la partecipazione politica degli immigrati: dal dibattito internazionale al caso italiano
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[da: Maurizio Ambrosini (a cura di), Governare città plurali, Milano, Angeli, 2012 – cap. 2 ]
La partecipazione politica degli immigrati: dal dibattito internazionale al
caso italiano
di Paolo Boccagni
1. Introduzione
Questo capitolo rivisita, in riferimento all’esperienza italiana, un tema da tempo approfondito negli
studi internazionali sulle migrazioni, ma abbastanza marginale nel dibattito del nostro paese: la
partecipazione civica e politica degli stranieri, alla luce sia dei canali istituzionali che la veicolano,
sia delle capacità di mobilitazione degli immigrati nei confronti delle istituzioni pubbliche e della
società civile autoctona, a partire dalle comunità locali di insediamento. È su scala locale che si
sperimentano in forma tangibile, nel bene e nel male, i risvolti quotidiani della convivenza
multietnica (Penninx et al. 2004); ed è su scala locale che, anche nel caso italiano, la partecipazione
civica e politica degli immigrati ha cominciato ad assumere una qualche consistenza, pur in un
quadro istituzionale e culturale più «arretrato», come vedremo, di quello di molti altri paesi europei.
Se l’immigrazione in Italia è un fenomeno relativamente recente, tanto più incompiuto appare lo
scenario dell’integrazione e della partecipazione politica degli immigrati, sotto vari profili: per
quanto riguarda il riconoscimento dei diritti e l’accesso al sistema politico formale, ma anche sul
fronte della mobilitazione dei migranti e delle loro associazioni. La stessa ricerca sociale
sull’argomento, nonostante l’accresciuto interesse degli ultimi anni, appare ancora scarsamente
sviluppata, a paragone dei principali paesi di immigrazione.
Nelle pagine che seguono proporrò dapprima una rassegna di concetti utili a inquadrare il
tema: partecipazione (e integrazione) politica, struttura delle opportunità, mobilitazione. Entrerò poi
nello specifico del caso italiano analizzando, da un lato, le forme e gli strumenti di partecipazione
istituiti dalla società ricevente, anzitutto a livello locale; dall’altro, i canali di partecipazione
indiretta rappresentati, in varia misura, dal sindacalismo, dal terzo settore e dall’associazionismo
etnico. Da ultimo farò riferimento alle forme emergenti di partecipazione politica degli immigrati
verso i Paesi d’origine, e alle loro possibili ricadute sui processi di inclusione politica locale.
Concludono il capitolo alcune riflessioni tese a mostrare come il «ritardo» cumulato in Italia, nella
pratica della partecipazione politica degli immigrati, non tolga nulla alla rilevanza strategica di
questo tema, per le prospettive di gestione sul lungo periodo della convivenza multietnica.
1. Immigrati e partecipazione politica: strutture delle opportunità e mobilitazione
1.1 Alcuni concetti chiave
La partecipazione politica dei migranti e delle minoranze etniche è stata oggetto, negli ultimi
decenni, di un dibattito internazionale abbastanza ampio, almeno nei Paesi occidentali di più antica
immigrazione. In contesti nazionali come quelli di Stati Uniti e Canada, così come - per fare alcuni
esempi europei - Francia e Gran Bretagna, Belgio e Paesi Bassi, questo dibattito si basa su un
patrimonio ormai esteso di ricerche empiriche, nonché su un graduale allargamento degli spazi di
partecipazione politica effettiva (cfr. le sintesi di Hoschschild e Mollenkopf [2009] e di Però e
Solomos [2010]). Senza qui entrare nel merito delle singole esperienze nazionali (ma anche
subnazionali, oggetto di un numero crescente di studi), vale la pena ripercorrere i principali concetti
utilizzati, pur con molte variazioni semantiche, per descriverle e compararle.1
Il punto di partenza canonico, per il dibattito contemporaneo sulla partecipazione politica,
resta probabilmente la definizione di Verba e Nie (1972, p. 2), che abbraccia «le attività dei privati
cittadini rivolte, in modo più o meno diretto, a influenzare la selezione del personale di governo, e/o
le sue azioni». Partendo da questo quadro concettuale, vari autori hanno poi rivisitato - e talvolta
problematizzato - la nozione stessa di partecipazione politica. È ormai riconosciuta da tutti, in
questa prospettiva, l’importanza che ha (anche) la partecipazione extra elettorale: l’insieme delle
forme di cittadinanza «repubblicana», dal basso, slegate dai meccanismi della democrazia
rappresentativa. Rimane però una certa pluralità di posizioni - fisiologica, visto il tema - circa il
perimetro da attribuire a questo campo, e gli indicatori empirici più adatti a rilevarlo.
Spicca, tra i tentativi definitori più recenti, quello di Teorell et al. (2007):2
[La partecipazione politica può essere intesa come l’insieme delle] «azioni dei cittadini comuni dirette a
esercitare influenza, al fine di ottenere un determinato risultato politico» […]. In primo luogo, la partecipazione
politica comporta un’azione concreta: comportamenti osservabili di singoli individui. In secondo luogo, tali
individui non fanno parte delle élite. Non consideriamo, qui, le azioni intraprese da politici professionisti di vario
tipo. In terzo luogo, le loro azioni sono tese a influenzare, ovvero a esprimere pubblicamente una determinata
istanza. Ciò esclude dalla nostra definizione attività come conversare di politica tra familiari, amici e colleghi, o
1 In quanto a variabilità semantica, non c’è probabilmente concetto che superi quello di integrazione, sulla cui
dimensione «politica» - che fa da sfondo alla rassegna di questo capitolo - è possibile incontrare, tuttavia, un grado
di consenso relativamente alto. Si potrebbe infatti intendere l’integrazione politica, con Martiniello (2005, p. 2-3),
come una combinazione concettuale di quattro dimensioni: «i diritti garantiti agli immigrati dalla società ricevente»,
«il loro grado di identificazione con la società ricevente», «la loro adozione delle norme e dei valori della
democrazia», nonché la loro «partecipazione, mobilitazione e rappresentanza politica». Con lo stesso autore, a titolo
introduttivo, si può definire la partecipazione politica come l’insieme dei «modi in cui gli individui prendono parte
alla gestione delle questioni di interesse collettivo [collective affairs] in una data comunità politica» (cit.). 2 Gli autori rielaborano, a loro volta, il contributo di Brady (1999).
il semplice interesse per le notizie di attualità. Per poter parlare di partecipazione serve qualche cosa in più: la
volontà di esercitare influenza sulle decisioni assunte da altri. Non è strettamente necessario, da ultimo, che gli
«altri» in questione siano decisori politici o funzionari pubblici. È invece necessario che l’oggetto di queste
azioni sia un qualsiasi «risultato politico», cioè una decisione legata al potere di stabilire i valori rilevanti per la
società [authoritative allocation of values] (Teorell et al. 2007, p. 336).
Partendo da queste basi, gli autori riconducono la pratica della partecipazione politica a cinque
modalità distinte: il voto elettorale, le attività di partito, le campagne dei consumatori, le attività di
contatto diretto con i decisori politici e le iniziative di protesta. Rimane ai margini di questa
tipologia, peraltro, un ampio ventaglio di attività partecipative promosse nell’alveo della società
civile: associazioni, sindacati, movimenti sociali ecc. Si tratta di attività che possono assumere
rilevanza politica semplicemente perché orientate alla sfera pubblica, anche laddove non sfociano in
azioni di protesta mirata. Questo eterogeneo ambito partecipativo assume considerevole importanza
come canale per la partecipazione politica degli immigrati (Martiniello 2005; Però e Solomos
2010), tanto più - come vedremo - nel caso italiano.
Un’altra mappatura utile a delimitare il campo della partecipazione politica è quella di de
Rooij (2011 pp. 2-3), da cui trae spunto la tipologia della tab. 1. Le pratiche sociali assunte come
rilevanti vengono qui raggruppate, con qualche schematismo, secondo due criteri: in base al loro
legame con la politica istituzionale e ai costi/investimenti - «di tempo, di energie, di impegno
personale» - richiesti a coloro che se ne fanno carico.
Tab. 1 – Una tipologia delle forme di partecipazione politica (fonte: adattato da de Rooij 2011, p. 7)
Azioni convenzionali Azioni non convenzionali
Costo
modesto
- Voto alle elezioni.
- Utilizzo o esibizione di loghi, simboli,
bandiere ecc. di istanze/campagne politiche.
- Boicottaggio di certi marchi o prodotti.
