istituzioni di diritto dell'unione europea – ugo villani

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1 ISTITUZIONI DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA – UGO VILLANI CAPITOLO 1: ORIGINI, EVOLUZIONE E CARATTERI DELLʼ INTEGRAZIONE 1. I primi movimenti europeisti Uno dei primi promotori del progetto di unire gli Stati europei fu il conte Richard Coundenhove - Kalergi, il quale fondò nel 1924 un’associazione denominata Unione paneuropea, avente lo scopo di preservare l’Europa, da una parte, dalla minaccia sovietica e dall’altra dalla dominazione economica degli Stati Uniti. Fondamentalmente furono tre le concezioni che ispirarono tale progetto: 1. Visione di tipo confederale, avanzata da Aristide Briand, il cui progetto prevedeva la creazione di una organizzazione politica tra gli Stati partecipanti, che avesse obiettivi comuni a tutti ma che non mettesse in discussione la sovranità di ognuno (permanenza dei nazionalismi). 2. Visione di tipo federalista, visione che accomunava tre autori: Spinelli, Rossi e Colorni. Secondo tale impostazione, espressa nel Manifesto di Ventotene, l’obiettivo immediato era un unione politica europea secondo cui i Paesi europei, al fine di assicurare la pace, avrebbero dovuto rinunciare alla propria sovranità, e secondo cui si sarebbe dovuti giungere ad una nuova entità, la Federazione europea, dotata di un proprio esercito, di una propria moneta, di proprie istituzioni e di una propria politica estera (no nazionalismi). 3. Visione funzionalista e graduale, che nonostante il comune obiettivo con la seconda concezione, si proponeva di costruire progressivamente una situazione di integrazione tra i Paesi europei attraverso forme di coesione e solidarietà tra gli stessi (Jean Monnet). 2. Le organizzazioni europee del secondo dopoguerra Una delle prime organizzazioni europee fu lʼOECE, Organizzazione europea di cooperazione economica, creata nel 1948 sotto la spinta di George Marshall, il quale nell’enunciare un piano di aiuti per la ricostruzione dell’Europa sconvolta dalla guerra, chiedeva di creare un istituzione che si assumesse il compito di amministrare tale aiuti. La richiesta fu accolta dai Paesi dell’Europa occidentale e si concretizzò appunto nellʼOECE. Quest’ultima è un organizzazione internazionale di carattere intergovernativo, cioè destinata a operare mediante organi; così come lo è anche l’altra organizzazione europea creata in quegli anni e cioè il Consiglio d’Europa del 1949. 3. La nascita della Comunità europea del carbone e dell'acciaio La CECA nasce come una comunità sopranazionale e non più quindi come un organizzazione Internazionale. La novità è principalmente il trasferimento dei poteri sovrani da parte degli Stati membri a enti, appunto le comunità sopranazionali. Allʼorigine della Ceca vi è la celebre dichiarazione di Robert Schuman, che contiene la proposta, rivolta anzitutto alla Germania (in relazione allo storico contrasto Francia - Germania), ma anche agli altri Stati Europei che intendevano aderirvi, di metterne in comune, sotto un Alta Autorità, lʼinsieme della produzione di carbone e di acciaio, assicurando allo stesso tempo la loro libera circolazione, al fine di favorire una solidarietà tra i due Stati principalmente coinvolti. Lʼapparato organizzativo sarebbe stato formato da unʼAlta Autorità, composta da personalità indipendenti che avrebbero avuto poteri sia esecutivi che normativi nei confronti dei Paesi aderenti ma soggetta a un controllo giurisdizionale a livello europeo, da un Assemblea comune, composta dai rappresentati dei popoli degli Stati membri, dal Consiglio speciale dei ministri e dalla Corte di Giustizia. Questa proposta fu accettata da sei Stati e nellʼAprile del 1951 essi firmarono il trattato istitutivo della CECA, che prevedeva la creazione di un mercato comune dei prodotti carbo-siderurgici, delle condizioni di concorrenza da rispettare come l’eliminazione e il divieto dei dazi e delle restrizione quantitative alla circolazione di tali prodotti tra i Stati membri, degli aiuti e sovvenzioni statali. 4. Il fallimento della comunità europea di difesa (CED) e il rilancio del processo di integrazione europea: la CEE e la CEEA (euratom) Gli stessi Stati che sottoscrissero il Trattato CECA ne firmarono, nel 1952, un altro a Parigi, istitutivo della CED ossia la Comunità Europea di Difesa, che comportava la creazione di un esercito europeo, di un apparato istituzionale di un meccanismo di reazione a qualsiasi aggressione contro uno Stato membro. Tale trattato non entrò però mai in vigore poiché non fu ratificato dalla Francia. Tale fallimento, portò al rilancio del processo di integrazione che condusse alla firma, a Roma, nel marzo del 1957, del Trattato Istitutivo della Comunità economia europea, la CEE, e della Comunità europea dell’energia atomica, la CEEA (Euratom). La CEE ha natura prevalentemente economica e commerciale, come la CECA, ma a differenza di quest’ultima non ha un intervento settoriale ma generale. Stabilisce quindi un unione doganale, l’eliminazione dei dazi, delle restrizioni quantitative

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ISTITUZIONI DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA – UGO VILLANI

CAPITOLO 1: ORIGINI, EVOLUZIONE E CARATTERI DELLʼ INTEGRAZIONE

1. I primi movimenti europeisti

Uno dei primi promotori del progetto di unire gli Stati europei fu il conte Richard Coundenhove - Kalergi, il quale fondò nel

1924 un’associazione denominata Unione paneuropea, avente lo scopo di preservare l’Europa, da una parte, dalla minaccia

sovietica e dall’altra dalla dominazione economica degli Stati Uniti.

Fondamentalmente furono tre le concezioni che ispirarono tale progetto:

1. Visione di tipo confederale, avanzata da Aristide Briand, il cui progetto prevedeva la creazione di una

organizzazione politica tra gli Stati partecipanti, che avesse obiettivi comuni a tutti ma che non mettesse in discussione la

sovranità di ognuno (permanenza dei nazionalismi).

2. Visione di tipo federalista, visione che accomunava tre autori: Spinelli, Rossi e Colorni. Secondo tale impostazione,

espressa nel Manifesto di Ventotene, l’obiettivo immediato era un unione politica europea secondo cui i Paesi europei, al

fine di assicurare la pace, avrebbero dovuto rinunciare alla propria sovranità, e secondo cui si sarebbe dovuti giungere ad

una nuova entità, la Federazione europea, dotata di un proprio esercito, di una propria moneta, di proprie istituzioni e di una

propria politica estera (no nazionalismi).

3. Visione funzionalista e graduale, che nonostante il comune obiettivo con la seconda concezione, si proponeva di

costruire progressivamente una situazione di integrazione tra i Paesi europei attraverso forme di coesione e solidarietà tra gli

stessi (Jean Monnet).

2. Le organizzazioni europee del secondo dopoguerra

Una delle prime organizzazioni europee fu lʼOECE, Organizzazione europea di cooperazione economica, creata nel 1948

sotto la spinta di George Marshall, il quale nell’enunciare un piano di aiuti per la ricostruzione dell’Europa sconvolta dalla

guerra, chiedeva di creare un istituzione che si assumesse il compito di amministrare tale aiuti. La richiesta fu accolta dai

Paesi dell’Europa occidentale e si concretizzò appunto nellʼOECE.

Quest’ultima è un organizzazione internazionale di carattere intergovernativo, cioè destinata a operare mediante organi; così

come lo è anche l’altra organizzazione europea creata in quegli anni e cioè il Consiglio d’Europa del 1949.

3. La nascita della Comunità europea del carbone e dell'acciaio

La CECA nasce come una comunità sopranazionale e non più quindi come un organizzazione Internazionale. La novità è

principalmente il trasferimento dei poteri sovrani da parte degli Stati membri a enti, appunto le comunità sopranazionali.

Allʼorigine della Ceca vi è la celebre dichiarazione di Robert Schuman, che contiene la proposta, rivolta anzitutto alla

Germania (in relazione allo storico contrasto Francia - Germania), ma anche agli altri Stati Europei che intendevano

aderirvi, di metterne in comune, sotto un Alta Autorità, lʼinsieme della produzione di carbone e di acciaio, assicurando allo

stesso tempo la loro libera circolazione, al fine di favorire una solidarietà tra i due Stati principalmente coinvolti. Lʼapparato

organizzativo sarebbe stato formato da unʼAlta Autorità, composta da personalità indipendenti che avrebbero avuto poteri

sia esecutivi che normativi nei confronti dei Paesi aderenti ma soggetta a un controllo giurisdizionale a livello europeo, da

un Assemblea comune, composta dai rappresentati dei popoli degli Stati membri, dal Consiglio speciale dei ministri e dalla

Corte di Giustizia.

