i quaderni piacentini. letteratura e ideologia nel dibattito culturale degli anni sessanta e...
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Indice
Introduzione pag.3 Capitolo 1 I “Quaderni Piacentini” 1.1Storia e programma della rivista pag.5 1.2La redazione pag.10 Capitolo 2 Rubriche e inserti di carattere letterario 2.1“Libri da leggere e da non leggere” pag.12 2.2“Libri” pag.14 2.3 Poesia pag.19
Capitolo 3 I dibattiti letterari
3.1 Don Lorenzo Milani: Lettera ad una professoressa ed altri scritti pag.21
3.2La Storia di Elsa Morante pag.28
3.3 Dibattito sulla neoavanguardia italiana pag.37
Conclusioni pag.41
Bibliografia pag.44
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Introduzione
Questo studio nasce dalla volontà di approfondire il ruolo avuto da giornali e riviste
in alcuni dei i principali dibattiti culturali che hanno interessato la letteratura italiana
durante gli anni ’60. In seguito a una vasta ricerca e allo spoglio di periodici
dell’epoca ho deciso di focalizzare l’attenzione sui “Quaderni piacentini”, un foglio
politico che ha suscitato la mia curiosità, inizialmente, per i natali comuni e,
successivamente ad un’attenta lettura, perché, pur non nascendo come una rivista
letteraria, dedica ampio spazio alla letteratura fornendo un’efficace immagine della
vivacità culturale di quegli anni.
Il mio lavoro costituisce, dunque, un’analisi dei contenuti letterari presenti nella
rivista e si propone di indagare se essi costituiscano una parte strutturale dei diversi
numeri o se ricoprano invece una funzione di contorno ad altri argomenti. Tale
indagine vuole dare risposta a due domande che sono necessariamente sorte
durante la lettura della rivista e quindi delle sezioni letterarie: “Qual è il ruolo che la
letteratura ricopre all’interno dei “Quaderni piacentini”?” e “I contenuti letterari
hanno natura autoreferenziale nella rivista o dipendono da posizioni ideologiche?”.
I “Quaderni piacentini” si compongono di due serie; tuttavia, in seguito a uno
spoglio preliminare, ho deciso di prendere in considerazione solo la prima e più
specificamente tutti i numeri fino all’anno 1968. Questa scelta è stata dettata dalla
necessità di dovere ridurre il materiale da analizzare e soprattutto dalla presenza,
in questi numeri, di contenuti di argomento letterario più interessanti. Data la
scarsità di bibliografia specifica questo studio è costituito anzitutto dall’analisi
diretta della rivista. Inoltre, nel corso del lavoro mi sono potuta avvalere della
preziosa collaborazione di Piergiorgio Bellocchio, fondatore della rivista, che,
concedendomi un’intervista, ha fornito un contributo fondamentale allo sviluppo di
questa ricerca.
L’elaborato che presento si costituisce di tre parti. Nella prima ho effettuato una
ricostruzione storica dei “Quaderni”, studiando le diverse fasi attraversate, la
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composizione della redazione, le intenzioni dei redattori e la linea politica seguita.
La mia ricerca prosegue quindi nell’analisi delle sezioni letterarie presenti nei
“Quaderni piacentini”: per ricostruire la linea seguita dalla rivista in materia
letteraria, in questa seconda parte, ho eseguito uno spoglio sistematico di rubriche
ed interventi, rilevando possibili tracciati comuni. L’ultimo capitolo ha per oggetto
alcuni grandi dibattiti su temi letterari, Lettera ad una Professoressa di Don Milani,
La Storia di Elsa Morante e la Neoavanguardia italiana, a lungo discussi sulle pagine
dei “Quaderni”. La riflessione su La Storia di Elsa Morante rappresenta un’eccezione
rispetto all’idea originaria di prendere i esame i numeri fino al 1968. Tuttavia ho
ritenuto opportuno porvi l’attenzione perché caso particolarmente interessante ai
fini dell’indagine proposta. Quest’ultimo capitolo approfondisce quanto si dirà
riguardo all’orientamento ideologico in materia letteraria della rivista e, delineando
le varie posizioni ospitate sulla rivista, definisce con maggiore chiarezza quale sia il
ruolo che i “Quaderni Piacentini” affidano alla letteratura.
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I “Quaderni piacentini”
Storia e programma della rivista
I “Quaderni piacentini” sono una rivista politico-culturale, non legata a partiti,
correnti o gruppi, che per circa vent’anni fu il luogo naturale d’incontro e di dibattito
della nuova sinistra. La rivista venne fondata da due giovani intellettuali di Piacenza,
Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, a cui si aggiunse successivamente Goffredo
Fofi, nel 1962 mentre in Italia erano in corso grandi mutamenti nell’economia e
nella società. Sul suo indirizzo politico iniziale influirono le idee che in quel periodo
si andavano dibattendo in piccoli gruppi marxisti di tendenza operaista: i “Quaderni
rossi” di Raniero Panzieri, “Classe operaia” di Mario Tronti e Alberto Asor Rosa. I
primi due fascicoli, ciclostilati, uscirono nel Marzo e nell’Aprile 1962: avevano
rispettivamente 16 e 36 pagine dattiloscritte, tiravano circa 250 copie e costavano
100 lire. Il numero 1 si presentava “a cura dei giovani della sinistra” e nel numero 1
bis Bellocchio compariva come direttore. Nasceva dunque come una rivista
necessariamente povera, autonoma e autogestita. Insieme a piccole vicende di
cronaca locale apparivano interventi di politica globale e di carattere letterario.
Tuttavia la novità era data dal tono anticonformista dei commenti sociali e di
costume (nella rubrica “Il franco tiratore”) e dalle recensioni e segnalazioni di libri
nella rubrica “Libri da leggere e da non leggere”, mantenuta fino al numero 36. Nei
primi tre anni, benché la diffusione fosse fatta in prima persona dai redattori e da
pochi amici, la rivista registrò una crescita costante: crebbe il numero di pagine, la
tiratura e le vendite aumentarono progressivamente da 1.000 a 2.500 copie. Le città
in cui la rivista era più venduta erano Milano, Torino, Roma e Napoli, con qualche
lettore sparso nella provincia italiana. Un salto di qualità e di diffusione avvenne nel
1965, con il numero 25 su cui appariva un articolo di Renato Solmi su La nuova
sinistra americana, che contribuì a immettere nella cultura della nuova sinistra una
serie di idee e comportamenti politici praticamente sconosciuti. A quella data la
diffusione aveva raggiunto le 3.000 copie. Con il numero 31 (luglio 1967), riservato
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al tema Imperialismo e rivoluzione in America Latina e redatto in collaborazione con
i “Quaderni rossi” e “Classe e Stato”, la rivista guadagnò ulteriore popolarità presso
i militanti del nascente movimento studentesco. Infatti i numeri 33-36, usciti nel
1968, segnarono l’apice del successo politico e commerciale della rivista. Questa
aveva nel frattempo arricchito la parte più propriamente letteraria e culturale.
Nonostante un’inversione di tendenza nelle vendite – fra 8.000 e 9.000 copie fino a
tutto il 1976, circa 5.000 nel 1980 – “Quaderni Piacentini” continuò ad essere per
tutti gli anni Settanta un punto di riferimento per giovani e intellettuali: “se i motivi
della iniziale fortuna della rivista sono da individuare nella spregiudicatezza con cui
venivano aggrediti figure e miti dell’establishment, la crescita successiva è
strettamente connessa alla capacità di cogliere e dibattere alcuni fondamentali nodi
sociali, economici, politici e culturali”1; nel 1980, con il numero 74 – pubblicato,
come i due precedenti, dalle edizioni Gulliver di Milano – si chiuse la prima serie
della rivista. Una seconda serie riprese con il numero successivo nel 1981 fino alla
definitiva chiusura nel 1984.
Secondo Elisabetta Mondello, la storia della rivista si può suddividere diverse in fasi:
la prima fase giunge fino ai numeri 14 e 15 (dal ‘62 al ‘64), ed è caratterizzata dalla
coesistenza di due anime nel gruppo animatore, l’una socialista e l’altra più attenta
ai fermenti del mondo giovanile; la seconda arriva fino al numero 24 (dal ’64 al ’65),
ed è di maggiore impegno culturale, ricca di scritti teorici e ideologici; la terza va
fino al numero 32 (1966/1967), e presenta molti documenti di informazione e
controinformazione sulla sinistra americana e sulle lotte imperialiste; la quarta fase
è quella epica del movimento studentesco (’68) fino al numero 38 e la quinta
abbraccia grosso modo tutti gli anni settanta. Al suo interno, quest’ultima è divisa
tra pre ’76 e post ’76, ed è caratterizzata da una serrata riflessione sui temi connessi
alla crisi degli anni ’70 a livello politico, economico e sociale. Dal ’75 in poi i
“Quaderni piacentini” dedicano ampio spazio alla riflessione e analisi della società
1 LUCA BARANELLI E GRAZIA CHERCHI, prefazione a Antologia dei Quaderni Piacentini,
Milano, Gulliver 1977, pp. 12
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italiana e dei fenomeni che si manifestavano in quegli anni: dibattiti sul terrorismo,
sulla risposta giuridico-legislativa dello Stato, sul garantismo e sulla nuova Sinistra.
Nel 1981, con la nuova serie edita da Franco Angeli, inizia l’ultima fase della rivista
che mantiene in gran parte il suo gruppo dirigente e prosegue sulla stessa corrente
degli ultimi anni, con un’accentuazione dell’attenzione ai fenomeni culturali e di
costume2.
Le intenzioni programmatiche del primo nucleo redazionale sono esplicitamente
espresse nella prefazione al numero 1(numero unico, Marzo 1962):
Gli autori di questo numero intendono sottolineare il carattere di prova. Non per chiedere indulgenza – ma critiche. Vogliamo dei lettori ma soprattutto dei collaboratori. I propositi sono di studiare i problemi locali di fondo – dalla scuola all’edilizia, dall’industria all’agricoltura, dalla stampa ai divertimenti, ecc. ecc. – beninteso con un’apertura mentale ampia e spregiudicata, non provinciale. Nonché seguire gli aspetti più significativi della cultura del nostro tempo. Comunque sollecitare dai giovani una maggiore presenza e partecipazione. Vogliamo che questo sia un foglio di battaglia, portata non solo dall’esterno ma anche all’interno. Ospiteremo testimonianze e opinioni anche contrastanti purché impegnate, vive, serie, e vorremmo infine provare che serietà non è necessariamente solennità e astrattezza. Si può e si deve essere seri senza essere noiosi. Con allegria. 3
In queste poche righe non vengono menzionati se non sommariamente i contenuti
della rivista né si descrivono le rubriche e le sezioni in cui sarà articolata, ma
piuttosto viene esplicitata l’idea generale che la informa, che ha i suoi punti cardine
nella collaborazione, nella cittadinanza attiva e nella partecipazione vivace al
dibattito culturale. È notevole che sin da subito i redattori (Piergiorgio Bellocchio e
Grazia Cherchi) sottolineino il carattere di prova della rivista: il foglio e la sua
redazione sono un progetto che si costituirà in itinere, e non è possibile dunque
2
ELISABETTA MONDELLO, Gli anni delle riviste, le riviste letterarie dal 1945 agli anni
Ottanta, Lecce, Milella, 1985, pp. 168-170
3
“Quaderni piacentini”, Numero unico, Marzo 1962, pp.1-2
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delineare preliminarmente le linee guida di quella che sarà l’esperienza dei
quaderni. Viene richiesta la partecipazione del pubblico: i “Quaderni piacentini” si
pongono come terreno di dibattito, scontro e collaborazione con i lettori, che sono
chiamati a criticare e a proporre. Le lettere alla redazione vengono pubblicate a
partire dal terzo numero nella sezione “I nostri lettori scrivono” (si analizzerà
successivamente con maggiore precisione la critica di un lettore alla rubrica “Libri
da leggere e da non leggere” e la risposta della redazione).
