).
Quest'ultima considerazione ci permette di collegare il concetto di comunità a quello di
partecipazione che verrà approfondito nel paragrafo successivo.
2.3.2 Partecipazione
Il termine 'partecipazione', come quello di comunità, viene citato per la prima volta in
ambito sanitario durante la conferenza di Alma Ata, anche in questo caso senza una chiara
definizione (61). Dal testo della Dichiarazione emerge come il suo utilizzo faccia
chiaramente riferimento al concetto più ampio di democrazia, in base al quale la
partecipazione è considerata come un “diritto/dovere” del singolo cittadino e della
comunità (51).
Le scienze politiche affermano che gli aspetti più importanti della partecipazione
riguardano soprattutto la dimensione democratica e la distribuzione del potere all'interno
54
della società (56; 61; 67). In altre parole, per essere considerato tale, un processo
partecipativo deve preoccuparsi di coinvolgere e dare voce a tutte le classi sociali in
maniera equa e senza discriminazioni (54; 56). Inoltre, le riflessioni fatte nel campo dei
diritti umani sottolineano come gli stati, tutelando o meno la libertà 'positiva' e 'negativa'
dei suoi cittadini, abbiano un ruolo centrale nel favorire o ostacolare i processi partecipativi
(56). Ciò implica che questi dipendono fortemente dalle condizioni politiche all'interno
delle quali si trovano ad operare; per esempio uno Stato autoritario può utilizzare la
partecipazione al fine di autolegittimarsi e mantenere lo status quo mentre uno democratico
dovrebbe riconoscerla come il fondamento dal quale partire per intraprendere azioni
politiche (54; 56).
Proprio per le ragioni sopra riportate è importante distinguere il termine partecipazione da
quelli come 'consultazione' e 'coinvolgimento', erroneamente utilizzati come suoi sinonimi.
La consultazione prevede la semplice richiesta di informazioni alla comunità (55). É questo
il tipo di approccio utilizzato prevalentemente dal modello bio-medico; la comunicazione è
soprattutto unidirezionale e avviene su problemi e tematiche predefinite solo dagli operatori
(6). Anche nel 'coinvolgimento' il problema o la tematica da trattare sono decisi
preventivamente dagli operatori, ma in questo caso i partecipanti sono invitati anche a
riflettere sulle possibili soluzioni da mettere in atto. Nella partecipazione è invece la
comunità a individuare e risolvere i propri problemi con o senza contributi esterni (55).
Inoltre, ciò che li distingue è il livello di potere concesso ai cittadini: minimo nella
consultazione, elevato nella partecipazione. Proprio in base al livello di potere della
comunità è possibile costruire una 'scala della partecipazione' (figura 9).
55
Figura 9. Azioni che gli attori -comunità e operatori- svolgono ai diversi livelli di partecipazione. Fonte: Dors, Centro di documentazione per la promozione della salute.
La scelta del livello al quale agire, oltre che dipendere da una scelta valoriale, dipende
anche dalle caratteristiche del contesto nel quale ci si trova ad operare (55; 68). Inoltre,
come verrà approfondito meglio nel paragrafo riguardante la valutazione, a crescenti livelli
di partecipazione corrispondono migliori livelli di salute nella comunità (figura 10) (68;
69). Ciò sembra essere dovuto principalmente al fatto che le persone coinvolte in processi
partecipativi aumentano il loro livello di fiducia nei confronti degli altri e delle istituzioni.
L'aumento del livello di fiducia, favorendo la creazione di legami relazionali significativi,
favorisce lo sviluppo del supporto sociale sul quale le persone possono contare e riduce il
rischio di isolamento (55). Tuttavia, è solo all'ultimo livello di partecipazione che la
comunità ottiene veramente il controllo sui fattori che influenzano la vita e la salute dei
suoi membri (70; 71). Per questo, gli interventi di partecipazione comunitaria che hanno
come fine stesso la partecipazione possono incontrare ostacoli e resistenze a causa del loro
tentativo di modificare l'ordine sociale precostituito. In queste circostanze, la salute diventa
per la comunità un tema di rivendicazione sociale e politica (56).
56
Figura 10. Correlazione tra i livelli di partecipazione comunitaria e i miglioramenti in salute.
2.2.3 Empowerment
Quando la comunità, attraverso la partecipazione, è in grado di ottenere il controllo sui
fattori che influenzano la vita e la salute dei suoi membri vuol dire che ha raggiunto un
elevato livello di empowerment (55; 72). Per empowerment di comunità (community
empowerment) si intende infatti quel processo attraverso cui le persone agiscono
congiuntamente per aumentare il loro livello di controllo (potere) sugli eventi che
influenzano le loro vite (55; 72). Questo rappresenta l'ultimo livello di un processo che va
dall'individuo alla comunità (figura 11) (72).
Nella realtà, ovviamente, il passaggio da un livello all'altro non è così lineare come sembra
dallo schema proposto. Tuttavia è utile per provare a fare alcune considerazioni. Il processo
inizia da una condizione di sostanziale mancanza di potere che l'individuo sperimenta
attraverso sentimenti di impotenza, perdita di controllo sulla propria vita, ritiro dalla
società, alienazione e depressione (vedere paragrafo “La malattia come causa e
conseguenza di un'alterata relazione corpo-mondo” del capitolo 1) (61). A partire da questa
situazione, se le persone vengono attivamente coinvolte in processi collettivi di
partecipazione per la redistribuzione del potere e delle risorse all'interno della società,
possono vedere aumentare il loro livello di empowerment. Quanto detto è molto importante,
infatti non può esserci sviluppo di empowerment di comunità senza che le persone siano
coinvolte in azioni collettive per affrontare problemi comuni. Il primo passaggio è costituito
dallo sviluppo di una maggiore consapevolezza circa la condizione nella quale ci si trova a
vivere. Preso atto dell'ingiustizia di cui è vittima, se sufficientemente motivato, il soggetto
cercherà di intessere relazioni sociali con persone che condividono la sua stessa situazione
(72). Questi passaggi sono funzionali allo sviluppo dell'empowerment individuale
(psycological empowerment) che il soggetto sperimenterà con un aumento dei livelli di:
autostima, autoefficacia, fiducia negli altri e nella vita in generale (61, 72). A questo livello
57
Figura 11. Dimensioni dell'empowerment di comunità e processo attraverso il quale può essere raggiunto. Fonte: Rissel, 1994
di empowerment è associato anche lo sviluppo di un maggiore “senso della comunità”
(sense of community) che corrisponde ad un aumento dei livelli di partecipazione alle
attività sociali e politiche della comunità (61, 72). Infine, quando persone con un buon
livello di empowerment individuale mettono in atto delle azioni per affrontare e risolvere i
problemi alla base della propria condizione di vita, si giunge a quello che si è definito
empowerment di comunità. Da quanto detto emerge un'importante differenza tra
l'empowerment individuale e quello di comunità. Il primo si caratterizza per una percezione
soggettiva di maggior controllo sulla propria vita da parte dell'individuo, senza prevedere la
sua partecipazione ad azioni sociali o politiche. Il secondo include persone con un elevato
livello di empowerment individuale, che siano riuscite a conseguire una qualche forma di
redistribuzione delle risorse a favore del loro gruppo o comunità (72).
Così inteso il processo di empowerment è un fenomeno collettivo e non individuale. Questo
chiarimento non è invece presente nella definizione che ne viene data nella Carta di Ottawa.
Si parla infatti genericamente di 'persone' (people) senza specificare se ci si riferisce ad esse
come individui o come comunità (72)40.
Anche in questo caso, come in tutti gli altri termini associati alla partecipazione
comunitaria, la mancanza di chiarezza definitoria sembra essere una costante. Ciò sembra
essere dovuto al fatto che la Sanità pubblica e la Promozione della salute mutuino dei
termini da altre discipline, come per esempio le scienze politiche, l'antropologia, la
sociologia e la psicologia, mantenendo tuttavia il loro approccio pragmatico e con poca
attenzione alla teoria. Nel caso dell'empowerment ciò ha portato a non sapere a chi esso si
riferisca esattamente (se all'individuo o alla comunità), ad un suo uso spesso improprio e a
una indeterminatezza su come debba essere misurato. Il problema della valutazione, come
vedremo meglio in seguito, è uno degli aspetti più dibattuti nella letteratura sulla
partecipazione comunitaria. Nel caso dell'empowerment di comunità, se questo viene
considerato come il fine stesso dell'intervento, i risultati attesi dovrebbero essere
rappresentati da un aumento dei livelli di empowerment individuale dei membri della
comunità e di controllo sulle risorse. Nel primo caso ciò sembra condurre ad un
miglioramento dei livelli di salute mentale; nel secondo a quelli di salute in generale,
soprattutto grazie ai cambiamenti strutturali messi in atto dalla comunità stessa. Rispetto a
quest'ultimo punto, è tuttavia molto difficile riuscire a valutare con precisione il ruolo
esercitato dall'empowerment di comunità rispetto a quello svolto da altri fattori (72).
40 Definizione di Promozione della salute: “Health promotion is the process of enabling people to increase controlo over, and
to improve their health”
58
Per essere autentico, il processo di empowerment deve avvenire a partire dalla comunità,
non può essere semplicemente dato. A tal fine, gli interventi volti a favorire il suo sviluppo
hanno come obiettivo principale quello di favorire la rimozione degli ostacoli al processo di
empowerment. Questa operazione, di rimozione degli ostacoli appunto, assume un ruolo
centrale soprattutto nelle comunità più marginalizzate o deboli (comunità isolate; persone
senza fissa dimora e/o in condizioni di povertà cronica, etc...). Paradossalmente, sono
proprio le persone di queste comunità che vanno incoraggiate più delle altre per dare avvio
al processo di empowerment (72). Riuscire a coinvolgere le persone per avviare il processo
di partecipazione comunitaria è stata infatti una delle principali difficoltà incontrate
nell'esperienza che verrà descritta nel terzo capitolo.
Così come il concetto di 'partecipazione' è connesso a quello di democrazia, quello di
empowerment lo è a quello di 'potere'. Questo nasce infatti all'interno di un crogiolo di
esperienze di attivismo (dai movimenti per i diritti civili e delle donne degli anni '60 e '70 a
quelle di pedagogia libertaria dell'America Latina) e viene poi fatto proprio dalla psicologia
di comunità che ricolloca la persona all'interno del suo contesto sociale e politico. Infine,
intorno agli '90 diviene parte di un ampio movimento culturale il cui scopo è quello di
ottenere un maggior controllo da parte dei cittadini su diversi ambiti della loro vita (61).
Il potere è una risorsa immateriale differentemente distribuita all'interno della società ed è,
per la Commissione sui determinanti sociali di salute dell'OMS, la principale causa delle
diseguaglianze in salute (33; 61). Questo ha a che fare con la possibilità che una persona ha
di predire, controllare e partecipare agli eventi che si presentano nel corso della sua vita
(61); in altre parole, la capacità di creare o resistere ai cambiamenti (55). Il processo di
empowerment, in base a quanto detto precedentemente, consiste nella capacità di un gruppo
di persone di mettere in atto una serie di cambiamenti sociali e politici per ridistribuire il
potere all'interno della società. Le forme attraverso cui può avvenire questa redistribuzione
dipendono dai diversi modo di intendere il potere (72). Più che interpretazioni, queste sono
dimensioni diverse del potere (33; 55).
Si definisce 'potere su' (power-over) quella forma di potere che si esercita attraverso il
dominio, lo sfruttamento e l'egemonia. Il dominio implica l'uso diretto della forza o
dell'autorità di alcune persone su altre. In ambito sanitario, per esempio, si può parlare di
dominio nei casi di interventi legislativi atti a modificare alcune abitudini personali (fumo e
alcool) o nei casi di trattamento sanitario obbligatorio (55). Anche se, come nel caso degli
esempi, esercitare una qualche forma di dominio può avere una funzione di Sanità pubblica,
59
è importante tenere in considerazione che ciò avviene sempre attraverso la coercizione del
soggetto (55). Lo sfruttamento economico riguarda la distribuzione iniqua della ricchezza
all'interno della società ed è una delle cause della generazione delle classi sociali (55).
L'egemonia infine, è la forma di potere più subdola e insidiosa. Con particolare riferimento
ai professionisti della salute, questa forma di potere può essere utilizzata nei confronti di
un'altra persona per modificare negativamente l'immagine che questa ha di sé. Sposando
infatti un approccio paternalistico e giudicante, concentrato maggiormente sulle mancanze
piuttosto che sulle risorse del soggetto, si può contribuire per esempio a creare un
sentimento di mancanza di potere e dipendenza (55).
Quando il 'potere-su' viene messo a disposizione per aumentare il 'potere di' (power-to) una
persona o un gruppo di persone di modificare il corso degli eventi riguardanti la propria
vita, viene definito potere-con (power-with). Quest'ultima forma può essere utilizzata anche
per favorire l'accrescimento di quel potere che deriva dalla coscienza del soggetto (power-
from-within) (33; 55).
Ricapitolando, le dimensioni del potere sono quattro:
• potere-su (power-over)
• potere-di (power-to)
• potere-interno (power-from-within)
• potere-con (power-with)
A partire da queste forme di potere si possono avere altrettanti modi di concepire i processi
di empowerment. Un approccio basato sul 'potere-su' cercherà di sottrarre potere a chi ne ha
di più. Ciò implica la possibilità di generare delle conflittualità tra gruppi diversi per la
gestione del potere stesso. In questi casi, il conflitto non è considerato in maniera negativa
ed è necessario per aumentare i livelli di partecipazione. La principale attenzione non sarà
quella di evitare il conflitto ma di gestirlo con attenzione (56).
A differenza degli approcci basati sul 'potere-su' - il cui obiettivo è aumentare la
partecipazione dei gruppi esclusi all'interno delle strutture politiche ed economiche senza
però metterle in discussione - gli altri (power-to; power-from-within; power-with) si
concentrano maggiormente sulle risorse e le capacità creative e generatrici dei singoli e dei
gruppi al fine di trasformare l'esistente e proporre altre forme di redistribuzione del potere
(33).
Come affermato dalla Commissione sui determinanti sociali della salute, la redistribuzione
del potere è l'aspetto più importante da considerare per affrontare le diseguaglianze e
migliorare la salute dei popoli e delle persone. Per la Commissione non sono quindi
60
accettabili quegli interventi che utilizzano il concetto di empowerment in maniera
“depoliticizzata”, cioè attente alla solo dimensione individuale e psicologica senza
pretendere un ruolo attivo da parte dello Stato nella tutela dei diritti fondamentali delle
persone (tra tutti la libertà positiva e negativa) e nella distribuzione equa di beni e servizi
all'interno della società (33).
2.2.4 Capitale sociale
Le comunità i cui membri sono in grado di partecipare in maniera collaborativa tra loro per
il raggiungimento di un bene comune (empowerment di comunità) piuttosto che di uno
esclusivamente privato, hanno un livello di capitale sociale elevato (73).
Anche se già citato nel corso di questo capitolo, cercheremo di capire meglio cosa si
intenda per 'capitale sociale' e quali sono i suoi legami con la salute.
L'origine di questo concetto, come per quelli visti precedentemente, è di tipo sociologico.
All'interno di questo ambito la riflessione verte soprattutto sulle sue caratteristiche, cioè se
riguardano soprattutto l'individuo o la collettività. In ambito sanitario vengono considerati i
suoi effetti sulla salute sia in ambito individuale che collettivo (73).
La dimensione individuale del capitale sociale considera soprattutto le reti sociali all'interno
delle quali l'individuo è inserito (social network approach) e la sua capacità di trarne
beneficio. Secondo questo approccio, il soggetto ha la possibilità di avere a disposizione
delle risorse che non sarebbero disponibili senza la presenza di una rete sociale di supporto.
In questo caso le risorse di cui si parla non sono quelle intraindividuali bensì quelle presenti
all'interno delle reti sociali. Le reti sociali cui un individuo può accedere non sono tutte
uguali, quanto più queste hanno risorse all'interno tanto più sono potenti. La possibilità di
accedere a reti sociali 'potenti' da parte del soggetto dipende dalle risorse di cui lui a sua
volta dispone. Ciò implica che chi non dispone di molte risorse viene socialmente escluso
dalle reti più 'potenti' e che i gruppi e le persone con maggior potere all'interno della società
hanno invece più possibilità di accedervi. Anche in questo caso, risulta evidente come il
tema della distribuzione diseguale del potere sia di primaria importanza (73).
La dimensione collettiva del capitale sociale fa riferimento al concetto di coesione sociale
(social cohesion approach). Se nel primo caso (social network approach) il capitale sociale
è visto come un bene privato di cui il singolo cittadino può disporre, in questo caso è visto
anche come un bene comune e non esclusivo. Ciò vuol dire che, all'interno di una società
caratterizzata da un elevato capitale sociale, può trarne beneficio anche chi ha una scarsa
rete sociale. I cittadini di queste comunità sono caratterizzati da elevati livelli di
61
partecipazione, collaborazione, uguaglianza e reciprocità. É la fiducia reciproca tra le
persone che sembra alimentare queste caratteristiche delle relazioni sociali. Ancora è aperto
il dibattito scientifico sulla relazione esistente tra capitale sociale e fiducia. Alcuni
ritengono che quest'ultima sia la diretta conseguenza del capitale sociale, altri invece
l'esatto opposto (73). La prima versione sembra attualmente godere di maggiore credibilità,
anche se si sta facendo largo l'ipotesi che il rapporto più che di causa-effetto sia di
interdipendenza con un ruolo maggiore esercitato dal capitale sociale sulla fiducia (40).
A queste due forme fondamentali di capitale sociale, si aggiungono altri due tipi di
classificazione. La prima individua due forme di capitale sociale: cognitivo e strutturale. Il
primo (cognitive social capital) è riferito alla percezione soggettiva che le persone hanno
delle proprie relazioni sociali ed è legata per esempio a sentimenti di fiducia, solidarietà e
reciprocità. Il secondo (structural social capital) fa riferimento alle caratteristiche delle reti
sociali in cui l'individuo è inserito e le possibilità d'azione che queste comportano per esso.
L'altro tipo di classificazione prende in esame tre tipi di capitale sociale in base alle
caratteristiche dei legami esistenti tra le persone (73). Questi sono:
• bonding social capital:i legami tra i membri di una comunità o gruppo sono molto
forti e sono funzionali alla costruzione e al rafforzamento di identità e compiti
comuni (per esempio aiuto e supporto);
• bridging social capital: i legami sono più deboli e collegano tra loro membri di
diverse reti sociali al fine di scambiare informazioni e risorse;
• linking social capital: i legami sono formali e di tipo verticale, cioè collegano tra
loro individui a differenti livelli di gerarchia sociale o istituzionale.
Diversi studi hanno dimostrato il legame circolare esistente tra il capitale sociale e la salute
delle persone. I membri di comunità con elevati livelli di capitale sociale hanno infatti una
probabilità più elevata di avere una salute migliore rispetto a quelli che vivono in contesti
con scarso capitale sociale (74).
I meccanismi che legano il capitale sociale agli esiti in salute si distinguono in base alle sue
caratteristiche individuali e collettive (73). Nel caso dell'approccio individuale (social
network approach), questo ha un effetto su:
• il supporto sociale: svolge un effetto di protezione nei confronti degli episodi
stressanti;
• l'influenza sociale sui comportamenti a rischio: i 'pari' hanno un ruolo decisivo
rispetto all'adozione o meno di comportamenti a rischio per la salute;
62
• la partecipazione sociale: le persone possono trarne un vantaggio diretto per la
propria salute acquisendo nuove abilità e indiretto aumentando il senso di
appartenenza comunitaria.
Per quanto riguarda invece la dimensione collettiva (social cohesion approach) non ci sono
ancora delle chiare evidenze. Un'ipotesi, già descritta nel paragrafo relativo alle
diseguaglianze in salute, considera l'effetto di mediazione che il capitale sociale può avere
tra le diseguaglianze sociali e la salute. Inoltre, può incidere sulla capacità che i membri di
una comunità hanno di collaborare per raggiungere degli obiettivi comuni: decisioni
politiche; organizzazione e accessibilità ai servizi socio-sanitari, etc... (73)
Alla luce di quanto detto, un intervento di partecipazione comunitaria dovrebbe avere tra i
suoi principali obiettivi proprio quello di mobilizzare il capitale sociale all'interno della
comunità. Tuttavia, vi sono ancora limitate conoscenze circa le modalità attraverso cui
portare a termine questo obiettivo (73). L'esperienza che racconteremo nel terzo capitolo ha
avuto come suo proposito principale proprio quello di cercare di creare e rafforzare i legami
tra i membri della comunità.
L'uso del termine 'capitale sociale', così come per quello di 'partecipazione' ed
'empowerment' può avere un fine manipolatorio per mantenere l'ordine sociale precostituito
piuttosto che cercare di modificarlo. Nello specifico, tutti e tre i concetti presentati possono
favorire lo sviluppo di interventi di partecipazione comunitaria caratterizzati da un
approccio depoliticizzato nei confronti della salute e dei suoi determinanti. Ciò avviene
all'interno di una visione che prevede una relazione dicotomica tra la società civile e lo
Stato, in cui all'aumento di responsabilità e partecipazione della prima deve corrispondere
una riduzione della presenza del secondo. Questo atteggiamento può essere particolarmente
pericoloso in momenti come quello attuale in cui la responsabilità sociale dello Stato
(welfare state) è fortemente sotto attacco dall'imposizione delle politiche e dell'ideologia
neoliberista. In questo senso, quando si parla di 'capitale sociale' è necessario riferirsi non
solo ai legami esistenti tra i cittadini ma anche e soprattutto a quelli esistenti tra questi e le
istituzioni pubbliche di riferimento (33).
Proprio per questo chi si occupa di promuovere la salute delle persone attraverso un
approccio di comunità necessita, come afferma Labontè, di:
“ […] to learn how to dance the dialectic, and not discard the hopefulness
that infuses the social inclusion/social exclusion concept. The dialectic
dances between seeking to include more people into social systems stratified
63
by exclusion even while trying to transform these systems. It’s an old
dialectic, one that never fully resolves but remains at best a grapple-able
task, one that straddles the imperatives of revolution with the pragmatics of
reform.”41.
2.4 I metodi della partecipazione comunitaria
Avendo chiaro che cosa si intenda per partecipazione comunitaria e quali siano i significati
dei concetti ad essa maggiormente associati, in questo paragrafo verranno passati in
rassegna i principali strumenti grazie ai quali condurre un intervento di partecipazione
comunitaria. In altre parole, dopo aver esaminato il 'che cosa' si passerà al 'come'.
Negli interventi il cui fine è sviluppare l'empowerment di comunità il ruolo dell'operatore
della salute è quello di facilitare i partecipanti nel processo di individuazione dei propri
obiettivi di cambiamento. Secondo questo approccio è la comunità infatti l'unica
responsabile dell'analisi della sua situazione, della definizione degli obiettivi e della scelta
degli strumenti per raggiungerli. Questa modalità di condurre gli interventi è molto vicina
all'area culturale psico-pedagogica e di psicologia di comunità. Inoltre, come visto
precedentemente, è nata all'interno dei movimenti per i diritti civili degli anni '60-70 in
favore soprattutto delle fasce di popolazione più marginalizzate della società. Proprio
perché il processo di partecipazione è in mano ai partecipanti stessi, l'intervento, a
differenza di quelli classici basati su impostazione bio-medica, non si basa sulla costruzione
ex-ante di obiettivi da raggiungere da parte dell'operatore (6; 75). Quest'ultimo infatti, si
trova nella condizione di non sapere di preciso dove l'azione intrapresa condurrà la
comunità, e si sforza di trovare insieme ai partecipanti il significato stesso dell'intervento
(6).
L'approccio comunemente utilizzato negli interventi di Sanità Pubblica risponde ad una
logica di tipo razionale. Ciò vuol dire che viene riconosciuta alle sole scienze sperimentali,
e ai loro metodi, la capacità di fornire tutte le informazioni necessarie per l'identificazione
dei problemi, la scelta delle soluzioni e la relativa definizione degli obiettivi da raggiungere
con tempi e modi prestabiliti. L'idea sottostante è che ci sia per ogni problema una
soluzione ottimale a prescindere dal contesto all'interno del quale questo sorge. La
comunità, a cui il progetto si rivolge, non ha nessun ruolo nell'identificare i propri problemi
41 Wallerstein N, Mendes R, Minkler M , Akerman M. Reclaiming the social in community movements: perspectives from the USA and Brazil/South America: 25 years after Ottawa. HealthPromotion International 2011, 26 (2), cit., p 233
64
di salute e le risorse per far fronte ad essi; il tutto si risolve facendo affidamento al
tecnicismo di chi progetta e ai risultati positivi che lo stesso intervento ha già avuto in altri
contesti. Colui che progetta è colui che sa e non entra direttamente in contatto con le
persone sulle quali si misurerà il cambiamento avvenuto. C'è quindi una separazione netta
tra il soggetto (il tecnico, colui che progetta) e l'oggetto dell'intervento (la comunità).
Questa modalità può essere certamente utile in situazioni di “emergenza”, in cui è
necessario sapere con rapidità cosa fare esattamente, oppure in contesti organizzativi stabili
in cui si vogliano standardizzare delle azioni attraverso delle procedure. Tuttavia, proprio a
causa della loro precisione, gli interventi concepiti in questo modo possono entrare in crisi
di fronte all'incontro con l'imprevisto, cioè a qualcosa che è sfuggito all'analisi iniziale (6).
Quando si decide di mettere in atto un intervento di partecipazione comunitaria,
all'approccio razionale si preferisce uno di tipo euristico (dal greco eurisko, “trovare”) (6).
Secondo questo approccio, i cambiamenti all'interno della società (e in questo caso con
particolare riferimento alle condizioni che influenzano la salute) non possono essere
pianificabili in modo puntuale, l'attenzione quindi va spostata dagli obiettivi al processo,
dal programma alla strategia (76). La strategia implica un' “ecologia dell'azione”, ossia la
capacità di modificare l'intervento durante il processo in atto in base agli effetti che questo
produce, alle nuove informazioni che emergono e ai contrattempi che si incontreranno
strada facendo (6; 22). A chi decide di condurre progetti di questo tipo è richiesta la
capacità di sopportare l'incertezza ricercando l'innovazione e di concepire l'intervento come
luogo di confronto, condivisione e di etica. L'agire diventa quindi un “costruire con” essere
umani dotati di personalità - e non meri corpi biologici in relazione passiva con l'ambiente
sociale - che devono essere messi nelle condizioni di partecipare alla costruzione di
fenomeni sociali (76). La scelta di procedere in questo modo non risponde solo a delle
esigenze di carattere ideologico, cioè ad una visione dell'essere umano e della società
diversa per esempio da quella di tipo biomedico, ma anche ad una di tipo pratico. Gli
interventi che coinvolgono la comunità si confrontano spesso con problemi di natura
complessa; ciò vuol dire che sono situazioni nei confronti delle quali non ci sono né chiare
evidenze di relazione causa-effetto all'interno del problema, né soluzioni di provata
efficacia per la loro risoluzione. Questo perché, essendo i diversi elementi che costituiscono
il tutto tra loro inseparabili e interdipendenti, risulta difficile isolare le singole cause
dall'insieme cui appartengono. Trovandosi quindi nello spazio della complessità e
dell'incertezza è necessario sostituire alla logica razionale del programma (“chi fa cosa”,
“come” e “quando”), quella della strategia con la sua razionalità costruttiva o “incertezza
65
razionale” (ecologia dell'azione). In questo modo i possibili imprevisti contenuti nella
situazione stessa, da rischi possono essere concepiti come opportunità (6). Più che imporre
un modello dall'esterno cui il reale si ribella, in queste situazioni si cerca di sviluppare il
potenziale contenuto nella situazione stessa adattando il proprio agire in base all'evoluzione
degli avvenimenti nel tempo (6; 76). Quanto detto è in linea con lo studio dei sistemi
complessi secondo cui per favorire dei cambiamenti è necessario individuare e rafforzare
quei nodi di energia, attrattori di cambiamento all'interno dei sistemi, piuttosto che agire
con forza dall'esterno (approccio top-down). Ciò vuol dire, ancora una volta, avere la
capacità di avanzare nell'incertezza e di creare quelle trasformazioni interne le quali - anche
se all'inizio coinvolgono solo pochi individui e ambienti ristretti - rompendo ciò che
imprigionava, possono innescare il cambiamento che, se assecondato, può propagarsi (6).
In sintesi, da una parte abbiamo la costruzione tecnica di un modello di intervento che viene
applicato dall'esterno e in maniera uguale in contesti diversi; dall'altra invece l'innesco per
il possibile cambiamento è ricercato all'interno del contesto stesso, adattando le azioni al
mutare delle situazioni (6). Questi due approcci si trovano ai due estremi di un continuum
che prevede quattro principali modalità di progettazione. Queste sono (75):
1. approccio classico: è quello che sposa la logica esclusivamente razionale descritta
sopra (top-down);
2. approccio evolutivo: gli obiettivi da raggiungere sono definiti dai professionisti
mentre ai destinatari dell'intervento spetta il compito di capire come raggiungerli;
3. approccio processuale: gli obiettivi e la strategia per raggiungerli sono formulati
gradualmente dai tecnici in collaborazione con i destinatari dell'intervento;
4. approccio sistemico: fa riferimento alle caratteristiche della progettazione descritte
sopra (bottom up).
66
OBIETTIVI CARATTERISTICHE PROCESSO
Classico Definiti dai professionisti sulla base di informazioni razionali
Approccio Top-down: sono i professionisti adecidere gli obiettivi e come raggiungerli.
Evolutivo Definiti dai professionisti sulla base di informazioni razionali
Gli obiettivi e le attività progettuali sono sviluppate gradualmente e con il coinvolgimento dei destinatari dell'intervento.
Processuale Definiti durante il processo di progettazione in collaborazione con i destinatari dell'intervento
Gli obiettivi e le attività progettuali sono sviluppate gradualmente attraverso un'attiva interazione tra professionisti e destinatari dell'intervento.
Sistemico Definiti durante il processo di progettazione in stretta collaborazionecon la comunità
Approccio bottum-up: gli obiettivi e leazioni per raggiungerli sono in relazione alcontesto di intervento. É richiesta una fortecollaborazione con la comunità.
Lo scopo di questa classificazione non è quello di valutare come 'buoni' o 'cattivi' alcuni
approcci piuttosto che altri ma di aumentare la consapevolezza circa il fatto che i modi di
sviluppare azioni all'interno della comunità possono essere differenti e che sono la
traduzione pratica di impostazioni teoriche e ideologiche tra loro anche molto distanti. A
partire da questa consapevolezza si potrà capire quale sia l'approccio migliore da scegliere
in base alla natura del problema che si deve affrontare, ai contesti nei quali si interviene e
alle proprie capacità professionali (6). Inoltre, è utile specificare che questi approcci nella
pratica tendono a contaminarsi l'uno con l'altro più di quanto possa sembrare in teoria (6;
75).
Ultimamente, all'interno degli ambiti di Sanità pubblica e Promozione della Salute si sta
facendo strada una metodologia di ricerca definita come 'ricerca-azione partecipata di
comunità' (community-based partecipatory reserch) (77).
Come per il concetto di 'partecipazione comunitaria' anche per quello riguardante la
'ricerca-azione partecipata di comunità' esistono in letteratura diversi modi per riferirsi ad
essa, come per esempio: partecipatory reserch; ricerca-azione e community-based
research. Anche se questi differiscono per la loro origine storica e per alcuni principi
67
Tabella 2. Approcci di progettazione e loro caratteristiche. Fonte: Lezwijn J et al, 2012
relativi alle loro modalità di applicazione, in questo contesto con il termine generico
'ricerca-azione partecipata' si farà riferimento all'insieme delle caratteristiche tra loro
comuni (77).
Questo approccio di ricerca, e di intervento, è stato fatto proprio dalla Sanità pubblica
quando è diventato evidente che la salute dei singoli individui è influenzata dal contesto
sociale, politico ed economico in cui vivono che ne plasma i comportamenti e le possibilità
di accedere o meno ai servizi sanitari. Attraverso interventi di 'ricerca-azione partecipata di
comunità', la comunità è messa nelle condizioni di ricercare e comprendere quali sono i
fattori che incidono sullo stato di salute dei suoi membri e mettere di conseguenza in atto
degli interventi per modificare la condizione esistente (77).
La 'ricerca-azione partecipata di comunità' (da adesso in poi anche “ricerca-azione”) viene
definita come un processo che coinvolge tra loro diversi attori in maniera equa e
collaborativa, e riconosce ad ognuno l'unicità del suo punto di vista. A partire
dall'individuazione di un problema rilevante per la comunità, vengono messi insieme saperi
e azioni per attuare quei cambiamenti sociali in grado di migliorare la salute della comunità
e le diseguaglianze in salute42 (78).
La 'ricerca-azione partecipata di comunità' fa riferimento a due principali tradizioni di
ricerca. La prima, fa la sua comparsa in Occidente intorno agli anni Quaranta del secolo
scorso nel campo della psicologia sociale (79; 80). Sin da subito si configura come
un'insieme di attività volte a raggiungere un cambiamento sia individuale che collettivo
(81). A differenza delle altre metodologie di ricerca, che si svolgono principalmente in
“laboratorio”, questa si sviluppa all'interno dei contesti di vita delle persone. Infatti, il suo
principale fondatore (Kurt Lewin) considerava la realtà come un processo di cambiamento
in atto, pertanto per lui il compito della scienza non era quello di “congelare” la realtà in
laboratorio ma di studiare le cose cambiandole e vederne gli effetti. Proprio per questo è
necessario che le teorie scientifiche e le pratiche trasformative siano intrecciate facendo in
modo che le ipotesi sulla realtà possano guidare le azioni e che queste modifichino le
conoscenze stesse (82).
Intorno al 1970, dall'America del Sud (Brasile), emerge un approccio di ricerca in ambito
pedagogico soprattutto grazie al lavoro fatto da Paulo Freire con la sua pedagogia degli
oppressi. Questa contesta il ruolo che un certo tipo di educazione (educazione depositaria)
42 Definizione ufficiale:“a collaborative process that equitably involves all partners in theresearch process and recognizes the unique strengths that each brings. CBPR begins with aresearch topic of importance to the community with the aim of combining knowledge and actionfor social change to improve community health and eliminate health disparities” (Minkler &Wallerstein, 2003, p. 4).
68
svolge nel mantenere e alimentare le differenze di potere tra le diverse classi sociali
all'interno della società. Secondo Freire, un processo di formazione può definirsi tale
quando porta il soggetto ad essere consapevole delle dinamiche di potere che determinano
la propria condizione di vita e a liberarsene agendo sulla realtà per trasformarla (80; 83).
Facendo proprie queste due tradizioni, la 'ricerca-azione partecipata di comunità' si
caratterizza per la connessione tra teoria e pratica; la visione circolare e sistemica del
progresso scientifico; la partecipazione dei cittadini; il coinvolgimento del ricercatore nel
campo di ricerca e per il superamento della classica divisione tra sapere scientifico e sapere
comune (81; 82). Inoltre è impregnata, così come tutti i concetti relativi alla partecipazione
comunitaria, di un impegno ideologico per l'affermazione della democrazia (84).
L'esistenza di un regime democratico da solo non è tuttavia sufficiente affinché un processo
di ricerca-azione possa svilupparsi. É necessario infatti che ci siano alcune condizioni
favorevoli come per esempio l'esistenza di una condizione sociale vissuta come critica da
parte di più attori che induca convergenze e mobiliti sentimenti di solidarietà. Proprio per
queste ragioni, chi decide di facilitare un processo di ricerca di questo tipo non può ignorare
le condizioni sociali, politiche, economiche ed istituzionali all'interno delle quali agisce
(81).
Dalle caratteristiche sopra descritte emerge chiaramente come questo approccio di ricerca si
discosti profondamente dalla concezione classica del lavoro scientifico. Tradizionalmente,
la scienza classica costruisce il sapere agendo sull'oggetto studiato attraverso esperimenti di
laboratorio. In questi è possibile controllare e separare gli effetti delle modifiche apportate
volontariamente da quelle avvenute in maniera casuale. Quando il ricercatore diventa parte
del suo campo di analisi entrando in relazione con l' “oggetto” di studio, queste possibilità
di controllo e padronanza non sono più possibili. Questo perché l' “oggetto” di studio viene
riconosciuto come soggetto con cui entrare in relazione e condividere i processi di
cambiamento, di apprendimento e di produzione di conoscenze. Se il sapere non riguarda
più soltanto un oggetto separato dal soggetto che lo concepisce (il ricercatore) ma anche i
rapporti che collegano due soggetti coinvolti nell'atto di ricercare, questo non può essere
separato dall'esperienza attraverso la quale si conosce. E questo tipo di sapere è sempre da
riformulare, incompiuto e condizionato dalle circostanze (sociali, psicologiche e
relazionali) nelle quali è prodotto. Proprio perché prodotto nella relazione, un atto di
conoscenza di questo tipo non può essere opera di un singolo individuo ma di un lavoro
collettivo (81). Attraverso un lavoro collettivo di elaborazione teorica è possibile prendere
consapevolezza dei processi cognitivi, affettivi e relazionali che sono presenti nei
69
comportamenti e nelle strutture sociali. Tale processo implica un lavoro su se stessi di
continuo apprendimento e cambiamento che porta, prima alla decostruzione delle proprie
certezze e poi alla costruzione di nuove rappresentazioni sociali della realtà e di se stessi. In
altre parole, ricercare significa costruire collettivamente nuove modalità per affrontare
problemi condivisi (81; 85).
Le caratteristiche generali fino ad ora presentate sono quelle tipiche di un modo di vedere la
ricerca-azione più come un approccio che un metodo di ricerca vero e proprio. Come tale,
questa ha come fine principale quello di far emergere i problemi sociali e trovare uno o più
modi per poterli affrontare. Inoltre, fa propri alcuni principi come: quello della
partecipazione; dell'affermazione dei diritti all'autodeterminazione; del riconoscimento di
competenze e saperi posseduti da ogni membro di una comunità. Invece, la ricerca-azione
come 'metodo' istituzionalizzato fa riferimento ad un insieme di strumenti e tecniche con le
quali attivare spazi di comunicazione e partecipazione. Questa ambiguità tra le due
modalità sembra essere radicata nella storia stessa della ricerca-azione e quindi, più che
cercare di risolverla, sarebbe necessario riuscire ad assumerla fino in fondo; così come le
questioni relative alle relazioni di potere tra ricercatori e partecipanti. Infatti, nonostante la
ricerca-azione abbia come principale caratteristica proprio quella della ridistribuzione del
potere tra i rappresentanti del sapere scientifico e la comunità, può accadere che questa
venga usata solo per fini manipolatori (85-87).
Recentemente sono stati introdotti undici principi guida per la 'ricerca-azione partecipata di
comunità' (77). Questi sono:
1. valorizzare la percezione che le persone hanno della loro comunità;
2. valorizzare i punti di forza e le risorse all'interno della comunità piuttosto che i
problemi e le debolezze;
3. favorire rapporti di collaborazione, non gerarchici, in tutte le fasi della ricerca;
4. favorire lo scambio di conoscenze, abilità ed esperienze;
5. raggiungere un buon equilibrio tra teoria e pratica;
6. evidenziare i problemi locali di salute pubblica ed affrontarli secondo l'approccio
dei determinanti sociali di salute;
7. valutare ciclicamente il processo di ricerca al fine di assicurare che tutti i punti di
vista vengano presi in considerazione;
8. curare la restituzione dei risultati alla fine del processo di ricerca;
9. garantire un impegno a lungo termine per sostenere il processo di ricerca;
10. affrontare eventuali problemi legati al razzismo e alla discriminazione;
70
11. assicurare la validità scientifica dei risultati della ricerca e allo stesso tempo cercare
di conferire la stessa importanza alle conoscenze della comunità.
Entrando ancora più nello specifico, la ricerca-azione si sviluppa secondo un processo
ciclico che prevede diverse fasi al suo interno. Dopo aver formato all'interno della comunità
un gruppo di ricerca, si inizia definendo uno o più problemi da affrontare; poi si raccolgono
delle informazioni sul problema individuato (la raccolta di informazioni può avvenire
utilizzando sia dati quantitativi che qualitativi) che consentono di identificare gli obiettivi
dell'intervento. Una volta scelti gli obiettivi, questi vengono trasformati in programmi di
azione; infine, i loro effetti vengono valutati per far partire un nuovo ciclo di intervento
(82).
I progetti di ricerca-azione azione che hanno i migliori risultati sono quelli che nascono da
un rapporto già esistente con la comunità e che possono durare per un lungo periodo di
tempo. Ciò implica che alla base del processo di ricerca via sia un buon livello di fiducia da
parte dei partecipanti nei confronti del ricercatore; per questo motivo è necessario
conoscere e farsi conoscere dalla comunità prima di proporre un progetto di ricerca. A tal
fine è necessario diventare un “buon vicino” della comunità, provando a partecipare
attivamente alle iniziative promosse dai membri di questa. Questi hanno infatti bisogno di
capire se il ricercatore è interessato a loro come persone o solo al progetto di ricerca che
rappresentano. Tutto ciò implica che per animare un processo di ricerca-azione è importante
essere in possesso non solo di competenze tecniche ma anche e soprattutto di capacità
relazionali che è necessario coltivare e rafforzare costantemente (88). É necessario allenare
lo sguardo e la parola per distinguere e cogliere relazioni tra soggetti e problemi suscettibili
di aperture e rielaborazioni, per introdurre sguardi inediti che siano in grado di ri-vedere e
ri-vedersi (85). E ancora, è necessario allenare la propria pazienza, costanza, flessibilità e
umiltà. I progetti di questo tipo sono caratterizzati infatti da un elevato livello di fragilità, e
può accadere che il lavoro di anni possa andare perduto nell'arco di qualche giorno per
cause che sono al di fuori del proprio controllo. Ancora, gli imprevisti sono una costante in
questo tipo di esperienze, riuscire a capire come cambiare in corsa i propri piani diventa
fondamentale per accogliere il cambiamento in atto (88). Chi si occupa di ricerca-azione ha
inoltre il compito di riflettere costantemente e criticamente sul suo livello di implicazione
all'interno della ricerca, domandarsi cioè perché vuole lavorare con la comunità e cosa si
aspetta da questa (88). É importante essere consapevoli della propria 'postura' etica
all'interno del processo di ricerca, questo perché non si può fare ciò che si vuole con e sulle
persone al fine di acquisire delle conoscenze, non si può comprimere l'altro dentro i propri
71
schemi e sottometterlo ai propri desideri.
In conclusione di questo paragrafo, al fine di far comprendere l'atteggiamento che dovrebbe
essere richiesto a chi si occupa o dovrebbe occuparsi di partecipazione comunitaria, ben si
prestano le seguenti parole di Paulo Freire:
“Non esiste dialogo però, se non esiste un amore profondo per il mondo e
per gli uomini. […] Poiché è un atto di coraggio e mai di paura, l’amore è
un impegno con gli uomini. Ovunque essi si trovino, oppressi, l’atto di
amore consiste nell’impegnarsi per la loro causa. […] In quanto atto di
coraggio, non può essere bigotto; come atto di libertà, non può essere
pretesto alla manipolazione, ma generatore di atti di libertà. All’infuori di
questo, non è amore. Se non amo il mondo, se non amo la vita, se non amo
gli uomini, non mi è possibile il dialogo. D’altra parte non c’è dialogo senza
umiltà. Dare un nome al mondo, per ricrearlo permanentemente, non può
essere un atto arrogante. […] Gli uomini che non hanno umiltà o la
perdono, non possono avvicinarsi al popolo. Non possono essergli compagni
nel dare un nome al mondo. Se qualcuno non è capace di sentirsi e di
sapersi uomo come gli atri, deve camminare ancora molto, per arrivare al
luogo di incontro con essi. In questo luogo di incontro non ci sono gli
ignoranti assoluti e nemmeno i saggi assoluti: ci sono uomini che, in
comunione, cercano di sapere di più. Non c’è dialogo neppure quando
manca una grande fede negli uomini. Fede nel loro potere di fare e rifare.
Di creare e ricreare. […] Affondando le sue radici nell’amore, nell’umiltà, e
confermando la fede negli uomini, il dialogo diventa un rapporto
orizzontale, in cui la fiducia di un polo verso l’altro è conseguenza ovvia.
[…] Se manca questa fiducia, vuol dire che sono mancate le condizioni
discusse anteriormente. Un falso amore, una falsa umiltà, una fede debole
negli uomini non possono generare fiducia. La fiducia comporta la
testimonianza delle sue reali e concrete intenzioni. Non può esistere se la
parola non coincide con gli atti. Dire una cosa e farne un’altra, non
prendendo sul serio la parola, non può essere uno stimolo alla fiducia. […]
Neppure c’è un dialogo quando non c’è speranza. La speranza si trova alla
radice stessa dell’inconclusione degli uomini, dalla quale essi partono verso
una ricerca permanente. Ricerca che non può farsi nell’isolamento, ma nella
comunione degli uni con gli altri, e perciò irrealizzabile nella situazione
72
concreta di oppressione. […] La speranza non significa però incrociare le
braccia e aspettare; mi muovo nella speranza nella misura in cui lotto, e se
lotto con speranza, spero.
Se il dialogo è l’incontro degli uomini per “essere di più”, non può farsi
senza speranza. Se i soggetti del dialogo non sperano nulla dal loro “che-
fare”, non ci può essere dialogo. Il loro incontro è vuoto e sterile. È
burocratico e noioso”.43
CASO STUDIO 1.
Costruire visioni e azioni comunitarie per migliorare la salute delle città
dell'ex-Urss
Questa attività è stata organizzata in Ucraina dall'Organizzazione Mondiale
della Sanità all'interno dell'iniziativa riguardante il progetto Healthy Cities.
Scopo di questo progetto è quello di favorire la diffusione di buone pratiche
messe in atto all'interno delle diverse città.
L'esperienza si è sviluppata in due giorni di lavoro, e il suo principale
obiettivo era quello di ragionare su come migliorare la salute dei bambini e
dei ragazzi in una città ucraina. I partecipanti della comunità coinvolti sono
stati: rappresentanti delle istituzioni locali, operatori sanitari in
rappresentanza del servizio sanitario, rappresentanti regionali della sanità
pubblica, organizzazioni non governative e rappresentanti del settore
commerciale.
All'inizio dei lavori, i partecipanti hanno evidenziato i limiti economici nei
confronti dei quali ogni progettualità si sarebbe dovuta scontrare. Tuttavia,
l'approccio interattivo con cui si sono sviluppati i lavori, ha reso le persone
più disponibili al dialogo e alla ricerca di possibili soluzioni condivise.
Nel corso del laboratorio di due giorni, i partecipanti hanno evidenziato i
seguenti ambiti di intervento: condizioni famigliari; stili di vita; strutture di
aggregazione e per il tempo libero; ambiente educativo e tutte quelle
condizioni in relazione con la salute dei bambini e dei ragazzi.
Alla fine del laboratorio, i partecipanti hanno prodotto un piano di azione per
l'implementazione degli ambiti di intervento selezionati e hanno individuato
43 Freire P. La pedagogia degli oppressi. Torino: Edizioni Gruppo Abele, 2002, cit., pp 79-82
73
le diverse responsabilità.
L'Ucraina, come tutti i paesi appartenenti all'ex-Urss, deve fronteggiare
diverse difficoltà nei processi di attuazione democratica. Tra i più importanti
ci sono: una popolazione sostanzialmente inattiva, distanza tra le istituzioni e
la cittadinanza, scarsa tradizione di cooperazione tra le diverse nazioni e
frammentarietà e mancata coordinazione tra le diverse Ong presenti sul
territorio. L'esperienza sopra descritta ha voluto rappresentare un tentativo
per affrontare questi ostacoli. Proprio per questo motivo, il principale
obiettivo del laboratorio è stato quello di far concentrare i partecipanti su
temi e azioni realizzabili (60).
CASO STUDIO 2.
Disegnare “mappe di quartiere” per costruire empowerment di
comunità: l'esperienza della Lituania e della Romania.
La costruzione della “mappa di quartiere” (parish map) ha lo scopo
principale di consentire alle persone di osservare i propri luoghi di vita con
occhi nuovi. Piuttosto che concertarsi sui limiti, le carenze e tutto ciò che
non funziona nel quartiere, questo strumento aiuta i membri della comunità a
valorizzare invece ciò che di bello hanno, come per esempio particolari
tradizioni culturali, feste locali, monumenti di interesse storico o luoghi
pittoreschi.
L'esperienza portata avanti in Romania e Lituania dall'organizzazione non
governativa (Ong) “Powerful Information” negli ultimi due anni è stata
molto positiva. Nonostante ancora non sia stata concretamente prodotta una
mappa dai gruppi di lavoro coinvolti, l'attività ha consentito alle persone di
iniziare a pensare in maniera differente: valorizzando pratiche e saperi locali.
Le attività hanno previsto esercizi in cui alle persone è stato chiesto di
pensare a tutte quelle caratteristiche che rendono il loro quartiere o la loro
città “speciale” e in che modo possano essere preservate. Per esempio, in una
esperienza svolta presso un quartiere di una città della Lituania, gli abitanti
hanno identificato una fermata dell'autobus come una delle caratteristiche
74
principali del quartiere.