Questa proposta fu accettata da sei Stati e nellʼAprile del 1951 essi firmarono il trattato istitutivo della CECA, che

prevedeva la creazione di un mercato comune dei prodotti carbo-siderurgici, delle condizioni di concorrenza da rispettare

come l’eliminazione e il divieto dei dazi e delle restrizione quantitative alla circolazione di tali prodotti tra i Stati membri,

degli aiuti e sovvenzioni statali.

4. Il fallimento della comunità europea di difesa (CED) e il rilancio del processo di integrazione europea: la CEE e la

CEEA (euratom)

Gli stessi Stati che sottoscrissero il Trattato CECA ne firmarono, nel 1952, un altro a Parigi, istitutivo della CED ossia la

Comunità Europea di Difesa, che comportava la creazione di un esercito europeo, di un apparato istituzionale di un

meccanismo di reazione a qualsiasi aggressione contro uno Stato membro. Tale trattato non entrò però mai in vigore poiché

non fu ratificato dalla Francia.

Tale fallimento, portò al rilancio del processo di integrazione che condusse alla firma, a Roma, nel marzo del 1957, del

Trattato Istitutivo della Comunità economia europea, la CEE, e della Comunità europea dell’energia atomica, la CEEA

(Euratom).

La CEE ha natura prevalentemente economica e commerciale, come la CECA, ma a differenza di quest’ultima non ha un

intervento settoriale ma generale. Stabilisce quindi un unione doganale, l’eliminazione dei dazi, delle restrizioni quantitative

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e di ogni altro ostacolo agli scambi di merci tra gli Stati membri, nonché degli ostacoli alla libera circolazione di persone,

servizi e capitali tra gli stessi. La CEE quindi si propone di intervenire soprattutto in quei segmenti dell’economia più

deboli, in quelle fasce sociali fragili e in zone di geografiche in ritardo di sviluppo. Quanto alla CEEA, essa nasce con lo

scopo di contribuire ad elevare il tenore di vita degli stati membri e far sviluppare gli scambi con gli altri paesi.

5. Il carattere sopranazionale delle comunità europee: il parziale trasferimento di poteri legislativi

La differenza principale tra le comunità di cui si è appena parlato (CECA, CED, CEEA) e le comuni organizzazioni

internazionali è proprio il loro carattere sopranazionale.

Entrambe nascono dalla conclusione di un accordo tra gli Stati membri con il quale si stabiliscono degli scopi comuni ma:

Organizzazioni internazionali classiche:

•gli Stati membri sono rappresentati dai propri governi nei vari organi dell’organizzazione;

•assenza della partecipazione dei popoli di tali Stati;

•gli atti di queste organizzazioni hanno come destinatari gli Stati membri, i quali daranno poi esecuzione agli obblighi che

nascono da tali atti.

Comunità sopranazionali:

•partecipazione dei cittadini alla vita della Comunità mediante il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale;

•trasferimento parziale di sovranità dagli Stati membri alle Comunità, i cui organi hanno il potere di adottare atti obbligatori

e applicarli allʼinterno della comunità, senza alcuna mediazione da parte degli stati membri (carattere di diretta e immediata

applicabilità);

•i destinatari dei diritti e degli obblighi che derivano dagli atti comunitari non sono solo gli Stati membri ma anche i loro

cittadini.

Sentenza VAN GEND and LOOS:

- Lo scopo del trattato CEE è quello di creare organi investiti di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti degli Stati

membri e dei loro cittadini

La Corte di Giustizia deve garantire l’uniformità nell’interpretazione dei trattati da parte dei giudici nazionali -

Il diritto comunitario può essere fatto valere dai cittadini davanti ai giudici nazionali

Sentenza COSTA/ENEL:

- Sancisce il primato del diritto comunitario su quello interno incompatibile anche se successivo

- I giudici nazionali e la P.A. devono dare applicazione al diritto dell’unione in luogo delle norme interne in

contrasto con esso

- Tale impostazione è stata accolta anche dalla Corte Costituzionale italiana

6. Il parziale trasferimento di poteri giudiziari e della sovranità monetaria.

Tale trasferimento dagli Stati membri alle Comunità europee non riguarda solo la potestà legislativa ma anche quella

giudiziaria.

Nelle comunità sono presenti una pluralità di competenze, tra le quali quella attribuita alla Corte di giustizia, detta

“pregiudiziale” o di “rinvio”. Essa è regolata nel Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea(TFUE), dallʼ art 267

secondo il quale, nel caso si presentasse un dubbio circa l’interpretazione o la validità del diritto comunitario, la Corte di

giustizia non può decidere circa il caso concreto o risolvere la questione presa in considerazione, ma deve limitarsi solo a

pronunciare la corretta interpretazione della norma comunitaria e decidere se lʼatto sia valido o meno.

Al giudice nazionale spetterà poi decidere dell’applicabilità della norma al caso in questione uniformandosi alla pronuncia

della Corte.

Le sentenze della Corte Di Giustizia sono obbligatorie solo per il giudice a quo, ma hanno comunque valenza generale e

fanno quindi giurisprudenza, perciò nel caso si ripresenti la medesima questione non c’è bisogno di un ulteriore rinvio.

7. L'allargamento delle comunità e dell’Unione Europea

Attualmente il quadro dellʼintegrazione europea si è arricchito e ampliato.

Per quanto riguarda gli Stati membri, da 6 il numero degli Stati appartenenti alle Comunità e allʼUnione europea si è

ampliato agli attuali 27 Stati. Le differenze che sussistono tra gli Stati preesistenti e quelli nuovi hanno reso necessario

introdurre negli atti di adesione delle clausole di Salvaguardia che possono essere usate per evitare di applicare delle

disposizioni a nuovi Stati membri.

Possono essere infatti previste delle deroghe allʼapplicazione del diritto dellʼUnione per i nuovi Stati entranti tenendo conto

delle loro difficoltà ad adeguarsi ai preesistenti standard europei ma anche per tutelare gli interessi degli Stati già membri.

3

8. Gli sviluppo dell'integrazione europea: in particolare lʼatto unico europea del 1986 Essenzialmente, è dagli anni 80

che si è messo in moto il processo che ha condotto poi allʼattuale Unione europea. Uno dei passaggi più significativi fu la

sottoscrizione dellʼatto unico europeo, entrato in vigore il 1°luglio del 1987 e che fa seguito ad un Trattato, approvato dal

Parlamento europeo nel 1984, e noto come Trattato Spinelli. Esso stabiliva che il Parlamento e il Consiglio dellʼ Unione

esercitino congiuntamente il potere legislativo e che una legge potesse essere adottata solo se approvata da entrambi.

Nonostante tale trattato fu un insuccesso, esso fece comunque da base allʼAtto unico europeo, il quale: instaurò una

cooperazione europea in materia di politica estera, basata sullʼinformazione reciproca , sulla cooperazione e sul

coordinamento tra gli stati; diede la possibilità al Consiglio si adottare un atto anche contro la volontà del Parlamento;

fissava una data precisa entro cui la CEE avrebbe dovuto adottare le misure necessarie per il completamento del mercato

interno attraverso la realizzazione di quattro fondamentali libertà di circolazione: merci, persone, servizi, capitali; ha creato

un’unione doganale mediante l ʼ abolizione di dazi doganali e fissando una tariffa comune nei riguardi degli scambi con

paesi terzi. La fissazione di tale termine fu prevista per il 31 dicembre del 1992. 9. Il trattato di Maastricht del 1992 e la

nascita dellʼUnione europea

La struttura portante dellʼodierna Unione europea è rappresentata dal Trattato di Maastricht del 7 febbraio del 1992 ed

entrato in vigore il 1°novembre 1993. Esso riunisce tutte le tre originarie Comunità europee (CECA, CEE E CEEA) e si

fonda su tre pilastri: il primo, rappresentato dalle Comunità europee, il secondo consiste nella politica estera e di sicurezza

comune (PESC), il terzo è relativo alla giustizia e affari interni (GAI). Con lʼentrata in vigore del Trattato di Maastricht

convivono ben 4 trattati: il TUE contenente la disciplina della PESC e della GAI; il Trattato della Comunità Economica

Europea poi ridenominata Comunità Europea; il Trattato dellʼEuratom; il Trattato CECA.