- Adesione a petizioni.
Costo
rilevante
- Militanza in un partito politico o in un
movimento sociale.
- Contatto diretto con esponenti politici o di
governo locali o nazionali.
- Partecipazione a dimostrazioni o
manifestazioni pubbliche.
- Partecipazione attiva in altra
organizzazione o associazione.
Al di là degli indicatori prescelti per rilevare la partecipazione, un secondo concetto chiave è
senz’altro quello di struttura delle opportunità politiche (Political Opportunity Structure - POS).
Tale nozione, originariamente elaborata nella letteratura sui movimenti sociali, descrive «il grado di
apertura e di vulnerabilità di un sistema politico alle mobilitazioni sociali» (Camozzi 2008, p. 26).
Nel nostro caso, il concetto ci porta a concentrare l’attenzione sul grado relativo di «apertura» alla
partecipazione degli stranieri da parte delle istituzioni della società ricevente, su scala nazionale o
locale. L’assunto su cui esso si basa è che «le istituzioni politiche incoraggino certe forme di azione,
e certi attori, e ne scoraggino altre» (Hochschild e Mollenkopf 2009, p. 21).
Nel caso delle politiche locali per gli stranieri, il perimetro della struttura di opportunità -
peraltro assai variabile - comprende in sé le normative sul governo dei flussi e sull’integrazione
degli immigrati, ma anche le regole per l’accesso alla cittadinanza e alla partecipazione politica -
dal diritto di voto ai vari canali intermedi di rappresentanza e di consultazione -, sia in termini di
requisiti formali, sia sul piano della loro implementazione sostanziale.
Una riformulazione originale del concetto di struttura delle opportunità politiche, in vista
della sua analisi operativa, è stata proposta di recente (Cinalli et al. 2010, p. 400) nell’ambito di una
più ampia comparazione europea sulla partecipazione politica degli stranieri.3 Gli autori citati
disaggregano il concetto di struttura delle opportunità in due dimensioni distinte e complementari:
da un lato le opportunità istituzionali, ovvero il ventaglio di «dispositivi istituzionali e
politiche pubbliche» esistenti su scala nazionale e locale e ricondotti a tre indicatori chiave:
l’accessibilità della cittadinanza nazionale, il riconoscimento delle diversità culturali e le
specifiche opportunità fornite dalle politiche locali;4
dall’altro lato, le opportunità discorsive. Questa seconda dimensione, rilevata anzitutto
dall’accesso e dalla visibilità dei vari attori politici nei mass media, ha a che fare con «i
discorsi che prevalgono nello spazio pubblico, i quali determinano quali identità e istanze
collettive abbiano un’alta probabilità di guadagnare visibilità nei media, e di conquistare
piena legittimità nello spazio pubblico».
Tra gli altri risultati, lo studio di Cinalli et al. (2010) conferma che la propensione a partecipare
politicamente è associata positivamente con la partecipazione associativa, ma anche con il livello di
istruzione e con la conoscenza della lingua locale. In secondo luogo, gli autori sottolineano
3 Si tratta del progetto Localmultidem, acronimo che sta per Multicultural Democracy and Immigrants’ Social Capital
in Europe: Participation, Organizational Networks and Public Policies at the Local Level. Finanziato dalla
Commissione europea, Localmultidem si è tradotto in un’indagine campionaria sulle forme di partecipazione
politica degli stranieri in una decina di metropoli europee. Ulteriori informazioni sono reperibili sul sito
http://www.um.es/localmultidem. I principali risultati del progetto sono presentati in Morales e Giugni (2011). 4 Nello schema operativo alla base della loro analisi empirica, gli autori riconducono la struttura delle opportunità
istituzionali a tre sotto-dimensioni (Cinalli et al. 2010, p. 404):
1. L’accessibilità della «comunità nazionale dei cittadini» da parte degli stranieri (indicatori: «accesso a permessi di
breve durata, a permessi di lunga durata, al ricongiungimento familiare, alla cittadinanza, al mercato del lavoro, al
welfare, ai diritti antidiscriminatori e ai diritti politici»);
2. Le «disposizioni che promuovono la salvaguardia della loro cultura di origine» (indicatori: «richieste di assimilazione
alla cultura specifica della società di residenza, programmi linguistici che salvaguardano l’uso della lingua d’origine,
organizzazione dell’istruzione scolastica, organizzazione dei media, esistenza di «discriminazioni positive» nel
mercato del lavoro»);
3. La «specifica struttura di opportunità che caratterizza ciascuna città in materia di immigrazione» (indicatori: «grado
di sviluppo delle politiche di immigrazione a livello locale, meccanismi di rappresentanza politica, tipo di politiche
delle autorità locali rispetto alle organizzazioni di immigrati, tipo di politiche delle autorità locali rispetto alle
organizzazioni specializzate sui temi dell’immigrazione, forza dei partiti di estrema destra».
l’influenza positiva della struttura delle opportunità discorsive, come definita sopra. Vale anche la
pena notare che, tra le metropoli considerate nel progetto Localmultidem, Milano - l’unica italiana -
si distingue per uno scarto consistente tra popolazione autoctona e straniera nei livelli di
partecipazione associativa e, soprattutto, in quelli di partecipazione politica. Su una «ipotetica scala
di apertura e di chiusura delle opportunità politiche», rispetto alla partecipazione politica degli
stranieri, la città lombarda si collocherebbe nella parte bassa della graduatoria, tra i contesti urbani
più chiusi, appena sopra Budapest e Lione (con Stoccolma all’estremo opposto della massima
apertura).
Anche riformulato nei termini appena descritti, peraltro, il concetto di struttura delle
opportunità politiche rischia di prestare il fianco a una critica ormai ricorrente (Però e Solomos
2010): quella per cui esso veicola una lettura deterministica e unilaterale della partecipazione
politica, che non ne coglie l’evoluzione nel tempo, né le dimensioni processuali e relazionali legate
alla agency, individuale e collettiva, dei soggetti coinvolti. Almeno nella letteratura di impronta
sociologica, non a caso, la struttura delle opportunità politiche si combina con un concetto non
meno importante per comprendere la partecipazione locale degli immigrati (Penninx et al. 2004): la
mobilitazione, intesa come capacità di qualsiasi soggetto politico, individuale o collettivo, di
rivendicare pubblicamente - anche in raccordo con altri attori politici e sociali, e in modo più meno
efficace - le istanze e gli interessi di cui è portatore.
Nel caso degli immigrati stranieri, come esemplificano Penninx e colleghi, la mobilitazione
si può sviluppare attraverso svariati canali, per lo più esterni al perimetro della partecipazione
politica istituzionale:
Nella sfera giuridica e politica gli immigrati si possono mobilitare in vari modi, anche a seconda delle strutture di
opportunità: dando vita a gruppi di pressione, interni o esterni ai partiti politici, fondando «partiti degli
immigrati» o comitati di cittadini, o rivendicando l’istituzione di organismi consultivi. In ambito sociale ed
economico, gli immigrati si possono mobilitare attraverso iniziative mutualistiche, associazioni di interesse o
gruppi di pressione, al fine di ottenere o difendere dei diritti sociali, come avviene - ad esempio - per gli
imprenditori appartenenti a minoranze etniche. Nella sfera culturale la mobilitazione si realizza per il tramite di
organizzazioni religiose o culturali, o attraverso tentativi di istituire luoghi di culto, scuole di religione, o corsi di
lingua straniera. (Penninx et al. 2004, p. 8)
1.2 I contorni del caso italiano
Come si può posizionare, nel quadro concettuale appena delineato, la partecipazione politica degli
immigrati in Italia? Nello scenario internazionale, il caso italiano si è caratterizzato per uno
sviluppo abbastanza rapido e destrutturato del fenomeno migratorio, accompagnato da una debole
regia istituzionale e da una serie di tratti distintivi: da politiche di controllo sovente inefficaci, alla
diffusa inefficienza delle amministrazioni pubbliche nel governare i processi di insediamento;
dall’impostazione residuale delle politiche sociali per gli immigrati (oggetto di investimenti
decrescenti), alla mancanza di strategie di incorporazione di medio-lungo periodo (Zincone e
Caponio 2006; Ambrosini 2010). Emblematico di questo orientamento d’insieme è il regime
particolarmente restrittivo della cittadinanza per naturalizzazione (Zincone 2005).