Questo approccio è stato utilizzato anche per consentire alle persone di
affrontare i loro problemi, analizzarli e cercare di risolvere ciò che è alla loro
portata. Per esempio uno dei problemi affrontanti dalla Ong con questo
strumento è stato quello della disoccupazione. Questa, portando alla
mancanza di disponibilità di denaro e alla perdita del proprio status sociale
all'interno della comunità e della propria famiglia può condurre le persone
alla depressione, all'utilizzo di alcol e, in alcuni casi, al suicidio. Quando
questi problemi vengono socializzati, portati cioè all'interno della comunità,
le persone si sorprendono di quante possibili soluzioni possono essere
immaginate quando più persone si uniscono.
Nonostante questa esperienza sia solo all'inizio, risulta evidente il suo ruolo
significativo nell'aver incoraggiato le persone a riconoscere i punti di forza
del proprio quartiere, della propria comunità e a condividere i propri
problemi. Tutto ciò ha consentito di far apprezzare e riconoscere alle persone
le competenze locali della comunità. Questo aspetto è molto importante,
sopratutto nei paesi considerati, poiché in questi contesti le persone sono
abituate ad affidare i propri problemi agli esperti, sottovalutando il ruolo che
essi stessi possono svolgere (60).
CASO STUDIO 3.
Il teatro di comunità a Londra: l'esperinza del Cardboard Citizens
Theatre Group
Il Cardboard Citizens Theatre Group è una compagnia teatrale formata da
persone che sono state o sono senza fissa dimora.
La compagnia teatrale, utilizza il teatro, e nello specifico il teatro Forum
(tecnica teatrale in cui il pubblico è coinvolto direttamente nello svolgimento
della scena), per aumentare la consapevolezza circa i problemi che le
persone senza fissa dimora si trovano a dover affrontare al fine di sollecitare
opportunità di cambiamento in loro.
Uno degli spettacoli principali della compagnia è quello che narra la storia di
una ragazza sedicenne divenuta senza fissa dimora; il titolo è “A Woman of
No Importance”. Questa ragazza fa esperienza di violenza famigliare,
75
alcolismo, prostituzione e di tante altre problematiche sia sociali sia
sanitarie.
Lo scopo del teatro Forum, è quello di mettere le persone che assistono allo
spettacolo di essere messe di fronte a situazioni che hanno esse stesse
affrontato o che potrebbero affrontare. Nel teatro Forum, gli spettatori sono
anche attori e hanno la possibilità di bloccare la scena in qualunque
momento e prendere il posto di uno dei protagonisti della vicenda.
Assumendo il ruolo di uno dei personaggi della storia si può decidere di
agire in maniera diversa e modificare il corso degli eventi.
Attraverso questa attività, gli spettatori, non solo sono in grado di
riconoscersi nelle scene presentate ma anche di sviluppare una loro
comprensione critica. Attraverso il loro coinvolgimento nell'azione, gli
spettatori possono aumentare il loro livello di empowerment e portare il
cambiamento anche nelle loro vite e non solo sulla scena (60).
2.5 La valutazione della partecipazione comunitaria
In questo ultimo paragrafo verrà fornita una riflessione ampia sulla valutazione della
partecipazione comunitaria. Inizieremo riportando le ultime evidenze in letteratura
riguardanti l'impatto che gli interventi di comunità hanno sulla salute delle persone e a
questo farà seguito una riflessione critica riguardante i limiti e le criticità degli approcci
valutativi utilizzati per produrre tali evidenze. Infine, verranno descritti i principali ostacoli
relativi all'implementazione degli interventi di partecipazione comunitaria.
Attualmente, le principali evidenze riguardanti gli interventi di partecipazione comunitaria
sembrano avere un impatto positivo sulle diseguaglianze sociali ma non su quelle in salute
e sulla mortalità, morbilità e gli stili di vita. In altre parole, questi interventi sono associati
ad un miglioramento della coesione sociale e dei rapporti di vicinato (soprattutto nelle fasce
di popolazione più svantaggiate) ma il loro legame con gli esiti in salute è difficile da
identificare e valutare. É possibile quindi ipotizzare che l'effetto positivo sulle
diseguaglianze sociali abbia delle conseguenze su quelle in salute, tuttavia le evidenze in
possesso non lo dimostrano ancora con chiarezza (89; 90).
Accanto a queste evidenze positive, ce ne sono altre che sembrano indicare un effetto
negativo degli interventi di partecipazione comunitaria sulle persone. Tra le possibili
76
conseguenze negative vi sono stanchezza e frustrazione nelle persone che vengono
coinvolte in diversi processi di partecipazione (91). Infine, nonostante molti progetti
vengano definiti di 'partecipazione comunitaria' sono caratterizzati da bassi livelli di
coinvolgimento dei partecipanti e hanno un approccio prevalentemente di tipo top-down
(90).
Nel 2015 è stata pubblicata una meta-analisi sul tema (89), dalla quale emerge che gli
interventi di partecipazione comunitaria hanno un impatto positivo principalmente su:
• stili di vita: abuso di alcol e droghe; allattamento al seno; corretta alimentazione;
attività fisica; cessazione dal fumo di tabacco, etc...;
• conseguenze in salute: patologie cardiovascolari; ipertensione; obesità, etc...;
• auto-efficacia rispetto al cambiamento degli stili di vita
• percezione del supporto sociale.
Sebbene lo studio abbia cercato di valutare l'impatto che i diversi approcci di
partecipazione comunitaria hanno sui risultati in salute, non sono emerse differenze
statisticamente significative. E, differentemente da quanto sostenuto fino ad ora, i risultati
dimostrano, anche se non in maniera statisticamente significativa, che l'approccio definito
target-oriented sia più efficace rispetto a quello empowered. Questa tendenza, stando a
quanto riportato dallo studio, sembra essere legata al fatto che gli interventi target-oriented
sembrano avere un grande impatto su outcome di salute specifici, mentre quelli di tipo
empowered hanno un impatto minore ma su un range maggiore di outcome sociali e di
salute (89).
Questi risultati si prestano ad una lettura critica che cerca di porre attenzione soprattutto
sulle modalità attraverso cui viene valutato il successo degli interventi di partecipazione
comunitaria, e nello specifico quelli di tipo empowered. Ciò che sembra essere dirimente è
capire che cosa si intende per 'successo' di un intervento e in che modo questo viene
misurato. Molto spesso infatti, quando un intervento viene valutato come fallimentare, c'è
da chiedersi se in realtà a fallire non sia stata la valutazione piuttosto che il progetto (92).
Nella maggior parte dei casi, compreso anche lo studio sopra considerato, gli interventi di
Sanità pubblica rivolti alla comunità vengono valutati prendendo in considerazione obiettivi
a breve termine riguardanti soprattutto cambiamenti negli stili di vita a livello individuale.
Non solo, i parametri di efficacia sono fissati principalmente dai professionisti anche in
quegli interventi in cui la comunità ha avuto un ruolo fondamentale nella loro
implementazione. Tutto ciò conduce a non considerare tutti quei fattori che agiscono su un
periodo di tempo più lungo e che non possono essere misurati sul singolo individuo ma
77
necessariamente nella comunità (92).
A tal proposito, ciò che sembra essere necessario è un cambio di paradigma nella modalità
di concepire la valutazione degli interventi di comunità. Da un approccio di tipo
riduzionista volto a valutare soprattutto l'impatto che un determinato intervento ha sulla
comunità, bisogna passare ad uno di tipo ecologico o sistemico in grado di guardare alla
relazione che si instaura tra l'intervento stesso e la comunità. Ciò vuol dire iniziare a
riconoscere la comunità come parte del servizio sanitario e pertanto considerare come
questa sia in grado di ridurre le barriere di accesso ai servizi e mettere le persone in
connessione tra di loro, cioè considerarla come un fattore in grado di incidere sia sui
determinanti di salute in generale sia sull'accesso ai servizi in particolare (92).
L’approccio di tipo biomedico o sperimentale con il quale vengono comunemente prodotte
le evidenze in Sanità pubblica non è quindi sufficiente per valutare l’efficacia degli
interventi condotti in comunità. Con ciò non si vuole mettere in discussione la sua validità
metodologica in assoluto, ma solo relativamente al contesto preso in esame (92).
Il metodo sperimentale, fondandosi su di un principio di causalità, necessita di conoscere i
meccanismi alla base della relazione tra causa esterna (es. farmaco) e risultato atteso (es.
effetto sull'organismo); rendere neutri, e quindi confrontabili, i campi d’osservazione e
tenere sotto controllo i cambiamenti. La sua attenzione è tutta rivolta a capire l'effetto
specifico che produce una determinata causa e non la qualità dell’interazione che produce
con il suo bersaglio. Per quanto riguarda invece gli interventi di tipo sociale non è possibile
né rendere il contesto neutro né controllare tutte le variabili in campo. Durante gli interventi
di comunità possono svilupparsi delle azioni che i soggetti compiono in maniera del tutto
indipendente e che produrranno degli effetti non prevedibili. Inoltre, anche se un intervento
viene costruito utilizzando le teorie considerate più valide scientificamente, non è possibile
conoscere fino in fondo in che modo questo agirà sulle persone e sui contesti, poiché il suo
meccanismo di azione - differentemente da quello di una molecola - non è noto. Non solo,
il contesto sociale è un sistema aperto dove, con il procedere degli interventi, i cambiamenti
non solo non potranno essere tenuti sotto controllo ma dovranno, al contrario, essere accolti
e descritti proprio allo scopo di studiare le interazioni che si producono tra la comunità e le
idee e le risorse che dal programma sono state introdotte (6). É infatti da queste interazioni
che possono prendere avvio ulteriori iniziative, che a loro volta generano cambiamenti nel
contesto e che andranno poi a influire sulla comunità (6; 92). Tutto ciò implica che quello
che si osserva durante l’attuazione dell’intervento non può mai essere considerato come
osservato una volta per tutte. Questo richiede di accettare che in ogni situazione il legame
78
tra un input (il programma) e un risultato può essere ottenuto attraverso strade diverse, e
quindi anche non ottenuto, in relazione al modo in cui gli attori reagiscono al programma e
a come lo interpretano. Bisogna prestare attenzione al processo di incontro tra il programma
d’intervento, i diversi gruppi di persone e i differenti contesti, per cercare di identificare i
meccanismi che tra questi elementi si vengono a creare. L’obiettivo non sarà più quindi
quello di confermare, una volta per tutte, l’efficacia di una determinata azione nel produrre
l’atteso risultato, attraverso un definito meccanismo, ma ci si dovrà invece sforzare di
capire perché, con un determinato gruppo di persone e in un determinato contesto, in
presenza di quell’input si sia ottenuto un certo risultato (6).
A tal fine è utile coinvolgere i partecipanti dell'intervento nel processo di valutazione stesso
per discutere insieme se e perché in quella specifica situazione un determinato risultato può
essere considerato un successo e quindi di decidere cosa sta funzionando o meno,
proponendo le modifiche da attuare (6; 92). Secondo questo modo di intendere la
valutazione, questa non può più essere considerata allora solo il frutto di certezze
scientificamente, quanto piuttosto il prodotto di una negoziazione. Essa diviene lo
strumento sia per comprendere la situazione e definire i problemi, attraverso
l’interpretazione che ne danno i diversi attori sociali, sia per chiarire ciò che dal programma
si può ottenere (6).
Di seguito sono elencati i principi fondamentali su cui si basa questo nuovo approccio
valutativo (92):
1. Considerare la comunità come parte integrante del servizio sanitario. Ciò vuol dire
che gli interventi di comunità devono essere valutati in base alla loro capacità di
rendere più equo il servizio sanitario e di aumentare il livello di controllo che le
persone hanno sulla loro vita. A tal fine è necessario passare da un approccio
valutativo lineare (che mette in relazione causale l'intervento con eventuali risultati
in salute o cambiamenti negli stili di vita) ad uno che cerca di comprendere in che
modo il contributo della comunità ha agito sui determinanti di salute e sullo
sviluppo stesso dell'intervento;
2. coinvolgere la comunità nel processo di identificazione degli obiettivi di salute da
raggiungere e nella valutazione dei risultati. Il processo di valutazione deve
includere al suo interno misure di efficacia proposte dalla comunità stessa. Ciò
richiede l'utilizzo di metodologie di progettazione partecipate;
3. rinunciare a governare la complessità. Proprio perché gli interventi di
79
partecipazione comunitaria sono complessi e dinamici, la valutazione non dovrebbe
tentare di controllare la complessità del sistema all'interno di parametri troppo
rigidi seguendo un'impostazione di tipo classico;
4. essere pronti a misurare anche effetti non previsti in anticipo. Negli interventi di
partecipazione comunitaria, i partecipanti possono dare vita ad azioni sociali del
tutto indipendenti e non previste dal progetto, per tale motivo è necessario essere in
possesso di strumenti valutativi flessibili e adattabili al contesto;
5. descrivere e spiegare accuratamente le caratteristiche della partecipazione. É
necessario cioè capire chi sta partecipando, in quali attività, per quale scopo e con
quale intensità;
6. attribuire agli indicatori sociali lo stesso peso di quelli individuali di salute nel caso
in cui vengano utilizzati metodi quantitativi. Nello specifico, è utile utilizzare
quegli indicatori in grado di evidenziare il ruolo salutogenico di alcuni fattori,
come per esempio la resilienza o la coesione sociale;
7. chiarire lo scopo della valutazione in base alle esigenze dei diversi attori coinvolti
nell'intervento: decisori politici; operatori; membri della comunità;
8. sostenere economicamente l'intero processo valutativo e non solo quello volto a
definire l'impatto in salute sulle singole persone.
Le difficoltà riguardanti la valutazione dei progetti di partecipazione comunitaria sono
sicuramente tra i principali ostacoli relativi alla loro implementazione. Oltre alla
valutazione, un'altra difficoltà è rappresentata dalle caratteristiche proprie della comunità.
Riuscire a capire come entrare in contatto con essa e soprattutto con 'chi', sono i primi
problemi che si presentano durante la fase di implementazione. Capire chi possa essere
coinvolto e se sia rappresentativo della comunità di appartenenza è una difficoltà che
appartiene alla stessa natura eterogenea della comunità. Il rischio è quello di privilegiare dei
gruppi minoritari piuttosto che altri con il risultato di aggravare alcune asimmetrie di potere
anziché ridurle. Allo stesso tempo, nonostante gli interventi di comunità abbiano come
principale obiettivo proprio quello di coinvolgere i gruppo più svantaggiati, sono proprio
questi quelli più difficili da coinvolgere. Infatti, le persone che si trovano in condizioni di
svantaggio sociale tendono a partecipare di meno e a delegare con più facilità le decisioni ai
professionisti. In generale è comunque difficile trovare persone che siano disposte a
partecipare a questi progetti poiché richiedono un cospicuo dispendio di tempo ed energie
(50).
80
Una volta superate queste difficoltà, il tempo di cui necessitano questi interventi per
produrre i primi risultati è come minimo di cinque anni. Un intervallo temporale troppo
lungo rispetto ai programmi caratterizzati da un approccio prevalentemente di tipo
biomedico. E questo è il motivo principale per cui non vengono sufficientemente finanziati
(93).
Infine, vi è un livello di difficoltà di carattere culturale. Attualmente ci troviamo ancora
all'interno del paradigma biomedico, questo ha ancora una profonda influenza sul modo in
cui le strutture sociali e politiche pensano alla salute della comunità. Anche la formazione
degli operatori della salute è basata su questo modello e non è ancora in grado di fornire
alla comunità professionisti in grado di prendersene cura. I cambiamenti sociali hanno
bisogno di tempo per svilupparsi e quello relativo allo sviluppo di approcci basati sulla
partecipazione comunitaria è iniziato relativamente da poco tempo (poco più di
quarant'anni) (93). Di conseguenza, come ci insegna l'approccio della ricerca-azione
occorre essere pazienti, flessibili e aperti alle opportunità che inaspettate sorgeranno
dall'azione.
81
CAPITOLO IIIL'ESPERIENZA DELLA CURA COMUNITARIA IN UN'OCCUPAZIONE
ABITATIVA
In quest'ultimo capitolo verrà presentata un'esperienza concreta di partecipazione
comunitaria che si è svolta presso un'occupazione abitativa della città di Roma. Il metodo di
partecipazione utilizzato prende il nome di Terapia Comunitaria Sistemico Integrata (TCI);
per evitare possibili fraintendimenti che il termine 'terapia' avrebbe potuto generare si è
deciso di sostituirlo con 'cura comunitaria'.
Nella parte introduttiva verrà fornita una descrizione della storia e dei principi generali
della TCI; a questo farà seguito la presentazione del contesto di intervento. Nella parte
relativa alle metodologie di ricerca, oltre a elencare e descrivere le diverse fasi in cui si
sviluppa un incontro di TCI, verranno anche illustrati i principali strumenti utilizzati per la
valutazione di processo. Infine, partendo dalla riflessione sui risultati quali-quantitativi
dell'esperienza, si cercheranno di tracciare delle conclusioni, benché ancora del tutto
parziali e incomplete.
3.1 Introduzione
“Sono qui per curare la mia malattia. Sono qui per curare la mia
alienazione universitaria. Sono qui per curarmi dall'idea che, come medico,
io debba conoscere tutto. Non sono venuto a risolvere i vostri problemi,
sono venuto a risolvere il mio. Solo che, per risolvere il mio, ho bisogno di
voi. É importante che ognuno venga a risolvere il proprio problema e che
scopra che la maniera migliore è creare delle relazioni all'interno della
comunità”44.
Questo è quello che Adalberto Barreto, fondatore della TCI, ha affermato di aver detto
durante l'incontro che di fatto diede vita alla nascita della terapia comunitaria. Erano circa
gli anni '80 del secolo scorso e Barreto si trovava nella favela di Fortaleza, Brasile. Era
stato chiamato da un'associazione di volontariato per i Diritti Umani per cercare di
rispondere alle richieste di assistenza sanitaria, soprattutto di tipo psichiatrico, manifestate
da alcuni abitanti della zona. Quando chiese loro cosa volessero, questi dissero che avevano
bisogno di medicine per il loro dolore e lui rispose pronunciando quelle parole (94).
44 Barreto A, Grandesso M. Community therapy: a participatory response to psychic misery. The International Journal of Narrative Therapy and Community Work 2010, 4, cit., p 34
82
Come medico, durante i suoi studi, aveva acquisito un sapere tecnico che gli permetteva di
fare diagnosi e prescrivere farmaci, tuttavia, in quella situazione specifica si rese conto che
questo sapere da solo non bastava. Infatti, dopo aver prescritto un farmaco per l'insonnia ad
una signora, questa le disse che non aveva abbastanza soldi per poterlo comprare. Fu allora
che comprese in cosa consisteva la sua alienazione universitaria e che per curare se stesso e
prendersi cura della sofferenza delle persone doveva cambiare l'approccio con cui era stato
formato. Affermare che anche lui era lì per guarire, faceva parte di questo cambio di
paradigma. L'atteggiamento consueto degli operatori sanitari (e non solo) quando prestano
aiuto a persone che vivono in condizioni di marginalità sociale è quello definito come
“salvatore dell'umanità”. Si ha la percezione di avere tutte le soluzioni tecniche per ogni
problema portato dalle persone. Questo atteggiamento, se da un lato conforta i
professionisti rispetto al loro sapere e ruolo professionale, dall'altro non tiene in nessuna
considerazione le risorse e i saperi di cui gli altri dispongono. Il modello “salvatore
dell'umanità” (che potremmo associare agli approcci definiti top-down nel capitolo
precedente) -l'approccio tecnico- è caratterizzato da una “passione morbosa” per il
negativo, per ciò che non funziona, per la patologia, l'errore, la mancanza, la carenza, il
peccato. Ciò genera nella persona un sentimento di insicurezza e di colpa che la spinge a
cercare un dottore, un salvatore appunto, per liberarsi dalla sua sofferenza. In questo modo,
i soggetti sviluppano dipendenza nei confronti dei professionisti e dei servizi in cui questi
lavorano, e ciò contribuisce ulteriormente ad idealizzare la figura dell'operatore e ad
alimentare la dinamica “salvatore/assistito” (95).
Il cambio di paradigma proposto dalla TCI si inserisce all'interno delle riflessioni già fatte
sulla partecipazione comunitaria. Questo valorizza le competenze e le risorse di ogni
singola persona e non le sue debolezze e carenze; promuove la circolarità dell'informazione
e dei saperi e non la loro concentrazione in un solo individuo (l'esperto, il professionista);
suscita la corresponsabilità e non la dipendenza; fa emergere le soluzioni dalla comunità e
non le impone dall'esterno. In questo modo le persone imparano a riconoscere le proprie e
altrui risorse e competenze, si sentono corresponsabili rispetto ai problemi affrontati e alle
soluzioni immaginate e ciascuno cerca di cambiare se stesso piuttosto che l'altro nella
convinzione che se si cambia anche l'altro cambia (95).
Questo approccio richiede ai professionisti di uscire quindi dalla loro zona di comfort e,
senza pretendere di rinunciare al loro sapere tecnico, li stimola tuttavia a metterlo a
confronto con la realtà, mettendosi in gioco come persone (95).
83
La TCI si propone di (94):
• promuovere il passaggio dalla dipendenza all'autonomia;
• passare da una concezione in cui è solo il professionista a detenere le informazioni
e i saperi necessari alla cura, ad una che cerca di creare dei contesti, degli spazi
sociali, in cui i saperi relativi alla cura possano essere condivisi tra le persone;
• valorizzare i saperi tradizionali delle culture di appartenenza delle persone e non
'colonizzarli' e dominarli con quello della biomedicina;
• sviluppare un approccio capace di raggiungere e coinvolgere molte persone;
• concepire le azioni di cura e prevenzione della sofferenza sociale come dei compiti
di cittadinanza e non di esclusiva competenza tecnica. Il paradigma biomedico
affronta la sofferenza sociale medicalizzandola e confinandola all'interno di uno
spazio terapeutico privato. La TCI riporta la sofferenza sociale laddove si origina,
cioè all'interno della società;
• generare processi sociali partecipativi per rispondere alla sofferenza, in cui le
persone possono appropriarsi della loro vita e sviluppare relazioni sociali solidali;
• promuovere il riconoscimento e l'integrazione tra il sapere tecnico e quello
popolare. Il tentativo è quello di non vederli come mutualmente esclusivi ma
interdipendenti;
• superare l'approccio professionistico. Per facilitare un incontro di TCI non è
necessario essere un professionista o avere una specifica formazione universitaria;
l'incontro può essere gestito semplicemente da cittadini senza particolari
competenze professionali.
Accanto a questi propositi, ci sono alcune parole chiave della TCI che è utile approfondire
(95). La prima parola è 'dipendenza'. La necessità di superare la dipendenza imposta dal
modello biomedico ci impone di introdurre una distinzione tra il concetto di 'precarietà
sana' e 'precarietà negativa'. Ogni essere umano nasce incompleto e ha bisogno dell’altro
per vivere: questa mancanza è una precarietà sana. È questo il motore che ci spinge verso
gli altri e ci porta a creare vincoli. In questo senso, siamo dipendenti perché abbiamo
bisogno dell’altro per vivere. È importante accogliere l’altro con affetto, rispettare la sua
singolarità, riconoscerlo nella propria differenza e appoggiarlo nella sua azione,
valorizzandolo per quello che è, e non per quello che fa o non fa. Questa precarietà sana è
stata trasformata in precarietà negativa con i miti di autonomia, indipendenza, competizione
e successo imposti dall'ideologia capitalista alle persone. Da una parte abbiamo la
84
precarietà sana, dall’altra l’individualismo assoluto che genera la precarietà negativa.
L’eccesso di competitività del capitalismo e la sua avidità, riducendo l'altro a oggetto di
esplorazione, esclusione e sfruttamento, toccano direttamente l’individuo e i gruppi sociali,
causando molta sofferenza. L'approccio biomedico, concentrando il sapere relativo alla cura
esclusivamente nelle mani dei professionisti, contribuisce ad alimentare la precarietà
negativa, o dipendenza, delle persone (per un maggiore approfondimento si veda l'ultimo
paragrafo capitolo 1). La terapia comunitaria, rovescia il concetto di dipendenza dando
valore alla precarietà sana e cerca di creare vincoli di solidarietà attraverso la condivisione
delle risorse che ciascuno possiede. E così si scopre che uno è ricco di ciò di cui un altro è
povero.
Fiducia, legami e relazioni di cura, sono altre tre parole della TCI direttamente connesse a
quella di dipendenza. La fiducia in se stessi è tra le risorse più importanti su cui una
persona può contare; quando una persona perde la fiducia in se stessa perde anche quella
negli altri. La TCI si basa infatti sul presupposto teorico che è la nostra percezione del
mondo a definire il nostro comportamento e a generare i nostri atteggiamenti e
comportamenti. Se non mi fido delle mie risorse, della mia capacità di affrontare il mondo,
percepirò questo e le persone che ne fanno parte come minacciose. Con la valorizzazione
delle competenze e delle risorse personali utilizzate per affrontare i problemi della vita
quotidiana, la TCI aiuta le persone a diventare consapevoli del potere di cui dispongono e
che sono già riuscite ad utilizzare, aumentando così la fiducia in se stesse e negli altri. Ciò
che viene sistematicamente ignorato dalle forme di produzione di sapere egemoni è che
ogni volta che una persona supera un problema costruisce un sapere. La TCI valorizza
questo sapere che altrimenti il soggetto sarebbe portato a svilire o sottovalutare.
Parlare delle difficoltà quotidiane della propria vita e di come si riesce ad affrontarle
permette agli altri di riconoscersi nella nostra vulnerabilità ma anche nel nostro potenziale.
Si costruiscono così legami significativi che danno vita ad una rete di solidarietà e
corresponsabilità (capitale/coesione sociale). Emerge un 'noi' collettivo più umanizzato,
costituito da più 'io' coscienti (empowerment di comunità e individuale). Stimolare la
condivisione delle esperienze tra le persone diminuisce la distanza tra loro e crea un
ambiente salutare e solidale. In questo modo si vengono a creare delle relazioni di cura
all'interno del gruppo e non tra un paziente e un professionista.
Altre due parole: la TCI è uno 'spazio di ascolto' dove le persone possono condividere la
propria vita attraverso la 'parola'. La terapia comunitaria si preoccupa soprattutto di creare
un contesto (la cui etimologia viene dal verbo latino “con-texere”che significa 'tessere
85
insieme', 'intrecciare' e si presta anche ad una sillabazione significativa come 'con-te-sto')
all'interno del quale le persone sono libere di costruire legami. Questo contesto più che la
forma di un gruppo, prende la forma di uno spazio sociale. A differenza di un gruppo, che
generalmente può coinvolgere solo alcune persone, la TCI rappresenta uno spazio sociale,
uno spazio comunitario, dove ognuno è libero di entrare e uscire quando vuole. Questo
vuole essere uno spazio accogliente, caloroso, partecipativo, democratico, di costruzione
collettiva e protetto da regole che lasciano libere le persone. Uno spazio dove si
condividono le proprie esperienze di vita e il dolore, dove si socializza il sapere, si rivedono
le proprie certezze e si costruiscono legami. In questo spazio, lo strumento utilizzato è
soprattutto la 'parola'. La parola rende visibile la sofferenza e permette di ricevere il
sostegno della comunità. Permette di dare nuovo significato al dolore e alla sofferenza
attraverso la loro condivisione. Le parole dell'altro, risuonando in noi, ci permettono di
mettere in discussione i nostri schemi mentali, i nostri valori e la nostra visione del mondo.
Inoltre, la parola, attraverso la risonanza emotiva, crea un movimento solidale che favorisce
l'emergere di legami di amicizia che possono ampliarsi all'interno della comunità.
Alla luce di quanto fino ad ora detto potremmo definire la TCI come uno spazio sociale
all'interno del quale le sofferenze del quotidiano possono essere accolte, condivise e
affrontate a partire dalla condivisione delle esperienze di vita di altre persone. Non è una
psicoterapia di gruppo, ma uno strumento grazie al quale si possono scambiare
informazioni ed emozioni e creare una rete sociale di supporto. Costruendo reti di
solidarietà e di inclusione sociale, mobilitando le risorse locali e le competenze culturali
degli individui, delle famiglie e delle comunità, si rafforzano i legami tra le persone nel
rispetto delle specificità di ognuna e ognuno e si scoprono opportunità di integrazione, si
impara a pensare insieme e cresce così il repertorio di possibilità personali e comunitarie
per affrontare il presente e il futuro.
Dopo aver passato in rassegna 'propositi' e 'parole chiave' della terapia comunitaria,
approfondiamo quelli che sono i suoi principali valori di riferimento (95). Questi sono:
• accoglienza: accogliersi esattamente come si è. Essere aperti alle differenze, ai
valori tradizionali, moderni e familiari. Accogliere la propria storia, le proprie
emozioni, la sofferenza come materia prima per crescere . Accogliere l'imprevisto,
l'inatteso, le emozioni positive e negative. È necessaria una presenza amichevole,
calorosa, autentica, conviviale, sorridente, semplice e disponibile;
• semplicità di linguaggio e di postura: la complicazione è uno strumento di potere
che usano i professionisti per consolidare la loro reputazione. La semplicità ci
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permette di abbandonare il potere 'sugli' altri (power-over) per poter essere 'con' gli
altri (power-with). La semplicità è il ritorno all'essenziale, rimuovendo ciò che è
superfluo. Partire dalla propria esperienza di vita e non dalla teoria; teorizzare poco
e sempre a partire dall'esperienza pratica. Nella formazione in TCI, l'apprendimento
non consiste nell'aggiungere delle conoscenze e della complessità, ma al contrario a
ripulire e a mettersi a nudo. Condividere ciò che si vive piuttosto che infliggere ciò
che sappiamo;
• circolarità/orizzontalità: l'esperienza di ogni persona è importante. Non c'è un
sapere superiore all'altro ma solo un sapere da condividere, nessuno che sa, nessuno
che impara, ma solo un sapere collettivo. L'orizzontalità è una questione di umiltà.
Significa essere cosciente delle proprie competenze e dei propri limiti, accettarli ed
accettare le competenze degli altri come complementari;
• valorizzare le cose provate/sentite: le cose provate, le emozioni, sono il punto di
partenza per la costruzione delle identificazioni che andranno a costruire la rete di
supporto sociale. Integrazione di teoria, pratica e corpo. Il corpo è uno strumento di
comprensione verso la riflessione per andare alla scoperta di se stessi attraverso i
cinque sensi. Si tratta di identificare la sensazione e vivere il corpo. Il corpo è un
mezzo che permette di vivere le proprie emozioni, di sentire nei diversi organi e
parti le sensazioni che viviamo;
• audacia/osare: permettere di scoprirsi, di mostrare le proprie emozioni e consentire
all'altro di fare altrettanto. Per raggiungere questo scopo occorre superare la
vergogna, la colpa, la paura di essere giudicati. Occorre osare essere se stessi. Darsi
il diritto e la possibilità di creare, di disobbedire, di trasgredire positivamente, e di
fare appello al proprio ingegno;
• generare dubbi nelle certezze: ogni convinzione è una prigione perché ci impedisce
di creare alternative, novità. A tal fine è necessario saper porre domande in grado di
suscitare dubbi attraverso i quali introdurre opzioni diverse di guardare la realtà;
• vedere l'altro come una risorsa, con umiltà: accogliere le differenze come dei regali,
come uno specchio che suscita le risonanze che favoriscono la conoscenza di se
stessi. Imparare con piacere le cose dagli altri e lasciarsi spingere dalle cose
inattese. Restare aperti alla meraviglia. L’incontro con l’altro è un viaggio alla
scoperta di un continente sconosciuto. L’altro per la sua singolarità e per le sue
differenze è un fattore di cambiamento, di evoluzione;
• accettare l'imprevisto: il lavoro comunitario è basato sull'imprevisto.
87
L'imprevedibilità richiede flessibilità e una grande capacità di adattamento alle
circostanze. Dobbiamo essere al servizio della dinamica e del processo e non il
contrario. Attenzione tuttavia a non confondere l'imprevedibilità con la
disorganizzazione;
• umorismo con amore e rispetto: è una risorsa indispensabile poiché stimola a
riflettere e permette di dare un nuovo significato agli avvenimenti.
I principali approcci teorici cui la TCI si ispira sono: la teoria generale dei sistemi; la teoria
della comunicazione umana; l'antropologia culturale; l'educazione popolare di Paulo Freire
e la resilienza (96; 97; 98).
Attraverso la teoria generale dei sistemi la TCI considera la comunità come un 'sistema
aperto' le cui parti che lo compongono sono in rapporto di interdipendenza tra loro. Ciò
implica che il sistema più che dalla semplice somma delle parti sarà caratterizzato dal modo
in cui queste si organizzano e interagiscono tra loro. Quanto detto per la comunità, vale
anche per la singola persona. Le persone sono quindi sistemi complessi all'interno di
sistemi sociali complessi. Questo vuol dire che sia i problemi che le loro possibili soluzioni
devono essere considerate all'interno del contesto nel quale si originano (99; 100).
La teoria della comunicazione umana (o pragmatica della comunicazione umana) afferma
che di fatto è impossibile non comunicare. Ogni comportamento umano può essere
interpretato come un segnale comunicativo; quindi noi non comunichiamo soltanto con le
parole ma anche con le nostre azioni. Questa teoria introduce i concetti di 'retroazione' e
'equifinalità'. Il primo termine afferma che per comprendere i fenomeni comunicativi
interpersonali non è possibile affidarsi al modello di spiegazione causale unilineare. Questo
perché la comunicazione tra persone ha una caratteristica circolare, in altre parole il
comportamento di una persona influenza ed è influenzato dal comportamento di ogni altro
individuo. Per equifinalità si intende che i risultati non dipendono tanto dalle condizioni
iniziali ma dalla natura del processo e dai parametri del sistema. Quindi, così come a partire
da condizioni iniziali diverse è possibile ottenere lo stesso risultato, anche risultati diversi
possono prodursi a partire dalle stesse condizioni iniziali (101).
L'antropologia culturale permette di considerare la visione del mondo che ogni persona
possiede come una risorsa. Non solo, visto che la cultura è concepita anche come qualcosa
che l'essere umano produce e non solo come qualcosa che passivamente possiede,
attraverso lo scambio di esperienze e punti di vista diversi è possibile dare avvio a processi
di costruzione collettiva della cultura che trascende le diversità di partenza per creare
88
qualcosa di nuovo, di inedito (4).
Dalla pedagogia popolare la TCI mutua la possibilità di costruire collettivamente il sapere a
partire dalle esperienze di vita. Questo modo di intendere la pedagogia si contrappone agli
approcci formativi di tipo 'depositario', che prevedono cioè la trasmissione unilaterale del
sapere. In questo caso la distribuzione del sapere è circolare, collettiva e non gerarchica, nel
senso che non c'è un sapere che viene considerato migliore di un altro. Inoltre, il sapere che
si genera è un sapere che libera, che può essere utilizzato per trasformare la situazione nella
quale ci si trova (83).
Infine, il concetto di resilienza fa riferimento alla capacità che gli individui hanno di
generare risorse a partire dalle proprie sofferenze. Ogni individuo ha la capacita di far
fronte alle proprie difficoltà e di riorganizzare positivamente la propria vita. Rendere
consapevoli le persone di questa loro capacità e delle risorse e competenze che hanno
acquisito è uno dei principali obiettivi della terapia comunitaria (102).
Dalla sua origine nel 1985, solo nel 2008 la terapia comunitaria è diventata a tutti gli effetti
uno strumento di primary health care del servizio sanitario brasiliano. Da ricerche
effettuate in 12 stati del Brasile è emerso che le tematiche riportate con maggiore frequenza
durante gli incontri di TCI sono: stress; problemi familiari; droga; alcol; problemi di lavoro;
depressione; violenza e conflitti. Uno degli aspetti più sorprendenti dei dati fino ad ora
raccolti è che l'89% dei problemi portati dalle persone sono stati affrontati con successo con
la TCI, mentre prima ci si rivolgeva a dei servizi specialistici. Questi dati testimoniano
come la terapia comunitaria riduca la medicalizzazione della sofferenza e aiuti le persone a
trovare le proprie soluzioni all'interno della comunità. Inoltre, questo ha rappresentato
anche un vantaggio per i servizi sanitari che hanno visto ridurre la richiesta di assistenza
per problemi che non avrebbero potuto affrontare. Ad oggi in Brasile ci sono 30 centri di
formazione di terapia comunitaria; 11.500 terapisti di comunità e circa 8 milioni di persone
che partecipano agli incontri. I contesti in cui la TCI viene applicata sono diversi e possono
essere: servizi sanitari; scuole; chiese; luoghi pubblici di aggregazione. Non solo, la TCI sta
venendo utilizzata anche nei percorsi di formazione per infermieri con buoni risultati
rispetto alla loro maggiore capacità di prendersi cura di se stessi e dei pazienti (96; 97).
89
3.2 Il contesto di intervento
Gli incontri di cura comunitaria si sono svolti presso un palazzo occupato della città di
Roma, in via di Santa Croce in Gerusalemme. L'edificio si trova all'interno del Municipio I
del Comune di Roma che comprende il centro storico della città. I confini del Municipio
sono delimitati dalle Mura Aureliane e in esso sono contenuti la maggior parte dei
monumenti, delle aree archeologiche e degli spazi culturali ed espositivi del Comune. Per
tale ragione, in questa zona della città si sono sviluppate numerose attività caratterizzate da
una forte vocazione turistica. Inoltre è qui che si concentra la maggior parte delle sedi
istituzionali legate alla vita politica e amministrativa della città e del Paese.
La popolazione ufficialmente presente su questo territorio è pari al 4,34% (112.611)
dell'intera popolazione del Comune; a questa si aggiungono 3.230 persone (2,6% della
popolazione del Municipio) di cui non è possibile conoscere la residenza. Molte di queste
sono soprattutto persone senza fissa dimora, rifugiati e stranieri senza permesso di
soggiorno.
La popolazione residente è costituita prevalentemente da famiglie mononucleari (spesso
persone anziane) e famiglie senza figli, mentre quelle con uno o più figli sono la
minoranza.
Secondo i dati in possesso del Comune, i due principali problemi riscontrati dai cittadini
che si rivolgono ai servizi sociali del territorio sono rappresentati dalla situazione abitativa
(valutata in termini di per niente o poco soddisfacente dal 72,5% degli intervistati) e dalla
condizione di solitudine e isolamento (riscontrata nel 70% dei casi). Anche la condizione di
povertà e i problemi di salute sono riportati tra i bisogni più urgenti da risolvere (103).
Questo è il contesto cittadino all'interno del quale si trova l'edificio in cui ha preso vita
l'esperienza della cura comunitaria. Per meglio comprendere la posizione geografica del
palazzo può essere utile fornire alcuni punti di riferimento. Questo dista poco meno di due
chilometri dal Colosseo, dalla Basilica di San Giovanni in Laterano, dalla Stazione Termini
e dalla Sapienza Università di Roma; e poco più di tre chilometri dal Campidoglio (sede del
Comune di Roma), da Palazzo Madama (sede del Senato della Repubblica) e da Palazzo
Montecitorio (sede della Camera dei deputati).
L'edificio ospitava la direzione generale dell'Inpdap (Istituto nazionale di previdenza e
assistenza per i dipendenti dell'amministrazione pubblica); con la soppressione dell'Istituto,
avvenuta nel 2011, il palazzo è rimasto in stato di abbandono fino alla sua occupazione
nell'ottobre del 2013.
90
Questo, insieme a tutti gli altri immobili dell'Inpdap, è stato messo in vendita dallo Stato
italiano attraverso un'operazione definita di cartolarizzazione. Con tale termine si fa
riferimento alla cessione di beni, attività o immobili a terzi attraverso l'emissione di titoli
obbligazionari. I beni vengono ceduti dallo stato a società-veicolo che si occupano di
emettere i titoli obbligazionari. Questi ultimi, una volta messi sul mercato finanziario,
possono essere acquistati. La liquidità economica ottenuta con questa operazione, non
rientrando nel vincolo del patto di stabilità (PSC), non deve essere dichiarata nel bilancio
dello stato e quindi può essere utilizzata immediatamente.
Nel caso specifico, la società-veicolo prende il nome di “Fondo immobili pubblici” (Fip),
ed è gestita da Gianpietro Nattino, presidente della Banca Finnat Euroamerica Spa. Una
volta messo sul mercato l'equivalente di 370 immobili pubblici, la Blackstone group
(società finanziaria statunitense) li ha acquistati tutti tranne tre. Tra gli immobili, per il
momento invenduti, c'è anche lo stabile occupato di via Santa Croce in Gerusalemme.
L'occupazione dell'edificio è stata compiuta da Action (Agenzia comunitaria per la casa),
un'organizzazione che si occupa del diritto all'abitare, nata tra il 1998 e il 1999. Action
persegue il diritto all'abitare soprattutto attraverso due principali attività rappresentate
dall'Agenzia per il diritto all'abitare e dagli sportelli autogestiti. Il lavoro compiuto
dall'Agenzia per il diritto all'abitare si svolge nel territorio della città in vari municipi del
comune di Roma. Ad essa si rivolgono tutte quelle persone in condizioni di emergenza
abitativa che per esempio o sono poste sotto sfratto o non riescono a pagare il mutuo della
casa. L'attività degli sportelli autogestiti integra quanto non è possibile fare attraverso
l'attività istituzionale dell'Agenzia per il diritto all'abitare. Questi organizzano le
occupazioni degli edifici abitativi e la distribuzione delle persone al loro interno.
Le occupazioni messe in atto da Action, oltre che per cercare di rispondere alle esigenze
delle persone senza un alloggio, hanno come altro obiettivo quello di mettere in luce quei
meccanismi di privatizzazione del patrimonio pubblico messi in atto dal capitalismo
finanziario con la complicità delle istituzioni e del potere politico.
L'occupazione dell'ex-edificio dell'Inpdap è avvenuta all'interno di un'operazione messa in
atto da Action e altri movimenti per il diritto alla casa tra il 2013 e il 2014, definita con il
termine “tsunami tour”. Con lo “tsunami tour” sono stati occupati circa dieci edifici per
rispondere all'emergenza abitativa che in quel periodo i movimenti avevano registrato nel
territorio romano. Infatti, a causa di una decisione presa dalla giunta Alemanno nel 2010,
delle 13 mila famiglie in attesa di ricevere una casa popolare, solo 3 mila vennero
91
considerate idonee.
Oggi, a Roma, i palazzi occupati sono in tutto 110 e ospitano circa 6 mila famiglie. Le
occupazioni gestite da Action sono 12 per un totale di circa 600 famiglie coinvolte.
Per quanto riguarda le occupazioni promosse da Action, ognuna di queste è gestita da un
comitato abitativo. Il comitato viene eletto dalle persone che vivono nell'occupazione e il
tentativo è quello di far in modo che questo rappresenti al suo interno tutte o quasi le
diverse provenienze geografiche presenti nell'occupazione. Questo presiede l'assemblea di
gestione che si tiene una volta a settimana e vede la presenza di almeno un rappresentante
per nucleo famigliare. I rappresentanti dei comitati di gestione delle diverse occupazioni si
riuniscono, sempre una volta a settimana, nel consiglio di gestione di Action dove si
condivide ciò che accade nelle diverse occupazioni e si discute la linea politica
dell'associazione.
Il palazzo di via di Santa Croce in Gerusalemme ospita sui suoi sette piani 160 famiglie per
un totale di circa 400 persone. Il 60% degli abitanti sono stranieri con un progetto
migratorio stabile, il 30% di questi sono soprattutto richiedenti asilo provenienti
principalmente dall'Africa subsahariana. Sono rappresentate numerose nazionalità (i paesi
maggiormente rappresentati sono: Perù; Bolivia; Colombia; Nigeria; Eritrea; Etiopia;
Egitto; Algeria; Ucraina; Moldavia; Polonia) e l'età media stimata dall'associazione è di
circa 40-45 anni.
Accanto alla dimensione abitativa, c'è anche uno spazio sociale, grazie al quale si
organizzano diversi tipi di attività rivolte sia alle persone che vivono nell'occupazione sia
agli abitanti del quartiere e della città. Tra queste vi sono quelle di formazione, per i
bambini e ragazzi dell'occupazione, organizzate dai volontari di una scuola popolare; quelle
culturali come, per esempio, rappresentazioni teatrali e serate danzanti; e quelle di
promozione della salute, tra cui quella di cura comunitaria qui descritta.
3.3 Metodologia di intervento e strumenti di ricerca
In questo paragrafo verrà descritta sia la metodologia utilizzata durante un incontro tipico
di terapia comunitaria sia gli strumenti di ricerca utilizzati per valutare la TCI come
intervento all'interno del contesto nel quale è stato realizzato.
92
3.3.1 Le fasi della terapia comunitaria
Anche se la TCI ha più a che fare con una 'postura', un modo di essere e stare con le
persone, il processo di gruppo che si sviluppa durante ogni incontro segue delle precise
tappe e regole chiaramente identificate (94; 96; 97; 104). Una volta fatti propri questi
passaggi specifici, ogni facilitatore può personalizzare l'incontro in base a quelle che sono
le proprie caratteristiche personali.
Il primo passaggio prevede una fase di accoglienza durante la quale i partecipanti vengono
incoraggiati a celebrare gli avvenimenti positivi della loro vita. Questi possono essere
rappresentati per esempio da compleanni; nascite; ricorrenze significative; esperienze
positive vissute nei giorni precedenti all'incontro, etc... Il tentativo è quello di porre
l'attenzione delle persone, di allenare lo sguardo, anche sugli aspetti positivi che
caratterizzano le nostre vite e a saperli celebrare.
Successivamente si invitano le persone a svolgere tutte insieme un'attività fisica di gruppo
al fine di accrescere il clima di fiducia tra le persone ed esplorare il mondo mettendo in
gioco il corpo. Per valorizzare i saperi delle persone, il facilitatore non propone
direttamente lui l'attività ma chiede ai partecipanti di condividerne una, se la conoscono. In
questo modo il potere nella gestione del gruppo passa alla persona che propone il gioco e
non rimane sempre in possesso del facilitatore. Un altro motivo per cui in questa fase si
svolge un'attività che coinvolge il corpo è legata alla considerazione che ogni persona ha
degli stili comunicativi differenti. Ci sono persone che si trovano più a loro agio in quelle
attività che coinvolgono il corpo, mentre altre preferiscono utilizzare maggiormente la
parola. Visto che uno dei propositi della TCI è quella di lavorare con le differenze
includendole, in questo caso, la volontà di usare stili comunicativi differenti va proprio in
questa direzione.
Il terzo passaggio prevede la lettura e la condivisione delle regole da seguire durante
l'incontro. Queste sono:
1. Quando una persona sta parlando, prova a rimanere in silenzio e ascolta quello che
sta dicendo;
2. Quando sei tu a parlare, prova a parlare sempre in prima persona. “Io penso...; Io
sento; Io ho...” e non “Si pensa...; si dice...”;
3. Se non hai voglia di parlare non sei obbligata/obbligato a farlo;
4. Quando una persona racconta la sua storia, limitati ad ascoltare senza dare consigli.
Ognuno è responsabile della propria vita;
5. Quando una persona racconta la sua storia, limitati ad ascoltare senza giudicare;
93
6. In questo spazio è possibile raccontare quello che ci preoccupa e ci fa star male;
non è il luogo dove fare comizi o discorsi. Non è nemmeno un incontro di
psicoterapia, quello che gli altri dicono non deve essere interpretato;
7. Se la storia di una persona ti fa venire in mente: canti, storie, poesie, detti popolari,
proverbi sarebbe molto bello se tu volessi condividerli con noi.
Dopo la lettura delle regole si entra nella fase centrale dell'incontro. Il quarto passaggio
prevede la condivisione di tematiche o problemi che alcune persone all'interno del gruppo
vogliono condividere. In questa fase si raccolgono gli argomenti invitando ciascun
partecipante a raccontare brevemente ciò di cui vuole parlare. Prima di passare alla fase
successiva, quella della scelta del tema, si invitano le persone ad esprimere una preferenza
rispetto ad un tema condiviso a partire da quelle che sono state le proprie emozioni al
riguardo.
Il quinto passaggio rappresenta la scelta del tema attraverso la votazione. Il facilitatore deve
chiarire che con il voto non si sta esprimendo una preferenza nei confronti della persona ma
solo del tema. Inoltre, comunica alle persone il cui tema non sarà scelto che rimarrà a
disposizione per parlare con loro alla fine dell'incontro.
Una volta che il tema è stato scelto si lascia un tempo congruo alla persona di esplorare
meglio quanto ha voluto condividere. In questa fase, sia il facilitatore sia i partecipanti
possono porre delle domande per aiutare la persona a fare luce su alcuni aspetti della
propria storia.
Finito di esplorare il tema scelto dal gruppo e aver ringraziato la persona che l'ha voluto
condividere si chiede a questa di rimanere in silenzio e di ascoltare l'esperienza degli altri
partecipanti. Il facilitatore sollecita gli interventi chiedendo se c'è qualcuno che abbia
vissuto una situazione o emozioni simili a quelle condivise. In questo caso si richiede di
condividere soprattutto ciò che le persone hanno fatto per affrontare il problema raccontato.
Ciò è utile sia a chi racconta sia a chi ascolta. Nel primo caso, la persona può diventare
maggiormente consapevole delle proprie competenze; nel secondo, chi ascolta, può cogliere
i diversi punti di vista con cui una medesima situazione può essere osservata e vissuta.
L'ultima fase, l'ottava, consiste in una valutazione dell'incontro. Le persone vengono
invitate a dire cosa hanno imparato dalle storie ascoltate o se c'è qualcosa che le ha
particolarmente colpite.
Tutto il processo dura circa un'ora e mezza e non c'è un numero massimo di persone che
può partecipare agli incontri. L'unico limite è rappresentato dalla capienza del luogo fisico
in cui si svolge la terapia comunitaria.
