il governo delle acque in puglia. dagli anni settanta a oggi

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IV Il governo delle acque in Puglia. Dagli anni Settanta a oggi di Antonio Bonatesta * Una “transizione lunga” All'inizio degli anni Settanta del Novecento, l'immagine e la realtà di una Puglia «sitibonda», di una regione povera di risorse idriche da dedicare al soddisfacimento dei bisogni delle popolazioni, alle avvertite esigenze di trasformazione agraria e allo sviluppo di nuove attività industriali, era ancora largamente presente nel discorso pubblico e nel dibattito tecnico e politico. Gli sforzi compiuti a partire dagli inizi del secolo per la costruzione dell'Acquedotto Pugliese, una delle opere più ambiziose al mondo in tema di governo delle acque, se da un lato avevano posto un argine alla «grande sete» della Puglia, dall'altro non avevano potuto dirimere in maniera definitiva i nodi principali della complessa situazione di deficit idrico della regione1. Alla base del tentativo dell'uomo di sottrarsi ai vincoli ambientali e alla scarsità di acqua rimanevano, ancora 1 *Dottorando in “Studi Storici, Geografici e delle Relazioni Internazionali” presso l’Università del Salento; sta svolgendo la tesi dottorale dal titolo Integrazione europea e processo di regionalizzazione. Il caso pugliese (1975- 1993). Cfr. G. Barone, a cura di, Le vie del Mezzogiorno. Storia e scenari, Roma 2002.

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IV Il governo delle acque in Puglia. Dagli anni Settanta a oggi di Antonio Bonatesta*

Una “transizione lunga” All'inizio degli anni Settanta del Novecento, l'immagine e la realtà di una Puglia «sitibonda», di una regione povera di risorse idriche da dedicare al soddisfacimento dei bisogni delle popolazioni, alle avvertite esigenze di trasformazione agraria e allo sviluppo di nuove attività industriali, era ancora largamente presente nel discorso pubblico e nel dibattito tecnico e politico.

Gli sforzi compiuti a partire dagli inizi del secolo per la costruzione dell'Acquedotto Pugliese, una delle opere più ambiziose al mondo in tema di governo delle acque, se da un lato avevano posto un argine alla «grande sete» della Puglia, dall'altro non avevano potuto dirimere in maniera definitiva i nodi principali della complessa situazione di deficit idrico della regione1. Alla base del tentativo dell'uomo di sottrarsi ai vincoli ambientali e alla scarsità di acqua rimanevano, ancora 1 *Dottorando in “Studi Storici, Geografici e delle Relazioni Internazionali”

presso l’Università del Salento; sta svolgendo la tesi dottorale dal titolo Integrazione europea e processo di regionalizzazione. Il caso pugliese (1975-1993).

Cfr. G. Barone, a cura di, Le vie del Mezzogiorno. Storia e scenari, Roma 2002.

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nell'ultimo trentennio del secolo, le condizioni fisiche e climatiche del territorio pugliese, la presenza poco significativa e limitata a ristrette aree di fiumare dal carattere torrentizio, con portate incerte e incostanti, e gli stessi fenomeni siccitosi ricorrenti. Come è stato già ampiamente ricostruito, l'insieme di questi elementi aveva nel tempo contribuito ad orientare l'intervento pubblico, le aspettative e le stesse pratiche di approvvigionamento delle popolazioni pugliesi verso due principali forme di appropriazione della risorsa idrica: da una parte, l'adduzione sul territorio regionale di acque disponibili solo al di fuori dei suoi confini attraverso la strategia degli “schemi idrici”, vale a dire la costruzione da parte dello Stato e delle sue tecnostrutture di complessi sistemi di opere idrauliche necessarie al superamento delle distanze tra fonti di approvvigionamento e utilizzatori finali; dall'altra, la ricerca e lo sfruttamento sempre più consistente dell'unica risorsa disponibile sul territorio regionale, i corpi idrici sotterranei, presenti in una certa misura nel sottosuolo pugliese per l'insistere di fenomeni carsici in particolari aree quali il Salento, le Murge, il Tavoliere e il Gargano.

Sin dal Secondo dopoguerra, gli enti tecnici legati alla Cassa per il Mezzogiorno – in primo luogo l'Ente per l'Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria in Puglia, Lucania e Irpinia (Eipli) – avevano posto la correlazione tra adduzione extraregionale ed emungimento dagli acquiferi sotterranei alla base del tentativo di rifornire la Puglia di acqua. Secondo i progetti e i calcoli svolti dai tecnici dell'intervento straordinario le quantità di acqua drenate dai corpi idrici sotterranei e dalle sorgenti pugliesi avrebbero dovuto costituire una riserva sussidiaria e complementare alle disponibilità offerte dal trasporto

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extraregionale, in modo da conservare uno sfruttamento equilibrato della risorsa tanto nei luoghi da cui l'acqua veniva addotta, quanto nel sottosuolo pugliese, che non avrebbe potuto reggere da solo l'urto del crescente fabbisogno civile, irriguo e industriale della regione. Ma accanto alla strategia statale dei grandi trasferimenti idrici si era venuta definitivamente configurando anche un'altra forma di controllo delle acque, parallela, latente, ovvero quella della sussistenza locale. Se agli inizi del Novecento i primi pozzi erano stati scavati «di notte, quasi si temesse la reazione della comunità al sacrilegio»2, a partire dalla seconda metà del secolo la pratica delle trivellazioni non solo si era diffusa su vaste aree del territorio regionale e si era legittimata socialmente con «l'esigenza del bere», ma i miglioramenti tecnici ne avevano fatto un mezzo largamente accessibile a vasti strati di popolazione, suscettibile di fornire volumi d'acqua a costi più convenienti rispetto alle distribuzioni acquedottistiche, di accendere rapidi processi di emulazione e, non ultimo, di alimentare vasti e incontrollati fenomeni di abusivismo. Così, se da un lato la trivellazione di migliaia di nuovi pozzi, pubblici ma soprattutto privati, aveva in pochi decenni contribuito a soccorrere le esigenze idriche delle popolazioni pugliesi, a modificarne le pratiche legate al consumo e ad innescare processi di trasformazione irrigua nelle campagne, dall'altro emergevano con evidenza i guasti della sempre più consistente pressione sulle risorse idriche del sottosuolo.

Il lasso di tempo che dagli anni Settanta del Novecento corre fino ai nostri giorni ha assistito a fenomeni di sempre più

2 Cfr. F. Orlando, I dolori della Puglia, in «Nord e Sud», a. XX, n. 168 (229),

1973, p. 20

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evidente compromissione di questa fragile equazione tra acqua dallo Stato e acqua dal sottosuolo. La storia del governo delle acque in Puglia e della sostenibilità nell'uso della risorsa negli ultimi decenni si può infatti leggere proprio a partire dalle vicende di questo “spazio invisibile”, del paesaggio nascosto delle acque sotterranee, che fornisce la cartina di tornasole della strategia dei grandi schemi di infrastrutturazione idraulica e ne restituisce le contraddizioni e i ritardi nell'eccessivo affidamento sulle falde acquifere, nel depauperamento del loro patrimonio e nei conseguenti quanto irreversibili processi di desertificazione innescati dall'ingressione di acqua salata nelle cavità del sottosuolo3.

Il tentativo, posto dai governi e dai saperi esperti, di mantenere l'equilibrio tra queste due modalità di approvvigionamento destinate a reggere la complessa situazione del deficit idrico regionale avrebbe registrato in questi ultimi quarant'anni un sensibile spostamento strategico dall'opzione di aumentare le volumetrie di acqua a disposizione degli schemi idrici – inseguendo la spirale dei fabbisogni crescenti innescati dai processi di sviluppo e la stessa voracità delle destinazioni irrigue – a quella di regolare un utilizzo equilibrato e sostenibile tra i diversi usi civili, agricoli e industriali4. In mezzo a questa “transizione lunga” c'è un punto di rottura che inerisce direttamente il rapporto instaurato dall'uomo con le risorse che garantiscono la sussistenza dei sistemi sociali ed economici di cui è protagonista. La rottura è avvenuta lungo problematiche

3 Cfr. A. Sole, Energia in movimento. Gli eccessi del ciclo idrologico nell'Italia di oggi, in V. Teti, a cura di, Storia dell'acqua. Mondi materiali e universi simbolici, Roma 2003, p. 269-282.

4 Cfr. A. Massarutto, L'acqua. Un dono della natura da gestire con intelligenza, Bologna 2008.

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quali il degrado degli ecosistemi acquatici e l'esaurimento dei corpi idrici superficiali dovuto all'impatto delle grandi infrastrutture idrauliche di accumulo e trasferimento; il consumo di suolo e della relativa sedimentazione di valori e di interessi antropizzati portato dall'allagamento di vaste aree per la costruzione degli invasi; il degrado delle falde sotterranee; la consunzione del consenso sociale e dei valori etici posti alla base della formulazione e dell'attuazione delle politiche e dei progetti di gestione dell'acqua5. In definitiva, la rottura ha agito in direzione della manifestazione del problema acqua come problema del governo di una risorsa finita e limitata.

L'insieme di questi elementi restituisce una serie di trasformazioni nelle politiche, nelle progettualità e nelle pratiche che sono prima di tutto mutamenti di ordine culturale, nelle mentalità e nelle sensibilità. Per questo motivo una storia dell'acqua è necessariamente una storia dai tempi lunghi, dai confini labili a dalle periodizzazioni porose, laddove processi che giacciono sotterranei e latenti emergono in occasione dei conflitti ecologici e si condensano al momento degli interventi normativi.

Il conflitto, «laboratorio di analisi per comprendere le trasformazioni ecologiche e le loro relazioni con i mutamenti sociali ed economici»6, esplicita lo scontro e le discrasie esistenti tra saperi scientifici e pratiche consuetudinarie, tra gli stessi saperi esperti per il controllo delle tecnostrutture da cui agire le politiche idriche, tra gruppi di utenti, tra enti, istituzioni, parti dello Stato e organismi sovranazionali per stabilire le modalità

5 Cfr. Dichiazione europea per una nuova cultura dell'acqua, in www.gruppo183.org, consultato il 20 aprile 2011.

6 Cfr. M. Armiero, S. Barca, Storia dell'ambiente, cit.

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e i criteri d'uso della risorsa. Non è un caso, del resto, se la “transizione lunga” nel governo delle acque in Puglia e nel Mezzogiorno si apra, negli anni Settanta, con la regionalizzazione dello Stato, che immette artificiosi confini amministrativi nella gestione di una risorsa in movimento come l'acqua, continui con l'incipiente crisi delle politiche infrastrutturali agite dallo Stato sul territorio attraverso le leve dell'intervento straordinario e si accompagni al progressivo emergere e consolidarsi dei processi di governance europea che stringono assieme i centri di governo ordinario espressi dagli organismi comunitari, dallo Stato e dalle Regioni. Allo stesso tempo, questi riassestamenti adattivi di carattere istituzionale si producono unitamente alla comparsa di istanze nuove e all'esaurimento della funzione storica di altre, come quando i due successivi episodi colerici avvenuti in Puglia tra il 1973 ed il 1994 avrebbero sancito il passaggio di consegne tra le priorità dell'approvvigionamento e l'esplodere di una questione ambientale legata alla gestione dell'altra faccia del rifornimento idrico, ovvero lo smaltimento delle acque reflue rilasciate dal consumo urbano e industriale.

Come detto, i tempi lunghi investono anche il momento legislativo. I provvedimenti normativi registrano i mutamenti culturali e imprimono prospettiva alle politiche ma devono misurarsi con il momento della traduzione concreta nei piani, nei programmi, nella messa a punto dei meccanismi giurisdizionali di controllo, nei ritardi con cui i corpi burocratici e le strutture tecniche ne acquisiscono la portata modificando i profili di competenze presenti al loro interno e superando le resistenze e i contraccolpi prodotti da chi, a tutti i livelli, risulta essere destinatario di quelle norme. Non sorprende pertanto

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che la prima stagione di produzione di questi profondi cambiamenti, compresa tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, abbia cominciato a imprimere un segno effettivo sul territorio solo ai giorni nostri. Oggi, le falde sotterranee rappresentano in gran parte ancora quello spazio “invisibile” e “irresponsabile” degli anni Settanta del Novecento, gravato dalle pressioni antropiche dell'emungimento e dello scarico dei liquami. Dall'altro lato, l'equazione tra acqua dallo Stato e acqua dal sottosuolo non è stata ancora definitivamente risolta. Tuttavia, oggi, a distanza di quarant'anni, esistono nuovi strumenti di intervento calibrati su culture, pratiche e immaginari considerevolmente differenti, a partire da una sensibilità diffusa per una risorsa che, come l'acqua, è un bene prezioso, limitato e di tutti.

La strategia degli schemi idrici tra regionalizzazione e crisi dell'intervento straordinario

All'indomani delle elezioni del 7 giugno 1970 per la costituzione dei primi consigli regionali, l'insieme degli aspetti legati al governo delle acque nel Mezzogiorno era demandato alla presenza di una serie di enti, dotati di differenti competenze. La gestione del problema idrico, difatti, non poggiava su di una visione di insieme dei diversi aspetti legati all'approvvigionamento, agli usi e allo smaltimento delle acque, né era strutturata su una direzione univoca. Da tempo sul territorio regionale insisteva l'Ente Autonomo Acquedotto Pugliese (Eaap), cui era affidato il delicato nodo del rifornimento idrico delle popolazioni e la responsabilità di affiancare i comuni nella costruzione e nella gestione dei sistemi

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fognari. Nonostante tra i compiti istituzionali dell'Eaap rientrassero non soltanto acquedotti e fognature ma anche le dotazioni irrigue, la creazione sin dal 1947 di una struttura come l'Eipli denotava la volontà di affidare all'acqua un ruolo propulsivo nella trasformazione delle campagne meridionali e di attribuire all'irrigazione una dimensione di assoluta centralità nell'agenda politica e programmatica degli anni Cinquanta e Sessanta. L'Ente Irrigazione aveva ben presto trovato una propria collocazione nell'ambito dell'intervento straordinario, ponendosi in una posizione intermedia tra la Cassa per il Mezzogiorno e i preesistenti consorzi di bonifica. Nei trentadue anni compresi tra l'istituzione e il commissariamento – intervenuto nel 1979 – l'Eipli rappresentò, nel contesto dell'intervento straordinario, una delle strutture cardine del governo della risorsa idrica nei territori della Puglia, della Basilicata e dell'Irpinia, agendo in stretta correlazione con il Servizio Acquedotti e Fognature (SAF) della Cassa per il Mezzogiorno e garantendo la sussistenza di una visione interregionale nella gestione di buona parte di bacini idrografici che dalla dorsale appenninica diramano verso l'Adriatico e lo Ionio.