I “Quaderni” nascono come un foglio di provincia che si propone di affrontare i
problemi cittadini “dalla scuola all’edilizia, dall’industria alla agricoltura”, con
un’apertura mentale tutto fuorché provinciale “apertura mentale ampia,
spregiudicata e non provinciale”. Nella sezione “Problemi locali” vengono pubblicati
articoli riguardanti la realtà piacentina (es. rinnovare la biblioteca comunale) e si
sollecitano i giovani a una presenza sempre maggiore nel campo della “cittadinanza
attiva”, nel portare alla luce i disagi della cittadina e nella partecipazione alla vita
culturale. La discriminante che soprastà alla partecipazione collettiva allo sviluppo
della rivista è la serietà degli interventi: “ospiteremo testimonianze e opinioni anche
contrastanti purché impegnate, vive e serie”. La serietà, che non è sinonimo di
solennità e astrattezza cerimoniosa, è ciò che mette in parentesi il carattere
municipale della rivista e la proietta nel dibattito nazionale.
“Si può e si deve essere seri senza essere noiosi. Con allegria”, da questo concetto
di impegno allegro, se così si può definire, nasceranno le rubriche più interessanti e
gli interventi più irriverenti come “Il franco tiratore”, la rubrica “Libri da leggere e
da non leggere”, e ancora “Cronaca italiana”, che analizza con la lente di
ingrandimento le notizie di maggiore rilievo nella stampa nazionale.
Giunti al numero terzo “Quaderni piacentini” devono precisare alcuni punti circa la loro linea politica. La rivista intende muoversi su un terreno dove la sinistra possa studiare e dibattere la situazione e le prospettive che le si presentano. Il lettore potrà anche di volta in volta, avere l’impressione che la rivista accentui questa o quella tendenza politica e concludere affrettatamente che i “Quaderni piacentini”
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manchino di coerenza politica. Nulla di più falso se si vuole tenere presente che oggi la sinistra è tutta in movimento, tutta da fare, e che alla realizzazione di questo compito occorre quindi più che un organo di tendenza pregiudizialmente definita, un organo che abbia ben chiara questa situazione reale e la necessità quindi che le varie posizioni vi si incontrino e vi si scontrino eliminandosi solo per la forza delle loro idee ed il livello egemonico culturale da loro raggiunto. Ne consegue, tra l’altro, che la linea politica, e culturale, di un articolo, di un redattore, non corrisponde necessariamente a quella di tutta la redazione. Significa solo che la redazione ne ha ritenuto utile la pubblicazione ai fini di una ricerca che si vorrebbe la più libera, la più aperta, la più spregiudicata possibile […] Nessuna presa di posizione, insomma, quand’anche espressa in modo deciso e apparentemente apodittico, vuole essere definitiva, esauriente; è solo una proposta di verifica, un invito al dibattito, uno stimolo alla ricerca. 4
Con la prefazione al terzo numero della rivista la redazione riprende l’appello al
lettore del primo numero, spinta dalla necessità di precisare il posizionamento della
rivista nel quadro del dibattito interno alla sinistra, che non sarà quello di un
giornale “allineato” a qualche opzione politica, bensì cercherà di costituire un
terreno dove la sinistra, ancora in movimento, possa formarsi e confrontarsi con le
sue diverse interpretazioni. Viene sottolineato il carattere apartitico dei “Quaderni”,
che si propongono come luogo di incontro-scontro di opinioni piuttosto che un
organo di “tendenza pregiudizialmente definita”. Da ciò scaturisce la molteplicità
dei punti di vista di inserzionisti e redattori, che fa sì che l'opinione politica espressa
in un articolo non venga necessariamente condivisa dall’intera redazione.
L’approfondimento politico trova spazio nella sezione “Discussioni” in cui vengono
proposti nuovi temi per la sinistra con la partecipazione di scrittori e intellettuali. Si
riporta qui l’appello della redazione ai collaboratori esterni comparso a seguito degli
interventi di Mario Biase e Nuccio Tirelli (n.6 Dicembre 1962), che riprendono
l’articolo dove va la sinistra italiana oggi? di Sergio Spezzali apparso nel numero
precedente: “Vogliamo che il dibattito prosegua o meglio se eventuali prossimi
4
“Quaderni piacentini”, n.2, Luglio 1962, pp.1
10
interventi si fisseranno su qualche problema cercando di portarlo a fondo piuttosto
che tentare delle visioni generali che tendono a una certa genericità”5.
Come la “sinistra” anche la rivista è in evoluzione, frutto di una continua messa in
discussione di posizioni ed idee; niente vuole essere definitivo e anche ciò che viene
assunto come vero è uno stimolo alla ricerca.
La redazione
La redazione all’uscita del primo numero dei “Quaderni piacentini” era composta
da Grazia Cherchi, Piergiorgio Bellocchio e Alberto Bellocchio. L’idea di aprire un
foglio cittadino nasce come prolungamento dell'attività del circolo "Incontri di
cultura" di Piacenza, tra un gruppo di giovani amici che volevano intervenire nelle
vicende e nei dibattiti di quegli anni. Nel numero 2 (Luglio 1962) compare un
articolo di Franco Fortini (Dichiarazione di Fortini su: all’armi siam fascisti) che è
stato per lungo tempo un collaboratore esterno senza mai entrare a fare parte del
nucleo redazionale. Per i primi cinque numeri gli autori degli articoli si firmavano
con acronimi (es. P.G.B per Piergiorgio Bellocchio o M.B.V per Marilena Bressan
Vegezzi). Dopo questa fase iniziale, fino al numero 25 (Dicembre 1965), in cui
compaiono anche le firme di Vittorio Sereni, Giovanni Giudici, Giancarlo Majorino e
Alberto Asor Rosa (direttore di «Classe operaia») la rivista comincia ad ospitare
molti di quelli che saranno i suoi principali collaboratori stabili come i critici
(marxisti) Cesare Cases, Renato Solmi, Sebastiano Timpanaro e Raniero Panzieri
(fondatore dei “Quaderni Rossi”). La rivista precisa progressivamente la sua
fisionomia, in cui prevalgono l’interesse per la politica in concomitanza con il
“rapido processo di politicizzazione delle masse studentesche”6, ma mantiene
tuttavia la sua indipendenza da tutte le formazioni politiche organizzate. Il numero
5 Discussione, in “Quaderni piacentini”, n.6, Dicembre 1963, pp.13
6
LUCA BARANELLI E GRAZIA CHERCHI, prefazione a Antologia dei Quaderni Piacentini,
Milano, Gulliver 1977 pp.12
11
28 (settembre 1966) registrò l’ingresso nel comitato direttivo di Goffredo Fofi, da
tempo assiduo collaboratore della rivista e con il numero 43 (aprile 1971) entrarono
a fare parte della redazione Luca Baranelli, Bianca Beccalli, Francesco Ciafaloni,
Edoarda Masi, Michele Salvati, Federico Stame e Alfonso Berardinelli. Il gruppo
dirigente della rivista rimane questo anche a partire dal 1981 con la seconda serie
dei “Quaderni” ad eccezione di Baranelli.
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Rubriche e inserti di carattere letterario
“Libri da leggere a da non leggere”
I “Quaderni Piacentini”, pur non nascendo come rivista letteraria, nutrono interesse
per la letteratura: viene infatti inserita sin dal primo numero una rubrica intitolata
“Libri da leggere e da non leggere” che si pone il problema di consigliare al lettore
dei testi e sconsigliarne degli altri. La rubrica è presente fino al numero 36, con
l’eccezione dei numeri 4-5. L’idea di stilare queste “liste di proscrizione” letterarie
non è una creazione ex novo della redazione dei “Quaderni” ma s’ispira a rubriche
presenti in alcune riviste surrealiste e trova un’ulteriore precedente in uno dei punti
del Programma per il Politecnico (1945) elaborato da Elio Vittorini. Nella maggior
parte dei casi compaiono soltanto i titoli dei libri etichettati come da leggere o
meno, non accompagnati da recensioni o motivazioni. In una lettera inviata da un
lettore alla redazione si critica proprio questo, ossia la mancanza di giustificazione
delle scelte operate; tali critiche vengono riportate per intero nel numero 6 e sono
seguite dalla risposta della redazione: davanti ad un mondo editoriale in crescita
esponenziale, dove la pubblicità e la critica mettono tutti i libri sullo stesso livello, i
redattori dei “Quaderni” si autorizzano a scartarne alcuni e promuoverne altri, con
la doverosa precisazione che non tutti i sì sono uguali “il sì dato a Mastronardi non
ha lo stesso peso di quello dato a Pascal”7; davanti all’impossibilità, per mancanza
di tempo, di addurre spiegazioni per ogni scelta decidono quindi di segnalare solo il
titolo, e starà al lettore seguire il consiglio. Inoltre viene precisato il carattere
condiviso delle scelte, la cui responsabilità è condivisa dall’intera redazione. Le
intenzioni dichiarate non corrispondono però alla prassi: nei fatti, le scelte spesso
dipendevano dai gusti personali di un singolo redattore, secondo quanto afferma
Piergiorgio Bellocchio; motivo per il quale la rubrica viene soppressa a partire dal
numero 36.
7 Difesa di “da leggere e da non leggere”, in “Quaderni Piacentini”, numero 7-8,
Febbraio/Marzo 1963, pp.34
13
Uno spoglio dei titoli contenuti nella rubrica può tuttavia offrire un’idea schematica
di quali fossero le preferenze letterarie della rivista. Tra i libri “da leggere” figurano
innanzitutto opere di carattere politico o filosofico, principalmente di ispirazione
marxista, come La storia della rivoluzione russa di Trotskij o L’estremismo malattia
infantile del comunismo di Lenin, o testi di Marx, Engels e Lucacks. Questo, oltre a
mettere in luce l’ambito ideologico in cui si pone la rivista, indica come il lettore
ideale dei “Quaderni”, la nuova generazione, non potesse prescindere da una
formazione culturale che includesse testi di impegno politico e filosofico.