Nel primo pilastro operano pienamente le istituzioni, i procedimenti, il sistema delle fonti e il carattere sopranazionale

proprio della Comunità. Negli altri due pilastri prevale invece il carattere intergovernativo, nel quale operano soprattutto gli

Stati membri, rappresentati dai rispettivi governi.

Sviluppo fondamentale, con tale Trattato, è il passaggio a una moneta unica europea, lʼEuro.

Tale trattato inoltre mostra una spiccata sensibilità per i diritti della persona istituendo una cittadinanza europea, consistente

in uno status giuridico spettante ad ogni cittadino di uno Stato membro dellʼUnione.

Altre due innovazioni del Trattato sono: una nuova procedura di adozione degli atti comunitari denominata ”codecisione”,

la quale comporta che lʼatto sia adottato solo se sul suo testo si registra la comune volontà sia del Parlamento europeo che

del Consiglio; lʼaccettazione di un modello di integrazione europea non necessariamente uniforme per tutti gli Stati membri

denominato a “integrazione differenziata” o flessibile (per esempio il Regno Unito ha scelto di rimanere fuori dallʼ accordo

sulla politica sociale).

Gli sviluppi successivi

Innovazioni significative sono state apportate dal Trattato di Amsterdam del 1997, entrato in vigore nel 1999, in cui si

proclamano i principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, inserendo come obiettivo la

promozione di un elevato livello di occupazione. Sono state apportate modifiche al secondo pilastro, ma soprattutto viene

realizzata una parziale “comunitarizzazione” del terzo pilastro nel senso che materie appartenenti ad esso vengono sottratte

al TUE e passano nell’ambito del Trattato CE. Il terzo pilastro riduce quindi il suo ambito di applicazione alla sola

cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Con il Trattato di Roma del 2004 si voleva creare una Costituzione

Europea: il testo venne elaborato da una Convenzione composta dai rappresentanti dei governi, della Commissione, del

Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali, determinando un processo partecipativo trasparente e aperto come mai era

accaduto in passato. L’ultima parola, però, rimaneva comunque nelle mani dei governi e per questo la Costituzione non

entrò in vigore dato che era necessaria la ratifica di tutti gli Stati membri. Ratifica che non è avvenuta.

10. Il Trattato di Lisbona del 2007

A differenza della Costituzione Europea che aveva come obiettivo quello di unificare in un unico trattato quello sullʼUnione

Europea e quello sulla Comunità Europea, il Trattato di Lisbona conserva la separazione in due distinti Trattati ma

interviene per modificarli.

Il Trattato sulla Comunità Europea viene ridenominato “Trattato sul funzionamento dellʼUnione

Europea” (TFUE), in conformità all ʼ unificazione della Comunità

Europea e dellʼUnione Europea nella sola Unione europea (TUE). Va notato che la suddivisione in due Trattati ha prodotto

un quadro normativo spesso confuso e disordinato, in quanto la disciplina di talune materie è contenuta in parte nel TUE in

parte nel TFUE. Al Trattato di Lisbona sopravvive comunque quello della CEEA (Euratom) anche se con delle modifiche

per raccordarlo a quelle introdotte dal TUE e dal TFUE. Contenuti del Trattato:

• Abolizione della struttura in 3 pilastri;

• Il settore della PESC rimane soggetto a regole specifiche che ne sottolineano il carattere prettamente intergovernativo.

Struttura del Trattato:

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• Istituzione di un Presidente dell’Unione eletto per un mandato di 2 anni e mezzo dal Consiglio Europeo;

• Istituzione di un Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, avente l’incarico di

Presidente del consiglio degli “Affari estri” e di Vicepresidente della Commissione;

• Vengono aumentati i poteri del Parlamento europeo in materia di bilancio e di adozione degli atti dellʼUnione,

diventando, la codecisione, la procedura legislativa ordinaria (accrescimento della legittimità democratica); • Viene

garantito il valore giuridico della Carta di Nizza dei diritti fondamentali;

• Definitivo abbandono di un’ottica meramente economica e mercantile dellʼUnione.

CAPITOLO II: OBIETTIVI, PRINCIPI E CARATTERI DELLʼUNIONE EUROPEA E DEI TRATTATI

1. Gli obiettivi dell’Unione europea

Gli obiettivi dell’Unione europea sono indicati nell’art. 3 TUE. Tale norma offre un quadro ampio nel quale confluiscono

gli obiettivi che, in passato caratterizzavano i tre “pilastri” (consistenti della comunità europea, PESC, cooperazione di

polizia e giudiziaria penale). Tale articolo, inoltre, mostra un ampliamento del progetto europeo, comprensivo di una

gamma di valori ed interessi da tutelare e realizzare a favore dei cittadini europei.

L’art. 3 TUE, al par. 1 dichiara che: “l'Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi

popoli”. Il riferimento ai “valori” non si riduce ad un vago richiamo a generici principi, ma l’art. 2 TUE enuncia tali valori,

il cui rispetto è condizione imprescindibile per l’ingresso di nuovi Stati membri, ed è garantito con un procedimento

sanzionatorio nei confronti di Stati che siano già membri dell’Unione.

Il par. 2 dello stesso art. 3 prevede inoltre che “l’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia

senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto

concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro

quest'ultima”.

Questo obiettivo richiama il settore che, secondo la terminologia del Trattato di Maastricht del 1992, era denominato

“giustizia e affari interni”, costituente il terzo pilastro dellʼUnione europea.

Lʼespressione “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” usata dallʼart. 3, mette in luce il necessario contemperamento tra le

esigenze di libertà di circolazione e quelle di sicurezza, sia ai confini esterni dellʼUnione, che allʼinterno, mediante la

cooperazione giudiziaria e di polizia.

Di particolare importanza è il riferimento al mercato interno, contenuto nel par. 3 dellʼart. 3. Questo “comporta uno spazio

senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali

secondo le disposizioni dei trattati”. (art. 26, par. 2) Questo paragrafo dichiara anche che l’unione combatte l’esclusione

sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra

generazioni e la tutela dei diritti dei minori; promuove la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà fra gli

Stati membri; rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del

patrimonio culturale europeo.

Ai sensi dell'art. 3, par. 4, TUE: “l'Unione istituisce un'unione economica e monetaria la cui moneta è l'euro”. A tale

enunciazione si collega la realizzazione di una politica economica e di una politica monetaria, contemplate dallʼart. 119

TFUE, che rispetti “prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibili”.

La politica economica è condotta congiuntamente dallʼUnione e dagli Stati membri, i quali restano, in principio,

competenti ad assumere le proprie determinazioni; tuttavia essi non sono del tutto liberi in materia. Essi sono tenuti ad

operare per la realizzazione dei fini di cui allʼart. 3 TUE e nel rispetto dei principi di un’economia di mercato aperto e di

libera concorrenza. Inoltre essi devono fondare le loro politiche su uno stretto coordinamento tra di loro con lʼUnione.

L’Unione adotta poi degli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell’Unione; e sebbene

questa delibera sia una raccomandazione, l’art. 121 TFUE istituisce un meccanismo di sorveglianza sul rispetto di tali

indirizzi. Gli Stati sono inoltre tenuti ad evitare disavanzi pubblici eccessivi e anche al riguardo è istituti auna procedura di

sorveglianza da parte dell’Unione, la quale può comportare decisioni obbligatorie rivolte allo Stato in situazione di

disavanzo eccessivo affinché adotti misure correttivi e, in caso di inadempimento, sanzioni nei suoi confronti.

Il meccanismo di sorveglianza sui parametri stabiliti a livello europeo è stato notevolmente rafforzato con l’adozione di un

nuovo “Patto di stabilità e crescita” (c.d. Six Pack), consistente in cinque regolamenti e una direttiva entrati in vigore da

dicembre 2011. Tali provvedimenti prevedono forme di sorveglianza preventiva, rigorosi controlli e sanzioni, anche

finanziarie, sia nel caso di disavanzi eccessivi che di superamento di determinati limiti del debito pubblico. Ulteriori vincoli

sono stati fissati con il Trattato di Bruxelles dal 2012 sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione

5

economica e monetaria (c.d. Fiscal Compact), che però non appartiene al diritto dell’Unione europea, essendo un accordo

internazionale estraneo al sistema giuridico dell’Unione.

La politica monetaria, al contrario, costituisce ormai una competenza esclusiva dell’Unione, come risulta dallo stesso art.

119, par.2, TFUE, e dall’art.3 par. 1, lett. C, che dichiara che l’Unione ha competenza esclusiva nella politica monetaria per

gli Stati membri la cui moneta è l’euro.