La presenza dei due enti disegnava, dunque, non solo una decisa divisione di competenze nella gestione dei diversi usi idrici e dei relativi fabbisogni ma finiva di fatto con l'assegnare alle destinazioni irrigue e al problema dell'irrigazione in generale una condizione di preminenza rispetto alla questione dell'approvvigionamento potabile.

Non solo l'Eaap aveva vissuto la creazione dell'Eipli come una duplicazione e, al tempo, un ridimensionamento del proprio mandato istituzionale, ma i due enti erano portatori di visioni e

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strategie differenti. Mentre l'Acquedotto Pugliese, infatti, puntava all'acquisizione di acque di derivazione sorgentizia da addurre nelle proprie condotte, come quelle disponibili nel bacino del “Destra Sele” in Campania, l'Eipli si era fatto invece portatore di un disegno alquanto diverso, basato sul recupero delle suggestioni e dei progetti elaborati nei primi decenni del Novecento nell'ambito della Commissione Reale e, più tardi, dai tecnici della bonifica integrale per lo sbarramento di alcuni fiumi come il Fortore, tra Puglia e Molise, l'Ofanto, tra Campania e Puglia, il Bradano e l'Agri in Basilicata, e la conseguente creazione di altrettanti invasi artificiali per l'accumulo di acque da destinare all'agricoltura.

La derivazione del problema dell'uso potabile dalle politiche infrastrutturali poste in essere per servire l'irrigazione e la trasformazione colturale ed economica delle campagne apparve in tutta la sua chiarezza poi, quando nel 1963 si era trattato di individuare l'organismo responsabile della compilazione dei piani acquedottistici di Puglia e Basilicata, da ricomprendere nel Piano Generale degli Acquedotti. Così, se nel 1947, in occasione della creazione dell'Eipli, l'Acquedotto Pugliese aveva subito – come ebbe a scrivere un consigliere di amministrazione dell'Eaap – «la superiore volontà», nel 1963 l'ente rimase «quanto meno esterrefatto ed incredulo quando per la compilazione del Piano Generale degli Acquedotti non si ricorse, come era naturale ed ovvio, alla sua indiscussa capacità, collaudata da decenni di studi, progetti, costruzione e gestione di opere grandi idriche e fognanti, bensì al nuovo Ente Irrigazione» 7 . Il Piano del 1963 in sostanza registrava un definitivo punto di svolta nella gestione del problema idrico 7 Ivi, p. 42.

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meridionale, segnando la dipendenza dell'intero problema dell'approvvigionamento idrico dalle strategie poste in essere per il soddisfacimento dei fabbisogni irrigui, la centralità degli organismi legati alla Cassa e la marginalizzazione dell'Acquedotto Pugliese, rimasto invece sul «doppio binario dell'intervento ordinario e straordinario» 8 . La scelta, di conseguenza, portava ad una decisa accelerazione lungo l'opzione dei grandi invasi artificiali, a scapito del potenziamento di volumetrie di derivazione sorgentizia. Una strategia di questo tipo – approfondita dal successivo Piano generale delle irrigazioni del 1965 che l'Eipli cominciò a redigere nel mentre si apprestava a chiudere la pianificazione degli acquedotti – era dettata, del resto, anche dalla necessità di supportare con maggiori portate le iniziative di sviluppo industriale intraprese sul territorio regionale dopo il 1957, nell'ambito della una nuova fase dell'intervento straordinario orientata alla creazione dei cosiddetti “poli di sviluppo”. «L'Acquedotto pugliese perde il Destra Sele – scriveva nel 1968 il Caruso – come è stato sempre sognato dalla Puglia, anche se non del tutto ed a lungo termine; e di contro a breve termine deve conquistare gli acquedotti di Pietra del Pertusillo e del Fortore dai laghi artificiali» 9 . Attorno alla metà degli anni Sessanta l'Ente Irrigazione e i consorzi di bonifica avevano infatti portato a termine gli invasi del Pertusillo, sull'Agri, e quello di Occhito, sul Fortore, fulcro di un disegno complessivo in cui usi irrigui, industriali e civili erano destinati a condividere le stesse volumetrie. La scelta di privilegiare la strategia degli invasi a scapito dell'adduzione di acque di

8 Ivi, p. 37. 9 Ivi, p. 43.

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sorgente, tuttavia, poneva in prospettiva un duplice ordine di problemi: in primo luogo, la necessità di costruire ex novo le opere di adduzione delle acque a partire dagli invasi; in secondo luogo, la qualità di queste nuove disponibilità idriche, più bassa rispetto alle acque di sorgente, non le rendeva direttamente utilizzabili per gli usi civili e costringeva l'Acquedotto Pugliese a costruire a sua volta una serie di impianti di potabilizzazione che avrebbero finito con il dilatare ulteriormente la spesa e i tempi di infrastrutturazione. Basti pensare che mentre la diga e l'invaso del Pertusillo erano stati ultimati nella prima metà degli anni Sessanta, le relative opere di adduzione e potabilizzazione sarebbero state completate solo un decennio più tardi, nel 1974.

Ma le strategie dell'Eipli e dell'Eaap divergevano anche in ordine all'utilizzo possibile dei corpi idrici sotterranei, presenti in diverse aree della Puglia. L'Eaap aveva sempre guardato all'utilizzo delle acque di falda come ad una disponibilità meramente ausiliaria, a causa delle portate incostanti, dell'alto rischio di degradabilità della risorsa e dei discreti tassi di salinità tipici dei giacimenti più vicini alle coste, caratteristica che rendeva queste acque meno idonee all'uso potabile. «L'acqua di pozzo trivellato è accettata dall'utenza con rassegnazione e come il male minore rispetto all'assoluta carenza del bene tanto essenziale – riportava Vincenzo Caruso – [mentre] non è accettata dall'utenza già abituata all'acqua di Caposele, fino alla resistenza e ad un pericolo nell'ordine pubblico»10. Tuttavia, al 1972, per far fronte alla situazione di grave deficit idrico di alcune aree, l'Acquedotto Pugliese aveva integrato nella sua rete le disponibilità di acquedotti locali 10 Ivi, p. 307.

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preesistenti al suo arrivo, come quelli di Gallipoli, di Lecce-Guardàti – chiuso nel 1959 – e del Triglio di Taranto, tutti serviti da acque del sottosuolo, nonché le portate di ulteriori 45 pozzi, creati dall'ente tra il 1957 ed il 1972 e dislocati prevalentemente nelle province di Lecce e di Foggia, dove maggiori erano le disponibilità dei corpi idrici sotterranei. Tra il 1957 ed il 1972, infatti, l'Eaap aveva direttamente provveduto a trivellare o scavare nella provincia di Lecce 15 nuovi pozzi, le cui portate rappresentavano ben il 67,15% del volume complessivo di acqua erogato dall'Acquedotto Pugliese in quella provincia. Nello stesso periodo, dai 12 pozzi di Foggia l'ente aveva ricavato il 13,3% dei volumi complessivamente erogati, dai 5 di Brindisi il 12,1%, dai 6 di Taranto il 5,2% e dai 7 di Bari il 2,25%. Da un punto di vista quantitativo, l'utilizzo delle acque di falda per il soddisfacimento del fabbisogno civile pugliese, dunque, era passato dai quasi tre milioni di metri cubi del 1957 ai 43 milioni di metri cubi del 197211.

Assai più onerosa era invece la centralità assegnata dall'Eipli ai corpi idrici sotterranei della Puglia. Si è visto infatti come con l'istituzione dell'ente e, nel 1950, della Cassa per il Mezzogiorno, si fosse dato un forte impulso alla ricognizione e allo sfruttamento delle falde acquifere, beneficiando del vantaggio offerto dalle nuove tecniche di indagine e di perforazione. Simili ricerche erano funzionali all'obiettivo di una trasformazione colturale delle campagne pugliesi da raggiungersi tramite maggiori disponibilità idriche fornite dall'irrigazione, e spingevano l'Eipli a diffondere la pratica di quelle colture più tolleranti la salinità delle acque di falda, come il carciofo, il pomodoro, l'uva da tavola, l'olivo, la vite e gli 11 Ivi, p. 313.

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ortaggi. In secondo luogo, il Piano Generale dell'Irrigazione, redatto nel 1965 sotto la presidenza del lucano Decio Scardaccione, assegnava un ruolo di primaria importanza alle riserve idriche sotterranee, in funzione integrativa rispetto alle disponibilità garantite dalla costruzione degli invasi. Nello specifico, la chiave di volta del Piano consisteva nell'obiettivo di ottenere una mescita delle acque provenienti dagli invasi con quelle degli acquiferi sotterranei – di modo da abbassare il tasso di salinità di queste ultime – configurando così l'ipotesi di utilizzare in Puglia, Basilicata e Irpinia acque dal sottosuolo per «almeno un miliardo di metri cubi annui, tenendo conto delle possibilità di rimpinguamento della falda». Sul territorio pugliese questo era possibile grazie ad un complesso di più di 15 mila pozzi, prevalentemente destinati all'uso irriguo, di cui 3.274 collocati nelle tre province di Lecce, Taranto e Brindisi, 2.500 nel territorio delle Murge, 310 nel Gargano e 9.505 in alcune aree del Tavoliere e del Subappennino Dauno12.

Agli esordi degli anni Settanta, dunque, l'insieme di questi elementi definiva in Puglia una situazione generale dell'approvvigionamento idrico in cui netto era lo squilibrio a favore di un consumo irriguo destinato ad insistere sulle stesse fonti di approvvigionamento del consumo potabile e a gravare in maniera consistente sulle risorse idriche endogene rappresentate dagli acquiferi sotterranei. Nel solo 1973, infatti, sul territorio pugliese erano stati utilizzati volumi di acqua per complessivi 810 milioni di metri cubi, ripartiti per il 50,37% ad uso irriguo, per il 30,12% ad uso civile e per il restante 19,5% ad

12 Cfr. D. Santovito, T. Napoli, A. Trimigliozzi, La evoluzione nel tempo..., cit., p.

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uso industriale13. Dei circa 408 milioni di metri cubi destinati all'irrigazione, 59 milioni provenivano da acque di superficie, 278 milioni da acque sotterranee e circa 71 milioni da acque di invaso 14 . Il rilevante ricorso dell'agricoltura alle riserve sotterranee era determinato non solo dalla pianificazione e dalle scelte operate dall'intervento straordinario ma vi contribuiva in misura rilevante anche il dinamismo dell'iniziativa privata, sulla scorta degli avanzamenti nelle tecniche di trivellazione e di un sostanziale sentimento di diffidenza verso i tempi di attesa cui erano soggetti i grandi schemi idrici. «“L'acqua arriva domani”, lo senti dire dai contadini raccolti nella piazza di Altamura – riferiva un commentatore alla metà degli anni Settanta – [mentre] le stesse parole rimbalzano nelle viuzze di altri paesi, di Sant'Agata di Puglia, di Minervino Murge e ancora di Spinazzola e di Gravina. “L'acqua arriva domani”, ma non sai se in questa esclamazione c'è più ironia o speranza o sfiducia»15. L'incidenza del prelievo privato sulle acque di falda era pertanto rilevante: dei 335 milioni di metri cubi annui impiegati nel 1973 dai soli impianti privati per le operazioni di irrigazione, il 10,1% proveniva da acque fluenti, l'89,55% proveniva dalle acque sotterranee e il restante 0,35% proveniva da piccole opere di invaso o da laghi artificiali. Nonostante l'avvertita consapevolezza dei tecnici dell'Eipli e degli stessi enti di sviluppo agricolo sul rischio di una «bomba salmastra» – come venne definita16 – ovvero che un eccessivo ricorso alle

13 Cfr. G. E. Marciani, La situazione delle utilizzazioni idriche nel Mezzogiorno,

cit, p. 90. 14 Ivi, p. 69. 15 Cfr. A. Spinosa, Dentro la Puglia (1), in «Nord e Sud», a. XXIII, n. 15 (257),

1976, p. 71. 16 Cfr. L. Branco, La nuova agricoltura leccese. Irrigazione: effetti e problemi, in

AA.VV., Profili produttivi delle province italiane. Lecce, Lecce 1981, p. 65-78.

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falde acquifere avesse potuto alterare il loro equilibrio e favorire l'ingresso di acqua marina nelle cavità del sottosuolo, il peso della componente privata nella pratica dell'irrigazione tramite la trivellazione di pozzi delineava da parte delle popolazioni pugliesi un profilo di adattamento al deficit regionale, un sottosistema spontaneo di controllo delle risorse, organizzato dal basso e alimentato dalle tante incertezze sulla strada della costruzione delle grandi opere di infrastrutturazione idrica. Un fenomeno dunque molto complesso da ricomprendere in un coerente processo di governo e di programmazione.

L'equazione tra acqua dallo Stato e acqua dal sottosuolo avrebbe richiesto pertanto efficacia nelle diverse forme dell'intervento pubblico, uno stretto coordinamento tra i diversi livelli istituzionali, tra i centri decisionali dell'intervento straordinario e di quello ordinario e, infine, tra le diverse competenze chiamate al governo dalle acque. Tuttavia, trasportare milioni di metri cubi di acqua lungo chilometri di condutture significava prima di ogni cosa che, all'ansia di liberazione dalla penuria di acqua delle popolazioni, ai progetti e alla pianificazione della politica e dei saperi esperti, si sarebbero presto opposti i «tempi storici» delle grandi opere. Tempi lunghi e distanze lunghe comportavano una serie di problemi già ampiamente ascritti nell'agenda politico-programmatica degli anni Settanta.