Accanto a questi testi ne figurano altri prettamente letterari da cui si possono trarre
alcuni spunti per una riflessione, che successivamente verrà approfondita, sulle
posizioni in materia letteraria della rivista. Tra i libri da “non leggere” compaiono più
volte i nomi di Moravia e di Bassani, rappresentanti di una letteratura di matrice
borghese che si andava via via superando. Stessa sorte tocca però a coloro che si
ponevano come i propugnatori di un radicale rinnovamento letterario: nella
condanna generalizzata alla neoavanguardia e, più specificamente al Gruppo ’63,
viene salvato soltanto La ragazza Carla di Pagliarani, probabilmente perché tratta di
temi sociali e quindi altro rispetto alla produzione neoavanguardistica. Riservandoci
di tornare più avanti sull’argomento, si noti intanto che tra i libri da “non leggere”
figurano a più riprese testi di Arbasino, Balestrini, Eco e Sanguineti. Tra i grandi
scrittori del passato, si sponsorizzano De Sade, Balzac, Musil, Golding; interessante
anche il recupero della poesia del Belli, in omaggio alle simpatie “realiste” dei
redattori. La menzione di autori come Benjamin e Levi-Strauss è indice dell’apertura
europea dei “Quaderni”, dediti a un’opera di svecchiamento dell’attardata
prospettiva critica italiana. Viene posto il veto anche a quei testi che venivano
mitizzati dai giovani come Sulla strada di Kerouac e Fiesta di Hemingway perché,
privi di impegno ideologico, venivano considerate letture frivole e di largo consumo;
al contrario i “Quaderni” fanno di Sartre il vero portavoce della contestazione
giovanile. I consigli della rubrica non riguardano solo i libri ma spesso vengono
indicate anche riviste: sono assolutamente consigliati i “Quaderni rossi” e “Lotta
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continua”, mentre vengono bandito il “Menabò 8”. Tra gli autori “da leggere” si
annoverano Fortini, Sereni e Asor Rosa che collaboravano alla rivista: questo perché
ovviamente condividevano con la redazione un’idea di letteratura che si basava
sull’impegno ideologico, e, per quanto riguarda i poeti, forse per una comunanza di
gusto, dettata dalla preferenza per una Musa più quotidiana e concreta e per un
rinnovamento dell’istituto linguistico meno sbandierato ma per questo non meno
efficace.
Benché questo spoglio permetta di delineare una prospettiva critica di massima
condivisa dalla redazione, è facile immaginare, come abbiamo già accennato, che le
scelte potessero spesso dipendere da gusti personali o da petizioni di principio non
unanimi. Lo stesso Piergiorgio Bellocchio ricorda per esempio il caso illustre de La
vita agra, posto tra i libri “da non leggere” perché meno impegnato dei testi del
periodo toscano dell’autore: egli, pur continuando a prediligere i racconti
maremmani di Bianciardi, ha tenuto a precisare che lo avrebbe senz’altro inserito
tra i libri da leggere. Questo, dice lo scrittore, proprio perché non sempre
condivideva le scelte di altri redattori in materia letteraria e ciò lo ha portato a
decidere di chiudere la rubrica. Oggi, piuttosto che libri di Marx o Lenin, consiglia ai
giovani di leggere più Balzac e Dickens, che descrivono la realtà senza incastrarla in
formule e assiomi.
“Libri”
La rubrica dei “Libri da leggere e da non leggere”, come già accennato, si presenta
come un elenco di titoli seguiti raramente da interventi critici, tuttavia i “Quaderni”
si riservano il diritto di commentare e recensire testi in un’altra sezione chiamata
“Libri”; la rubrica, che non ha una regolarità di uscita, non è curata dall’intera
redazione: le penne che se occupano portano il nome di Piergiorgio Bellocchio,
Grazia Cherchi e Goffredo Fofi per i primi numeri, successivamente invece
comparirà a cura di collaboratori esterni.
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Come la rubrica dei “Libri da leggere e da non leggere”, “Libri” si propone di
recensire anche testi che esulano dalla letteratura in senso stretto; sono presenti
infatti saggi di critica strutturalista, trattati di politica e sociologia, tra questi Teste
d’uovo di Chomsky, Sociologia e classi sociali di Augusto Illuminati e La Cina di Mao,
l’altro comunismo di Karol; probabilmente perché, come già detto, i “Quaderni”
credevano in una formazione completa dell’intellettuale, che in anni di
cambiamenti radicali nella società non doveva prescindere da uno studio completo
della realtà. Accanto ad essi però la rubrica si occupa di narrativa, Nove racconti di
Salinger e Il calzolaio di Vigevano di Mastronardi, memorialistica, Viaggio nella
vertigine di Evgenjia S. Ginzburg e raccolte di poesie, approfondito è lo studio di “La
letteratura come menzogna” di Manganelli.
Di considerevole importanza è il fatto che i testi di alcuni autori abbiano una
presenza maggiore di altri nella rubrica, un caso noto è quello di Pasolini, i cui testi
vengono recensiti in più numeri. In “libri da leggere e da non leggere” Pasolini
compare una sola volta con il titolo L’odore dell’India che viene posto tra i libri “da
non leggere”; plausibile è l’ipotesi che il racconto dell’esperienza di sei settimane
dell’autore in India non incontrasse i gusti della redazione perché giudicato un
sottoprodotto artistico, causato dall’industrializzazione letteraria, troppo distante
dalla precedente produzione invece fresca e vivace. Infatti, scrive Piergiorgio
Bellocchio nel numero 1bis (Marzo 1962), “Pasolini è un personaggio che porta
novità in un panorama letterario vecchio e fatto di rimasticature”8. Per i “Quaderni
Piacentini” l’autore ha il merito di riportare nei suoi scritti una realtà che comprende
la vita di tutti; nel raccontare del sottoproletariato romano, attraverso personaggi al
limite del grottesco, Pasolini parla ad un substrato infantile presente in ciascun
lettore, in cui la libido e gli istinti primi non hanno limiti di azione. La
contrapposizione della periferia alla città trova il suo parallelo in due diverse anime
dell’uomo: una, infantile e irrazionale, l’altra, adulta e razionale. La prima è
8 PIERGIORGIO BELLOCCHIO, Pasolini, in “Quaderni Piacentini”, n. 1-bis, Marzo 1962
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rappresentata nei racconti di Pasolini da quei personaggi anarchici e amorali dipinti
ai margini della società, la seconda, invece, da coloro che sono inseriti nella vita
organizzata cittadina: i “civilizzati”. Dal punto di vista linguistico tale
contrapposizione risulta evidente per l’ampio utilizzo del dialetto in opposizione ad
un italiano standardizzato, elemento che la redazione dei “Quaderni" sembra
apprezzare. Tuttavia il conflitto che dovrebbe sorgere tra questi due elementi, della
città e dell’animo umano, non arriva mai al vero dramma, "data l’assoluta
prevalenza del momento irrazionale su quello adulto”9, ma si giunge continuamente
ad una situazione di stabilità. Pur partecipando l’autore ad entrambe queste anime,
come uomo e in quanto intellettuale, non emerge un conflitto esasperato che porti
alla tragedia. I “Quaderni” dunque, mettendo in evidenza la mancanza di un vero
dramma, sembrano far intendere che Pasolini finisca continuamente per ripetersi,
logorando dall’interno il mezzo espressivo impiegato. Pur riconoscendo la
perfezione dei primi esperimenti poetici dell’autore, come Le ceneri di Gramsci
considerato “il libro di poesia più geniale e ricco del dopoguerra”10, i “Quaderni”
denotano nella successiva raccolta, La religione del mio tempo, una caduta di stile
perché ripetitivo e pedantemente retorico.
Tuttavia, suggerisce Bellocchio nel suo articolo, Pasolini per non cadere nell’infinita
ripetizione deve ricorrere a mezzi tecnici differenti. Eccezionale è infatti che ai due
romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta non ne sia seguito un terzo ma piuttosto
un film, Accattone. Risulta evidente come per la rivista il merito assoluto di Pasolini
stia nel suo essere eclettico e nel suo riuscire ad esprimersi sempre in modo vivo,
servendosi di ogni mezzo espressivo.
A sostegno di quanto detto sopra a proposito della posizione dei “Quaderni
Piacentini” rispetto a Pasolini scrittore, si farà qui riferimento ad un intervento
comparso al numero 19/20 (Ottobre/ Dicembre 1964):
9
Ibidem 10
Ibidem
17
Sotto il titolo di Filologia del proletariato11, è riportato, alle pag. 31-34, uno scritto
tratto dal volume Il populismo nella letteratura italiana contemporanea di Asor
Rosa; il testo in questione ha per oggetto il romanzo, già citato, Ragazzi di vita,
pubblicato per la prima volta nel 1955 da Garzanti.
Ai fini della nostra ricerca può essere interessante quindi indagare le affinità che
intercorrono tra il pensiero della redazione e quello del critico letterario riguardo
alla prosa pasoliniana.
Asor Rosa apre il discorso dicendo che “la forma del libro è saggistica”, data la
mancanza di una storia centrale: Riccetto, che dovrebbe essere il protagonista, in
alcuni capitoli diventa un personaggio secondario.
Saggistico è inoltre l’andamento di alcuni brani, in cui, scrive il critico, Pasolini
diventa un “folklorista” della vita romana di periferia: “trova il suo principale
interesse nel costituire una specie di repertorio dei luoghi romani più caratteristici
sotto il profilo popolare”12.
Asor Rosa pone l’accento sul carattere esasperatamente descrittivo di molti passi,
evidenziando la tendenza di Pasolini ad analizzare scientificamente ogni aspetto del
reale. Di interesse filologico appare anche il marcato utilizzo di linguaggio dialettale.
Ragazzi di vita è un raccoglitore linguistico e ontologico di personaggi,
ambientazioni e descrizioni che Pasolini delinea ricorrendo a strumenti culturali più
che poetici. Il mondo raccontato è costruito tassello su tassello, è un mosaico che,
secondo Asor Rosa, non emoziona, perché non riesce ad andare oltre al suo
carattere scientificamente descrittivo. La materia viene trattata da Pasolini come in
un documentario in cui i personaggi sono presentati attraverso la descrizione di
movimenti, modi di fare e caratteristiche fisiche. Accade, così, che quando Pasolini
carica e sforza i tratti “meccanici”, essi diventano troppo appariscenti e finiscono
per suscitare contraddizione tra la descrizione del personaggio e ciò che ne emerge
a livello psicologico: “s’innesta il sottinteso psicologico che deriva da
11ALBERTO ASOR ROSA, Filologia del proletariato, in “Quaderni Piacentini”, n. 19/20,
Ottobre/Dicembre 1964, pp.31 12
Ivi, pp.32
18
un’osservazione scientifica dell’autore”13.