94
3.3.2 Strumenti di ricerca
Gli strumenti di ricerca utilizzati sono stati soprattutto due: una scheda di rilevazione delle
informazioni emerse durante gli incontri e un diario di esplorazione. A questi si sono
aggiunte delle azioni pratiche di intervento per favorire la partecipazione agli incontri da
parte delle persone che verranno descritte più avanti nel testo.
Alla fine di ogni incontro le informazioni principali sono state raccolte attraverso una
scheda di registrazione (Allegato 3). I dati raccolti riguardano soprattutto: numero di
partecipanti ad ogni incontro; numero di nuovi partecipanti; l'età delle persone; i temi
proposti e il tema scelto. Considerato che la scheda viene riempita alla fine di ogni incontro
dal facilitatore senza chiedere informazioni aggiuntive ai partecipanti, si è preferito avere
dei range ampi (12-18 anni; 18-45; 45-60; >60) per ridurre il margine di errore circa
l'attribuzione dell'età delle persone.
Le informazioni raccolte sono riferite al periodo compreso tra il 17/12/2014 e il 20/05/2016
(18 mesi).
A questo strumento di rilevazione dei dati di tipo quantitativo se ne è aggiunto uno di tipo
qualitativo, il diario di esplorazione (105). La scelta metodologica di utilizzare il diario
come strumento di ricerca è in linea con le riflessioni fatte nel secondo capitolo circa le
difficoltà di valutare interventi di promozione della salute calati in contesti sociali 'reali'.
Chi scrive è consapevole delle possibili criticità che una scelta di questo tipo possa
sollevare all'interno di un ambito disciplinare come quello della Sanità pubblica dove il
principale linguaggio scientifico utilizzato è quello positivista delle scienze naturali. Per
questo motivo, di seguito seguirà una descrizione dello strumento di ricerca e una
spiegazione teorica a sostegno della sua validità scientifica.
Il diario di ricerca è uno strumento che introduce la soggettività del ricercatore nel processo
di ricerca stesso. In altre parole disvela la relazione esistente tra il soggetto e l'oggetto della
ricerca. Nel diario, il ricercatore deve parlare di se stesso, dei propri desideri, delle proprie
pulsioni, dei propri impulsi, delle esperienze vissute. E questo non per un esigenza
narcisistica ma per un certo modo di concepire l'essere umano e la realtà. Come descritto
nel primo capitolo, la divisione tra un mondo esterno e un mondo interno è frutto di una
costruzione culturale sulla quale si è costruito il moderno pensiero scientifico. Secondo
questo approccio, la realtà deve essere descritta oggettivamente ponendo l'attenzione su ciò
che accade fuori dalla coscienza dell'individuo che pensa la realtà. Tale conoscenza
oggettiva può essere prodotta solamente se si elimina il vissuto emotivo del ricercatore
considerandolo solo come inutile e confondente. Si afferma in questo modo il primato della
95
ragione su quello della passione (o delle emozioni), in quanto solo il sapere derivato da
quest'ultima è universalizzabile, atemporale, immutabile.
L'approccio che prevede l'utilizzo di strumenti di ricerca in grado di cogliere anche la
dimensione emotiva, soggettiva, della natura umana, affermano che il modo 'oggettivo' di
produrre conoscenza si basa su una visione dell'essere umano monca. Con questo non si
vuole eliminare la componente razionale dal processo di ricerca ma integrarla, ampliarla,
con quella soggettiva. Questo perché le emozioni del ricercatore partecipano alla
formazione del suo pensiero e alla concettualizzazione dell'oggetto di ricerca stesso. Non
solo, l'oggetto di ricerca non si pone davanti al ricercatore in maniera neutra ma lo interroga
direttamente suscitando in lui diversi stati d'animo. Di conseguenza, dal confronto con
l'oggetto di ricerca, il ricercatore, passando attraverso la sua soggettività, finisce per
confrontarsi soprattutto con se stesso. Per questo il diario, non può che consistere in
un'esplorazione che parte dall'ego del diarista che, attraverso la scrittura, rende conto dei
suoi legami con gli oggetti di ricerca che incontra. É proprio di questi legami con il campo
di ricerca che il diario rende conto. Questo tipo di relazione con l'oggetto di studio viene
definito con il termine 'implicazione'. L'implicazione si riferisce soprattutto al
coinvolgimento psicologico del ricercatore nella situazione in cui si sente aggrovigliato,
immerso. Si è implicati con un oggetto quando questo ci tocca sul piano emotivo, cioè non
ci lascia indifferenti; ci ossessiona, ci preoccupa ed è impossibile smettere di pensare ad
esso; e infine quando ci si interagisce frequentemente e ci coinvolge fortemente sul piano
personale.
Se queste riflessioni valgono in generale per tutti i processi di costruzione del sapere, ciò
risulta ancor più significativo all'interno dell'ambito delle scienze umane. In questi casi, il
ricercatore interagisce con altre persone e non con oggetti inanimati, di conseguenza il suo
vissuto emotivo, la sua implicazione, non può non interferire con il campo studiato e quindi
non può non essere preso in considerazione.
A differenza dall'approccio positivista quindi, abbiamo visto come considerare
l'implicazione del ricercatore nel campo di ricerca più che ostacolare il processo di ricerca
(apportare conoscenza su un oggetto) può rappresentare al contrario un'opportunità. In tal
senso allora la pratica scientifica può essere definita come un processo di apertura e
trasparenza nei confronti dell'altro. Rendendo accessibili le proprie 'riflessioni emotive',
attraverso la pubblicazione del proprio diario di ricerca, il ricercatore accetta di essere
anch'esso un oggetto di osservazione per gli altri con il fine di essere portatore di riflessività
per essi.
96
La scrittura diaristica, oltreché dalla componente soggettiva, non può prescindere da un
progetto di scrittura, cioè dal motivo per il quale si decide di scrivere un diario. Possono
esistere quindi diversi tipi di diari in base alle finalità che ci si propone di raggiungere con
la scrittura. Ai fini dell'esperienza qui riportata il tipo di diario che si è scelto di utilizzare
viene definito di 'esplorazione'. Il diario di esplorazione è dedicato ad uno specifico oggetto
di studio per un determinato periodo di tempo. Lo studio dell'oggetto avviene
specificatamente a partire dalle implicazioni del ricercatore stesso. Di conseguenza in esso
sarà molto rappresentato il vissuto emotivo e non solo la mera descrizione di fatti o
avvenimenti.
Infine, la scelta metodologica fatta in questo contesto di ricerca è quella di pubblicare per
intero e allo stato grezzo il diario di esplorazione. Questo accompagnerà lo sviluppo del
testo istituzionale come un 'fuori testo'. Il tentativo è quello di far dialogare due diverse
forme di linguaggio al fine di integrarle. Non solo, si ritiene che dare voce anche ad una
narrazione diversa da quella accademica, che potremmo definire personale o intima, sia
congruente con l'oggetto di discussione di tesi, vale a dire il tentativo di descrivere un
approccio di cura che guardi all'essere umano nella sua interezza e non come un oggetto
inanimato, un non-essere. Per il rispetto della privacy delle persone nominate nel diario, i
loro nomi sono stati abbreviati alla sola iniziale o cambiati completamente. Sempre per
questo motivo e anche per ragioni di leggibilità, alcune parti sono state omesse (e verranno
segnalate nel testo con il simbolo […]) o riformulate.
Infine, per favorire o incoraggiare la partecipazione all'esperienza da parte delle persone
sono state messe in atto le seguenti azioni:
• riunione di presentazione del progetto con i rappresentanti dell'occupazione
abitativa;
• presentazione del progetto a tutti gli abitanti dell'occupazione durante la loro
assemblea di gestione. Questo passaggio è stato successivo al confronto con i
rappresentanti dell'occupazione;
• produzione di volantini informativi e loro distribuzione;
• ricordare la data dell'incontro durante le assemblee di gestione.
97
3.4 Esiti dell'esperienza e discussione
L'esperienza è stata valutata utilizzando un approccio sia quantitativo sia qualitativo.
Facendo riferimento all'approccio valutativo della ricerca-azione, si è preferito utilizzare il
termine 'esiti' piuttosto che 'risultati' (85). La parola 'risultato', secondo questo approccio,
rimanda infatti a qualcosa che sembra essere conseguenza logica di un'operazione
matematica (causa-effetto), una conseguenza che è anche una conclusione; 'esito' invece,
avendo la sua radice etimologica nel verbo latino ire che significa andare, evoca
maggiormente l'idea di movimento e di processo, oltreché l'impossibilità di fissare, una
volta per tutte, qualcosa di mobile e incompiuto come il sapere generato dalla ricerca-
azione (85).
I dati quantitativi presentati sono stati estrapolati dalle informazioni raccolte dalle schede di
registrazione; mentre quelli qualitativi derivano direttamente dal diario di esplorazione.
3.4.1 Esiti quantitativi di processo (output)
Nel periodo compreso tra il 17/12/2014 e il 20/05/2016 (18 mesi) si sono svolti 18 incontri.
Dal conteggio totale sono stati esclusi quelli in cui il numero di partecipanti era uguale o
inferiore a tre persone. Con un numero così basso di presenti non è infatti possibile dare
vita al processo indicato dalle diverse fasi della terapia comunitaria. In questi casi, pur
mantenendo le caratteristiche di accoglienza ed ascolto, gli incontri diventavano soprattutto
l'occasione per costruire relazioni significative all'interno di uno spazio informale (bevendo
un tè caldo e mangiando qualcosa insieme le persone si raccontavano, semplicemente).
La partecipazione totale agli incontri ha visto la presenza di 43 persone, con una media di 6
partecipanti ad incontro (il numero minimo è stato di 4 partecipanti e quello massimo di
11); tra queste, 10 persone non vivevano all'interno dell'occupazione. Su un totale di 112
presenze, il 41% era rappresentato da persone appartenenti alla fascia di età 45-60 anni (41
presenze femminili e solo 5 maschili), il 39% da quelle appartenenti alla fascia di età 18-45
anni (25 presenze femminili e 19 maschili) e nel restante 20% (n.22) dei casi non è stato
registrato il dato relativo al sesso e all'età.
I temi emersi durante gli incontri sono stati 26 in tutto. In base ai dati già esistenti in
letteratura sugli interventi di TCI (95) questi sono stati raggruppati nei seguenti otto
macroargomenti: problemi legati all'occupazione abitativa (n.5); conflitti famigliari (n.4);
mancanza di legami solidali e senso di solitudine (n.4); problemi di salute (n.4);
disoccupazione (n.3); percezione di discriminazione (n.3); senso di inutilità (n.2);
educazione dei figli in occupazione (n.1) (tabella n. 3).
98
TEMATICHE Numero (n.) Percentuale (%)
Problemi legati all'occupazione abitativa 5 19%
Percezione di mancanza di legami solidali e senso di
solitudine
4 15%
Conflitti famigliari 4 15%
Problemi di salute 4 15%
Disoccupazione 3 12%
Percezione di discriminazione 3 12%
Senso di inutilità 2 8%
Educazione dei figli in occupazione 1 4%
TOTALE 26 100%
Rispetto ai problemi riguardanti l'occupazione abitativa, le persone facevano soprattutto
riferimento agli ambiti strutturali e relazionali. L'igiene e la carenza dei servizi igienici
rispetto al numero totale degli abitanti, insieme alla salubrità degli alloggi (assenza di
riscaldamento e scarsa ventilazione di alcuni spazi adibiti ad appartamenti) hanno
rappresentato i principali problemi strutturali riportati. Ben lo dimostrano alcune frasi
estratte dal diario di esplorazione.
“[...] Poi si parla delle difficoltà strutturali: stanze senza finestre o finestre
piccolissime; bagni molto sporchi, non ci sono microbi ma dinosauri, questa
è stata l’affermazione di V”.
“[...] Ha portato Susy a vedere i bagni di cui ci ha parlato sin dalla prima
volta che ci siamo visti”.
Gli aspetti relazionali hanno riguardato soprattutto le difficoltà di convivenza tra le persone
all'interno della stessa struttura. Sembra esserci poca fiducia e scarsa solidarietà tra le
persone, che tendono a formare dei gruppi in base alle loro provenienze geografiche. Le
differenze 'culturali' più che essere viste come una possibile risorsa vengono percepite come
un ostacolo alla convivenza.
“ […] Parlano della loro vita all’interno di Santa Croce e di come sia
difficile riuscire a convivere tra tutti quanti loro. Di come ci si ignori a
99
Tabella 3. Elenco tematiche principali emerse durante gli incontri di terapia comunitaria.
vicenda. A questo punto G. parla di quando era piccola, quando avevano
poco da mangiare e di come sua madre cercasse di aiutare, dando da
mangiare a più persone possibili. Dicono anche che la differenza di cultura
è un problema”.
Come vedremo in seguito, questi aspetti relazionali possono essere stati tra i principali
motivi che hanno scoraggiato la partecipazione delle persone agli incontri.
La percezione di mancanza di legami di solidarietà e il relativo senso di solitudine ad essa
associata sembrano essere strettamente legati alla qualità della convivenza
nell'occupazione. Non solo, questo senso di isolamento sembra fare riferimento alle
relazioni interne, ma anche a quelle esterne, relative cioè al 'mondo' fuori dell'occupazione.
“[...] Ha paura di rimanere sola in camera, soprattutto dopo quello che è
successo sabato. Lo dice piangendo”.
“[...] Inizia G parlando della sua rabbia nei confronti del sistema e di come
vorrebbe in parte riuscire a controllarla e canalizzarla anche per i suoi figli.
E lui non ci dorme la notte quasi”.
La rabbia nei confronti del “sistema” è dovuta anche alla percezione di essere discriminati
ed emarginati dalla società nella quale si vive. Ed è proprio con i sentimenti di rabbia e
impotenza che le persone hanno raccontato le loro esperienze di discriminazione
quotidiana.
I conflitti famigliari hanno fatto riferimento soprattutto a discussioni tra partners accentuati
dalle difficoltà vissute all'interno dell'occupazione.
Per quanto riguarda i problemi di salute, in due casi è stato fatto un orientamento sanitario
sul territorio, mentre i due casi restanti riguardavano rispettivamente problematiche
cardiologiche e sintomi di natura depressiva. In quest'ultimo caso è stato consigliato un
colloquio psicologico che tuttavia, per scelta della persona, non è stato effettuato.
“[...] Un signore sud americano, cappello americano sempre ben calcato
sulla testa, con il suo accento inconfondibile ci parla […] dei suoi problemi
cardiologici. Ha avuto delle palpitazioni mentre saliva le scale e visto che
avrà ad aprile delle visite di controllo si chiedeva, in maniera preoccupata,
se era il caso si andare in pronto soccorso”.
100
“[...] Le capita di cadere a terra senza motivo, a volte non riesce a capire
cosa gli altri le stiano dicendo. Voglio stare bene! Ha ripetuto più volte, ma i
medici non riescono a capire cosa io abbia, aggiungeva. […] Ci ha detto
che il medico di base le aveva preso appuntamento con un neurologo ma
questo, il giorno della visita, non si era presentato. […] La sua narrazione
si è agganciata a quella che stava facendo un’altra signora sulla
stanchezza. […] Continua a parlare. Poi la vedo che fissa lo sguardo e mi
dice se sia possibile che il suo cervello si è fermato con il ricordo a quando
era stanca. Le ho rimandato la sua stessa domanda e lei continua a pensare.
[...] Mi dice che le stanno scorrendo davanti agli occhi gli anni della sua
vita in cui si è stancata molto. […] Mi dice che si sente così debole
soprattutto la mattina, la sera va meglio invece.”
L'assenza di lavoro è un'altra problematica emersa durante gli incontri. Nelle tre
testimonianze, il disagio legato alla disoccupazione era associato a sentimenti di rabbia,
senso di ingiustizia e condotte di abuso.
“ […] Inizia a parlare e mi dice che tende ad “alzare il gomito” e a dare in
escandescenza soprattutto quando si trova senza lavoro. [...] Mi dice che
prova una forte ansia nei momenti in cui non lavora al punto tale da
provocarsi del vomito. Sa che ci sono dei farmaci ma lui preferisce farsi due
birre e una cannetta”.
Questa testimonianza emblematica ci racconta di quanto possano essere superficiali e
insufficienti i programmi di promozione della salute centrati esclusivamente sugli stili di
vita. Più che di scorretti 'stili di vita', questa narrazione ci parla di un problema di giustizia
sociale, come testimonia anche la prossima storia di vita.
“[…] Poi dice che gli rode il culo, gli rode il culo perché mai nella sua vita
avrebbe immaginato di vivere in uno spazio occupato e invece si trova a
vivere in questo modo. E a sessanta anni si trova a vivere da solo, senza un
lavoro, senza una casa, senza opportunità. Vive alla giornata e questo non è
bello. Dice che sente che il tempo sta finendo per lui, e non vede vie
d’uscita”.
101
Il senso di inutilità, anche se espresso solo una volta, è direttamente connesso al tema della
mancanza di lavoro. L'impossibilità di sentirsi utili, di partecipare attivamente alla vita
economica e sociale, genera un effetto negativo sulla immagine che le persone hanno di sé,
riducendone il senso di autostima e auto-efficacia.
Infine, l'ultima tematica riguarda la preoccupazione espressa dai partecipanti circa le
difficoltà a crescere i propri figli in occupazione. Anche in questo caso, ad essere vissuto
come problematico è soprattutto il confronto con l'ambiente esterno; è stato riportato che
alcuni bambini provano vergogna nel raccontare di vivere in un'occupazione abitativa
all'interno dell'ambiente scolastico. Come è immaginabile, questo interroga i genitori sulla
bontà della loro scelta: una scelta obbligata, nella maggior parte dei casi.
3.4.2 Esiti qualitativi di processo
Come già detto nell'introduzione, al fine di descrivere in maniera più esaustiva possibile
l'intero processo generato dall'esperienza, si è deciso di pubblicare per intero tutto il diario
di esplorazione. É possibile quindi leggere il diario come fosse uno degli esiti
dell'intervento.
In questo paragrafo, per descrivere la relazione che si è sviluppata tra il progetto e lo
specifico contesto nel quale è stato sviluppato verranno riportati e commentati solo alcuni
estratti del diario. Questi sono stati organizzati nei seguenti ambiti tematici:
• la presentazione della TCI agli abitanti dell'occupazione;
• la percezione della TCI da parte di alcuni abitanti;
• la partecipazione agli incontri di TCI: ostacoli, criticità e opportunità;
• l'apertura degli incontri di TCI anche all'esterno dell'occupazione;
• la valutazione degli incontri di TCI da parte dei partecipanti;
• l'impatto su alcuni medici che hanno partecipato all'esperienza;
• la costruzione di relazioni solidali con gli abitanti dell'occupazione.
La presentazione della TCI agli abitanti dell'occupazione
L'inizio degli incontri di terapia comunitaria è stato preceduto da alcuni contatti preliminari
con gli abitanti dell'occupazione. Scopo principale di questi incontri era quello di far
conoscere tra loro i promotori del progetto (tutti medici) con gli abitanti e di spiegare la
natura dell'intervento che si voleva proporre.
Il primo incontro è avvenuto con i rappresentanti dell'occupazione (il comitato abitativo).
102
Successivamente, il progetto è stato presentato nell'assemblea settimanale di gestione in cui
sono presenti tutte le persone che vivono nell'occupazione.
La proposta di fare un'attività di promozione della salute, quale la TCI rappresenta, si è
confrontata sin da subito con un altro tipo di aspettativa. Avendo davanti a loro dei medici,
le persone si aspettavano l'apertura di un ambulatorio nel quale venissero fornite delle
visite. In altre parole, sembrerebbe che, presentandosi come medici si sia generato un
bisogno sanitario indotto.
“[...] Ci è stato più volte detto se avremmo fatto attività ambulatoriale”.
“[...] Noi in quanto medici siamo 'portatori sani' di un bisogno sanitario.
Appena le persone sanno che ci sono dei medici vogliono essere visitate”.
La percezione della TCI da parte di alcuni abitanti
“Ci hanno preceduti dicendo che avevano capito che non vogliamo fare
l'ambulatorio ma ci hanno anche detto che le persone sono curiose di sapere
che cosa però ci proponiamo di fare.
Una volta ripetuto loro i nostri limiti nel fare un ambulatorio gli abbiamo
detto che quello che vorremmo fare è costruire insieme a loro delle attività a
partire dai loro problemi di salute. Guardando le loro facce, ci siamo resi
conto che facevano fatica ad afferrare il concetto, il che è normale”.
Essendo le persone abituate ad associare la salute all'assistenza sanitaria, la proposta di
svolgere un'attività in cui parlare e affrontare collettivamente i propri problemi di salute è
risultata poco comprensibile. Questo sembra essere uno dei principali limiti con cui si
confrontano le esperienze di partecipazione comunitaria. Tendenzialmente, le persone fanno
riferimento ad interventi sanitari di tipo biomedico; proporre loro qualcosa di diverso può
causare confusione, sospetto e delusione. Non solo, nel caso specifico, in cui la parola e la
condivisione tra le persone sono i principali strumenti 'terapeutici', alcune persone hanno
percepito la proposta come un intervento di tipo psicologico a cui rivolgersi esclusivamente
in caso di disagio psichico.
“P. ci chiede cosa facciamo giù, continua a dire come gli alcolisti anonimi.
Questo fanno, stanno in cerchio e parlano”
103
“Ho la sensazione forte che questa proposta abbia molte potenzialità, ma
non riesco a capire se e quanto alle persone interessi e se la possano trovare
in qualche modo utile. Credo che sia ancora presto per metterla in
discussione ma non riesco proprio a capire e ad intuire cosa le persone
possano pensare di questa proposta. Sento una distanza comunicativa a più
livelli: linguistica (legata al fatto che molte persone non parlano molto bene
l’italiano) e culturale (le persone si aspettano qualcosa di diverso da noi e
confrontarsi sempre con le aspettative delle persone sapendo di volerle
deludere a volte è stancante, soprattutto quando non si è completamente
certi se quello che si sta proponendo sia effettivamente utile per loro).”
Tuttavia, lavorare sulle incomprensioni, accogliere i malintesi, fa già parte dell'intervento.
Come descritto nel secondo capitolo, svolgere interventi di partecipazione comunitaria
richiede da parte degli operatori una buona dose di pazienza e flessibilità. Attraverso un
confronto paziente con le persone, ascoltando le loro aspettative, i loro dubbi, è possibile
dare nuovo significato a concetti quali 'salute' e 'malattia'. Questo lavoro, come emerge
dall'estratto di diario, non è privo di dubbi e di incertezze.
Al fine di mantenere vivo questo confronto, durante lo svolgimento dell'esperienza è stato
richiesto di poter tornare più volte in assemblea di gestione per continuare a spiegare la
natura dell'intervento. In questi casi, a differenza del primo incontro, la comunicazione è
stata facilitata da un rapporto di maggiore fiducia e sul fatto che alcune persone avevano
già preso parte agli incontri di TCI.
Ed è stato soprattutto grazie al confronto e al conforto da parte di alcuni dei partecipanti più
attivi agli incontri che si è deciso di continuare l'esperienza, nonostante la partecipazione
non fosse molto elevata.
“Lui [...] mi ha detto di insistere, che quello che sto provando a fare è
importante. Mi diceva, “guarda F! Lo abbiamo aiutato tutti quanti”. Mi ha
consigliato di parlare di più con le persone [...]”
E poi, improvvisamente, qualcosa succede e, un poco alla volta, ci si inizia a capire...
“[...] Venerdì scorso c’è stato l’incontro con gli abitanti di Santa Croce.
104
C’erano solo due persone. Poche. Gli altri erano impegnati. Tuttavia,
succede sempre qualcosa che non mi aspetto in questi incontri. Verso la fine,
si è aperta la porta ed è entrata A, una piccola signora etiope con i capelli
biondi ossigenati. Si mette seduta e io le do il benvenuto. Prende la parola.
Ci dice che all’inizio non aveva capito quello che noi volevamo fare, ma poi
sì. Ha capito che noi volevamo provare a farli stare meglio. E ci dice che
[…] non c’è armonia, che le differenze si traducono in distanze tra le
persone piuttosto che in ricchezza da condividere”.
La partecipazione agli incontri di TCI: ostacoli, criticità e opportunità
Il numero di persone che hanno partecipato agli incontri di TCI è stato relativamente basso
(43 persone). Come detto in precedenza, questo sembrerebbe essere dovuto a ragioni sia di
tipo culturale (difficoltà da parte delle persone a comprendere la natura e l'utilità della
proposta) sia di tipo comunicativo (difficoltà da parte dei proponenti a spiegare chiaramente
il progetto). A questi due ostacoli alla partecipazione, se ne può aggiungere un terzo che
riguarda specificatamente le caratteristiche del contesto in cui si è svolta l'esperienza. Le
persone che vivono in occupazione, facendo parte di un movimento per il diritto all'abitare,
sono spesso impegnate in diverse attività di natura politica (es. manifestazioni) e
organizzativa (es. assemblee; riunioni). E, in alcuni casi, queste si sovrapponevano agli
incontri di TCI. Visti i numerosi impegni, comprensibilmente, le persone preferivano
riposare a casa piuttosto che fare un'altra attività. Infine, c'è un ultimo fattore legato alle
contingenze e agli impegni delle singole persone. Tutto ciò ha contribuito a rendere la
partecipazione agli incontri saltuaria e imprevedibile. Riuscire a comprendere le diverse
ragioni della scarsa partecipazione, insieme al confronto sincero con le persone, ha
contribuito a ridurre il senso di 'fallimento' che accompagnava i primi incontri da parte di
chi scrive.
“[...] Qualcuno dice che la poca partecipazione è dovuta anche ai molti
impegni cui devono far fronte per l'occupazione”
“[...] Non è venuto nessuno agli ultimi due incontri: venerdì 3 e 10 aprile.
Mi sento tranquillo. Secondo me, le assenze sono dovute soprattutto a delle
contingenze esterne all’attività: ieri ho scoperto che M è ritornato in
Romania, A è stata molto male, G impegnata con il lavoro etc…
105
Rispetto ai primi incontri non avverto più quel senso di <ansia da
prestazione> che caratterizzava il mio stato d’animo prima di ogni
incontro”.
Provando a mantenere sempre vivo il confronto con gli abitanti al fine di favorirne la
partecipazione, sono state cambiate più volte le strategie di comunicazione. Si è passati
dalle comunicazioni ufficiali in assemblea alla distribuzione di volantini. Infine,
sembrerebbe che lo strumento comunicativo più utile sia rappresentato dalla comunicazione
orale in assemblea il giorno prima dell'incontro di TCI.
“[...] Anche oggi nessuno si è presentato all'incontro di cura comunitaria a
Santa Croce. In queste settimane ho provato a cambiare i volantini, ne ho
fatte molte copie e le ho lasciate anche al picchetto, tuttavia sembrano non
essere serviti a nulla queste modifiche”.
“[...] MR mi aveva detto che i volantini non servivano molto visto che la
gente si dimenticava dell'incontro”.
“Questa volta ho comprato anche qualcosa da mangiare; il giorno prima
ero passato in assemblea invitando chi fosse interessato a passare in stanza
anche solo per mangiare qualcosa insieme”.
L'apertura degli incontri di TCI anche all'esterno dell'occupazione
Un'altra strategia tentata per aumentare la partecipazione è stata quella di aprire gli incontri
di TCI anche a persone che non vivono nell'occupazione. Un altro motivo, alla base di
questa scelta, è stato quello di favorire il confronto e l'incontro tra persone appartenenti a
classi sociali e ambienti di vita del tutto differenti proprio per ridurre quella distanza tra
'dentro' e 'fuori' l'occupazione che alcuni abitanti avevano testimoniato.
Ciò ha richiesto di modificare ancora una volta la strategia comunicativa. Per l'occasione è
stata preparata una presentazione sintetica di cosa fosse la TCI e i canali comunicativi
utilizzati per promuovere gli incontri sono stati rappresentati soprattutto da facebook e
indirizzari di posta elettronica.
Questa scelta sembra aver favorito una maggiore partecipazione e soprattutto un incontro
tra le diverse persone.
106
“[…] Il giorno dopo mi dirà che V l'aveva invitata nella sua stanza. La cosa
mi sembra interessante. Ha a che fare con il discorso delle finestre che si
aprono”.
“[...] L in particolare ringrazia A che a sua volta la invita a venire quando
vuole e le dice che è la benvenuta”.
La valutazione degli incontri di TCI da parte dei partecipanti
Alla fine di ogni incontro si invitano i partecipanti a condividere, se vogliono, come sono
stati e che cosa è stato utile per loro. Se pur questo tipo di valutazione non possa indagare o
evidenziare i legami esistenti tra la partecipazione agli incontri e gli effetti sulla salute delle
persone che vi partecipano, è comunque sicuramente utile per capire se e in che modo
l'esperienza proposta è percepita come utile ai partecipanti.
“[...] Vedo il volto di MR, adesso mi sembra più disteso. Adesso si scherza,
si ride, E. si alza e la bacia. Il clima emotivo è cambiato dall’inizio
dell’incontro. Dico loro che l’incontro sta per finire. Gli chiedo di alzarsi, di
prenderci per mano e dire una parola che racchiude la loro sensazione
dell’incontro. Inizia proprio MR che dice “io sto meglio”; poi c’è chi dice di
essere contento; rinfrescato; di aver potuto parlare per la prima volta
liberamente”.
“[...] M alla fine dice a N, te l’avevo detto che sono antistress questi
incontri!”
“[...] Lei gli dice che qua possiamo parlare, puoi dire tutto quello che vuoi,
quello che ti fa star bene, quello che ti fa star male. Loro ti fanno il tè e così
via. Dice anche che questo posto le ha portato fortuna perché ha trovato
lavoro”.
“[...] La cosa più bella è stata “normalizzare” la condizione di F che dice
che tende a “sbroccare”. Altre persone hanno raccontato del loro rapporto
con la rabbia. Forse F non si è sentito solo. E alla fine dell'incontro ci/mi ha
ringraziato dicendo che da quando viene agli incontri si sente meglio”.
“[...] Poi la fase finale. Tutti quanti dicono di essere stati bene e mi
ringraziano. MR invita tutti a tornare e M dice che questo è quello che serve
loro non tanto medicine o punture. Dice anche che lei fino ad ora pensava
che doveva rimanere in silenzio per “soluzionare” i suoi problemi, con gli
107
incontri ha capito che parlarne è utile e che prova a farlo anche fuori da
questo contesto”.
Queste testimonianze ci parlano soprattutto dell'effetto benefico che l'incontro ha sui
partecipanti nell'immediato. Più volte hanno ribadito il suo effetto utile nel ridurre il loro
livelli di stress e sofferenza; e passare dal pianto al riso, lanciarsi in un abbraccio nei
confronti di una persona a fine incontro, utilizzare parole come “sentirsi meglio”,
“rinfrescato” sembrano confermarlo. Ciò che sembra aver sortito questo effetto è stato
soprattutto la possibilità di creare uno spazio in cui poter parlare e ascoltare semplicemente
in maniera diversa da quanto avviene nella vita quotidiana o, nel caso specifico, durante gli
incontri assembleari. Come visto nel secondo capitolo, è stato ampiamente dimostrato
l'effetto negativo dello stress cronico sulla salute delle persone, e creare spazi di parola e di
ascolto in cui queste possono costruire legami solidali può essere utile per contrastarne gli
effetti patogeni.
Durante la valutazione di uno degli ultimi incontri, come riportato sopra, una signora ha
addirittura affermato che quello di cui hanno più bisogno è soprattutto questo piuttosto che
“farmaci o punture”. Con ciò non si vuole affermare che l'utilizzo dei farmaci non sia loro
necessario, ma semplicemente che questi non servono per lenire la sofferenza sociale ed
esistenziale, ciò di cui invece sembra esserci bisogno sono spazi sociali in cui poterla
accogliere e condividere con altre persone. Un altro aspetto interessante che quest'ultima
storia testimonia è che la partecipazione agli incontri di TCI può portare a dei cambiamenti
nelle strategie di comportamento delle persone al di fuori dell'incontro stesso. Ciò fa
pensare soprattutto ad un maggiore livello di empowerment che la signora ha acquisito;
infatti la parola “soluzionare” problemi può indicare che questa abbia acquisito ulteriori
strumenti di problem solving, cioè di far fronte in maniera più efficace ai problemi della
vita quotidiana.
Infine, come raccontano le storie seguenti, l'esperienza della TCI ha dato la possibilità ai
partecipanti di interrogarsi e osservare da un altro punto di vista l'organizzazione interna
all'occupazione, generando dubbi e opportunità di cambiamento.
“[...] Una ragazza venuta dopo ci ha detto che era stato bello aver fatto
questa attività proprio nell’auditorium perché di solito loro sono abituati a
vedere quel posto come uno spazio dove si discute durante l’assemblea e
non come uno spazio dove parlare di sé stessi e della propria salute”.
108
“[...] Quello che è positivo però è che lunedì alla riunione, il racconto di
questa esperienza ha permesso loro di riflettere sulle pratiche interne.
Interessante quando M ha fatto notare che ai nostri incontri ci si ascolta e
che si dovrebbe poter fare la stessa cosa anche nelle assemblee di gestione”.
L'impatto su alcuni medici che hanno partecipato all'esperienza
Alla fine degli incontri di TCI, i facilitatori facevano un'ulteriore valutazione circa il modo
in cui avevano vissuto l'esperienza. Queste valutazioni sono state registrate e poi trascritte.
Quelle che seguono sono alcuni stralci di trascrizione.
“[...] Infatti sono molto grato di questa attività che abbiamo fatto, io
pensavo ad un macello, un disastro, non me lo riuscivo ad immaginare.
Penso a quando E. ci ha detto che noi tendiamo ad intellettualizzare tutto
quello che facciamo e quanto questa cosa ci allontana dal provare
visceralmente, emotivamente quello che facciamo.[...] A volte non riesco ad
essere sincero, non riesco a fidarmi degli altri e questa è una cosa che
riscontro anche in ospedale. Per me è un esercizio importante.
“[...] Noi siamo abituati (come medici) ad avere il binomio bisogno-
risposta: la gente ci dice i suoi bisogni e noi rispondiamo. Occasioni come
queste di incontro aperto fanno sì che noi abbiamo fatto il contrario di
quello che normalmente facciamo. Stavolta ci siamo fatti noi le domande
senza avere le risposte. E questo può comportare delle difficoltà, tra le quali
quella di non capire. Noi siamo chiamati a capire nel nostro lavoro. In
questo incontro mi è sembrato che le persone stessero bene perché erano il
soggetto di quello che dicevano”.
Tra gli aspetti più importanti che sembrano emergere c'è sicuramente quella della
riflessione sul proprio ruolo professionale di medico. Come affermato anche da Barreto
nella sua testimonianza, l'esperienza della TCI è servita soprattutto a lui per curare la sua
alienazione universitaria. Alienazione che consiste, come affermano i due medici,
nell'illusione di poter confinare la realtà solo all'interno della teoria e della razionalità.
Illusione che consiste anche nel pensarsi come gli unici a poter dare delle risposte circa la
salute delle persone. Confrontarsi con la vita delle persone e non con dei pazienti, mette in
discussione questo modo di pensare agli altri e a se stessi e genera dei dubbi, delle
109
domande. Questo esercizio può essere anche molto difficile da sostenere e non privo di
dolore come affermano. Interessante notare che, per diverse ragioni personali, dopo i primi
incontri, nessuno dei medici abbia più partecipato.
“[...] Con le persone che hanno partecipato alla TC sto sviluppando una
relazione di affetto. E sento che questo tipo di relazione è autentica. Credo
che fino ad ora sia questo l'effetto più importante della TC. Si sta creando
una rete sociale e questa rete non avviene solo tra le persone ma soprattutto
tra me e loro”.
Adesso realizzo che sono persone alle quali voglio bene. […] Riesco a
sentire una vicinanza umana nei loro confronti. E questo penso proprio sia
l'amore di cui parlava Freire. Credo. É una briciola di consapevolezza che è
emersa adesso”.
I legami di solidarietà, differentemente da quanto si pensava “in teoria” all'inizio
dell'esperienza, non si creano solo tra le persone che partecipano all'esperienza ma anche
tra chi facilita gli incontri e i partecipanti. É proprio quel tipo di “vicinanza umana” basato
sull'amore cui si fa riferimento che permette di scoprire le persone per quello che sono:
essere umani e non 'stranieri' o 'poveri'. Mentre si scopre l'altro per quello che è, ciò avviene
anche per se stessi. Non siamo più in quel contesto come operatori della salute, come
medici, ma come persone. I ruoli sociali evaporano, le persone si manifestano e le relazioni
nascono.
La costruzione di relazioni solidali con gli abitanti dell'occupazione
Le relazioni con gli abitanti dell'occupazione, durante il corso dell'esperienza, sono andate
oltre i momenti confinati agli incontri. Per rendere possibile questo è tuttavia necessario
essere presenti anche in altre situazioni che non siano quelle direttamente previste
dall'esperienza, accogliere le sollecitazioni che possono provenire dalle persone e dare
fiducia al tempo, sapere cioè che le relazioni umane per crescere e svilupparsi hanno
bisogno di tempo.
“[...] Credo sia importante per creare relazioni e soprattutto accogliere
sollecitazioni che non avverrebbero nello spazio previsto per l’incontro.
110
Tutto ciò implica esserci”.
“[...] Così si sviluppano le relazioni e così si collabora con le persone.
Nell'incontro. In spazi contigui e tangenziali ad altri momenti, vivendo la
trasversalità dei momenti di vita”.
Le due storie seguenti, raccontano bene cosa voglia dire essere in grado di accogliere le
sollecitazioni che provengono dalle persone al di fuori del contesto dell'incontro.
“[...] Credevo che, dopo averci comunicato questa notizia, se ne sarebbe
andata; invece si è seduta e ha iniziato a parlare. Ci chiama i “suoi amici”.
Ha parlato di un po’ di tutto dalla sua condizione di salute, alla sua casa in
Moldavia”.
“[...] Ci invita a mangiare qualcosa da lui. Titubiamo un po’ (io avevo
voglia di andare a casa) poi però sento che a lui farebbe piacere. Così dico
che va bene rimango. Mi seguono Giulia e Giuseppe. Saliamo su nella sua
stanza e la prima cosa che mi colpisce è il salmone tagliato e pronto per
essere cucinato. Aveva già preparato tutto per noi. Mi domando se gli
avessimo detto di no. Poi dopo vedo il resto della stanza. Vestiti sparsi qua e
la, la televisione a tutto volume con un programma della Carrà e la finestra
aperta. Che freddo!
La serata è piacevole. Piacevole nonostante il freddo, c’era la finestra
spalancata, la televisione a tutto volume, il disordine. Piacevole, forse,
soprattutto per quello. Era tutto così reale, tangibile. La finestra aperta e il
freddo; la televisione e il rumore; i panni sparsi qua e la. E poi P. P che
parla, ci racconta e si racconta. Ci invita a mangiare e a prendere altra
pasta, ci chiede come è venuta “è bona?” e mi insegna che si cucina o per
amore o per passione”.
E forse quanto vale per la cucina, vale anche per i rapporti umani, poiché, riprendendo
quanto già affermato da Paulo Freire:
“[...] Non esiste dialogo però, se non esiste un amore profondo per il mondo
e per gli uomini. […] Poiché è un atto di coraggio e mai di paura, l’amore è
un impegno con gli uomini. Ovunque essi si trovino, oppressi, l’atto di
amore consiste nell’impegnarsi per la loro causa. […] In quanto atto di
111
coraggio, non può essere bigotto; come atto di libertà, non può essere
pretesto alla manipolazione, ma generatore di atti di libertà. All’infuori di
questo, non è amore. Se non amo il mondo, se non amo la vita, se non amo
gli uomini, non mi è possibile il dialogo. D’altra parte non c’è dialogo senza
umiltà”45.
3.5 Conclusioni
I dati presentati non sono certo sufficienti per trarre delle conclusioni definitive nei
confronti dell'esperienza. Ciò che è possibile fare è tracciare alcune considerazioni dopo un
anno e mezzo circa dall'inizio del progetto e individuarne alcuni possibili sviluppi futuri.
La principale criticità riscontrata è stata quella di promuovere la partecipazione delle
persone agli incontri. Ciò sembra essere dovuto a diversi motivi, tra i quali: difficoltà di
spiegare e comprendere la natura della proposta; preconcetti e bassi livelli di fiducia tra le
persone. La difficoltà di spiegare efficacemente la natura della proposta è legata soprattutto
alla scarsa esperienza da parte dei proponenti ad interagire con quel contesto specifico e
anche alle scarse risorse umane ed economiche di cui si disponeva. Come già detto in
precedenza, confrontarsi con questa difficoltà è stato tuttavia utile per riflettere criticamente
sul linguaggio comunemente utilizzato nella propria pratica quotidiana e per prendere
consapevolezza della distanza esistente tra questo e quello delle persone con cui si
interagisce. Partendo da questa consapevolezza, si è cercato costantemente di trovare
parole, esempi e termini i più vicini possibile all'esperienza di vita delle persone con le
quali si interagiva; per farlo è stato necessario e utile confrontarsi direttamente con loro. Per
quanto riguarda invece le difficoltà di comprensione della proposta da parte degli abitanti,
queste sembrano essere state dovute oltreché alle carenze comunicative di cui sopra, anche
a delle aspettative diverse nei confronti della proposta. L'aspettativa principale era quella di
poter usufruire di assistenza sanitaria. Anche se, come emerso dal corso dell'esperienza,
alcune delle persone che vivono nell'occupazione sono caratterizzate da una maggiore
vulnerabilità socio-sanitaria tale per cui sarebbe necessario una maggiore pro-attività dei
servizi nei loro confronti; quello che sembra essere emerso è prevalentemente un bisogno
sanitario indotto. In altre parole, sembrerebbe che il paradigma biomedico non è imperante
solo all'interno del mondo della medicina ma è divenuto parte integrante del senso comune
attraverso il quale le persone percepiscono il loro malessere. La medicalizzazione delle
sofferenze di vita non avviene solo ad opera degli operatori della salute ma anche dalle
45 Freire P. La pedagogia degli oppressi. Torino: Edizioni Gruppo Abele, 2002, cit., pp 79-80
112
persone stesse. La strategia più o meno inconsapevolmente adottata da queste è quella di
tradurre in sofferenza biologica una sofferenza sociale. A questo si associa il pregiudizio
emerso nei confronti di attività di gruppo riguardanti la salute, i cui principali strumenti
sono la 'parola' e la 'condivisione'. Le persone attribuiscono, erroneamente, a questi incontri
una valenza soprattutto di tipo psicologico e credono che partecipare ad essi voglia dire
ricevere l'etichetta di “disagiato mentale”. In sintesi, facendo proprio il pensiero biomedico,
le persone sembrano considerare la salute e la malattia soprattutto attraverso le dimensioni
biologica e psicologica. Se la dimensione biologica viene legittimata come strumento
principale per esprimere la sofferenza sociale sottostante, quella psicologica, almeno nel
contesto considerato, è spesso nascosta, celata, per paura di essere “stigmatizzati” o di
rendersi vulnerabili pubblicamente. Ciò che emerge da questa esperienza è che non c'è
l'abitudine a considerare la dimensione sociale dei processi di salute e malattia. Anche in un
contesto 'politicamente' attivo come quello considerato, passare da una dimensione
individuale e privata della salute ad una collettiva riscontra numerose resistenze. I timori di
presentarsi come vulnerabili nei confronti dell'altro, di cui si nutre poca fiducia, sembra
essere molto congruente con il modello di salute cui siamo esposti. In una società dove è
necessario mostrarsi autonomi, indipendenti e vincenti, solo la dimensione biologica della
patologia può essere socialmente accettata. Mostrarsi invece vulnerabili e dipendenti
dall'altro in un contesto comunitario non è ancora accettato nonostante tra i motivi
principali di sofferenza delle persone ci siano proprio la solitudine e la mancanza di legami
solidali. Non solo, nei casi in cui le persone hanno partecipato, l'esperienza è stata valutata
positivamente.
In base a quanto fino ad ora detto, la terapia comunitaria si propone più che come uno
strumento terapeutico come una proposta culturale, il cui obiettivo è quello di contribuire
alla costruzione di un altro paradigma di salute all'interno della società. A tal fine è
necessario avere la possibilità di contare su un periodo di tempo lungo per consentire che
tale esperienza possa essere conosciuta dalle persone e radicarsi nel loro modo di intendere
la propria salute e malattia.
Inoltre, anche se i dati fino ad ora raccolti non sono in grado di dimostrarlo con chiarezza,
la terapia comunitaria può essere un utile strumento attraverso il quale produrre 'diagnosi di
comunità' in maniera partecipata (97).
Infine, per quanto riguarda l'esperienza descritta, è necessario restituire i dati fino ad ora
raccolti alla comunità che li ha generati e riflettere collettivamente sul loro significato.
Inoltre, è auspicabile che a questa iniziale valutazione di processo possa seguirne una in
113
grado di mostrare il possibile impatto sulla salute delle persone. A tal fine è necessario
trovare strumenti di valutazione idonei sapendo che capire come valutare questo tipo di
esperienza è già parte del processo stesso di ricerca.
Considerando sia le criticità che le opportunità emerse da questa esperienza, chi scrive
auspica che lo strumento della TCI possa essere introdotto, in via sperimentale, all'interno
delle attività di promozione della salute proposte dal Servizio Sanitario Nazionale.
Considerate le difficoltà economiche e di rinnovamento culturale in cui attualmente versa la
Sanità pubblica in Italia, mantenersi aperti a stimoli che provengono da altri contesti, e in
questo caso da paesi considerati in “via di sviluppo”, può rappresentare una risorsa su cui
poter contare (106). Inoltre, gli incontri di TCI permettono di entrare in contatto con un
numero elevato di persone e con i loro bisogni in salute con un basso investimento di
risorse economiche. Infatti, per consentire lo svolgimento di un incontro di TCI sono
necessari solo uno spazio sufficientemente ampio e una persona formata come facilitatore.
Infine, riuscire ad intercettare la sofferenza sociale delle persone, prima che questa si
traduca in un bisogno sanitario, permetterebbe un ulteriore risparmio. Sottolineare i
possibili vantaggi economici che gli interventi di TCI potrebbero avere non risponde nel
modo più assoluto al pensiero oggi dominante di vincolare la salute delle persone alle
esigenze economiche ma vuole evidenziare come la volontà di integrare l'attuale paradigma
di riferimento con altri in grado di considerare l'essere umano nella sua complessità, non
corrisponde solo ad istanze ideologiche ma anche e soprattutto ad esigenze sociali concrete.
114
CONCLUSIONI
La conclusione di questa tesi coincide con la fine di un ciclo di formazione e crescita
personale che è iniziato circa nove anni fa. Ero al quarto anno di studi in medicina quando
iniziai ad interrogarmi sul sapere medico e il ruolo che come medico avrei dovuto svolgere
all'interno della società. Sentivo chiaramente che interrogarmi su “che tipo di medico” sarei
voluto essere coincideva perfettamente con il “tipo di persona” che sarei voluto diventare.
Da quel momento in poi, ho deciso che avrei mantenuto unite la mia crescita personale con
la mia formazione professionale. Mosso da questa “urgenza” interiore ho iniziato a
sconfinare continuamente dal percorso di studi ufficiale previsto dal curriculum di
medicina. Sempre manchevole di qualcosa, ho continuato a cercare, e più cose scoprivo più
cose volevo cercare; e ho continuato così da allora fino ad oggi. Non avevo chiari obiettivi
da raggiungere né percorsi predeterminati da seguire, solo vaghi impulsi e una “sana
inquietudine” che mi ha portato a incontrare numerosi compagni di viaggio e altrettanti
maestri di vita. Tutto, o quasi tutto, quello che ne è scaturito è sintetizzato in questa tesi.
Il tentativo di questa discussione è stato quello di sostenere la tesi secondo la quale gli
interventi di partecipazione comunitaria possano essere visti come uno strumento valido di
Sanità pubblica per contrastare le diseguaglianze in salute. A tal fine si è scelto di portare la
descrizione di un'esperienza concreta, quella della cura comunitaria. Partendo dalla
consapevolezza che tale approccio affondava le sue radici teoriche all'interno dell'ambito
della psicologia - e quindi apparentemente fuori da quello della Sanità pubblica - si è
tentato, soprattutto attraverso il primo capitolo, di mettere in discussione la visione
prevalente della realtà cui siamo sottoposti che vede l'essere umano smembrato in tante
parti, tante quante sono le discipline che lo studiano.
Utilizzando le riflessioni proprie della filosofia, e soprattutto quelle dell'esistenzialismo e
della fenomenologia, si è tentato di ricomporre e presentare l'essere umano nella sua
interezza, restituendo ad esso la sua soggettività e corporeità. Partendo dal presupposto che
che la scissione mente/corpo, con la quale comunemente ci pensiamo, è frutto di una
costruzione culturale e non un dato ontologico, è stata proposta una visione della realtà che
integra la mente con il corpo e l'individuo con la società. Con questa operazione, pur
riconoscendo l'utilità dei contributi scientifici riguardanti l'essere umano, si è passati da una
visione dell'essere umano considerato solo come corpo biologico ad una che lo considera
come un corpo che vive in relazione con il mondo.
Secondo questa visione, è possibile parlare di malattia quando si verifica una separazione,
115
un'interruzione, tra l'individuo e il mondo con il quale è in relazione; non solo, oltreché
essere conseguenza di questo alterato rapporto, la malattia può essere la causa
dell'interruzione della relazione tra l'individuo e il mondo. Abbiamo definito 'alienazione'
questo alterato rapporto. Se questo può essere sia causa che conseguenza di patologia,
possiamo definire “in salute” un essere umano in grado di entrare in relazione con il
mondo, accessibile a se stesso e in grado di imprimere alla propria vita una direzione
cosciente tesa al pieno sviluppo delle sue capacità. In altre parole, un essere umano
relazionale, che ha bisogno dell'altro per diventare ciò che è, per esistere.