Non stupisce, in un quadro di questo tipo, che le prospettive dell’integrazione politica degli
stranieri occupino tradizionalmente uno spazio marginale.5 Per un verso, come vedremo, si è
sviluppata su scala locale una variegata offerta istituzionale di canali partecipativi dedicati agli
immigrati e alle loro associazioni, di fatto riconducibili a forme di partecipazione civica e
simbolica, più che politica - vista la bassa capacità di mobilitazione di questi organismi, e la loro
natura prettamente consultiva. Per altro verso, nel dibattito pubblico sull’immigrazione, tipicamente
schiacciato su letture emergenziali, le sfide della partecipazione politica sono rimaste in secondo
piano - salvo essere oggetto di occasionali «picchi di attenzione» (ad esempio sul diritto di voto e
sulle modifiche della legge della cittadinanza), e di più frequenti invocazioni di segno restrittivo tra
gli attori politici e sociali dichiaratamente contrari all’immigrazione.
Più alla radice, l’assenza di canali di rappresentanza e di partecipazione politica formale
rende difficile applicare all’Italia le analisi comparative dell’integrazione politica degli stranieri e
delle minoranze etniche.6 Se ci dovessimo limitare alla partecipazione politica diretta, seguendo la
tipologia elaborata da Fennema e Tillie (2001) sul caso locale di Amsterdam (tab. 2), dovremmo
ricondurre gran parte della popolazione straniera in Italia al profilo degli «isolati»: una forma di
integrazione politica che combina marginalità dei leader immigrati (le «élite etniche») rispetto alla
struttura di potere della società ricevente, e bassa - in senso stretto, anzi, inesistente - partecipazione
politica della generalità della popolazione immigrata.
Tab. 2 – Partecipazione politica e integrazione nelle élite delle minoranze etniche: una tipologia dell’integrazione
politica dei gruppi etnici (fonte: Fennema e Tillie 2001, p. 29)
Partecipazione politica
di tutti i membri
della comunità etnica
Grado di integrazione dell’élite etnica
Alto Basso
Alta Integrati Mobilitati
Bassa Pacificati Isolati
5 Lo stesso si può dire, in generale, per gli studi sul tema. Vedi, comunque, le rassegne di letteratura curate da Caponio
(2006), Camozzi (2008), Tintori (2009). 6 D’altra parte, in virtù della storia relativamente giovane dell’immigrazione nel nostro paese, e della quota ancora
modesta di naturalizzazioni, le minoranze etniche - intese come gruppi di cittadini italiani provenienti dalla
medesima direttrice migratoria - non hanno per ora rappresentato un bacino elettorale distinto e politicamente
significativo, né un canale di rappresentanza politica per un gruppo nazionale o per l’altro. A questo riguardo, il
ruolo dei partiti politici, abbastanza studiato in paesi come Inghilterra e Francia (cfr. Garbaye 2004), è per ora del
tutto marginale nel contesto italiano.
Ad allargare invece il campo d’analisi alle forme di partecipazione politica indiretta, e una
volta disaggregata questa tipologia su scala locale (viste le forti variazioni della struttura di
opportunità partecipative e di integrazione sul territorio italiano), si può ipotizzare - pur in
mancanza di dati di ricerca sistematici - che il quadro della tab. 2 si farebbe più composito. Anche
in Italia, in questa prospettiva, emergerebbe una quota apprezzabile - sia pure minoritaria e
fluttuante - di immigrati «mobilitati». Va segnalato, ad esempio, il numero crescente di
dimostrazioni pubbliche e manifestazioni di protesta degli ultimi anni, appoggiate da sindacati e
movimenti sociali antirazzisti: dagli «scioperi degli immigrati» ai «coordinamenti delle seconde
generazioni». Più in generale è possibile avvertire, almeno in una parte della popolazione straniera,
una domanda di maggiore protagonismo pubblico che si esprime in uno spazio intermedio dai
confini in continuo movimento, a cui contribuiscono anche vari attori della società ricevente.
A partire da una struttura di opportunità per lo più sfavorevole e disincentivante, e dalla
penuria di ricerche empiriche originali, si tratta ora di delineare una risposta alle domande seguenti:
quali sono i canali, gli assetti istituzionali, i soggetti sociali tramite cui avviene una certa
mobilitazione della popolazione straniera, almeno entro i confini della partecipazione politica
indiretta? E quale il peso e la configurazione delle diverse strutture delle opportunità politiche che si
possono individuare, a seconda del contesto locale considerato?
2. Forme e strumenti di partecipazione degli immigrati nel contesto italiano
2.1 I canali attivati dalla società ricevente: enti locali, sindacati, terzo settore
Si è già detto in avvio del capitolo dell’importanza dell’ambito locale come terreno in cui le
politiche di integrazione, quale che sia il loro segno, trovano attuazione concreta, in forme
irriducibili a una mera trasposizione delle politiche e delle normative nazionali. Al di là del caso
italiano, del resto, la letteratura internazionale ha enfatizzato la relativa autonomia che si possono
ritagliare gli attori della politica locale nel disegnare e attuare le politiche agli stranieri (Penninx et
al. 2004; Caponio e Borkert 2010). Ed è su scala municipale che in alcuni paesi europei - a partire
dall’area scandinava e dall’Olanda - i residenti stranieri non comunitari si sono visti riconoscere il
diritto di voto (Groenendijk 2008; Bird et al. 2011), pur in un quadro di opportunità meno
favorevole, almeno per l’integrazione politica, rispetto a paesi di storica immigrazione come gli
Stati Uniti (Mollenkopf e Hoschschild 2010).
Nel caso italiano, in cui pure la prospettiva del voto amministrativo appare ancora lontana,7
la relativa autonomia del livello locale vale anche per l’integrazione politica degli stranieri. Da un
lato le episodiche iniziative di conferimento del diritto di voto ai non comunitari, da parte di alcuni
comuni, sono state sistematicamente annullate dal governo nazionale, o da pronunciamenti degli
organi della magistratura (Tintori, 2009). Dall’altro lato, a partire dagli anni novanta si è assistito
all’istituzione di specifici organismi elettivi locali, a valenza consultiva, per la partecipazione
politica degli immigrati: istanze assembleari e rappresentative riservate agli stranieri lungo-
soggiornanti, nel quadro definito dalle leggi nazionali, ma con assetti e gradi di efficacia diversi a
seconda delle specifiche amministrazioni regionali e municipali, anche in ragione dei rispettivi
colori politici. Consulte regionali e provinciali, consiglieri aggiunti e consigli territoriali sono
altrettanti meccanismi istituzionali, pur diversi per caratteristiche, mandato e criteri di
composizione, sperimentati – e spesso, nei fatti, abbandonati – in questa prospettiva (Caritas
Italiana 2005; Asgi e Fieri 2005).
Tab. 3 - Aspetti positivi e negativi degli strumenti di partecipazione politica locale degli immigrati in Italia: un
bilancio (fonte: elaborazione su Tintori 2009, p. 141).
Aspetti positivi Aspetti negativi
- Sono un’esperienza «pedagogica» per tutti i
soggetti coinvolti, in un’ottica preliminare al
diritto di voto.
- Trasmettono un messaggio pubblico inclusivo e
forniscono una alternativa soft al diritto di voto.
- Possono incoraggiare lo sviluppo, la
strutturazione e la crescita democratica delle
associazioni di immigrati.
- Sul lungo periodo danno luogo a una
«ghettizzazione» della rappresentanza politica
degli immigrati (in ogni caso difficile da
garantire).
- Si incentrano su istanze specifiche e non
rispecchiano la complessità del sistema politico e
decisionale della società autoctona, come può fare,
invece, la «normale» partecipazione elettorale.
- Hanno scarsa capacità di incidere sui processi
decisionali locali, generano sfiducia e frustrazione.
Senza negare che queste esperienze abbiano avuto anche risvolti positivi (tab. 3), esiste oggi un
consenso diffuso sul loro generale fallimento. Di fatto gran parte dei meccanismi di consultazione e
rappresentanza degli stranieri, via via messi a punto su base territoriale, ha mantenuto un profilo
sbiadito e scarsamente incisivo, o ha cessato di esistere tout court. Nell’insieme questi canali
partecipativi si sono tradotti in iniziative poco visibili, scarsamente partecipate, poco rilevanti - se
non in chiave simbolica - nell’arena decisionale delle politiche locali.