L’ingenuità dello scrittore sembra consistere nel volere dare veste poetica a modi di
dire, bassi e istintivi. Il continuo tentativo di Pasolini di inserire parole e citazioni alte
in un contesto fondamentalmente popolare appiattisce la carica espressiva
contenuta in ciò che viene descritto. Dall’esempio riportato, “le prostitute se ne
stavano acquattate diplomaticamente in fondo tra le fratte, in sacro
raccoglimento”14, risulta lampante come l’intento lirico prevalga su quello
descrittivo facendone perdere il senso. In questi momenti, suggerisce Asor Rosa, la
vicenda dei ragazzi di vita “non riesce ad assumere spicco umano perché offuscato
dalla poeticità compiaciuta dell’autore”15. Quando Pasolini, invece, si spoglia della
sua veste di poeta fornisce immagini convincenti della realtà e perciò i personaggi
assumono spessore: “non vi è dubbio a mio parere che la riuscita di ragazzi di vita
come personaggi è affidata soprattutto alla temporanea assenza di un tentativo di
trasfigurazione idealizzante”16.
Non si può tuttavia dire che Pasolini inventi i suoi personaggi e sulla verosimiglianza
Asor Rosa non fa obiezioni. Quando Pasolini segue il tracciato di una vitalità
elementare, gli istinti bassi dei personaggi descritti, la narrazione assume
naturalezza e quanto più l’autore rimane in queste corde la sua prosa appare
genuina e pulita.
Per i redattori dei “Quaderni Piacentini” tale elemento risulta di fondamentale
importanza nel momento in cui salda la “congiuntura” tra sottoproletariato romano
e vita quotidiana di ogni individuo. Ancora una volta, come già visto nell’articolo di
Bellocchio, viene conferito a Pasolini il merito di avere tracciato le linee di una
condizione esistenziale dell’uomo.
13
Ibidem 14
PIERPAOLO PASOLINI, Ragazzi di vita, Milano, Garzanti, 1955, pp.77 15 ALBERTO ASOR ROSA, Filologia del proletariato, cit., pp.32 16 Ivi, pp.33
19
Quando invece la realtà viene rivestita di ideologia, poetica e filosofia la vivacità del
testo muore e si ritorna alla pedanteria, al sentimento lirico petrarchesco che, nella
società che l’autore descrive, risulta decisamente fuori luogo.
Il limite di Pasolini, e ci riserviamo di richiamare l’attenzione su quanto già detto a
proposito dell’intervento al numero 1-bis di Piergiorgio Bellocchio, è la mancanza di
drammaticità conflittuale.
Per Asor Rosa e presumibilmente per i “Quaderni” tale carenza non riguarda tanto
i personaggi quanto lo stesso autore, che non sembra rendersi conto di come i suoi
“ragazzi di strada” siano ontologicamente già integrati nella società borghese.
Poesia
Interessante è infine notare la presenza nei “Quaderni” di componimenti poetici,
che pur non costituendo una rubrica, hanno una regolarità d’uscita nei diversi
numeri. Tra il materiale proposto sono ricorrenti le poesie ispirate da un sentimento
politico, Un operaio del miracolo di Giorgio Cesarano, Lotte secondarie di Giancarlo
Majorino e Quello che è vietato di Fernando Bandini. Affini sono i versi, riportati in
traduzione, di Bertolt Brecht, autore e drammaturgo nella cui impostazione
ideologica di stampo marxista si riconoscevano i “Quaderni”.
Risulta evidente, ancora una volta, come la letteratura non potesse prescindere una
chiara presa di posizione ideologica e quindi dalla realtà vissuta. Ne consegue
dunque la predilezione dei “Quaderni” per quei componimenti di Sereni, Giudici e
Raboni che rimandano a situazioni quotidiane: Il compleanno di mia figlia17 di
Raboni, La vita in versi18 di Giudici, Famiglia19 di Majorino.
Talvolta compaiono scritti degli stessi redattori, di amici, come del piacentino Vico
17 GIOVANNI RABONI, Il compleanno di mia figlia, in “Quaderni Piacentini” n. 27, Giugno
1966, pp.54 18 GIOVANNI GIUDICI, La vita in versi, in “Quaderni Piacentini” n.16, Maggio/Giugno 1964,
pp.21 19 GIANCARLO MAJORINO, Famiglia, in “Quaderni Piacentini” n.17-18, Luglio/Settembre
1964, pp.40
20
Paveri e di lettori, che inviavano i propri versi; sarà proprio per questa
sovrabbondanza di produzione che i redattori dei “Quaderni” decideranno di
eliminare la sezione dedicata alla poesia, non potendo per insufficienza di tempo e
spazio soddisfare tutte le richieste di pubblicazione.
21
I dibattiti culturali
Don Lorenzo Milani: Lettera ad una professoressa ed altri scritti
Lettera ad un professoressa, edito nel 1967 da Einaudi e scritto da alcuni scolari di
Don Milani sotto la sua supervisione, è un libro che ha suscitato un singolare
interesse ai tempi della sua pubblicazione e ha trovato quindi ampio spazio
all’interno dei grandi dibattiti culturali di quegli anni.
La stessa persona di Don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana, rappresenta un
“unicum” nella chiesa cattolica dell’epoca, visto dai più come un prete
rivoluzionario: era considerato il portavoce, in un’era di radicali cambiamenti, della
necessità di rinnovamento nella società, nella scuola e nella Chiesa, che aveva già
iniziato il suo percorso di “svecchiamento” con il Concilio Vaticano II.
I “Quaderni Piacentini” non rimangono estranei alla questione ma vi si inseriscono
intervenendo al numero 31 (Luglio,1967) con tre articoli sul libro Lettera ad una
Professoressa.
Risulta interessante indagare come i “Quaderni” si ponessero all’interno del
dibattito, trattandosi di un testo che ha portato gli intellettuali di tutta Italia a
riconsiderare e a riflettere sulla propria posizione di “detentore di cultura”. Per
potere avere una visione complessiva della questione pare necessario analizzare
separatamente tutti e tre gli interventi al fine di rilevarne possibili linee guida
comuni. Si porrà attenzione alle considerazioni di Elvio Fachinelli, Franco Fortini e
Giovanni Giudici, rispettando l’ordine cronologico in cui compaiono sulla rivista.
Fachinelli, in apertura al suo intervento a pag. 271 definisce il libro di Don Milani
“un testo cinese”, probabile richiamo provocatorio alla Rivoluzione Culturale
maoista, che risulterà più chiaro procedendo nella lettura.
Si preoccupa poi di descrivere i caratteri tipografici del testo che si presenta sotto
22
forma di brevi capitoletti accompagnati da molte note esplicative. Anzitutto, si
sottolinea che l’autore del libro è collettivo, perché scritto a più mani dai ragazzi-
scolari, “ragazzo, contadino, e anche operaio, bocciato a scuola”20, di Don Milani.
Per potere entrare meglio nel merito del discorso Fachinelli propone un breve
riassunto del libro, che pare opportuno accennare per potere chiarire le posizioni
del commentatore riguardo al testo.
La narrazione inizia dalla prima elementare in cui sono presenti all’appello 32
bambini e “a Giugno la maestra ne boccia sei e parte per il mare”21; in seconda
elementare saranno ancora 32 gli studenti, di cui 6 sono ripetenti, e tra questi 32 si
trova Pierino, ragazzino benestante e molto intelligente. Le bocciature di fine anno
continuano sino alle scuole medie e colpiscono inevitabilmente i ragazzi più grandi,
i ripetenti e perciò anche i più poveri: “voi dite di avere bocciato i cretini e gli
svogliati, allora sostenete che Dio fa nascere cretini e svogliati nelle case dei
poveri”22.
Ne consegue che intanto nel percorso elementare già 11 ragazzi hanno lasciato la
scuola.
A questo punto, riassunta in poche righe la narrazione, Fachinelli si chiede chi sia
effettivamente il pubblico di Lettera ad una professoressa.
La risposta sembra semplice: lo legge chi ha tutti i suoi “otto ottavi di intelligenza”,
chi ha fatto le scuole e dunque sa leggere, scrivere e pensare. Quello che il libro
suggerisce non è in fondo nulla di nuovo ma piuttosto è qualcosa che già tutti i suoi
lettori sanno ma preferiscono dimenticare. Le parole scritte hanno il merito di fare
riaffiorare i ricordi dei compagni di classe lasciati per strada e di fare prendere
coscienza al lettore di come la rimozione personale nell’individuo corrisponda, in
più vasta scala, alla rimozione collettiva nella società. Chi legge riapprende in
maniera semplice di essere “frutto di un sistema selettivo, che mentre lusinga noi,
20 ELVIO FACHINELLI, Tre interventi sul libro di Don Milani, in “Quaderni Piacentini”,
n.31(Luglio 1967) pp.271 21 Ibidem 22 SCUOLA DI BARBIANA, Lettera ad una professoressa, Einaudi, 1967, pp.48
23
scarta altri”23.
Perciò l’autore, che inevitabilmente si identifica con Pierino (il ragazzino intelligente
e benestante), si sente portatore di un “valore monco”, perché se agli “uomini di
cultura” il processo selettivo della scuola, e dunque della società, attribuisce un
merito, per chi ne viene escluso è invece una condanna.
“L’escluso nutrirà rispetto e rancore per la cultura dell’altro, potrà anche plasmare
e vagheggiare la sua cultura diversa. Ma mentre l’altro la chiamerà sottocultura, egli
sarà costretto, invano, a ritrovarvi il suo scacco rovesciato”24.
Dunque, colui che incarna il merito scolastico e sociale, può solo illusoriamente
sentirsi completo, ma nella realtà dei fatti sarà mancante della sottocultura
dell’altro, nel senso che non sa tenere conto di tutti i problemi che hanno
determinato quello stato di cose.
Fachinelli sembra suggerire che Lettera ad una professoressa sia tutt’altro che un
libro educativo per insegnanti e genitori o una semplice denuncia al sistema
scolastico ma piuttosto un testo che riguarda e pone interrogativi alla vita di tutti in
quanto riflette la fragilità della stessa identità personale nella società.
In conclusione all’intervento vengono riportati i principi per l’azione proposti dai
ragazzi di Barbiana, in cui è possibile ravvedere tracciati comuni alle contestazioni
giovanili che già muovevano le università americane:
“[…] Qualche cosa che confusamente si avvicina da molti punti all’orizzonte, da
Berkeley fino a Barbiana […]”25.
Fortini, alle pag. 276-279 si propone di indagare, sulla scia delle considerazioni già
fatte da Fachinelli, a chi e a cosa serva un libro di questo genere.
Prima di tutto pone l’attenzione sul fatto che nessuno lo avrebbe letto se fosse stato
solamente un contributo per migliorare il sistema scolastico; ciò che invece è
23 ELVIO FACHINELLI, Tre interventi sul libro di Don Milani, cit., pp. 273 24 Ivi, pp.274 25 Ivi, pp. 275
24
interessante è il passaggio da un problema particolare al tema rivoluzione-salvezza,
quindi la presa di coscienza di una disuguaglianza.
Più che un passaggio, tuttavia, scrive Fortini, è un salto, poiché il testo diventa una
mano tesa al nemico, il sistema scolastico, perché cambi.