L'essere umano può definirsi in salute se messo nella condizione di esistere, e ciò può
avvenire solo nella relazione.
É su questa idea di persona che si basano gli interventi di partecipazione comunitaria: fare
in modo che, attraverso la relazione con l'altro, la persona possa appropriarsi di sé e del
mondo in cui vive.
Visto che tale visione considera l'essere umano all'interno di uno spazio sociale reale,
questo approccio non può prescindere dall'interrogarsi sul tipo di società nella quale le
persone vivono. Una società in cui queste non sono messe nelle condizioni di esprimere le
proprie capacità personali in relazione con l'altro, è in qualche modo patogena.
Il secondo capitolo ha cercato di dimostrare come la visione di un essere umano sociale e
relazionale sia stata in parte fatta propria anche dalla Sanità pubblica attraverso le storiche
dichiarazioni di Alma Ata (1978) e Ottawa (1986). In entrambe vi sono chiari riferimenti al
ruolo che la comunità ha nel promuovere la salute delle persone e al contesto sociale nel
quale esse vivono. Inoltre concetti quali 'partecipazione' ed 'empowerment' vengono
considerati centrali nei processi di promozione della salute. Interessante notare come una
persona con bassi livelli di empowerment venga descritta come alienata e incapace di
acquisire potere circa i fattori che determinano la propria esistenza; molto simile a quanto
affermato nel primo capitolo circa l'alterato rapporto dell'individuo con il mondo.
Con la teoria dei determinanti sociali della salute è stato possibile dimostrare come
individui con bassi livelli di empowerment e capitale sociale abbiano anche livelli di salute
peggiori. La distribuzione iniqua del potere all'interno della società è considerata tra le
cause principali di sviluppo di diseguaglianze nella salute. Proprio per questo, la stessa
Organizzazione Mondiale della Salute, ha inserito gli interventi di partecipazione
comunitaria tra quelli da mettere in atto per il contrasto alle diseguaglianze.
Ad oggi, nonostante la riflessione scientifica sulla partecipazione comunitaria risalga ormai
a più di trent'anni fa, quest'approccio stenta ancora ad entrare nella prassi comune di Sanità
116
pubblica.
Le principali difficoltà relative all'implementazione degli interventi di partecipazione
comunitaria sono rappresentate soprattutto da:
• ostacoli culturali: il paradigma di riferimento imperante nell'assistenza sanitaria è
ancora di tipo biomedico;
• ostacoli organizzativi: coinvolgere la comunità e favorirne la partecipazione
richiede tempo e i risultati in termini di salute non sono immediati;
• ostacoli metodologici: l'organizzazione e la valutazione degli interventi di
partecipazione comunitaria richiedono delle competenze diverse da quelle
comunemente utilizzate di tipo strettamente epidemiologico. Utilizzare un modo
diverso di concepire e valutare gli interventi richiede un cambio di paradigma di
riferimento;
• ostacoli di tipo formativo: il percorso formativo degli operatori della salute non
prevede la costruzione di competenze da utilizzare all'interno della comunità, ciò
comporta che il personale sanitario non ha usualmente la preparazione necessaria
per affrontare i contesti comunitari.
A queste, se ne può aggiungere anche una più generale di tipo politico-economico. Il lavoro
con la comunità, e l'approccio teorico di riferimento, è in contrasto con la visione attuale
della salute, vista più come un bene economico che non come un diritto da tutelare. Come
già affermato durante il testo, è stato proprio il passaggio dalla salute come diritto alla
salute come merce, avvenuta immediatamente dopo la Conferenza di Alma Alta, a
depotenziare l'ascesa degli interventi di partecipazione comunitaria all'interno del mondo
della Sanità pubblica.
Oggi, la situazione non sembra essere cambiata molto, infatti la maggior parte degli
interventi di Sanità pubblica sembrano sposare la logica del sistema economico dominante,
cioè danno priorità a progetti centrati sui rischi immediati e con benefici a breve termine,
con un'enfasi tutta spostata sulla responsabilità individuale circa gli esiti in salute della
popolazione (tabella n. 4).
117
Le difficoltà sopra descritte sono anche quelle incontrate durante l'esperienza della cura
comunitaria raccontata nel terzo capitolo. Nel descriverle farò riferimento anche alla mia
esperienza personale, parlando di questa in prima persona.
Come affermato più volte nel testo, progetti di questo tipo hanno bisogno di diversi anni
prima che possano iniziare a manifestare le loro potenzialità. Il tempo è sicuramente un
aspetto dirimente in questa esperienza e, dopo circa 18 mesi, non è certo possibile trarre
delle conclusioni definitive in merito.
Le difficoltà più evidenti sono state quelle di tipo culturale e formativo. Le aspettative delle
persone erano soprattutto di tipo sanitario. Ciò sembra confermare l'ipotesi secondo cui
siamo ormai abituati a concepire la nostra salute e malattia soprattutto attraverso l'approccio
biomedico. L'influenza di tale modello si è registrata anche nelle resistenze che le persone
hanno dimostrato di avere nei confronti di uno spazio collettivo di condivisione delle
proprie esperienze. Lo spazio di cura comunemente pensato è quello che prevede una
relazione privata e duale tra medico e paziente; fare riferimento invece, anche a spazi
collettivi di cura, non sembra essere ancora una risorsa su cui poter fare affidamento. Nel
contesto specifico, le persone hanno anche dichiarato di non voler condividere la propria
vulnerabilità a causa di un sentimento di scarsa fiducia nei confronti degli altri abitanti del
palazzo. Questo aspetto deve essere considerato non solo come una difficoltà, ma anche e
118
Tabella 4. Due diversi orientamenti della Sanità pubblica. Fonte: R. Beaglehole, R. Bonita: “La Sanità pubblica al bivio”. Centro Scientifico Editore, 2001- pg. 234, modificato da M. Marceca
soprattutto come un problema sul quale agire e far riflettere le persone. Ciò che accade in
questi contesti, ma anche nella società in generale, è che quando le persone sperimentano
stati di sofferenza tendono ad isolarsi piuttosto che cercare aiuto nella comunità,
contribuendo così ad alimentare il problema piuttosto che risolverlo. Gli interventi di
partecipazione comunitaria, e la TC nello specifico, hanno come principale obiettivo
proprio quello di favorire la costruzione di comunità accoglienti e aumentare la percezione
di fiducia che le persone hanno nei loro confronti.
Io e le altre persone coinvolte nella facilitazione degli incontri, tutti medici o studenti in
medicina, anche se eravamo in possesso di una buona preparazione teorica sui principi
propri della Primary Health Care e della Promozione della salute, abbiamo avuto diverse
difficoltà iniziali nello spiegare chiaramente cosa volessimo fare durante gli incontri.
In base alla mia esperienza personale, abbiamo avuto un basso livello di flessibilità e
pazienza. Alle prime difficoltà è sopraggiunta subito la frustrazione e il gruppo iniziale di
persone si è disgregato. Come descritto nel paragrafo relativo alla ricerca-azione, stare in
contesti comunitari richiede un elevato lavoro su se stessi in termini soprattutto di
flessibilità, pazienza, ascolto e umiltà. Il tempo è necessario affinché si possa generare
fiducia nelle relazioni con le persone: ciò richiede essere presenti e saper assecondare i
processi. La formazione cui veniamo sottoposti come medici va esattamente nella direzione
contraria. Un buon medico deve risolvere in fretta i problemi che gli si presentano ed è
abituato ad avere a disposizione tutte o quasi tutte le risposte per ogni difficoltà. Non siamo
educati a stare nell'incertezza e nel dubbio, anzi, qualora questi si presentino sono
considerati come segnali di malfunzionamento. Come ho cercato di descrivere durante il
testo, negli interventi di comunità l'incertezza è invece la normalità.
Dopo questo primo periodo di tempo, il cambiamento più grande fino ad ora avvenuto è
sicuramente di tipo relazionale. Grazie alla presenza costante in questi mesi, si è potuto
creare un legame di fiducia e rispetto reciproci. E forse, quello che fino ad ora ne ha
beneficiato maggiormente, sono stato io. Incontrare le persone a partire dalle proprie
difficoltà di vita quotidiane mi ha restituito all'umanità, o come direbbe Barreto mi ha
curato dalla mia “alienazione universitaria”. Tutto ciò ha contributo a generare un senso di
solidarietà e di amicizia tra me e alcune delle persone che più assiduamente partecipano
agli interventi. Tutto questo per il momento non sarà scientificamente significativo, ma
umanamente lo è senz'altro.
E forse è proprio questo uno degli esiti più importanti della ricerca. In un momento storico
in cui l'evidenza scientifica è soprattutto al servizio dell'efficienza economica, condividere
119
un risultato “umanamente significativo” è uno dei modi attraverso cui ricordare ai
professionisti della Sanità pubblica che la società e i contesti di vita non possono essere resi
“neutri”; essi ci chiamano invece a prendere posizione e a mettere le nostre competenze
tecniche e capacità umane al servizio delle persone che vivono all'interno delle comunità
con cui si interagisce.
Portare gli operatori della Sanità pubblica vicino alle persone e stimolarli a riscoprire il loro
ruolo politico e sociale, oltreché tecnico, è il proposito con cui si conclude questo scritto;
con la consapevolezza che questi aspetti hanno caratterizzato la Sanità pubblica sin dalla
sua nascita, quanto fino ad ora detto più che proporre aspetti innovativi, vuole
semplicemente incoraggiare un nuovo uso di vecchie facoltà.
120
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RINGRAZIAMENTI
Nel corso dei miei approfondimenti sulla ricerca-azione mi sono imbattuto sul significato
della parola gratitudine, questa viene dal latino 'gratus' che vuol dire riconoscente. Essere
riconoscenti vuol dire sia ringraziare sia ritornare sulle cose che già conosciamo, cioè
conoscerle una seconda volta: ri-conoscerle appunto. Esercitarci a ri-conoscere quello che
supponiamo già di conoscere, vedere, ascoltare, amare, credo possa aiutare a ritornare
sulle proprie certezze, non darle per scontate, e a vedere la realtà con occhi sempre nuovi.
Per questa ragione, i ringraziamenti che seguono non sono solo espressione di
riconoscenza nei confronti delle persone che ho sentito particolarmente vicine in questo
percorso ma anche un mio personale esercizio per continuare a viverle sempre “come
nuove” e per cercare di non darle per scontate.
Inizio con il Prof. Tarsitani. Ho avuto già altre occasioni per ringraziarlo e per dirgli
quanto sia stato importante per la mia formazione. Il primo giorno di specializzazione mi
disse che la Sanità pubblica era un campo vasto e mi consigliò di perdermi dentro di essa.
Ho seguito il suo consiglio: mi sono perso, e questa tesi ha voluto essere soprattutto un
tentativo di ripercorrere all'indietro il percorso fatto. Gli sarò per sempre riconoscente per
questo, poiché credo che per conoscere qualcosa su noi stessi e su ciò che vogliamo
imparare dovremmo concederci tutti la possibilità di perderci nella vita. Il Prof, attraverso
la sua postura etica in ciò che faceva, prima che un buon medico di Sanità pubblica, mi ha
insegnato ad essere una persona. Porterò con me la sua capacità di relazionarsi con
rispetto con tutte le persone che incontrava, chiunque queste fossero.
Maurizio Marceca. L'etichetta, forse, mi “obbligherebbe” a chiamarlo Professore ma
l'amicizia costruita tra noi in questi anni, mi porta a volerlo chiamare per nome. Ho
conosciuto Maurizio nel suo studio, all'università, un 31 dicembre di circa dieci anni fa.
All'epoca ero uno studente di medicina in crisi, crisi scaturita nel vedere una forte
mancanza di umanità e passione per gli esseri umani in chi mi doveva insegnare ad essere
un medico. Quando entrai nel suo studio, vidi un professore con i baffi e gli occhi
sorridenti. Una persona accogliente e attenta all'altro, e tutto nel suo studio faceva (e fa)
trasparire questa attenzione. Mobili in legno, piante, un tavolo rotondo e una macchina per
offrire il caffè agli ospiti. Oltre a colpirmi da un punto di vista umano, in quell'occasione
mi fece vedere un rapporto sulla Salute Globale dove si parlava di determinanti e
diseguaglianze sociali di salute. Esclamai che quello era ciò che io volevo fare! Da
quell'incontro sono passati diversi anni e io ho avuto la fortuna di crescere insieme a lui.
Un'altra persona con la quale ho avuto la fortuna di crescere insieme in questi anni è stata
129
Giulia, Giulia Civitelli. Giulia mi ha insegnato a ringraziare. All'inizio la prendevo in giro
perché diceva sempre “Grazie e scusa” quasi per ogni cosa; poi ho capito... Condividendo
la passione per l'insegnamento della Salute Globale abbiamo imparato a lavorare insieme,
riuscendo a valorizzare l'uno le caratteristiche dell'altra. In tal senso, porterò con me i
silenzi di Giulia quando iniziavo a “spararle grosse” per eccessi di entusiasmo; in quelle
occasioni, mi guardava, rimaneva in silenzio e poi trasformava quella che sarebbe dovuta
essere una sua frase esclamativa in una interrogativa per farmi riflettere un po'... Spero
proprio di beneficiare ancora dei suoi silenzi.
Come ho scritto nella premessa, questa tesi è il frutto di un percorso di vita che si estende
oltre quello previsto dalla scuola di specializzazione. Nei miei sconfinamenti di questi anni
ho avuto la fortuna di incontrare persone fantastiche alle quali devo moltissimo. Tra queste
c'è sicuramente Nicola Valentino, grazie al quale ho scoperto e approfondito l'ambito
dell'analisi istituzionale e vissuto quell'esperienza fantastica che ha dato vita al libro
“Medici senza camice. Pazienti senza pigiama”. Ciò per cui mi sento di ringraziare Nicola
è soprattutto per avermi mostrato, forse senza nemmeno volerlo fare intenzionalmente,
l'importanza che hanno le piccole cose che accadono nella vita e nel campo di ricerca.
Grazie a lui ho iniziato ad interrogare la mia vita e il campo di ricerca con un approccio
diverso, accogliendo le cose apparentemente insignificanti, vedendo le sfumature. Averlo
incontrato mi ha concesso di introdurre la creatività nella ricerca.
Un altro maestro “irregolare” è stato Roberto Tecchio. Come dico sempre, l'incontro con
Roberto mi ha concesso di iniziare a sentire la vita dal “collo in giù”. Quello che voglio
dire è che prima del suo incontro ero abituato ad osservare la realtà e me stesso
soprattutto utilizzando la razionalità. Tutto doveva avere un senso ed essere in qualche
modo coerente. Grazie a Roberto sono entrato in contatto con la mia umanità, le mie
vulnerabilità, incertezze, difetti, e anche la tenerezza e la dolcezza. Oltre a questo, grazie a
lui ho scoperto l'ambito della “facilitazione” dei gruppi e la comunicazione nonviolenta
che mi hanno consentito di avere le competenze necessarie per lanciarmi negli incontri di
cura comunitaria.
E poi non posso non ringraziare anche Daniela e Alberto. Ringrazio Daniela perché sa
ridere di gusto (ha una risata fragorosa) e riesce a 'immaginare a colori'. Inoltre, lei come
Roberto, mi ha trasmesso delle competenze importanti riguardanti la facilitazione dei
gruppi. Ringrazio Alberto, per essere una persona indomita e pacata allo stesso tempo.
Spero un giorno di avere anche io la stessa forza. Li ringrazio entrambi per le magnifiche
cene che sanno offrire ogni volta nella loro casa: sono dei fantastici interpreti di come si
130
possa fare una “rivoluzione” conviviale!
Ringrazio poi quella che fino a poco tempo fa è stata la mia comunità di riferimento: i
medici senza camice. Senza questa magnifica esperienza di gruppo, non avrei neanche
lontanamente potuto immaginare di scrivere qualcosa sulla “comunità” o sul “corpo
comunitario”. Grazie a loro, ho sentito sulla mia carne, sul mio corpo, cosa voglia dire
sentirsi parte di una comunità, fare corpo insieme. Medicisenzacamice, vi ringrazio con
tutto me stesso.
Infine, ringrazio Susy alla quale dedico questa tesi. La ringrazio per quello che abbiamo
deciso e stiamo scegliendo di essere insieme. E soprattutto...ha avuto la pazienza di
ascoltarmi quando le leggevo quello che avevo scritto!
Di tutte queste fantastiche persone, e molte altre che non ho nominato, si compone la mia
vita. Le ringrazio ora tutte insieme, perché tutte loro sono accomunate da un forte amore
per la vita, per gli essere umani e per quello che fanno. Spero, in qualche modo, di riuscire
a fare lo stesso anche io e di restituire loro quanto di buono mi hanno saputo donare.
Con amore,
ale
131
ALLEGATO 1- La dichiarazione di Alma Ata “Declaration of Alma-Ata International
Conference on Primary Health Care, Alma-Ata”, USSR, September, 1978 ”
1. The conference strongly reaffirms that health is a fundamental human right and that
the attainment of the highest possible level of health requires the action of many
other social and economic sectors in addition to the health sector.
2. The existing gross inequality in the health status of the people is politically,
socially, and economically unacceptable.
3. Economic and social development is of basic importance to the fullest attainment
of health and the health of the people is essential to sustained economic and social
development and contributes to a better quality of life and to world peace.
4. The people have the right and duty to participate individually and collectively in
the planning and implementation of their health care.
5. Governments have a responsibility for the health of their people. Primary health
care is the key to attaining this target as part of development in the spirit of social
justice.
6. Primary health care is essential health care based on practical, scientifically sound,
and socially acceptable methods and technology made universally accessible to
individuals and families in the community through their full participation and at a
cost that the community and country can afford to maintain at every stage of their
development in the spirit of self-reliance and self-determination. It forms an
integral part both of the country’s health system, of which it is the central function
and main focus, and of the overall social and economic development of the
community. It is the first level of contact of individuals, the family, and community
with the national health system, bringing health care as close as possible to where
people live and work, and constitutes the first element of a continuing health-care
process.
7. Primary health care: (1) reflects and evolves from the economic conditions and
sociocultural and political characteristics of the country and its communities and is
based on the application of the relevant results of social, biomedical, and health
services research and public health experience; (2) addresses the main health
problems in the community, providing promotive, preventive, curative, and
132
rehabilitative services accordingly; (3) includes at least: education concerning
prevailing health problems and the methods of preventing and controlling them;
promotion of food supply and proper nutrition; an adequate supply of safe water
and basic sanitation; maternal and child health care, including family planning;
immunisation against the major infectious diseases; prevention and control of
locally endemic diseases; appropriate treatment of common diseases and injuries;
and provision of essential drugs; (4) involves, in addition to the health sector, all
related sectors and aspects of national and community development, in particular
agriculture, animal husbandry, food, industry, education, housing, public works,
communications, and other sectors; and demands the coordinated efforts of all
those sectors; (5) requires and promotes maximum community and individual self-
reliance and participation in the planning, organisation, operation, and control of
primary health care, making fullest use of local, national, and other available
resources; and to this end develops through appropriate education the ability of
communities to participate; (6) should be sustained by integrated, functional, and
mutually supportive referral systems, leading to the progressive improvement of
comprehensive health care for all, and giving priority to those most in need; (7)
relies, at local and referral levels, on health workers, including physicians, nurses,
midwives, auxiliaries, and community workers as applicable, as well as traditional
practitioners as needed, suitably trained socially and technically to work as a health
team and to respond to the expressed health needs of the community.
8. All governments should launch and sustain primary health care as part of a
comprehensive national health system in coordination with other sectors.
9. All countries should cooperate in a spirit of partnership and service to ensure
primary health care for all people since the attainment of health by people in any
one country directly concerns and benefi ts every other country.
10. An acceptable level of health for all the people of the world by the year 2000 can
be attained through a fuller and better use of the world’s resources, a considerable
part of which is now spent on armaments and military conflicts. A genuine policy
of independence, peace, détente, and disarmament could and should release
additional resources that could well be devoted to peaceful aims and in particular to
the acceleration of social and economic development of which primary health care,
as an essential part, should be allotted its proper share.
133
ALLEGATO 2- La carta di Ottawa “The Ottawa Charter for Health Promotion. First
International Conference on Health Promotion, Ottawa, 21 November 1986”
Health promotion is the process of enabling people to increase control over, and to improve,
their health. To reach a state of complete physical, mental and social well-being, an
individual or group must be able to identify and to realize aspirations, to satisfy needs, and
to change or cope with the environment. Health is, therefore, seen as a resource for
everyday life, not the objective of living. Health is a positive concept emphasizing social
and personal resources, as well as physical capacities. Therefore, health promotion is not
just the responsibility of the health sector, but goes beyond healthy life-styles to well-being.
Prerequisites for Health
The fundamental conditions and resources for health are:
• peace,
• shelter,
• education,
• food,
• income,
• a stable eco-system,
• sustainable resources,
• social justice, and equity.
Improvement in health requires a secure foundation in these basic prerequisites.
Advocate
Good health is a major resource for social, economic and personal development and an
important dimension of quality of life. Political, economic, social, cultural, environmental,
behavioural and biological factors can all favour health or be harmful to it. Health
promotion action aims at making these conditions favourable through advocacy for health.
Enable
Health promotion focuses on achieving equity in health. Health promotion action aims at
reducing differences in current health status and ensuring equal opportunities and resources
to enable all people to achieve their fullest health potential. This includes a secure
134
foundation in a supportive environment, access to information, life skills and opportunities
for making healthy choices. People cannot achieve their fullest health potential unless they
are able to take control of those things which determine their health. This must apply
equally to women and men.
Mediate
The prerequisites and prospects for health cannot be ensured by the health sector alone.
More importantly, health promotion demands coordinated action by all concerned: by
governments, by health and other social and economic sectors, by nongovernmental and
voluntary organization, by local authorities, by industry and by the media. People in all
walks of life are involved as individuals, families and communities. Professional and social
groups and health personnel have a major responsibility to mediate between differing
interests in society for the pursuit of health.
Health promotion strategies and programmes should be adapted to the local needs and
possibilities of individual countries and regions to take into account differing social,
cultural and economic systems.
Health Promotion Action Means:
Build Healthy Public Policy
Health promotion goes beyond health care. It puts health on the agenda of policy makers in
all sectors and at all levels, directing them to be aware of the health consequences of their
decisions and to accept their responsibilities for health.
Health promotion policy combines diverse but complementary approaches including
legislation, fiscal measures, taxation and organizational change. It is coordinated action that
leads to health, income and social policies that foster greater equity. Joint action contributes
to ensuring safer and healthier goods and services, healthier public services, and cleaner,
more enjoyable environments.
Health promotion policy requires the identification of obstacles to the adoption of healthy
public policies in non-health sectors, and ways of removing them. The aim must be to make
the healthier choice the easier choice for policy makers as well.
Create Supportive Environments
Our societies are complex and interrelated. Health cannot be separated from other goals.
The inextricable links between people and their environment constitutes the basis for a
135
socioecological approach to health. The overall guiding principle for the world, nations,
regions and communities alike, is the need to encourage reciprocal maintenance - to take
care of each other, our communities and our natural environment. The conservation of
natural resources throughout the world should be emphasized as a global responsibility.
Changing patterns of life, work and leisure have a significant impact on health. Work and
leisure should be a source of health for people. The way society organizes work should help
create a healthy society. Health promotion generates living and working conditions that are
safe, stimulating, satisfying and enjoyable.
Systematic assessment of the health impact of a rapidly changing environment - particularly
in areas of technology, work, energy production and urbanization - is essential and must be
followed by action to ensure positive benefit to the health of the public. The protection of
the natural and built environments and the conservation of natural resources must be
addressed in any health promotion strategy.
Strengthen Community Actions
Health promotion works through concrete and effective community action in setting
priorities, making decisions, planning strategies and implementing them to achieve better
health. At the heart of this process is the empowerment of communities - their ownership
and control of their own endeavours and destinies.
Community development draws on existing human and material resources in the
community to enhance self-help and social support, and to develop flexible systems for
strengthening public participation in and direction of health matters. This requires full and
continuous access to information, learning opportunities for health, as well as funding
support.
Develop Personal Skills
Health promotion supports personal and social development through providing information,
education for health, and enhancing life skills. By so doing, it increases the options
available to people to exercise more control over their own health and over their
environments, and to make choices conducive to health.
Enabling people to learn, throughout life, to prepare themselves for all of its stages and to
cope with chronic illness and injuries is essential. This has to be facilitated in school, home,
work and community settings. Action is required through educational, professional,
commercial and voluntary bodies, and within the institutions themselves.
136
Reorient Health Services
The responsibility for health promotion in health services is shared among individuals,
community groups, health professionals, health service institutions and governments.
They must work together towards a health care system which contributes to the pursuit of
health. The role of the health sector must move increasingly in a health promotion
direction, beyond its responsibility for providing clinical and curative services. Health
services need to embrace an expanded mandate which is sensitive and respects cultural
needs. This mandate should support the needs of individuals and communities for a
healthier life, and open channels between the health sector and broader social, political,
economic and physical environmental components.
Reorienting health services also requires stronger attention to health research as well as
changes in professional education and training. This must lead to a change of attitude and
organization of health services which refocuses on the total needs of the individual as a
whole person.
Moving into the Future
Health is created and lived by people within the settings of their everyday life; where they
learn, work, play and love. Health is created by caring for oneself and others, by being able
to take decisions and have control over one's life circumstances, and by ensuring that the
society one lives in creates conditions that allow the attainment of health by all its
members.
Caring, holism and ecology are essential issues in developing strategies for health
promotion. Therefore, those involved should take as a guiding principle that, in each phase
of planning, implementation and evaluation of health promotion activities, women and men
should become equal partners.
Commitment to Health Promotion
The participants in this Conference pledge:
• to move into the arena of healthy public policy, and to advocate a clear political
commitment to health and equity in all sectors;
• to counteract the pressures towards harmful products, resource depletion, unhealthy
living conditions and environments, and bad nutrition; and to focus attention on
public health issues such as pollution, occupational hazards, housing and
settlements;
137
• to respond to the health gap within and between societies, and to tackle the
inequities in health produced by the rules and practices of these societies;
• to acknowledge people as the main health resource; to support and enable them to
keep themselves, their families and friends healthy through financial and other
means, and to accept the community as the essential voice in matters of its health,
living conditions and well-being;
• to reorient health services and their resources towards the promotion of health; and
to share power with other sectors, other disciplines and, most importantly, with
people themselves;
• to recognize health and its maintenance as a major social investment and challenge;
and to address the overall ecological issue of our ways of living.
The Conference urges all concerned to join them in their commitment to a strong public
health alliance.
Call for International Action
The Conference calls on the World Health Organization and other international
organizations to advocate the promotion of health in all appropriate forums and to support
countries in setting up strategies and programmes for health promotion.
The Conference is firmly convinced that if people in all walks of life, nongovernmental and
voluntary organizations, governments, the World Health Organization and all other bodies
concerned join forces in introducing strategies for health promotion, in line with the moral
and social values that form the basis of this CHARTER, Health For All by the year 2000
will become a reality.
138
ALLEGATO 3 -Scheda rilevazione dati dei partecipanti agli incontri di Terapia
comunitaria
Organizzazione delle informazioni
Registrazione dei temi proposti, numero dei partecipanti, domande chiave o tema di
riflessione scelto, strategie comunitarie.
Istruzioni: Le informazioni verranno annotate sulla scheda da un membro dell’equipe
durante lo svolgimento di ogni sessione di TC
LUOGO E DATA SVOLGIMENTO INCONTRO: ….....................................................
Numero totale deipartecipanti
Gruppi di età Numero e sesso Numero di nuovipartecipanti
12-18 anni
18-45 anni
45-60 anni
> 60 anni
Temi proposti e tema della riflessione scelto
TEMI PROPOSTI TEMA SCELTO
1.
2.
3.
4.
5.
Etc...
139
Ricercare le somiglianze,
significa mettere in comunicazione le persone,
fare da tramite informativo (e emotivo), amplificare i vissuti e le
esperienze di autonomia e di alleanza,
significa lasciarsi attraversare dalle scelte altrui, farci attraversare
senza resistenze logiche o buoni consigli, farci mettere da parte…
Così ne io, ne altri, abbiamo una utenza: persone da accudire, curare,
cambiare; persone di cui essere responsabili; persone delle cui
esperienze e comunicazioni essere esperti.
Noi vogliamo imparare a vivere gli infiniti luoghi di “mediazione”
interumana in cui si decide la nostra vita, dei nostri vissuti, delle nostre
esperienze (la casa, la piazza, le strade, i mezzi pubblici, le chiese, le
spiagge…).
la vita non può essere guarita: la vita va vissuta.
Giuseppe Bucalo
Dietro ogni scemo c'è un villaggio
Roma, 15 novembre 2014
E finalmente il momento è arrivato. Da giorni pensavo di sedermi con
calma davanti al computer e iniziare a buttare giù questo diario di
ricerca che spero apra un percorso che mi porterà a costruire la mia tesi
di specializzazione e un altro pezzo della mia vita.
Nel frattempo, cioè da quando pensavo di scrivere questo diario per
iniziare a pensare alla mia possibile tesi ad oggi, sono successe alcune
cose molto, ma molto importanti. Provo di seguito a ricostruire la
successione degli eventi per provare a tenere traccia di quello che
succede.
Il 28 ottobre mi sono appuntato sul mio taccuino da passeggio che “mi
piacerebbe sviluppare l’idea di scrivere una tesi con testo a fronte: su
una pagina la tesi, sull’altra il mio diario di ricerca”. L’idea nasce
dalla scelta di noi “medici senza camice” di provare ad avere una sede
dentro lo spazio sociale e abitativo occupato di Santa Croce. Come
gruppo vorremmo proporre delle attività riguardanti la promozione
della salute agli abitanti dello spazio occupato. Avendo letto e riflettuto
molto lo scorso anno sulla pedagogia libertaria di Freire, sulla ricerca-
azione partecipata, sulla analisi istituzionale, sulla psicologia umanista,
sulla complessità e la teoria dei sistemi, e avendo praticato l’approccio
della comunicazione nonviolenta e del focusing avevo pensato che il
modo migliore di proporre qualcosa agli abitanti di Santa Croce fosse
quello di provare a sviluppare un percorso di ricerca-azione.
Inizialmente pensavo a questo percorso come un percorso che mi
implicava come membro del gruppo medici senza camice, poi si è
iniziata a fare strada dentro di me l’idea che avrei potuto inserire questo
percorso di ricerca anche dentro il mio percorso di specializzazione. In
quel momento si è palesata la domanda delle domande “e perché no?” e
perché non pensare a questo percorso come anche un possibile percorso
di tesi di specializzazione? In questo modo potrei dedicargli tutto il
tempo che necessita. Ho accarezzato questa idea con entusiasmo e l’ho
lasciata sedimentare, l’ho lasciata crescere dentro di me. Qualcosa era
stato seminato, e prendendo spunto dalla filosofia del focusing dell’
'essere e assecondare' l’ho lasciata crescere, svilupparsi dentro di me,
dandogli spazio. E poi l’idea del diario del testo a fronte. L’idea è quella
di integrare il linguaggio tecnico-scientifico filtrato dalla razionalità con
un linguaggio soggettivo ed emozionale che sappia leggere lo sviluppo
degli eventi, come questi cambiamo al cambiare di me che li vivo e
come io che li vivo cambio al cambiare degli eventi. Sposando la teoria
della complessità, l’approccio sistemico e prendendo spunto dalle
riflessioni di analisi istituzionale ero e sono alla ricerca di azioni che
sappiamo tradurre in pratica quello che viene detto in teoria. Ho pensato
quindi che scrivere una tesi con testo a fronte consentirebbe di
bilanciare finalmente il linguaggio altrimenti zoppo della scienza. Dare
la possibilità a me che scrivo di farmi correre nelle praterie della mia
immaginazione e soggettività e al lettore di potersi muovere
contemporaneamente su diversi livelli di lettura. In questo modo un
passo di diario completa e colora con sfumature quanto scritto nella
parte di testo scientifico e il testo scientifico prova a sistematizzare
quanto il vento della passione e della soggettività rende a volte
inafferrabile e apparentemente incomprensibile alla ragione. E credo
che sia importante iniziare a produrre queste pratiche se veramente
vogliamo sperare di “essere di più” come essere umani. È importante
per me avere la possibilità di mostrarmi, di mostrare parti di me intime,
farle conoscere e farle entrare in contatto con quello che in superficie si
vede. Credo che la nostra società occidentale, con l’avvento della
tecnica e della scienza abbia relegato le emozioni solamente ad uno
spazio privato, intimo, perdendo il contatto con un inconscio collettivo.
Perdendo il contatto con le altre persone, alienandosi. La mia tesi
vorrebbe essere anche e soprattutto una tesi che parla dell’alienazione
umana e di come si può uscire da questo stato che ci sta portando
all’estinzione, alla mancanza di vita pur vivendo. Vuole essere una tesi
liberatoria, una tesi che aiuti a guarire aprendosi “alla speranza, alla
possibilità di cambiamento, assorbendo il dolore”. Non posso sapere se
ci riuscirò, posso solo dire che adesso in questo momento che scrivo,
sono libero, totalmente in contatto con me stesso e con la possibilità di
essere. Chiudo gli occhi e sento brividi di energia che attraversano il
mio corpo e che mi emozionano e al tempo stesso mi danno forza.
Quando sento questa sensazione è per me l’indizio che non sto
sbagliando che sono in contatto autentico con quello che voglio essere e
che voglio fare. Parlando ancora di questo mio esperimento e tentativo
di mettere insieme ragione ed emozione, coscienza e inconscio, mi
vengono in mente le parole del libro “Anarchismo e Psicologia del
profondo” di Starace, libro che per me è stato importantissimo. In
questo libro Starace afferma che l’umanità è ferma da millenni all’anno
“0” perché priva di un genuino contatto con la sua psiche inconscia.
Egli -continua nel suo testo- è cioè incapace di stabilire e alimentare
quel rapporto dialettico tra i due opposti poli della sua psiche
(coscienza e inconscio) rapporto che solo può consentire la
realizzazione di un autentico divenire, di una vera trasformazione, in
cui consiste propriamente la storia. Con il tentativo del “testo a fronte”
voglio provare a contribuire a mettere in rapporto dialettico questi due
poli opposti: coscienza e inconscio e contribuire alla realizzazione di un
autentico avvenire.
Questa la storia del testo a fronte e della possibilità di fare una tesi
sull’esperienza di ricerca-azione a Santa Croce.
Ora faccio fatica a scegliere come proseguire il racconto.
Iniziamo dalla fine.
Il 13 Novembre sera alle 20.00, Susy, Elisa ed io ci siamo incontrati con
il comitato abitativo di santa croce. Che cosa è il comitato abitativo? È
un gruppo ristretto di rappresentati degli occupanti, quale siano tutte le
sue funzioni non l’ho ancora capito bene. Sicuramente sono un
“organo” di rappresentanza. Siamo andati da loro perché durante le
riunioni dello spazio sociale e gli incontri fortuiti con qualche abitante
c’era stato più volte detto se avremmo fatto attività ambulatoriale.
Anche se sin dall’inizio ci abbiamo tenuto a specificare che non
avremmo fatto attività ambulatoriale, l’aspettativa nei nostri confronti è
stata più forte di quello che in realtà dicevamo e la voce si è sparsa.
Questo incontro con il comitato abitativo ci è servito per chiarire bene
questo aspetto dell’ambulatorio e presentarci un’altra volta. Abbiamo
regalato loro anche il nostro libro con la promessa che ci saremmo
presentati il 20 Novembre a tutta l’assemblea.
Il pomeriggio dello stesso giorno avevo visto un video illuminante
arrivatomi tramite la lista “magma”. Magma è un gruppo nazionale di
medici, studenti in medicina, antropologi e altro, in cerca di qualcosa…
Sono vago perché voglio essere vago, sicuro che in altri momenti avrò
modo di spiegare meglio cosa questo gruppo sia. In questa mail c’era
l’intervista ad un medico brasiliano che aveva fondato un approccio
terapeutico comunitario chiamato “terapia comunitaria sistemico-
integrativa-TCI”. Copio e incollo dal loro sito la definizione di TCI.
“Di cosa si tratta? Si potrebbe pensare che questo è ancora un "nuovo"
modello di terapia di gruppo. Sì e no: Essa affronta le difficoltà e le
sofferenze della vita quotidiana. Essa non pretende di curare la
malattia, basta fare attenzione e accogliere la sofferenza, con la
condivisione delle esperienze di vita. Il suo scopo principale è la
promozione co-partecipativa della salute. È stato creato circa 20 anni
fa dal Dr. Barreto, nel Nord-est brasiliano, città di Fortaleza, col
Progetto Quatro Varas. L'idea principale è che dove ci sono i problemi,
ci sono anche soluzioni, che le carenze e le difficoltà possono portare
alle competenze e che la condivisione di questi può aiutare a far
fronte..Le basi teoriche della TCI sono: la teoria della comunicazione,
il pensiero sistemico, la pedagogia di Paulo Freire, la teoria della
resilienza e l'antropologia culturale. Il gruppo si svolge in sei fasi:
accoglienza, scelta del tema, contestualizzazione, problematizzazione e
condivisione di esperienze e soluzioni, rito di chiusura, tempo di
riflessione tra i facilitatori. Durante la fase introduttiva, le regole sono
chiaramente spiegate: parlando in prima persona "Io", senza giudizi,
consigli o interpretazioni, tacere e ascoltare, utilizzare tutte le risorse
offerte dalla coltura come canzoni, poesie, proverbi, barzellette, ecc …
La scelta democratica del tema assicura ciò che veramente motiva la
maggior parte delle persone presenti. Durante la fase di
"contestualizzazione", la persona il cui tema è stato scelto fornisce
ulteriori dettagli circa la sua situazione, le emozioni, che cosa ha
contribuito al problema, e ciò che è stato fatto per superare. L'intero
gruppo può fare domande, al fine di chiarire la situazione in una
prospettiva sistemica. Poi il facilitatore chiede al gruppo:"Chi di voi ha
già affrontato una situazione simile e cosa avete fatto per superarlo?".
Tutti possono capire che ci sono diverse soluzioni possibili. Questo
favorisce la resilienza e l'autostima.. Il rituale di chiusura consolida i
legami tra i partecipanti ed evidenzia le "perle" nati dalle esperienze di
vita. La valutazione consente ai facilitatori a esaminare criticamente
alla sessione, e raccogliere i dati per la ricerca futura.”
Era tutto lì. Tutto quello che avevo cercato in questi anni a partire dalla
Salute Globale, passando per la Promozione della Salute, la
comunicazione non-violenta, l’analisi istituzionale, lo studio
dell’antropologia, dei sistemi complessi, il focusing. Cercavo delle
pratiche, delle prove tangibili che mi dimostrassero come dare vita a
quelle riflessioni teoriche. Questa dimostrazione, questo segnale è
arrivato giovedì 13 novembre 2014.
Mentre vedevo il video dell’intervista ero entusiasta. Questa la mia
risposta tramite mail a Martina, colei che aveva inviato il messaggio.
“cara Martina,
grazie. Mentre guardavo il video e ascoltavo le parole di Barreto tanta
era l'emozione e l'entusiasmo che sentivo, e ancora sento, che tentavo
di mettere in pausa e iniziare a scrivere.
La parola che mi è venuta in mente quando lo ascoltavo è stata "ecco!"
con la conseguenza sensazione di rilassamento tipica di quando si sta
cercando a lungo una cosa che hai lasciato da qualche parte ma non
riesci proprio a trovare.
Oggi pomeriggio avrei dovuto fare altro. Alle 16,00 mi sarei dovuto
sentire con degli studenti di Bari per costruire la lezione che farò da
loro la prossima settimana. L'incontro è saltato perché hanno avuto
altri impegni; io avevo mail da leggere e altre cose da fare, ma ho
deciso di guardare questo video, che avevo messo da una parte sicuro
che l'avrei visto. Così è stato.
Quando esclamo "ecco!" sto dicendo che ho trovato quello che più o
meno mi girava nella testa e nel corpo da quando ho deciso di fare
medicina. Ciò che mi ha spinto verso l'altro era la profonda passione
per l'essere umano e la percezione di una sofferenza che le persone
vivono e che ancora non si è fatta malattia e che per tale motivo viene
taciuta considerata con fatalismo, così è la vita, se vi pare.
Poi l'esplorazione della salute globale, della promozione della salute,
le metodologie, l'approfondimento sulla relazione, ci stavo girando
intorno, ma forse, grazie alla tua condivisione, ho trovato il vento
giusto (per rimanere nella metafora della mongolfiera a me cara).
Quando esclamo "ecco!" e sento che ho voglia di scriverlo a voi e non
in un'altra lista e non a poche persone è perché credo che, senza voler
interpretare i desideri di ognuna e ognuno di voi, questo è quello che
potremmo fare. Questo è la possibile materializzazione del nostro
percorso di ricerca collettiva.
Questa estate con Nadia abbiamo fatto una chiacchiera sulle pendici
del Monte Disgrazia, mentre Susy e Chiara si avventuravano sulle
rocce più in là. Parlavamo della possibilità di costruire qualcosa di
"nuovo" dove non ci fosse una differenza tra medico e antropologo
(parlo di queste due figure perché sono quelle in cui molte e molti di
noi si identificano) dove ci fosse un'altra figura con diverse competenze
(che noi ci stiamo costruendo, in parte senza saperlo) per stare con le
persone.
Io sento che questa è un'avventura concreta alla nostra portata, credo
che le nostre vite, le nostre esperienze e le nostre riflessioni ci stiano
portando in questa direzione.
Mi piacerebbe provare a parlarne meglio la prossima volta che ci
vediamo tutti insieme. Mi piacerebbe iniziare a pensare a noi come una
comunità di pratica che prova a sperimentare e a sperimentarsi su
questa strada.
Questo per me sarebbe quello che chiamiamo movimento. Ad un certo
punto dell'intervista lui dice questa cosa qua "Abbiamo evitato di
chiamarci centro di formazione perché quando uno si chiama "centro"
vuol dire che ci sono altri che sono in periferia.". Penso alle nostre
conoscenze diffuse e decentrate; all'università popolare e alla sua
possibilità di essere ovunque le persone la vogliano.
Solo su una cosa non sono d'accordo con lui. Continua a riferirsi a
questa esperienza citando e facendo riferimento alla salute mentale. Io
credo che abbia molto più senso parlare di esistenza, di esistere. Le
persone soffrono non perché non hanno salute mentale ma perché non
sono messe nelle condizioni di essere "libere di essere".
Scusate se sono stato lungo ma non ho potuto fare altrimenti.
Mi piace condividere con voi un a riflessione che avevo scritto sul mio
diario durante l'esperienze del cantiere che ha dato vita al libro.
Grazie ancora,
mi piace pensare che senza questo spazio questa mail non l'avrei potuta
mandare e tante altre cose non sarebbero potute succedere.
Ale”
Ho scritto e inviato questa mail di getto, ci sono errori che nel
trascrivere la mail volutamente non ho voluto togliere per dare
concretezza a questa mia impellenza di comunicare.
Copio anche il testo a cui mi riferisco nella mail scritto nel 2012.
“Roma, 16 ottobre 2012
Le cose da scrivere sono tantissime e il tempo è sempre poco,
dannazione!
Dall'ultimo cantiere, da quando ho messo a fuoco con estrema
chiarezza l'esigenza di ripensare e produrre un nuovo sapere medico, la
mia mente lavora costantemente in quella direzione producendo
pensieri a non finire. Avrei voglia di isolarmi per un momento da tutto
il resto e studiare, pensare e scrivere fino allo sfinimento mentre invece
sono strattonato da una parte all'altra da numerose altre attività e
persone che, alla fine, invece di sottrarmi del tempo non fanno altro
che ampliare il mio campo di ricerca. La mia vita è diventata un
cantiere di socioanalisi sull'istituzione sanitaria, cerco di cogliere ogni
più piccolo dettaglio e farlo mio/nostro per rendere l'analisi più
dettagliata possibile per scorgere nelle pieghe della quotidianità
qualche scampolo di verità.
Parto dal viaggio in treno che ho fatto insieme a Susy sabato 13
ottobre. Mi ero portato con me il computer per sbobinare durante il
viaggio l'incontro che avevamo fatto a casa nostra sabato 29 settembre
(e che voi a questo punto avrete già letto). Ero impaziente di riascoltare
e restituire quello che ci eravamo detti perché in quella chiacchierata,
alcune cose che Nicola ha detto, e che più tardi riprenderò, hanno
aperto in me degli spazi di riflessione che mi hanno fatto mettere a
fuoco il processo che stavo vivendo e che hanno fatto maturare la
proposta dell'università popolare che ho poi fatto il giorno dopo.
La cosa sorprendente di cui mi sono accorto riascoltando il dialogo è
che nessuno di noi e soprattutto io ha capito quello che Nicola ci stava
dicendo, eravamo tutti presi a guardare da un'altra direzione. E sono
rimasto colpito dalla pazienza con cui Nicola ci ascoltava senza volerci
tirare con forza nella sua direzione, forse sapeva, che quelle cose
sarebbero arrivate comunque. Ma esattamente, di cosa sto parlando?
Mentre Nicola parlava io ero centrato sulla trasformazione sociale
(sulla rivoluzione! Adesso mi sento così ingenuo anche solo a
pensarlo...) guardavo la linea netta dell'orizzonte ma avevo perso
completamente contatto con la terra fertile che avevo sotto i piedi che
stava solo aspettando di essere seminata con i semi della passione e
dell'immaginazione. Dicevo che ero/eravamo tutti presi a guardare ai
processi sociali globali (giustamente) senza accorgersi che questi ci
portavamo e ci hanno portato fuori strada. Intanto Nicola continuava a
dire cose che pesavamo come macigni e lo faceva con una semplicità
disarmante. Per esempio mentre diceva che -se la relazione
medico/paziente è basata su una relazione di potere prodotta essa
stessa dal sapere medico, se si pensa ad una forma di relazione medico
paziente paritaria necessariamente bisogna ripensare
contemporaneamente ad un nuovo sapere medico e ad una nuova
figura di medico- noi abbiamo continuato con la storia della
dimensione globale! Pazzesco!
Cosa voglio dire con questo, voglio dire che ho messo a fuoco
finalmente (qualcuno potrà dire anche -e ci voleva tanto!-) che la
nostra amata Salute Globale non esiste! É una finzione! La Salute
Globale come la intendiamo noi è di fatto una nuova proposta di sapere
medico. Solamente che questa -la Salute Globale- focalizzandosi,
giustamente, esclusivamente sulla dimensione geo-politico-economica
dei processi di salute e malattia aveva fatto scomparire dal nostro
orizzonte di senso (o almeno dal mio) la persona. Non eravamo in
grado, nessuno di noi, di mettere in contatto la dimensione
microsociale con quella macrosociale. Fatto sta che chi come me si è
innamorato di questa visione della medicina ha scelto di fare Sanità
Pubblica perché riteneva che solo in questo modo potesse esplorare gli
aspetti sociali della salute e della malattia (hai visto mai che non mi
rimetta a fare il medico clinico da tutt'altro punto di vista...). La Salute
Globale si propone più come una nuova proposta disciplinare, un
nuovo sguardo sulla salute e sulla malattia, ma non ha mai esplicitato
il suo tentativo di gettare le basi per un nuovo sapere medico, mentre
adesso questo mi sembra un passaggio fondamentale. Adesso, infatti,
guardandola dal punto di vista dove sono ora credo di averne una
visione completa riuscendo a mettere insieme sia il micro che il macro.
Il motivo per il quale la Salute Globale era ed è poco capita e guardata
con scetticismo dagli studenti in medicina è perché rimane fumosa.
Fornisce elementi di analisi critica della realtà nella quale le persone
vivono e nella quale si ammalano ma non dà, perché non ce l'ha, una
narrazione concreta del suo immaginario. Sembra una cosa che ha che
fare solo con la cooperazione internazionale o con la salute pubblica.
Avendo fatto mio quindi il pensiero che non possiamo aspettare che
cambi l'intera struttura sociale per iniziare a pensare un nuovo sapere
medico ho iniziato a pensare che dobbiamo iniziare a farlo ora. E visto
e considerato che, parafrasando Basaglia, con la Salute Globale
sappiamo che il contesto sociale ammala le persone e che quindi non
possiamo curare delle persone in contesto sociale patologico, noi
abbiamo il compito di pensare ad una relazione di cura che metta in
luce con forza l'impossibilità a curare le persone in questa società e
che l'attuale medicina di fatto non cura le persone ma ne silenzia solo i
sintomi, le fa sopravvivere alla malattia ma non le fa ritornare a vivere.
Dobbiamo pensare ad un sapere medico che riscopra l'essere sociale
della persona (la persona è sociale come dice Nicola) nel processo di
cura. Se la persona è una persona sociale dobbiamo iniziare a
smetterla di considerare la relazione terapeutica come una relazione
duale ma iniziare a considerare l'idea di una relazione di cura
collettiva, familiare, amicale, sociale. In una società che ci vuole e ci
rende soli, non permettendoci nemmeno di immaginare che un processo
di cura possa avvenire all'interno del contesto familiare o gruppale
(sociale) della persona ammalata, un nuovo sapere medico che affermi
la sua impossibilità a curare in un contesto malato e chi opponga a
farlo rifiutandosi di silenziare semplicemente il sintomo e la sofferenza
è un sapere medico che avrà un impatto necessariamente trasformante
non solo all'interno della medicina ma all'interno della società stessa.