La politica monetaria unica e la politica dei cambi unica sono connaturate all’introduzione di una moneta unica, l’euro.

L’Unione esercita la politica monetaria tramite i suoi organi monetari, mentre per la politica dei cambi è competente il

Consiglio.

Lʼart. 3, par. 5, TUE enuncia gli obiettivi dellʼUnione europea nelle relazioni internazionali:” nelle relazioni con il resto

del mondo l'Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini.

Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i

popoli, al commercio libero ed equo, all'eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti

del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della

Carta delle Nazioni Unite”. Queste disposizioni mostra la volontà dellʼUnione europea di dare vita a una politica estera

unitaria, ponendosi sulla scena internazionale come un soggetto politico, non solo a tutela dei propri interessi e di quelli

dei propri cittadini, ma anche facendosi portatrice di interessi e valori di carattere generale, come la pace e la sicurezza, lo

sviluppo sostenibile, il commercio libero ed equo, l’eliminazione della povertà e la tutela dei diritti umani.

Il quadro degli obiettivi perseguiti dallʼUnione europea va completato alla luce delle “disposizioni di applicazione generale”

contenute nel titolo II della parte prima del Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea, che non si limitano a

organizzare il funzionamento dellʼUnione, ma ne precisano gli obiettivi, stabilendo talune esigenze delle quali essa deve

tenere conto, nonché i principi ai quali deve uniformarsi la propria azione.

Per quanto riguarda le disposizioni dalle quali si ricavano obiettivi dellʼUnione europea, va osservato che tali obiettivi sono

configurati come trasversali alle diverse politiche e azioni dellʼUnione, nel senso che queste ultima, oltre alle specifiche

finalità cui sono preordinate, devono tendere a realizzare i suddetti obiettivi. Questi comprendono l'eliminazione delle

ineguaglianze e la promozione della parità tra uomini e donne; la promozione di un elevato livello di occupazione, la

protezione sociale, la lotta contro l’esclusione, un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della saluta umana, al

lotta alle discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione, le convinzioni personali; la tutela

dell’ambiente; la protezione dei consumatori.

Infine, l’art. 7 TFUE prescrive la necessità di coerenza fra le diverse attività dellʼUnione, avendo di mira il complesso dei

suoi obiettivi.

Ulteriori disposizioni, talune di notevole importanza, riguardano i servizi di interesse economico generale, la trasparenza

nell’azione delle istituzioni, organi e organismi dellʼUnione, la protezione dei dati personali.

2. I valori fondanti dellʼUnione europea

Il Trattato UE stabilisce, allʼart. 2, i valori sui quali lʼUnione si fonda:

“L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato

di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono

comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla

giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Tali valori vengono posti a fondamento dellʼUnione europea e, sono dichiarati comuni agli Stati membri. Ciò implica la

necessità che gli Stati membri condividano e rispettino tali valori; in caso contrario, da un lato non è possibile per uno Stato

essere ammesso dallʼUnione, dall’altro uno Stato membro può essere sottoposto ad una procedura sanzionatoria, con

conseguente sospensione di alcuni diritti.

Una precisa definizione di tali valori non è sempre agevole. La dignità umana appare come il fondamento dell’intero

complesso dei diritti umani. L’uguaglianza, per un verso, costituisce essa stessa un diritto fondamentale, per altro verso, si

collega allo stato di diritto.

Quanto alla libertà, secondo l’opinione prevalente il termine non va riferito alle numerose libertà riconosciute dai Trattati

(libertà di circolazione delle merci, persone, servizi e capitali), ma alla sua dimensione politica, quale garanzia di rispetto di

una sfera di autonomia dei cittadini rivendicata nei riguardi dei pubblici poteri e sottratta alla loro ingerenza.

Il valore della democrazia implica un rinvio ai principi basilari delle democrazie occidentali. Esso non comporta alcun

modello rigido, che sarebbe, invece, in contrasto con lo stesso principio di democrazia; richiede, tuttavia, la garanzia di

alcuni requisiti minimi ma essenziali e irrinunciabili, quale la derivazione dei pubblici poteri dalla volontà popolare.

Tuttavia tale principio, in particolare nel quadro del procedimento di adozione degli atti normativi europei, non poteva dirsi

6

adeguatamente realizzato, essendo palesemente insufficiente la mera consultazione del Parlamento europeo. Tale situazione

è stata denunciata come problema del deficit democratico, problema che sono progressivamente aveva trovato soluzione

nell’ambito della Comunità europea, con la previsione del procedimento della codecisione nel quale il potere legislativo è

esercitato su un piano di parità dal Consiglio e dal Parlamento europeo.

Il valore dello stato di diritto è mutuato dalla moderna concezione dello Stato in contrapposizione allo Stato assoluto e, in

riferimento agli Stati membri, comporta la sottoposizione della società e dei pubblici poteri alla legge. Con riguardo

allʼUnione europea, esso esprime la necessità che nella stessa Unione tutte le istituzioni e gli organi europei, gli Stati

membri, siano subordinati al rispetto del diritto risultante dagli stessi Trattati, dal diritto derivato e da ogni norma giuridica

applicabile nellʼordinamento europeo.

Lʼart. 2 TUE richiama, infine, il rispetto dei diritti umani. L’espressione implica un rinvio non solo agli ordinamenti degli

Stati membri, ma anche ai principi affermatisi a livello internazionale, a cominciare dalla Dichiarazione universale dei diritti

dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948.

3. Segue: il meccanismo sanzionatorio nel caso di violazione grave e persistente di tali valori

I valori contemplati allʼart. 2 TUE hanno una valenza sia esterna, nei riguardi degli Stati che si candidano all’ammissione

dellʼUnione, che interna, verso gli Stati membri.

Sotto il primo profilo lʼart. 49 TUE dichiara che “ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all'articolo 2 e si impegni a

promuoverli può domandare di diventare membro dell'Unione”.

L’osservanza di questi valori, oltre che l’appartenenza all’Europa, rappresenta, dunque, un requisito essenziale per

lʼammissione allʼUnione.

Se lʼUnione esige il rispetto dei valori dellʼart. 2 ai fini dell’ammissione, essa considera anche la possibilità che si determini

una involuzione in Stati membri, riguardo al sistema democratico o ad altri valori ivi enunciati. Pertanto lʼart. 7 TFUE ha

istituito un procedimento di controllo sulla condotta degli Stati membri, ce può condurre allʼaccertamento di un grave e

persistente violazione dei suddetti valori e, di conseguenza, a sanzioni sospensive di diritti inerenti alla qualità di membro

dellʼUnione.

Il par. 2 dispone che “il Consiglio europeo, deliberando all'unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della

Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare l'esistenza di una violazione grave e

persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2, dopo aver invitato tale Stato membro a presentare

osservazioni”.

Tale disposizione non riguarda l’ipotesi di una sporadica violazione, per quanto grave, dei valori di cui allʼart. 2: deve

trattarsi di una violazione grave e persistente, cioè di una condotta di una politica statale in contrasto con gli stessi, come nel

caso di un colpo di Stato, o di una politica razzista, o di repressione dell’opposizione, di abituale ricorso alla tortura, di

soppressione della libertà di stampa ecc. Alla gravità della situazione da accertare corrispondono le garanzie che circondano

il procedimento in esame. Occorre, infatti, a seguito di proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione, la

deliberazione unanime del Consiglio europeo e l’approvazione del Parlamento europeo, cioè una sua deliberazione che

dichiari negli stessi termini del Consiglio europeo, lʼesistenza della grave e persistente violazione dei valori di cui allʼart. 2.

È anche garantito il principio del contraddittorio, con il diritto dello Stato in questione a esporre le proprie ragioni prima che

il Consiglio europeo e il Parlamento europeo deliberino.

Alla constatazione della grave e persistente violazione può seguire la decisione di sanzioni contro lo Stato membro,

consistenti della sospensione di alcuni dei diritti derivanti dai Trattati, compreso il diritto di voto nel Consiglio, ferma

restando, per tale Stato, la necessità di continuare a rispettare gli obblighi connessi alla sua qualità di membro.

Le misure sanzionatore possono essere successivamente modificate o revocate dal Consiglio, per rispondere ai cambiamenti

della situazione che ha portato alla loro imposizione.

La procedura regolata dallʼart. 7 TUE, sicuramente garantista per quanto riguarda il ruolo degli organi politici (Consiglio

europeo, Consiglio e Parlamento europeo), non è soggetta, invece, a un adeguato controllo giudiziario. Infatti lʼunica

competenza esercitabile in proposito dalla Corte di giustizia riguarda gli aspetti procedurali (quali la regolare delibera o il

rispetto del principio del contraddittorio) non anche il merito, cioè lʼesistenza della grave e persistente violazione, ed è

attivabile solo dallo Stato oggetto della constatazione.