Risulta dunque più chiaro il binomio rivoluzione-salvezza, perché se da un lato il
libro “batte e ribatte ad ogni pagina sulla politica come vita”26 d’ altro canto è intriso
di sentimento cristiano: “vendi quello che hai e dallo ai poveri”, dove i poveri sono
i bocciati a scuola, gli uomini di un’altra cultura.
Tuttavia, l’emarginato, oggi, diventa sempre più emarginato ed oppresso perché in
qualche modo partecipa alle conoscenze della borghesia e il dramma si acuisce in
questa piena presa di coscienza dell’altro.
Il discorso di Don Milani risulta evidentemente difficile da analizzare dal solo punto
di vista di critica al sistema scolastico, perché, per la sua stessa natura allegorica, la
parola scritta rimanda a ben altro: i nemici di classe devono essere combattuti
perché cambino.
A questo proposito, Fortini, richiama ad esempio la definizione di “opera d’arte”
data a pag. 32 di Lettera ad una professoressa: “Pian piano viene fuori quel che di
vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché
cambi”.27
L’arte, pur nascendo come negazione, si rivela poi come proposta di cambiamento.
Dunque il libro stesso, Lettera ad una professoressa, si rivela essere un’“opera
d’arte”.
Si chiarisce qui il carattere letterario del testo come “opus rethoricum”, la cui prosa
talvolta tende a cedere, suggerisce Fortini, a sgradevoli effetti di retorica dei
sentimenti: “La distruzione degli avversari è vista, amorevolmente e cristianamente,
come una mano tesa per entrare nella square dance della fraterna gioia e non come
processo di spoliazione [..]”28.
26 FRANCO FORTINI, Tre interventi sul libro di Don Milani, in “Quaderni Piacentini”,
n.31(Luglio 1967) pp.276 27 SCUOLA DI BARBIANA, Lettera ad una professoressa, Einaudi, 1967, pp.112 28 FRANCO FORTINI, Tre interventi sul libro di Don Milani, cit., pp.278
25
Per quanto Fortini apprezzi il carattere letterario dell’opera, strutturata come un
racconto breve e ricca di espedienti retorici, tuttavia non considera Lettera ad una
professoressa un libro rivoluzionario nell’accezione strettamente politica del
termine.
La narrazione è infatti pervasa da un ottimismo disperato perché qualcosa cambi,
ma nella realtà dei fatti, secondo Fortini, la rivoluzione non può nascere da un
accordo con il “nemico” e l’impegno politico deve escludere l’amore fraterno per
quest’ultimo.
Il problema dunque del libro di Don Milani risulta essere proprio questo sentimento
cristiano, che se da un lato fa del suo stesso autore un caso eccezionale nella Chiesa
dall’altro limita, secondo Fortini, la carica rivoluzionaria presente nel testo.
L’ultimo commento che ci proponiamo di analizzare porta la firma di Giovanni
Giudici, che diversamente da Fortini e Fachinelli non focalizza l’attenzione su Lettera
ad una Professoressa ma piuttosto sulla figura di Don Milani e su cosa abbia
rappresentato negli anni della sua predicazione e in quelli a venire.
Le prime considerazioni di Giudici riguardano Esperienze pastorali, libro precedente
a Lettera una professoressa, di cui anticipa la percezione politica. Per chi commenta,
sembra trasparire dal testo, Esperienze pastorali ha rappresentato un avvenimento
decisivo sulla via della chiarezza per capire “ciò che è nostra colpa non sapere odiare
abbastanza o con abbastanza tenacia, in noi stessi e negli altri”29.
Giudici, con un eccesso di slancio poetico, paragona Don Milani ai grandi
“condottieri” della lotta contro le ingiustizie: “[…] mi rendo conto che sembrerà
paradossale il mio legare l’immagine di questo prete di montagna […] ai Fanon,
Lumumba e Guevara”30.
Se infatti l’argomento di Fanon era la rivoluzione africana, quello di Don Milani in
Lettera ad una Professoressa non si ferma a una denuncia del classismo della scuola
29 GIOVANNI GIUDICI, Tre interventi sul libro di Don Milani, in “Quaderni Piacentini”, n.31,
Luglio 1967, pp.279 30 Ivi, pp.280
26
italiana ma, procedendo ben oltre i limiti del sistema scolastico, tocca ogni aspetto
della vita di tutti.
In Esperienze pastorali, scrive Giudici, si può riconoscere uno dei primi contributi
teorici alla “nuova rivoluzione”, che non ha né vuole libri.
Allo stesso modo Don Milani, intellettuale di città, ha rifiutato la sua cultura ed il
suo ceto per farsi “prete di montagna”.
La prontezza, sembra dire l’autore del commento, è l’unico mezzo per potere
arrivare a dei risultati concreti, a una vera “rivoluzione” che esige chiarezza dalla
parola stampata, l’immediatezza di Esperienze pastorali.
I “Quaderni Piacentini” tornano a parlare di Don Milani al n. 4 (Luglio 1970), in cui
a pag. 203 compare un intervento di Elvio Fachinelli sulla corrispondenza epistolare
tra il parroco di Barbiana e alcuni ex-scolari.
Sembra dunque opportuno, al fine di una riflessione più completa, porre attenzione
anche a quest’ultimo intervento.
Le Lettere31, che sono state fonte di dibattito tra i Barbianesi, che volevano la loro
pubblicazione e coloro che, invece, pensavano che Lorenzo Milani non avrebbe mai
acconsentito a pubblicarle, possono essere lette come una continuazione di Lettera
ad una professoressa.
La riflessione di Fachinelli si concentra su una lettera in particolare (lettera del 15-
12-1963), indirizzata da Michele, ex alunno di Barbiana, a Don Milani e sulla relativa
risposta. Michele formula alcune critiche alla scuola di Barbiana, a cui il parroco
risponde articolando su più piani il suo pensiero. Don Milani dapprima si
schermisce; successivamente invece afferma di essere orgoglioso di “prendere da
vecchio una bastonata dal figliolo, perché è segno che quel figliolo è già uomo e non
ha più bisogno di una balia”. Fachinelli, pur rilevando che in queste parole si riflette
31 Lettere di Don Milani, priore di Barbiana, Mondadori, 1970
27
una tradizionale illusione pedagogica, nota come tuttavia, nel corso della lettera, il
tono cambi ancora: “Se la vita ti ha insegnato cose che ignoro perché non me le
insegni? […] So bene che molti aspetti della vita moderna mi possono sfuggire, ma
questa è colpa anche tua. Informami meglio”32. Qui, Don Milani che all’inizio della
lettera si poneva da insegnante, si fa alunno: ciò che per Fachinelli è interessante è
questa contraddizione, inerente alla stessa persona di Don Milani ed implicita in
ogni rapporto pedagogico. La disponibilità all’autocritica del maestro, pur ricadendo
in un cliché, ha il merito storico di fare risonare per la prima volta il punto di vista di
chi sta dietro ai banchi: l’alunno.
Fachinelli quindi guarda con favore all’operazione editoriale di pubblicazione delle
Lettere poiché esse introducono, nel dibattito inaugurato da Don Milani, la voce dei
destinatari della sua missione pedagogica; in questo ribaltamento di posizioni tra
insegnante e scolari, Don Milani si riconosce debitore verso Michele e tutti gli altri.
Nonostante i commenti analizzati siano per loro natura diversi, si possono scorgere
delle linee comuni.
Ciò che emerge con evidenza dai testi in questione, presumibilmente condiviso dalla
redazione dei “Quaderni”, è il carattere “globale” di Lettera ad una Professoressa e
degli altri libri di Don Milani, che non si pongono come una critica al solo sistema
scolastico ma, sorpassandone i limiti, abbracciano ogni aspetto della vita
contemporanea, collegandosi all’ondata innovatrice di cui sono portavoce i
movimenti studenteschi.
Se Giudici, da poeta, elogia senza riserve e con entusiasmo la figura e l’opera di Don
Milani, Fachinelli e Fortini, da critici letterari, individuano alcuni limiti retorici
presenti in Lettera ad una professoressa: per Fortini questi neutralizzano la carica
rivoluzionaria del testo mentre per Fachinelli non impediscono al sentimento
“nuovo” di emergere, promuovendo la partecipazione degli “ultimi” al discorso.
Don Milani si fa portavoce della “nuova rivoluzione” che, come già detto, necessita
32 Lettere di Don Milani, priore di Barbiana, Mondadori, 1970, pp.
28
di immediatezza della parola. Ecco allora come è possibile trovare un filo conduttore
che porti fino all’ultimo intervento di Fachinelli, che in apparenza esula da quelli del
n.(31): se infatti per Don Milani, e quindi per i nostri commentatori, la chiarezza e
limpidezza della parola sono alla base per un cambiamento radicale nella società,
non è affatto secondario, e le Lettere ne sono un esempio, che a parlare siano tutti.
Sembra chiaro come i “Quaderni” ravvisino l’importanza “politica” dei libri di Don
Milani a cui attribuiscono il merito, proprio per il loro carattere “globale”, di agire in
tutti.
La Storia di Elsa Morante
La Storia di Elsa Morante ha costituito, sin dalla prima pubblicazione, un caso
eccezionale in Italia per il numero di tirature, che hanno raggiunto ben presto le
seicentomila copie, e per il feroce dibattito che ha scatenato tra gli intellettuali di
tutto il Paese. Il libro, che si propone come un romanzo controcorrente, è stato
talvolta definito “romanzo popolare”, dal momento che, secondo alcuni, la scrittrice
si è inventata un pubblico di consumatori ad hoc nel, già vastissimo, panorama
letterario; le principali critiche nascono proprio dalla forte presa che La Storia ha
avuto sul popolo di lettori. La Morante viene dunque accusata “di speculare la
sofferenza, di vendere disperazione, di propagare pessimismo e di avere messo in
commercio un romanzo criticabile dal punto di vista marxista-proletario”33
A tal proposito, è interessante far notare come questo testo sia stato a lungo
criticato tra le file militanti della sinistra e sembra dunque opportuno indagare come
anche i “Quaderni”, di dichiarata impronta ideologica marxista, si inseriscano
all’interno di questo dibattito.
33 CESARE GARBOLI, Introduzione, in ELSA MORANTE, La Storia, Torino, Einaudi, 2009, pp.
IX
29
Al numero 53-54 sono riportati due interventi, il primo di Raboni e il secondo di
Cases, su La Storia; le critiche al romanzo sono accompagnate da una premessa
della redazione, che tiene a precisare che l’interesse per questo libro nasca proprio
dal dibattito insolitamente ampio che si è avuto nella sinistra, e dunque a tal
proposito il lettore non si dovrà stupire di quanto le opinioni dei due critici siano
diverse e talvolta contrastanti tra loro.
Si andrà ora a porre l’attenzione sull’intervento a pag. 173-175 di Raboni per poi
procedere a quello di Cases, immediatamente successivo.
Raboni precisa sin da subito che le sue pagine non rappresentano uno studio critico
ma piuttosto una premessa per quest’ultimo, ancora da farsi.
Egli suddivide il suo articolo in cinque punti, ponendosi l’obiettivo di analizzare in
ciascuno di essi gli aspetti più importanti del libro in questione. Sembra opportuno
anche per noi, per maggiore chiarezza, rispettare tale divisone.