Quindi (se ha ancora un senso esprimersi con i quindi in ottica
puramente razionalista causa-effetto) una relazione di cura paritaria ci
porta a ripensare un sapere medico differente e un medico differente,
questo nuovo sapere medico ricollegandosi e riscoprendo la società e
scoprendola patologica ha il dovere di affermare che per poter curare
la sofferenza umana e le persone è necessario immaginare un'altra
società. Ammettendo questo i medici sono costretti a cedere il loro
potere. Infatti, il potere dei medici è tale perché sembra
apparentemente dipendere solo da loro. La sensazione comune è che
siano i medici a sapere tutto della vita e della morte e sapendo tutto
della vita e della morte sono anche gli unici in grado di poter disporre
della vita e della morte altrui. Ammettendo invece che così non è, che è
impossibile guarire le persone considerando solo la loro parte
biologica e non quella sociale devono ammettere di essere limitati nei
loro poteri. L'istituzione sanitaria oso dire è presente in tutti gli ambiti
della nostra vita quotidiana al punto tale che questa coincide con la
società stessa nella quale viviamo. In questo modo noi tutti veniamo
considerati e siamo obbligati a comportarci come se avessimo solo un
corpo biologico, avendo perso ormai (nella maggior parte dei casi) il
contatto con il nostro corpo sociale. É per questo motivo che i medici
detengono un così elevato potere sociale (ed è per questo motivo che
noi siamo dei medici senza camice), perché gli è stato dato potere
illimitato su dei corpi biologici e quindi sulla società. Nel momento in
cui saranno i medici stessi a produrre un sapere che richiede la
riappropriazione del corpo sociale nei processi di cura, questi
cederanno il loro potere e nel farlo potranno intaccare l'immaginario
istituito su cui si basa l'istituzione sanitaria e quindi la società.
Se Basaglia, definendo patogena l'istituzione manicomiale ha potuto
praticamente pensare ad un nuovo spazio di cura al di fuori del
manicomio, noi facendo coincidere la società nella quale viviamo con
l'istituzione sanitaria dobbiamo creare al suo interno (non potendo
uscire di fatto dalla società stessa) degli spazi fisici, culturali e politici
diversi di cura.
Come fare?
Mentre sbobinavo l'incontro di sabato. Mi sono venute due idee in
mente.
La prima. In questi giorni, ascoltando e leggendo di altre proposte di
un sapere medico che affermavano tutte con enfasi la centralità di una
relazione di cura di tipo paritario, mi sforzavo di chiedermi in che cosa
queste differivano dal nostro tentativo di costruzione di un nuovo
sapere, o meglio in che cosa la nostra proposta alternativa avrebbe
dovuto differire dalle altre. E questo lo dico non perché abbia la
smania di voler dire a tutti costi la cosa più giusta da fare al momento
più giusto. Ma perché ho la sensazione costante, quando sento o leggo
queste nuove proposte, che si tratti o solo di retorica o che sia un
tentativo genuinamente ben intenzionato ma manchevole di una parte.
Infatti se come ho detto prima alla Salute Globale mancava il contatto
con il micro e quindi con la pratica, queste proposte invece sono
ancorate troppo sulla persona dandole importanza nella sua interezza
come individuo ma non contestualizzando all'interno del suo contesto
di vita ben più ampio: un ambito relazione che non considera la
persona solo un ammasso di cellule ma la considera comunque solo
all'interno dello spazio di cura. Questa quindi è una prima lacuna che
con la seconda idea che propongo mi sforzo di colmare. La seconda è
legata al fatto che tutte queste proposte nascono sempre dall'ambito del
sapere medico per il sapere medico, cioè sono gli operatori sanitari a
pensare lo spazio di cura. E alla fine, pensandolo loro, lo pensano per
loro, magari con maggiori accortezze ma l'errore di partenza rimane.
Da qui la prima idea. Noi (all'interno del cantiere) stavamo facendo lo
stesso errore. Infatti, abbiamo iniziato da medici a pensare ad un
immaginario in cui ci fosse un medico senza camice e un paziente senza
pigiama (ok ci sono anche altre persone che non sono medici al
cantiere, questo è vero, però non cambia di molto l'idea di partenza.
Questo è un cantiere che aveva come obiettivo quello di analizzare e
trasformare l'istituzione medica partendo dai medici). Da medici ci
saremmo iniziati a pensare come essere senza camice e sempre da
medici avremmo immaginato come sarebbe dovuto essere un paziente
senza pigiama. Allora ho pensato, e se fossero anche le persone, anche
e soprattutto le persone a pensare e creare il nuovo sapere medico? Se
questo nuovo sapere medico deve costituirsi a partire dalle persone,
sono le persone che lo debbono immaginare, non sono i pazienti a
doverlo immaginare, ne i medici, ma delle persone (medici senza
camice e pazienti senza pigiama) a doverlo immaginare. E mentre
pensavo a questo mi è venuto in mente un sogno che avevo fatto
qualche giorno prima che iniziasse il cantiere e che io avevo annotato
nel mio diario seguendo le indicazioni di Nicola. Ve lo riporto, così
vediamo se capite subito il nesso, a me si è aperto un mondo.
“Questa notte ho fatto un sogno. Era la mattina del primo giorno di
cantiere. Il luogo dell'incontro era all'aperto, nel sonno mi sembrava di
essere vicino le mura di porta maggiore (dove con Nicola ci siamo
sentiti per telefono per decidere se rinviare il corso o no). Le persone
iniziano ad arrivare tutte in orario e sono molte di più di quelle che mi
aspettavo. Poi succede una cosa strana. Avremmo potuto iniziare ma le
persone sembra come se ritornassero a casa per vestirsi – è possibile
ma non ne sono sicuro che dovevano andarsi a vestire proprio perché
in pigiama- avvertendo che comunque non richiederà loro molto tempo.
Tuttavia passa del tempo e le persone non arrivano, io sono un po'
preoccupato, e a questo punto compaiono, mi sembra di ricordare, mia
sorella, mia madre e mio cugino Michele come partecipanti del corso.
Loro appaiono tranquilli rispetto a me che sono agitato per il ritardo
accumulato. Anche Nicola sembra essere un po' agitato per il ritardo.
Comunque iniziamo a metterci in circolo e il posto cambia nuovamente.
Mi sembra di essere sotto un grande patio con pergolato in ferro
battuto e tutto intorno delle piante, mi sembra un bel posto, che mi dà
la sensazione di essere a metà strada tra il giardino di casa mia e
quello di mia zia Lola. Non è inverno, non sembra inverno. Iniziamo e
io mi metto vicino a Nicola. Nicola ci dice di incrociare le gambe sulla
sedia e le braccia dietro la testa e iniziare con degli esercizi di
stretching. Poi mi sveglio.”
Leggerlo dopo aver fatto queste associazioni di idee mi ha fatto saltare
dal posto in cui ero seduto sul treno. Non ce la facevo a stare fermo,
volevo battere le mani e gridare, mi veniva da ridere, da ridere di gioia.
Non ho resistito e ho dovuto condividere il mio stato d'animo con
Nicola, Elisa e Viviana ai quali ho inviato un sms sul quale c'era
scritto: “Ciao nicola scusa se ti rompo a quest'ora (8.42 del mattino)
ma ho messo a fuoco concretamente un nuovo spazio di cura e come
farlo emergere dal cantiere! Volevo solo dirtelo perché non ho resistito!
Ti chiamo in questi giorni per raccontarti! Buona giornata ale!”
mentre ad Elisa e Viviana “ Ho pensato concretamente ad un nuovo
spazio di cura per dei medici senza camice e a come proseguire il
cantiere! Ve ne parlerò appena ci vediamo!!!!!!!!!!!”.
L'idea quindi è di invitare durante la parte sull'immaginario mia
sorella, mia madre e mio cugino. Ma in realtà non mi fermerei qua. Io
inviterei tutte le persone (se sono nelle condizioni di poter venire) delle
quali abbiamo raccontato indirettamente le loro storie a partecipare al
cantiere. In questo modo, con questo atto simbolico le inviteremo a
togliersi il pigiama da ammalati con i quali sono stati raccontati
durante le storie e a pensare all'immaginario da persone. Noi nel fare
questo ci toglieremo simbolicamente il camice e da persone anche noi
penseremo all'immaginario. E mi viene da dire che cosa è questa se
non l'università popolare dei medici senza camice e pazienti senza
pigiama????!!!!
Ho deciso di seguire i miei sogni e le mie sensazioni, le mie emozioni,
fare libere associazioni di idee, essere libero; è questo che mi piace
della socio-analisi è questa libertà d'azione di scoprire, cercare,
sorprendersi, trattare ogni dettaglio con dignità da oracolo. In questo
modo è proprio la nostra vita e non solo la nostra ricerca a prendere
un'altra dignità. Cito dal libro “Corso di Analisi Istituzionale” pg 37
“il caos è il meccanismo opposto dell'assennato, vale a dire l'agire
senza piani, l'accidentale, opposto a una pratica guidata dai principi
della ragione.” Questa cosa mi entusiasma perché, nonostante io sia
considerato come una persona assennata e con metodo, se questa sera
sono qua e sto scrivendo questo diario è perché sono stato tutt'altro che
assennato. Non ho agito secondo dei piani ma secondo le mie emozioni
e secondo le mie emozioni scrivo questo diario, guardo la mia vita,
ascolto le persone, vedo i miei sogni e li monto tutti insieme con la mia
fantasia e la mia passione per trasformare la realtà nella quale vivo.
La seconda idea. Facendo riferimento a quanto ho sopra detto rispetto
ad una nuova relazione di cura che parta dal presupposto che la
società nella quale viviamo corrisponde di fatto all'istituzione sanitaria
e che essendo questa di fatto patogena non può essere curativa per
definizione, ho pensato ad una relazione di cura che provi a far
riappropriare l'individuo del proprio corpo sociale e con questo della
sua malattia e della sua percezione e che al tempo stesso scopra, metta
a nudo l'impossibilità che la medicina ha di essere realmente curativa
nel contesto sociale nel quale viviamo.
Ho fatto una banale sovrapposizione di quello che stiamo facendo con
la socio-analisi narrativa e ho provato a portarlo nella relazione di
cura. Uno dei presupposti è questo, se la società nella quale viviamo
corrisponde all'istituzione sanitaria che essendo malata ammala invece
di guarire, un possibile processo di guarigione sociale dell'ammalato
dovrebbe passare anche attraverso la sua analisi dell'istituzione di
cura/sociale che ha prodotto la malattia e che allo stesso tempo cerca
di curarlo, attraverso la narrazione stessa della sua malattia. Ma fino a
qua, qualcuno potrebbe dirmi che è simile alla medicina narrativa
(niente di più diverso secondo me). Le cose si complicano un pochino
adesso, tenetevi.
Chi ha detto che la relazione di cura debba presupporre un rapporto
uno a uno medico paziente o più figure specialistiche un paziente o un
medico più pazienti insieme? In questo modo il paziente, la persona, è
sempre e comunque sola e viene lasciata sola. Che ne è della famiglia,
del suo gruppo di appartenenza, di amici, della sua rete sociale? Da
molte delle nostre storie la sofferenza di chi sta male nasce proprio da
un forte senso di solitudine con la quale è costretto a vivere la sua
malattia sia nel rapporto con i medici che con i propri cari. Molto
spesso la persona che sta male dice di non essere compresa e molto
spesso il primo a non capire è proprio lei. Non riesce da dare un senso
alla propria sofferenza che scaturisce dalla malattia e stessa cosa
succede ai suoi cari.
Ora proviamo a pensare ad una situazione in cui una persona dopo una
diagnosi di malattia o dopo un intervento chirurgico o dopo uno
scampato pericolo di morte, dopo aver ricevuto le cure del caso viene
lasciata al proprio destino poiché la funzione del servizio sanitario è
quella di accogliere e curare la malattia e la persona biologica.
Adesso immaginiamo di avere a che fare con una di queste persone e di
chiedergli di scegliere un posto a suo piacere dove prendersi il suo
tempo e incominciare a raccontare cosa è successo il giorno in cui ha
scoperto di essersi ammalata, in cui è stato operato, in cui si è salvato
per miracolo etc...(divertitevi a fare tutte le ipotesi che volete).
Inizialmente la relazione sarà solo uno a uno. La persona racconterà
cosa è successo il giorno esatto in cui la sua malattia si è palesata con
tutta la sua forza. Il medico (se vogliamo chiamarlo ancora così) stara
zitto, semplicemente zitto. L'incontro verrà registrato e si inviterà la
persona a riascoltarsi e a trascrivere la storia della sua malattia, verrà
invitata a tenere un diario e fare tutte le associazioni di idee che vuole
sia scritte che grafiche, qualunque cosa che per lei si inserisca nel suo
processo di salute/malattia. Nel secondo incontro la persona
racconterà tutta la sua vita (quello che reputerà più importante) fino a
quando non ha scoperto di essere malata. La trascriverà etc... Durante
il terzo incontro si chiederà alla persona come sta vivendo la sua
malattia adesso e come vorrebbe viverla. Gli si chiederà di raccontare
momenti della sua vita quotidiana nei quali la sua malattia si manifesta
con maggiore o minore forza e poi di immaginarsi come vorrebbe
essere con la sua malattia nel futuro (se ci sarà ancora una malattia).
La persona avrà così un racconto della sua vita intorno alla malattia e
verrà aiutato a montare poi la storia della sua malattia mettendo
insieme diario, sbobinature, foto, disegni qualunque cosa abbia
prodotto in questo periodo. Montando la storia della sua malattia forse
la persona inizierà a riappropriarsi della sua malattia e inizierà ad
inserirla in un orizzonte di senso più ampio. Non ci sarà più la sua
malattia e intorno la sua vita ma la sua malattia sarà parte della sua
vita. Sarà in grado di vedere il processo della sua vita e che legami ha
con la sua malattia. Oltre al fatto che l'identità della persona non sarà
schiacciata con violenza su quella dalla sua malattia e di paziente, ma
potrà esplodere ed esplorare i suoi tanti momenti identitari della sua
vita, così si scoprirà nuovamente una persona sociale e non un
ammalato. Nella fase dell'immaginario potrà quindi capire cosa volere.
A questo dovrà seguire una restituzione sociale che la persona deciderà
a chi fare. Potrà essere la sua famiglia, il suo gruppo di amici, colleghi
di lavoro e perché no i suoi datori di lavoro!
Questa fase qua è fondamentale per far riacquistare alla persona la
sua dimensione sociale. Nel caso della famiglia, la persona racconterà
la sua malattia ai suoi cari. Questa narrazione dovrà suscitare la
narrazione dei familiari rispetto la malattia della persona. Raccontare
storie rispetto a come anche i familiari vivono e hanno vissuto la
malattia della persona. In questo modo, emergeranno sia i punti di
forza che i limiti parenterali a sua volta condizionati dal contesto nel
quale viviamo tutti. Le persone verranno messe di fronte alla sofferenza
del proprio familiare e in maniera diversa saranno chiamati a
risponderne. In questo modo la persona malata avrà trovato finalmente
uno spazio di dicibilità e senso della propria malattia e allo stesso
tempo arricchirà la storia della sua malattia con le storie dei propri
cari. Il processo andrà avanti fin quando la persona lo reputerà
opportuno o fin quando la famiglia dovesse decidere di smettere. Sono
consapevole infatti che molte delle famiglie nelle quai viviamo non
sarebbero minimamente in grado di fare un processo del genere. Sia
perché abituate a demandare la significazione della sofferenza alla
medicina sia perché anche le famiglie a loro volta sono sole. In questo
modo sarebbe impossibile permettere alla persona di curarsi ed essere
aiutata a guarire a causa di una sofferenza più ampia della famiglia
nella quale vive. In questo modo però si avrebbe l'occasione di
ascoltare la sofferenza di una famiglia intera. E via di questo passo si
arriverebbe a considerare finalmente il contesto nel quale si vive come
patologico!
Stessa cosa con gli amici.
Vediamo nel caso di un lavoratore che si ammala a causa del suo
lavoro ma che non può rinunciare al suo lavoro. Si potrebbero
coinvolgere altri colleghi nella sua stessa situazione
contemporaneamente al lavoro e che si potrebbe svolgere
contemporaneamente con la famiglia e gli amici. Il gruppo di
lavoratori/colleghi produrrebbe una narrazione dei dispositivi
patologici dell'istituzione nella quale lavorano e non solo di quella ma
anche, andando a fondo, della società per la quale sono costretti a
lavorare. In tutti questi passaggi il medico non esiste più e la malattia
diventa la lente per guardare la società nella quale viviamo e forse
anche la leva per cambiarla!
Un medico che si trovasse ad agire in queste situazioni dopo una
restituzione sociale che lo mette di fronte al fatto che è la società a non
permettere il processo di guarigione e cura della persona verrebbe
chiamato non solo a prendere posizione ma anche a dichiarare
insufficienti gli strumenti -comunque utilissimi- che ha a disposizione
(tutto questo ragionamento non vuole essere oscurantista e cancellare
di un sol colpo alcuni strumenti fondamentali della medicina moderna,
ma ne vuole ricollocare e ricontestualizzare il concetto di efficacia e di
sufficienza).Potrei fare altre mille esempi e dimostrare come questo
approccio sembra funzionare in ogni singolo caso.
Questa sera mentre leggevo “Corso di Analisi Istituzionale” leggo sul
retro della copertina e poi anche a pagina 29 una frase di George
Lapassade che ho provato a fare mia, e sostituendo alcune parole viene
così:
“Se l'uomo vuole essere soggetto, attore cosciente della sua malattia e
quindi anche della sua salute, deve analizzare l'istituzione dalle quali
dipende, quelle che lo attraversano, e trovare nell'azione di gruppo una
via d'uscita all'atomizzazione bio-riduzionista del potere medico di cui
è vittima.” Credo di aver finito, adesso posso respirare un po'.”
Con tutto queste cose nella mente e nel corpo sono arrivato alla
riunione. Le persone del comitato, anche se abbiamo provato a
spiegargli cosa vorremmo fare, hanno fatto fatica a capire in cosa
consistessero questi incontri in cui ci si vede tutti insieme per parlare di
salute e malattia. -Ma poi, se una persona da sola vuole parlarvi lo può
fare?- Noi in quanto medici siamo portatori sani di un bisogno sanitario.
Appena le persone sanno che ci sono dei medici vogliono essere
visitate. Non dico che questo sia sbagliato, dico solo che è solo un
modo per pensare al proprio malessere ed è solo un modo per pensare a
delle figure che possono contribuire al processo di guarigione. Il primo
intervento da fare quindi è confrontarsi con il bisogno indotto nelle
persone dalla nostra presenza e questo ci mette in crisi. Per riuscirlo a
fare bisogna aver messo in discussione per primi l’unico ruolo nel quale
come medici siamo inseriti. Bisogna lasciare qualcosa, bisogna lasciare
il camice e tutto quello che ne consegue e incontrare le persone da
persona.
Il giorno dopo Viviana ci chiede come è andata. Martedì 11 novembre
abbiamo fatto la riunione di gruppo ed è emerso che alcuni di noi si
sentono stanchi e stanche dall’impegno che stare a Santa Croce
richiede. Infatti Santa Croce ha sia uno spazio abitativo che uno spazio
sociale. La nostra sede è collocata nello spazio sociale e come tale
siamo stati coinvolti all’interno di un gruppo allargato chiamato “Spin
Time Lab” in cui ci sono altri gruppi e associazioni che dovranno
animare lo spazio sociale.[...]. Ma su questo punto avrò modo di
ritornare in seguito. Mi interessa sottolineare il fatto che da una parte ci
sono io che vedo in questo percorso una via e un’opportunità enorme
per se e per il gruppo e dall’altra altre persone che sono stanche,
strattonate dal fluire incalzante degli eventi. Ho imparato e sto
imparando a bilanciare le esigenze del gruppo e dei singoli con le mie
(non è facile far parte del gruppo, ma per me è impossibile essere solo,
considerarmi solo un individuo). Questo a volte è difficile, mi sento
frenato e ho paura di perdere il flusso di entusiasmo che guida le mie
azioni; dall’altra parte quello che io faccio non avrebbe senso se non lo
facessi all’interno di un percorso condiviso. È difficile. Nel gruppo ne
abbiamo parlato più volte di queste dinamiche, ma queste
costantemente si ripresentano. Tutto questo per introdurre la mail che
ho mandato il 14 novembre al gruppo e dal quale ancora ad oggi non ho
ricevuto risposta.
“Abbiamo fatto una chiacchiera iniziale con il comitato dicendo che
anche le altre persone del gruppo avevano piacere a farsi conoscere
dall'assemblea e che quindi avremmo preferito andare giovedì 20.
Ci hanno preceduti dicendo che avevano capito che non vogliamo fare
l'ambulatorio ma ci hanno anche detto che le persone sono curiose di
sapere che cosa però ci proponiamo di fare.
Una volta ripetuto loro i nostri limiti nel fare un ambulatorio gli
abbiamo detto che quello che vorremmo fare è costruire insieme a loro
delle attività a partire dai loro problemi di salute. Guardando le loro
facce, ci siamo resi conto, che facevano fatica ad afferrare il concetto,
il che è normale. Ci hanno detto anche " ma nel caso in cui una
persona volesse parlare con voi, sapendo che non potete dare farmaci
etc, lo può fare? se si in che modalità?" Gli abbiamo detto che in linea
di massima non ci sarebbero problemi ma che dovremmo decidere
insieme le modalità e vedere anche tra noi come gruppo se la cosa
possa essere sostenibile.
Detto questo, tra un raviolo al vapore e un involtino primavera da
Sonia, abbiamo riflettuto sulle proposte da portare giovedì. Ci sembra
che loro si aspettino una proposta concreta e facilmente realizzabile, da
parte loro è comprensibile, da parte nostra sarà difficile tradurre in
pratica una proposta semplice, ma je la famo.
Allora la proposta è questa: raccontare nuovamente chi siamo e poi
fare una proposta concreta all'assemblea di vedersi con chi vuole in un
giorno da noi proposto (pensavamo di proporgli due date possibili o
una serata durante la settimana o un pomeriggio tra un sabato o la
domenica per dare a tutti la possibilità di partecipare) per iniziare a
parlare dei loro problemi di salute insieme.
Per quanto riguarda la parte di richiesta del "rapporto uno a uno",
l'idea è quella di far maturare le relazioni con le persone in quel posto,
far avanzare gli incontri di gruppo sulla salute e vedere cosa succede,
insomma "essere e assecondare".
Adesso la mia parte personale. Personalmente sento di tenere molto a
questo processo che si potrebbe avviare, è qualcosa che è più di un
interesse, per me corrisponde esattamente a quello che voglio fare e
che vorrei fare come gruppo medicisenzacamice. In questi anni ho
studiato e riflettuto molto sul tema, fatte esperienze simili; tutte cose
che in parte già sapete perché ho cercato sempre di rigirarle nel
gruppo (e il gruppo spesso era punto di partenza e di arrivo delle mie
riflessioni). Vi dico questo perché sono disposto a dedicarci molto della
mia vita in questo momento; lo dico anche in base alle cose che ci
siamo detti martedì rispetto alla stanchezza che alcuni di noi stanno
provando. Vi prego di vedere questa possibile esperienza come una
possibilità e di starci con gioia e leggerezza, vi sto dicendo che io ho
abbastanza tempo ed energia da tutelare il gruppo e il tempo del
gruppo da questo percorso permettendoci di curare anche altre cose e
di curarci. Spero di essere stato chiaro. Insomma per me è molto
importante e sarei molto felice nel poter iniziare questa esperienza e
credo che possa essere importante per tutto il gruppo.
buona giornata
ale”
Ieri sera, mentre nuotavo, pensavo a come poter sviluppare questa
strada della TCI, anche al di là di Santa Croce. Ho pensato che
potremmo provare a coinvolgere diversi gruppi presenti sul territorio,
perché no partendo anche dagli anziani. Ho pensato che potrei
strutturare una progettualità e presentarla a Maurizio e Tarsitani per la
tesi. Tesi che a questo punto era partita dall’idea di sviluppare una
ricerca azione a Santa Croce e che ora si apre anche ad altre possibili
esperienze.
Credo che possa essere una pista non solo per la mia tesi ma anche per
il futuro del gruppo, a me piacerebbe fare esattamente questo e credo
che il gruppo possa fare anche questo. Credo che una parte di noi possa
vivere facendo questo e fare altre attività di formazione, quelle che già
facciamo (ora sto correndo e inizio ad essere poco chiaro, butto là degli
appunti e poi li riprendo meglio ripassandoci sopra).
Questa mattina sono andato sul sito della TCI e ho letto questa cosa
qua. “Post Scriptum: saremmo molto (ma molto) felici se l'associazione
Europea di Terapia Comunitaria si arricchisse di una o più
associazioni italiane. Se siete interessati a partecipare ad una rete o a
mettere in piedi qualcosa, fatevi vivi! Potete scriverci direttamente in
italiano, sul forum o al nostro indirizzo di posta elettronica:
Ho pensato, ecco! Un altro segno. Potremmo scrivere loro come gruppo
medicisenzacamice e perché no come gruppo nazionale. E subito mi
sono rimesso a scrivere mail.
Prima a Nicola
“Caro Nicola,
è successa una cosa bellissima e volevo condividerla con te!
Nel mailinglist del nostro gruppo nazionale una ragazza del CSI ha
mandato un video di un medico brasiliano che ha inventato un
approccio chiamato "terapia comunitaria sistemico integrativa".
Quando ho visto il video con l'intervista ho fatto un collegamento con
tutto quello che stavo cercando e che pensavo, tutto si è unito e
qualcosa si è riniziato a muovere con forza dentro di me (come quando
ero sulla bici...).
Se ti ricordi anche questa estate a casa tua ti avevo accennato alla
possibilità di provare a sviluppare una terapia comunitaria che
mettesse insieme approcci di socioanalisi e comunicazione nonviolenta
(sto semplificando) e pensavo anche che quello poteva essere lo spazio
dove potevamo inserirsi nel gruppo.
Dopo aver visto il video ho mandato una risposta in mailinglist dove ho
allegato anche uno stralcio del diario scritto durante il nostro cantiere
dove immaginavo qualcosa di simile; mi ha sorpreso la somiglianza
forte.
Mi farebbe piacere parlare di persona con te.
Questi i link dove puoi vedere il video e il sito.
http://www.aetci-a4v.eu/tci-in-italiano/
https://www.youtube.com/watch?v=AI5h0HJ41Wc
Ho la sensazione che potrebbe aprire altre interessanti prospettive.
un abbraccio
ale”
Poi al gruppo medicisenzacamice
“Ciao care e cari,
in questi giorni sto continuando a riflettere molto sul video della
terapia comunitaria sistemico-integrativa e sui collegamenti che dentro
di me sono nati.
Questa mattina sono andato sul sito, sulla pagina in Italiano, e ho
potuto vedere come ci siano altri collegamenti. Infatti ho scoperto che
il Dors, centro di cui vi ho parlato, ospita tutta una pagina su questo
approccio.
Ma la cosa più importante che vi voglio dire/chiedere è questa: sul sito
si legge "Post Scriptum: saremmo molto (ma molto) felici se
l'associazione Europea di Terapia Comunitaria si arricchisse di una o
più associazioni italiane. Se siete interessati a partecipare ad una rete o
a mettere in piedi qualcosa, fatevi vivi! Potete scriverci direttamente in
italiano, sul forum o al nostro indirizzo di posta elettronica:
Ecco, a me piacerebbe scrivergli a nome nostre in fase molto
esplorativa per presentarci, raccontargli il nostro percorso etc... Per
voi andrebbe bene o preferite prima parlarne insieme?
Ho annusato una pista, sento qualcosa e mi piacerebbe seguirla, mi
piacerebbe parlarvene ma senza appesantire il gruppo. Quindi se per
voi va bene mi farebbe piacere parlarvene singolarmente di persona
con chi vuole a mò di chiacchiera e di condivisione.
un abbraccio
ale”
Poi a qualche amica e amico del gruppo nazionale
“Ciao,
scrivo a voi a breve giro solo per il bisogno/piacere di una
condivisione, aspettando che maturino un pò i tempi per fare un
passaggio a magma.
Ho visto il link del sito che Martina ci ha mandato sulla TCI. Sono
rimasto sorpreso di due cose: la prima, esiste già un contatto con il
Dors e Norma De Piccoli (professoressa di psicologia che Claudio
Tortone aveva nominato a me e a Chiara quando eravamo andati a
Torino per il progetto PHM), la seconda è che sul sito c'è scritto "Post
Scriptum: saremmo molto (ma molto) felici se l'associazione Europea
di Terapia Comunitaria si arricchisse di una o più associazioni
italiane. Se siete interessati a partecipare ad una rete o a mettere in
piedi qualcosa, fatevi vivi! Potete scriverci direttamente in italiano,
sul forum o al nostro indirizzo di posta elettronica:
Allora, io ho scritto ai medicisenzacamice dicendo che mi farebbe
piacere prendere contatto al nome del gruppo; ma secondo me sarebbe
molto, molto interessante ragionare se valga la pena prendere contatto
anche come gruppo nazionale. Penso a voi CSIini, a Riccardo e al
Centro di Promozione della Salute, penso alle nostre idee di trovare il
modo di sostenerci facendo qualcosa in cui crediamo...
vabbè, vediamo l'effetto che fà.
buona domenica
ale”
In questa mail faccio riferimento al gruppo Dors e ancora mi sorprendo
di come sia stato in un tutto collegato senza accorgermene fino ad oggi.
Questo mi emoziona e mi dispiace solo non avere abbastanza parole per
riuscire a descrivere cosa provo, la sensazione di completezza. Posso
provarci con una poesia.
Viviamo in una costellazione
di chiazze e di schizzi,
non in un mondo unico,
in cose dette bene in musica,
al pianoforte e con parole,
come in una pagina di poesia:
pensatori senza pensieri conclusivi
in un cosmo sempre incipiente,
così come, quando scaliamo un monte,
il Vermont si combina d’improvviso.
Wallace Stevens, July Mountain, 1955)
Ho messo sulla tavolozza un bel po’ di colori, adesso aspetto di vedere
come si mischiano e cosa prenderà forma. Aspetto.
Aspetto e mi viene in mente nel frattempo un'altra riflessione che avevo
fatto lo scorso anno e che avevo appuntato su uno dei miei diari. Mi
viene in mente adesso che penso alla TCI.
Sono degli appunti presi il 5 dicembre 2013 sul concetto di bio-potere.
“Far vivere e lasciar morire” in questo consiste il concetto di bio-
potere. Il “far vivere” del bio-potere è evidentemente riferito al solo
campo biologico. Per questo motivo l’apparato sanitario è stato
deputato al controllo delle nascite e delle morti attraverso strumenti
epidemiologici e demografici. Si sancisce il corretto funzionamento di
una società in base al numero delle morti evitate; e visto che si
considera solamente l’aspetto bio dell’esistenza il tempio di questo
controllo è rappresentato dalla Sanità. La sanità ha il compito di
controllare che le persone rimangano in vita, poco importa come,
l’importante è che siano biologicamente vive.
Ora, se non si accetta il bio-potere e non si riconduce la vita alla sola
bio succede questo: non mi devo più occupare di mantenere le persone
in vita solo da un punto di vista biologico ma cercherò di scoprire la
totalità della vita che le anima. Il mio obiettivo non sarà più quello di
un far vivere evitando la morte e la malattia ma quello di far vivere con
la morte e la malattia. In questo modo la mia preoccupazione non
dovrà più essere quella di contare le morti per controllare la vita ma
per liberarla. In un futuro potrebbe rivelarsi addirittura inutile contare
il numero delle morti, fare statistiche a livello mondiale.
Dire vivere con la morte e la malattia non vuol dire però accettare
passivamente la loro venuta, vuol dire anzi saperle riconoscere per
quello che sono. Se la vita non è solo più bio, nemmeno la morte e la
malattia possono più esserlo e acquisiscono una cittadinanza anche
sociale. Non verranno più lette solo da un punto di vista biologico ne la
vita solo da un punto di vista epidemiologico. Non potrò utilizzare
come uniche fonti di informazioni sulla salute delle persone
l’andamento delle mortalità e della morbosità, perché abbiamo liberato
la vita dal concetto di bio-potere. Ora il punto è che le persone sono
vittime e carnefici di questo potere e passano la loro vita evitando la
morte credendo così di vivere. Pretendono fino in fondo il loro diritto a
vivere secondo i dogmi del bio-potere che nel momento in cui si
ammalano pretendono solo di essere curate e non vogliono giustizia,
non vogliono indietro la loro vita. La loro più che vita è una non-morte.
Credo che un nuovo paradigma di cura e di salute debba uscire fuori
dalle logiche del bio-potere. Come fare? Bella domanda!
Iniziare dalla cura. Solo una persona libera può guarire veramente e
liberamente morire. Abbiamo paura della morte e della malattia perché
non c’è data la possibilità di vivere veramente. La cura deve
rappresentare per la persona questa opportunità, se non l’ha mai avuta
prima. L’atto medico sarà solo uno dei tanti atti previsti per la
guarigione, molti dei quali starà alla persona fare, se questa non vorrà
farli avrà la possibilità di vivere liberamente e liberamente morire. I
luoghi di cura non potranno più essere ricondotti ad un singolo spazio
e ad un determinato tempo, saranno diluiti tra le persone e condensati
in abitazioni, strutture, spazi.
Poi c’è la vita. Le persone che non abbiano bisogno di cure dovrebbero
essere competenti della loro vita, dovrebbero poterla esplorare i tutte le
loro dimensioni, curando la loro persona e il loro contesto in un
rapporto di interazione e reciprocità. Un luogo di persone libere e
consapevoli che vivono in un ambiente liberatore e amorevole.
Per raggiungere questo è necessario liberarsi dal bio-potere. Tutti
quanti. Non più salute ma vita. In un contesto in cui la vita è tutelata, la
malattia non potrà essere contrapposta alla salute. Che cosa
dovrebbero fare in questo contesto i promotori della salute?
In tutta la fase di transizione lavorare per questo cambio di paradigma
nella società, negli ospedali, etc… A loro non spetta l’atto terapeutico
ma il compito di produrre “temi generatori” nelle persone, di
risvegliare la vita latente nelle persone. Devono liberarsi e collaborare
a liberarsi. Ognuno con arti diverse ma con strategie comuni. Non
promuoveranno stili di vita sani per correggerne di sbagliati; non
temeranno la morte biologica ne la malattia, ma l’alienazione, la
deresponsabilizzazione e la mancanza di libertà, la violenza. Si
batteranno per questo, per generare vita. Il loro scopo non sarà
prevenire, ne curare, ma liberare la vita in ognuno di noi.
Fintanto che vivremo nel biopotere continueremo ad avere paura della
morte e della malattia e l’atto medico e il pensare alla salute non sarà
altro che un atto normalizzante continuando a dividere il sano dal
malato.
Roma, 17 novembre 2014
Passata la mezzanotte da poco più di mezz’ora. Ero a letto che pensavo
e ho deciso di alzarmi e venire a scrivere (è la prima volta che lo faccio
da quando mi succede). Sto pensando a quello che sta succedendo in
questi giorni e agli sviluppi che le cose potrebbero prendere in base alle
mie scelte. C’è una parte di me che sente che è arrivato il momento di
operare una rottura, un’altra, una scelta. C’è qualcosa in me che sta
pensando che sarebbe giusto parlare con Tarsitani, Maurizio e Giulia e
operare una scelta.
Quello che vorrei dire loro è ciò che mi è successo in questi giorni e
quali prospettive si sono aperte per il mio futuro, secondo me.
Vorrei dirgli che nel prossimo anno e mezzo mi vorrei dedicare
interamente alla ricerca-azione sul campo provando a seguire
l’approccio della terapia comunitaria integrata. [...]
Mi piacerebbe che questo fosse l’oggetto della mia tesi di
specializzazione e sento che mi serve tempo per preparare e curare i
processi.
Vorrei dire loro che ho capito che questa è la mia strada e che credo
possa aprire degli sviluppi di ricerca interessanti anche rispetto alle cose
che facciamo e che contare sulla Sapienza potrebbe essere utile in
termini di autorevolezza.
La mia proposta è su due livelli:
Uno personale: se posso avere questa libertà di azione o meno;
Uno gruppale: se ci potrebbe interessare come gruppo.
[...]
Chiederei quindi di non fare tirocini sul territorio, compreso quello
attuale in direzione sanitaria. Credo che i contatti e l’esperienza sul
territorio la potrei fare lavorando alla ricerca.
Se così fosse alcune azioni principali da fare sarebbero:
Stabilire contatti con TCI
Creare collegamento con Dors
Creare contatto con un centro anziani (trigoria??)
Lavorare con il territorio
Chiedere appuntamento ai prof dopo l’appuntamento di S. Croce del 20
novembre.
Ore 18.09
Ho mandato da poco la mail all’indirizzo scritto sul sito della terapia
comunitaria integrativa.
Questo il testo
“Buona sera,
sono Alessandro Rinaldi, medico specializzando in igiene e medicina
preventiva e membro di un gruppo di giovani medici che risponde al
nome "medici senza camice".
Sono venuto a conoscenza della "terapia comunitaria integrativa" da
parte di una mia amica antropologa che lavora a Bologna; insieme a
lei e a tanti altri amici e amiche medici e antropologhi in tutta Italia
siamo attivi da diversi anni ormai (dal 2007) nel proporre una
formazione medica differente da quella a noi proposta durante gli anni
di studi. Come gruppo "medici senza camice" facciamo parte di questa
rete nazionale il cui obiettivo principale è quello di provare ad inserire
nella formazione dei futuri professionisti della salute contenuti quali: i
determinanti sociali della salute, le diseguaglianze in salute e
discipline quali l'antropologia medica. Il nome della rete cui facciamo
parte è RIISG-rete italiana insegnamento salute globale-, potete trovare
maggiori informazioni cliccandoqui.
Come gruppo medici senza camice abbiamo anche scritto un libro dal
titolo "medici senza camice e pazienti senza pigiama" dove, attraverso
un'analisi sociologica (la metodologia utilizzata prende il nome di
"socioanalisi narrativa"), abbiamo esplorato i meccanismi della
formazione medica e dei rapporti medico paziente.
Mi permetto di copiarvi i link ad alcuni nostri articoli:
http://www.saluteinternazionale.info/2014/04/ripensare-il-potere-
medico-senza-camice/
http://www.lavoroculturale.org/medici-senza-camice/
http://www.lavoroculturale.org/medici-senza-camice-due/
http://www.lavoroculturale.org/medici-senza-camice-iii/
Da questo percorso di ricerca sono nate delle riflessioni interessanti
circa la possibilità di ripensare il ruolo del medico all'interno della
società. Tali riflessioni convergono molto con quanto proposto
nell'intervista fatta al Prof. Barreto quando parla della Terapia
Comunitaria Sistemica.
Vi scrivo perché mi piacerebbe conoscere meglio questo approccio e
raccontarvi del nostro "piccolo movimento" in Italia per provare ad
immaginare possibili convergenze e collaborazioni.
Con la speranza di ricevere vostre notizie,
un caro saluto
Alessandro rinaldi”
Vediamo se e come mi risponderanno.
Inoltre oggi Giulia mi ha chiamato e mi ha detto se per me andava bene
vedermi con Maurizio il 25 novembre per fare il punto della situazione;
mi ha ricordato anche della nostra idea di coinvolgere Tarsitani per
l’articolo propostoci da Silvia. A quel punto ne approfitto e chiedo a
Maurizio che mi sente dal cellulare di Giulia se fosse disponibile ad
ascoltare anche una mia proposta per la mia tesi. Lui mi dice di si e di
sentire Tarsitani.
Questa la mail inviata a Tarsitani
“Caro Prof,
le scrivo per dirle che con Giulia e il Prof Marceca avremmo piacere di
vederci martedì 25 alle ore 16,00. Il motivo dell'incontro nasce da una
richiesta concreta di provare a scrivere un articolo sulle nostre
attività, tuttavia vorremmo utilizzare l'opportunità per riflettere più
estesamente su quella che fino ad ora è stata la nostra esperienza di
formazione in salute globale come gruppo.
In questa occasione, nel caso in cui lei potesse, mi farebbe molto
piacere poter condividere con voi anche alcune mie riflessioni che
potrebbero riguardare il mio ultimo periodo di specializzazione e
relativa tesi.
Grazie e a presto”
Ho fatto le mie mosse adesso vediamo cosa succede.
Roma, 20 Novembre 2014
Martedì 18, sapendo che Tarsitani non sarebbe potuto venire alla
riunione del 25, gli ho chiesto un appuntamento per lunedì. Lui ha
voluto farsi anticipare la cosa e io gli ho descritto per sommi capi quello
che avrei voluto fare per la tesi. Non gli ho detto cosa questo avrebbe
potuto comportare, cioè interrompere il tirocinio in direzione sanitaria e
non andare al Sant’andrea.
Il giorno stesso, perché mi sentivo di farlo, ho accennato la cosa a
Filippo.
Oggi, ho letto la mail della De Luca nella quale ci chiedeva come mai
non eravamo più andati in direzione sanitaria. Nella mail ha scritto una
cosa che mi ha dato un ulteriore possibilità di scelta. Ha scritto “non
avevamo stabilito che una volta a settimana venivate spontaneamente
in DS per vedere anche l'attività quotidiana?”. Questo mi ha dato
l’opportunità di riflettere e di pensare che potrei fare la seguente
proposta a Tarsitani: fissare un giorno fisso a settimana per frequentare
in Direzione Sanitaria e gli altri giorni lavorare per la tesi senza andare
al Sant’Andrea. Sviluppando le altre attività già in ballo. Credo possa
essere una soluzione accettabile.
Questa sera invece avremo l’incontro in assemblea con gli occupanti. A
me piacerebbe proporre un percorso che prevede l’approccio della
terapia comunitaria sistemica. Viviana e Pier Mario (Pm) hanno scritto
che vorrebbero proporre qualcosa tipo l’attività dell’”episodio di
benessere”. A me non convince molto perché la vedo come un’attività
isolata non inserita all’interno di un percorso mentre invece la TCI
potrebbe rappresentare un percorso con degli appuntamenti fissi e dalla
quale far nascere altre iniziative nel segno della ricerca-azione.
Roma, 21 Novembre 2014
Ieri abbiamo fatto la riunione del gruppo medici senza camice a Santa
Croce. L’idea era quella di vederci prima dell’assemblea degli
“occupanti” per riflettere su cosa e come gli avremmo potuto dire per
presentarci e cosa gli avremmo proposto.
Dopo averci riflettuto un po’ su ha prevalso l’idea di partire da quelle
che sono le loro domande/richieste principali e su queste provare a
costruire un percorso. Abbiamo lasciato aperta la possibilità se da
questo percorso possa nascere un’iniziativa simile alla TCI.
La tensione nel gruppo è aumentata quando abbiamo dovuto decidere le
date da proporre agli occupanti per vederci. La prima data disponibile
era il 5 dicembre, ma ad alcune persone sembrava troppo vicina e che
non ci dava abbastanza tempo per prepararci a sufficienza. Soprattutto
Elisa non era d’accordo, ha detto che gli sembrava di correre e di
rispondere ad un approccio emergenziale. La data successiva sarebbe
stata il 17 dicembre. Io ho detto che secondo me avevamo tutte le
risorse per organizzare la giornata del 5 e che vederli oggi dicendoli che
ci saremmo rivisti il 17, secondo me, equivaleva comunque a non
curare il processo. Ho aggiunto che secondo me in queste cose,
l’importante è iniziare e provare ad aggiustare le cose in corsa, se si
cerca la perfezione a tutti i costi il rischio è che si rinvia sempre. Alla
fine siamo stati d’accordo nel fare la riunione il 5 e anche il 17.
Il clima del gruppo è teso; Viviana ha detto che non sta bene perché non
stiamo curando altri progetti del gruppo. Vorrei aggiungere altre cose
ma va bene così.
Pronti per andare alla assemblea gli occupanti scusandoci ci hanno detto
che l’avevano rinviata. Poco male, gli abbiamo proposto la data in cui ci
saremmo voluti vedere con loro e così è stato. Susy ha proposto di
scrivere un cartellone per ricordare giorno ed ora.
Questa è stata la nostra prima riunione nella sede. Eravamo seduti per
terra.
Siamo andati a mangiare dal Cinese, da Sonia. Li, quando ho pensato
fosse il momento giusto, ho condiviso anche con Antonio, Elisa e Vivi
la mia volontà di fare la tesi sulla TCI e su quali campi di ricerca. Ho
detto loro che secondo me questo percorso potrebbe riguardare anche il
gruppo ma non c’è stato un seguito alla riflessione. Solo più tardi,
durante la cena, Giuseppe mi ha detto alcune cose.
Roma, 25 Novembre 2014
Ieri ho parlato con Tarsitani. Prima di incontrarlo mi ero stampato un
breve articolo di presentazione sulla TCI dal sito del Dors scritto dalla
Prof.ssa Norma de Piccoli.
Alle 13.30 sono entrato nel suo ufficio e dopo averlo salutato gli ho
consegnato il foglio con l’articolo dicendogli che quel testo riassumeva
le caratteristiche principali della TCI.
Finito di leggerlo ha detto che gli sembrava interessante. E abbiamo
provato a porci delle domande generali di ricerca. Mi ha chiesto come
concretamente funzionasse questa pratica, che cosa succedeva di fatto, e
come si entrava in contatto con le comunità. Mi ha detto che faceva
fatica a capire come dei perfetti sconosciuti entrassero dentro una
favelas e chiedessero alle persone di raccontare i loro problemi. Gli ho
spiegato che la parte di conoscenza della comunità diventa parte del
metodo e può essere ascritta all’approccio della ricerca-azione. Infatti,
gli operatori che propongono questa attività devono prima entrare in
contatto con le persone presenti all’interno della comunità mettendosi in
gioco, spiegando cosa vogliono fare etc… Questo approccio
presuppone quindi che non ci sia un servizio calato dall’alto ma un
confronto aperto con la comunità.
Detto questo mi ha detto che la domanda di ricerca potrebbe essere
quella di valutare il funzionamento di questo metodo inserito nel nostro
contesto. Che cosa genera. Qua mi viene in mente il libro della Lemma
e l’approccio costruttivista con il quale voglio valutare il processo che
seguirò nella tesi di ricerca.
Riporto dal libro della Lemma a pag 189 “L’agire potrà si ispirarsi a
ciò che è già stato fatto ma non riprodurlo. […] Abbandonata la logica
del modello, e dell’efficacia diretta, si abbraccia quella del processo,
dove l’agire entra in fase con l’evoluzione delle cose, e il successo è la
conseguenza di un’iniziale trasformazione operata a monte e di una
maturazione attraverso il tempo. […] Le circostanze non saranno
quindi più un incidente accessorio, e quello che sta attorno diventerà
ciò che permette al potenziale di svilupparsi. L’efficacia allora non si
perderà, per attrito, ma si dispiegherà per adattamento, rientrando
nella categoria del frutto che si trasforma impercettibilmente mentre
matura e non più in quella del gesto eroico che si contrappone alla
realtà.” Ancora a pag. 204-205-206-207/212 “Un programma sociale
dovrà allora essere preso in esame, e valutato, come un insieme di idee
e risorse portate all’interno di un contesto e l’accumulo di conoscenza
intorno al suo agire passerà necessariamente attraverso la possibilità
di descrivere da chi queste sono state raccolte, con quali risultati, ma
anche in quali condizioni questo è accaduto: cioè in quali specifici
contesti. La necessità di rendere neutro il contesto, richiesta
dall’osservazione sperimentale, è appunto l’altro elemento intorno al
quale si concentrano le critiche dei detrattori di questo approccio. […]
Il sistema sociale è un sistema aperto dove, con il procedere degli
interventi, i cambiamenti non solo non potranno essere tenuti sotto
controllo ma dovranno al contrario essere accolti e descritti proprio
alla scopo di studiare le interazioni che si producono tra la comunità e
le idee e le risorse che dal programma sono introdotte. Sarà infatti da
queste interazioni che prenderanno avvio ulteriori iniziative, che a loro
volta genereranno cambiamenti nel contesto, che andranno poi ad
influire sulla comunità. In assenza di meccanismi noti il massimo della
crescita di conoscenza, intorno all’efficacia di un intervento, si potrà
quindi avere solo osservando e descrivendo tutto quello che accade nel
complesso costituito dai soggetti e dai contesti coinvolti, in seguito alla
loro interazione con gli interventi proposti: accettando che attraverso
questa interazione il mutare degli eventi non potrà che essere continuo.
[…] Dall’incontro tra un elemento esterno e un sistema quello che si
attiva non è infatti un meccanismo del tipo “tutto o nulla”, che
attraverso una successione lineare di eventi produce l’effetto atteso, ma
è un processo di trasformazione in cui la causa esterna agisce su
elementi interni al sistema, producendo un cambiamento del suo
equilibrio, con il passaggio da uno stato a un altro. […] La causa
allora non è più semplicemente individuabile nell’elemento esterno
introdotto dallo sperimentatore ma nel complesso insieme che si viene
a generare tra la causa potenziale, introdotta dall’esterno, e gli
elementi interni che vengono attivati dal meccanismo che la genera la
trasformazione. Raccogliere questa impostazione richiederà però
l’ammettere che in campo sociale, per valutare l’efficacia degli
interventi condotti, sarà necessario descrivere non solo ciò che si sta
introducendo nel sistema ma anche quanto accade nella interazione tra
le differenti azioni messe in campo e i diversi elementi interni.