Dalla sua introduzione con il Trattato di Amsterdam il procedimento in esame non è mai stato applicato.

In seguito allʼ”affare Haider”, il Trattato di Nizza del 2001 ha inserito nellʼart. 7 un nuovo par. 1 che, modificato dal

Trattato di Lisbona del 2007, risulta così formulato:

“Su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione europea, il Consiglio,

deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa approvazione del Parlamento europeo, può

constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2.

Prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle

raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura”.

7

Si stabilisce così una difesa più avanzata dei valori previsti dallʼart. 2 mediante una procedura di preallarme, volta a

verificare l’esistenza di un’evidente rischio di violazione grave e a prevenire la stessa commissione della violazione.

4. I principi democratici

Il Trattato di Lisbona introduce delle disposizioni specificatamente relative ai principi democratici agli articoli 9-12 TUE.

Prescindendo dallʼarticolo 9, concernente la cittadinanza dellʼUnione, lʼart. 10, par. 1, afferma tali principi nella forma

della democrazia rappresentativa, dichiarando che “il funzionamento dellʼUnione si fonda sulla democrazia

rappresentativa”.

Il concetto di democrazia rappresentativa è sviluppato anche nel par. 2, secondo il quale “i cittadini sono direttamente

rappresentati, a livello dell'Unione, nel Parlamento europeo.

Gli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio europeo dai rispettivi capi di Stato o di governo e nel Consiglio dai

rispettivi governi, a loro volta democraticamente responsabili dinanzi ai loro Parlamenti nazionali o dinanzi ai loro

cittadini”. Tale disposizione ribadisce quella duplice legittimità democratica, che consiste, da un lato, nella legittimità

“europea”, che si manifesta nella rappresentanza diretta dei cittadini dellʼUnione europea nel Parlamento europeo;

dall’altro, nella legittimità “nazionale”, che si esprime nella rappresentanza indiretta dei popoli dei singoli Stati membri

nell'ambito del Consiglio europeo e del Consiglio, attraverso i Capi di Stato o di governo e attraverso i governi a loro

volta democraticamente responsabili verso i parlamenti nazionali.

L’attuazione del principio della democrazia rappresentativa è perseguita, per quanto riguarda la rappresentanza diretta dai

cittadini dellʼUnione nel Parlamento europeo, mediante lʼattribuzione di una pluralità di poteri a tale istituzione, che

mostrano un rafforzamento del suo ruolo rispetto al quadro anteriore all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Esso

acquista un potere pari a quello del Consiglio nell’adozione degli atti legislativi a seguito della generalizzazione della

codecisione quale procedura legislativa ordinaria.

Il ruolo del Parlamento europeo, in ossequio i principi democratici, si esplica anche nei rapporti con le altre istituzioni

europee. Di particolare rilievo sono i poteri del Parlamento europeo nei riguardi della Commissione.

Alla rappresentanza dei singoli popoli degli Stati membri è dedicata una specifica disposizione, l’art. 12, il quale dà una

notevole visibilità e peso politico ai parlamentari nazionali. Esso dichiara: “i parlamenti nazionali contribuiscono

attivamente al buon funzionamento dell’Unione”.

Essi, da un lato, esercitano nell’Unione una rappresentanza indiretta, controllando, stimolando e orientando l’azione dei

rispettivi governi all’interno delle istituzioni europee; dall’altro, esprimono direttamente la propria rappresentatività

popolare operando nei rapporti con le istituzioni europee, senza alcuna mediazione dei loro esecutivi.

I Parlamenti nazionali esercitano la rappresentanza indiretta attraverso i poteri di controllo e indirizzo sui rispettivi governi

in merito alle posizioni che questi ultimi assumeranno all’interno del Consiglio; ma esercitano anche una rappresentanza

diretta, senza mediazione dei propri governi, con riguardo al procedimento (ordinario o semplificato) di revisione dei

Trattati.

L’art. 5, par. 3, dichiara poi che i parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà e di proporzionalità.

L’art. 10, par. 4, riconosce anche il ruolo dei partiti politici, che contribuiscono a formare una coscienza politica europea e

ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione. Il par. 3 stabilisce poi che i cittadini europei hanno diritto di partecipare

alla vita democratica dell’Unione. Tale norma enuncia il principio di prossimità, richiedendo che le decisioni concernenti la

vita dell’Unione siano assunte al livello più vicino al cittadino.

L’art. 11 ha poi ad oggetto la democrazia partecipativa, in particolare assegna un potere di iniziativa popolare.

Nel 2011 è stato emanato un regolamento riguardante l’iniziativa dei cittadini. L’iniziativa di chiedere alla Commissione di

presentare un’adeguata proposta, su un tema per il quale i cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini

dell’attuazione dei Trattati, sia sostenuta da almeno un milione di cittadini firmatari, che questi provengano da almeno un

quarto degli Stati membri e che, in ciascuno di tali Stati, essi corrispondano almeno al numero dei deputati al Parlamento

europeo eletti nello Stato moltiplicati per 750 (art. 7)

La procedura prende avvio con la formulazione di una proposta d’iniziativa da parte di un comitato di organizzatori, che

viene registrata dalla Commissione se è il comitato è costituito in maniera conforme al regolamento, se la proposta non

esula dalle competenze, se non ha contenuto futile o vessatorio. Le dichiarazioni di sostegno vengono poi raccolte entro 12

mesi. Se ottiene il sostegno ex art. 7, la Commissione esamina l’iniziativa ed entro tre mesi espone le sue conclusioni

giuridiche e politiche, le azioni che intende intraprendere. Non esistono rimedi per contestare la sua eventuale decisione di

non dare corso all’iniziativa, mentre un rifiuto di trascrivere la proposta d’iniziativa per assenza delle condizioni previste è

soggetto a ricorsi anche giudiziari.

8

5. Il rispetto dei diritti umani fondamentali

Tra i valori fondamentali dellʼUnione europea lʼart. 2 TUE menziona il rispetto dei diritti umani. Ai diritti umani è dedicato

l’intero art. 6 TUE. Partendo dal par. 3, esso rappresenta il punto di approdo della evoluzione della giurisprudenza della

Corte di giustizia. Esso dichiara che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei

diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno

parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali”.

In una prima fase, la Corte di giustizia aveva rifiutato di tenere conto, ai fini di valutare la legittimità di un atto comunitario,

della eventuale violazione di diritti umani, garantiti dalle costituzioni degli Stati membri. Infatti nella sentenza Stork c. Alta

Autorità, aveva respinto un ricorso diretto all’annullamento di una decisione della CECA, ritenuta pregiudizievole per i

diritti fondamentali alla libera esplicazione della propria personalità e all’esercizio della propria attività professionale,

tutelati da quasi tutte le costituzioni degli Stati membri.

Successivamente la Corte ha compiuto una decisiva svolta, affermando che i diritti umani fondamentali fanno parte del

diritto comunitario quali suoi autonomi principi generali, basati sulle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e

agli accordi internazionali sui diritti umani. La vigenza, quali principi generali del diritto dellʼUnione europea, dei diritti

fondamentali dell’uomo, ispirati alle costituzioni degli Stati membri e agli accordi in materia, obbliga le istituzioni europee

al loro rispetto. Di conseguenza atti di tali istituzioni emanati in loro violazione sono illegittimi e suscettibili di essere

annullati dalla Corte di giustizia. Ma l’appartenenza dei diritti fondamentali ai principi generali del diritto dellʼUnione

determina la loro obbligatorietà anche nei confronti degli Stati membri, purché, ovviamente, ciò si trovi nelle materie

rientranti nell’ambito dei competenza del diritto dellʼUnione europea. Pertanto la Corte è competente ad accettare

l’infrazione di uno Stato membro derivante dalla sua condotta in violazione dei diritti fondamentali.

Ciò implica che, per esempio, la violazione di uno Stato membro del diritto di associazione, o delle libertà di espressione, o

di circolazione all’interno di tale Stato, non è sindacabile di per sé da parte della Corte di giustizia. Ma se una siffatta

violazione è commessa nel contesto delle materie appartenenti al diritto dellʼUnione, quali l libera circolazione dei

lavoratori subordinati, o il diritto di stabilimento di quelli autonomi, o la libera circolazione delle merci o dei servizi, esso

comporta un inadempimento degli obblighi propri del diritto dellʼUnione e, pertanto, ben può provocare l’apertura di una

procedura d’infrazione.