In primo luogo, prima ancora che i vantaggi legati alla creazione di una nuova diga, di un nuovo invaso, di nuove opere di adduzione potessero beneficiare gli schemi idrici del Mezzogiorno e in particolare le loro diramazioni pugliesi, accumulare ritardi significava esporsi alle problematiche legate

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alla consunzione e alla progressiva inadeguatezza delle opere di canalizzazione e degli acquedotti già esistenti – in particolare delle condotte principali dell'Acquedotto Pugliese costruite nella prima parte del Novecento – e alla conseguente dispersione di acqua lungo il trasporto. «L'acqua viaggia cinque giorni dalle sorgenti di Caposele fino a Santa Maria di Leuca – dichiaravano i responsabili dell'Eaap – e c'è una condotta sola: per ripararla, bisogna chiudere l'erogazione»17. Di fatto, già a partire dagli anni Settanta le quantità di acqua immesse nelle condutture che non avrebbero mai raggiunto i centri ed i nuclei abitati della Puglia superavano soglie del 30% mentre rimanevano irrisolte le forti criticità nella normalizzazione dell'approvvigionamento idrico delle popolazioni. Nel 1975, su una popolazione pugliese di oltre tre milioni e mezzo di abitanti, la disponibilità di acqua per usi civili era stata di circa 244 milioni di metri cubi l'anno, corrispondente al 55,2% del fabbisogno civile, calcolato in 443 milioni di metri cubi annui. Dei 760 centri e nuclei abitati rilevati in Puglia al 1975, 541 erano dotati di acquedotto, mentre i restanti 219 ne erano sprovvisti. Dei primi, solo 147, vale a dire una popolazione pari a 716.908 abitanti, ricevevano dalle condotte acqua a sufficienza, mentre i restanti 2.721.532 accusavano una condizione di scarsità d'acqua18. La parte di popolazione che, nelle diverse province, era costretta a fronteggiare nei mesi primaverili ed estivi situazioni di insufficiente erogazione si attestava su livelli piuttosto alti: nella provincia di Taranto arrivava al 43,3%, in quella di Foggia al 47,4%, nel leccese al 56,8%, nella provincia di Brindisi al 67,81% e, infine, nella 17 Cfr. F. Orlando, I dolori della Puglia, cit. 18 Cfr. ISTAT, Rilevazione statistica degli acquedotti e dell'approvvigionamento

idrico in Italia. Situazione al 31 dicembre 1975, Roma 1980, p. 18.

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provincia di Bari al 91,2% 19 . Nelle case e per le fontane pubbliche, la quotidianità dell'acqua corrente era tale per cui in 73 comuni l'erogazione avveniva per sole 3 ore durante l'arco di tutta la giornata; in 104 comuni era compresa tra le 4 e le 10 ore; in 53 comuni l'acqua corrente era disponibile da un minimo di 11 ad un massimo di 18 ore e solo in 21 comuni pugliesi l'erogazione avveniva 24 ore su 2420.

La difficoltà di soddisfare i fabbisogni civili e di placare la sete delle campagne, tuttavia, affondava le radici in contraddizioni più profonde. La strategia delle grandi infrastrutture idriche si trovava periodicamente sottoposta al paradosso del «costruire già vecchio», ovvero a dover fronteggiare la difficoltà di soddisfare esigenze e fabbisogni idrici in costante crescita con interventi pensati e avviati in tempi precedenti e sulla base di stime esercitate su livelli di consumo ben più bassi. Specie in quelle aree della regione in cui erano andati concentrandosi i processi di sviluppo e i fenomeni di addensamento urbano, dunque, l'aumento dei consumi aveva presto eroso «i margini di disponibilità ancora esistenti [pervenendo] così a situazioni nelle quali, essendo le risorse idriche più agevolmente acquisibili già oggetto di utilizzazione – o avendo esse destinazioni di impiego già stabilite – per far fronte ai fabbisogni non ancora coperti e ai nuovi fabbisogni, che [andavano] via via determinandosi, si rende[va] necessario il ricorso a risorse di acquisizione sempre più aggiuntiva e costosa» 21 . Già a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta la tecnocrazia dell'Eipli aveva «maturato la necessità di rivedere i 19 Ivi, pp. 107-110. 20 Cfr. G. E. Marciani, La situazione delle utilizzazioni idriche nel Mezzogiorno,

Milano 1975, p. 40. 21 Ivi, p. 3.

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concetti fino allora invalsi negli organi tecnici centrali che tendevano a considerare superato il problema della utilizzazione delle risorse idriche della Puglia e della Lucania», preparando il superamento del primo Piano regolatore per la utilizzazione irrigua delle acque disponibili nei territori della Puglia e della Basilicata del 1956 con il successivo Piano Generale delle Irrigazioni del 1965 e rilanciando la strategia degli invasi22. Con gli anni Settanta, si preparava una nuova svolta: le tecnostrutture dell'intervento straordinario registravano infatti lo squilibrio presente nelle destinazioni idriche a favore degli usi irrigui e si ponevano l'obiettivo di una più razionale utilizzazione dell'acqua tra i diversi settori, attraverso un aumento delle volumetrie da realizzarsi con ulteriori sbarramenti ausiliari a supporto delle dighe già realizzate e con una riconfigurazione delle opere di adduzione e dei canali di trasporto tale da renderle idonee al trasporto di acqua per tutti gli usi. L'insieme di queste nuove finalità veniva affidato, dopo il rifinanziamento della Cassa per il Mezzogiorno con la legge n.853 del 1971, al Progetto Speciale n.14 (PS14), il cui complesso di opere pubbliche venne approvato dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) il 4 agosto 1972. In particolare, nel PS14 erano ricondotte le opere ancora da ultimare previste dai precedenti piani del 1956 e del 1965 e due nuovi schemi di rilevante importanza: il complesso idrico del Sinni e lo schema Basento-Bradano-Ofanto. Il primo schema, mediante la costruzione dell'invaso di Monte Cotugno sul fiume Sinni, in Basilicata, esprimeva l'ambizione di risolvere in modo definitivo il problema dell'approvvigionamento idrico

22 Cfr. D. Santovito, T. Napoli, A. Trimigliozzi, La evoluzione nel tempo..., cit., p. 14.

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ad uso irriguo, civile e industriale di ampie porzioni territoriali dell'intero arco ionico fino al Salento, destinando nuove volumetrie per un totale di 560 milioni di metri cubi di acqua all'Acquedotto Pugliese, all'Italsider di Taranto e ai diversi consorzi di bonifica (Bradano e Metaponto in Basilicata, Stornara e Tara, Arneo e Ugento-Li Foggi in Puglia); il secondo sistema, di minore rilevanza per la Puglia, puntava invece a soddisfare il fabbisogno idrico della Basilicata interna, della Murgia settentrionale e della fascia litoranea del nord-barese, attraverso la costruzione di un complesso sistema di dighe interconnesse. La realizzazione di buona parte degli interventi previsti era affidata all'Ente Irrigazione.

Con il PS14 si indicava l'obiettivo di portare, nel complesso di tutte le fonti di approvvigionamento disponibili (invasi costruiti e da costruire, sorgenti, acquiferi sotterranei) la disponibilità idrica a circa 2.000 milioni di metri cubi 23 . Esso, pertanto, segnava di fatto l'idea di un rilancio, di una seconda fase delle politiche di infrastrutturazione idrica in Puglia e Basilicata, dopo la prima stagione segnata dagli effetti del Piano regolatore per la utilizzazione irrigua delle acque disponibili nei territori della Puglia e della Basilicata del 1956 e concretizzatasi con la costruzione negli anni Sessanta degli invasi del Pertusillo e di Occhito. Tuttavia, i decenni successivi sarebbero stati caratterizzati da un segno del tutto diverso.

A poco meno di un anno dall'approvazione del PS14, infatti, durante i lavori della Fiera del Levante del 1973, il ministro per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno, Carlo Donat Cattin, parlando di «tempi storici», smorzava gli entusiasmi e 23 Cfr. D. Santovito, T. Napoli, A. Trimigliozzi, La evoluzione nel tempo..., cit., p. 17.

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pronosticava il completamento dei progetti idrici della Cassa e degli schemi di adduzione delle acque dalla Basilicata alla Puglia in non meno di quindici-venti anni, raddoppiando in un colpo le più ottimistiche previsioni dei tecnici24. Probabilmente, nel computo proposto dal politico, erano ricompresi anche gli effetti delle profonde trasformazioni istituzionali in atto in quegli anni. Infatti, a partire dalla creazione delle Regioni, nel 1970, il tentativo di configurare un nuovo livello intermedio di governo avrebbe provocato profonde e durature ripercussioni nei modi di funzionamento e di intervento dello Stato. In questo senso, il governo delle acque nel Mezzogiorno italiano e in particolare in Puglia, avrebbe costituito per tutto l'ultimo quarto di secolo del Novecento un decisivo banco di prova. «L'instaurazione delle regioni – scriveva nel 1970 Manlio Rossi-Doria – potrà essere, per il Mezzogiorno intero e per ciascuna delle sue zone, una condizione di libertà e di progresso. I pericoli maggiori, che insidiano il nuovo ordinamento sono, da un lato, che esso trasferisca troppo lentamente alle regioni competenze e poteri, che sono oggi saldamente nelle mani del potere centrale e, dall'altro, che esso dia luogo per così dire a una concezione e a una prassi accentratrice a livello regionale»25. Gli anni Settanta rappresentavano, per questo, un momento di rottura, quando tutto un sistema di gestione e di controllo della risorsa idrica, messo a punto nei primissimi anni del Secondo dopoguerra, veniva scardinato dal lungo processo di inserimento delle Regioni nel nuovo assetto statale: la Cassa per il Mezzogiorno, l'Ente Irrigazione, l'Acquedotto Pugliese e i consorzi di bonifica, andarono incontro a un depauperamento e

24 Cfr. F. Orlando, I dolori della Puglia, cit. 25 Cfr. M. Rossi-Doria, Scritti sul Mezzogiorno, cit., p. 69.

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ad una migrazione delle rispettive competenze, a un depotenziamento dei rispettivi apparati ovvero ad una difficile e faticosa ricollocazione istituzionale, per favorire la centralità del nuovo livello di mesogoverno.

Con l'aprirsi di questa lunga fase di transizione nelle modalità dell'intervento pubblico prendeva definitivamente corpo un progressivo sgretolamento dell'equilibrio interno a quella policy community che aveva fin lì presieduto al governo delle risorse idriche nel Mezzogiorno e in Puglia26. In altre parole, mentre l'impatto della regionalizzazione dello Stato e le incipienti difficoltà finanziarie si dimostravano fattori in grado di scardinare l'insieme delle politiche dell'intervento straordinario, il rapporto stretto attorno ai processi di grande infrastrutturazione idrica tra beneficiari (in prevalenza il complesso degli interessi gravanti sulla trasformazione irrigua delle campagne), costruttori, competenze, saperi esperti e burocrazia pubblica (Cassa per il Mezzogiorno, Ente Irrigazione e, in modo diverso, consorzi di bonifica e Acquedotto Pugliese) mostrava fenomeni sempre più evidenti di sfaldamento.

La “transizione lunga” nell'esperienza del governo delle acque in Puglia, così come in altre aree del Mezzogiorno, si apriva con due momenti di palese discontinuità. Da una parte, infatti, la creazione dei nuovi istituti regionali era destinata a mutare i connotati di una rappresentazione solidaristica della gestione dell'acqua che da oltre due decenni presiedeva alla legittimazione politica ed economica delle scelte operate dai poteri centrali dello Stato, principalmente nell'ambito dell'intervento straordinario. Alla base della polemica

26 Cfr. A. Massarutto, L'acqua, cit.

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innescatasi sin dalla prima legislatura regionale tra Basilicata e Puglia sulla destinazione delle acque lucane – che le rispettive classi politiche agitarono dagli scranni delle assemblee, all'interno dei comitati di coordinamento Cassa-Regioni e, dopo il 1976, nel Comitato dei Rappresentanti delle Regioni Meridionali – vi era la sorda paura della scelta «tra il lasciar morire di sete la Puglia o il far morire d'inedia la Basilicata»27. Questa contrapposizione, destinata a protrarsi per i trent'anni a venire, era alimentata dalle rivendicazioni lucane circa un modello di sviluppo calato dall'alto che, distraendo le risorse idriche regionali a beneficio degli usi irrigui, civili e industriali della Puglia si mostrava troppo sbilanciato sulla produttività delle aree della “polpa”, già capaci di un proprio dinamismo. Dalla parte opposta, la simmetrica rivendicazione pugliese si basava sulla connaturata dipendenza idrica della regione dalle fonti esterne e su una concomitante consapevolezza di dover costantemente reclamare il soccorso lucano a partire da questo elemento di debolezza. Tuttavia, il duro confronto tra le due Regioni era alimentato anche da una sostanziale difficoltà nell'interpretazione dei processi in atto. Così, ad esempio, sin dal 1972 Gennaro Trisorio Liuzzi, presidente della prima Giunta regionale pugliese, ammoniva sugli effetti dello «sfasamento» tra opere di accumulo e opere di adduzione. «Con i finanziamenti disponibili si potrebbero rapidamente completare le opere di accumulo, mentre tecnicamente non sarebbe possibile completare tutte le opere di distribuzione per l'utilizzazione delle stesse acque» 28 . Nonostante i ripetuti richiami, le risorse dell'intervento straordinario sarebbero 27 Cfr. F. Orlando, I dolori della Puglia, cit., p. 39. 28 Cfr. Archivio Consiglio Regionale Pugliese (ACRP), I Legislatura, Resoconti consiliari, seduta n.73, 5 luglio 1972, p. 2106.

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rimaste di lì alla fine incentrate su di un'originaria impostazione tesa a privilegiare dapprima la costruzione di tutte le opere di invaso previste (Pertusillo, Occhito, Sinni e opere minori) per poi concentrarsi solo in un secondo momento sulle condotte di trasporto. Di conseguenza, immense volumetrie di acqua, disponibili negli invasi, sarebbero rimaste inutilizzate fino agli inizi del Duemila: «così nascono anche i malintesi politici – scriveva Federico Orlando – a Potenza, dove da qualche tempo l'acqua è in diminuzione, se ne da la colpa alle destinazioni pugliesi, che non ne hanno perché sono servite da altre acque»29. Questa iniezione di relativa autonomia nell'apparato statale, avrebbe dunque liberato nei decenni successivi un tasso di conflittualità alimentato da logiche territoriali e destinato a tradursi in elementi di perturbazione dell'azione di governo della risorsa idrica, di rallentamento dell'efficacia delle decisioni e di estenuante negoziato, in cui vennero trascinati tanto i livelli di governo superiori quanto le residue competenze demandate ai vecchi enti. Nuove motivazioni, di carattere più prettamente politico, venivano immesse nelle scelte strategiche sull'acqua, fiaccando il consenso sociale verso quell'approccio interregionale che la tecnocrazia riformista della Cassa e dell'Eipli aveva fino a quel momento espresso.