Il primo punto riguarda i destinatari dell’opera; la Morante dedica il testo, con una
citazione di César Vallejo, “Por el analfabeto a quien escribo”, agli analfabeti.
Secondo Raboni attraverso questa citazione, che può sembrare superflua, la
scrittrice predice, invece, quali non sarebbero stati i suoi lettori: la comunità dei
“non analfabeti”, intellettuali e politici, si è infatti dimostrata incapace di leggere e
capire il romanzo.
Il secondo punto è focalizzato sulla “maiuscolizzazione”, nel titolo, della parola
Storia, che sta ad indicare che l’argomento del libro non è la sola storia dei
personaggi ma la Storia che ne sovrasta le vite; e il sottotitolo, “uno scandalo che
dura diecimila anni”, ne fornisce un’ulteriore prova.
Tuttavia, si nota, analizzando il carattere tipografico con cui sono riassunti, ad inizio
di ogni capitolo, gli avvenimenti storici, come tale concetto sia, nel testo,
ironicamente ribaltato: la Storia, in verità, è nel libro relegata a funzione accessoria
minore (come minore è il carattere tipografico utilizzato) mentre ad occupare un
più ampio spazio nelle pagine è la “piccola” storia dei personaggi: coloro che
30
vengono continuamente sopraffatti dalla Storia finiscono per diventarne i
protagonisti.
Tale ribaltamento, che può sembrare dissonante, rappresenta invece il nodo
centrale del libro e può essere soggetto a più interpretazioni. Raboni suggerisce una
lettura in chiave evangelica: Cristo, nel sermone della montagna, annuncia la
beatitudine eterna, come “primi”, ai poveri di spirito, ai sofferenti quindi agli ultimi.
Agli occhi del critico risultano evidenti le analogie tra l’episodio del Vangelo e il
romanzo della Morante, in cui “gli anonimi oggetti di una Storia di offese diventano
i protagonisti di una storia futura”, ma non ultraterrena; infatti, il premio di questi
personaggi non è il Paradiso ma, nella continuazione della vita, la possibilità di
evolversi da oggetto a soggetto. Tuttavia, sottolinea il critico, questo riscatto non
viene mai realizzato all’interno del racconto: “ciò di cui ci parla è l’annientamento
presente, non la riscossa futura. E tuttavia, quest’ultima, è una presenza
incontestabile, corporea; non un orizzonte ideologico, ma per chi sa leggere,
qualcosa di molto più reale: una verità espressiva”34.
Ne consegue dunque che, per Raboni, le due critiche che vengono mosse più
frequentemente al testo, di essere un libro consolatorio e di essere un libro
disperato, ne fraintendono la realtà “poetica”: infatti il libro non è né consolatorio
né disperato ma è piuttosto una rappresentazione della non presenza di una felicità
possibile per i suoi personaggi.
Giunto al terzo punto, Raboni riflette su questa assenza, che risulta essere la vera
sostanza dell’immaginazione e scrittura del libro: la mancanza di una felicità
possibile fa de La Storia, “libro disperato”, un vero inno alla gioia.
Una gioia che, essendo negata alle vittime dalla Storia, si manifesta nell’unico modo
in cui un’assenza può emergere: “come tensione espressiva, risonanza «altra» delle
parole, musica”35.
Il quarto punto porta alla luce una nuova questione: “di che ideologia si fa portatore
questo romanzo?” e Raboni risponde: “nessuna”.
34 GIOVANNI RABONI, Il libro di Elsa Morante, in “Quaderni Piacentini”, n.53-54, Ottobre
1964, pp.173 35 Ivi, pp.174
31
Infatti, per chi commenta, è il romanzo, nella sua totalità “nel modo d’essere
concreto nelle sue immagini e nella sua scrittura”, a farsi esso stesso messaggio
ideologico. Molti, prosegue il critico, hanno attribuito ad Elsa Morante le parole e le
idee dei suoi personaggi, e principalmente del personaggio di Davide Segre, unico
intellettuale presente nel racconto, delirante fantoccio della borghesia, e il solo
condannato a vivere senza felicità.
Non poteva dunque, secondo Raboni, manifestarsi, più chiaramente di così,
l’abbaglio di chi ha visto in Davide Segre il portavoce delle idee della scrittrice:
anzitutto uno scrittore non può avere un portavoce, dal momento che solo il libro,
nella sua totalità, può rappresentarne l’ideologia; in secondo luogo questo
personaggio vive a sue spese, dentro La Storia, la funzione ideologizzante, che è
propria degli eroi del romanzo borghese novecentesco e che, nel libro, viene
rappresentata in chiave mostruosa. Davide Segre, infatti, oltre a manifestarsi come
un caso isolato nel racconto, risulta essere una caricatura di questi stessi
personaggi-eroi.
Perciò, prosegue Raboni, non è lecito dire che ci si trovi davanti ad un “romanzo
borghese” ma piuttosto al suo perfetto contraltare: “La Storia è un romanzo non-
borghese perché non trova e non cerca la propria autenticità nella rappresentazione
dell’impotenza e del suicidio, cioè nelle tipiche forme di riconoscimento-negazione
della coscienza borghese”36. La Storia è un romanzo non borghese perché non
contiene una critica antiborghese ma esprime a-ideologicamente la disperazione di
chi, privato della felicità dagli eventi e dalle decisioni del ceto borghese, non può
che limitarsi a vivere nel presente, passivamente e fantasticamente, il fantasma
della sua stessa felicità negata. Ne consegue che, a vivere più da vicino la meraviglia
di una gioia che non c’è, siano proprio i personaggi più poveri (bambini, malati e
persino gli animali), a cui, come agli ultimi nel Vangelo, è concesso di immaginare la
loro felicità. D’altra parte i Davide Segre, i non analfabeti, che possono vivere nella
consolazione ideologica di un futuro cambiamento, si arrendono alla Storia e
finiscono per essere i più infelici.
36 Ivi, pp.175
32
L’eccezionalità di questo romanzo, sembra suggerire Raboni, sta nel privilegio dato
agli analfabeti, quindi sprovveduti, di potere sentire “nelle cose del mondo, spoglie,
ai loro occhi, di ogni significato, la presenza corporea della felicità assente”37,
felicità, questa, che si manifesta nel ritmo musicale della scrittura e nella vivacità
delle descrizioni; la Morante si assicura di non tralasciare nessun particolare, come
se paesaggi e personaggi fossero visti dagli occhi curiosi di un bambino.
Il secondo commento, che ci apprestiamo ad analizzare, porta la firma di Cesare
Cases ed è immediatamente successivo a quello di Raboni succitato.
Secondo Cases la prima ingiustizia inferta alla Morante è averle negato il confronto
con se stessa: il discorso su La Storia sarebbe dovuto partire da un parallelo con i
suoi scritti precedenti, in particolare Menzogna e sortilegio, da annoverare, secondo
il critico, tra i grandi capolavori del Novecento.
Perciò, si propone egli stesso di istituire un confronto tra questi due testi, il suo
studio, sottolinea, non vuole riempire nessuna lacuna bibliografica ma è secondo
Cases la sola procedura possibile per parlare de La Storia. Quest’ultimo è un
romanzo molto più tradizionale di Menzogna e Sortilegio, paragonabile a Cent’anni
di solitudine di García Márquez; ma tuttavia importante è vedere il perché di questa
regressione: “Perché la Morante ha scritto un libro di questo tipo quando ci sono
già stati Tolstoj, Joyce e Céline?”
Cases risponde a questa domanda partendo da un dato storico, ossia che in
un’epoca in cui si teorizza che l’arte esclude la comunicazione (vedi Balestrini), la
scrittrice ha deciso di scrivere, invece, per comunicare e da ciò nasce la regressione
verso il romanzo tradizionale. La scelta della Morante scaturisce da una precisa
posizione ideologica e non, come secondo i più, da un buon compromesso
commerciale.
Cases riporta la risposta della Morante ad un’inchiesta sul romanzo, promossa da
“Nuovi argomenti” nel 1959, in cui ella aveva insistito sul rapporto scrittore-verità:
“Così, al momento della sua massima attenzione alle cose reali, lo scrittore dovrà
37 Ibidem
33
fare il silenzio attorno a se stesso, e liberarsi da ogni schermo culturale. È l’esercizio
della verità che porta all’invenzione del linguaggio e non viceversa”38. In questo
senso, secondo Cases, la Morante esprime la sua distanza da un ideale di letteratura
“impegnata” sul fronte dell’attualità, cui consegue un rifiuto dell’impegno
propriamente “politico” del messaggio e quindi del neorealismo. La scrittrice,
sembra ritenere, e perciò allontana il racconto all’epoca del secondo conflitto
mondiale, che ormai i poeti non bastano più a salvare il mondo ma servono i
“ragazzini”. Con un esplicito riferimento ad un libro della Morante, Il mondo salvato
dai ragazzini, il critico riflette sulla necessità, sentita dalla scrittrice, di “entrare in
campo contro la storia che uccide i ragazzini, e di persuadere, così, mezzo milione
di lettori”39. In quest’ottica quindi non vi è niente di più sbagliato che ritenere che
la Morante abbia scritto un romanzo per il solo successo di vendita, quando in realtà
la scrittrice è mossa da un serio bisogno interiore.
Cases concentra poi l’attenzione sulla scrittura della Morante e quindi sul punto di
vista del narratore: in Menzogna e sortilegio il narratore è Elisa, che non parla con
la sua voce ma con quella dei parenti defunti che le appaiono in sogno e le “dettano”
il racconto, “ciò le permette di raccontare su di loro anche ciò che non ha mai vissuto
quindi in pratica di tornare al romanzo demiurgico”40; tuttavia, nel momento in cui
tali visioni cessano diventa lei sola a narrare. Non si tratta secondo Cases di un mero
espediente tecnico: tale soluzione è profondamente legata alla duplice natura della
protagonista, da un lato mistica e irrazionale, dall’altro lucida e razionale, e perciò
alla sua finale liberazione dal mondo dei morti. Ne consegue che tale processo di
liberazione personale finisca per coincidere con quello di liberazione artistica. La
Storia invece presenta una soluzione stilistica diversa, infatti il narratore è esterno
alla vicende dei personaggi e tale onnipotenza della voce narrante consente
maggiore spazio narrativo, che viene ulteriormente ampliato dal ricorso al discorso
diretto, basso e dialettale. Secondo Cases, la Morante, supera l’ostacolo della
38 CESARE CASES, Un confronto con Menzogna e Sortilegio, in “Quaderni Piacentini”, n.53-
54, Ottobre 1964, pp.180 39 Ivi, pp.180 40 Ivi, pp. 182
34
frattura linguistica tra personaggio e narratore colorando il discorso di quest’ ultimo
di toni familiari e sprezzature dialettali: “l’autrice riprende in mano le capacità
visionarie che aveva delegato ad Elisa, in Menzogna e sortilegio, e si aggira senza
ostacoli nello spazio e nel tempo”41. La Morante, dunque, recupera tutte le capacità
espressive del narratore “demiurgo”, in cui il lettore è portato a dare piena fiducia,
in quanto conosce in prima persona i personaggi e ha potuto parlare con loro.