7 Senza entrare nel merito del tema, va segnalata l’importanza, almeno potenziale, dall’esercizio del diritto di voto
locale per i cittadini neocomunitari (compresi, dopo il 2004, i polacchi, e dal 2007 in poi romeni e bulgari). Benché
non vi siano ancora, a mia conoscenza, ricerche mirate su questo aspetto, nei fatti il nuovo diritto di voto non sembra
avere inciso - a oggi - sulla prevalente scollatura tra gli stranieri e il sistema politico formale della società italiana.
Al di là degli assetti istituzionali sperimentati, queste iniziative locali top down hanno messo
in luce dilemmi e problematiche che si ripresentano di frequente nel rapporto tra enti locali ed
associazioni di stranieri in Italia. Come conclude Caponio (2006):
Da un lato… si privilegia un sistema di rappresentanza per gruppi etnico-nazionali; dall’altro, però, non si
favorisce l’emergere di attori collettivi in grado di dare espressione e di articolare la richieste di questi gruppi,
ma ci si accontenta di fare affidamento su singoli che, una volta eletti, risultano incapaci di rapportarsi a una base
con cui non hanno alcun legame […] La partecipazione degli stranieri viene sollecitata in occasione delle
elezioni… ma… allo standing for, e cioè alla rappresentanza, non sembra corrispondere l’acting for, ovvero un
mandato in grado di dare contenuto alle azioni dei consiglieri eletti nelle consulte, con conseguente disincanto e
frustrazione sia da parte dei rappresentanti che dei rappresentati. […] Il problema principale
[dell’associazionismo immigrato in Italia] sta nell’assenza di attori organizzativi sufficientemente forti, e quindi
in grado di agire da anello di congiunzione tra immigrati e istituzioni di rappresentanza […]. Le politiche di
partecipazione dei comuni, dal canto loro, anziché contribuire a colmare questa frattura… [tendono a]
promuovere dall’alto una mobilitazione limitata alla fase puramente elettorale, che sembra avere la funzione di
selezionare «rappresentanti affidabili», più che rappresentativi. (Caponio 2006, pp. 21-23)
Va da sé che all’attuale ristagno dei processi di partecipazione politica degli stranieri, e delle sue
prospettive, hanno contribuito anche gli sviluppi della politica nazionale. Il sostanziale arretramento
delle politiche dell’integrazione negli ultimi anni - accanto all’«affossamento» dei progetti di legge
sul voto amministrativo e sulla cittadinanza del 2006-2007 - ha reso ancora più evidente il carattere
palliativo e l’inefficacia di questi canali istituzionali di partecipazione intermedia. È significativo
che gli studi al riguardo, abbastanza frequenti una decina d’anni or sono (anche per impulso della
Commissione per l’integrazione degli immigrati: Zincone [2000 e 2001]), si siano fatti più
episodici, mentre non è affatto calata l’attenzione verso il ruolo più ampio dell’associazionismo
straniero (Mantovan 2007; Caselli 2008; Camozzi 2008; Pilati 2010).
Per altro verso, un canale fondamentale per l’inclusione lavorativa degli stranieri in Italia,
ma anche per la loro partecipazione civica e - indirettamente - politica, è stato rappresentato dai
sindacati, specie per i profili lavorativi più vicini alla loro membership tradizionale. Si può anzi
sostenere che dal sindacato, più che dagli assetti istituzionali descritti sopra, sia venuto il principale
canale di partecipazione politica intermedia, e soprattutto di «mobilitazione politica» (Hochschild e
Mollenkopf 2009, p. 20), per gli stranieri in Italia. Non a caso, la partecipazione sindacale è stata
definita «la culla della partecipazione politica degli immigrati» (Martiniello 2005, p. 12; cfr. anche
Penninx 2011).
Da un lato, i sindacati italiani hanno svolto una funzione pionieristica nell’assistenza e nella
tutela legale dei lavoratori stranieri, ma anche nell’advocacy a loro favore, ben al di là della
«normale» contrattazione (Mottura 2010). Questa impostazione, dettata da un orientamento
strategico a prevenire frizioni con la forza lavoro autoctona, ma anche dalla possibilità di attingere
da un ampio bacino di nuovi associati,8 è coerente con la visione «politica» - orientata all’esercizio
dei diritti di cittadinanza, più che alla semplice tutela dei lavoratori - tipica del sindacalismo
italiano. Dall’altro lato, alla (relativa) visibilità assunta dai lavoratori stranieri nel confronto tra
sindacati e istituzioni pubbliche si è accompagnato un profilo assai più basso degli stessi lavoratori,
all’interno delle organizzazioni sindacali. Benché non vi siano molte ricerche empiriche (o anche
solo banche dati) sul tema, è opinione condivisa che gli immigrati abbiano un peso generalmente
modesto nelle fila dei funzionari e dei dirigenti. Una analoga marginalità si può riscontrare nelle
piattaforme programmatiche di contrattazione, nei contratti nazionali di settore, nei documenti
congressuali.
C’è poi un tipico dilemma, «di natura etica e strategica», sotteso all’operato dei sindacati
verso i lavoratori stranieri: quello tra «segmentazione e universalità», che nei fatti dà luogo a
mediazioni contestuali da cui è difficile trarre generalizzazioni. Come si legge anche nell’ultimo
rapporto dell’Ires sull’argomento:
Il lavoratore immigrato va rappresentato e tutelato alla pari del lavoratore italiano oppure è necessaria una
strategia di diversificazione in funzione dell’etnia e delle problematiche ad essa associate? In altri termini, è più
efficace una contrattazione rivolta allo specifico segmento dei lavoratori immigrati o quella
indifferenziata/collettiva, rivolta cioè all’insieme dei lavoratori occupati? (Bettella e Grendinetti 2010, p. 143)
Al di là del sotto-testo «culturalista», questa citazione esemplifica bene la tensione - comune, in
realtà, a tutti i servizi agli stranieri - tra una logica universalistica e una di riconoscimento di
istanze, bisogni e interessi specifici e differenziati (Marino 2007). A fronte della tradizionale ricerca
dell’omogeneità dei lavoratori che permea la cultura organizzativa del sindacalismo, gli immigrati
si presentano come un fattore importante - ma certo non unico - di frammentazione dei bisogni di
tutela e, potenzialmente, di rappresentanza. Le loro rivendicazioni, mirate al riconoscimento di
gruppi con logiche ed esigenze particolari, sollecitano l’istituzione di trattamenti differenziali che
altre categorie di iscritti potrebbero poi rivendicare a loro volta. Se quindi gli spazi partecipativi
interni al sindacalismo sono, per gli stranieri, potenzialmente assai rilevanti, questa stessa
partecipazione pone ai sindacati sfide di tipo organizzativo, gestionale e strategico dall’esito
tutt’altro che scontato.
8 Pur in assenza di dati ufficiali e comparabili fra tutte le confederazioni sindacali, Mottura (2010) ipotizza la presenza
complessiva, al loro interno, di quasi un milione di iscritti immigrati. Ne deriverebbe un tasso di sindacalizzazione
largamente superiore a quello della popolazione italiana. Come riconosce lo stesso autore, il dato si spiega anche alla
luce degli svariati servizi per gli immigrati di cui in Italia si fanno carico i sindacati, e più in generale il terzo settore
autoctono, ben più di quanto non avvenga altrove. Nei paesi di più antica immigrazione, in effetti, nell’erogazione di
servizi agli immigrati si riscontra un ruolo molto più attivo delle stesse associazioni di migranti.
Un cenno va fatto infine, tra i canali di partecipazione accessibili agli immigrati nella società
italiana, al terzo settore. Le organizzazioni di privato-sociale svolgono da sempre un ruolo
fondamentale negli interventi di prima accoglienza e, più in generale, nei processi di inclusione
locale degli immigrati (Ambrosini e Boccagni 2006). Alla produzione di servizi, inizialmente a
bassa soglia ma con il tempo anche più professionalizzati e selettivi (Ambrosini 2005), buona parte
del terzo settore ha affiancato un importante ruolo di tutela e rivendicazione dei diritti degli
stranieri. Reti associative come quelle delle Caritas hanno fatto da perno, insieme a vari altri attori
della società civile (ma anche con rappresentanti «illuminati» delle istituzioni), di una advocacy
coalition (Zincone 2005) composita, ma spesso efficace, che ha avuto un ruolo importante su
diversi fronti: nell’allargamento della sfera dei diritti fruibili per gli immigrati, anche irregolari (ad
esempio nell’accesso alla sanità); nella negoziazione di politiche di reclutamento più realistiche e
inclusive, sia pure con strumenti emergenziali come le sanatorie; più in generale, nella attenuazione
degli aspetti più restrittivi e discriminatori delle politiche agli immigrati dichiarate - e in minor
misura implementate - negli ultimi anni.