L’inserimento dei diritti umani fondamentali nel diritto dellʼUnione europea è avvenuto grazie alla giurisprudenza in

qualche misura creativa della Corte di giustizia.

Per quanto riguarda il richiamo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo la Corte di giustizia, di recente, pur

ribadendo l’appartenenza dei diritti da essa contemplati al diritto dell’Unione, ha escluso che, in virtù di tale richiamo, la

Convenzione sia direttamente applicabile all’interno degli Stati membri e sia provvista del “primato” sulle norme nazionali

incompatibili che caratterizza il diritto dell’Unione. In una sentenza del 2012, la Corte ha affermato che l’art. 6 non

disciplina il rapporto tra CEDU e ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un

giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto

nazionale. Pertanto il rinvio operato dall’art. 6 alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una

norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la

norma di diritto nazionale in contrasto con essa.

Mentre il par. 3 corrisponde sostanzialmente a una disposizione già presente nel Trattato sull’Unione europea, nuovi sono

gli altri due paragrafi inseriti dal Trattato di Lisbona del 2007. Il par. 1 attribuisce valore giuridicamente obbligatorio alla

Carta di Nizza dei diritti fondamentali del 2000, riproclamata, con adattamenti, a Strasburgo il 12 dicembre 2007. I diritti

fondamentali comunque continuano ad operare, sia nei riguardi delle istituzioni e organi dell’Unione che degli Stati

membri, nelle sole materie che formano oggetto già delle competenze dell’Unione europea. Anche la Corte di giustizia nel

2011 ha avuto modo di sottolineare che le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente

nell’attuazione del diritto dell’Unione.

Al par. 2 lʼart. 6 stabilisce che lʼUnione aderirà alla Convenzione europea dei diritti dellʼuomo del 1950, e tale adesione

non modifica le competenze dellʼUnione definite nei Trattati.

Lʼaccordo di adesione richiede una decisione unanime del Consiglio, previa approvazione del Parlamento europeo, e tale

decisione entra in vigore solo a seguito di approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme

costituzionali.

6. I procedimenti di revisione dei Trattati

I Trattati sui quali si fonda lʼUnione europea possono essere modificati attraverso una procedura di revisione ordinaria e

mediante procedure di revisione semplificate, regolate dallʼart. 48 TUE. L’iniziativa della procedura di revisione ordinaria

spetta ad ogni Stato membro, al Parlamento europeo o alla Commissione. Questi, infatti, “possono sottoporre al Consiglio

progetti intesi a modificare i trattati. Tali progetti possono, tra l'altro, essere intesi ad accrescere o a ridurre le competenze

9

attribuite all'Unione nei trattati. Tali progetti sono trasmessi dal Consiglio al Consiglio europeo e notificati ai parlamenti

nazionali”.

I progetti di revisione, dunque, possono essere diretti anche “a ridurre le competenze” dellʼUnione. Questa possibilità

rappresenta un’assoluta novità. Infatti, sino al Trattato di Lisbona eventuali modifiche dei Trattati potevano solo

approfondire il processo, non certo determinare un regresso, quale invece si verificherebbe mediante la riduzione delle

competenze dell’Unione. Ciò era previsto nellʼart. 2 TUE, nel testo anteriore al Trattato di Lisbona, il quale assegnava

allʼUnione europea lʼobiettivo di “mantenere integralmente lʼacquis comunitario e svilupparlo al fine di valutare in quale

misura si renda necessario rivedere le politiche e le forme di cooperazione instaurate dal Trattato allo scopo di garantire

l'efficacia dei meccanismi e delle istituzioni comunitarie”.

Il termine acquis originariamente stava ad indicare il complesso delle realizzazioni, dei risultati acquisiti nell’ambito

comunitario, cioè l’insieme del diritto derivato della Comunità europea, gli atti giuridicamente obbligatori, quali gli accordi

conclusi dalla Comunità con Stati terzi, le convivenze concluse tra gli Stati membri sulla base dei Trattati, ma anche atti di

carattere più squisitamente politico, come accordi interistituzionali, nonché la giurisprudenza della Corte di giustizia e del

Tribunale di primo grado.

L’obiettivo di mantenere integralmente lʼacquis comunitario, significava, quindi, che lʼazione dellʼUnione non poteva in

alcun caso pregiudicare o rimettere in discussione quanto conseguito, ma doveva tendere costantemente

all'approfondimento e la progresso delle realizzazioni dellʼUnione.

Dunque, la possibilità oggi prevista dallʼart. 48, par., 2, TUE, di ridurre le competenze dellʼUnione, segna un’inversione

rispetto a tale tendenza.

Il Consiglio europeo, previa consultazione del Parlamento europeo e della Commissione, nonché della Banca centrale

europea, in caso di modifiche istituzionali nel settore monetario, può adottare, a maggioranza qualificata, una decisione

favorevole allʼesame delle modifiche proposte. In questo caso “il presidente del Consiglio europeo convoca una

convenzione composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei capi di Stato o di governo degli Stati membri, del

Parlamento europeo e della Commissione. La convenzione esamina i progetti di modifica e adotta per consenso una

raccomandazione a una conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri quale prevista al paragrafo 4”. La

convenzione, assicurando una rappresentanza delle istituzioni europee (Parlamento europeo e Commissione) e dei

parlamenti nazionali, oltre che dei governi, garantisce un metodo che non è più solo intergovernativo, ma partecipativo,

democratico, articolato e trasparente.

La convenzione non può essere convocata, con decisione a maggioranza semplice del Consiglio europeo e approvazione del

Parlamento europeo, qualora lʼentità delle modifiche non giustifichi la convocazione. In questo caso lo stesso Consiglio

europeo definisce il mandato per una conferenza intergovernativa (art. 48 par. 3, 2 comma)

La convenzione, che delibera mediante consenso, e quindi senza formale votazione, adotta una raccomandazione, mentre la

decisione spetta alla conferenza formata dai soli rappresentanti dei governi degli Stati membri, la quale adotta il testo sul

quale abbia trovato unʼintesa unanime. Lʼentrata in vigore delle modifiche richiede la ratifica di tutti gli Stati membri, cioè

la stipulazione di un nuovo trattato di revisione. Se dopo due anni dalla firma di un tale trattato, i quattro quindi degli Stati

membri lo abbiano ratificato, mentre gli altri abbiano incontrato delle difficoltà, lʼart. 48, par. 5, dispone che della

questione si occupi il Consiglio europeo questʼultimo potrà solo aprire un dibattito politico, ma non può imporre il trattato

di revisione agli Stati che non lo abbiano ratificato, né assicurare l'entrata in vigore tra i ratificanti, a prescindere

dallʼassenza anche di una sola ratifica.

Lʼart. 48 TUE contempla anche procedure di revisione semplificate. Una prima, regolata nel par. 6, riguarda le modifiche

relative alle parte terza del Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea, concernente le politiche e le azioni interne

dellʼUnione. La procedura inizia anche in questo caso con un progetto di qualsiasi stato membro del Parlamento europeo o

della Commissione, sottoposto al Consiglio europeo. Questʼultimo, previo parere del parlamento europeo, della

Commissione o, se del caso, della Banca centrale europea, può decidere allʼunanimità di modificare le disposizioni della

parte terza del TFUE. Questa procedura è stata impiegata per la prima volta con la decisione del Consiglio europeo

2011/199/UE, che modifica l’art. 136 TFUE aggiungendo un paragrafo che permette agli Stati membri la cui moneta è

l’euro di istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della eurozona nel

suo insieme, subordinando la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria a una rigorosa condizionalità. In base a tale

previsione è stato concluso il Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità (MES: c.d. fondo salva Stati).

Lʼadozione della decisioni del Consiglio europeo non è sufficiente, peraltro, per lʼentrata in vigore della modifica. Infatti, “

tale decisione entra in vigore solo previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme

costituzionali”. Per quanto riguarda lʼItalia, tale approvazione dovrebbe avere luogo mediante ratifica, previa autorizzazione

con legge del Parlamento (ex artt. 87 e 80 Cost.).

Tale procedura, infine, non può essere utilizzata per estendere le competenze attribuite allʼUnione dai Trattati.