Se dunque in Menzogna e sortilegio erano i morti ad andare da Elisa, in La Storia è
il narratore, che si manifesta in prima persona, a cercarli, a ripercorrere il secolo e
farli resuscitare. A tal proposito, Cases, citando un commento di Pasolini a La Storia,
scrive che la Morante ha proiettato nel libro, “con un’ansia espressiva abnorme”, le
sue esperienze autobiografiche: “la testimonianza della Morante, infatti, è talmente
evidente e una simile passione talmente rara nella letteratura contemporanea da
giustificare, secondo lo schema suaccennato dell’identificazione, la resa del
lettore”42. La “passione autobiografica” è messa al servizio di un’ideologia: l’istinto
vitale è contrapposto all’azione mortifera della Storia. Secondo Cases, dunque, tale
contrapposizione ha favorito l’identificazione del lettore, e a maggior ragione del
lettore di sinistra, con la visione pessimistica della Storia che pervade il racconto;
cosa che non sarebbe stata possibile senza il ‘68, l’influsso della Scuola di
Francoforte e la conseguente rivalutazione del pessimismo storico
schopenhaueriano.
Tuttavia, prosegue il critico, per quanto ci siano ottime ragioni per dubitare della
storia, questa visione pessimistica, per lo meno per coloro che sono ispirati da un
sentimento politico, dovrebbe essere accompagnata da una fiducia totale nella
propria capacità di azione. I personaggi della Morante però, schiacciati dai “mali”
(epilessia e ebraismo) e dalla povertà, non hanno la facoltà di agire e questa
impossibilità viene colmata dal grado di verità presente nel testo, che per Cases,
non è incompatibile con “l’impegno politico più convinto.”
“Nella Storia la predicazione del pessimismo storico ha per effetto primo
41 Ivi, pp.183 42 Ivi, pp.184
35
l’intrusione massiccia della Storia stessa. Non solo essa viene cronachisticamente
esposta negli inserti che precedono ogni parte ma diventa spesso l’oggetto della
narrazione e comunque ne costituisce lo sfondo, fino alla cura con cui la Morante
determina storicamente il costume, le canzonette di moda e i fatti e i personaggi
del giorno”43. La Storia, da questo punto di vista, condivide molti aspetti del
romanzo neorealista, e in un certo qual modo anche la visione politica; tuttavia, il
pessimismo storico, che nei grandi romanzi neorealisti risiedeva nella storia narrata,
in questo testo risiede nei suoi personaggi. Instaurando un ulteriore confronto con
Menzogna e Sortilegio, Cases nota come la tisi di Edoardo (personaggio di
Menzogna e sortilegio) sia una malattia realmente determinata nella storia, mentre
l’epilessia di Useppe, che potrebbe vivere benissimo se questa non sopravvenisse,
non sia “necessaria” ma “accidentale”, quindi decisa a priori dalla scrittrice. Il
critico, poi, giudica ancora più improbabile la morte per droga, poco comune
all’epoca, di Davide Segre, da lui considerato il personaggio più inverosimile della
narrazione. Si noti, a tal proposito, la parlata dialettale di questo, assai fuori luogo
per un intellettuale che, seppur in osteria, faccia discorsi ideologici: “egli partecipa
cioè, pur avendo altra estrazione e altre capacità, di quella predestinazione alla non
resistenza o alla resistenza puramente passiva di cui gli altri personaggi sono segnati
dalla nascita”44. Questa passività, secondo Cases, comporta una perdita di spessore
realistico.
Inoltre, il critico nota nel romanzo una discontinuità stilistica, che in una generale
gradevolezza d’insieme, tocca alcuni momenti più alti, di sospensione lirica della
narrazione come ad esempio la descrizione della fame di Roma, la passeggiata nel
ghetto vuoto e il treno che deporta gli ebrei, in cui al lettore è permessa
l’identificazione con il dolore del mondo.
Ne consegue che la Morante non abbia scritto questo libro, come da dedica, per gli
analfabeti; infatti, a detta di Cases, la scrittrice ha travisato il senso della poesia di
Cesar Vallejo che voleva incitare alla rivoluzione. La Storia, invece, non è un invito
43
Ivi, pp.187 44 Ivi, pp.189
36
ad agire ma piuttosto a rimanere inerti: “senza rivoluzione un libro non può parlare
agli analfabeti, né gli analfabeti hanno bisogno del messaggio della Morante. Sanno
già di essere vittime della storia e non vogliono sentirselo ripetere dalla menzogna
e sortilegio dell’arte”45.
Le posizioni dei due commentatori, come già detto, sono tra loro contrarie e di
natura diverse. Anzitutto, per Raboni La Storia è un libro che vuole parlare agli
“analfabeti” mentre per Cases questo, perché mancante di uno spirito
rivoluzionario, rappresenta il prototipo del romanzo borghese, scritto per chi ha già
avuto, dalla vita, il proprio riscatto sociale. Ne consegue dunque che Raboni
intraveda, nelle descrizioni e nella musicalità della parola scritta, una possibilità di
rivalsa dei personaggi che, proprio perché analfabeti e quindi sprovveduti di ogni
consolazione ideologica di un futuro cambiamento, riescono a trovare una loro
felicità nel presente. Cases, invece, non riconosce nella passività dei protagonisti la
condizione di partenza per una rivalsa “storica e sociale” ma piuttosto una
condanna: egli sottolinea l’impossibilità di questi personaggi di assumere spessore
realistico e quindi di prendere la propria rivincita sulla Storia. Si noti, dunque, come
per il primo, la scrittura della Morante faccia vivere i personaggi, a cui concede di
essere felici e come per il secondo, invece, li uccida, perché, vincolati dalla pagina
scritta, non hanno nessuna possibilità di migliorare la propria esistenza.
Risulta quindi difficile, per le diverse posizioni dei commentatori, tracciare il
pensiero dei “Quaderni” riguardo a questo romanzo; sembra dunque opportuno
limitarsi a dire che, probabilmente, la stessa redazione avesse opinioni discordanti
riguardo a La Storia della Morante. Lo stesso Bellocchio, infatti, che all’epoca della
sua pubblicazione era dalla parte della stroncatura, durante il nostro incontro ha
affermato di essersi tardivamente ricreduto su questo romanzo.
45
Ivi, pp.191
37
Dibattito sulla neoavanguardia italiana
La neoavanguardia italiana, durante gli anni della sua produzione, ha suscitato un
grande dibattito tra coloro che si occupavano di letteratura, a cui anche i “Quaderni
piacentini” prendono parte. Al numero 17-18 (Luglio-Settembre 1964) i “Quaderni”
riportano un intervento di Alberto Asor Rosa sulla neoavanguardia italiana su cui,
nonostante sia l’unico articolo sull’argomento tra i numeri presi in considerazione,
sembra necessario concentrarsi per chiarire meglio quale fosse l’idea di letteratura
portata avanti dai “Quaderni piacentini” e quindi concludere lo studio sui dibattiti
letterari delle pagine precedenti.
Il critico precisa sin da subito che è difficile trovare i modi giusti per accostarsi a
questo tema e decide, quindi, di indicare quali siano quelli sbagliati, espressioni di
un atteggiamento preconcetto e superficiale.
Il primo approccio da scartare è quello moralistico, adottato da una larga schiera di
intellettuali, che trova le sue basi in motivazioni di ordine personale e generazionale,
di cui è esempio l’atteggiamento di chi accusa la neoavanguardia di essere schiava
del sistema editoriale; infatti, pur essendo un dato di fatto che alcuni scrittori di
questa “corrente” conservino un rapporto assai stretto con forme e aspetti della
società capitalistica, tuttavia ciò non rappresenta per il critico un effettivo limite, dal
momento che molte altre scelte di tipo letterario ed artistico sono dipendenti da
questo stesso sistema. Dunque l’unico torto addebitabile ai neoavanguardisti
sembra quello di uscire troppo allo scoperto.
Il secondo modo che Asor Rosa scarta, per una corretta analisi della
neoavanguardia, è quello idealistico: i neoavanguardisti sono privi di qualsiasi
ideologia e di conseguenza lo sono anche i loro testi. Tale presa di posizione è, per
il critico, assolutamente priva di consistenza, perché esclude tutta una schiera di
scrittori, tra cui ad esempio Sanguineti, che invece fanno professione di ideologia.
Ma soprattutto è discutibile nella realtà contemporanea in cui l’adesione pura e
38
semplice ad un’ideologia non garantisce un automatico accrescimento delle
capacità personali di comprensione del mondo; dietro ad una qualsiasi ideologia,
polemizza Asor Rosa, si cela il volto del sistema capitalistico che funge da schermo
alla conoscenza. Più che accusare quindi la neoavanguardia di assenza di ideologia
è da “verificare se le nuove proposte metodologiche e conoscitive degli
avanguardisti funzionino oppure no, e se funzionino in un contesto di discorso che
possa ancora definirsi estetico”46.
Il rifiuto di questi due modi scorretti di giudizio porta a individuare quali sono invece
gli aspetti positivi dell’impegno avanguardistico: Asor Rosa riconosce agli
avanguardisti di essere i primi, almeno in Italia, che si sono preoccupati di risolvere
il problema dei rapporti tra cultura e società capitalistica. Per quanto la
neoavanguardia si proponga di rinnovare un sistema letterario in crisi, la consistenza
e la profondità dei suoi mezzi espressivi risultano però dubbie: “non può da un lato
nascostamente recuperare quello che da un altro butta a mare”47.
Il significato positivo di questa esperienza, che la accumuna all’avanguardia storica,
è il rifiuto di ogni forma prestabilita. Tuttavia, tale carattere dissacrante non è
accompagnato da uno spirito passionale di rivolta, che invece era presente nelle
“grandi avanguardie”, ma piuttosto da una vigile razionalità. Dietro a questa pars
destruens, si cela, quindi, una volontà ricostruttiva labile ed incerta, che perciò non
può dare vita a conoscenza ed arte. L’impressione generale che ne scaturisce,
secondo Asor Rosa, è che il “gruppo della neoavanguardia” non intenda portare a
termine alcune delle sue premesse profondamente avanguardistiche e questa
mancanza di audacia finisca per riflettersi negativamente sulle singole posizioni,
intellettuali e personali, a cui non giova, sicuramente, essere parte del gruppo.
La riuscita di un’esperienza letteraria, prosegue lo scrittore, e principalmente di
un’esperienza di tipo avanguardistico, deve essere misurata dal grado di tensione
che viene a crearsi tra la proposta innovatrice e le condizioni date dalla cultura in
46 ALBERTO ASOR ROSA, Alcune osservazioni sulla neoavanguardia italiana, in “Quaderni
Piacentini”, n.17-18, Luglio-Settembre 1964, pp.12 47 Ivi, pp.13
39
una precisa situazione storico-sociale. Ora è da indagare quanto agisca in questo
ambito la neoavanguardia: “una serie di dati testimonia che il grado di tensione
esistente tra il complesso delle proposte avanguardistiche e lo status storico,
sociale, ideologico e culturale sia molto basso, prima ancora che esso si sia provato
capace di dare qualche frutto serio anche sul piano poetico”48.