Una volta riconosciuto il peso di queste istituzioni facilitatrici sul piano dell’inclusione
sociale, resta da domandarsi quale ruolo abbia avuto il terzo settore sul versante, ampiamente
documentato in altri paesi, della partecipazione civica e politica degli immigrati (Moya 2005; de
Graauw 2008). Se l’ipotesi di un semplice crowding out tra associazionismo autoctono e straniero -
per cui il radicamento pervasivo del primo avrebbe di per sé precluso lo sviluppo del secondo
(Caponio 2005) - appare riduttiva, non si può negare che l’azione organizzata del terzo settore abbia
svolto un ruolo rivendicativo importante per gli immigrati, più che con gli immigrati. Si è trattato
fondamentalmente di un ruolo di advocacy esterna, o al più di un processo di cooptazione che
raramente ha conferito agli stranieri una significativa «rappresentanza» di se medesimi (Boccagni
2006). Emblematica, a questo riguardo, è la modesta visibilità degli immigrati nei ruoli di
leadership del terzo settore, più ancora che nel sindacato.
Nell’insieme, all’inesistenza di strumenti di partecipazione politica diretta, per gli stranieri
in Italia, si affiancano forme istituzionali di partecipazione politica intermedia poco incisive, ma
anche - all’interno della società civile - canali di partecipazione lavorativa, civica o associativa che
stentano a tradursi in vettori di protagonismo politico. Rimane da discutere il ruolo che ha assunto
sinora, sotto questo profilo, l’associazionismo degli stessi immigrati.
2.2 Il canale dell’associazionismo etnico: dalla letteratura internazionale al caso italiano
Per quanto riguarda il contributo delle associazioni degli immigrati alla loro partecipazione civica e
politica, possiamo partire dalle indicazioni fornite dalla letteratura internazionale. In linea generale,
osserva Moya (2005, p. 839) si può cogliere nella «disposizione a formare delle associazioni» un
elemento comune alla vita quotidiana degli immigrati nei contesti di insediamento più diversi, in
epoca moderna. Al di là dell’influenza delle culture e delle pratiche associative nei contesti di
origine, nonché in quelli di destinazione, «il processo migratorio tende di per sé a intensificare e
accentuare la formazione di identità collettive basate su costrutti di tipo etnico o nazionale»,
incentivando dinamiche aggregative più o meno strutturate e durature, anche per contrapposizione
con la società ricevente o con immigrati di origini diverse.
Al contempo, l’autore mette in guardia dal rischio di letture ideologiche e iper politicizzate
dell’associazionismo straniero. Da un lato, dati di ricerca alla mano, è difficile negare che gran parte
delle associazioni di immigrati - «per valore assoluto, ampiezza della base sociale, intensità della
partecipazione» - è di natura «non politica», nel senso che si basa su attività ricreative, di consumo
del tempo libero, di sociabilità, o comunque culturali (come quelle legate agli usi e alle tradizioni
della madrepatria, o a sfondo religioso). Dall’altro lato, negli studi sull’argomento sono ampiamente
sovra-rappresentati i contributi che si concentrano «sulla politica, sull’empowerment, sulla
mobilitazione sociale… o sugli immigrati come utenti, più che come semplici aderenti».9 Conclude
ironicamente Moya (2005, p. 857): «le priorità degli studiosi (e delle élite di immigrati più
politicizzate) non sembrano collimare con quelle della maggior parte degli immigrati, che
continuano a preferire la sociabilità e lo svago alla politica e alla mobilitazione».
Una volta riconosciuto il rischio di «campionare sulla variabile dipendente», o di proiettare
sulle associazioni di immigrati la visione politica di chi le studia, si potrebbe fare una contro-
obiezione: anche l’associazionismo ricreativo può veicolare la partecipazione civica, o quanto meno
la rivendicazione di una presenza pubblica - e quindi, in senso lato, politica - nella sfera pubblica
della società ricevente. In effetti, una delle principali chiavi di lettura del dibattito attuale guarda
alle organizzazioni spontanee di immigrati non soltanto in chiave mutualistica: come fonte di
identificazione, sostegno reciproco e sociabilità per i nuovi arrivati, nonché come ambito
privilegiato per la pratica del volontariato degli immigrati. Tali organizzazioni possono anche
rappresentare un canale di partecipazione, o comunque di negoziazione, verso la società ricevente
(Schrover e Vermeulen 2005).
In quest’ottica l’associazionismo, mono o multietnico, rappresenta di per sé una «palestra
partecipativa» per gli immigrati (Cinalli et al. 2010, p. 409), ossia una risorsa per la loro
9 Questo passaggio della citazione, peraltro, segnala un risvolto forse inevitabile ma problematico, messo in
luce anche da alcuni studi di caso di questo libro (come quello su Madrid): laddove l’associazionismo, per il
suo stesso «successo», diventa una forma di professionalizzazione per ristrette élite di immigrati, gli altri
diventano semplici, clienti, più che soci o partecipanti attivi.
socializzazione politica e democratica. In un noto studio di caso sulla città di Amsterdam, Fennema
e Tillie (2001) hanno anzi rilevato una spiccata correlazione - almeno a livello aggregato -, tra la
densità delle reti fiduciarie entro le associazioni di connazionali (la civic ethnic community), il
grado di fiducia degli immigrati verso la società ricevente (comprese le sue istituzioni politiche), e
la loro propensione alla partecipazione politica attiva (Jacobs e Tillie 2004). L’ipotesi, in parte
confermata da successive analisi di altri contesti locali (Jacobs e Tillie 2010), è che laddove le
associazioni di immigrati sanno coltivare relazioni fiduciarie in group, ciò getti le basi - in termini
di valori condivisi, e di apertura alla comunicazione con l’esterno - di atteggiamenti improntati alla
fiducia e alla cooperazione al di là dei confini del gruppo etnico di appartenenza.
Come è chiaro già da questi brevi cenni, le organizzazioni promosse dagli stranieri possono
svolgere molteplici funzioni, anche a seconda del contesto di immigrazione e delle strutture di
opportunità locali: dalla sociabilità al mutualismo tra connazionali, fino ad attività più complesse
che hanno a che fare con il claims making, la rappresentanza, la partecipazione attiva alla
costruzione delle politiche pubbliche. Nella mission di queste organizzazioni possono convivere, in
altre parole, attività «interne» - indirizzate alla propria base sociale, e/o alla generalità dei
connazionali -, e varie forme di intermediazione con le istituzioni locali e la società civile autoctona
(e perfino con le istituzioni e la società civile delle società di provenienza, come vedremo). È anche
da questo ventaglio di funzioni potenziali che dipende, forse, il sovraccarico di aspettative che si
tende a riporre nelle associazioni di immigrati - almeno tra chi si avvicina ex novo al tema, o lo
affronta in un’ottica «militante».
Nel caso dell’Italia è indicativo di per sé che non esistano, a oggi, studi o banche dati che
coprono lo sviluppo dell’associazionismo straniero sull’intero territorio nazionale.10 È opinione
condivisa tra i ricercatori, però, che gran parte delle associazioni di immigrati - nonostante il loro
numero crescente, e le potenzialità di ulteriore sviluppo - sia esposta ad una serie di criticità
ricorrenti: dalla volatilità e debolezza organizzativa, alla dipendenza da singole figure di leadership;
dalla difficoltà a fare rete sul territorio alla carenza di risorse, fino ai cronici problemi di
rappresentanza, e di rappresentatività, rispetto alle collettività di connazionali presenti sul territorio
(Kosic e Triandafyllidou 2005; Caponio 2006; Camozzi 2008). Altrettanto diffusa è l’opinione che
nei rapporti tra enti locali e associazioni di immigrati si crei una sorta di circolo vizioso (Caselli
2008): la fragilità organizzativa di queste associazioni diventa, agli occhi degli amministratori
locali, un legittimo motivo per escluderle dal novero degli interlocutori a cui affidare i servizi di
10
Tra gli studi condotti su scala locale va segnalata l’indagine promossa negli ultimi anni dal gruppo di lavoro ISMU-
ORIM, prima su Milano e poi sull’intera Lombardia. Per i principali risultati, cfr. Caselli (2011). Per una
ricostruzione del percorso evolutivo dell’associazionismo «di e per i migranti in Italia», anche luce delle normative
di settore e dei rapporti con le istituzioni pubbliche, vedi Camozzi (2008).
interesse collettivo. A sua volta, però, questa opzione impedisce alle associazioni di crescere e di
guadagnare esperienza e affidabilità. Per altro verso, si danno casi di associazioni promosse dalle
stesse istituzioni locali, per disporre di interlocutori «rappresentativi» delle istanze o delle
aspettative degli stranieri residenti. Il loro radicamento tra questi ultimi, al di là dei promotori, è
però tutt’altro che scontato.