Il secondo elemento di discontinuità era rintracciabile nella crisi dell'intervento straordinario e, in particolare, nel drastico ridimensionamento di quello che era stato il centro direttore delle politiche idriche in una consistente porzione del territorio meridionale, ovvero l'Ente Irrigazione. Nel 1972 e, con maggiore ampiezza, nel 1977, il trasferimento delle competenze inerenti gli acquedotti locali, le bonifiche e l'irrigazione dal 29 Cfr. F. Orlando, I dolori della Puglia, cit., p. 36

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livello centrale alle Regioni aveva avuto come prima e immediata ripercussione la perdita da parte dell'Eipli di tutte le funzioni fino a quel momento esercitate nell'ambito della trasformazione fondiaria e della distribuzione dell'acqua per uso agricolo. Risultava invece assai più problematica la questione relativa alle grandi opere di approvvigionamento idrico che, per la natura stessa del trasferimento di ingenti volumi d'acqua tra Campania, Basilicata e Puglia, recavano una spiccata distribuzione interregionale. La scelta se conservare l'Ente Irrigazione, che «sia pure lentamente e disorganicamente» andava attuando la pianificazione delle acque di invaso, o demandare tutte le sue competenze alle Regioni si pose in modo drastico con l'intervento della legge n.70 del 1975 sul riordino degli enti “parastatali”, recante l'abolizione dell'ente. Un acceso dibattito parlamentare e la presentazione di diversi ordini del giorno – primo fra tutti quello promosso da una pattuglia di senatori pugliesi, lucani e campani del Pci capeggiati dal barese Antonio Mari – valsero a riaffermare la centralità dell'approccio interregionale intrinseco nella pianificazione dell'Ente Irrigazione, strutturato sul principio dell'«utilizzazione plurima delle acque, cioè per uso agricolo, industriale e civile, [e avente] come criterio base interi bacini idrografici che non si identificano con i confini regionali». Il rischio era tale per cui, «sopprimendo l'ente senza aver tempestivamente creato altre condizioni politiche e tecniche idonee a continuare nell'attuazione del piano irriguo», vale a dire senza che le Regioni avessero ancora maturato una solida esperienza nella programmazione e nella gestione della risorsa idrica, ci si sarebbe esposti ad una paralisi che avrebbe

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aggravato la situazione delle tre regioni meridionali30. Un successivo decreto del 16 giugno 1977 stabiliva così il salvataggio dell'ente, riconoscendone il persistente carattere di necessità «ai fini dello sviluppo economico, civile, culturale e democratico del paese» e avviando, al tempo, un difficile percorso di riorganizzazione finalizzato alla ristrutturazione e ad una sua maggiore rispondenza all'ordinamento regionale.

Il lasso di tempo che corre tra il 1977 ed il 1986, tuttavia, fu decisivo nel determinare il sostanziale fallimento nell'esito del processo di riallineamento dell'Eipli. Due interventi successivi, nell'aprile e nell'agosto del 1979, privavano l'ente delle sue competenze nel campo della valorizzazione fondiaria e dell'irrigazione, trasferivano parte del personale nel corpo burocratico regionale, riconoscevano funzioni residuali nella progettazione, nell'esecuzione e nella gestione delle opere idrauliche di carattere interregionale e, infine, prevedevano la possibilità che l'ente realizzasse e gestisse, su delega delle Regioni, opere irrigue e di bonifica idraulica. L'Ente Irrigazione, infine, configurato come mero strumento tecnico-esecutivo a disposizione delle Regioni, veniva sottoposto a commissariamento da parte del Ministero dell'Agricoltura e Foreste, con l'obiettivo di procedere ad una ristrutturazione statutaria in grado di favorirne l'operatività all'interno del nuovo contesto istituzionale. Tuttavia, i lunghi tempi impiegati nell'approvazione del nuovo statuto, intervenuta solo nel 1986, il cronico stato di commissariamento – destinato a protrarsi fino ad oggi – e le inadempienze delle Regioni Puglia e Campania nel procedere alle nomine dei propri rappresentanti all'interno

30 Cfr. Resoconto stenografico della 407° seduta pubblica del Senato del 26

febbraio 1975, in sito ufficiale www.senato.it, p. 19240.

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del consiglio di amministrazione, avrebbero costretto l'ente in uno stato di precarietà e di debolezza, sottraendogli quell'efficace direzione di cui abbisognava31.

Ma a incidere più di tutto sull'accumulo di gravi ritardi nel completamento degli schemi idrici previsti sin dal 1972 nell'ambito del PS14 fu la crisi finanziaria dell'Ente Irrigazione, scatenata dai difficili rapporti che si vennero instaurando con le Regioni, con i consorzi di bonifica, con l'Acquedotto Pugliese e con le stesse società concessionarie degli appalti per la costruzione delle diverse opere. Infatti, avviato il processo di regionalizzazione, l'Ente Irrigazione perdeva la sua autonomia finanziaria, diventando del tutto dipendente dalle risorse – sempre più esigue – della Cassa per il Mezzogiorno, delle Regioni e del Ministero dell'Agricoltura. In un simile contesto, diversi fattori intervennero per determinare la crisi dell'ente. In primo luogo, la devoluzione alle Regioni delle competenze nel campo dell'irrigazione e della bonifica, ovvero dell'insieme del personale, degli impianti irrigui e delle aziende sperimentali, si era risolta in una perdita secca di entrate e nella prospettiva di dover fare esclusivo affidamento sulle sole tariffe imposte ai consorzi di bonifica e all'Eaap per la cessione dei volumi di acqua provenienti dagli invasi. La cessione dei beni e del personale, del resto, era stata quantificata in un credito di circa 16 miliardi di lire esigibile per quasi due terzi verso la Regione Puglia e per la restante parte verso Basilicata e Campania. I ripetuti tentativi posti in essere da queste Regioni di resistere alla situazione di esposizione finanziaria verso l'Eipli, pur

31 Atti Parlamentari, IX Legislatura, Relazione della Corte dei Conti al

Parlamento. Ente per lo Sviluppo dell'Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria in Puglia e Lucania. Esercizi 1978-1981, Doc. XV, n.28, 1984.

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protraendosi lungo tutta la prima metà degli anni Ottanta, non avrebbero sortito altro effetto se non quello di rallentare e compromettere l'efficacia del processo di difficile riorganizzazione del sistema di governo delle acque 32 . In secondo luogo, le Regioni, divenute centri di spesa assieme alla Cassa, si rivelarono ben presto poco affidabili, corrispondendo con scarsa tempestività gli oneri sostenuti dall'ente per la costruzione e la gestione di opere di contenimento, adduzione e distribuzione. In questo genere di problematiche rientrava anche la consuetudine di procrastinare oltre il dovuto i collaudi delle opere già ultimate nel tentativo di rinviare la corresponsione degli oneri, procedura che non aveva solo l'effetto di alleviare il bilanci regionali ma anche quello di intaccare le potenzialità di utilizzo degli invasi e delle canalizzazioni connesse, impossibilitate per ragioni di sicurezza a raggiungere il pieno regime. Era questo il caso della realizzazione delle opere di contenimento sul Sinni, i cui lavori, cominciati nel 1978 e ultimati nel 1982, non avevano ancora ricevuto, al momento della grande siccità del 1988-1990, il visto dalla commissione collaudatrice che continuava a dichiararsi impossibilitata ad espletare il collaudo senza provocare l'interruzione del servizio. Resta «da chiedersi – scrivevano i magistrati della Corte dei Conti cui spettava il compito del controllo finanziario dell'Eipli – quando mai potrà avvenire il collaudo della diga, perdurando tali necessità»33. Anche le opere idrauliche di regolazione della conduttura di adduzione principale dall'invaso di Monte Cotugno a Monteparano, nella

32 Cfr. Atti Parlamentari, X Legislatura, Relazione della Corte dei Conti al Parlamento. Ente per lo Sviluppo dell'Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria in Puglia e Lucania. Esercizi 1982-1986, Doc. XV, n.79, 1989.

33 Ivi, p. 42.

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porzione di sud-est della provincia di Taranto, al 1989 risultavano ancora da completare, tanto da gravare notevolmente sulla funzionalità dell'intero schema idrico e sulle speranze di approvvigionamento di Taranto e dell'intero Salento.

Nei «tempi storici» dell'infrastrutturazione idrica meridionale e pugliese erano però ricompresi anche altri fenomeni di degenerazione dei meccanismi di intervento pubblico e del rapporto tra costruttori e burocrazia. Gli anni Settanta e Ottanta infatti si sarebbero caratterizzati per il definitivo affermarsi di una cronica conflittualità nascosta nelle pieghe della spesa pubblica, che non mancò di investire anche i rapporti tra l'Ente Irrigazione e le società appaltatrici dei lavori. La straordinaria frequenza con cui queste ultime rivendicavano la revisione dei costi di gara era ormai divenuta una prassi abituale tanto che il fenomeno veniva ampiamente dettagliato sulla stampa: «chi è alla testa di queste imprese non ha problemi di previsioni di mercato; deve solo darsi da fare per vincere le aste e per procedere via via alla revisione dei prezzi concordati inizialmente (bassi) e poi realmente ottenuti (alti)»34. L'insieme di questi fattori e soprattutto il ritardo nelle erogazioni dei contributi ministeriali e regionali poneva l'Eipli nelle condizioni di dover ricorrere all'indebitamento finanziario, accendendo prestiti presso istituti di credito ed esponendosi al pagamento incrementale dei relativi interessi, per far fronte a quelle che si presentavano come indifferibili spese di costruzione, funzionamento e manutenzione degli schemi idrici.

Altre volte, però, l'incremento della spesa era dettato

34 Cfr. A. Spinosa, Dentro la Puglia (1), cit., p. 79.

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dall'insorgere di conflitti di diversa natura, relativi al progressivo emergere di sensibilità di tipo ecologico e ambientale. Già nel 1977, infatti, si registrava un intervento della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Ambientali della Basilicata finalizzato a porre sotto tutela l'area della cava delle “Nocelle”, in provincia di Potenza, da cui era prevista l'asportazione del materiale necessario alla costruzione dei fianchi delle dighe di Acerenza e Genzano, inserite nello schema Basento-Bradano-Ofanto. La necessità di reperire la ghiaia altrove si sarebbe risolta in un aumento dei costi di trasporto e nell'ennesimo contenzioso con la società appaltatrice. «E' lecito porsi il quesito – scrivevano ancora i magistrati della Corte dei Conti – se [tali] decisioni, che possono anche essere basate su opinabili parametri di valutazione, possano essere rimesse alle unilaterali insindacabili valutazioni della sola Soprintendenza e se queste non debbano comunque farsi carico – oltre che delle ragioni di salvaguardia archeologica o ambientale – anche delle conseguenze derivanti dalla apposizione di vincoli, specie ove coinvolgano l'attività di un ente pubblico, con una attenta valutazione del rapporto costi-benefici, quando tali scelte comportano riflessi così onerosi per l'erario»35. Il conflitto aperto dalla Soprintendenza palesava non solo due visioni completamente differenti in ordine alla gestione e all'utilizzo delle risorse ma, per certi versi, esplicitava i mutamenti sociali, culturali ed economici che stavano interessando le politiche dei grandi trasferimenti idrici e il loro portato di profonde trasformazioni ecologiche e territoriali. Trasportare acqua da un luogo all'altro, in definitiva, si manifestava come una modalità 35 Cfr. Cfr. Atti Parlamentari, X Legislatura, Relazione della Corte dei Conti al

Parlamento. Ente per lo Sviluppo dell'Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria in Puglia e Lucania. Esercizi 1982-1986, cit., p. 50.

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di controllo della risorsa avente anch'essa dei costi, rilevabili nei processi di consumo di suolo così come dei valori e degli interessi presenti nel paesaggio antropizzato. Le conflittualità innescate dalle modalità di appropriazione delle risorse idriche si caricavano dunque di ulteriori significati, articolando la polemica tra le Regioni Puglia e Basilicata circa i criteri di ripartizione dei volumi degli invasi con altre tensioni, relative alla scelta tra quale tipologia di risorsa sacrificare e, di conseguenza, quali finalità far prevalere. La vena poetica di un segretario democristiano di periferia, uno tra i tanti, restituiva questa dimensione di frammentazione polifonica delle istanze sociali e il loro significato a livello locale. Rocco Pizzo, segretario della sezione Dc di Senise – cittadina posta nei pressi della località di Monte Cotugno – poco prima dell'apertura dei cantieri per la costruzione della diga sul Sinni indirizzava alcuni versi al senatore lucano Emilio Colombo nel tentativo di persuaderlo a bloccare i lavori: «A voi Colombo illustre / nel mondo conosciuto / facciamo un caldo priego / di darci il vostro aiuto. / A voi brillante astro / ministro del tesoro / chiediamo la salvezza / di questa conca d'oro / Intervenite presto / a scongiurar l'azione / che porterà in Senise / miseria e distruzione»36. La tensione tra consumo di suolo e creazione di nuovi invasi si riproponeva alcuni anni più tardi e con strumenti molto meno ludici dei versi di Rocco Pizzo, quando nel 1982 l'inizio dei lavori per la costruzione delle opere di sbarramento e di accumulo delle acque del torrente Locone poneva i due paesi contermini di Minervino Murge, in Puglia, e di Montemilone, in provincia di Potenza, dinanzi alla concreta prospettiva di perdere oltre 1.200 ettari di superficie agricola e

36 Cfr. A. Spinosa, Dentro la Puglia (1), cit., p. 81.

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di altre aree destinate ad essere tramutate in cave per la fornitura del materiale occorrente. Il Servizio Studi e Programmi del Consorzio di Bonifica Appulo Lucano, su affidamento del Ministero per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno, si faceva, per questo, carico di uno studio per il riequilibrio socio-economico dell'area interessata dall'invaso, onde fugare «il timore di un approfondimento del "solco depressionario" già esistente […] con il rischio che il ruolo di queste due comunità si riducesse esclusivamente a quello di trasferire, senza alcun vantaggio proprio, l'effetto delle trasformazioni operate nel proprio ambiente naturale e produttivo ad altre realtà esterne già più forti»37.

Le conseguenze dell'impatto degli schemi idrici sui luoghi e sulle loro risorse offriva dunque una misura della progressiva inagibilità di interventi decisi e praticati dall'alto da strutture, saperi e competenze tecniche senza una mediazione dei poteri e delle istanze di riferimento locale e, al tempo, preannunciava l'esaurimento della funzione storica della strategia e della politica ormai secolare dei grandi trasferimenti. Attorno alla metà degli anni Ottanta, anche come conseguenza del terremoto in Irpinia del 1980 che aveva prodotto non solo la rottura di alcune opere di canalizzazione ma minacciato diverse strutture di contenimento con conseguente rischio di esondazione, l'insieme di questi mutamenti veniva registrato dal legislatore, che imponeva una normativa in materia di dighe assai più restrittiva. La legge n.349 dell'8 luglio 1986, istitutiva del Ministero dell'Ambiente, introduceva in Italia le

37 Cfr. Consorzio di Bonifica Apulo-Lucano, Perizia studi per il riequilibrio socio-

economico dell'area interessata dall'invaso sul torrente Locone, Bari 1986, p. VI.