Occorrerà cioè descrivere il continuo mutare dell’equilibrio interno del
sistema e le condizioni in cui cause esterne e interne hanno agito.
Aprire la scatola nera vorrà allora dire si indagare sui nessi causali
che sostengono l’ipotesi di cambiamento, ma nella convinzione che in
ogni situazione si debba scoprire il modo particolare in cui un
determinato programma può funzionare. Questo richiederà però anche
l’accettare che in ogni situazione il legame tra un input (il programma)
e un risultato può essere ottenuto attraverso strade diverse, e quindi
anche non ottenuto, in relazione al modo in cui gli attori reagiranno al
programma e a come lo interpreteranno. Per rilevare causalità
bisognerà allora fare luce nella scatola della sperimentazione
concentrando l’attenzione sul processo d’incontro tra il programma
d’intervento, i diversi gruppo di persone e di differenti contesti, per
cercare d’identificare i meccanismi tra questi elementi si vengono a
creare. L’obiettivo non sarà quindi più quello di confermare una volta
per tutte, l’efficacia di una determinata azione nel produrre il risultato
atteso, attraverso un definito meccanismo, ma ci si dovrà invece
sforzare di capire perché, con un determinato gruppo di persone e in un
determinato contesto, in presenza di quell’input si sia ottenuto un certo
risultato. Cumulare conoscenza richiederà quindi l’individuazione di
quelle tipologie d’insieme di programma, persone e contesto, che
abbiamo prodotto determinati risultati, in un paziente e impegnativo
processo d’astrazione qualitativa che porti alla luce i diversi
meccanismi agenti. […] In questo quadro la razionalità non scompare
ma da sostanziale, capace cioè di dettare le soluzioni per ogni
problema, diviene procedurale: razionali non saranno cioè più le
decisioni ma il processo di loro assunzione. Tale modello presiede ad
una concenzione costruttivista della valutazione che sposta l'accento
dai temi della conoscenza (che è vista sempre come preliminare,
obiettiva e neutrale) e della decisione (assunta solo da chi ha la
competenza tecnica e istituzionale) a quelli della comunicazione, della
negoziazione della partecipazione. In questo procedere all’interno di
una concezione interattiva di un progettare all’interno di una
concezione interattiva di un progettare a razionalità limitata accade
allora che la valutazione non sia più solo il frutto di certezze
scientificamente fondate, quanto piuttosto il prodotto di una
negoziazione: essa diviene lo strumento sia per comprendere la
situazione e definire i problemi, attraverso l’interpretazione che ne
danno i diversi attori sociali, sia per chiarire ciò che dal programma si
può ottenere.”
Mentre leggo e ricopio mi fa eco un periodo letto all’interno di “contro
il metodo” di Feyerabend sul processo e sul programma “la creazione
di una cosa, e la creazione più la comprensione piena di un’idea
corretta della cosa, sono molto spesso parti di un medesimo processo
indivisibile e non possono essere separate senza determinare
l’interruzione del processo. Il processo stesso non è guidato da un
programma ben definito, e non può essere guidato da un siffatto
programma, in quanto contiene le condizioni per la realizzazione di
tutti i possibili programmi. Esso è guidato piuttosto da un vago
impulso, da una “passione” (Kierkegard). La passione dà origine allo
specifico comportamento, che a sua volta crea le circostanze e le idee
necessarie per analizzare e spiegare il processo, per renderlo
razionale.”
Da questo vago impulso, da questa passione è iniziato il mio percorso
anni fa, da questo, ancora più in generale, si sta caratterizzando la mia
vita. Più nello specifico, da questa passione, da questo vago impulso è
nata la mia idea di questo percorso di ricerca.
Andando avanti con la conversazione con Tarsitani; siamo passati a
definire il quadro di riferimento teorico che si è soffermato su alcune
parole chiave: empowerment; resilienza; capitale sociale e
disuguagliaze sociali. Credo che su questi aspetti mi dovrò soffermare,
oltre che sulla relazione individuale-collettivo.
Mi ha parlato di uno psicologo che collabora con lui e che potrei
contattare. Mi avrebbe fatto sapere.
Detto questo gli ho chiesto che avrei avuto bisogno di tempo e se
potevo svincolarmi dalla frequenza al Sant’Andrea. Lui, che già prima
mi aveva detto che avrei avuto bisogno di tempo, mi ha detto che
“devo”, devo avere tempo per farlo.
L’ho ringraziato per tutto. Non solo per questa opportunità ma per la
libertà che mi ha concesso in questi anni e che mi ha portato a fare
questo incontro e a generare questa idea. Lui mi ha detto che era lui che
ringraziava me perché, studenti “creativi come te”, mi danno la
possibilità di mantenere aperta la mente. E poi, ha aggiunto, la cosa
bella alla base, è il rapporto tra noi: ci si vuole bene. È vero.
L’ho raccontato a Giulia.
Oggi non mi sento eccitato ma calmo, calmo e incredulo dalla bellezza
che mi pervade da dentro a fuori e da fuori a dentro. Sono grato. È
come la mattina dopo che si è baciata per la prima volta la persona che
si è scoperto di amare. Si vede tutto un cammino possibile davanti, e lo
stupore ci lascia in uno stato di sospensione, e continuiamo a chiederci
se sia successo veramente.
Oggi parlerò con Maurizio.
Ore 18.18
Ho parlato con Maurizio. Sul finire della riunione che avevamo
programmato per oggi sono riuscito a condividere con lui e Giulia la
mia idea per la tesi. […] Mi ha detto due cose che credo sia importanti e
da tenere in considerazione. La prima, riguardava l’applicabilità del
metodo al “nostro” contesto. Questo, ho già scritto prima, che sarà la
mia domanda di ricerca e caratterizzerà la mia valutazione dell’intero
processo. Come uno strumento calato in un contesto interagisce e
cambia quel contesto, cosa produce. Il secondo aspetto riguarda la
dimensione del pudore, la sua preoccupazione è che le persone
abbiamo, incontrino difficoltà a condividere le loro sofferenze/disagi in
uno spazio collettivo.
Altre cose. Mi ha detto che questo progetto potrebbe riguardarci come
gruppo; io gli ho anche detto che sarebbe bello in un’ottica
sperimentale, dopo la tesi, pensare di proporlo all’interno delle case
della salute. Gli ho detto di aver comunicato a Tarsitani di voler
dedicarmi a questo e di svincolarmi dalla frequentazione al
Sant’Andrea. E lui proprio mi ha detto “quindi il tuo tirocinio sarà
itinerante”, ho confermato questa sua ipotesi citando Gnolfo.
Tutto si è sviluppato fluidamente. Non mi aspettavo si svolgesse tutto
così facilmente e che la mia idea fosse stata accolta con così
tranquillità. Adesso è realtà, adesso dipende da me. Adesso posso fare,
per quest’anno e mezzo, tutto quello per cui penso di essere portato, ho
l’opportunità di fare quello in cui credo e sento mi appartenga. Quando
leggevo, studiavo e riflettevo sulla promozione della salute, salute
globale, partecipazione; quando scelsi di fare la specializzazione in
igiene per fare salute globale, c’era qualcosa in me che aveva in mente
proprio questo. La possibilità di avere lo spazio e il tempo di qualità per
riflettere e agire creando sapere.
In queste settimane proverò a buttare giù un piano d’azione e scriverò il
progetto.
Roma, 3 Dicembre 2014
Oggi pomeriggio ci sarà la riunione con i medicisezacamice per
organizzare l’incontro con gli abitanti di Santa Croce previsto per il 5
dicembre.
Mi sono proposto di facilitare l’incontro. Credo molto in questo
processo e lo voglio curare bene. Penso che dividerò la riunione in tre
momenti. Un primo momento sarà dedicato ad esplorare i livelli di
implicazione di ciascuno di noi all’interno del percorso. Questo
momento corrisponde soprattutto alla mia esigenza di esplicitare i miei
diversi livelli di implicazione nella ricerca/processo. Un secondo
momento dedicato ad una immaginazione guidata di quello che ci
piacerebbe possa accadere durante l’incontro. Infine il terzo momento
sul metodo, come vogliamo stare nel processo, quali compiti avere,
cosa osservare, come valutare.
Per la prima parte mi immagino un momento ad occhi chiusi di 5 minuti
in cui ognuno riflette sulla propria implicazione e poi la verbalizza.
La seconda parte momento in coppie. La persona che ascolta guida
l’altra persona nel processo di immaginazione. Poi condivisione,
ognuno riporta quanto detto dall’altra/altro.
Terzo momento: metodo. Che cosa vogliamo valutare/osservare e
perché? Di cosa e chi abbiamo bisogno?
Nelle varie ed eventuali metterei l’organizzazione di una riunione del
gruppo sul “diritto all’abitare” del progetto del People’s Health
Movement. Infatti alcune attività di questo gruppo di lavoro si stanno
sovrapponendo con quelle che come medicisenzacamice faremo a Santa
Croce. Io continuo a vederle come due attività separate anche se tra loro
connesse.
Rispetto all’implicazione. Dal momento che ho deciso che questa
attività sarebbe diventata anche l’argomento della mia tesi ho iniziato a
sentire qualche cosa in me che diventava più rigido: avevo deciso che
l’avrei fatta sulla TCI e così dovrebbe essere. Se non faccio questo, non
sto facendo quello che ho detto di fare per la tesi. Questa sensazione di
tensione, di rigidità-impaziente mi ha fatto riflettere sulle mie
implicazione nella ricerca. In questo processo sono implicato come
Alessandro poiché in questo percorso vedo una possibilità tangibile di
realizzarmi come individuo, fare quello che mi piace fare. Implicazione
come membro del gruppo medicisenzacamice. Questa attività come
gruppo potrebbe arricchirci e contribuire a formare una nostra parte
identitaria come gruppo: potrebbe essere un’attività del gruppo, con la
quale dare sostenibilità economica e progettuale a quello che facciamo.
Implicazione come specializzando. Questo percorso rappresenta il mio
percorso di tesi, mi caratterizzerà in futuro e mi potrà aprire o chiudere
eventuali possibilità lavorative, mi caratterizzerà come professionista.
Inoltre sento un vincolo con Tarsitani e Marceca che mi hanno dato
fiducia. Soprattutto a questo livello sento la paura del fallimento, se
fallisco tradirò la fiducia dei mie prof, se fallisco che ne sarà della mia
tesi. Credo sia importante sapere per me e per gli altri il punto da cui
parto.
Nonostante abbia molto tempo per la mia ricerca, dal momento in cui
ho deciso di fare la tesi sento qualcosa in me che dice che “devo”
sbrigarmi. Devo fare un piano operativo, capire quali testi consultare,
scrivere un progetto. Tuttavia gli impegni di queste settimane mi hanno
impedito di dedicare tempo per fare questo. Ma, provo a seguire il mio
metodo “dare valore al caso” e mi faccio guidare nella scelta dei testi
dai contesti nei quali mi si presentano e facendo riferimento
all’esperienza e agli incontri che mi hanno portato fin là, dove ho
incontrato quel libro, quell’autrice, quella persona.
Così mi è successo che sabato, durante la presentazione del libro
“medici senza camice. Pazienti senza pigiama” abbia conosciuto
un’ostetrica che svolge un’attività con le donne durante la fase del post-
parto. Ha creato uno spazio di ascolto reciproco dove le donne possono
ascoltarsi, aiutarsi e conoscersi. Mi è sembrata molto in linea con quello
che voglio fare io e con la TCI. Ho preso il suo contatto, non è escluso
che l’andrò a trovare a Perugia. Infine, nel banchetto dove vendevo i
libri ho trovato due libri di Giuseppe Bucalo. Bucalo è un assistente
sociale, di cui mi aveva parlato Nicola, e che ha fondato un’esperienza
di comunità in un paesino Siciliano. Questa esperienza è fondata sulla
salute mentale e si muove nel solco dell’antipsichiatria, riconoscendo
alla sofferenza mentale delle cause sociali e soprattutto togliendola dal
dominio normalizzante della psichiatria. L’intuizione di dare vita a
questa esperienza, dove chiunque è libero di entrare e uscire dalla
comunità e vivere all’interno del paesino, dove tutte le persone del
paesino si sono abituate a non dare etichette psichiatriche ai
comportamenti delle persone, dicevo questa intuizione gli è venuta da
una storia vera. Questa storia racconta di una persona che era convinta
di essere Napoleone, quando l’hanno sottoposta alla macchina della
verità e lei ha affermato di non essere Napoleone, la macchina ha
registrato quell’affermazione come falsa. Perché racconto tutto questo,
perché questa storia, dopo averla sentita da Nicola, mi ha aiutato nei
giorni passati a condividere la mia scelta quando parlavo con Marianna
e Nadia. Per me ha a che fare con la volontà del desiderio, di come la
nostra volontà è in grado di modificare la realtà, addirittura la nostra
identità.
Ho letto di un fiato il suo libro “ Dietro ogni scemo c’è un villaggio” e
ho preso diversi spunti interessanti per la mia ricerca.
Di seguito qualche frammento che ho sottolineato
Pg 61 “una persona non si dissocia, non si rompe, non si frantuma, se è
accettata e riconosciuta in quello che sente, dice, vuole.”
Pg 70-71 “E in questo viaggio ho scoperto che tutti impazziamo. Tutti
partiamo per questa avventura di trasformazione (che non può che
iniziare dalla rottura con ciò che eravamo o ci consideravano) e
torniamo alla vita, all’identità, all’essere riconosciuti, con un senso più
profondo di noi stessi e di ciò che siamo.
E questo viaggio che non attraversa territori immaginari, dentro la
nostra testa, ma si snoda su questa terra, in mezzo alla gente che ci
ama, ci odia, ci vede, ci giudica, ci fraintende, ci attacca, ci abbraccia,
ci difende… è un viaggio nella somiglianze e nelle differenze in cui
contrattiamo un cambiamento nel modo in cui gli altri ci vedono, ci
considerano o ci trattano.
E allora si scopre che esiste un “diritto” alla follia, un potere di
impazzire, che si basa sull’economia delle relazioni interpersonali in
cui si è inseriti. C’è chi può intraprendere e portare fino in fondo il suo
viaggio e chi viene punito non appena accenna ad un timido
cambiamento.
La follia è un’esperienza comune. E per fortuna, il più delle volte, è
vissuta e agita come tale, senza appesantimenti “diagnostici” o
giudizi/terapie mediche.
Alcune volte, al contrario, il tentativo non va in porto: la persona viene
“dirottata” all’interno di un mondo (il circuito psichiatrico) in cui non
c’è terra su cui poggiare, aria da respirare, spazio su cui camminare,
realtà su cui sperare o su cui fantasticare… in un nulla in cui si perde
orientamento e stella polare: la ragione per cui si è intrapreso il
viaggio”.
Pag 73 “solo chi è parte del problema, prenderà parte nella soluzione”.
Pag 75 “Ritorna la loro “malattia” (questa si incurabile): la vita!”
Pag 106 “ma la vita non può essere guarita: la vita va vissuta.”
Pag 85 “credi che l’alternativa ad ogni manicomio siamo noi, ciò che
possiamo, pensare, immaginare, fare…”
Pag 87-89 “Ricercare le somiglianze, significa mettere in
comunicazione le persone, fare da tramite informativo (e emotivo),
amplificare i vissuti e le esperienze di autonomia e di alleanza,
significa lasciarsi attraversare dalle scelte altrui, farci attraversare
senza resistenze logiche o buoni consigli, farci mettere da parte… Così
ne io, ne altri, abbiamo una utenza: persone da accudire, curare,
cambiare; persone di cui essere responsabili; persone delle cui
esperienze e comunicazioni essere esperti.
Non accettiamo alcuna delega, ne alcuna “presa in carico” della
situazione: ci battiamo perché le persone vengano lasciate a se stesse,
libere di confrontarsi, scontrarsi, trovare le loro sintesi.
[…]
Noi vogliamo imparare a vivere gli infiniti luoghi di “mediazione”
interumana in cui si decide la nostra vita, dei nostri vissuti, delle nostre
esperienze (la casa, la piazza, le strade, i mezzi pubblici, le chiese, le
spiagge…)
[…]
Credo che le persone libere si aiutano da sé, trovando liberamente
persone e occasioni per farlo.”
Pag 115 “la sfida è saper camminare, vivere e testimoniare nei luoghi
aperti del sociale; essere ospitati piuttosto che ospitare; esporsi, dire,
allearsi. ”
Pag 103 “non è importante farsi curare, ma vivere. Hanno dedotto
istintivamente che la vita è una qualità di una rete di relazioni, di
persone, di luoghi significativi e significanti. […] Hanno concluso che
quanto c’era da fare era occupare questo spazio vuoto ed edificare, in
questo territorio morto, la cittadella della “follia liberata” (o della
normalità liberata).
Pag 107 “Se sapremo vincere la tentazione di negare, di sopprimere, di
far tacere il reale, se proveremo ad immergerci nella vita senza tentare
di guarirla, se […] sapremo ascoltare la mole di domande senza
risposta prima zittite che ci cresceranno dentro… allora forse
ritroveremo il filo della rete che ci unisce, i nessi perduti che incrociano
le nostre storie, il villaggio che è dietro ognuno di noi.”
Pag 121 “Il problema del “senso” da dare alla nostra esistenza e al
nostro essere in questo e in altri mondi, è al centro della nostra vita,
dovunque e comunque siamo organizzati.”
Detto questo credo sia importante provare a tracciare una strategia per
capire cosa fare:
Scrivere bozza progetto di ricerca entro dicembre;
Contattare Claudio Tortone per prendere contatti con la Prof.ssa
Norma de Piccoli;
Appena pronto il progetto farlo vedere alla Prof.ssa De Piccoli;
portarlo al comune per coinvolgere centro anziani;
Attraverso Santa Croce prendere contatto con un comitato di
quartiere.
Roma, 4 Dicembre 2014
Ieri c’è stata la prima riunione del gruppo per organizzare l’incontro con
le persone che vivono a Santa Croce.
Come detto mi ero proposto per facilitare l’incontro e così è stato. Alla
riunione erano presenti: Giuseppe; Viviana; PM; Susy; Antonio;
Martina (del gruppo di Tor Vergata) ed io.
La riunione si è sviluppata nei tre momenti descritti sopra. Ho registrato
la parte in cui parlavamo della nostra implicazione nel progetto e a
breve la risentirò provando a fare il punto.
Parlo solo delle sensazioni. La riunione mi è sembrata fluire senza
difficoltà, siamo arrivate a strutturare l’agenda attraverso il confronto e
l’ascolto e alla fine credo eravamo tutte e tutti contenti.
Oggi ho mandato una mail in cui descrivevo come era stata pensata
l’agenda per il 5. In sintesi ci sono tre momenti: la presentazione nostra
e del perché siamo qui; una parte di narrazione a partire da “cosa mi fa
star bene” e “cosa mi fa star male” e successiva condivisione; infine una
parte di valutazione.
Sono soddisfatto della proposta. Perché ho la sensazione che sia una
proposta che sta in piedi da sola in quelle due ore previste (19,00-
21,00). E questo è importante perché attraverso questa attività le
persone possono conoscerci meglio e capire quello che vogliamo fare
con loro. Rispetto a questo l’idea di continuare con la TCI sta ancora in
piedi e credo possa prendere questo percorso: se a loro piace quello che
faremo il 5, ci rivedremo il 17 e continueremo questa fase di
condivisione. Durante la condivisione potremo utilizzare l’approccio
della TCI ma non solo. Penso che dovremmo essere attenti a quello che
emerge. Per esempio, se molte condivisioni hanno una origine/problema
comune potremmo proporre alle persone di organizzare/progettare
qualcosa per quel problema specifico. Credo che queste persone, e in
generale le persone, abbiamo bisogno di veder conclusi i loro percorsi.
Per questo è importante che i nostri incontri, soprattutto all’inizio,
abbiamo un inizio e una fine durante l’incontro stesso e
contemporaneamente una continuità e una progettualità tra un incontro
e l’altro.
Roma, 08 Dicembre 2014
Venerdì 5 dicembre abbiamo fatto il primo incontro con le persone che
vivono a Santa Croce.
Avevamo previsto che avremmo iniziato alle 19,30, considerata la
mezz’ora di ritardo abituale. Io sono arrivato alle 18,30. Giuseppe mi
aveva chiesto di vederci un po’ prima per rivedere insieme la nostra
parte (lui doveva introdurre l’attività ed io poi fare la facilitazione).
Dopo qualche minuto che aspettavo da solo è arrivato PM che mi ha
raccontato di Padova. Giuseppe invece è arrivato verso le 19.50.
Il primo ad arrivare è stato E. Ma a parte lui, non sembrava esserci
nessun altro/altra intenzionato a venire. Poco dopo qualcuno del
comitato si è affacciato per vedere se c’era qualcuno.
Visto il numero esiguo abbiamo pensato di proporre di spostarci nella
sala dove c’è la bio-osteria visto anche che l’auditorium era occupato
dal Teatro Valle. Abbiamo anche pensato che sarebbe stato meglio
poiché potevamo metterci in cerchio.
Quando sembrava proprio che ci stavamo spostando in bio-osteria le
persone del valle sono uscite e ci hanno lasciato lo spazio.
PM presenta il nostro gruppo e la nostra storia e ci siamo presentati per
nome e abbiamo chiesto anche loro di fare lo stesso. Avevamo deciso di
non fare più l’attività visto che le persone erano molto poche. Tuttavia,
mentre PM stava parlando si sono aggiunte altre persone. Quando è
toccato a me parlare, Vivi e anche gli altri mi hanno suggerito invece di
provare a fare l’attività.
Giuseppe ha spiegato l’attività ed io distribuivo penne e fogli. I fogli
avevano sul retro parti delle relazioni di Rebibbia di Susy e lei,
accorgendosi, è andata un po’ nel panico. Ma siamo riusciti ad andare
avanti.
Abbiamo scritto tutti, anche noi. C’erano delle bambine, tre se non
sbaglio e ho pensato che poteva essere carino coinvolgere anche loro.
Mentre le persone stavano scrivendo, una di loro mi ha chiesto se era un
test psicologico. Io l’ho tranquillizzato dicendo che non lo era e che
l’avevamo fatto già altre volte con altre persone.
Finito di scrivere abbiamo iniziato la condivisione. Prima di iniziare la
condivisione ci ho tenuto a specificare il motivo per il quale avevamo
proposto questa attività. Ho detto loro che durante la nostra giornata ci
riesce molto difficile fermarci a riflettere un momento su cosa ci far star
bene o male e che già farlo ci aiuta ad essere più consapevoli.
Poi è iniziata la condivisione. Quasi tutti hanno condiviso la loro storia
di benessere o malessere. Una persona nel farlo ci ha detto che aveva
letto il nostro libro e aveva capito cosa noi volessimo fare; e ci ha detto
che è stato male quando un medico non ha parlato chiaramente con lui
quando sua sorella stava male.
Infine abbiamo fatto la valutazione. Le persone si sono dette soddisfatte
dell’attività e che gli avrebbe fatto piacere proseguire, erano curiose di
vedere cosa potrebbe succedere. Una ragazza venuta dopo ci ha detto
che era stato bello aver fatto questa attività proprio nell’auditorium
perché di solito loro sono abituati a vedere quel posto come uno spazio
dove si discute durante l’assemblea e non come uno spazio dove parlare
di sé stessi e della propria salute. Un signore ci ha detto se comunque
una persona che aveva problemi di salute poteva dirceli se noi
potevamo comunque visitarla. Io gli ho detto che sarebbe interessante
capire perché questa persona ha bisogno di farsi visitare da noi quando
potrebbe avere il suo medico di base, gli ho detto che avremmo potuto
riflettere su questo e che avremmo potuto farlo in assemblea per
condividere quelle che sono le principali difficoltà.
Infine quelli del comitato si sono sentiti in dovere di scusarsi per il
basso numero di persone. Io ho sottolineato che questo non era
importante. Noi vogliamo solo persone che vogliono esserci, non deve
esserci nessun obbligo.
Alla fine le persone erano circa 14.
Finita la riunione abbiamo scherzato sulla Roma e sulla Lazio.
È stato una bell’incontro, c’è stato calore e fiducia. E sono successe
almeno tre cose interessanti, secondo me.
La prima. La ragazza che ci ha detto dell’importanza di fare questi
incontri nell’auditorium. Importante per due motivi. Il primo: al di là
dell’impatto diretto sulla loro salute, anche solo quel singolo momento
li ha aiutati a risignificare quel posto. A vederlo con occhi diversi. Il
secondo motivo ha a che fare con il setting. Per noi era così importante
il setting e il cerchio che stavamo per scegliere la bio-osteria; per
fortuna invece abbiamo optato per l’auditorium. C’è qualcosa di tutto
questo che mi ricorda la pragmatica della comunicazione umana.
Qualcosa però che non afferro ancora. Ma ci voglio ritornare.
La seconda. La donna araba che ha parlato di sua figlia e si è
commossa. Mi domando se e come abbia l’opportunità di parlare in
assemblea. Lo spazio che abbiamo aperto le ha dato questa possibilità.
La terza. Abbiamo sottolineato quanto per noi sia importante che le
persone si sentano libere di scegliere se venire o meno. [...].
Sono curioso di vedere come questi tre elementi ed altri che non ho
saputo notare impatteranno sulla realtà di santa croce in maniera
ecologica anche su altri equilibri.
Sabato sera sono andato a Santa Croce con Susy e P. mi ha chiesto
come era andata. Mi ha detto che vuole provare a ridurre la gerarchia
interna alle occupazioni e che sta cercando di capire come. Io gli ho
detto che l’attività che stiamo facendo potrà aiutare.
Adesso ascolto quello che ci siamo detti subito dopo l’incontro.
PM: durante la condivisione le persone mi sono sembrate un po’
trattenute.
Giuseppe: questa attività mi ha aiutato a capire che quello che noi
proponiamo non è chiaro neanche per me. Intuisco che è una cosa
importante da fare però non lo capisco. Ero terrorizzato. Mi sono detto
vabbè iniziamo così vediamo che succede, così capisco dove si và con
questa cosa. Infatti quando ho spiegato il gioco penso di aver trasmesso
che nemmeno io lo capivo. Io non ho capito quello che stiamo facendo.
E a me è sembrato che molte persone erano perplesse mentre
proponevamo l’attività e mentre scrivevamo. Questa cosa mi ha messo
in contatto con quello che facciamo come gruppo, è una pratica reale. Il
momento della condivisione è stato un momento abbastanza intenso
dove la gente ascoltava, c’era attenzione. Anche nello scrivere, alcuni
erano presi dallo scrivere.
Susy: mi è sembrato che chi ha condiviso lo ha fatto in maniera sentita.
L’incontro è finito in maniera serena. è stato molto bello ed importante
quello che ha detto la moglie di G. circa l’utilizzo di questa stanza
anche con attività distensive perché evidente che qui l’occupazione è
abbastanza tesa e io l’ho visto quando sono stata all’assemblea.
Ale: io oggi ho percepito quello che noi diciamo essere “la relazione
che cura”. A me hanno dato l’impressione di avere molti meno dubbi
rispetto a noi su quello che stiamo facendo. A me hanno dato l’idea che
loro hanno capito molto e quando dico che l’hanno capito dico che
l’hanno capito visceralmente; mi ha aiutato a capire questo la
commozione della madre (cit. Bateson “una lacrima è una cosa
intellettuale”), il ragazzo che ci ha detto di aver letto il libro. Mi sono
sembrati in ascolto, senza pregiudizi, apertura. Rispetto al setting.
Quanto l’importanza del setting è relativa in base al posto nel quale stai.
Anto: il clima è stato positivo sia nella scrittura sia nella condivisione.
La dimensione raccolta ha favorito. Per fortuna che sono arrivati in
pochi perché si è aperta la discussione sull’obbligo o meno che ci ha
permesso di sottolineare che per noi è importante che le persone
vengano con voglia.
Claudio: queste persone mi sembra abbiano avuto l’urgenza di esporsi
di dire qualcosa su se stessi di autodeterminarsi. Mi domando in che
modo avrebbero risposto persone che appartengono ad altre classi
sociali.
Ale: in generale c’è stata molta flessibilità sia da parte nostra che da
parte loro.
Giuseppe: ho detto che non capisco perché la lettura che cerco di dare a
queste cose è una lettura nozionistica. Voglio dare una definizione con
le parole, voglio provare a definirlo dentro una cornice molto stretta.
Probabilmente è vero, le persone che erano qui lo capiscono meglio,
meglio di quanto lo capisco io. Infatti sono molto grato di questa attività
che abbiamo fatto, io pensavo ad un macello, un disastro, non me lo
riuscivo ad immaginare. Penso a quando Euli ci ha detto che noi
tendiamo ad intellettualizzare tutto quello che facciamo e quanto questa
cosa ci allontana dal provare visceralmente, emotivamente quello che
facciamo. Vorrei osservare come cambia la nostra lettura della realtà in
base anche a quello che noi impariamo da loro. Io sento che voglio
impararlo a fare questo tipo di discorso. È molto, molto positivo per me.
A volte non riesco ad essere sincero, non riesco a fidarmi degli altri e
questa è una cosa che riscontro anche in ospedale. Per me è un esercizio
importante.
Vivi: ho percepito un’emanazione calda. Un incontro che in generale
trovo positivo per le cose che avete detto voi. Il nostro livello: noi
siamo abituati (come medici) ad avere il binomio bisogno-risposta: la
gente ci dice i suoi bisogni e noi rispondiamo. Occasioni come queste di
incontro aperto fanno sì che noi abbiamo fatto il contrario di quello che
normalmente facciamo. Stavolta ci siamo fatti noi le domande senza
avere le risposte. E questo può comportare delle difficoltà, tra le quali
quella di non capire. Noi siamo chiamati a capire nel nostro lavoro. In
questo incontro mi è sembrato che le persone stessero bene perché
erano il soggetto di quello che dicevano. La portata politica e sociale di
questo è secondo me gigantesca. Perché se si crea uno spazio dove le
persone si possono riappropriare dei propri pensieri e delle proprie
azioni e c’è uno spazio per farlo. La gente qua si immagina come degli
occupanti, come si immaginano le persone qua? Io ho percepito verso di
noi una fiducia smisurata che ho percepito come la stessa che ho
quando sono in ambulatorio come medico, il nostro ruolo sociale. Io
terrei presente questa cosa, come gli altri ci vedono.
Anto: mi sarei aspettato una richiesta maggiore di fare l’ambulatorio.
Secondo me il passaggio verso una decostruzione della nostra
immagine c’è stata quando tu (ale) gli ha rimandato che potremmo
ragionare insieme su quali sono i problemi di una singola persona, come
fare per orientarla.
Susy: questo passaggio è stato importante: condividere insieme,
condividere tutti per trovare risorse negli altri. Credo che questo sia
importante, perché qui è disgregata come realtà.
Ale: rispetto alla condivisione penso alla storia della signora che si è
concessa di emozionarsi davanti a noi. Mi domando quante volte questa
donna abbia potuto parlare durante un’assemblea. Chissà come questa
signora vedrà questo spazio, come lo avrà vissuto.
[...].
Ale: come si sono ribaltati i ruoli. E. e M. non hanno parlato.
Susy: i ruoli di chi sta nel comitato si sono invertiti.
Abbiamo deciso di fissare il prossimo incontro per martedì 16 alle
19,00.
Roma, 10 dicembre 2014
Ieri abbiamo fatto la riunione per preparare il prossimo incontro a Santa
Croce.
Pm ha facilitato e ha proposto di iniziare la riunione dalla valutazione
fatta dopo l’incontro. Io ho letto quanto da me trascritto direttamente
dal file audio.
Dopo alcune riflessioni sparse PM ha poi chiesto di fare alcune
proposte per il prossimo incontro. Dopo aver aspettato qualche secondo
ho fatto la mia proposta.
La mia proposta, come avevo già anticipato all’interno del gruppo,
consiste nel tentare di mettere insieme l’approccio della TCI di Barreto
con la comunicazione nonviolenta e la socio-analisi. Infatti la TCI mi
sembra molto utile per far focalizzare le persone su un singolo
problema nel qui e ora dell’incontro ma, almeno da quello che io ho
capito, non affronta poi un’analisi di quelli che sono i fattori che
producono sofferenza e patologia. L’aspetto positivo dell’affrontare nel
qui e ora uno dei problemi proposti e scelti dall’assemblea è che da la
sensazione alle persone di toccare qualcosa di concreto con un basso
dispendio energetico (gli chiediamo di dedicare due ore a settimana del
loro tempo, di sedersi ascoltare e condividere emozioni); l’aspetto
negativo appunto e che non dà alle persone nessuna chiave
interpretativa sulla realtà nella quale vivono. Questo passaggio può
essere colmato dalla socio-analisi. Quindi quello che mi aspetto è di
fare un’analisi trasversale ai singoli incontri.
Nei singoli incontri si affronta il singolo problema; con il trascorrere
degli incontri i problemi condivisi formeranno delle mappe concettuali
che verranno restituite all’assemblea la quale poi rifletterà criticamente
su queste. Formeranno le mappe concettuali non solo i singoli problemi
affrontati in assemblea ma anche quelli che verranno solo condivisi.
Tutto questo prevede che oltre alla figura del facilitatore ci sia la figura
del verbalizzatore e che a scadenze regolari (una volta al mese?) si
proponga una restituzione di quanto affrontato nelle assemblee.
Questa la proposta che ho fatto. Tutte e tutti si sono dimostrati essere
interessati alla proposta, soprattutto Elisa. Al di là dell’interesse e della
fiducia dimostratami sono stati esplicitati alcuni dubbi circa come far
emergere le loro aspettative, i loro bisogni etc… In tal senso PM ha
proposto di dedicare il prossimo incontro per riflettere su questo punto.
Susy invece si interrogava sulla difficoltà che le persone potevano avere
ad esprimersi. Mi sono sentito di rispondere che questa analisi dei
bisogni era meglio farla in modo trasversale e che sarebbe emersa con
l’attività proposta partendo, ancora meglio, dai problemi. Infine, sulla
difficoltà a condividere, ho fatto presente che se le persone verranno
perché lo vogliono e interessate alla proposta avranno comunque
un'emergenza narrativa che li porterà a parlare.
Giuseppe era invece dubbioso sulle nostre capacità interne. Eli ha fatto
un bell’intervento in sua risposta dove ha spiegato l’importanza di
provate a fare e di come sia difficile trovare qualcuno a cui fare
riferimento visto che nessuno nel nostro contesto si è cimentato su
questo ambito. Io ho ribadito le stesse cose, dicendo che secondo me, in
maniera variegata tutti quanti noi avevamo sufficiente competenze e
consapevolezza per facilitare questo processo. Lui ha risposto che gli
sembrava autoreferenziale e che avrebbe preferito un supervisore, tipo
R. A quel punto, in maniera provocatoria e anche perché infastidito ho
esclamato “Io no!”. In seguito ho avuto modo di spiegare la mia
posizione insieme ad Elisa. Ho detto che questo processo sta nel solco
di una ricerca collettiva e partecipata e che non mi interessa avere
qualcuno che mi super-visioni ma qualcuno con cui condividere dubbi e
riflessioni scambiandoci e formando insieme sapere.
Infine tutti si sono dimostrati d’accordo nel provare sin dalla prossima
volta questo approccio. Hanno chiesto chi se la sentiva di facilitare e io
ho detto che me la sentivo e poi ho detto che sarebbe stato opportuno
avere delle persone che tenevano un verbale dei problemi condivisi.
Abbiamo deciso di fare sempre un primo passaggio scritto (può essere
utile per raccogliere i commenti che non verranno condivisi) e di far
partecipare, se lo vogliono, anche i bambini.
Mentre facevo queste proposte mi sono sentito di forzare un po’. Però
allo stesso tempo mi sorprendevo di come gli altri non mostrassero
resistenza. Le altre volte c’era stata molta più titubanza rispetto alle mie
proposte, ieri nessuno (Giuseppe a parte) mi ha dato questa sensazione.
Hanno accolto la proposta. Alla fine della riunione ho esplicitato questo
facendo loro la richiesta di farmi notare se in alcuni momenti tenderò a
forzare troppo la mano.
La mia paura di forzare la mano, di impormi, è quella di togliere alle
persone l’opportunità di partecipare di dire la loro, di inibire il loro
processo creativo. Allo stesso tempo, per fare questo, non voglio
impedirmi di immaginare, proporre quello che penso.
Roma, 17 Dicembre 2014
Ieri sera c’è stato il secondo incontro con le persone che abitano a Santa
Croce.
Sono arrivato con elisa con 7 minuti di ritardo più o meno. Avevo una
leggera ansia perché avevo il sospetto fondato che non ci sarebbe stato
quasi nessuno all’incontro. Infatti, la sera prima avevamo chiesto se
avevano sparso la voce ma tutti quelli che avevano partecipato avevano
detto di no. Inoltre noi non avevamo attaccato il cartellone e mi sono
trovato a scrivere su un foglio A4 che l’indomani ci sarebbe stato
l’incontro.
Arrivati all’auditorium vediamo che ci sono GiuliaM; Giuseppe; PM e
E. Sospetto confermato. Dopo qualche momento è arrivato G. (che
c’era anche la scorsa volta). Io chiedo a E. e G. se sanno se arriverà
qualcuno, sono un po’ preoccupato, deluso. Mi siedo vicino a loro per
tenere un contatto anche perché gli altri parlano tra loro. Poi mi sono
alzato per uscire fuori dall’auditorium nel caso in cui qualcuno passasse
di li. Sono salito anche fino al picchetto per vedere se c’era qualcuno
del comitato per invitarlo a partecipare, ma non ho visto nessuno e in
parte poi avevo cambiato idea, se volevano venire sarebbero venuti da
soli.
Di ritorno stanno parlando tutti insieme dell’occupazione e di altri, nel
frattempo E si è spostato nell’altra riunione. Chiedo agli altri se
vogliamo provare ad iniziare e loro dicono di provare. Vado a chiamare
E. Una volta tutti presenti, racconto loro quello che avevamo in mente
di fare e che per noi va bene lo stesso farlo anche solo con due persone.
Loro sono d’accordo nell’iniziare, tanto male conoscersi non fa, dice G.
Inizia G parlando della sua rabbia nei confronti del sistema e di come
vorrebbe in parte riuscire a controllarla canalizzarla anche per i suoi
figli. E lui non ci dorme la notte quasi. Non riesce a capire come fare ad
educare i suoi due figli in questo contesto.
Poi E dice che gli rode il culo, gli rode il culo perché mai nella sua vita
avrebbe immaginato di vivere in uno spazio occupato e invece si trova a
vivere in questo modo. E a sessanta anni si trova a vivere da solo, senza
un lavoro, senza una casa, senza opportunità. Vive alla giornata e questo
non è bello. Dice che sente che il tempo sta finendo per lui, e non vede
vie d’uscita.
Sono due condivisioni che pesano come macigni tanto sono dense.
Questa è la vita, amici e amiche mie. Queste sono le persone che
vivono, non i casi clinici dei libri. Mi colpisce come E in tutta la sua
condivisione non abbia parlato dell’infarto.
G, dice ad E che delle opportunità ci possono essere, si possono aprire
con l’autoreddito etc… E non sembra essere convinto.
Io gli dico che sembrerebbe che quello che li accomuna è la loro rabbia.
E da li inizia un ulteriore approfondimento in cui G parla della sua
infanzia, anche dopo che io ho condiviso parte della mia vita e del
rapporto con mio padre.
Io non so quale sia stato l’impatto di tutto questo, ma questo è quello
che io voglio fare, vivere le relazioni umane in maniera diversa da come
ci è stato insegnato. Queste condivisioni sono ormai relegate all’ambito
psichiatrico o psicologico ed è stato tolto alle persone il diritto di
condividere la loro esistenza, la loro vita, le loro preoccupazioni, ci
hanno obbligati a vivere la nostra vita nella solitudine. Più tardi ho detto
questa cosa ad elisa dicendole quanto è diverso dire che questa cosa qui
ha una funzione psicologica piuttosto che dire che ha una funzione di
trasformazione sociale. Io voglio vivere una vita in cui le persone siano
in grado di avere questi tipi di condivisione tra di loro, questo anima la
mia ricerca, la fiducia nelle persone, la voglia di stare con loro in
maniera calda e autentica. La mia ricerca non consiste nel valutare se
questo sia vero o no, io ho scelto che questo sia vero per me perché non
posso fare altrimenti, la mia ricerca consiste nel cercare di creare
contesti e strumenti per farla emergere e per mostrarla.
Quando avevamo quasi finito la condivisione si è unito M. Un ragazzo
rumeno che fa l’infermiere e che ci chiede il perché non proviamo a
dare alle persone qualche consiglio medico che ne avrebbero bisogno.
Io gli dico come mai queste persone non vanno dal medico e lui dice
che non possono andarci, gli faccio notare che così non è e lui dice
perché le trattano male e parte con una riflessione su quanto importate
sia la relazione. Noi gli diciamo che vogliamo fare esattamente questo,
vogliamo lavorare insieme alle persone per ascoltarle. Vogliamo dare
loro dei consigli, ma vogliamo anche che alcuni dei loro problemi siano
condivisi. Condividere problemi e soluzioni. Lui dice che sarebbe
perfetto e ci propone di dirlo in assemblea. Ha molta voglia, parla molto
non ci fa finire di parlare, si vede che gli sta a cuore quello che dice. Ci
dice anche che le persone si fanno fare le punture da persone che non le
sanno fare rischiando, questo perché il medico da loro la prescrizione
poi come loro si fanno le punture non gli interessa. Parla
dell’importanza della prevenzione ma allo stesso tempo si contraddice
dicendo che è importante avere dei farmaci a disposizione.
Carlo Arcuri nel suo commento alla “Filosofia” di Deleuze e Guattari
ne “Le ultime lezioni sono già state fatte” afferma che: “Ciò che viene
chiamato <<discussione>> non è un confronto su un problema, ma il
problema stesso in divenire, in movimento. È così che i malintesi, che
sembrano bloccare le conversazioni le fanno invece avanzare e le
sostengono, come quei lapsus che non contraddicono una presunta
trasparenza del linguaggio senza rivelare, al tempo stesso, un territorio
sconosiuto”.
Mi sento di citare questa frase qua perché, dopo l’incontro nella nostra
valutazione interna, Giuseppe si preoccupava se l’intervento
dell’infermiere fosse stato bloccante nei confronti di E e G e in generale
ci chiedevamo come facilitare questi tipi di situazione. Ora
contestualmente a ciò che è successo ieri io credo che tutta la
discussione, tutti gli imprevisti e le interruzioni facciano parte della
discussione ossia del problema stesso in divenire. L’incontro di ieri,
proprio perché è avvenuto e proprio perché è avvenuto in quel modo ha
contribuito e sta contribuendo a costruire quello che noi stiamo facendo
in quel posto con quelle persone. È tutto magnificamente unito, è solo la
nostra smania di ordine e di controllo, la nostra paura di “naufragare”
che spezzetta, ordina e norma il linguaggio. Il nostro intervento, la
nostra presenza, l’incontro di ieri, non è solo un progetto, un tentativo
di stare su un problema, ma è il problema stesso in divenire, in
movimento. Se facciamo questo possiamo accettare l’imprevisto,
possiamo accettare che le cose non avvengano come ce le aspettiamo, e
proprio perché non avvengono come ce le aspettiamo contribuiscono
alla costruzione e soluzione del problema, semplicemente il problema
non si risolve e basta ma evolve, cambia, muta. Solo accettando questo
possiamo avere fiducia nelle persone e dare loro il potere della loro vita,
dare loro la responsabilità di voler finire quello che stavano dicendo e
dare loro la possibilità di cercare un senso a quello che provano e a
quello che fanno, senza che ci sia il sapere medico e psichiatrico a
normare i loro desideri, le loro interazioni, i loro problemi, le loro vite.
Credo che convenga soprattutto ai medici e agli psichiatri credere che le
persone non siano autonome e non tanto alle persone stesse. Non è vero
che la preoccupazione del medico o dello psichiatra è quello di tutelare
la vita del paziente o i suoi sentimenti, in fondo quello che si vuole
tutelare sono le sue competenze, il suo sapere e il senso del suo
mestiere, del suo sapere e del suo potere. Se c’è solo un modo per
esprimere se stessi, ci saranno gli esperti di quel modo di comunicare se
stessi e io non potrò esprimere me stesso se non al di fuori di quella
norma dettata ed imposta dall’esperto. Io voglio sentirmi libero invece
di sbagliare insieme alle persone nella ricerca di senso, perché l’atto
stesso del conoscere espone al rischio dell’errore, e se non si accetta di
correre questo rischio non solo non si conosce, ma non si vive. Voglio
riappropriarmi e far riappropriare le persone del rischio di sbagliare, di
commettere l’errore contribuendo così a non far commettere l’errore più
grande che è quello di non vivere (posto che rispetto come scelta anche
questa se consapevolmente vissuta).
Ci preoccupiamo se siamo più o meno chiari e nel farlo cerchiamo quasi
di mettere la parola fine al nostro presentarci e dire chi siamo e cosa
stimo facendo in questo posto. Come a dire “te lo spiego il più
chiaramente possibile così tu hai capito e non c’è rischio di
fraintendimenti”. Mentre invece l’atto di raccontarsi, di rispiegare il
nostro senso di stare li, più e più volte, lasciando spazio ai malintesi è
parte dell’intervento stesso. Ben vengano persone che non hanno capito
una cosa per un’altra, questo ci da l’opportunità di entrare in dialogo
con lei, e di costruire nuovi sensi insieme a loro. Per quanto mi riguarda
non c’è volantino colorato che tenga (e comunque ben venga anche il
volantino colorato) per spiegarci; la spiegazione, la comprensione è
qualcosa che avviene in situazione e attraverso il dialogo altrimenti non
è. Altrimenti è marketing sociale, è pubblicità. È partire dalla pretesa
che quello che dico e scrivo non può essere frainteso perché c’è solo un
modo per interpretare le mie parole e quello che dico.
Heisenberg “ogni parola o concetto, per chiari che possano sembrare,
hanno soltanto un campo limitato di applicabilità”. E per completare
“Gli osservatori sono necessari per far sì che l’universo esista” J.A.
Wheeler
Mi viene in mente quanto scrissi in occasione di una mia relazione sulla
partecipazione comunitaria.
Se l’approccio centrato sulla persona può essere riassunto secondo
l’affermazione: “Non è che questo approccio conferisca potere alla
persona; esso non glielo toglie mai”, quello centrato sulla comunità può
essere così espresso “Non è che questo approccio conferisca potere
alla comunità; esso non glielo toglie mai”. In questo modo il potere
non è qualcosa che l’istituzione (in questo caso sanitaria) concede alla
comunità ma è qualcosa che ad essa si riconosce come sua
caratteristica/diritto fondante: non può esserci comunità senza
partecipazione, non può esserci partecipazione autentica senza il potere
di decidere, non può esserci salute senza il potere della comunità di
decidere i termini della propria esistenza
Infine, abbiamo deciso di fare l’incontro anche solo con due persone.
Che vuol dire questo? A posteriori posso dire che aver deciso ciò ci ha
permesso di entrare in contatto con le vite di E e di G e aver ascoltato M
che ci ha portato a decidere di rifare un passaggio in assemblea
(quando, almeno io, stavo iniziando a pensare che forse avevamo
fallito), questo ha fatto si che il nostro percorso non si fermasse e
ricevesse linfa dall’incontro. E poi ancora, credo che questo ci insegna
la differenza tra organizzare l’incontro, gli incontri, in funzione di chi li
organizza o per chi sono organizzati. Nel primo caso, avremmo potuto
cedere all’orgoglio ferito e dire che due persone erano decisamente
troppo poche per noi senza chiedere loro se si sentono “troppo poche”
per iniziare. Nel secondo caso, si da importanza ad ogni singola persona
e la si fa esistere a prescindere da quello che io/noi avevamo pensato
per lei, è la si crea l’incontro.
Nella mattina di ieri, mi è invece arrivata la risposta dai referenti della
TCI in Francia. Copio e incollo qui di seguito la loro risposta e la mia
contro risposta.
“Buon giorno,
Ho messo molto tempo per rispondere alla vostra e-mail, per favore mi
scusi. Molto lavoro in corso! in particolare a causa delle formazioni in
TCI qui a Marsiglia. Io sono medica e io lavoro con i pazienti
addictive: Qualunque siano le nostre pretese di conoscenze mediche, i
nostri pazienti ci insegnano un pò di sapienza. Ben presto si scopre che
i pazienti fanno la maggior parte del lavoro, che sono loro che
decidono gli obiettivi e gli strumenti per il loro recupero (oppure no), e
che noi possiamo solo essere accanto a loro.
Da qui il mio interesse nella TCI. Dal 2005 conduco due gruppi presso
la clinica San Barnaba: gruppo mensile con i pazienti e le famiglie.
Inoltre l'ex associazioni di pazienti e professionisti interessati. C'è
spesso un centinaio di persone che frequentano il gruppo ... L'altro
gruppo, ogni settimana, riunisce pazienti e personale della clinica, e
riduce la sofferenza istituzionale.
Ho letto con molto attenzione vostri articoli. La riflessione sull'atto di
trattare come un atto politico e la posizione del medico mi sembra
essenziale. Questo mi ricorda di "Pedagogia del opprimido" di
PauloFreire.
È possibile trovare su nostro sito l'articoli TCI in francese, ma anche in
italiano e inglese :http://www.aetci-a4v.eu , sotto le linguette "poli
formatori" e “risorse e pubblicazioni".