Tra le poche indagini italiane che hanno esplorato l’associazionismo immigrato come
possibile volano di partecipazione politica, in termini non meramente descrittivi, si segnala il
recente contributo di Pilati (2010). A partire dal focus sul rapporto tra risorse istituzionali e
mobilitazione politica proprio del progetto Localmultidem, l’autrice individua nelle associazioni di
immigrati dei «luoghi privilegiati per la mediazione di identità collettive, di sentimenti di
appartenenza comune e di frames culturali che orientano le azioni e definiscono gli interessi degli
attori a partecipare» (ivi, p. 25). In questa prospettiva analizza le forme di partecipazione socio-
politica attivate dalle associazioni di immigrati filippini, egiziani ed ecuadoriani nel contesto locale
di Milano.11
A conferma di quanto già osservato, Pilati evidenzia come la struttura restrittiva delle
opportunità politiche penalizzi fortemente la mobilitazione degli stranieri, in virtù dell’impostazione
del regime di cittadinanza (di fatto ancora ispirato a una concezione «etnica»), ma anche delle
politiche nazionali e locali. A fronte della radicata presenza di organizzazioni autoctone («le più
importanti strutture intermedie di mobilitazione degli attori immigrati») come fornitrici di servizi e
come fonti di advocacy (se non di claims making), inoltre, l’associazionismo straniero ha
generalmente peso residuale e valenza simbolica o dimostrativa.
L’indagine campionaria dell’autrice rileva, nelle tre collettività di stranieri considerate,
livelli di partecipazione sensibilmente inferiore a quelli medi della popolazione autoctona. Come
prevedibile, però, «gli immigrati coinvolti in organizzazioni hanno maggiori probabilità di
partecipare alla sfera politica rispetto agli immigrati non organizzati» (ivi, p. 27). L’aspetto più
interessante sta tuttavia, ancora una volta, nella scarsa autonomia dell’associazionismo straniero
11 Nella cornice del progetto citato Pilati rileva la partecipazione politica, a livello individuale, assumendo
indicatori come i contatti degli stranieri con attori e istituzioni politiche locali, o la loro partecipazione ad
attività di protesta (ad esempio manifestazioni o petizioni); a livello collettivo, relativamente alle
associazioni di stranieri, rileva invece gli eventuali contatti che esse hanno con istituzioni pubbliche e
politiche locali o nazionali. Nel ricostruire le motivazioni sottese alla partecipazione politica, individuale o
organizzata, anche questa autrice - come, in una diversa prospettiva, Camozzi (2008) - mette l’accento sul
riconoscimento come posta in gioco rilevante di per sé. Al di là delle loro ricadute sulla struttura delle
opportunità politiche (peraltro modeste), le iniziative studiate veicolano una domanda di «riconoscimento
esterno e pubblico dell’identità… questa partecipazione implica un conflitto simbolico sulla classificazione e
sulle modalità attraverso le quali gli attori sono descritti e categorizzati» (Pilati 2010, p. 21).
rispetto a quello autoctono: le forme di partecipazione rilevate tra i soggetti intervistati sono per lo
più mediate, in termini di legami e di risorse, dall’appartenenza a organizzazioni della società civile
italiana (anzitutto i sindacati).
Nell’insieme, l’indicazione che si ricava dal caso italiano è che ha poco senso discutere delle
potenzialità virtuose delle associazioni volontarie per l’integrazione (politica e non soltanto) degli
immigrati, se non si allarga lo sguardo alle circostanze politiche, sociali e istituzionali alla base del
loro sviluppo. A fronte di una struttura delle opportunità particolarmente restrittiva, come quella che
modella la partecipazione politica degli stranieri in Italia, è forse ingenuo attendersi dalle
associazioni la capacità di fornire di per sé nuovi strumenti di rappresentanza e di partecipazione
democratica. Senza negare l’importanza del ruolo svolto dalle associazioni etniche, su vari livelli, è
nel quadro più ampio delle politiche, e delle iniziative della società civile, che vanno analizzate le
prospettive della partecipazione politica degli stranieri in Italia. Al tempo stesso, le varie forme di
partecipazione civica dal basso - mediate dagli enti locali e dalle varie espressioni della società
civile, associazioni di stranieri comprese - meritano senz’altro di essere ulteriormente potenziate e
valorizzate: sia come canale di tutela dei loro diritti e interessi, sia come strumento per coltivare la
loro cittadinanza attiva e maturazione politica.
3. Una prospettiva emergente: la partecipazione verso la madrepatria
3.1 Dalle politiche della «diaspora» alla partecipazione politica transnazionale
C’è ancora un aspetto, almeno potenziale, della partecipazione politica degli immigrati - e delle loro
prospettive di cittadinanza - che merita di essere approfondito: l’insieme delle opportunità, dei
diritti e dei doveri insiti nei loro legami con i paesi e le comunità locali di provenienza, anche nella
sfera civica e politica. Nozioni come transnazionalismo politico (Itzigsohn 2000; Martiniello e
Lafleur 2008) e cittadinanza esterna (Bauböck 2003 e 2007) sono le più diffuse in letteratura per
descrivere questo ventaglio di forme di partecipazione politica extra territoriale.
Schematizzando, e senza negare l’importanza della struttura d’opportunità della società
ricevente, è possibile anche qui adottare due chiavi di lettura complementari: una che parte dal ruolo
delle istituzioni politiche e sociali dei Paesi d’origine, e una che si focalizza sulla agency
individuale e collettiva - in altre parole, sulla mobilitazione - degli stessi migranti.
Da una parte va rilevata la crescente attenzione dimostrata dai governi dei paesi di
emigrazione verso i connazionali all’estero, attraverso meccanismi istituzionali, disposizioni
normative e rappresentazioni discorsive che tendono a includerli nella collettività nazionale, a
coltivarne l’identificazione patriottica e a facilitare le loro interazioni a distanza con la madrepatria
(Barry 2006). L’importanza delle rimesse degli emigrati, ma anche l’aspettativa di attingere al loro
capitale umano e magari di farne attori al servizio di una data agenda di governo, sono i principali
fattori alla base di questo frame innovativo, e singolarmente diffuso (Chander 2006), dei cittadini
espatriati: da «traditori» della patria a «eroi» che si sacrificano per il suo sviluppo. Misure come il
sostegno all’associazionismo dei connazionali all’estero e alle forme di rappresentanza della
«diaspora», così come il riconoscimento del diritto di voto o le campagne all’estero dei partiti della
madrepatria, possono aprire nuovi spazi di partecipazione politica, almeno per una parte auto
selezionata della popolazione straniera (Gamlen 2008).12
Dall’altra parte vanno evidenziate, almeno nei paesi di destinazione democratici, le
possibilità che i migranti hanno di mobilitarsi non soltanto per issues locali, ma anche per questioni
transnazionali: iniziative di tipo politico in senso ampio - dall’attivismo politico o partitico ad azioni
a sfondo sociale, caritativo, religioso -, finalizzate a contribuire allo sviluppo della comunità locale
o nazionale di provenienza, oltre che a dimostrare il loro attaccamento. Mobilitazioni di questo tipo,
a carattere transfrontaliero e orientate a temi di rilievo per la madrepatria, non rappresentano una
novità in assoluto; su piccola scala sono da tempo presenti anche nel caso italiano, specie per
iniziativa di rifugiati politici, dissidenti, attivisti politici. Anche laddove vanno contro lo status quo
del paese d’origine, però, tali iniziative possono oggi contare su una struttura d’opportunità assai
più aperta e favorevole che in passato (Østergaard-Nielsen 2003).
Esemplare da entrambe le prospettive, come forma di partecipazione politica transnazionale
emergente, è l’esercizio del diritto di voto all’estero. La concessione del diritto di voto politico agli
espatriati si è fatta sempre più diffusa nel corso degli ultimi anni: si stima che esso sia attualmente
riconosciuto, in una qualche forma, da ben 115 paesi (Collyer e Vathi 2007). Rientra tra questi,
come è noto, anche l’Italia, le cui elezioni del 2006 sono state un caso da manuale degli effetti
inattesi che il voto degli emigrati può sortire, e perfino del suo peso discriminante, in contesti
politici fortemente polarizzati. A quanto suggerisce la letteratura, tuttavia, il numero di emigranti
che votano dall’estero è generalmente modesto, per molteplici vincoli e ragioni (Bauböck 2007).