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procedure per la valutazione di impatto ambientale (VIA), mentre il successivo decreto n.377 del 10 agosto 1988 ricomprendeva tra le categorie di opere da assoggettare a valutazione di incidenza anche gli «impianti destinati a trattenere, regolare o accumulare le acque in modo durevole, di altezza superiore a 15 m o che determinano un volume d'invaso superiore ad 1.000.000 mc» 38 . Questo significava che ogni ulteriore sviluppo e incremento dei piani di invaso sarebbe stato di li innanzi sottoposto ad una ricognizione delle ricadute sull'ambiente e sul territorio. Ma sempre nel delicato frangente della metà degli anni Ottanta, le conseguenze di una legislazione più restrittiva si unirono agli effetti della soppressione della Cassa per il Mezzogiorno, intervenuta nel 1984, e del difficile passaggio, nel 1986, alla nuova Agenzia per l'Intervento nel Mezzogiorno (Agensud). Questo biennio di transizione tra i due organismi creava di fatto un «vuoto» nella direzione finanziaria e nella funzione di indirizzo dei processi di infrastrutturazione idrica, determinando non solo «il rallentamento ed in certi casi il fermo nel finanziamento» degli schemi compresi nel PS14, ma la vera e propria vacanza di un centro di coordinamento e di gestione degli interventi a carattere interregionale. Tutti i progetti presentati in occasione delle continue proroghe della Cassa, per la costituzione di un'Azienda per il Riequilibrio Territoriale del Mezzogiorno, con compiti relativi al completamento e alla gestione delle «opere realizzate o in corso di realizzazione da parte della Cassa per il Mezzogiorno per la raccolta, captazione e adduzione delle acque per uso potabile, civile e produttivo» fino all'affidamento ad altri enti o autorità, vennero infatti emarginati, con la

38 Cfr. A. Sole, Energia in movimento, cit., 274.

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conseguenza di un brusco impatto nel passaggio di consegne tra “vecchio” e “nuovo” intervento straordinario, tra la Cassa e i centri ordinari di governo, in primo luogo le Regioni39.

Così, mentre emergevano con evidenza i problemi di completamento e adeguamento dei sistemi idrici, la legge n.752 dell'8 novembre 1986 – promulgata a trent'anni esatti dal Piano regolatore per la utilizzazione irrigua delle acque disponibili nei territori della Puglia e della Basilicata del 1956 – avrebbe sancito il definitivo arresto delle politiche di grande infrastrutturazione idrica, stabilendo l'esclusione di nuove opere e limitando la programmazione degli interventi nel settore agricolo al solo completamento e adeguamento funzionale degli impianti di accumulo e adduzione già previsti. Gli usi irrigui smettevano dunque di costituire il fulcro delle strategie intersettoriali di approvvigionamento idrico in Puglia e in una parte del Mezzogiorno, senza che le disponibilità volumetriche previste nell'ambito del PS14 fossero state realmente raggiunte.

In seguito a questa serie di provvedimenti, l'Ente Irrigazione entrava definitivamente nel suo «cono d'ombra», gravato da un debito che, per effetto dell'esposizione verso il Banco di Napoli, era passato dai 520 milioni di lire del 1978 ai 14 miliardi di lire del 1986 40 . La scelta, operata dallo Stato con il rilancio dell'intervento straordinario nel 1986, di provvedere al salvataggio dell'Acquedotto Pugliese per mezzo di un contributo straordinario di 150 miliardi a fronte dei quasi 210 miliardi di perdite 41 , non si accompagnava ad un analogo

39 A. Servidio, Un vuoto nella transizione: i sistemi idrici, in «Rivista Giuridica del

Mezzogiorno», a. III, n. 2, 1989, pp. 425-436. 40 Ibidem. 41 L. Masella, Acquedotto Pugliese, cit.

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provvedimento a favore dell'Eipli, nonostante le continue richieste in questo senso operate dal commissario dell'ente. Nello stesso tempo, la dimensione intersettoriale degli schemi idrici veniva accentuata – con l'intento di operare un riequilibrio a favore degli usi civili e attivare le disponibilità ancora ferme negli invasi – attraverso il finanziamento di interventi per l'implementazione delle opere di adduzione e di potabilizzazione (il raddoppio delle diramazioni dall'invaso di Occhito, la costruzione e il completamento delle canalizzazioni previste nell'ambito dello schema Basento-Bradano-Ofanto, la costruzione del potabilizzatore dello schema Sinni). L'attenzione ormai si spostava con sempre maggiore incisività dagli usi irrigui agli usi civili e, al contempo, dal problema storico dell'approvvigionamento idrico ad un nuovo problema, la “questione ambientale”, legata allo smaltimento dei reflui e alla tutela delle acque e rapidamente emersa a partire dagli anni Settanta del Novecento.

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Dal problema dell'approvvigionamento alla questione ecologica

Nonostante i problemi di copertura e di continuità nel rifornimento idrico, l'insieme degli acquedotti, delle trivelle, delle autobotti e delle cisterne aveva offerto la possibilità, sin dai primi decenni del Secondo dopoguerra, di uscire progressivamente da uno stato di assoluta carenza di acqua. Ne derivava una crescita dei consumi idrici nelle città che andava comportando inevitabilmente la restituzione di altre acque, di liquami di fogna, gravati dai prodotti del metabolismo umano, da solventi e da tutta una serie di agenti chimici derivanti dalla trasformazione delle pratiche domestiche. Il problema dello smaltimento delle acque reflue inoltre era aggravato, a partire dagli anni Settanta, da una rinnovata spinta nel fenomeno dello sprawl urbano e della costruzione di nuovi insediamenti lungo le coste – grazie anche all'espansione dell'industria turistica – che comportava ulteriori difficoltà nel gestire in rete la dispersione puntiforme degli abitati42.

Nel 1970, la quantità dei liquami prodotta sul territorio pugliese era calcolata in 107 milioni di metri cubi, corrispondente a una parte consistente del consumo idrico. Di questi 107 milioni, solo il 3% aveva ricevuto un trattamento adeguato ed era stato portato alla completa ossidazione, mentre oltre il 50% non subiva alcun processo di depurazione e veniva conferito direttamente nelle cavità del sottosuolo o in mare, attraverso condutture che raggiungevano le coste43. L'instaurarsi di questi sistemi nello smaltimento delle acque di fogna rispecchiava la

42 Ivi 43 V. Caruso, Compendiario sugli acquedotti pugliesi e lucani, cit., p. 484.

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stringente inadeguatezza dei comuni nel gestire il fenomeno e si rifletteva in uno squilibrio consistente tra infrastrutture per approvvigionamento e opere per lo smaltimento, fra acquedotti e fognature, derivato dalle frammentazione delle competenze agite sulla gestione di questi servizi e dalla diversa attenzione sociale rivolta alle due diverse facce del ciclo idrico. Nella provincia di Bari, a fronte di 81 centri e nuclei abitati forniti di acquedotto, solo 50 erano quelli in cui erano presenti reti fognanti, ma ancora più grave era la situazione nella provincia di Lecce dove alle 151 aree urbane dotate di acquedotto si contavano solo 21 centri forniti di sistemi fognari. Incongruenze di questa portata erano riscontrabili anche nelle province di Taranto e di Brindisi mentre, più a nord, la provincia di Foggia poteva esprimere un rapporto più equilibrato44.

Per le popolazioni e per gli enti locali, del resto, la dimensione invisibile del paesaggio carsico e delle cavità del sottosuolo aveva da sempre ricoperto una duplice valenza: non solo fonti provvidenziali da cui ricavare una risorsa gratuita ma anche, al contrario, vuoti, oscuri e interminabili inghiottitoi sottratti alla responsabilità dello spazio pubblico, al giudizio morale della comunità, alla stessa percezione di ciò che è per sua natura visibile, e destinati ad accogliere le acque di fogna, gli scarichi. «Si tramanda la convinzione – scrivevano nel 1972 i tecnici dell'Ente Irrigazione – che le grosse voragini salentine che si aprono nel sottosuolo abbiano la capacità di smaltire tutto ciò che vi si immette. E questa convinzione ha indotto le popolazioni a scaricare nelle voragini i rifiuti solidi urbani e i Comuni a versarvi i liquami delle fogne urbane»45. Il caso del

44 Ibidem. 45 Cfr. D. Santovito, A. Trimigliozzi, C. Reina, Lineamenti e criteri di base per

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pozzo Guardàti di Lecce, per quanto emblematico, non era valso ad imprimere un cambio di direzione. Il pozzo, costruito a partire dal 1905 e capace di fornire portate fino a 120 litri al secondo e di rappresentare a lungo la principale fonte di approvvigionamento del capoluogo e di vaste aree circostanti, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento cominciava a segnalare i guasti ambientali che stavano maturando nel sottosuolo, fino a conoscere la chiusura, nel 1959, a causa dell'inquinamento provocato dai liquami urbani di Lecce immessi nelle cave di Marcovito e percolati nella falda sottostante46. L'incapacità di gestire in maniera sostenibile gli scarichi e le reti fognarie, senza alterare l'equilibrio ambientale e porre seriamente in pericolo le condizioni igieniche delle popolazioni e delle città, rifletteva un miscuglio di inadeguatezze amministrative – concernenti in modo particolare il ruolo dei comuni – e di impreparazione tecnica e culturale ad affrontare le conseguenze di modificazioni sempre più consistenti nel regime e nelle consuetudini del consumo di acqua, nonché della rapida trasformazione delle pratiche domestiche con l'introduzione dei solventi e dei saponi industriali. Nelle campagne, poi, già protagoniste di una massiccia introduzione di concimi chimici dilavati nel sottosuolo dalle piogge, l'antica consuetudine di utilizzare il letame e le deiezioni umane per la concimazione della terra si tradusse presto nell'aspirazione da parte dei contadini all'utilizzo dei liquami di fogna. In alcune aree, l'Acquedotto Pugliese, delegato dalla gran parte dei comuni a gestire le reti fognarie urbane, si era spinto al limite di indire gare d'appalto

l'assetto territoriale della provincia di Lecce. Indirizzi tecnici ed economici per un piano globale di utilizzazione e difesa delle risorse idriche, Bari 1972, p. 16.

46 Ivi, p. 8.

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tra gruppi di agricoltori per concedere i liquami, gare che poi si traducevano in ulteriori subappalti degli aggiudicatari a favore di altri contadini47. Fu in un contesto di questo tipo, dominato da una generale inconsapevolezza e impreparazione verso il problema ambientale rappresentato dalla produzione di liquami che, nell'estate del 1973, scoppiò la grave epidemia di colera in Puglia.

Il diffondersi del colera valse come detonatore di una situazione di insostenibile insufficienza delle politiche per lo smaltimento dei reflui urbani e di «abnorme trattamento sociale dei cittadini a seconda del territorio di residenza», causa primaria dell'abbandono di consistenti fasce di popolazione «a disagi estremi, fino alle malattie infettive e mortali per le quali – ammettevano gli stessi responsabili dell'Acquedotto Pugliese – non sono estranee le carenze dei servizi idrici e fognanti»48. Nonostante la confusione venutasi a creare durante i giorni del colera per cui, «pur di dare dimostrazione che qualcosa si faceva per scongiurare il diffondersi dell'epidemia» l'Eaap fu costretto dalle autorità sanitarie ad inutili e dispendiosi interventi di disinfezione delle acque di fogna prima dell'afflusso in mare, l'epidemia valse a dare un forte impulso ai progetti di costruzione di nuove fognature e, per certi versi, aprire definitivamente la strada ad importanti interventi normativi. Al 1979, infatti, la situazione del settore dello smaltimento e della depurazione delle acque reflue accusava un preoccupante ritardo, contando sulla presenza di soli 51 presidi depurativi su tutto il territorio pugliese a servizio del 23% della popolazione regionale. I reticoli fognari attraversavano invece

47 Cfr. F. Orlando, I dolori della Puglia, cit. 48 V. Caruso, Compendiario sugli acquedotti pugliesi e lucani, cit., p. 485.

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182 centri abitati, servendo 3.191.000 abitanti con un grado di efficienza del 55%, mentre altri 74 centri, per l'equivalente di 390.000 abitanti, erano privi di qualsiasi sistema di convogliamento dei reflui. Per sopperire a queste gravi carenze la Giunta regionale riteneva necessaria la costruzione di 2.700 km di reti fognarie comunali e di collettori intercomunali, in aggiunta a ulteriori 1.000 km e 26 impianti di sollevamento per nuove opere in centri abitati ancora non serviti49.

In questo senso, i ventuno anni intercorsi tra le due epidemie di colera del 1973 e del 1994 possono essere letti come una prima incerta fase di strutturazione e di attivazione delle competenze regionali in materia di risorse idriche, a partire dalla prospettiva di tutela e difesa del suolo dai fenomeni di inquinamento delle acque disegnata dal capo VIII del decreto n.616 del 24 luglio 1977, attuativo della legge 382/1975 sulla riforma regionale dell'amministrazione dello Stato50. La Regione Puglia, soprattutto dopo la promulgazione della “legge Merli” del 1976 che, tra le altre cose, prevedeva la compilazione dei piani regionali di risanamento delle acque, aveva avviato un difficoltoso percorso di configurazione degli strumenti tecnici e operativi necessari al fine di procedere nella programmazione degli interventi a tutela di tute le acque. A partire dal 1978, la Giunta regionale tentava senza troppo successo l'istituzione del Gruppo di lavoro, tutela ed uso delle risorse idriche e del Gruppo di lavoro per l'uso e la tutela delle acque e consulta sui problemi dell'acqua, organismi successivamente aboliti dal Commissario

49 Cfr, ACRP, II Legislatura, Resoconti consiliari, seduta n.174, 19 settembre 1979,

p. 1314. 50 G. Lampis, a cura di, 382 e riforma dello Stato, Roma 1978.