Facendo riferimento ad alcuni saggi presenti nel volume Gruppo 63, Asor Rosa
afferma che la nuova avanguardia più che proporre e definire quali siano gli
elementi di rottura della propria linea poetica si preoccupa, invece, di rassicurare il
lettore sulla temuta pericolosità di questa esperienza: alla rivolta contro la normalità
subentra sempre una nuova normalità. Una tale dichiarazione, per il critico, è
emblematica delle condizioni della cultura all’epoca, costretta al ruolo assegnatole
dal sistema capitalistico che ne limita l’espressività: per quanto la neoavanguardia
cerchi di discostarsi dalla tradizione, lo fa, se lo fa, entro i limiti di questo sistema,
non rompendone mai l’equilibrio. Ne consegue che dall’esperienza avanguardistica
non possa nascere un reale processo conoscitivo, se, come già accennato, si intende
per conoscenza qualcosa che eluda certi limiti prestabiliti.
Esaminando alcuni punti del convegno di Palermo e il volume Gruppo 63, che ne è
l’immediata espressione, si possono identificare da vicino quali siano i caratteri
essenziali della neoavanguardia; anzitutto, nota il critico, vi è la tendenza, “che è
propria di ogni gruppo desideroso di realizzare una nuova egemonia letteraria”49, di
raccogliere, attorno ad un nucleo centrale “di audaci sperimentatori”, le più svariate
personalità. Se da un lato, secondo il critico, queste differenze possono essere
stimolanti per una ricerca avanguardistica, dall’altro però una tale conformazione,
a causa delle diverse posizioni “ideologiche” dei suoi componenti, non permette di
formulare un giudizio unitario su questa esperienza. Il dialogo tra i diversi esponenti
si riduce al contrasto tra autonomia ed eteronomia dell’arte: da una parte vi son
coloro che credono in una poesia disimpegnata, che quindi non contenga messaggi
e sia pura forma, dall’altra vi sono quelli, come Sanguineti, che invece insistono
48
Ivi, pp.14 49 Ivi, pp.17
40
sull’impegno diretto di questa e il suo effettivo prendere parte alla storia.
Asor Rosa sottolinea qui come questi ultimi, che si presentano come i difensori di
una letteratura politicamente e socialmente impegnata, finiscano per cadere in
contraddizione: se si svolge un discorso antiletterario non si può esprimerlo con
strumenti letterari. Tuttavia, l’errore non è imputabile tanto agli scrittori quanto al
mezzo espressivo utilizzato, perché, “pre-confezionato” dallo stesso establishment
letterario, non può avere alcun carattere rivoluzionario.
In conclusione, il critico, riafferma quanto sia difficile, come da premessa, trovare
un giusto modo per affrontare il discorso sulla neoavanguardia: “la verità è che il
giudizio sulla neoavanguardia, […] la contrapposizione dei neoavanguardisti allo
establishment letterario, sono così difficili da formulare e da valutare perché manca
un accordo preliminare tra natura e funzione del fenomeno letterario ed artistico
dentro la società capitalistica”.50
Così il problema della neoavanguardia viene riportato su più ampia scala al
problema generale dell’impegno letterario e culturale all’interno della società
capitalistica: provocatoriamente Asor Rosa suggerisce che l’unico modo per una
rivoluzione letteraria, a cui i neoavanguardisti non sono ancora giunti, è il silenzio
della parola, quindi cessare di scrivere.
50 Ivi, pp.20
41
Conclusioni
I “Quaderni Piacentini” nascono dalla volontà di mettere per iscritto ciò che era già
oggetto di dibattito all’interno di un piccolo gruppo culturale, “Incontri di cultura”,
fondato a Piacenza da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi. In questi incontri
venivano spesso invitati intellettuali, già affermati nel panorama culturale
dell’epoca, ad intervenire su letteratura, politica e cinema. Tuttavia, i due giovani
piacentini, a cui più tardi si aggiungerà Goffredo Fofi, sentirono la necessità di dare
voce alle loro idee e, piuttosto che cedere la parola ad altri, di parlare in prima
persona, quindi fondarono i “Quaderni Piacentini”. Di conseguenza le personalità,
che prima intervenivano a “Incontri di cultura”, iniziarono a scrivere qualche articolo
per la rivista che pian piano guadagnò sempre più collaboratori. Durante l’intervista
concessami, Piergiorgio Bellocchio mi ha raccontato, con molta simpatia, come
all’inizio fosse un lavoro autogestito: “Si può dire che, inizialmente, i “Quaderni
Piacentini” fossero a conduzione familiare, facevamo tutto a casa mia, dalle riunioni
redazionali alla stampa a ciclostile e all’assemblaggio dei fogli”. Ricorda, inoltre:
“Noi, in prima persona, portavamo le copie alle librerie che le richiedevano.
Inizialmente la rivista era diffusa solo a Piacenza e a Milano, successivamente, grazie
anche alla collaborazione con i “Quaderni Rossi”, si sono aggiunti lettori a Torino,
poi i “Quaderni” hanno preso piede a Roma, Napoli, e qualche copia veniva
distribuita anche a Palermo; nel giro di pochi anni abbiamo raggiunto una diffusione
nazionale”. I “Quaderni piacentini” nascono sulla scia dei “Quaderni rossi” con cui
avevano molte idee in comune. Tuttavia se i “Quaderni Rossi” seguivano una linea
politica di stampo operaista, i “Quaderni Piacentini”, pur rifacendosi ad
un’impostazione di base marxista, non hanno mai avuto una linea politica esclusiva.
La matrice ideologica della rivista, oltre che negli articoli prettamente “politici”, è
evidente anche nelle pagine che si occupano di letteratura; infatti, come già
accennato nel capitolo “Rubriche e inserti letterari”, il contenuto delle sezioni
letterarie, che avevano nella rivista una funzione di contorno, era solitamente
42
subordinato a ragioni ideologiche, sulle quali, oltre che sui gusti dei singoli redattori,
era fondata anche la rubrica “dei libri da leggere e da non leggere”. Infatti,
attraverso un preliminare spoglio dei titoli “da Leggere”, si può notare che i nomi di
Marx e Lenin ricorrono molto spesso; a conferma di quanto detto, Piergiorgio
Bellocchio, durante il nostro incontro ha precisato: “Onestamente molti titoli che
all’epoca abbiamo messo al bando, oggi, invece, li etichetterei come “da leggere,
assolutamente”. Tuttavia all’epoca, era per noi importante il ruolo che ricopre la
sovrastruttura nella società: per questo, oggi, mi sento di consigliare ai ragazzi di
leggere meno Marx e di interessarsi di più ad autori come Balzac o Dickens, che
inseriscono la realtà in un contesto narrativo, al contrario del primo che invece
affronta il problema da un punto di vista teorico e filosofico”. Per i redattori dei
“Quaderni”, la letteratura doveva farsi portatrice di impegno ideologico e
contribuire allo sviluppo sociale; la promozione di Lettera ad un professoressa ne è
un esempio, così come lo è la stroncatura della produzione neoavanguardistica.
Nonostante nelle pagine precedenti sia stato analizzato solo il commento di Asor
Rosa sulla neoavanguardia il dibattito che ne ha accompagnato la storia, è stato
acceso e anche i “Quaderni piacentini” vi hanno partecipato. Alla domanda su quali
fossero i rapporti tra i “Quaderni” e la neoavanguardia, durante il nostro incontro,
Bellocchio ha così risposto: “Noi non abbiamo mai apprezzato l’operato della
neoavanguardia italiana, inteso come movimento unitario e quindi come Gruppo
’63. Il loro limite stava principalmente nell’essere un’accozzaglia di autori, più
apprezzabili se presi singolarmente che come gruppo. La neoavanguardia, almeno
in Italia, non ha prodotto nulla di nuovo ma si è manifestata come una bieca
rimasticatura di altre esperienze precedenti, il surrealismo ad esempio. Dal punto
di vista politico, se si parla di autori impegnati, quindi Balestrini e il, seppur giovane,
Sanguineti, avevamo idee totalmente discordanti: una buona parte dell’avanguardia
balestrina si muoveva sulla scia di “Potere operaio”, Sanguineti era iscritto al “Partito
Comunista”, e per noi, che non eravamo legati a partiti, risultavano troppo
dogmatici. La restante parte era, invece, contestabile proprio perché non credeva
in un impegno sociale dell’arte”. Le posizioni dei redattori risultano invece, dai
43
commenti analizzati, diverse e persino contrarie, su La Storia di Elsa Morante: se per
Raboni, infatti, il testo è caratterizzato da una forte carica ideologica per Cases,
invece, ne è privo.
I contenuti di argomento letterario, che, come già detto, non hanno una regolarità
di uscita nella rivista, rivestono, quindi, una funzione di contorno agli argomenti
politici. Dallo studio effettuato su inserti e rubriche, però, emerge chiaramente,
tuttavia, la funzione che i “Quaderni piacentini” attribuiscono alla letteratura.
Quest’ultima, infatti, non può rinchiudersi nella gabbia dorata della pura letterarietà
ma deve, per farsi utile, calarsi nella realtà sociale del suo tempo.
44
Bibliografia
Convegno sui “Quaderni Piacentini”, sito web: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~zucchi/contatti.html ELISABETTA MONDELLO, Gli anni delle riviste, le riviste letterarie dal 1945 agli anni Ottanta, Lecce, Milella, 1985. ELSA MORANTE, La Storia, Torino, Einaudi, 2009. Lettere di Don Milani, priore di Barbiana, a cura di MICHELE GESUALDI, Mondadori, 1970. LUCA BARANELLI e GRAZIA CHERCHI, Antologia dei “Quaderni Piacentini”, Milano, Gulliver, 1974. NANNI BALESTRINI e PRIMO MORONI, L’orda d'oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, Feltrinelli, 1997.
PIERPAOLO PASOLINI, Ragazzi di vita, Milano, Garzanti, 1955. Prima e dopo il ’68, Antologia dei “Quaderni Piacentini”, a cura di GOFFREDO FOFI E
VITTORIO GIACOPINI, Pavona (Roma), Minimum Fax, 2008. “Quaderni piacentini”, Piacenza, 1962-1980. ROMANO LUPERINI, Il Novecento: apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, vol.2, Torino, Loescher,1982.
SCUOLA DI BARBIANA, Lettera ad una professoressa, Einaudi, 1967.
45
Ringrazio Piergiorgio Bellocchio per l’importantissimo contributo
a questa tesi, per la stimolante chiacchierata e per avermi dato
la possibilità di vivere, in un pomeriggio, scorci di un’altra
epoca. Ringrazio soprattutto chi con impegno e pazienza mi ha
sostenuto durante il lavoro e chi ha corso insieme a me fino a
questo traguardo.