Abbiamo un collega che lavora a Ginevra, Il Riccardo Rodari, che
parla un italiano perfetto. Ha partecipato a qualche formazione con
Adalberto Barreto. Potrebbe anche discutere con voi su questi diversi
temi.
Mettiamola questi scambi nella CC.
Saluto, Vorrei continuare questa discussione con piacere,
Nicole Hugon”
“Gentile Nicole,
grazie tante per la sua risposta e grazie anche per avermi voluto
rispondere in italiano. Mi scuso ma io non parlo francese, tuttavia, se
preferisce, per i prossimi scambi di mail può rispondere in francese e io
mi farò aiutare da alcuni miei amici per la traduzione.
Mi ha colpito molto quello che ha scritto "i pazienti fanno la maggior
parte del lavoro, che sono loro che decidono gli obiettivi e gli strumenti
per il loro recupero (oppure no),e che noi possiamo solo essere accanto
a loro." perché è molto simile al motivo per il quale sono rimasto molto
interessato dalla TCI e come "medici senza camice" abbiamo iniziato a
mettere in discussione il sapere medico per come ci viene insegnato.
Mi farebbe molto piacere prendere contatti con Riccardo Rodari e sarei
disponibile anche a venirvi a trovare sia a Marsiglia che a Ginevra.
Rimaniamo in contatto,
Buona giornata e grazie
alessandro rinaldi”
Ho condiviso la risposta con il gruppo e anche con Nadia e Martina.
Roma, 22 Dicembre 2014
Mi sono continuato a scrivere con Nicole. Le ho chiesto se potevo
andare a vedere il suo lavoro a Marsiglia e quale periodo sarebbe stato
il migliore. Lei mi ha detto che la prima settimana di Marzo sarebbe
potuta andare bene e che mi sarebbe stato utile imparare un po’ di
francese. Detto fatto! Mi sono messo a studiare un po’ di francese da
auto-didatta: una lezione al giorno da 45 minuti circa seguendo il
metodo Assimil. Ho scelto la prima settimana di Marzo perché i mesi
successivi saranno più densi di impegni e anche perché credo che sia
meglio farsi un’idea il prima possibile.
Infine, se non dimentico altro. Sempre il 18 dicembre ho descritto a
Nicola l’impostazione che volevamo dare agli incontri. Gli ho detto
della mia idea di utilizzare il metodo socio analitico per provare ad
analizzare le “cause” delle sofferenze delle persone anche in chiave
istituzionale. Lui mi ha detto che era interessato perché loro (sensibili
alle foglie) non avevano mai preso in considerazione/approfondito la
socioanalisi come “strumento” terapeutico. Mi ha detto che vorrebbe
essere coinvolto nelle nostre riflessioni. Mi è sembrato realmente
interessato; ho visto che ci stava pensando, ci stava riflettendo. Ed io
sono molto contento di sapere che possa contare anche su di lui in
questo percorso.
Un pensiero che ho fatto in questi giorni. Quando le cose saranno un po’
più strutturate vorrei descrivere il progetto a G.B per trovare degli
approccio metodologici di misurazione.
Infine, veramente, ho accennato a mio padre della mia idea di
coinvolgere il centro anziani.
Roma, 23 dicembre 2014
Ieri ho preso dalla biblioteca il testo di Morin che avevo ordinato: “la
natura della natura” primo tomo dell’opera “il metodo”. Erano già
alcuni mesi che pensavo di prenderlo e consultarlo ma non riuscivo a
capire quale volume prendere. La scorsa settimana, in studio da
Tarsitani, ho sfogliato un libro sulla promozione della salute e di questo
soprattutto la bibliografia (ultimamente mi piace molto consultare la
bibliografia dei libri). Bene dalla bibliografia di questo testo sono
riuscito a risalire al tomo che mi interessava. Non solo, avendo visto le
presentazioni della TCI ho visto anche l’importanza che danno allo
studio dei sistemi e guarda caso nel testo c’era un riferimento
bibliografico centrale sull’argomento. Ho ordinato anche questo. Questo
vuol dire fare ricerca, essere in cammino, secondo me. Dare valore ad
ogni momento, perché ogni momento può essere rivelatore.
Ho iniziato a leggere il libro e nell’introduzione c’è una parte che mi ha
colpito molto circa la riflessione sull’implicazione personale.
“Perché parlare di me? Non è dignitoso, normale, serio che, allorché si
tratta di scienza, di conoscenza di pensiero, l’autore si cancelli dietro
la sua opera e svanisca in un discorso diventato impersonale? Noi
dobbiamo sapere al contrario che è qui che trionfa la commedia. Il
soggetto che scompare dal suo discorso si sistema in realtà alla Torre
di Controllo. Fingendo di lasciare il posto al sole copernicano,
ricostruisce un sistema tolemaico il cui centro è il proprio spirito.
Ora, il mio sforzo metodico tende appunto a liberarmi da
quest’autocentrismo assoluto in seguito al quale il soggetto, mentre
scompare in punta di piedi, si identifica con l’Oggettività sovrana.
Attraverso la mia bocca non si esprime la Scienza anonima. Non parlo
dall’alto di un trono di Sicurezza. Al contrario, la mia convinzione
segreta è un’infinita incertezza.”
Roma, 16 Gennaio 2015
Durante la vacanze Natalizie, Hugon mi ha detto che a Marzo non sarà
più possibile andare da lei a Marsiglia. Mi ha proposto altre date; tra
quelle proposte ho scelto quella di giugno.
Martedì 13, durante la riunione di condivisione dei medicisenzacamice,
ho condiviso questa nuova proposta di data chiedendo chi di loro fosse
disponibile.
Passando ad altro. Ieri sera Susy ed io siamo passati in assemblea di
gestione degli abitanti di Santa Croce facendo seguito alla richiesta che
ci aveva fatto M, che tra l’altro non c’era. La mattina avevo preparato
un disegno per descrivere quello che avremmo voluto fare: un iceberg
con la parte superiore rappresentante la “malattia” e quella inferiore la
“sofferenza”. Ho detto che noi in questi incontri vorremmo condividere
la sofferenza delle persone la quale, se non espressa con le parole, può
diventare malattia. Avevamo scelto come data dell’incontro mercoledì
21 ma ci hanno detto che non sarebbe stato possibile per loro. La scelta
del giorno è stata sempre un problema in questi primi tre incontri.
Durante la presentazione un signore italiano (romano) mi ha chiesto di
spiegargli meglio questo discorso della sofferenza. Tuttavia il modo i
cui me lo ha chiesto ( mi è sembrato di scherno) mi ha infastidito e mi
ha fatto vacillare un po’. Mi sono sentito insicuro, insicuro di quello che
stavo proponendo, insicuro al punto che anche una domanda un po’
provocatoria (o percepita come tale) mi ha scosso un po’. Rientrato a
casa avevo addosso una sensazione strana, direi di delusione mista a
disorientamento. Ho la sensazione forte che questa proposta abbia molte
potenzialità, ma non riesco a capire se e quanto alle persone interessi e
se la possano trovare in qualche modo utile. Credo che sia ancora presto
per metterla in discussione ma non riesco proprio a capire e ad intuire
cosa le persone possano pensare di questa proposta. Sento una distanza
comunicativa a più livelli: linguistica (legata al fatto che molte persone
non parlano molto bene l’italiano) e culturale (le persone si aspettano
qualcosa di diverso da noi e confrontarsi sempre con le aspettative delle
persone sapendo di volerle deludere a volte è stancante, soprattutto
quando non si è completamente certi se quello che si sta proponendo sia
effettivamente utile per loro).
Per concludere. Con Susy abbiamo individuato venerdì 23 come data
alternativa. Ieri sera stessa ho mandato un whatsup al gruppo ma
nessuno mi ha risposto. Solo questa mattina hanno risposto e Pm ed
Elisa ci hanno tenuto a specificare che possono massimo entro le 20,30.
Provo ad essere comprensivo, sento che questo è lo sforzo principale
che voglio fare, ma una parte di me è infastidita e proprio non capisce.
[...]
Infine. Sempre ieri, a pranzo, Susy ed io siamo andati a trovare Giulia
S. Che sul finire della chiacchiera ci ha raccontato di un progetto di
orientamento sanitario che ha scritto per la sua università. Ci ha chiesto
se secondo noi come gruppo medici senza camice potremmo fare la
formazione su una parte del programma di formazione riguardante la
relazione. Io le ho detto che sarebbe bello provare a fare una cosa simile
anche a Santa Croce. Le ho chiesto di proporre la cosa al gruppo.
Secondo me sarebbe fantastico e sarebbe secondo me lo spazio del
servizio sanitario entro il quale inserirsi. Potremmo creare delle
collaborazioni tra il territorio noi e l’università per la formazione e la
ricerca.
Roma, 21 gennaio 2015
Sabato mattina (17 gennaio), Susy ed io siamo andati a Santa Croce per
portare i tavoli che avevo preso. Avevo preso la misura sbagliata dei
cavalletti così sono dovuto ritornare al negozio dove avevo acquistato i
tavoli per prendere la misura corretta. Appena rientrato a Santa Croce
ho sentito delle urla di pianto e ho chiesto ad una signora piangente che
ho incrociato cosa fosse successo “è morto un ragazzo!” mi ha detto tra
le lacrime. Ho salito la rampa di scale fino al piano dove si era raccolto
un gruppo di persone che piangevano e urlavano. Ho cercato di
mantenere la calma e allo stesso tempo sentivo che si faceva largo in me
un senso di alienazione. In alcuni momenti mi sembrava una scena così
surreale. Vedere quella gente piangere in quel posto, in questo non
luogo. Anche Susy poi mi ha raggiunto e abbiamo iniziato a chiedere
spiegazioni. Ci dicono che S doveva andare a fare il picchetto la
mattina. Non vedendolo, sono andati a chiamarlo ma dalla sua stanza
nessuna risposta. Hanno visto che però le chiavi erano inserite nella
porta dall’interno. Hanno tolto il vetro della porta e lo hanno trovato
morto nel letto. Ci dicono che aveva dei problemi neurologici, era stato
operato al cervello e prendeva dei farmaci; la moglie era morta ma lui
era convinto fosse ancora in coma a TorVergata. E poi qualcosa che ha
che fare con la solitudine. La solitudine. Aveva 34 anni S, ed è morto da
solo in un ufficio di uno stabile occupato adibito a stanza. Era solo
quando è morto. A parte le lacrime versate in quel momento dalle
persone di questo posto mi domando se qualcuno possa piangere per lui,
se qualcuno sa che esiste. Riflettendoci adesso è forse questo che mi
dava questa sensazione di alienazione. La sensazione che quelle persone
non esistono nemmeno da vive, lui era morto, ma mi domando quale sia
poi in fondo la differenza per la società nella quale sono inserite. Una
solitudine e una segregazione che ti si attacca addosso come l’umidità,
ti entra nelle ossa e ti fa ammalare fino ad ucciderti dentro; chissà se
queste persone sanno di non esistere di fatto.
Arriva il 118 e poi la polizia, più tardi dal barbiere sento la notizia alla
radio. Subito si affrettano ad avanzare l’ipotesi di una morte violenta.
Scesi nella sede, Susy piange. Si chiede se poteva essere evitata quella
morte. Si chiede se sia giusto essere così prudenti, farsi tutte queste
'pippe' mentali sul capire come prestare il nostro aiuto. Dice che siamo
troppo teorici, che dovremmo trovare un modo comunque per ascoltare
queste persone. Le dico che stiamo facendo tutto quello che possiamo
fare in questo momento, e mentre lo dico a lei lo dico anche a me. Dice
che non possiamo fare finta che questo sia un posto come un altro. Io
sono d’accordo. Tuttavia credo veramente che per S noi non avremmo
potuto fare qualcosa in questo momento. Sono colpito, vorrei poter
saper piangere come fa Susy, ma non ci riesco; mi sento sconfortato e
allo stesso tempo sento di voler sostenere la mia presenza, la nostra
scelta di stare in quel posto. Io credo che noi possiamo fare qualcosa,
stiamo cercando di capire cosa. Nel frattempo non possiamo impedire
che le disgrazie e le ingiustizie continuino ad accadere, non abbiamo
questo potere.
Avevo portato il cartellone per scrivere dell’appuntamento di venerdì
ma preferisco non attaccarlo, mi sentirei fuori luogo.
L’indomani sera siamo a cena con Daniela e Alberto, c’è anche Viviana.
Iniziamo a parlare della morte di S e di Santa Croce. Viviana dice che
questa cosa l’ha colpita e che la sta interrogando sul nostro stare a Santa
Croce; Susy anche si lascia andare ad uno sfogo (così poi lei lo ha
chiamato). Alberto ci dice che forse abbiamo sottovalutato la realtà che
ci aspettava. Gli dico che non sono d’accordo, non mi sento di averla
sottovalutata, è una realtà complessa che richieda energia e tempo.
Bisogna solo capire se ne vale la pena e per me ne vale la pena.
Venerdì 23.
Arriviamo con grandi speranze. Ci sono due persone che ci stanno
aspettando davanti al picchetto. Diciamo loro di andare all’auditorium.
Aspettiamo un po’ ma rimaniamo in due. Arriva poi un terza persona, E.
già lo conosciamo, fa parte del comitato e Susy ha visto il piede a sua
figlia (aveva preso una botta). Proprio questa, mentre aspettiamo va
incontro a Susy ringraziandola.
Arriva anche E. Nel frattempo la signora (non ricordo il nome) dice che
dobbiamo scrivere obbligatorio! E noi in coro “noooooooooooooo”
ahahaha!
Decidiamo di andare da noi in sede perché siamo più al caldo e
possiamo offrire loro del tè. Mentre andiamo si unisce a noi M, una
donna boliviana. Spiego la storia della TCI e dico loro che si inizia
condividendo qualcosa di bello.
La signora capoverdiana ci dice che suo figlio è andata a trovare in
Portogallo sua nonna e questo le sembra un bel gesto. Subito poi, MR ci
dice che sta male e che ha l’ansia. Ha paura di rimanere sola in camera,
soprattutto dopo quello che è successo sabato. Lo dice piangendo. Nel
frattempo arrivano anche M con un’altra signora.
Non mi serve chiedere cosa si possa fare alle altre persone perché in
quel momento, anche se in maniera poco ordinata, sovrapponendosi a
volte, hanno iniziato a parlare. Ho immaginato fosse uno sfogo, e li ho
lasciati sfogare. Forse era questo quello di cui avevano bisogno. Poi
MR ripete che sta male e a quel punto, mi sembra di ricordare, che
l’attenzione di tutti si è concentrata su di lei. M cerca di rassicurarla
dicendo che può stare con lei, può aiutarla a cucire i costumi per i
bambini. Per loro, in Bolivia, è molto importante fare delle feste e
ballare e inoltre pensare in maniera positiva. M poi aggiunge un aspetto
fondamentale. Dice che in assemblea MR ha più volte proposto di fare
una stanza per le donne dove si possano vedere, stare insieme, fare il tè,
cucire insieme, chiacchierare. Tuttavia si è sempre sentita rispondere di
no. Provo a rinforzare questo aspetto e dico che potrebbe essere una
cosa importante invece. Dico che potremmo iniziare condividendo la
nostra stanza. Ma loro ci dicono che preferiscono di no, qua ci sono le
vostre cose ci dicono. Rimaniamo che noi ci saremmo fatti promotori a
SpinTime e con il comitato di questa richiesta. Poi si parla delle
difficoltà strutturali: stanze senza finestre o finestre piccolissime; bagni
molto sporchi, non ci sono microbi ma dinosauri, questa è stata
l’affermazione di V. Allora diciamo che anche in questo noi potremmo
dare il nostro contributo, da capire come.
Vedo il volto di MR, adesso mi sembra più disteso. Adesso si scherza, si
ride, E si alza e la bacia. Il clima emotivo è cambiato dall’inizio
dell’incontro. Dico loro che l’incontro sta per finire. Gli chiedo di
alzarsi, di prenderci per mano e dire una parola che racchiude la loro
sensazione dell’incontro. Inizia proprio MR che dice “io sto meglio”;
poi c’è chi dice di essere contento; rinfrescato; di aver potuto parlare
per la prima volta liberamente.
Facciamo il nostro debrifing (proverò nei prossimi giorni ad ascoltarlo).
Usciti, Giuseppe dice che forse è meglio aspettare a dire della stanza a
SpinTime, dice di vedere se loro stessi maturano di più l’idea.
Sono soddisfatto. È successo tutto quello che doveva succedere (come
mi ha detto poi i giorni successivi Nicola). E credo che possa essere
veramente un buon inizio.
Mi ha sorpreso che abbiamo raccontato della loro sofferenza all’interno
dell’occupazione. Credevo avessero parlato dell’esterno, difficoltà ad
accedere ai servizi, difficoltà di vario tipo; invece la principale fonte di
sofferenza per loro, almeno da quello che hanno detto quella sera, è
vivere all’interno di una occupazione.
Roma, 27 Gennaio 2015
Ieri pomeriggio ero a SpinTime per fare un intervento in occasione della
presentazione di un rapporto sul razzismo.
Dopo aver fatto l’intervento mi sono accorto che c’era Nicola. L’ho
raggiunto e lui mi ha chiesto se potevamo vedere la sede. Una volta là
mi ha chiesto come era andato l’incontro sulla cura di sé e degli altri
che avevo organizzato. Io ho aggiunto che anche l’incontro con gli
abitanti era andato bene. Glielo racconto e lui si entusiasma. Mi
consiglia di restituirgli quello che è successo. Essere passati da una
situazione di malessere ad una risposta creatrice. Inoltre lo colpisce
come forse la cosa abbia funzionato perché hanno raccontato malesseri
che originano in quel posto e non altrove. Mi consiglia di tenerlo bene a
mente anche per i prossimi incontri.
Mentre stiamo per uscire, incontriamo il signor P, un uomo di circa
settanta anni o poco meno, con dei baffi folti e spessi, occhiali che gli
ingrandiscono gli occhi e una bella pancia sporgente. Ha i modi di fare
tipici del romano, battuta pronta, gesticola sottolineando ogni parola. A
me ricorda mio zio Gianni. P ci ha chiesto se potevamo aiutarlo a capire
come prendere le medicine che gli hanno dato per il diabete, il
colesterolo, la pressione alta etc… Da alcune domande che Susy gli fa
sembrerebbe che la terapia per il diabete la stia prendendo e sappia
anche come prenderla. Tuttavia ci chiede di dirgli quando e come
prendere le medicine: “io mi scrivo quando le devo prendere su un
foglietto e me le prendo” ci dice. Gli diciamo che martedì saremmo
ritornati e di venirci a trovare presso la stanza dove siamo. Va bene, ci
dice; se non dovessimo vederlo ci dice di farlo chiamare dal picchetto.
Poi accenna al fatto di farsi due spaghetti dopo. Io l’assecondo dicendo
che mi pare una buona idea e che potremmo mangiare insieme venerdì
dopo l’incontro. Allora ci organizziamo così: lui fa la spesa e io compro
il vino.
Roma, 27 Gennaio 2015
Ieri sera P non ci è venuto a trovare. E noi non lo abbiamo cercato al
picchetto. La riunione è stata abbastanza stancante con i
medicisenzacamice. Abbiamo finito poco prima delle dieci di sera e a
Susy non andava molto di fare il piano terapeutico a quell’ora.
Decido comunque di comprare il vino e di vedere cosa succede venerdì.
Alla riunione abbiamo deciso di considerare tutto il progetto di ricerca
come una attività dei medicisenzacamice.
Viviana mi fa notare del problema relativo alla questione del protocollo
etico e se ci stiamo interrogando se quello che stiamo facendo sia etico.
Rispetto al primo punto le dico che non ci avevo ancora pensato ma che
mi informerò da Tarsitani e Marceca; sul secondo punto decido di non
rispondere. Non rispondo perché la risposta e la riflessione successiva
richiederebbe tempo. Non rispondo perché contemporaneamente gli
altri “reagiscono” alla domanda dicendo che vorrebbero rispondere ma
che non c’è tempo. Decido di non alimentare questa tensione
nonostante sento che la domanda mi sollecita a rispondere. In parte mi
sento anche ferito dalla sua domanda. Mi sento ferito perché dal modo
in cui Vivi ha fatto la domanda mi è sembrato che desse per scontato
che io/noi questa domanda non ce la fossimo posta. Per quanto mi
riguarda, la ragione principale per la quale io sono là è principalmente
etica. Sto investendo gran parte della mia vita in questo percorso, posso
sbagliarmi, questo è vero, ma sono abbastanza consapevole del perché
io sia a Santa Croce e abbia deciso di proporre la terapia comunitaria.
Roma, 30 gennaio 2015
Oggi c’è stato il quarto incontro con gli abitanti di Santa Croce.
L’appuntamento era previsto per le 19,00. Pm, Ely ed io siamo arrivati
circa 5 minuti prima delle 19,00. Eravamo stati a casa di Ely per portare
la macchina del gas che avevo preso da casa dei miei. A causa del
traffico che abbiamo incontrato all’andata e dei 5 piani che abbiamo
dovuto salire trasportando a braccia la macchina del gas il tempo è
passato in fretta e io avevo paura di arrivare tardi all’appuntamento.
Qualcosa in me diceva che gli altri non sarebbero arrivati per tempo. I
primi ad arrivare sono stati Antonella e Giampaolo che ci avevano
chiesto di poter partecipare all’incontro. Arrivati, io mi sono precipitato
verso la sede per vedere se era arrivato qualcuno (ero un pò in ansia per
il possibile ritardo; avevo paura che non vedendoci se ne sarebbero
andati via); ma nessuno era ancora arrivato. Mentre aspettavo, uscivo ed
entravo dalla sede per vedere se arrivata qualcuno. Ad un certo punto
arrivano Pm e Giampaolo insieme ad un signore. Si presenta, è rumeno,
parla fitto fitto e faccio fatica a comprendere il significato delle sue
parole. Nel frattempo vedo che iniziamo ad arrivare MR e il ragazzo
latinoamericano (di cui proprio non riesco a ricordare il nome!). MR mi
dice che gli altri stanno arrivando e comunque si preoccupa di andare a
chiamare G e M. Siamo pronti per iniziare. Invito N, il signore rumeno
ad entrare anche se lui inizialmente voleva andare via. Poco prima,
Viviana aveva scritto un messaggio alle 19,06 per dire che non sarebbe
venuta, stava poco bene. Giulia e Giuseppe dicono che arrivano in
ritardo e infine Antonio avverte che nemmeno lui potrà venire. Mi
infastidisco. [...]
Inizio. Faccio presentare Antonella e Giampaolo, Pm ed Elisa che non
c’erano l’altra volta e poi anche gli altri si presentano a turno. Rispiego
in cosa consiste la TCI e che questo è anche un progetto di ricerca
(Viviana aveva detto che era importante dirlo, ma a me è sembrato che a
loro non sia importato molto). Mentre sto spiegando, entrano Giulia e
Giuseppe. Ed io sono ancora infastidito. Chiedo se qualcuno vuole
condividere qualcosa di bello e dopo qualche istante di silenzio M
condivide di aver rivisto suo fratello su facebook dopo diversi mesi che
non lo vedeva. Dopodiché N parte con un lungo discorso di cui capisco
per sommi capi che lui sarebbe più pratico ed utile fare una sorta di
orientamento. Gli dico che ci stiamo organizzando per farlo ma che ci
vuole tempo per organizzarci. Lui continua per un po’, io mi sento un
po’ in difficoltà ma provo a fermarlo. Penso che questa cosa stia
annoiando le altre persone. Lui mi semplifica la cosa perché si alza e se
ne va. MR mi dice, hai capito che problema ha? E io, ancora infastidito,
le dico “si certo, voleva che facessimo l’ambulatorio”; e lei mi dice no e
fa con le mani il gesto di bere facendomi capire che era un forte
bevitore.
Iniziamo di nuovo. È sempre MR a partire. Si lamenta della riunione di
ieri e della tensione che c’era stata per la nuova elezione del comitato.
Non si sente soddisfatta, mi dice Giovanna, scegliendo la parola giusta
per lei. E li continuano. Segue un flusso, le persone non si
sovrappongono ma non isolano un problema come indicato nelle
“istruzioni” della TCI. Loro parlano, ed è un flusso. Parlano della loro
vita all’interno di Santa Croce e di come sia difficile riuscire a
convivere tra tutti quanti loro. Di come ci si ignori a vicenda. A questo
punto G. parla di quando era piccola, quando avevano poco da
mangiare e di come sua madre cercasse di aiutare, dando da mangiare a
più persone possibili. Dicono anche che la differenza di cultura è un
problema. Io gli chiedo in che modo può essere un problema, gli dico
che quello che dice Giovanna, la volontà di aiutare le altre persone sia
qualcosa che vada al di là della cultura. Sembrano essere d’accordo ma
MR dice che c’è razzismo e G dice che lei non può essere razzista per le
sue origini (le racconta ma non le ricordo bene). Racconta dei suoi figli
e di come uno di loro sia bianco ed uno nero. E poi ci dice che ha fatto
l’attrice e la cantante.
Dico loro che da quel poco che li conosco mi sembrano ricchi di talenti
e che è un peccato non poterli condividere.
Passiamo poi alla seconda fase dell’incontro. Riprendiamo il discorso
dei bagni e della sala per le donne. Chiedo loro se ne hanno parlato, se
ci hanno riflettuto. Giovanna dice che ne ha parlato con altre donne e
che le erano sembrate interessate. Anche il discorso della pulizia dei
bagni sembra essere ancora importante per loro. Dicono che proveranno
a chiedere per la stanza al comitato non appena sarà eletto (e questo
accadrà lunedì). Stessa cosa vale per i bagni. Giuseppe propone di fare
un progetto di formazione sui bagni e l’igiene. Pensiamo anche al modo
di coinvolgere i bambini. Per la stanza aspettiamo le novità ma noi ci
proponiamo di aiutarle.
Ci salutiamo. Chiedo a G se ci vuole far fare qualcosa per salutarci, se
ci vuole far fare qualcosa che riguarda il teatro. Lei dice di salutarci con
un inchino, come fanno gli attori quando finisce lo spettacolo. Allora io
dico, alla fine dello spettacolo si fa anche un applauso.
Finito l’incontro si formano i famosi “capannelli di persone” a parlare.
E chiacchierando Antonella propone di vedere un film nel quale ci sia
Giovanna che recita. Fantastico! Decidiamo per un si. C’è elisa che gira
per la stanza gongolando e facendo con le dita la forma del cuore per
dire che si è innamorata!
Escono tutti, eli e Pm vanno a tango e Giuseppe, giulia Maria, Anto,
Giampaolo ed io rimaniamo per fare il punto. Mentre parliamo, bussa
alla porta P. Ha portato le sue medicine! Finalmente! Ce l’abbiamo fatta
ma mancano i nostri medici di fiducia. Ci proviamo lo stesso. E tra una
scartoffia e l’altra riusciamo a dire quali medicine deve prendere e
come. E lui è contento! Ci invita a mangiare qualcosa da lui. Titubiamo
un po’ (io avevo voglia di andare a casa) poi però sento che a lui
farebbe piacere. Così dico che va bene rimango. Mi seguono Giulia e
Giuseppe. Saliamo su nella sua stanza e la prima cosa che mi colpisce è
il salmone tagliato e pronto per essere cucinato. Aveva già preparato
tutto per noi. Mi domando se gli avessimo detto di no. Poi dopo vedo il
resto della stanza. Vestiti sparsi qua e la, la televisione a tutto volume
con un programma della Carrà e la finestra aperta. Che freddo!
E poi passiamo una serata piacevolissima. Ma questa voglio raccontarla
meglio.
Roma, 05 febbraio 2015
La serata piacevole. Piacevole nonostante il freddo, c’era la finestra
spalancata, la televisione a tutto volume, il disordine. Piacevole, forse,
soprattutto per quello. Era tutto così reale, tangibile. La finestra aperta e
il freddo; la televisione e il rumore; i panni sparsi qua e la. E poi P. P
che parla, ci racconta e si racconta. Ci invita a mangiare e a prendere
altra pasta, ci chiede come è venuta “è bona?” e mi insegna che si
cucina o per amore o per passione. Sono stato bene. Ho incontrato una
persona. Ho mangiato insieme a lui, abbiamo chiacchierato; soprattutto
o ascoltato la sua storia di vita. Mi piace ascoltare le storie di vita delle
persone. Lo trovo rilassante e avvincente. E ogni volta mi meraviglio di
quanta ricchezza abbiamo a portata di mano ogni volta che incontriamo
qualcuno. Basterebbe allungare la mano e toccare; ma quanto è difficile
allungare la mano; quanto è difficile vedere quella ricchezza.
Ci lasciamo provando ad organizzare una cena per venerdì prossimo. Ci
dice che ci leccheremo le orecchie! Lo spero.
Ieri (4 febbraio) l’ho incontrato che era di turno al picchetto. Gli dico
che non possiamo utilizzare la cucina dello spazio sociale perché ci sarà
un evento ma che possiamo provare ad organizzare differentemente.
All’inizio gli dico che possiamo rimandare a venerdì prossimo. Ma lui
mi dice che è meglio non far passare troppo tempo. La percepisco come
una richiesta e voglio accoglierla. Ci mettiamo d’accordo e alla fine
decidiamo di preparare risotto allo zafferano; bistecche e contorno. Io
porto il vino e l’insalata. Pensiamo che saremo circa 10 persone.
Oggi ho mandato un whatsup agli altri del gruppo per vedere chi ci sarà.
Credo che è importante dare valore anche e soprattutto alle
sollecitazioni che avvengono fuori lo spazio di incontro previsto. Credo
sia importante per creare relazioni e soprattutto accogliere sollecitazioni
che non avverrebbero nello spazio previsto per l’incontro. Tutto ciò
implica esserci.
Roma, 8 febbraio 2015
Venerdì abbiamo fatto il terzo incontro con gli abitanti di santa croce.
La mattina si era consumata una polemica o conflitto tra Vivi e me. [...]
Arriva la sera. Sono le 19.00. Arrivo e non c’è nessuno. Incontro M al
picchetto, gli dico se vuole venire all’incontro. Mi dice che non lo sa
perché c’è una riunione. Ci sono state le elezioni ed è stato eletto. Lo
dice mentre mi segue in stanza. Il tempo passa e non arriva nessuno.
Questa volta, come sempre, sono preoccupato che non venga nessuno.
Arriva poi, se non ricordo male, G. Mentre P si affaccia per iniziare a
cucinare. Sono ancora infastidito dallo scambio di mail della mattina.
Poi arriva MR e M, poi N (sono sorpreso ci sia, la scorsa volta se ne era
andato contrariato). Poi c’è una signora nuova, si chiama A. Prima di
iniziare chiedo a G se vuole spiegare ad A e N quello che facciamo qua.
Lei gli dice che qua possiamo parlare, puoi dire tutto quello che vuoi,
quello che ti fa star bene, quello che ti fa star male. Loro ti fanno il tè e
così via. Dice anche che questo posto le ha portato fortuna perché ha
trovato lavoro.
Proviamo ad iniziare e A ci racconta la storia della sua malattia […] e
del fatto che sia riuscita a guarire. Poi iniziano dei racconti sul comitato
abitativo [...]
M si interroga sul suo futuro ruolo. Si chiede come potrà essere un buon
rappresentante del comitato. Ragiona sul paradosso al quale il rispetto
del regolamento lo costringe. Essere un buon rappresentane vuol dire
far rispettare il regolamento, ma se per rispettare il regolamento deve
poi essere ingiusto con brave persone sarà veramente un buon
rappresentante? Esempio. Il regolamento dice che chi non fa il picchetto
deve essere allontanato. Magari c’è chi non lo può fare il piccheto e lui
questo lo sa. In questo caso cosa dovrebbe fare per essere un buon
rappresentante?
Nel frattempo P continua a chiamare. “Dottò sto a morì de fame” mi
dice. Io provo a chiudere ma oggi le persone vogliono parlare e parlare.
Durante la facilitazione ho cercato solo di essere attento a restituire
alcune cose che loro dicevano, fare domande e a non farli sovrapporre.
M alla fine dice a N, te l’avevo detto che sono antistress questi incontri!
Anche Anna sta bene dice.
Andiamo sopra da P, c’è anche G. Passiamo una serata divertente in
compagnia. Mangiamo e scherziamo. P ci chiede cosa facciamo giù,
continua a dire come gli alcolisti anonimi. Questo fanno, stanno in
cerchio e parlano. La parola della sera è semplicità. Stare insieme,
semplicemente. Mi sembra che per motivi diversi, sia a loro che a noi
serva proprio questo, stare insieme, semplicemente.
[...]
Roma, 9 febbraio 2015
Questa mattina ho provato a stare con la sensazione che avverto da
qualche giorno ormai al centro del corpo, diciamo sul diaframma, al
punto di incontro tra torace e addome. Nel processo sono arrivato a
trovare la parola: tensione. E ho scoperto che questa tensione aveva a
che fare con un'altra parola, tenere. Ero teso perché stavo, sto tenendo
qualcosa. Perché sto tenendo qualcosa a cui tengo. Quindi non è solo
l’azione del tenere ma anche tenere a qualcosa. Tenere qualcosa a cui si
tiene mi genera tensione. Questo è quello che sento rispetto a tutto
quello che sto facendo in questo momento. È qualcosa a cui tengo
molto e che sento di sostenere. Tutto questo mi genera tensione. Penso
che è questo quello che dirò alla riunione martedì.
Roma, 19 febbraio 2015
Sono passati 10 giorni dall’ultima volta che ho scritto. Questo non
perché io non abbia avuto niente da scrivere ma perché sono state
giornate molto piene e le poche ore che avevo a disposizione per me, le
ho passate riposandomi o andando a correre, nuotare o in bici.
In questi giorni, una cosa sulla quale ho riflettuto, tra le tante, è che
vorrei riuscire a rendere bello ciò che scrivo. L’attività di scrittura
diaristica mi piace molto. La ritengo un’attività preziosa perché
consente di registrare quello che ho vissuto e sto vivendo senza farlo
evaporare. Dall’altra parte mi rendo anche conto che è un’attività che
richiede tempo e cura. Per prendersi cura delle cose c’è bisogno di
tempo, dedicare tempo a ciò che noi facciamo è un atto di cura. Questo
per dire che a volte ho poco tempo per scrivere, quindi scrivo di fretta e
senza cura. Questa cosa non mi piace. Non mi va che sia solo un
contenitore dove gettare dentro riflessioni e descrizioni. Voglio che sia
anche bello quello che scrivo. Voglio provare a scegliere le parole con
cura. Voglio scrivere bene. Mi piace scrivere, scrivere per me,
liberamente e con cura. Trovare il mio stile.
Agenda alla mano provo a ripercorrere questi 10 giorni.
Inizio con il 10 febbraio. La riunione dei medici senza camice. In questa
riunione avremmo dovuto provare a parlare della nostra presenza a
Santa Croce: come ci stavamo e come avremmo voluto starci. E anche,
cosa stavamo facendo con gli abitanti. Ero abbastanza consapevole del
mio stato d’animo al riguardo e già nei giorni precedenti mi stavo
preoccupando di riuscire a trovare le parole e il modo di esprimere ciò
che sentivo. Quando Viviana ha detto che si stava domandando se il
nostro modo di stare a Santa Croce non fosse simile a quello dei
cooperanti nei paesi in via di sviluppo ho provato fastidio e mi sono
sentito ferito per quella domanda, che ho interpretato più come una
insinuazione. Dopo qualche scambio e qualche altra condivisione circa
il fatto di essere insicuri rispetto a quello che stavamo facendo non ce
l’ho fatta più e sono sbottato. Sono sbottato pur riuscendo ad essere
consapevole che stavo sbottando, credo di essere riuscito a portare
l’attenzione su me stesso senza dare la colpa del mio sentire agli altri.
Ho ripercorso quello che stavamo facendo a Santa Croce e delle cose
belle che erano successe, ho ripercorso anche la storia di questi anni e di
come ogni volta, all’inizio di un processo fossero spaventati e di come
poi invece questo ci avesse dato forza e fatto vivere esperienze
significative. Ho detto che credevo molto in quello che stavamo
facendo e che capivo le loro preoccupazioni, chiedevo loro allora di
capire la mia frustrazione del momento. Inoltre ho sottolineato quanto
importante sia provare ad essere consapevoli rispetto a quello che noi
proviamo rispetto alle situazioni. Quando facciamo la valutazione di
qualcosa è importante non proiettare su quella cosa come io me la sto
vivendo. Un conto è dire che mi sto vivendo con preoccupazione o con
paura di sbagliare quella cosa un altro è dire che quella cosa è
preoccupante o sbagliata di per sé. È importante cercare di non essere
identificati completamente con quello che si fa. Dopo la riunione mi
sono abbracciato con Vivi e mi sono sentito più leggero. Giuseppe
anche mi ha detto che era stata utile secondo lui la riunione. Anche elisa
il giorno dopo mi ha detto la stessa cosa. Io ero un po’ sorpreso e
imbarazzato. Era come se mi avessero visto piangere; mi hanno visto e
mi sono fatto vedere vulnerabile. E va bene così; immagino che a volte
le persone siano addirittura insospettite dalla mia calma e sicurezza.
Difficilmente chiedo aiuto e comprensione ma sono sempre disposto a
darne; questo crea un’asimmetria. Anche io voglio poter chiedere aiuto
e comprensione. Concedermi questa libertà. Tutto questo ha anche a che
fare con la responsabilità. Pensando di essere responsabile di un
processo non mi permetto la libertà di dire che ho bisogno di riposo. Mi
preoccupo di infondere fiducia e calma negli altri e ho paura che se mi
faccio vedere stanco e preoccupato loro possano preoccuparsi ancora di
più. E anche qui ritorna il verbo “tenere”.
Venerdì 13 c’è stato l’incontro con gli abitanti di Santa Croce cui ha
partecipato anche una persona che vive in un'altra occupazione. Questo
perché il lunedì alla riunione di Spin Time avevamo raccontato quello
che stavamo facendo e avevamo detto che volevamo estendere la cosa
anche alle altre occupazioni. Sentendo le nostre testimonianze e anche
quelle di Ma, P e T si sono entusiasmati al punto tale che il mercoledì,
senza dirci nulla prima, hanno chiesto durante una riunione di tutti i
comitati abitativi di raccontare quello che stavamo facendo. Forse presi
dall’entusiasmo hanno subito provato a rilanciare. Susanna ed Elisa si
sono un po’ spaventate ma alla fine la cosa è rientrata. Quello che è
positivo però è che lunedì alla riunione, il racconto di questa esperienza
ha permesso loro di riflettere sulle loro pratiche interne. Interessante
quando M ha fatto notare che ai nostri incontri ci si ascolta e che si
dovrebbe poter fare la stessa cosa anche nelle assemblee di gestione.
Infine abbiamo anche richiesto ed ottenuto di fare degli incontri
specifici di Spin Time in cui si riflette sul senso di quello che stiamo
facendo. Tutto questo per dire che venerdì è venuto anche un signore da
un’altra occupazione. Io non c’ero, ero a Rimini con Nicola e Viviana
per presentare il libro. Sentendo Susy più tardi mi ha detto che era
andato bene ma che purtroppo P aveva cucinato per noi dando per
scontato che ci fossimo fermati a cena. Lui era convinto del fatto che
eravamo rimasti d’accordo così. Io, ma anche Viviana, non mi ricordavo
questa cosa. Insomma ci è rimasto male e Susy si è sentita aggredita da
lui visto che ha alzato la voce. Lui mi aveva chiamato in settimana ma
io non gli ho risposto perché ero impegnato, se l’avessi fatto avrei
evitato, forse, questa situazione. Mi dispiace che ci sia rimasto male,
penso che a lui le nostre cene le facciano bene, ma per noi, oltre ad
essere un piacere è impegnativo. Durante l’incontro di venerdì, mi
hanno detto si è riparlato della “stanza delle donne” e che ne avremmo
parlato venerdì prossimo.
Lunedì ne abbiamo parlato a Spin Time, lunedì prossimo verranno
direttamente loro a parlarne.
Roma, 3 Marzo 2015
Venerdì scorso c’è stato l’incontro con gli abitanti di Santa Croce.
C’erano solo due persone. Poche. Gli altri erano impegnati. Tuttavia,
succede sempre qualcosa che non mi aspetto in questi incontri. Verso la
fine, si è aperta la porta ed è entrata A, una piccola signora etiope con i
capelli biondi ossigenati. Si mette seduta e io le do il benvenuto. Prende
la parola. Ci dice che all’inizio non aveva capito quello che noi
volevamo fare, ma poi sì. Ha capito che noi volevamo provare a farli
stare meglio. E ci dice che in quel posto non c’è armonia, che le
differenze si traducono in distanze tra le persone piuttosto che in
ricchezza da condividere. Lei ha fatto parte dello scorso comitato
abitativo e anche di quello entrante. Parla piano, lentamente e
sottovoce. Quello che dice mi rende felice e mi da ulteriori conferme
circa quello che stiamo provando a fare.
Il prossimo venerdì non faremo l’incontro; la maggior parte di noi non
ci sarà.
Roma, 18 Marzo 2015
Lo scorso venerdì l’incontro con gli abitanti di Santa Croce è stato un
vero successo! Alle 19,00 c’era solo una persona oltre me; già mi stavo
rassegnando al solito incontro con due tre persone al massimo. I minuti
passavano e non succedeva nulla. Ad un certo punto le persone sono
iniziate ad arrivare fino a riempire la stanza: eravamo in 11! Non
eravamo mai stati così tanti.
Offro del tè a chi ne vuole e iniziamo a parlare di alcune cose belle
successe durante i giorni trascorsi. Poi chiedo a chi vuole di condividere
il suo problema. Un signore sud americano, cappello americano sempre
ben calcato sulla testa, con il suo accento inconfondibile ci parla per la
seconda volta dei suoi problemi cardiologici. Ha avuto delle
palpitazioni mentre saliva le scale e visto che avrà ad aprile delle visite
di controllo si chiedeva, in maniera preoccupata, se era il caso si andare
in pronto soccorso. Prima di focalizzarsi sul suo problema ho chiesto
agli altri se avevano qualche altro problema da condividere. Nessuno ha
parlato. Allora elisa e Pm hanno iniziato a fargli delle domande. Dopo
un po’ sono intervenuto per chiedere al gruppo se erano interessati a
capire meglio quale fosse il suo problema se lui fosse stato d’accordo.
Tutti d’accordo ci siamo lanciati in una lezione sulla patologia cardiaca.
Tutti hanno fatto domande e sono sembrati essere molto interessati. Ci
siamo lasciati con la volontà di approfondire l’alimentazione per il
prossimo venerdì. In realtà ho proposto al gruppo medici senza camice
di prenderci del tempo per prepararla bene. Dagli incontri sta
emergendo il fatto che il gruppo affrontando dei problemi arriva a
toccare delle tematiche che poi potrebbero essere approfondite con
degli appuntamenti dedicati.
Roma, 27 Marzo 2015
Oggi ci sarà un altro incontro con gli abitanti di santa croce. La
settimana scorsa c’erano quattro persone; vista l’affluenza dell’ultima
volta mi aspettavo più persone.
È stato un incontro molto interessante. E, una donna sui cinquanta anni
ha iniziato la narrazione del suo problema dicendo che da diversi anni
ormai lei sta male ma nessun medico riesce a capire cosa abbia.
I suoi problemi sono iniziati dopo aver subito un intervento di
rimozione di una cisti nel cranio. Da quel momento in poi l’ha
accompagnata un senso di debolezza costante. Le capita di cadere a
terra senza motivo, a volte non riesce a capire cosa gli altri le stiano
dicendo. Voglio stare bene! Ha ripetuto più volte, ma i medici non
riescono a capire cosa io abbia, aggiungeva.
Antonella ed io le abbiamo fatto delle domande per esplorare la
componente più biologica. Ci ha detto che il medico di base le aveva
preso appuntamento con un neurologo ma questo, il giorno della visita,
non si era presentato.
Continuiamo a parlare e da alcune cose che mi dice, sento emergere
dentro di me il sospetto che possa avere una componente di
depressione. Dice che sente ai lati del collo come dei vermi che le
scavano dentro fino ad arrivare all’altezza delle orecchie. La sua
narrazione si è agganciata a quella che stava facendo un’altra signora
sulla stanchezza. Lei dice che non è depressa che vuole stare bene! Ma
nessuno le crede. Provo a rassicurarla dicendole che io le credo.
Continua a parlare.
Ad un certo punto, vedendo che diceva con energia che voleva stare
bene, le rimando che in quel momento non mi sembrava debole perché
affermava con energia che voleva stare bene. Lei mi dice che
“effettivamente è così, in questo momento mi sento le forze”. Provo a
chiederle dove si sente l’energia nel corpo, che cosa sta sentendo in
questo momento. Le chiedo di chiudere gli occhi e di sentire meglio.
Poi la vedo che fissa lo sguardo e mi dice se sia possibile che il suo
cervello si è fermato con il ricordo a quando era stanca. Le ho
rimandato la sua stessa domanda e lei ancor continua a pensare. Le dico
che ha lo sguardo fisso e che immagino stia pensando. Mi dice che le
stanno scorrendo davanti agli occhi gli anni della sua vita in cui si è
stancata molto.
Provo a dirle di ricordarsi la sensazione di questo momento, questa
sensazione di energia, per quando si sentirà più debole. Mi dice che si
sente così debole soprattutto la mattina, la sera va meglio invece.
Poi dice un’altra cosa molto interessante. Dice che se non prendesse gli
antibiotici e gli antinfiammatori starebbe ancora peggio. Le chiedo
come mai prende gli antibiotici e lei mi dice per uccidere i vermi che
sente, quei parassiti. Mi dice che è quattro anni che prende l’antibiotico
e che glielo da il medico di base ogni volta che glielo chiede. Provo a
spiegarle che anche nel caso in cui avesse dei vermi dentro di lei,
l’antibiotico che prende non è efficace contro di loro e che potrebbe
essere proprio l’antibiotico a causarle quel senso di debolezza.
Poi le altre signore raccontano loro cosa fanno quando si sentono sole.
Sono rimasto colpito da questa storia. Questa signora prende
l’antibiotico in base ad una sensazione che per lei è reale. Il punto è che
il medico di base e nessun medico credo si sia preso la briga di
ascoltarla. Se l’avessero fatto forse le cose sarebbero andate
diversamente.
Questa sera sono curioso di vedere se ci sarà.
Roma, 31 Marzo 2015
Venerdì scorso, come d’abitudine ormai, c’è stato l’incontro con gli
abitanti di Santa Croce. C’era solo V. Ci ha detto, eravamo Susy ed io,
che era venuta per avvisarci dell’assenza delle altre persone. Credevo
che, dopo averci comunicato questa notizia, se ne sarebbe andata;
invece si è seduta e ha iniziato a parlare. Ci chiama i “suoi amici”. Ha
parlato di un po’ di tutto dalla sua condizione di salute, alla sua casa in
Moldavia. Ha portato Susy a vedere i bagni di cui ci ha parlato sin dalla
prima volta che ci siamo visti. Al ritorno, Susy mi ha confermato che
erano molto sporchi. È rimasta circa un’ora a parlare.
Mentre eravamo in macchina, ho chiesto a Susy se potesse avere più
senso fissare l’appuntamento ogni due settimane piuttosto che una volta
a settimana per vedere se le persone diventano di più. Lei mi ha detto
che le sembra che quello del venerdì sia diventato un appuntamento,
che le persone sanno che c’è.
Anche se questa volta non c’è stato nessuno non mi sento
demoralizzato, gli incontri precedenti mi hanno dato alcune conferme
importanti su quello che stiamo provando a fare. Forse è arrivato il
momento di provare a allargare la proposta, magari ad altre
occupazioni? Al comitato di quartiere? Al centro anziani?
[...]
Roma, 03 Aprile 2015
In questi giorni sto leggendo il testo di M. Sclavi “Arte di ascoltare e
mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte”. Da
diversi anni conoscevo questo testo ma ne avevo rimandato la lettura
per diversi motivi. Quello che mi sembra il più importante è che avevo
l’impressione che le cose cui faceva riferimento le stavo già vivendo
attraverso altre esperienze di formazione e ho preferito concentrarmi su
altre letture. Dalla sua lettura, adesso, sto traendo molti spunti
interessanti. Mi sta aiutando a ritornare sopra alcune cose
approfondendole meglio. Sto capendo meglio l’approccio
fenomenologico cui fa riferimento, che avevo scoperto con il
laboratorio di Roberto, senza sapere si chiamasse così, e ritrovato poi
con il master di couseling. Sono sorpreso di come tutto stia tornando!
Riferimenti concettuali, autori, e tutto ad ogni lettura diventa per me più
chiaro. L’aspetto più interessante di questo testo è che fa molti esempi
che mi permettono di capire meglio quello che avevo scoperto e
approfondito solo in teoria. In una parte del libro la Sclavi da delle
indicazioni, che ho trovato molto utili, su come tenere un diario di
campo. Lei propone di mettere insieme l’osservazione/ascolto attivo
con l’autoconsapevolezza emozionale. Dice che lei prende appunti
tendendo conto di quattro aspetti, che sono:
descrizione degli ambienti;
descrizione della sequenza dei comportamenti;
descrizione dei propri sentimenti e reazioni;
descrizione delle reazioni relative alla dissonanza fra matrici
percettivo-valutative (reazioni diverse a comportamenti simili in
circostanze analoghe).