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di Governo per illegittimità51. In seguito, l'azione disorganica dei governi regionali veniva confermata dall'approvazione di una serie di provvedimenti destinati a produrre effetti contrastanti. Se con la legge regionale n.13 del 1979 – la cosiddetta “Legge Sasso”, finalizzata alla costruzione di reti fognarie comunali – e con la contemporanea stipula di due convenzioni con l'Istituto Ricerche sulle Acque del CNR e con la società GEO di Bari «per la redazione di un piano di massima di risanamento e censimento dei corpi idrici sotterranei e superficiali», la Regione aveva cercato di promuovere l'obiettivo della tutela ambientale delle acque, la successiva legge regionale n.54 del 31 agosto 1981 tornava alle tradizionali finalità di trasformazione irrigua anche tramite l'incentivazione di ulteriori trivellazioni nel sottosuolo. L'approvazione, nel 1983, del Piano Regionale di Risanamento delle Acque rappresentava invece un primo momento di pianificazione degli interventi nel settore dello smaltimento e della depurazione delle acque reflue in Puglia, secondo obiettivi di infrastrutturazione fognaria che, a partire dal 1988, sarebbero stati convogliati nel programma “Puglia 2”. Con il Piano di Risanamento, la Regione inaugurava un lungo e difficoltoso processo di costruzione dell'immagine idrica del proprio territorio, avviando un processo di monitoraggio e di conoscenza dello stato quantitativo e qualitativo delle acque presenti entro i confini amministrativi e nei grandi invasi. Si procedeva infine alla costituzione di un nuovo organo consultivo, il Comitato Tecnico per le Risorse Idriche (Cotri), destinato a rimanere in vigore fino alla creazione dell'Agenzia 51 Cfr. M. De Marco, M. Rina, Gli schemi idrici in Puglia e Basilicata, in U. De

Siervo, a cura di, Intervento straordinario e amministrazione locale nel Mezzogiorno, Milano 1985, pp. 239-282.

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Regionale per la Protezione dell'Ambiente in Puglia (Arpa Puglia), nel 1999. Il comitato, composto da personale tecnico e politico della Regione, da rappresentanti dell'Eaap, dell'Istituto ricerche sulle acque del CNR, del Genio Civile e dell'Ente Irrigazione avrebbe finito, da un lato, con l'assumere il riflesso dello stato di progressiva crisi dell'intervento straordinario e della strategia degli schemi idrici autorizzando, tra anni Ottanta e Novanta, la costruzione di ulteriori 18.474 opere di captazione dalle falde52; dall'altro, non riuscì ad emendare il Piano dalla conservazione dei 32 scarichi pubblici direttamente nel sottosuolo né a promuovere una capillare campagna di monitoraggio e regolamentazione dell'azione dei privati.

In linea generale, i limiti della legislazione nazionale di tutela delle acque e dello stesso Piano Regionale di Risanamento consistevano nel fatto che le opere di captazione e scarico dei privati erano quasi sempre al riparo da controlli, minando la portata e la credibilità di quegli stessi strumenti. «Sono state scavate migliaia di opere in modo abusivo – si sottolineava in uno studio promosso dalla Commissione europea sulle risorse idriche sotterranee – ma, anche se dichiarate, non avviene quasi mai un controllo delle portate emunte. Questo controllo viene effettuato invece per la maggior parte delle opere di proprietà delle varie amministrazioni, ed in particolare delle amministrazioni comunali»53.

Il lascito del periodo compreso tra le due epidemie coleriche, in definitiva, non consisteva tanto nei risultati raggiunti dal processo di infrastrutturazione del territorio per lo smaltimento

52 Cfr. INEA, Stato dell'irrigazione in Puglia, Roma, vol.1, 2001. 53 Commissione delle Comunità Europee, Studio sulle risorse in acque sotterranee dell'Italia, Hannover 1982, p. 44.

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e la depurazione dei reflui, rimasto lento, disarticolato e caratterizzato da uno squilibrio tra pubblico e privato così come dalla presenza di «molti impianti [pubblici] realizzati e rimasti inutilizzati, non essendo adeguati alle disposizioni nazionali e comunitarie, [né] collegati in rete fra di loro»54. Gli anni Ottanta rappresentavano invece una fase di vero e proprio apprendistato istituzionale in cui la Regione si affermava – anche in senso competitivo verso i vecchi enti come l'Eipli e l'Acquedotto Pugliese55 – come il luogo di formazione di nuove expertise e di nuovi strumenti di intervento calibrati su problematiche ambientali la cui gestazione era avvenuta lungo un arco di tempo incommensurabilmente più breve rispetto alla secolare storia della «Puglia sitibonda». Da una parte, la questione ambientale stava provocando un riposizionamento dei corpi tecnico-burocratici su forme di sapere quali quelle afferenti la biologia e la chimica, destinate ad affievolire la lunga egemonia espressa dalle competenze legate all'ingegneria idraulica. Dall'altra, l'assessorato alla programmazione – collegato alla vicepresidenza regionale – andava configurandosi come una nuova cabina di regia destinata a promuovere forme di coordinamento tra i diversi assessorati e a pilotare l'inserimento della Regione Puglia nei processi di governance di uno spazio politico europeo sempre più integrato. Tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, infatti, una serie di interventi statali e comunitari avrebbero ulteriormente chiamato in causa il ruolo degli istituti regionali in materia di

54 Cfr. Atti Parlamentari, XIV Legislatura, Indagine conoscitiva sull'emergenza

idrica nei centri urbani del Mezzogiorno e delle Isole, 10° resoconto stenografico, 10 luglio 2002, p. 4; si veda inoltre ACRP, V Legislatura, Resoconti consiliari, seduta n. 43, 18 dicembre 1991.

55 L. Masella, Acquedotto Pugliese, cit.

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difesa del suolo e tutela delle acque. La legge 183/1989 sulla difesa del suolo, unitamente ad una raffica di direttive promosse dagli organismi comunitari nel 1991, sebbene destinate a produrre effetti in tempi lunghi e soffrire di gravi difficoltà di attuazione, avrebbero rappresentato le prime pietre angolari di un percorso destinato a traghettare il governo delle acque fuori dall'intervento straordinario, per ricondurlo in un ambito di politiche ordinarie a carattere regolativo degli usi della risorsa idrica.

La legge 183/1989 interveniva in materia di conservazione e difesa del suolo, ponendo una stretta connessione tra le modalità di uso del suolo e le modalità di uso delle acque, e sancendo, al tempo, una serie di obiettivi finalizzati al contenimento dei fenomeni di dissesto idrologico. La centralità, promossa dalla legge, della nozione di bacino idrografico quale ambito fisico ottimale di pianificazione in grado di apportare un superamento delle frammentazioni prodotte dall'artificiosità dei confini amministrativi, rappresentava un primo tentativo di riconfigurare i poteri regionali e gli enti locali secondo quelle logiche di gestione interregionale già espresse in passato dalle tecnostrutture dell'intervento straordinario. Il percorso di individuazione e istituzionalizzazione dei bacini nazionali, interregionali e regionali, promuoveva il ruolo attivo delle Regioni nella costruzione delle autorità chiamate al governo dei bacini e nella redazione dei rispettivi piani di riferimento. La Regione Puglia assumeva gli obiettivi dalla legge 183/1989 nell'ambito di una congiuntura caratterizzata da un forte deficit di bilancio e dalla crisi fiscale dello Stato. Il mancato finanziamento statale delle strutture tecniche e organizzative della autorità di bacino e il generale ridimensionamento delle

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risorse inizialmente poste a sostegno degli obiettivi normativi della 183, avrebbero rallentato notevolmente il percorso di applicazione della legge. La Regione, interessata dalla presenza dei quattro bacini interregionali istituiti direttamente dal legislatore centrale (Saccione, Fortore, Ofanto e Bradano) avrebbe contribuito alla costituzione delle rispettive autorità attraverso intese con le Regioni Basilicata e Campania ma, nel predisporre gli schemi previsionali per i diversi bacini regionali, pagava ancora lo scotto di un ritardo nella programmazione e di una sostanziale impreparazione nella disponibilità di piani adeguati alle finalità di difesa del suolo, tutela del sottosuolo e assetto idrogeologico. Così, per adempiere alle previsioni della 183, si assumevano gli strumenti di programmazione e i progetti elaborati negli anni precedenti dai vari consorzi di bonifica che, per le loro finalità irrigue e per la voracità nell'uso delle risorse idriche superficiali e sotterranee, non costituivano certamente gli enti più idonei al conseguimento degli obiettivi posti dalla legge56.

Non a caso, il rapporto tra pratiche agricole ed uso sostenibile delle risorse era individuato anche a livello comunitario come uno dei principali elementi di criticità posti lungo il percorso di ottenimento di standard di protezione ambientale. All'inizio degli anni Novanta la Commissione europea, nell'ambito del Quarto Programma di Azione Ambientale, imprimeva una decisa accelerazione in tema di tutela della acque attraverso l'approvazione di tre direttive destinate a provocare ricadute di lungo periodo negli ordinamenti interni degli Stati membri. Due prime direttive, la 91/676/CEE nota come “Direttiva Nitrati” e la 91/414/CEE nota come “Direttiva Pesticidi”, 56 ACRP, V Legislatura, Resoconti consiliari, seduta n. 43, 18 dicembre 1991.

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stabilivano obiettivi di protezione di tutti i corpi idrici contro i fenomeni di eutrofizzazione e di inquinamento provocati dal dilavamento di sostanze chimiche provenienti da attività agricole. Il quadro veniva completato con un'ulteriore direttiva, la 91/271/CEE sul trattamento delle acque reflue urbane, che, assumendo le difficoltà registrate nell'approccio infrastrutturale alla gestione del problema dello smaltimento dei liquami, fissava il parziale superamento del sistema di raccolta, convogliamento, depurazione e scarico, con nuove metodologie rese disponibili nel campo della “fitodepurazione” e del “lagunaggio”, al fine di promuovere soluzioni locali, più dirette e meno esose, al problema dello smaltimento. L'insieme di queste direttive dunque restituiva un'impostazione complessiva volta a far prevalere l'approccio preventivo su quello correttivo, in cui l'elemento centrale era rappresentato soprattutto dalla produzione di standard di misurazione e monitoraggio validi erga omnes e finalizzati al raggiungimento di una sostanziale uniformità nei criteri di valutazione dello stato delle acque su tutto il territorio della Comunità. La prassi del monitoraggio, diretta conseguenza ed espressione del principio di prevenzione, era destinata a richiamare le competenze agite sul territorio dagli enti locali – in primo luogo dalle Regioni – e ad offrire così un nuovo momento di valorizzazione di un percorso intrapreso con la redazione dei piani regionali di risanamento delle acque. Proprio per tali motivi, l'istituto regionale si candidava a divenire il livello territoriale di incubazione del passaggio da politiche incrementali dell'offerta, incentrate sul fabbisogno idrico, a politiche regolative in cui la preoccupazione prevalente non era più quella di assicurare il consumo di acqua ma di garantire la sussistenza delle stesse

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precondizioni igieniche e ambientali poste alla base di quel consumo. Uno scarto non da poco, destinato ad occupare tempi lunghi e a dispiegarsi pienamente solo nel primo scorcio del Duemila. Il legislatore centrale, infatti, forse anche in base alla consapevolezza dell'assoluta impossibilità di adeguare nei tempi previsti dagli strumenti comunitari lo stato delle reti idriche e fognarie, recepiva con largo ritardo le direttive sui nitrati e sui reflui attraverso il D.Lgs n.153 del 1999, provvedimento che impostava, tra le altre cose, la necessità di compilare nuovi piani regionali di tutela delle acque a sostituzione dei vecchi piani di risanamento. «La messa in atto della direttiva sui nitrati non è stata soddisfacente nella maggior parte dei paesi membri – scriveva l'Agenzia Europea dell'Ambiente (Aea) in un rapporto del 1999 – e sono stati avviati procedimenti nei confronti di [quei paesi] che non hanno ancora provveduto ai necessari adempimenti. Riguardo alla 91/414, ci si è mossi con lentezza glaciale: a sette anni dall'adozione, si è completata l'analisi rispetto ad una sola sostanza attiva su 800 circa»57.

Un'ultima direttiva comunitaria, questa volta del 1992, avrebbe infine segnato una nuova fase nella trasformazione del secolare approccio delle popolazioni pugliesi e delle stesse classi dirigenti verso il problema rappresentato dalle aree palustri e lacustri. La direttiva 92/43/CEE "Habitat", infatti, si poneva in linea di continuità con una precedente convenzione internazionale firmata nel 1971 a Ramsar, in Iran, finalizzata al riconoscimento e alla protezione di «zone umide» di rilevanza internazionale. Ramsar aveva introdotto qualcosa di più di uno

57 Cfr. Agenzia Europea dell'Ambiente (AEA), L’ambiente nell’Unione europea

alle soglie del 2000, Copenaghen 1999, p. 224.

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slittamento di ordine lessicale, introducendo una prima sanzione dei mutamenti di ordine culturale e delle sensibilità nella considerazione degli ecosistemi acquatici e di talune forme degli eccessi dell'acqua. Gli sforzi condotti sin dal Secondo dopoguerra nel Mezzogiorno e in Puglia per la bonifica idraulica delle zone interne e costiere avevano portato di fatto alla soluzione del problema del paludismo. La sconfitta della malaria aveva rappresentato così una cesura epocale, capace di liberare dai temibili miasmi queste aree, prima ritenute «terre perdute», e di renderle disponibili a nuovi usi e nuove destinazioni, in primo luogo a carattere turistico. Questo tipo di sfruttamento però, soprattutto se declinato nella forma dei “poli di insediamento”, si sarebbe rivelato capace di accendere rapidi fenomeni di deterioramento e di definitiva compromissione degli ecosistemi acquatici e di tutte le forme di vita compatibili con l'umidità, già fortemente intaccate dai risultati conseguiti a seguito della lunga stagione delle bonifiche58. In Puglia, il conflitto quasi decennale apertosi sin dal 1972 tra il comune brindisino di Carovigno e l'ente regionale circa la costruzione di un insediamento turistico a Torre Guaceto e sullo stesso significato da attribuire a quell'area, avrebbe definito in modo emblematico l'emergere di tensioni laceranti tra gli interessi orientati allo sfruttamento economico e all'urbanizzazione dell'ennesimo tratto di costa, da una parte, e il contrapporsi di sensibilità sorte attorno al problema della conservazione delle ultime porzioni di habitat ad alto tasso di biodiversità rimaste sul territorio regionale. Nella vicenda di Torre Guaceto, tutta giocata sul tentativo da parte degli investitori di anticipare gli effetti del processo di

58 Cfr. M. Armiero, S. Barca, Storia dell'ambiente, cit.

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inserimento della palude e dell'intero sistema acquatico nella lista delle «zone umide» ai sensi della Convenzione di Ramsar, la Regione Puglia seppe farsi interprete delle nuove istanze di protezione ambientale rappresentate dalle organizzazioni ecologiste – in primo luogo Wwf e Italia Nostra – e dalla mobilitazione dell'opinione pubblica, nonostante tra le forze politiche di maggioranza albergassero gravi contraddizioni destinate a sfociare, nel 1981, in una commissione consiliare di indagine 59 . Tra il 1979 ed il 1981 sul territorio regionale venivano così codificate tre zone umide presso le paludi de “Le Cesine”, le Saline di Margherita di Savoia, e la stessa Torre Guaceto60.