L’opportunità di votare anche da lontano, per un sistema politico a cui non si è direttamente
sottoposti, genera reazioni ambivalenti tra gli espatriati e il più delle volte non incide in modo
significativo sui risultati elettorali. Si potrebbe forse obiettare che, almeno nei contesti d’origine di
più recente emigrazione e segnati da forti turbolenze politiche, è vero il contrario: il voto degli
emigrati può anche assumere un peso sostanziale (così ad esempio, negli ultimi anni, in Moldavia,
12 È bene ricordare che, a quanto mostrano gli studi quantitativi sul tema (poco numerosi e svolti per lo più negli Stati
Uniti), la pratica del transnazionalismo politico stricto sensu è un fenomeno relativamente raro, che investe soprattutto
élite che non riflettono necessariamente, per capitale umano, sociale e culturale, le caratteristiche della generalità dei
connazionali (Guarnizo et al. 2003; Waldinger 2011).
Romania, Perù). In linea generale, però, il voto dall’estero si carica soprattutto di valenze
simboliche, benché non prive di conseguenze importanti. Alcuni studi mostrano come l’interesse di
questo fenomeno risieda anche nelle sue ricadute extra elettorali: come terreno di identificazione e
di rievocazione patriottica per gli emigrati, ma anche come tassello delle politiche di «costruzione
della diaspora» e canale di allargamento del consenso politico, da parte dei paesi di emigrazione
(Boccagni 2008 e 2011).
3.2 Un allargamento di campo: associazionismo e co-sviluppo
A completamento di quanto già osservato, anche alla luce del nuovo dibattito sul «nesso» tra
migrazioni e sviluppo,13 vale la pena fare qualche considerazione su uno spazio di partecipazione -
transnazionale, ma anche locale - che sta emergendo anche in Italia: quello del co-sviluppo, ovvero
delle iniziative di cooperazione decentrata che incentivano (e talvolta richiedono) il contributo di
associazioni di migranti a progetti di sviluppo per le comunità di provenienza.
La partecipazione degli immigrati, in questa prospettiva, si ispira alle associazioni di
connazionali che nei paesi di antica immigrazione sono co-protagoniste - spesso in partenariato con
le autorità pubbliche - di azioni di sviluppo locale delle proprie comunità d’origine: dal
potenziamento delle infrastrutture al miglioramento degli spazi urbani, dall’assistenza sanitaria a
quella scolastica, dalla promozione della piccola imprenditorialità al microcredito. Tali iniziative
sono state oggetto di molta letteratura, ad esempio, nella versione delle hometown associations
promosse negli Stati Uniti, soprattutto da immigrati di provenienza latinoamericana. Senza entrare
nel dibattito sul tema (cfr., tra gli altri, Orozco 2003; Waldinger et al. 2008), va segnalato un dato su
cui c’è consenso diffuso: nella base sociale di queste associazioni è ampiamente sovra-rappresentata
la quota di immigrati «lungo-soggiornanti, meglio insediati, più istruiti» (Portes 2010, p. 10).
Per quanto riguarda le azioni di co-sviluppo sperimentate in Italia negli ultimi anni, in un
mosaico di esperienze locali senza alcuna regia istituzionale d’insieme, Stocchiero (2009) propone
un bilancio da cui risaltano alcuni aspetti:14
in primo luogo, la prevalenza di iniziative mosse unilateralmente dall’auspicio di una
riduzione dei flussi, più che dalla visione (o quanto meno dalla retorica), tipica delle
13
Sullo stato dell’arte di questo articolato dibattito, cfr. de Haas (2010) e Portes (2010). Un importante convegno sul
tema - The migration-development nexus revisited - ha recentemente avuto luogo presso l’Università di Trento
(giugno 2011). I materiali di discussione del convegno sono accessibili sul sito www.tcic.eu. 14
L’autore riconduce le esperienze di co-sviluppo promosse in Italia a sei ambiti operativi: «1. Sviluppo comunitario e
intercultura; 2. Circuiti economici transnazionali e ritorno imprenditoriale; 3. Gestione dei flussi per motivi di
lavoro, circolarità e ritorni; 4. Welfare transnazionale; 5. Iniziative umanitarie, di assistenza al ritorno e alla
reintegrazione per categorie svantaggiate; 6. Rimesse individuali e collettive» (Stocchiero 2009, p. 8).
istituzioni internazionali, del triple win - l’obiettivo di produrre simultaneamente benefici
per le società d’origine, di destinazione e per i migranti;
in secondo luogo la rilevanza e la relativa accessibilità del livello locale della cooperazione
decentrata (specie nel centro-nord Italia) per il coinvolgimento delle associazioni di
migranti, e in alcuni casi per il diretto finanziamento delle loro iniziative;
in terzo luogo la sovraesposizione tra i «paesi target» del bacino migratorio dell’Africa
subsahariana (non è chiaro in che misura per orientamento strategico degli enti
sovvenzionatori, o per l’«offerta» relativamente ampia delle associazioni di immigrati);
da ultimo, l’opportunità di professionalizzazione che queste iniziative offrono ad almeno
alcune associazioni di stranieri. Nonostante le tensioni e le dinamiche competitive con gli
altri attori in gioco, le associazioni coinvolte in azioni di co-sviluppo possono potenziare le
proprie competenze organizzative, qualificarsi nella rete dei servizi locali e mettersi alla
prova in ruoli potenzialmente innovativi: dalla mediazione con gli enti locali nei paesi
d’origine, alla facilitazione dei rapporti con le comunità locali nei processi di sviluppo
avviati dalle agenzie italiane di cooperazione. In buona sostanza, il co-sviluppo potrebbe
offrire almeno a una piccola parte degli immigrati qualificati una finestra di opportunità
diversa da opzioni «classiche» come la mediazione interculturale o altri servizi agli stranieri.
Sul piano della ricerca empirica, nel caso italiano prevalgono lavori di taglio reportistico, a supporto
delle iniziative promosse da organizzazioni internazionali, ma anche da enti locali e soggetti privati
(fondazioni bancarie, ong, associazioni ecc.).15 Accanto a questi si segnala, però, un numero
crescente di studi di caso originali. A titolo di esempio Mezzetti (2011) evidenzia, tra i risultati più
tangibili (anche se forse non i più attesi) di due iniziative di co-sviluppo orientate al Senegal e al
Ghana, il riconoscimento e l’accesso alla sfera pubblica della società ricevente, per i migranti che
ne erano protagonisti (cfr. anche, sul caso spagnolo, Østergaard-Nielsen 2011). Altri studi di campo
(come Boccagni 2010) mostrano che la mobilitazione delle associazioni di migranti per il co-
sviluppo fa leva su un capitale relazionale e fiduciario prezioso, ma per sua natura particolaristico e
vulnerabile. Tra l’altro, la capacità di queste micro-iniziative di agire con efficacia nelle comunità
d’origine appare strettamente legata alla coesione, al grado di strutturazione e di «civismo
comunitario» (Fennema e Tillie 2001) delle associazioni in Italia (e indirettamente, alla
stabilizzazione sociale e lavorativa dei loro soci). Nell’ormai consumato dibattito sul nesso
15
Una vasta documentazione di questo tipo di ricerche policy-oriented è disponibile sul sito del CeSPI (www.cespi.it).
Meritano di essere citati, in particolare, Mezzetti e Ferro (2008) sulle politiche municipali per il co-sviluppo,
Stocchiero (2008) sul programma MIDA in Senegal e Ghana, e Piperno e Boccagni (2010) per le linee di prospettiva
e le criticità di una analoga strategia di intervento in Ecuador e Perù.
integrazione-transnazionalismo, la prospettiva di una «somma positiva» tra i due processi andrebbe
rivisitata alla luce di una semplice considerazione: se un buon grado di inclusione nella società
d’arrivo è necessario per attivare forme di partecipazione civica transnazionale, è irrealistico
attendersi che il contributo degli immigrati al co-sviluppo cresca e si consolidi spontaneamente,
laddove il loro stato di inclusione locale non è soddisfacente.