10

Lʼaltra procedura di revisione semplificata, di cui allʼart. 48, par. 7, riguarda il passaggio dalla votazione allʼunanimità nel

Consiglio, in un determinato settore o in un caso determinato, alla votazione a maggioranza qualificata. Il passaggio

dall'unanimità alla maggioranza qualificata nel Consiglio mediante tale procedura semplificata è esclusa in varie materie,

come le decisioni che hanno implicazioni militari o che rientrano nel settore della difesa e i casi previsti dallʼart. 353 TFUE

(risorse proprie dellʼUnione, quadro finanziario pluriennale, ecc.). Le modifiche sono adottate dal Consiglio europeo

all'unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza dei suoi membri. Lʼiniziativa

del Consiglio europeo va trasmessa ai parlamenti nazionali e, in caso di opposizione, entro sei mesi fa tale trasmissione, da

parte anche di un solo parlamento nazionale, la decisione “non è adottata”.

Oltre a queste procedure di revisione (ordinaria e semplificata), specifiche disposizioni dei trattati prevedono, per

determinati casi, ulteriori procedure semplificate di revisione e, talvolta, procedure di “revisione delegata” che consistono

nell’attribuzione alle istituzioni europee del potere di adottare atti diretti a integrare o sviluppare il contenuto di particolari

disposizioni. Si tratta delle disposizioni contenute negli art. 25, 2° comma TFUE (disposizioni tese a completare i diritti dei

cittadini ddell’Unione), art. 223, par. 1, 2° comma TFUE (suffragio universale diretto dal Parlamento europeo secondo una

procedura uniforme o secondo principi comuni a tutti gli Stati membri), art. 311, 3° comma TFUE (sistema di risorse

proprie dell’Unione). In questi casi la delibera del Consiglio, previa approvazione del Parlamento europeo, non è sufficiente

a determinare le indicate modifiche: queste entrano in vigore solo quando siano espresse le conformi volontà degli Stati

membri mediante un atto di approvazione delle stesse modifiche. Alla fase gestita dalle istituzioni europee, fa seguito quindi

una fase governativa, con la quale viene garantito il rispetto delle volontà degli Stati in merito alle modifiche ai Trattati. In

altre disposizioni, come art. 218 TFUE (modifica alle disposizioni dello Statuto della Corte di giustizia), la modifica dei

Trattati consegue direttamente alla decisione delle istituzioni europee.

L’art. 257 TFUE infine consente al Parlamento europeo e al Consiglio di istituire con regolamenti tribunali specializzati

incaricati di conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi in materie specifiche.

Al tema della revisione semplificata si lega anche la possibilità di attribuire allʼUnione delle competenze “sussidiarie”,

ampliando i suoi poteri mediante un procedimento che si esaurisce sul piano esclusivamente europeo.

Ciò si chiede, infine, se le predette procedure di revisione, in particolare quelle regolate dallʼart. 48 TUE, abbiano carattere

esclusivo o se modifiche ai Trattati possano essere adottate anche per altra via, in particolare mediante un accordo tra tutti

gli Stati membri. La Corte di giustizia ha dato una soluzione negativa, richiedendo che sia obbligatoriamente seguito lʼiter

prescritto dallʼart. 48.

7. Lʼammissione dei nuovi membri

AllʼUnione europea possono aderire nuovi Stati membri. La procedura di ammissione è regolata dallʼart. 49 TUE, il quale

prevede due fasi. La prima si svolge nel quadro delle istituzioni europee, la seconda coinvolge, invece, gli Stati membri. Da

tale disposizione si ricava, anzitutto, che il procedimento prende lʼavvio su iniziativa dello Stato che intende aderire

allʼUnione europea. Essa, inoltre, prescrive due requisiti per lʼadesione: uno di natura geografica, cioè che lo Stato

candidato appartenga allʼEuropa, lʼaltro di natura politica, cioè che tale Stato rispetti e promuova quei valori, enunciati

dallʼart. 2 TUE, sui quali si fonda lʼUnione. Il primo criterio è oggetto di una mera constatazione da parte delle competenti

istituzioni dell'Unione, anche se la Commissione ha precisato che la nozione di Stato europeo non si esaurisce in una

visione geografica, ma comporta la considerazione anche di elementi storici e culturali, che contribuiscono a forgiare

lʼidentità europea; il secondo implica un giudizio, una valutazione ad opera di tali istituzioni.

Il Consiglio delibera all’unanimità, e ciò comporta che lʼadesione di un nuovo membro è subordinata al consenso di tutti gli

Stati membri. La pronuncia del Consiglio fa seguito al parere della Commissione e all'approvazione del Parlamento.

Diverso è il loro valore giuridico. Il parere della Commissione è obbligatorio, nel senso che per la validità della procedura di

adesione, il Consiglio è giuridicamente tenuto a consultare la Commissione; ma il parere di quest’ultima non vincola il

Consiglio, che può discostarsene. Al contrario, l'approvazione del Parlamento europeo comporta che la delibera del

Consiglio sia subordinata al suo consenso.

Lʼultima parte della norma in esame (inserita dal Trattato di Lisbona) riferendosi ai criteri di ammissibilità convenuti dal

Consiglio europeo, codifica una tecnica che è stata sperimentata con risultati soddisfacenti riguardo alle più recenti adesioni.

Essa consiste nel predeterminare dei criteri ai quali i candidati devono conformarsi progressivamente, nel corso di una fase

di pre-adesione, sotto il controllo della Commissione che ne verifica il rispetto.

Una volta che il Consiglio abbia deliberato di accogliere la domanda di adesione, si svolge una seconda fase, che si

conclude con la stipulazione di una accordo tra lo Stato aderente e gli Stati membri, contenente le condizioni di ammissione

e gli adattamenti dei Trattati (art. 49 comma 2).

Lʼingresso dello Stato richiedente nellʼUnione ha luogo solo al momento in cui entra in vigore lʼaccordo di adesione; e tale

entrata in vigore è subordinata alla ratifica degli Stati contraenti.

11

Nella prassi le due fasi del procedimento di adesione rendono a sovrapporsi e a concludersi simultaneamente, con la

decisone del Consiglio di accogliere la domanda del Paese candidato e con lʼadozione dellʼaccordo di adesione. Inoltre un

ruolo determinate sulle scelte e sui tempi dellʼadesione è svolto dal Consiglio europeo.

8. Il recesso dallʼUnione europea

Il Trattato sullʼUnione europea non conteneva alcuna disposizione in merito ad un eventuale diritto di recesso unilaterale

degli Stati membri. Lʼart. 53 TUE esprime la volontà di dare alla costruzione europea una durata permanente (“il presente

Trattato è concluso per una durata illimitata”).

Peraltro, un diritto di recesso doveva ritenersi consentito alle condizioni previste dal diritto internazionale generale

concernente la sospensione e lʼestinzione dei trattati, codificato nella Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati;

per esempio, qualora vi sia il consenso degli altri Stati membri o nel caso di mutamento fondamentale delle circostanze. Il

Trattato di Lisbona, per la prima volta, ha attribuito agli Stati membri un diritto di recesso volontario, cioè non subordinato

più a condizioni sostanziali, come il mutamento delle circostanze, ma solo procedurali e tali, comunque, da non impedire a

uno Stato membro di ritirarsi, se lo vuole, dallʼUnione. Infatti, lʼarticolo 50 TUE, dichiara che:

“1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione.

2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti

formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del

recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione. L'accordo è negoziato conformemente all'articolo

218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio,

che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo”.

Lʼaccordo sulle modalità del recesso segna anche il momento di cessazione dellʼapplicazione dei Trattati allo Stato

interessato, momento che coincide con lʼentrata in vigore dellʼaccordo. Ma, se non si riesce a concludere un accordo, i

Trattati cessano ugualmente di essere applicabili due anni dopo la notifica della decisione di recedere. Al termine dei due

anni, eventualmente prorogabili, il recesso produce pienamente lʼeffetto di estinguere lo status di membro dellʼUnione.

Nulla esclude che tale Stato possa successivamente rientrare nellʼUnione, ma a tal fine va applicato il procedimento di

ammissione regolato dallʼart. 49 TUE.

CAPITOLO III: I PRINCIPI DELIMITATIVI TRA LE COMPETENZE DELLʼUNIONE EUROPEA E QUELLE

DEGLI STATI MEMBRI

1. Le competenze di attribuzione

Le competenze dellʼUnione sono delimitate rispetto a quelle esercitabili dagli Stati membri in base ad alcuni principi, i quali

segnano lo spartiacque tra le competenze delle istituzioni europee e quelle che restano nellʼambito di tali Stati. Esse

riguardano sia la delimitazione delle competenze tra lʼUnione e gli Stati membri, sia lʼesercizio di tali competenze una volta

definito lʼambito della loro appartenenza rispettiva.