Un decennio più tardi, con la Direttiva Habitat del 1992, la Comunità europea esprimeva l'ambizione di approfondire gli obiettivi di conservazione ambientale attraverso la creazione, entro il 2004, di una rete di “siti di interesse comunitario” e di “zone a protezione speciale” – la Rete Natura 2000 – finalizzata alla protezione degli ecosistemi e della biodiversità anche attraverso la predisposizione di appropriati piani di gestione. Il lento recepimento della direttiva in gran parte degli Stati membri, causato della preoccupazione per l'eccessiva presenza di vincoli alle attività e alla presenza antropica nelle aree della Rete, avrebbe costituito ancora una volta fonte di ritardi ma non poneva certo in discussione il significato profondo dell'intervento, stante nella progressiva conquista, da parte delle istanze ambientali, delle politiche di gestione delle risorse e del territorio. 59 Cfr. ACRP, III Legislatura, Resoconti consiliari, seduta n.73, 16 marzo 1982, p. 73/11.

60 Cfr. The List of Wetlands of International Importance, in http://www.ramsar.org/pdf/sitelist.pdf, consultato il 20 aprile 2011.

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La stagione dell'emergenza. Verso un nuovo modello di governo della risorsa idrica?

Le trasformazioni e i mutamenti di sensibilità registrati a livello legislativo a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta erano dunque destinati a fare i conti con i tempi lunghi della loro applicazione e con una realtà infrastrutturale ancora sbilanciata sul lato dell'approvvigionamento a scapito dei sistemi di smaltimento delle acque. A partire dagli anni Ottanta, del resto, il verificarsi di bassi regimi di piovosità e di vere e proprie crisi siccitose nei bienni 1988-1990 e 2000-2002 avrebbe costantemente ridotto le capacità degli invasi e intaccato la consistenza dei trasferimenti idrici dalla Basilicata alla Puglia. Negli ultimi decenni del secolo prendeva corpo, così, un preoccupante complesso di fenomeni di abusivismo e di illegalità diffusa nelle pratiche di approvvigionamento di acqua, evidente segnale di un imminente collasso del modello di governo delle risorse idriche vigente che di li a poco sarebbe sfociato in uno stato istituzionalizzato di emergenza idrica.

Quando, nel 1993, con D.Lgs n.275 si dispose a livello nazionale una sostanziale sanatoria delle opere di captazione dal sottosuolo con finalità di monitoraggio e gestione della risorsa idrica sotterranea, presso gli uffici del Genio Civile di Lecce sarebbero pervenute circa 28.000 denunce a fronte dei soli 6.000 pozzi che, al momento, risultavano esser stati autorizzati. Più contenuto il fenomeno in provincia di Bari, dove le auto-denunce erano 9.047 contro le 2.500 autorizzazioni61. Lo stato di eccezionale pressione antropica esercitato soprattutto dagli usi

61 Ivi, p. 73.

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irrigui sui corpi idrici sotterranei pugliesi rivelava che, alla fine degli anni Ottanta, l'equazione tra acqua dallo Stato e acqua dal sottosuolo era ormai sempre più fuori controllo mentre la corsa all'appropriazione individualistica del paesaggio invisibile scolpito nel sottosuolo dalle acque pugliesi restituiva concreti rischi di desertificazione del suolo e del sottosuolo. Tutto questo accadeva mentre, al 1987, solo il 30% dei 3.765.000 cittadini pugliesi riceveva acqua potabile a sufficienza e la dispersione fisica nelle reti gestite dall'Acquedotto Pugliese ammontava al 34% 62 . Nelle rilevazioni operate dall'ente in quegli stessi anni, tuttavia, la differenza complessiva tra acqua immessa nelle condutture e acqua erogata all'utenza toccava punte del 50%, segno che alle perdite fisiche, causate dalla consunzione delle opere idrauliche, si andava sommando anche dell'altro, contabilizzato sotto la voce di «perdite amministrative». Dietro questa definizione si celavano non solo l'obsolescenza tecnica degli strumenti di fatturazione dei volumi erogati alle singole utenze ma vere e proprie pratiche illegali, fenomeni di abusivismo e di collusione destinati a minare dalla base il sistema di gestione dell'acqua.

«Abbiamo svolto un'indagine a campione sui contatori – avrebbe dichiarato alla fine degli anni Novanta il commissario dell'Acquedotto Pugliese – dalla quale è risultato che l'85 per cento di essi è privo di sigilli. Montare il contatore al contrario è il sistema più ovvio, ma potrei scrivere un libro sui modi con i quali alterare il corretto funzionamento di un contatore. [...] In questi giorni abbiamo scoperto che una grande società

62 Cfr. Comitato per la Vigilanza sull’Uso delle Risorse Idriche (COVIRI),

Relazione al Parlamento sullo stato dei servizi idrici, 1996.

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industriale di un importante gruppo italiano presente in Puglia in tutti questi anni aveva casualmente svolto una lettura delle prime sei cifre e non della settima: il letturista si era dimenticato la settima cifra. Il risultato è che ha pagato in decine piuttosto che in centinaia. Ma la casistica è enorme. Cosa si può fare quando si scopre che in una città c'è un intero quartiere residenziale composto da 200 appartamenti allacciato al compartimento da dieci anni che non paga l'acqua? Cosa si deve fare al direttore del compartimento, al suo vice capo reparto ed ai relativi impiegati amministrativi? E quando poi si scopre che questa situazione è fortemente diffusa? Poi si rileva che il responsabile è ora in pensione, un altro è stato trasferito ed un terzo, se c'era, dormiva: quando si vanno a verificare certe questioni è sempre così»63.

La situazione di disordine e di irregolarità diffuse nella ripartizione degli usi idrici e nelle stesse pieghe dei meccanismi di funzionamento e di gestione dell'acqua aveva trovato del resto il suo terreno di coltura in eventi ispirati da una gravità qualitativamente diversa. Gli anni Ottanta si erano infatti chiusi, drammaticamente, con un gravissimo periodo di scarsa piovosità che tra l'estate del 1988 e quella del 1990 avrebbe trascinato la Puglia in una nuova “grande sete” e nella proclamazione da parte del Ministero per il Coordinamento della Protezione Civile, il 7 giugno 1988, dello stato di emergenza idrica. Tuttavia, anche nella “grande sete”, un disastro collettivo poteva rappresentare l'occasione di pochi. Mentre le ordinanze per l'emergenza idrica stabilivano la

63 Cfr. Atti Parlamentari, XII Legislatura, Senato della Repubblica, Indagine

conoscitiva sulla gestione dell'Ente Autonomo Acquedotto Pugliese, 1° resoconto stenografico, 1999, p. 13.

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trivellazione e l'utilizzazione potabile di settanta nuovi pozzi nelle province di Bari, Brindisi, Lecce, Potenza e Matera, la dimensione qualitativa e quantitativa degli interventi disposti in regime emergenziale si veniva dilatando, ben al di là del permanere delle situazioni di crisi che li avevano originati, creando nel tempo «un vero e proprio sistema parallelo di gestione delle opere pubbliche basato sulle ordinanze di deroga della protezione civile», con l'effetto precipuo di dirottare risorse straordinarie su centri di spesa ordinaria64. Tra il 1988 ed il 1990, la «supplenza» della Protezione Civile rispetto alla mancanza di un'autorità o di un'agenzia capace di regolare la gestione delle infrastrutture idriche interregionali avrebbe configurato l'Acquedotto Pugliese come l'organismo di transito di finanziamenti per interventi e infrastrutture fino a quasi 150 miliardi di lire, con affidamenti discrezionali, «senza alcuna pubblicità, senza alcuna concorrenza, senza alcuna trasparenza dell'azione amministrativa in nome dell'urgenza e dell'indifferibilità dei lavori»65, facendo balzare il suo disavanzo dai quasi 26 miliardi del 1987 ai 38 miliardi del 1990. Questi due anni di emergenza idrica, che avrebbero infine prodotto lo sconvolgimento delle strutture dirigenti dell'Eaap, anticipavano lo scenario del commissariamento di tutti i livelli istituzionali del governo delle acque che si sarebbe aperto in Puglia a partire dal 1994, segnalando nello stesso tempo che il grande disegno di infrastrutturazione posto a fondamento della gestione della risorsa nel Mezzogiorno sin dal Secondo dopoguerra si trovava 64 Cfr. Atti Parlamentari, XI Legislatura, Relazione della Corte dei Conti al

Parlamento. Ente Autonomo per l'Acquedotto Pugliese. Esercizi 1988-1990, Doc. XV, n.37, 1993, p. 185; si veda anche M. Annesi, Intervento straordinario e grandi infrastrutture: la supplenza della protezione civile, in «Rivista Giuridica del Mezzogiorno», a. II, n. 1, 1988, pp. 75-86.

65 Ivi, pp. 224-225.

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ormai su un binario morto, privo di risorse e di quello spirito pubblico che lo aveva determinato.

Il 1994 costituisce infatti il turning point del lungo percorso di configurazione di un più efficace governo della risorsa idrica in Puglia. Il primo elemento di discontinuità era rappresentato dall'approvazione della legge n.36, la “Legge Galli”, destinata ad introdurre una serie di mutamenti di rilievo. In primo luogo il provvedimento, riconoscendo l'acqua come bene finito e proclamando la priorità del consumo civile su tutti gli altri usi, giungeva ad una definitiva formalizzazione giuridica della messa in discussione della centralità delle utilizzazioni irrigue nell'agenda del governo idrico, operata di fatto già nel 1986 quando si era trattato di indirizzare le risorse dell'intervento straordinario sulla costruzione delle strutture acquedottistiche piuttosto che su nuovi invasi. In secondo luogo, la “Legge Galli” cercava di porre riparo alla situazione di grave frammentazione nel governo locale delle risorse idriche, promuovendo adeguate dimensioni gestionali finalizzate al conseguimento di economie di scala e al reperimento delle risorse soprattutto attraverso le tariffe. Alla metà degli anni Novanta, infatti, circa il 50% della popolazione meridionale era rifornito da gestioni municipali esercitate direttamente in economia, il 5% da imprese e il 45% da aziende municipalizzate o consortili che, pur vantando mediamente un buon livello di servizio, erano legate ai non più sostenibili circuiti della spesa pubblica e strutturate attorno ad artificiosi confini amministrativi, poco rispondenti alle necessità imposte da una risorsa in continuo e dinamico movimento su ampie porzioni di territorio 66 . La legge n.36 avviava quindi un processo di 66 Cfr. Comitato per la Vigilanza sull’Uso delle Risorse Idriche (COVIRI),

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transizione verso un nuovo contesto determinato dall'individuazione di un Ambito Territoriale Ottimale (ATO), governato da un'Autorità d'Ambito e diretta da un Gestore Unico secondo il criterio del Servizio Idrico Integrato (SII), ovvero in base ad un approccio e ad una visione complessiva dell'insieme dei problemi legati all'accumulo, all'adduzione, alla captazione e allo smaltimento delle acque in una delimitata porzione territoriale. Infine, all'esaurimento dell'esperienza storica dei grandi enti interregionali incaricati del trasferimento di ingenti volumi di acqua da un bacino idrografico all'altro, da aree ricche ad aree bisognose, la “Legge Galli” cercava di porre rimedio facendo ricorso al non del tutto agevole sistema degli accordi di programma tra le Regioni.

Il 1994 è però anche l'anno in cui, in Puglia, si da avvio alla lunga stagione delle gestioni commissariali d'emergenza, destinate a durare fino ad oggi e a pilotare la transizione pugliese verso il nuovo modello disegnato dalla “legge Galli” e dagli interventi successivi. Nell'ottobre del 1994, infatti, come a sanzionare lo squilibrio tra infrastrutture di approvvigionamento e reti di smaltimento, l'angoscia del colera tornava a svuotare le strade di Bari. Ne conseguiva, l'8 novembre successivo, la dichiarazione di un nuovo stato di emergenza «in ordine alla situazione socio-economico-ambientale determinatasi nella Regione Puglia», resasi necessaria al fine di «attivare e realizzare gli interventi necessari per fronteggiare la situazione di emergenza nel settore dell'approvvigionamento, dell'adduzione e della distribuzione delle acque, delle fognature e della depurazione, del recapito delle acque depurate», anche attraverso provvedimenti in

Relazione al Parlamento sullo stato dei servizi idrici, 1996.

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deroga alla vigente normativa statale e/o regionale 67 . Al momento della comparsa della nuova infezione colerica, infatti, l'Acquedotto Pugliese gestiva la quasi totalità degli impianti di smaltimento delle acque reflue presenti sul territorio regionale: su 151 impianti, più di due terzi erano inadeguati rispetto alle normative regionali vigenti che, di per sé, prevedevano limiti molto più blandi non solo rispetto alle direttive comunitarie – al tempo non ancora recepite nell'ordinamento nazionale – ma della stessa “Legge Merli” del 197668. Questi impianti erano gestiti dall'Eaap sullo sfondo di una situazione economica al limite del collasso, con un disavanzo superiore ai 70 miliardi e con una pesante situazione di esposizione verso l'altro grande malato del governo idrico regionale: l'Eipli. Il disavanzo dell'Acquedotto Pugliese si traduceva in un rischio sanitario ed ecologico continuo dal momento che il disordine finanziario finiva con il compromettere i rapporti con le imprese concessionarie, rapporti che attorno alla metà degli anni Novanta «non risultavano più governabili» ed erano costantemente sottoposti alla minaccia di sospensione di ogni attività, con conseguente paralisi di gran parte dei compiti istituzionali dell'ente69.

E' possibile suddividere la lunga esperienza dei Commissari Delegati per l'Emergenza Ambientale in due momenti qualitativamente differenti. In un primo periodo, dal 1994 al 2000, l'esercizio alternato della funzione commissariale tra i presidenti delle giunte regionali e i prefetti della Provincia di

67 Cfr. Atti Parlamentari, XII Legislatura, Senato della Repubblica, Indagine

conoscitiva sulla gestione dell'Ente Autonomo Acquedotto Pugliese, 5° resoconto stenografico, 1999, p. 4.