Roma, 14 Aprile 2015
Non è venuto nessuno agli ultimi due incontri: venerdì 3 e 10 aprile. Mi
sento tranquillo. Secondo me, le assenze sono dovute soprattutto a delle
contingenze esterne all’attività: ieri ho scoperto che M è ritornato in
Romania, A è stata molto male, G impegnata con in lavoro etc…
Rispetto ai primi incontri non avverto più quel senso di “ansia da
prestazione” che caratterizzava il mio stato d’animo prima di ogni
incontro. Stavamo facendo qualcosa che non conoscevamo bene
nemmeno noi; con l’esperienza abbiamo scoperto che gli incontri
funzionano e abbiamo avuto tutti più fiducia. Sto parlando al plurale
perché penso che questo sia un pensiero condiviso tra quelli di noi che
stanno venendo con più assiduità agli incontri.
Abbiamo deciso di provare a rifare un passaggio con il comitato
abitativo e poi in assemblea, contando sul fatto che adesso le persone ci
conoscono un po’ di più rispetto a quando abbiamo iniziato e qualcuno
ha potuto toccare con mano quello che proviamo a fare. Credo che,
almeno con alcune persone, si sia instaurata una relazione di fiducia.
Giovedì prossimo eleggeranno il nuovo comitato abitativo; lunedì
parleremo con alcuni rappresentanti del comitato e poi faremo il
passaggio in assemblea.
Venerdì 10 aprile abbiamo anche parlato della possibilità di aprire uno
“sportello di ascolto”. In questa attività vorremmo coinvolgere anche il
gruppo di autoformazione di Tor Vergata. Quando ne abbiamo parlato
c’era Antonella. Prima faremo un passaggio nel gruppo medici senza
camice. In questo momento, il problema principale credo sia la
sostenibilità umana dell’attività in termini di tempo.
Sempre venerdì, mi è capitato di parlare con S, antropologa medica che
collabora con Marceca. Mi ha chiesto qualche informazione su la
terapia comunitaria e su quello che stavo facendo al palazzo occupato.
Sentendomi raccontare si è entusiasmata dicendomi se volevamo
provare a fare la stessa cosa nella struttura occupata dove sta lei e se nel
caso lei potesse venire a vedere. Io le ho detto che sarebbe prezioso un
suo punto di vista da antropologa. L’idea di sperimentarmi anche in altri
contesti mi motiva. Vediamo un po’ cosa succede.
Roma, 14 maggio 2015
Ma come fa a passare così velocemente il tempo. È già passato un mese
dall’ultima volta che ho scritto. Mi segno di seguito, a mò di elenco, un
po’ di cose che sono successe in questo mese.
Si è formato un gruppo di lavoro specifico per seguire le attività della
TCI a santa croce. Abbiamo deciso di fare gli incontri una volta ogni 15
giorni e di vederci una volta a settimana come gruppo di ricerca. Come
gruppo abbiamo deciso di formarci sugli assi teorici della TCI.
Ho preso contatti con una psicologa Brasiliana che lavora direttamente
con Barreto.
F, un ragazzo che vive in una occupazione, ci ha chiesto di aiutarlo
perché ha problemi a gestire la sua rabbia. Gli abbiamo proposto di
venire al prossimo incontro di TCI. Ha detto che ci sarà.
Ieri ho conosciuto una certa Elisabetta Salvatorelli, lavora presso
l’assessorato di riqualificazione periferie del comune di Roma. Si è
presentata dopo che avevo fatto un intervento alla fine dell’incontro su
sviluppo di comunità.
Roma, 10 Luglio 2015
Oggi ho cambiato il nome della cartella da “testi_chissà” a
“tesi_specializzazione_TCI”.
Roma, 21 settembre 2015
Venerdì scorso c'è stato il primo incontro di terapia comunitaria dopo
l'estate. Questo è il terzo incontro che faccio da dopo che ho fatto la
formazione con Barreto stesso. Incredibile come cambiano le cose.
All'inizio di questo diario mi sembrava una figura “mitologica” e
qualche mese fa ci ho fatto il corso insieme. Anzi, abbiamo pure
mangiato insieme! E tra un paio di settimane farò un'altra formazione,
sempre con lui, a Torino.
Grazie alla formazione fatta ho acquisito più consapevolezza rispetto al
metodo ed è diventato molto più facile riprodurre l'approccio della
terapia comunitaria. Gli incontri che ho fatto immediatamente dopo la
formazione erano stati un po' frustranti per me a causa del basso numero
di persone.
Anche per questo motivo ho iniziato a pensare alla possibilità di aprire
gli incontri ai partecipanti all'università popolare. Non solo per favorire
una maggiore partecipazione ma anche per favorire l'incontro tra il
“dentro” e il “fuori”. Agli incontri stavano partecipando le stesse
persone ed erano diventati un po' stagnanti. Ho provato ad aprire le
finestre e vedere se poteva succedere qualcosa.
Così ho iniziato a lavorare alla locandina da far circolare in lista unipop.
Non solo. Ho esteso l'invito anche al gruppo di lavoro sulla salute
globale e sulla mia pagina facebook. Insieme alla locandina ho
preparato anche un documento di presentazione della terapia
comunitaria il cui scopo era quello di descrivere la metodologia, la sua
storia e la base teorica su cui poggiava. Ho voluto connotare anche
l'esperienza come proposta di alternativa sociale rispetto al contesto
sociale nel quale ci troviamo.
Appena mandata la locandina in unipop mi è arrivata questa bella
risposta da parte di un ragazzo che si chiama L.
“Questa iniziativa è davvero stupenda! per mia fortuna al momento
non ho particolari problemi da mettere in campo, a parte forse la
prospettiva di iniziare a lavorare in una scuola "difficile", con studenti
che vivono situazioni di disagio. Comunque la possibilità di uno spazio
in cui ci si possa esprimere senza il timore di essere giudicati è per me
una situazione di grande attrattiva, soprattutto perché mi insegnerà ad
ascoltare senza giudicare.
Contate sulla mia presenza!
A presto!
L”
Quando dice “Comunque la possibilità di uno spazio in cui ci si possa
esprimere senza il timore di essere giudicati è per me una situazione di
grande attrattiva, soprattutto perché mi insegnerà ad ascoltare senza
giudicare” conferma uno dei principali motivi per i quali mi sto
dedicando alla terapia comunitaria e anche al laboratorio sulla cura di se
e degli altri. Creari spazi sociali (intermedi direbbe Curcio) in cui le
persone possano sviluppare altre forme di socialità senza relegarle alla
dimensione terapeutica (vedi gruppo di auto-aiuto etc..).
Ed è stato proprio L ad arrivare per primo venerdì scorso. Con lui c'era
un suo amico che non ha il passaporto e che inizia a vedere male dagli
occhi. Mi chiede se conosco qualche ambulatorio. Gli spiego tutta la
storia degli Stp e del progetto mappatura. Ecco fatto! Anche
orientamento. Così si sviluppano le relazioni e così si collabora con le
persone. Nell'incontro. In spazi contigui e tangenziali ad altri momenti,
vivendo la trasversalità dei momenti di vita. Avendo la chiave dei
campi.
Sudo copiosamente. Prima dell'incontro ho fatto una bella corsa e il mio
corpo sta ancora smaltendo il calore accumulato. La doccia che ho fatto
non è bastata.
Prima di incontrare L con il suo amico, fuori da Santa Croce c'è F che
sta parlando con E. Mi saluta mettendosi sull'attenti e sorridendo.
Sembra felice di rivedermi. Io lo sono. Saluto entrambi con affetto e
distacco. Gli ho stretto calorosamente la mano, non gli ho dato il
classico bacetto. Ero combattuto se farlo o meno.
Dopo L e il suo amico mi sembra siano arrivata MR e V. MRosa è
avvolta in una coperta e si soffia il naso con il fazzoletto. Dice che sta
male con un tono lamentoso. Una parte di me è contenta che ci sono
nuove persone. Altrimenti so già come sarebbe andata a finire. Avrei
lasciato fare il monologo a lei... A lei chiedo un fazzoletto per
asciugarmi il sudore che a questo punto ha iniziato a bagnarmi la
camicia. Per rompere l'imbarazzo mi scuso per la mia sudorazione
copiosa e do colpa al caldo insolito di settembre. Faccio notare a MR e
agli altri che ho pulito la stanza e che ho messo del deodorante, non io,
nella stanza voglio dire. Voglio fargli capire che mi prendo cura di loro
anche attraverso la cura del posto. Insieme a MR e V c'è anche P. Il
giorno dopo, all'incontro sulla cura di sé e degli altri, mi dirà che V
l'aveva invitata nella sua stanza. La cosa mi sembra interessante. Ha a
che fare con il discorso delle finestre che si aprono.
Poi vedo che arrivano con sorpresa anche G e M! E non è finita qui!
Anche un'altra coppia di persone. Poi scoprirò che sono due amici di P,
marito e moglie! Non ci posso credere!
Ha funzionato aprire all'unipop!
A questo punto manca solo F. Appena arriva sono pronto ad iniziare. Ho
ripassato i diversi momenti in tram prima di arrivare. Distribuisco le
regole che ci impegnamo a seguire durante l'incontro e mi scuso se sono
solo in italiano. Chiedo a chi vuole di leggerle ad alta voce. Possiamo
iniziare.
Racconto la storia della terapia comunitaria e le parole vengono fuori
facilmente. Bene! Mi sento a mio agio e soddisfatto. Mi godo lo stato di
leggera tensione ed eccitazione.
Poi chiedo a qualcuno di proporre un'attività corporea per iniziare e
altra sorpresa! L tira fuori un bel gioco. Ci fa prendere una sorsata di
risate! Letteralmente ci fa immaginare di bere un bicchiere di risate. É
perfetto!
La scelta dei temi premia quello di F. Si racconta e mi sembra sia
protagonista. É eccitato e contento della situazione, mi sembra. Io
rinforzo il suo momento dicendo che la prossima volta sarà lui ad
aiutarmi a facilitare. Risate. La cosa più bella è stata “normalizzare” la
condizione di F che dice che tende a “sbroccare”. Altre persone hanno
raccontato del loro rapporto con la rabbia. Forse F non si è sentito solo.
E alla fine dell'incontro ci/mi ha ringraziato dicendo che da quando
viene agli incontri si sente meglio.
Quello a sentirsi meglio in questo momento sono io.
Altre persone, tra le quali L, mi spronano ad andare avanti e si augurano
che riuscirò a portare questo approccio nei servizi. Tutto questo mi
serve. Ne ho bisogno in questo momento.
Sono rimasto solo. Del gruppetto che si era reso disponibile a
partecipare si sono tirati indietro tutti. Sono solo.
Do appuntamento a venerdì 25 settembre. Oggi stesso ho rimandato la
locandina in unipop. Spero che ci sarà nuovamente qualcuno. Spero che
non si esaurisca nell'effetto novità. Vediamo...
Roma, 28 settembre 2015
Venerdì scorso (25 settembre) non è venuto nessuno all'incontro di
terapia comunitaria. Nelle ore e nei giorni precedenti avevo avuto un
presentimento in tal senso. F mi aveva scritto che non ci sarebbe potuto
essere, e avevo dei dubbi sulle altre persone di santa croce. Per quanto
riguarda quelle dell'unipop, mi immaginavo che alcune di queste erano
venute per curiosità e che difficilmente sarebbero venute una seconda
volta.
Ero nella nostra stanza e alle 19,30, quando non c'era nessuno, mi sono
detto che avrei aspettato circa 15 minuti. Mentre aspettavo provavo ad
accogliere il senso di frustrazione e mi domandavo se gli “occupanti”
non avessero accolto bene la presenza di persone esterne. C'era
frustrazione e allo stesso calma. Prima di venerdì avevo compilato uno
schema in cui valutavo le cose della terapia comunitaria sulle quali
potevo avere un controllo. Il numero delle persone è qualcosa sul quale
io posso avere un po' di influenza cercando di gestire al meglio gli
incontri e pubblicizzando l'evento, poi stà alle persone venire. Non
posso fare molto di più. Penso possa essere utile fare un passaggio con
il consiglio di action, spiegando bene quello che si fa il venerdì. Ci
lavorerò su.
Mentre me ne stavo per andare sono entrate nella stanza due ragazze.
Una è RL, una studentessa in ass. sociale alla quale ho scoperto che
avevo fatto lezione. Mi aveva avvicinato all'ultima riunione di spin time
e le avevo raccontato quello che stavo facendo. Mi aveva dato il suo
indirizzo mail chiedendomi se potevo aggiungerla alla lista unipop.
Così eccola qua con una sua amica, anche lei studia servizio sociale. Mi
colpisce il modo con il quale A è interessata a quello che faccio. Sono
colpito al punto tale da esserne imbarazzato. Parliamo di molte cose.
Lei mi dice che è interessata a fare dei corsi da facilitatrice tra le altre
cose e allora le parlo di Roberto. Mi dice anche che è interessata a
partecipare agli incontri di cura comunitaria. [...] É stato bello per me,
mi sono sentito capito, compreso circa quello che sto cercando di fare.
Roma, 27 ottobre 2015
Oggi mi ha scritto E, una signora di Bologna che ha partecipato al corso
sulla terapia comunitaria, sia quello di questa estate che quello che si è
tenuto qualche settimana fa a Torino. Lei, se non ricordo male, lavora al
comune di Bologna e si occupa delle case occupate. Sapendo che sto
facendo degli incontri di terapia comunitaria in contesti occupati mi ha
chiesto se avevo voglia di supportarla nel portare la terapia comunitaria
in contesti simili a Bologna. Le ho risposto affermativamente. Vediamo
cosa succede.
Intanto procede il mio tam-tam informativo sulla terapia comunitaria sia
sulla lista unipop che in quella di spin time che su facebook. Domani
sera passerò anche in consiglio di Action per dirlo agli altri comitati
abitativi.
Roma, 1 Novembre 2015
Venerdì scorso c'è stato il terzo incontro da settembre. Al secondo
incontro non era venuto nessuno e pensavo che sarebbe successa la
stessa cosa anche questa volta. Durante la settimana avevo fatto due
tentativi, andati a vuoto, di passare in assemblea di occupazione e di
gestione di Action per dire che ci sarebbe stato l'incontro. Tuttavia, i
giorni e gli orari delle assemblee erano stati spostati senza che io lo
sapessi.
Con questa sensazione addosso sono andato a Santa Croce. Ho aperto la
sede, acceso la luce, tirato su la serranda, disposto le sedie in circolo.
Mancano circa 20 minuti e inganno il tempo prendendo appunti sul
corso di formazione che sto facendo al Sant’Andrea. Si fanno le 19,30 e
non si vede nessuno. Aspetto. Dopo circa quindi minuti, non di più
credo, si presenta alla porta un signore dell'occupazione che già
conosco e di cui ignoro il nome. Mi dice qualcosa circa il fatto che gli
hanno detto di venire a parlare con i medici [...]. Io mi presento
cercando di essere accogliente. Capisco chi potrebbe essere. M, qualche
giorno fa, mi ha detto che aveva “fortemente” consigliato di partecipare
agli incontri ad un occupante. Credo proprio sia lui. Inizia a parlare e mi
dice che tende ad “alzare il gomito” e a dare in escandescenza
soprattutto quando si trova senza lavoro. Mi dice che è un mastro
pittore e che lavora da quando è piccolo. Adesso ha 52 anni. Gli dico
che non sembra dimostrarli, sembra un “pischello”. Sembra una persona
con un buon senso dell'umorismo e provo a stare su questo registro per
farlo sentire accolto. Mi dice che prova una forte ansia nei momenti in
cui non lavora al punto tale da provocarsi del vomito. Sà che ci sono dei
farmaci ma lui preferisce farsi due ceres e una cannetta. Parliamo e
sono divertito da questa chiacchierata. Gli spiego che in due persone
non si può fare la terapia comunitaria, tuttavia se vuole possiamo
continuare a parlare. Nel mentre entra A. E sul momento mi dispiace
perché penso che a parte lei non verrà nessun altro e che forse era
meglio continuare a parlare con L. A, penso lo capisce e dice se
vogliamo rimare soli, L dice no. E allora A mi dice che lui è una brava
persona e che può ricevere aiuto. Io gli dico che si vede che L è una
brava persona e lui con una faccia e un tono della voce sorpresa mi
ringrazia. Credo che abbia bisogno di ricevere questi commenti. Penso
al corso di Barreto. Barreto parla dell'inatteso e l'inatteso si presenta
dalla porta. Compaiono E e un'altra ragazza con un'aria agitata e
sospettosa che mi agita leggermente di primo impatto. Sono le otto.
Sono le otto e dentro di me con soddisfazione mi dico che si può fare un
incontro di terapia comunitaria. La ragazza che è entrata si chiama L.
Ha letto della terapia comunitaria in lista unipop ed è venuta da fuori
Roma per vedere in cosa consistesse. L parla di un senso di oppressione
legato al lavoro, legato al fatto che non si può più fidare di nessuno. Si
guarda intorno con sospetto, quando provo a guardarla distoglie lo
sguardo quasi con fastidio. Ha delle occhiaie pronunciate, capelli
raccolti disordinatamente e con una tinta vecchia di qualche mese. [...].
Mi da l'idea di una persona molto sensibile. E non appena inizia a
sorridere trapela un raggio di bellezza sul suo volto come un raggio di
sole su un paesaggio invernale. Scegliamo di accogliere la sua tematica
e l'ascoltiamo. Anche se in pochi si crea un clima raccolto e accogliente.
Alla fine ci ringraziamo per il tempo che ci siamo dedicati. L in
particolare ringrazia A che a sua volta la invita a venire quando vuole e
le dice che è la benvenuta. L aveva detto di sentirsi sola e di essere stata
isolata. L dice che si sente meglio e che ritornerà con piacere la
prossima volta. Anche E ringrazia tutti per averla fatta sentire accolta.
Sono contento.
L […] mi dice che è commossa di vedere questa realtà che dice non
essere presente da nessuna parte se non forse da qualche privato. Mi
dice che gli sembro una brava persona e che ci vuole coraggio per
provare a fare quello che sto facendo. Non lo so se ci vuole coraggio, io
so solo che mi sento pronto per poterlo fare.
Sono contento di poter stare con le persone, di contribuire a creare e ad
abitare spazi nutrienti. Mi fanno sentire vivo, in contatto con l'umanità.
Roma, 29 novembre 2015
Agli ultimi due incontri non è venuto nessuno. Al penultimo incontro
c'erano Maurizio e D. Non sapevo se essere più dispiaciuto o
imbarazzato per il fatto non ci fosse nessuno. Tuttavia ho avuto modo di
confrontarmi con Maurizio circa l'impostazione da dare alla tesi. Infatti,
gli ho confessato che ero preoccupato di non riuscire a portare nessun
dato alla discussione della tesi e che l'ansia di dover produrre qualcosa
“in funzione di” stava riducendo il piacere di sperimentarmi in questa
proposta. Lui mi ha detto che potrei impostare la tesi sugli approcci di
comunità esistenti e portando questa esperienza come una delle tante.
Devo dire che mi è piaciuto questo consiglio e mi ha fatto rilassare.
Abbiamo passato una piacevole serata insieme, mangiando una pizza da
“sotto sopra”.
All'incontro di venerdì scorso, nonostante avessi visto L e F che mi
avevano detto che sarebbero venuti, non è venuto nessuno tranne E.
Abbiamo parlato. Lui mi ha raccontato aspetti importanti della sua vita
e mi ha detto di insistere, che quello che sto provando a fare è
importante. Mi diceva, “guarda F! Lo abbiamo aiutato tutti quanti”. Mi
ha consigliato di parlare di più con le persone e di parlare con lo
sportello di tutela sociale di Action per proporre la terapia comunitaria
come filtro ai problemi che loro trattano.
Mi sono reso conto che a settembre avevo deciso di aprire all'unipop e
di vedere cosa sarebbe successo. Avevo deciso di non puntare molto sul
coinvolgimento degli abitanti, puntavo sull'ibridazione. Questo ha
funzionato per due incontri, poi le persone hanno iniziato a non venire.
Proverò a seguire i consigli di E. Proverò a seguire questa strategia:
parlare con le persone al picchetto: questa idea mi è venuta dopo
aver parlato con un ragazzo al picchetto e mi ha detto che sarebbe
venuto. Ogni volta che vado a Santa Croce mi porto dei volantini
che consegno alle persone del picchetto e le invito al prossimo
incontro presentandomi.
Il giovedì in assemblea: non parlo davanti a tutti ma volantino
nell'attesa che l'assemblea inizi, parlo con le persone.
Sportello di tutela sociale: contatterò A per avere un
appuntamento con loro.
[...]
Roma, 09 dicembre 2015
Ieri sera ho visto che sul gruppo facebook di slowmedicine si parlava
della mia esperienza di terapia comunitaria. Ne stava parlando L,
ginecologa che ho conosciuto al gruppo regionale sulla salute/sanità che
si è formato da poco sulla scia della proposta di E e della coalizione
sociale di formare un gruppo sulla salute. Sulla fine di una riunione del
gruppo ho scoperto con sorpresa che a lei piaceva Arnold Mindell, da li,
non ricordo bene, ho raccontato lei la mia esperienza di TC. E da cosa
nasce cosa. Ora lei ha quasi 5000 amici su facebook e mi sembra molto
inserita in tutta una serie di conoscenze e reti. Se lei mette in circolo
questa notizia credo che possa contare su un bel canale di diffusione.
Quello che mi colpisce è che questo approccio desta interessa più nei
medici/operatori della salute “sensibili” che non nelle persone di Santa
Croce, almeno per ora. Mi rendo conto che è una riflessione buttata la.
Mi prometto di riprenderla in un secondo momento anche alla luce di
ulteriori avvenimenti.
Roma, 22 dicembre 2015
Ieri ho iniziato a mettere mano alla tesi. Come se non lo stessi già
facendo da un anno a questa parte (esattamente dal 15 novembre 2014).
Che cosa intendo con mettere mano alla tesi? Intendo cercare di capire
come restituire il mio percorso di ricerca, come renderlo leggibile,
fruibile. Non solo agli altri, anche a me. Potrei scegliere
un'impostazione di scrittura “classica” che preveda: introduzione,
capitoli centrali di contestualizzazione e discussione finale. Potrei.
Tuttavia, c'è qualcosa in me che preme per provare qualcosa di altro,
che preme nella direzione della complessità. Questa parte di me sente
come una forzatura ridurre questo percorso ad un'algida presentazione
accademica. Si vuole divertire, si vuole scoprire. Vuole scoprirsi
congruente con quello che scrive e presenta. Una continuità, una tesi
porosa, dove le cose dell'anima e quelle della ragione si incontrano in
quel punto di mezzo formato da me e dalla mia vita che sto vivendo.
Quindi ho deciso di darle la forma che prenderà, che in concreto vuol
dire ASPETTARE. Aspettare che la forma venga, che emerga. Nel
frattempo io vivo e la mia tesi cresce e si evolve con me. E così facendo
ieri ho iniziato, qualcosa è emerso alla coscienza.
Questo qualcosa è emerso domenica sera di ritorno da casa dei miei.
Ero in macchina da solo, stavo facendo il raccordo. Senza capire ne
bene come, ne da dove si è affacciata una riflessione che mi ha portato a
domandarmi: che cosa e come ha fatto sì che io entrassi in contatto con
la terapia comunitaria? Che cosa mi ha permesso di riconoscerla? Di
dire ecco? E nel pensarci non ho potuto fare a meno di sentire e pensare
che la terapia comunitaria ha a che fare con il mio percorso di vita e di
formazione di questi ultimi cinque anni e anche più (se un inizio si
vuole trovare, tutto parte dal laboratorio di mondialità). E poco fa, poco
prima di iniziare a scrivere, ho riletto la prima pagina di questo diario e
mi sono accorto che ho scritto più o meno le stesse cose.
Così ieri ho iniziato.
E ho iniziato mettendo in ordine la mia scrivania. C'erano tanti libri,
documenti, appunti sparsi e accumulati gli uni su gli altri. Più volte mi è
capitato di pensare che quell'immagine esterna riflettesse l'ordine dei
miei pensieri interni. Ci sono tante cose, sovrapposte tra loro e tra di
loro hanno un senso. Funzionano. C'è già tutto quello che serve, non ho
bisogno di cercare altro, è già tutto lì. Conosco ogni cosa che c'è sulla
scrivania, saprei ritrovarla senza problemi. Qualcosa in me diceva che
non era necessario fare ordine sia fuori che dentro di me. Le cose
funzionano così. Sò tutto dove esattamente è. A che serve mettere in
ordine? E con che criterio? Provo a rispondermi adesso. Può servire per
fare spazio per cose nuove o per riprendere e maneggiare cose vecchie.
Può servire per raccontare, mi può servire per imparare qualcosa da me.
Si mi rendo conto che fare ordine mi può aiutare a imparare qualcosa su
di me. Che poi è un fare ordine che equivale di più a un ripercorrere un
sentiero battuto per ricordarlo meglio, per tracciarlo su una mappa più
che a un mettere a posto. Ecco, non sto mettendo a posto perché reputi i
miei pensieri disordinati, metto a posto per provare a costruire una
mappa.
E allora ieri ho iniziato a risalire il sentiero all'indietro. Nel farlo sono
stato colto da una sensazione di disorientamento, gli anni non erano dei
saldi punti di riferimento. I fatti, gli avvenimenti mi sembravano così
distanti e vicini allo stesso tempo alla mia esperienza che gli anni
perdevano significato. Focalizzando su questa sensazione oggi è emersa
questa frase “ il cambiamento è invisibile perché graduale”. Guardando
indietro a questi anni ho la sensazione di essere stato immerso in un
turbinio di esperienze, persone, situazioni. Guardando a quello che sono
oggi, faccio fatica ad apprezzare il cambiamento avvenuto in questi
anni, così come guardandomi allo specchio riconosco quello che ero
cinque anni fa. Non noto apparentemente nessuna differenza. É come se
ci fosse una costante al trascorrere incessante del tempo e delle
situazioni. Quella costante sono io che cambio incessantemente. Questo
cambiamento costante è anche il motivo della sua invisibilità. Ad essere
arrivato dove sono e come sono mi sorprendo della fluidità con la quale
le cose sono avvenute. Questa processualità incarnata ha fatto si che io
diventassi ciò che sono stato, sono ciò che sono stato, sono la risultante
presente di questo processo. Semplicemente sono quello che ho fatto,
che ho studiato, che ho imparato. Sono talmente tutto questo che ne
sono dimentico, o meglio non ho bisogno di ricordarmelo, quello che
faccio e che dico è espressione di tutto ciò. Una sensazione simile ce
l'ho con il nuoto, non ho bisogno di ricordarmi come si faccia nuotare,
mi basta tuffarmi in acqua per iniziare a farlo. In questo caso è
necessario che io ex-sista per essere. Questa tesi allora non è niente
altro che una scoperta di me stesso. Questa tesi sarà l'acqua dove mi
tufferò per scoprire senza sorpresa che semplicemente so nuotare. Che
semplicemente sono diventato, sono e sto diventando.
Guardando ad uno schema che ho costruito questa mattina sulla
formazione e sul quale tornerò più volte ho scritto di getto quanto
segue.
Sono partito da delle esperienze. Queste mi sembravano,
apparentemente slegate tra loro all'inizio. Poi, le ho connesse. Questo è
avvenuto circa alla fine del 3° anno di specializzazione. Fatta questa
cesura ho potuto vedere le potenzialità della Tc.
Nel mio caso non sono stati degli obiettivi formativi a generare delle
esperienze e poi delle competenze; sono state delle esperienze a far
sviluppare delle competenze. Più che da obiettivi stabiliti razionalmente
ex-ante sono partito da quelli che erano i miei interessi, che mi
coinvolgevano nella mia interezza di persona, non c'era solo un
interesse professionale. E partendo da questi interessi facevo delle
esperienze, dalle esperienze sorgevano altri interessi, dubbi, bisogni
ulteriori di approfondimento. Non avevo e non ho un campo di ricerca
limitato, questo va fin dove il mio interesse e la mia vita mi portano. Il
percorso di questi anni è stato un percorso incipiente. Sono partito da
me e dal mondo, mi sono fatto interrogare da esso e mi sono scoperto
impreparato, da quel momento è iniziato il mio percorso di trans-
formazione. E in questo percorso tutti gli ambiti della mia persona sono
stati coinvolti, quello emozionale e razionale, sociale e politico,
professionale. Ero alla ricerca di una formazione coerente, che
considerasse come un uno quello che sono e le cose si sono intrecciate
tra loro. Al punto tale che per me non è possibile dire dove si ferma la
mia azione professionale e di formazione con quella di attivista e quella
della mia vita privata. C'è un'unica trama coerente che le tiene unite.
Raccontare questa trama, intercettarne l'ordito sarà il mio principale
compito della mia tesi, forse.
Roma, 24 Dicembre 2015
Alcune considerazioni. Su Facebook si continua a parlare di TC. Dopo
aver messo la locandina dell'incontro per il 18 dicembre, G B l'ha
commentata chiedendomi come reagiva il contesto italiano alla terapia
comunitaria. Lui intendeva il contesto istituzionale. Fino a qualche anno
fa mai avrei pensato che avrei parlato su Facebook con B circa la mia
esperienza di TC. Questo mi sembra un fatto positivo. Tuttavia,
continuo a ricevere interesse soprattutto da parte degli operatori.
Anche ieri pomeriggio, ho incontrato P che mi ha fatto gli auguri per la
mia esperienza di TC. Ha detto che secondo lui è importante. In effetti a
messo “mi piace” sulla mia pagina. Anche P sembra essere interessato.
Come mai, mi domando.
Detto questo ripercorro quello che è successo durante gli ultimi due
incontri, quello dell'11 e del 18 dicembre.
A quello dell'11 sono venuti L, F (che era venuta su indicazione di LC),
A e un ragazzo dell'occupazione di cui non ricordo il nome. Essendo
così pochi non ho fatto la terapia comunitaria vera e propria ho letto il
documento di sintesi della terapia comunitaria e l'abbiamo commentata
insieme. Poi ho invitato L a parlare di quello che lo agitava: il lavoro.
Il 16 dicembre sono andato a Santa Croce per partecipare ad
un'iniziativa sulla migrazione. Ho incontrato L. Mi sembrava un po'
brillo. Abbiamo scherzato un po' e a un certo punto mi ha abbracciato.
Nonostante i suoi 60 anni circa mi è sembrato come un bambino che
cercasse protezione e affetto. Io ho provato a darglielo perché ho
provato tenerezza nei suoi confronti. Penso che questo è potuto
succedere perché lui ha partecipato alla TC. Con le persone che hanno
partecipato alla TC sto sviluppando una relazione di affetto. E sento che
questo tipo di relazione è autentica. Credo che fino ad ora sia questo
l'effetto più importante della TC. Si sta creando una rete sociale e questa
rete non avviene solo tra le persone ma soprattutto tra me e loro.
Questo è quello che è successo anche con E il giorno dopo, giovedì 17.
Era al picchetto, io gli chiedo come sta e nel frattempo attacco il
volantino. Mi dice che ha avuto un problema con la persona che gli
aveva chiesto di lavorare per lui. Non lo pagava da tempo nonostante
lui avesse provato più volte a sollecitarlo. Ad un certo punto non ce l'ha
fatta più e ha usato violenza. Era scosso, amareggiato. Si era promesso
che non avrebbe più usato la violenza e tuttavia aveva fallito. Quello
che lo faceva arrabbiare ancora di più era che così aveva ottenuto quello
che voleva, infatti il tipo lo aveva pagato. Abbiamo parlato un po'. Io gli
ho detto che secondo me il problema è che come lui ci sono tante altre
persone nella sua stessa situazione e che invece di farsi giustizia da soli
(aveva escluso l'aiuto della polizia perché tanto mi ha detto le cose
sarebbero andate per le lunghe) l'ideale sarebbe condividere insieme
questi problemi. Gli ho detto che il giorno dopo gli avrei portato due
libri su questo tema e che poi ne avremmo parlato insieme.
Così è stato. Venerdì 18 è venuto all'incontro e gli ho dato i libri con la
promessa che ne avremmo parlato insieme. All'incontro c'erano anche
V, MR e LC. La prima ad arrivare è stata LC, poi si è affacciata V. Dopo
un po' che stavamo parlando ho pensato di andare a chiamare MR. Così
ho fatto. Lei è scesa e ha iniziato a lamentarsi del posto, della sua vita,
della sua salute. V le ha consigliato un medico bravo per farsi vedere il
seno, inoltre le ha raccontato che quando stava così giù anche lei è
uscita e si andata a fare una passeggiata con tanto di foto! Con il
proseguire del tempo l'umore di MR è migliorato, ha parlato di un
bambino che è vicino alla sua stanza e ne parlava sorridendo. Ci siamo
salutati facendoci gli auguri.
Adesso realizzo che sono persone alle quali voglio bene. Sono
d'accordo con quello che dice Barreto, mi hanno aiutato a “guarire”
dall'alienazione universitaria. Forse siamo noi che stiamo formando una
piccola comunità? Riesco a sentire una vicinanza umana nei loro
confronti. E questo penso proprio sia l'amore di cui parlavano Freire e
Bateson. Credo. É una briciola di consapevolezza che è emersa adesso.
Roma, 1 Gennaio 2016
Sono riuscito ad abbozzare l'indice della tesi. Per farlo sono passato
attraverso una rappresentazione grafica dei concetti, delle esperienze e
dei momenti che ho vissuto in questi anni. Ho provato a disegnare il
mio processo di crescita e ricerca. Dopo, ho provato a tradurre quel tipo
di complessità in un filo logico che mettesse insieme le diverse cose
affrontate facendo emergere una mappa, un discorso. Credo di esserci
riuscito, ho posizionato dei segna-via, la strada si costruirà provando a
congiungerli tra di loro.
Mi rendo conto che con il diario di ricerca sto raccontando due cose
almeno: l'esperienza di terapia comunitaria e, adesso, in questi giorni, il
mio processo di scrittura della tesi.
Quando ho letto l'indice a Susy, lei mia ha detto che le sembrava molto
chiaro, così anche Viviana. Ne ho iniziato a parlare anche ieri con
Martina.
Nelle prossime settimane ne parlerò anche con Maurizio e Tarsitani.
Aver già scritto l'indice mi ha tranquillizzato. Rende tutto più reale,
concreto e fattibile. Sono contento anche di essermi svincolato dal voler
scrivere solo della terapia comunitaria. Penso che questa tesi mi
rispecchi di più.
Mi accompagna la sensazione che sarà qualcosa di speciale. Sento la
creatività che cresce dentro di me, sento che c'è qualcosa che vuole
uscire, qualcosa che vuole raccontare, vuole dire qualche cosa. Mi fido
di me e di questa sensazione. […] Penso che ci riuscirò.
Questi giorni mi hanno aiutato a fare un po' di ordine nel fluire degli
eventi di questi anni. Sono stati anni bellissimi, intensi, vivi. Mi sentivo
un fiume in piena, adesso sono più calmo, più sazio, più posato. Posso
provare a rileggere con distanza alcune cose, a rielaborarle per
condividere. Penso che la tesi sia un ottimo modo per chiudere
ritualmente questo ciclo. Un ciclo che ha combaciato con un altro pezzo
importante della mia esistenza, quella del gruppo medici senza camice.
Il 29 dicembre ci siamo detti che l'esperienza del gruppo per come
l'abbiamo conosciuta non esiste più. Sono tranquillo, sono pronto per
questo.
Roma, 05 febbraio 2016
Oggi ho fatto l'incontro di terapia comunitaria al liceo per il turismo.
Dopo aver fatto la presentazione a circa 100 ragazzi, pensavo che
all'incontro non sarebbero venute più di cinque persone. Questione di
sensazioni scaturite dall'esperienza fatta a Santa Croce. La mia ipotesi è
che ci sia molta diffidenza nei confronti di queste proposte. E questa
diffidenza è trasversale. Così come credo che i benefici di una tale
proposta siano trasversali, allo stesso tempo mi viene da pensare che
trasversali sono anche le resistenze. Che cosa rende le persone così
diffidenti e indifferenti a questa proposta? Che cosa vogliono le
persone? Potrei rispondere a queste domande, me ne rendo conto,
tuttavia le mie, sarebbero delle risposte dettate da impressioni, sentire
comune, stereotipi. Mi piacerebbe sapere, esplorare quelle che sono le
motivazioni reali delle persone e confrontarle con le mie ipotesi di
partenza. Le mie ipotesi riguardano la condizione umana di questo
momento storico. Siamo desensibilizzati, stiamo perdendo l'abitudine a
vivere in maniera collettiva, a sentirci toccati dagli altri, siamo
individualisti e superficiali, pensiamo che queste cose riguardino
solamente gli sfigati.
Sulla scorta di tutte queste considerazioni pensavo non ci sarebbero
state più di cinque persone. Arrivato a scuola, R mi dice che secondo lei
non ci sarà nessuno. Durante la mattina è passata nelle classi per
ricordare dell'appuntamento di oggi è si è resa conto che alcuni ragazzi
avevano un atteggiamento derisorio nei confronti della proposta. Dentro
di me penso, ci risiamo, anche qua un buco nell'acqua. R mi dice che
aveva pensato di proporlo ad una singola classe, scelta dai docenti; la
classe più problematica e di mattina, senza far restare i ragazzi il
pomeriggio. Io le dico che va bene, a patto che i ragazzi siano liberti di
decidere se partecipare o meno.
Ci decidiamo a raggiungere l'aula nella quale si terrà l'incontro. É l'aula
1° E, e adesso mi viene in mente che la E era la mia sezione al liceo. La
sezione più marginale, dove ci avevano messo gli scarti. E mi rendo
conto che ad una parte di me le piace essere ai margini, stare con gli
ultimi e con chi viene considerato o si considera tale; ancora prima che
per un discorso di empatia nei confronti dell'altro, il mio è un senso di
giustizia profondo che sento dentro di me […] . Dedicarmi agli ultimi e
ai marginali e fare in modo che questi prendano consapevolezza di loro,
di quello che sono. Abbiano il coraggio di riscattarsi. Questo è quello
che sento mi è successo a me. So che vuol dire sentirsi esclusi, sentirsi
marginali e so con quanta forza gli altri possono provare a schiacciarti.
In questo mondo di rumori e di immagini in HD c'è poco spazio per i
silenzi e per le persone poco appariscenti. […] Voglio aiutare le altre
persone, soprattutto quelle con maggiori difficoltà ad esprimersi e a
fiorire.
Sto dicendo tutto questo perché alla fine si sono presentate in tre
ragazze. Dai mie ricordi del liceo queste potrebbero essere le classiche
ragazze prese in giro e messe da parte dagli altri e dalle altre ragazze di
successo. Se ne stanno in disparte, e si danno da fare a coltivare il loro
mondo interno tanto più quello esterno le rifiuta e non le riconosce. Per
la maggioranza queste persone non dovrebbero esistere. Sono poco
carine e timide, perché perdere tempo con loro. E loro il tempo oggi se
lo sono preso, si sono prese questo spazio e si sono aperte, facendo
intravedere un mondo di consapevolezza enorme. Mi ha colpito
veramente tanto la capacità con cui loro entrano in contatto con le loro
emozioni, come riescono a stare nell'ambivalenza. Spero che si
convincano che hanno qualche cosa da dire e spero che riescano a
trovare il loro modo creativo per dirlo. E lo ha fatto cantando, alla fine
dell'incontro, “il cielo in una stanza” di Gino Paoli.
Mi piacerebbe se ritornassero la prossima volta. In loro c'è speranza.
Non è vero che i giovani sono tutti nichilisti […] . Servono dei leader
silenziosi come queste ragazze.
Finito l'incontro ho incontrato Giulia S. alla stazione. Mi ha ridato il
quadernino degli appunti che avevo lasciato da lei a Torino. Abbiamo
parlato della Tesi e anche lei mi ha detto che farei meglio a farla
sull'esperienza della terapia comunitaria. Mi sono convinto anche io che
ho sufficiente materiale per poter fare la tesi su la terapia comunitaria.
Altrimenti mi sembra di fare una cosa troppo generica. Mi confonde.
Credo che era soprattutto questo il blocco che avvertivo nei giorni
passati.
Roma, 12 febbraio 2016
Anche oggi nessuno si è presentato all'incontro di cura comunitaria a
Santa Croce. In queste settimane ho provato a cambiare i volantini, ne
ho fatte molte copie e le ho lasciate anche al picchetto, tuttavia
sembrano non essere serviti a nulla queste modifiche. Nelle prossime
settimane proverò a contattare anche le altre occupazioni per presentare
la cura comunitaria anche a loro. Mi domando se quando incontro le
persone debba essere più convincente a persuaderle a venire agli
incontri, c'è una parte di me che non riesce a farlo, si sente come se
stesse vendendo qualcosa e io non voglio vedere nulla, voglio porgere
un invito con delicatezza e aspettare che l'altro decida di voler venire o
meno. Un'altra parte di me si sente scoraggiata, vorrebbe mollare per
protesta, mi dice di lasciar stare che a loro non interessa e che se così è
peggio per loro! É così convinta che possa essere così d'aiuto la cura
comunitaria da non ammettere quasi fallimenti. Vorrebbe che gli
incontri fossero pieni di persone, che le persone partecipassero. Ce ne è
un'altra, di parte, che prova a razionalizzare. Prova a cercare di capire,
ad analizzare il contesto e si sente comprensiva nei confronti degli
abitanti. In fondo di venerdì sera le persone vogliono riposarsi. Forse
vogliono stare con i loro cari o semplicemente nelle loro stanze. Forse.
Un'altra ancora, quella che proprio non vuole mollare, la sognatrice, mi
sta dicendo di continuare. Di lasciare aperto questo spazio e vedere cosa
succede. Perché qualcosa già sta succedendo.
[...]
Altra cosa interessante. Mia zia teresa, ieri sera, prima che iniziasse il
lab sulla cura di sé e degli altri ha visto un volantino sulla cura
comunitaria e mi ha chiesto incuriosita dove si faceva (allora i volantini
a qualcosa servono!). Le ho detto che se erano interessati ero
disponibile a portarlo anche al centro anziani e mi ha detto che gliene
avrebbe parlato. Poi mi chiede quante persone servono minimo; io le
dico cinque e a quel punto mi chiede se si possono fare anche a casa. Le
dico di sì anche se sarebbe meglio in uno spazio pubblico. Chissà cosa
avrà in mente.
Roma, 26 marzo 2016
Ieri, all'incontro di cura comunitaria c'erano R, A e E. Ero arrivato
all'incontro con l'aspettativa che avessero partecipato più persone. Il
giorno prima infatti sono passato in assemblea per ricordare a tutti
dell'incontro visto che a quello precedente sempre MR mi aveva detto
che i volantini non servivano molto visto che la gente si dimenticava
dell'incontro. Non solo, lunedì un ragazzo si è suicidato a Santa Croce
buttandosi dal settimo piano. Il sabato prima MR mi aveva chiamato
dicendomi che c'era questo ragazzo che stava chiuso in stanza da 20
giorni senza mangiare e uscire. Mi aveva chiesto se fossi disposto ad
andarlo a trovare ed eravamo rimasti d'accordo che sarei andato il
lunedì stesso. Non ho fatto in tempo. Lunedì verso le 15.00 MR mi
chiama in lacrime e mi dice cosa era successo. Il giorno stesso M, mi
chiede di poter andare alla riunione del comitato per capire cosa sia
meglio fare. Così giovedì, prima dell'assemblea, sono andato in
riunione. Mi sono sembrati tutti agitati e con la voglia di trovare una
soluzione in breve tempo. M mi dice qualcosa circa il fatto che la cura
comunitaria forse in questo contesto non funziona per motivi culturali.
E poi un sovrapporsi di voci che mi infastidiscono. Dico che secondo
me non si può risolvere la faccenda in quindici minuti e mi rendo
disponibile a fare un percorso di riflessione con loro e a dare il mio
numero di telefono per eventuali segnalazioni. Qualcuno dice che la
poca partecipazione è dovuta anche ai molti impegni cui devono far
fronte all'occupazione. Qualcun altro dice che l'occupazione esaspera
una sofferenza già esistente. A me sembra chiaro quanto sia importante
continuare a creare degli spazi di condivisione comune, tuttavia mi
sembra ci siano delle forti resistenze. A fine riunione dico a S e a M se
vogliono passare il giorno dopo e mi dicono di sì, in realtà poi non sono
venuti.
Ieri E mi ha detto che il ragazzo che si è suicidato aveva perso da poco
il lavoro, e questo è un elemento da non sottovalurare.
Vediamo cosa succederà...
All'incontro di venerdì 11 marzo c'erano MR, G e M. In realtà abbiamo
chiacchierato. E penso che sia comunque importante.
Roma, 14 aprile 2016
Venerdì scorso (8 aprile) è accaduto qualcosa di veramente inatteso! Ero
pronto ad incontrare come ormai di consueto MR, G, M, V, E e a fare
quattro chiacchiere con loro. Questa volta ho comprato anche qualcosa
da mangiare; il giorno prima ero passato in assemblea invitando chi
fosse interessato a passare in stanza anche solo per mangiare qualcosa
insieme. Dispongo quello che ho comprato sul tavolo e mentre faccio
per uscire dalla stanza incontro MR con un'altra signora, una sua amica,
che sta scendendo per venire all'incontro. Entrambe portano con loro
tutto l'occorrente per fare la cerimonia del caffè eritreo. Dentro di me
spero che venga qualcuno. Fuori dalla stanza c'è un signore, che poi
scoprirò essere nigeriano, che con un italiano stentato mi chiede dove si
fa l'assemblea. Io gli dico che di solito la fanno giù in auditorium, di
provare a guardare là. Poco dopo lo vedo risalire dicendo che non ha
trovato nessuno. A quel punto gli chiedo meglio ciò che sta cercando e
farfuglia qualcosa che c'entra con i medici e la salute. Ah!!! faccio io,
scusandomi per non aver capito prima e ridendo dalla sorpresa lo
accompagno ad entrare nella stanza. Al momento ci siamo solo io, lui e
l'amica di MR che non parla bene l'italiano. MR è andata a cercare
l'accendino per accendere il fuoco per il caffè. Provo a intrattenere una
qualche forma di conversazione anche se mi sento impacciato. Faccio le
solite domande, di dove sei? Ah Nigeria, allora parli inglese. Quante
altre lingue ci sono in Nigeria? Più di 100 mi risponde. Ecco...mi dico
dentro di me. E intanto spero che arrivi qualcuno per rompere il
ghiaccio ancora un po'. Intanto dispongo le sedie in cerchio a partire
dallo sgabello dove è seduta la signora che sta preparando il caffè.
Metto al centro una sedia che svolga alla meno peggio le funzioni di un
tavolino e ci poggio su qualche cosa da magiare: patatine, noccioline,
biscotti, bibite. E come per magia, non solo rientra MR, ma iniziano ad
entrare anche altre persone! V con una sua amica, G, M, poi fanno per
entrare due ragazze ma sono visibilmente imbarazzate e trovano una
scusa per andarsene. Poi c'è anche S, poi A, un'altra signora Eritrea e un
signore che conosco bene (romano) ma di cui ora mi sfugge il nome. Do
il benvenuto a tutti, sono spiazzato! Dentro di me penso: ma non è che
l'hanno obbligati no?! Mi ricordo di quello che mi ha detto Barreto.
Fatti aiutare dalle loro tradizioni, usa per esempio il cibo o altre cose
per iniziare la conoscenza. Così chiedo, sfruttando l'esempio del caffè
eritreo, cosa loro cucinano nei loro paesi per stare insieme. Si parla e si
beve caffè e nel frattempo le persone continuano ad arrivare.
Arriveremo ad essere circa una quindicina in tutto. Da tre o zero è
decisamente un bel passo.
Mi accorgo che la situazione ha raggiunto un equilibrio, non sembra
stare per entrare nessun altro. Mi decido ad iniziare introducendo
brevemente che cosa si fa e mi faccio aiutare da MR, G e le altre
persone che vengono da tempo agli incontri. Sembra che preferiscano
non parlare, dicono qualche cosa ma non molto. Immagino siano
imbarazzate, tuttavia la mia scelta è quella di conferire loro
autorevolezza in quanto persone esperte di questa attività. Intanto, il
signore nigeriano con la scusa che deve fare una chiamata esce (e poi
non ritorna). Spiegato un po' come funziona il meccanismo invito le
persone a condividere cose belle. Inizio io dicendo della nascita della
figlia di Alessandra. Poi, invito anche a condividere cosa ci piace fare,
se si hanno delle passioni. E a questo punto si apre una condivisione sul
cinema. G, S e P iniziano a confrontarsi allora sulla loro passione
relativa al cinema e alla televisione. S condivide il suo desiderio di
girare un film coinvolgendo le persone dell'occupazione.
Dopo un po' che parliamo e che il clima si è riscaldato, spiego il passo
successivo, ossia quello di condividere ciò che ci preoccupa. Emergono
soprattutto riflessioni relative a come si vive in occupazione. E il tema
che viene scelto è quello portato da P, vale a dire la difficoltà a crescere
dei figli in una occupazione. A questo punto entra F con la sua bambina
di tre anni. Il confronto è coinvolgente e le persone partecipano con
trasporto. Anche io racconto la mia esperienza di vita, da dove vengo e
cosa mi ha portato a venire in una occupazione.
Poi la fase finale. Tutti quanti dicono di essere stati bene e mi
ringraziano. MR invita tutti a tornare e M dice che questo è quello che
serve loro non tanto medicine o punture. Dice anche che lei fino ad ora
pensava che doveva rimanere in silenzio per “soluzionare” i suoi
problemi, con gli incontri ha capito che parlarne è utile e che prova a
farlo anche fuori da questo contesto.
Sono felice, e mi sento anche molto fortunato. Sto provando a
condividere ciò che penso sia un approccio utile, sentire che le persone
lo trovano altrettanto mi aiuta a credere ancora di più in quello che sto
provando a fare.