Discutere di immigrazione e co-sviluppo, nel caso italiano, significa pur sempre partire da
processi episodici, sovente eterodiretti e tutti da verificare sul piano della sostenibilità, tanto più alla
luce della scarsissima disponibilità di risorse pubbliche. Il profilo ancora embrionale e
frammentario del co-sviluppo in Italia, per quanto riguarda la partecipazione attiva degli immigrati,
ha fatto parlare di «una speranza in cerca di conferma» (Ambrosini 2011). Peraltro, la conferma -
ovvero il passaggio da casi pilota e isolati a esperienze diffuse, replicabili e trasferibili a regime -
richiederebbe condizioni di contesto ben diverse dalle attuali: sul piano delle strutture di opportunità
locali, del capacity building dell’associazionismo immigrato, ma anche - al di là del protagonismo
degli enti locali - dell’investimento delle politiche nazionali, a oggi del tutto assente. Una volta
ricondotto questo fenomeno alle sue reali dimensioni, evitando letture celebrative o enfatiche dei
migranti come nuovi «attori dello sviluppo», non si può negare che le azioni di co-sviluppo possano
avere ricadute apprezzabili anche per il rafforzamento del gracile associazionismo degli immigrati.
Possono infatti agire come canale di valorizzazione professionale, oltre che di riconoscimento
politico e sociale, almeno per una élite degli immigrati stessi.
4. Conclusioni
A ripercorrere le forme di partecipazione politica per gli e degli immigrati emerse in Italia, in un
mosaico di micro-iniziative locali refrattarie a una comprensione di sintesi, è facile scivolare in
rappresentazioni unilaterali e semplicistiche. Dati come il deficit di protagonismo organizzativo
delle associazioni, o il frequente fallimento delle consulte locali per l’immigrazione, prestano il
fianco a letture scettiche: dalla presunta apatia politica degli immigrati, alla partecipazione politica
come un lusso che essi non si potrebbero permettere, e quindi come un tema prematuro. Al tempo
stesso, nel riconoscere il notevole contributo della società civile e dei sindacati all’inclusione
sociale degli immigrati, si può rischiare di mettere in sordina le ricadute negative di questa
«divisione del lavoro», come la marginalità delle leadership immigrate e la scarsa autonomia delle
forme di auto organizzazione su base «etnica».
Il ruolo critico svolto in Italia da una advocacy coalition fondamentalmente autoctona non
elimina il problema strutturale della rappresentanza delle istanze collettive degli stranieri (a loro
volta difficili da mettere a fuoco, e poi da esprimere in assetti organizzativi condivisi). Un
potenziamento delle reti e delle alleanze interne alla società civile, con una maggiore apertura alle
associazioni etniche (nel segno della sussidiarietà più che della cooptazione), è nondimeno cruciale
per lo sviluppo della partecipazione dal basso della popolazione straniera. Come si è visto, le
organizzazioni della società civile e i sindacati possono sia fare spazio a singoli esponenti, sia
promuovere l'associazionismo degli immigrati. Reti tra terzo settore italiano, associazionismo e
governi locali possono dare voce e visibilità all'immigrazione e agli immigrati.
In ogni caso, il «ritardo» della partecipazione politica degli stranieri in Italia non autorizza
affatto a derubricare il tema come poco rilevante. Al contrario: nonostante la valenza poco più che
simbolica dei canali di partecipazione formale attivati sino a oggi su scala locale, l’evanescenza di
molte associazioni di immigrati, e l’impostazione restrittiva dei diritti politici e di cittadinanza, la
partecipazione politica rimane una questione strategica per il futuro dell’immigrazione in Italia.
Alla luce della dimensione strutturale e intergenerazionale delle presenze straniere nel nostro paese,
e vista l’esperienza dei paesi di immigrazione più «antica», rilanciare il dibattito sulla
partecipazione politica degli stranieri - ovvero sui canali e gli strumenti adatti a renderla effettiva -
risponde non soltanto a un’istanza di equità, ma anche all’esigenza di una migliore gestione dei
fenomeni migratori.
Anche nel caso italiano, inoltre, vale la pena guardare alla partecipazione politica degli
immigrati alla luce delle interazioni fra tre livelli di riferimento, a cui corrispondono strutture di
opportunità distinte (da intendere come insiemi di condizioni esterne in parte negoziabili, e
comunque mutevoli nel tempo).
Come mostrano anche gli studi di caso di questo volume, va anzitutto considerato l’ambito
locale, in cui si dispiegano gli spazi partecipativi più vicini alla vita quotidiana degli immigrati:
dalle aggregazioni informali tra connazionali all’associazionismo più o meno formalizzato, dai
canali legati al mercato del lavoro (come la partecipazione sindacale) fino agli eventuali organismi
consultivi per i cittadini stranieri. Al tempo stesso, è su scala locale che le politiche di welfare per
gli immigrati in Italia trovano attuazione, spesso con un taglio restrittivo se non discriminatorio, ma
con un’attenzione alla dimensione pratica dei problemi da risolvere, e un’esposizione alle pressioni
degli attori locali (compresi i gruppi di advocacy pro immigrati), che le rendono irriducibili a mera
trasposizione delle disposizioni, e delle retoriche, definite su scala nazionale.
Se l’importanza dell’arena locale va senz’altro riconosciuta, non si può negare che la
regolazione politica nazionale continui a essere determinante nel fissare le «regole del gioco» della
partecipazione politica (ovvero i limiti del campo entro cui essa è effettivamente praticabile, almeno
nelle sue forme convenzionali). Ne emerge, nel contesto italiano, una struttura di opportunità
oggettivamente penalizzante (per le politiche nazionali di segno restrittivo e di scarsa efficacia, ma
anche per gli investimenti residuali nell’integrazione che le accompagnano).
Da ultimo, va considerato anche il livello transnazionale come possibile ambito di
allargamento della partecipazione, benché non sostitutivo rispetto agli altri. Questa potenziale
finestra di opportunità, legata ai canali dell’associazionismo, del voto all’estero o del co-sviluppo,
assume portata variabile a seconda del caso nazionale (e locale) considerato, ma anche degli
interessi e delle aspettative di vita futura degli immigrati in Italia.
Come si è visto, i vari strumenti di partecipazione indiretta emersi nella società ricevente -
per iniziativa delle istituzioni pubbliche e della società civile - possono assumere, nella pratica,
gradi diversi di efficacia. Tuttavia, anche nei casi (poco comuni) in cui alimentano forme di
partecipazione diffusa e facilitano il protagonismo politico dei cittadini stranieri, essi non
fuoriescono dallo schema di un’integrazione differenziale e subordinata, anche in campo politico.
Se è vero che la partecipazione politica è irriducibile alla sola dimensione elettorale, l’accesso al
diritto di voto e alla cittadinanza rimangono i canali fondamentali per l’esercizio di una
partecipazione sostanziale, e non simbolica, da parte degli immigrati. Nel caso italiano, la
persistente mancanza del diritto di voto e il rigido ius sanguinis del regime della cittadinanza
precludono questi canali di partecipazione, oltre a veicolare un messaggio di segno negativo, che
scoraggia l’interesse a partecipare alla vita pubblica e politica della società ricevente. Ne deriva una
forma di esclusione, e di fatto di discriminazione, che trova sempre meno senso e legittimazione
nella cornice di un ordinamento democratico, ma anche nel quadro normativo dell’integrazione
come obiettivo per gli immigrati e per la società ricevente nella sua interezza, al di là delle
appartenenze politiche.
Se «la partecipazione dei cittadini sta al cuore della democrazia», come scrivono Verba et al.
(1995, p. 1) nel contesto americano, la presenza di una quota crescente di non-cittadini, che come
tali non possono partecipare a pari condizioni, segnala un limite importante per l’esercizio e il
raggio d’azione della stessa democrazia. Ciò detto, a fronte dei vincoli attuali alla partecipazione
«dall’alto», esistono ancora spazi importanti e poco sfruttati per la partecipazione dal basso, dentro
la società civile in senso lato: dal terzo settore «tradizionale» al sindacato, passando per le
associazioni di immigrati e i movimenti sociali emergenti. Non va poi dimenticato - al di là
dell’importanza del lavoro di rete fra questi soggetti - che molte iniziative solidali e di advocacy di
matrice autoctona stanno di fatto evolvendo in senso interculturale: per le esperienze e le
competenze maturate, ma anche per l’apertura agli stranieri della loro base sociale e,
auspicabilmente, dei loro organi di governo e delle loro leadership. È anzitutto in questa direzione
che occorre investire di più, nel breve-medio periodo, per facilitare e qualificare la partecipazione
politica degli stranieri in Italia.
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