68 Ibidem. 69 Ivi, p. 13.

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Bari, con una scansione semestrale, avrebbe impedito la sedimentazione dei piani e dei disegni programmatori necessari ad affrontare con la dovuta coerenza i problemi di approvvigionamento, smaltimento e tutela delle acque. Questa prima stagione delle gestioni commissariali, tuttavia, sarebbe stata caratterizzata da un primo impulso nella riorganizzazione tecnica e burocratica del governo idrico sulla base delle disposizioni della legge n.36, insediando in Puglia un unico Ambito Territoriale Ottimale con la relativa Autorità – in considerazione della sostanziale unitarietà delle caratteristiche idrogeomorfologiche del territorio regionale – predisponendo il Piano d’Ambito e individuando, nel 1999, il gestore del servizio idrico integrato nell'Ente Autonomo Acquedotto Pugliese, trasformato, dopo l'ennesimo salvataggio finanziario, in una società per azioni (Aqp) con capitale pubblico detenuto per l'87% dalla Regione Puglia e per il restante 13% dalla Regione Basilicata 70 . Nell'agosto del 1999, infine, nonostante aspre tensioni e polemiche destinate a continuare anche negli anni successivi, Puglia e Basilicata sottoscrivevano un Accordo di Programma – uno dei pochi realizzati nell'ambito della legge n.36 – fortemente limitativo dei trasferimenti interregionali: il 40% circa della risorsa disponibile nell'invaso di Monte Cotugno, sul Sinni, veniva destinata all’irrigazione dei comprensori lucani, il 50% al settore potabile e industriale e poco meno del 10% ai comprensori irrigui pugliesi, segnalando così un netto contrasto con l’originaria impostazione dello schema che vedeva la Puglia come principale destinataria delle acque dell’invaso e aggravando, per questa via, la già precaria

70 Cfr. Comitato per la Vigilanza sull’Uso delle Risorse Idriche (COVIRI),

Relazione al Parlamento sullo stato dei servizi idrici. 2002, 2003

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situazione di approvvigionamento idrico per uso irriguo delle province di Taranto e di Lecce.

Un secondo periodo, che corre dal 2000 fino ad oggi, avrebbe consentito, attraverso l'affidamento della gestione commissariale nelle sole mani del Presidente della Regione, di evidenziare il ruolo dell'istituto regionale nel processo di trasformazione del modello di gestione delle acque promosso in ambito comunitario. In questo senso, grande importanza hanno rivestito sia i meccanismi di spesa dei fondi europei, che agirono da catena di trasmissione degli input dalla tecnocrazia comunitaria al livello regionale, sia alcuni provvedimenti normativi di assoluto rilievo promossi dall'Unione Europea, come la Water Framework Directive (Wfd), la direttiva quadro 2000/60 sulle acque. «Se in passato la soddisfazione dei “fabbisogni” antropici era la variabile indipendente e la qualità dei corpi idrici una risultante», con la nuova forma impressa dalla Wfd, il governo delle acque era definitivamente sospinto verso una riorganizzazione del proprio baricentro attorno alla questione imprescindibile del «buono stato ecologico» delle risorse idriche, obiettivo verso cui tutti gli usi – agricoli, civili e industriali – avrebbero dovuto tendere71. L'accento sull'acqua come bene limitato induceva dunque una traslazione del problema idrico dalle politiche dell'offerta incentrate sul ruolo delle grandi opere di trasferimento delle risorsa a quello della tutela, vale a dire verso una dimensione tradizionalmente più organica alle competenze regionali. In seguito all'approvazione della Wfd da parte degli organismi comunitari, anche il livello statale si adeguava in modo emblematico sottraendo le competenze relative alla gestione dell'acqua al Ministero delle 71 Cfr. A. Massarutto, L'acqua, cit., p. 34.

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Infrastrutture e assegnandole al Ministero dell'Ambiente.

Nell'ambito del Quadri Comunitari di Sostegno (QCS) 1994-1999 e 2000-2006 la Commissione europea esercitava dunque decisive pressioni, legando una parte dei finanziamenti relativi ai fondi strutturali al completamento del processo di costituzione dell'Ato e alla revisione del vecchio Piano Regionale di Risanamento delle Acque per mezzo della redazione di un nuovo Piano di Tutela delle Acque, questa volta aggiornato agli standard e agli obiettivi fissati in ambito comunitario e orientato al bando totale degli scarichi pubblici in falda72. La gestione commissariale si trovava così a fornire lo sfondo e la regia di una intensa stagione di piani e programmi, inaugurata dal Programma Operativo Regionale 2000-2006 per la spesa delle risorse comunitarie. Nel 2002 era stata la volta dell'Autorità di Bacino della Puglia (AdB) – istituita a più di un decennio di distanza dalla legge 183/1989 – che due anni più tardi provvedeva all'approvazione di uno stralcio del Piano di Bacino per la difesa del suolo e per l'assetto idrogeologico del territorio regionale. Un nuovo, decisivo passo per la protezione del territorio pugliese e per una pianificazione più sicura degli insediamenti: solo negli ultimi tre decenni del Novecento si erano infatti verificati circa 190 eventi di dissesto idrogeologico, tra frane, piene, alluvioni, smottamenti, apertura di voragini e cedimento delle cavità sotterranee, coinvolgendo strade, abitazioni e infrastrutture e provocando, nell'intero arco di tempo, quasi 350 sfollati73.

72 Cfr. Comitato per la Vigilanza sull’Uso delle Risorse Idriche (COVIRI),

Relazione al Parlamento sullo stato dei servizi idrici. 2002, 2003. 73 Cfr. Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (IRPI), Sistema

Informativo sulle Catastrofi Idrogeologiche, Progetto Aree Vulnerate, in

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Tra il 2002 ed il 2003 venivano inoltre approvati il Piano direttore – a stralcio del Piano di Tutela – e il Piano per il riutilizzo delle acque reflue affinate. Con l'Accordo di Programma tra Governo e Regione Puglia, sopraggiunto nel 2003, venivano infine stabilite ulteriori risorse, addizionali rispetto alle dotazioni comunitarie, per la tutela delle acque, il risparmio idrico e il riutilizzo delle acque reflue, attraverso il completamento della dotazione regionale di fognature e impianti di depurazione.

Il convogliamento di piani e investimenti verso il settore dello smaltimento dei liquami era divenuto centrale non solo per la salvaguardia ecologica dei corpi idrici superficiali e sotterranei ma, soprattutto, per mettere a disposizione dell'agricoltura le acque depurate e rompere il circolo vizioso tra irrigazione e reperimento di quantità incrementali di acqua. Solo per questa strada sarebbe stato possibile allentare lo stato di pressione antropica sulle falde e ribaltare il rapporto di funzionalità tra usi irrigui, il cui peso era ancora preponderante nel bilancio idrico regionale, ed usi civili. Nel 1999, a fronte di un consumo complessivo pari a 1.500 milioni di metri cubi di acqua, il 37% era destinato all'uso potabile, il 55% – ovvero 812 milioni di metri cubi, grosso modo il fabbisogno complessivo della Puglia nel 1973 – era destinato agli usi irrigui e il restante 10% era riservato all'uso industriale. Il fabbisogno idrico complessivo era sorretto per il 55% dagli acquiferi sotterranei, per l'11% dalle sorgenti della Campania e, per il rimanente 34%, da acque superficiali invasate al di fuori del territorio regionale. Più in particolare, mentre gli usi civili erano soddisfatti principalmente dalle acque di sorgente o di invaso addotte attraverso gli schemi idrici, gli usi irrigui e industriali http://sici.irpi.cnr.it/storici.htm, consultato il 20 aprile 2011.

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gravavano per oltre l'80% sulle acque sotterranee74. Non era un caso, dunque, se il monitoraggio delle opere di captazione e di salvaguardia del patrimonio idrico del sottosuolo, avviato nelle more del Piano di Tutela, è andato provocando «tensioni sociali sul territorio75. Le resistenze locali, il fenomeno dell'abusivismo nella costruzione delle opere di captazione, le stesse difficoltà ad intaccare pratiche e culture sedimentate nel tempo restituiscono tuttora una situazione dell'agricoltura pugliese e del suo approvvigionamento idrico tale per cui la dipendenza dalle opere di captazione determina ancora una grave incidenza sugli aspetti ambientali e sulle possibilità di un uso sostenibile della risorsa.

L'agricoltura pugliese dell'ultimo decennio è caratterizzata da una superficie irrigata complessiva di oltre 360 mila ettari, quasi tutti amministrati dai consorzi di bonifica, ma di questa superficie solo un quinto è servito da rete irrigua consortile, una rete per di più intaccata da obsolescenza e minata dalle carenze strutturali degli schemi idrici. Nel Consorzio di Bonifica di Stornara e Tara, dove la rete di distribuzione minuta è stata da tempo completata, l'acqua del Sinni non è mai arrivata. Nei territori del Consorzio di Bonifica dell'Arneo e di Ugento Li Foggi, che utilizzano come fonti di approvvigionamento esclusivamente acque del sottosuolo, gli agricoltori ripudiano l'erogazione pubblica gravata dagli alti costi indotti dagli impianti elevatori consortili e dagli impianti di depurazione. Nei sei consorzi di bonifica pugliesi, il 18% delle acque immesse nelle condotte di trasporto non arriva alle utenze, il che si 74 Cfr. Regione Puglia, Piano di Tutela delle Acque. Relazione generale, 2009. 75 Cfr. Atti Parlamentari, XIV Legislatura, Indagine conoscitiva sull'emergenza

idrica nei centri urbani del Mezzogiorno e delle Isole, 10° resoconto stenografico, 10 luglio 2002, p. 7.

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aggiunge ad una disponibilità idrica pubblica di quasi 280 milioni di metri cubi, largamente insufficiente a coprire il fabbisogno espresso dal comparto. In questa situazione, continua il fenomeno dell'irrigazione privata per mezzo dei pozzi, spesso abusivi. Rilievi satellitari effettuati sulla superficie coperta da colture irrigue hanno rivelato che, a cavallo tra i due secoli, per ogni ettaro di irrigazione pubblica vi erano 3,7 ettari irrigati con pozzi privati. Nel basso Salento, il rapporto era di 1 a 18, nel Consorzio di Bonifica dell'Arneo di 1 a 6576.

Oggi, sul territorio regionale, a fronte dei circa 800 pozzi pubblici – utilizzati in massima parte dai consorzi di bonifica e da Aqp – le stime ipotizzano l'esistenza di almeno 108.000 pozzi privati 77 . I processi di degradazione ambientale stanno consumando l'invisibile paesaggio carsico delle acque pugliesi: rispetto al 1989, quando i segnali di allarme erano già ben evidenti, le acque emunte dal sottosuolo sono qualitativamente peggiori, facendo registrare tassi di salinità inferiori ai limiti di guardia - un grammo per litro – solo in poche e limitate aree78. La «rivoluzione silenziosa» – come è stata definita da Ramon Llamas79 – della terra irrigata dall'acqua sotterranea, ha avuto come perno il basso costo e l'ampia accessibilità delle tecniche di perforazione, oltre alla possibilità di non corrispondere o quasi tributi per l'uso. Altre volte, essa si è palesata come una dimensione dell'adattamento collettivo al fallimento dei grandi 76 Cfr. INEA, Stato dell'irrigazione in Puglia, cit. 77 Cfr. Distretto idrografico dell'Appennino Meridionale, Relazione Sintetica Piano

di Gestione Acque. Territorio Regione Puglia, 2010, http://www.ildistrettoidrograficodellappenninomeridionale.it/, consultato il 20 aprile 2011.

78 Cfr. Regione Puglia, Piano di Tutela delle Acque. Stato quali-quantitativo delle acque sotterranee, 2009, p. 37-38.

79 Cfr. E. Custodio, R. Llamas, Idrologia sotterranea, Palermo 2005.

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progetti e dei grandi racconti dell'acqua dallo Stato. Altre ancora, a questa rivoluzione si è fatalmente contrapposta la pratica di smaltire nel sottosuolo ogni sorta di rifiuti e liquami. L'insieme di questi elementi contribuivano, ancora nel primo decennio del Duemila, a configurare il sottosuolo pugliese come uno “spazio irresponsabile”, impedendo di contemplare il costo ambientale legato allo sfruttamento diffuso delle falde acquifere. Un nuovo provvedimento comunitario, la direttiva 2006/118/CE nota come “Direttiva Acque Sotterranee” (GWD) è tornata tuttavia a richiamare la necessità di una maggiore attenzione sullo stato di salute delle falde acquifere, fissando nuovi valori soglia e sviluppando nuove metodologie condivise su tutto il territorio dell'Unione per il contrasto agli agenti inquinanti. Anche sulla scorta di questo nuovo impulso, tra il 2007 ed il 2009, il Commissario Delegato per l'Emergenza Ambientale ha portato a termine gli effetti della programmazione delle risorse comunitarie per il ciclo 2000-2006 con l'attivazione del “Progetto Tiziano”, quale sistema di monitoraggio dei corpi idrici sotterranei, e il completamento del nuovo Piano di Tutela delle Acque.

L'ultimo decennio è stato dunque interessato da un'intensa attività di programmazione e di pianificazione, nel tentativo di completare la «transizione lunga» verso un nuovo modello di governo delle acque. Il lento recepimento a livello nazionale della Wfd – con il decreto legislativo n.152 del 2006 e la successiva legge n.13 del 2009 – ha del resto confermato che governare una risorsa capitale come l'acqua sia un'indifferibile questione di tempi storici. Del resto, l'ambizioso progetto della direttiva, vale a dire la creazione, su tutto il territorio nazionale, di grandi distretti idrografici destinati a superare lo stato di

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frammentazione territoriale e di competenze e, al contempo, realizzare «un governo coordinato e sostenibile della risorsa idrica», è divenuto realtà negli ultimi anni con l'istituzione del Distretto Idrografico dell'Appennino Meridionale, nel quale è ricompreso il territorio di tutto il Mezzogiorno continentale. La firma, il 6 aprile 2011, del Documento Comune di Intenti preliminare alla stipula di un Accordo di Programma tra tutte le Regioni afferenti il Distretto, alimenta con rinnovato vigore e su basi nuove l'immagine sbiadita dei grandi progetti e delle grandi speranze portate dalla tecnocrazia riformista dell'intervento straordinario per la realizzazione di un governo dell'acqua finalmente solidale tra tutte le regioni del Mezzogiorno.

Per chi guarda agli eventi passati col fine di ritrovare una chiave per il presente questa è più di una suggestione, o forse solamente una nuova tappa in direzione della conquista dell'acqua come «bene comune dell'umanità, diritto inviolabile, non assoggettabile a logiche di mercato e alle regole della concorrenza, la cui gestione è da intendersi quale servizio pubblico essenziale, di interesse generale e senza rilevanza economica»80.

80 Discorso del Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola al Comitato delle

Regioni, 14 febbraio 2011.