Il primo principio viene in rilievo ai fini della ripartizione delle competenze tra lʼUnione e gli Stati membri. Si tratta del

principio di attribuzione (art. 5, par.2): “in virtù del principio di attribuzione, l'Unione agisce esclusivamente nei limiti

delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti.

Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri”.

Il principio della competenza di attribuzione significa che lʼUnione dispone esclusivamente di quelle funzioni e di quei

poteri che gli Stati membri hanno volontariamente convenuto di attribuirle mediante i Trattati istitutivi, ogni altra

competenza restando nelle mani degli Stati. Dunque, i poteri dellʼUnione europea non sono poteri “originari”, cioè poteri

che essa possiede per forza propria, come lo Stato è titolare della sovranità territoriale a titolo originario. I suoi poteri sono

“derivati”, in quanto attribuiti dagli Stati membri volontariamente, attraverso gli accordi istitutivi dellʼUnione. Tale

carattere dei poteri dellʼUnione conferma che essa non intende assurgere a una sorta di super Stato o Stato federale, ma si

colloca nel solco delle organizzazioni internazionali.

Lʼassenza di un intento federalistico, nellʼattuale sistema europeo, è confermato dallʼart. 4, par. 2, TUE che, facendo

seguito alla riaffermazione secondo la quale qualsiasi competenza non attribuita allʼUnione nei Trattati appartiene agli Stati

membri, dispone che: “lʼUnione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita

nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali […]”. Tale

norma ha, dunque, il significato di salvaguardare la sovranità degli Stati membri escludendo ogni trasformazione

dellʼUnione europea in una entità federale. Ampia portata ha, però, il riferimento allʼidentità nazionale degli Stati membri,

che comprende il complesso della cultura, della civiltà delle tradizioni, dellʼarte di ciascuno Stato; e il suo rispetto esprime

l'esigenza di preservare le specificità, le diversità di ciascuno Stato, le quali non vanno annullate in nome di unʼipotetica

omologazione a livello europeo. Ciò non significa negare unʼidentità culturale europea, ma tale identità europea va vista

come un continuo arricchimento che nasce dallʼincontro, dalla reciproca conoscenza, dal reciproco apprezzamento della

12

ricchezza di civiltà e di cultura della quale ogni Stato membro è portatore. Il rispetto del principio di attribuzione è

giuridicamente sanzionato. Ove, infatti, lʼUnione o le sue istituzioni agissero al di là delle competenze ad esse conferite, gli

atti emanati sarebbero illegittimi, in quanto viziati da incompetenza e soggetti a dichiarazione di nullità da parte dei giudici

dellʼUnione.

La Corte di giustizia ha più volte ribadito che le competenze dellʼUnione sono soltanto quelle attribuite dalle disposizioni

dei Trattati e non possono spingersi oltre lʼambito da esse risultanti.

Tuttavia a certe condizioni il principio di attribuzione non esclude che gli Stati possano attribuire alle istituzioni europee

determinate funzioni, con un accordo autonomo e distinto rispetto all’ordinamento dell’Unione. Tale giurisprudenza è stata

ribadita in una sentenza del 2012 (Pringle).

Di recente poi il problema della compatibilità con il principio di attribuzione, in particolare riferito alle competenze delle

istituzioni (art. 13, par.2) si è posto riguardo a due accordi internazionali conclusi tra Stati membri dell’Unione nel quadro

del rafforzamento della governance europea dell’economia e delle misure volte a contrastare la crisi finanziaria ed

economica che ha investito l’Europea. Ciò riferiamo al MES e al Fiscal Compact: non appartengono al diritto dell’Unione,

trattandosi di accordi internazionali, soggetti alla ratifica degli Stati parti per la loro entrata in vigore ed estranei

all’ordinamento giuridico dell’Unione, anche se il Trattato sul Fiscal Compact prevede la sua incorporazione in tale

ordinamento entro cinque anni dalla sua entrata in vigore e stabilisce che esso va interpretato e applicato in conformità dei

Trattati sui quali si fonda l’Unione europea e subordinatamente agli stessi. Questi trattati attribuiscono alle istituzioni

dell’Unione alcune competenze e poteri, che non sempre appaiono giustificabili in base ai Trattati europei, e prevedono

procedure diverse da quelle stabilite in questi ultimi, come l’adozione semiautomatica delle proposte e delle

raccomandazioni della Commissione nei confronti di uno Stato della zona euro che abbia violato i propri obblighi, nel

quadro della procedura per disavanzi eccessivi, salvo che a esse si opponga la maggioranza qualificata degli Stati aderenti

all’euro. La Corte di giustizia, nella sentenza Pringle, ha dichiarato che il MES non viola il principio di attribuzione.

2. Le competenze “sussidiarie”

Il principio delle competenze di attribuzione appare ridimensionato dalla possibilità, espressamente prevista dallʼart. 352

TFUE, di conferire nuovi poteri, detti “competenze sussidiarie”, allʼUnione senza una formale modifica dei Trattati. Tale

articolo, contenente la c.d. clausola di flessibilità, dichiara che:

“Se un'azione dell'Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli

obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio,

deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le

disposizioni appropriate. Allorché adotta le disposizioni in questione secondo una procedura legislativa speciale, il

Consiglio delibera altresì all'unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo”.

Il procedimento è alquanto rigoroso, essendo richiesti la proposta della Commissione, lʼapprovazione del Parlamento e il

voto unanime del Consiglio. Essendo questʼultimo formato dai ministri degli Stati membri, la regola dellʼunanimità implica

che lʼattribuzione di nuove competenze allʼUnione è subordinata al consenso di tutti gli Stati membri.

Lʼipotesi prevista dallʼart. 352 è che un determinato scopo rientri già nella competenza dellʼUnione (“nel quadro delle

politiche definite nei Trattati”), ma che questʼultima non sia stata provvista dai Trattati dei poteri dʼazione necessari per

realizzarlo; per cui tali poteri vengono attributi mediante il procedimento in esame.

Lʼart. 352 pone vari limiti alla sua applicazione. Anzitutto, le misure fondate su tale articolo non possono comportare

unʼarmonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i Trattati la escludano.

Inoltre il ricorso a tale procedura è del tutto escluso in materia di politica estera e di sicurezza comune, a conferma che,

malgrado lʼapparente eliminazione dei “pilastri dellʼUnione”, tale materia conserva una sua specificità che la sottrae alle

regole generali, di origine comunitaria, operanti nellʼordinamento dellʼUnione.

Occorre tenere conto, inoltre, anche della Dichiarazione 41, allegata al Trattato di Lisbona, secondo la quale lʼart. 352

TFUE può essere applicato solo per perseguire gli obiettivi indicati dallʼart. 3, par. 2,3 e 5, TUE. Ne restano esclusi, quindi,

lʼobiettivo di promozione della pace, dei valori dellʼUnione e del benessere dei suoi popoli, lʼunione economica e monetaria

e la PESC.

Nella prassi anteriore al Trattato di Lisbona il corrispondente art. 308 del Trattato sulla Comunità europea è stato applicato

centinaia di volte e, attraverso il procedimento ivi contemplato, vere e proprie nuove materie sono stata attribuita alla

competenza della Comunità, come, ad esempio, la protezione dell'ambiente, la tutela dei consumatori, la ricerca scientifica.

Oggi le limitazioni previste nel testo e, soprattutto, la difficoltà di raggiungere un voto unanime dei ventisette Stati membri

presenti nel Consiglio inducono a prevedere un uso più ridotto della “clausola di flessibilità”.

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Va sottolineato che il procedimento volto a conferire nuovi poteri allʼUnione resta soggetto al rispetto dei principi di

sussidiarietà e di proporzionalità, i quali limitano sia la possibilità di intervento dellʼUnione, sia i tipi di atti adottabili, i

quali devono essere il meno intrusivi possibile nei confronti degli Stati membri.

3. I c.d. poteri impliciti

Oltre alla disposizione dellʼart. 352 TFUE, il principio delle competenze di attribuzione risulta limitato da una consolidata

giurisprudenza della Corte di giustizia. Si tratta della giurisprudenza nella quale la corte di giustizia fa applicazione della

c.d. teoria dei poteri impliciti, elaborata dalla Corte suprema statunitense con lʼobiettivo di rafforzare e ampliare le

competenze dello Stato federale. Secondo tale teoria, lʼUnione europea deve ritenersi provvista non solo dei poteri ad essa

conferiti espressamente dei Trattivi istituitivi (poteri espliciti), ma anche dei poteri (impliciti), pur non menzionati dai

Trattati, che siano funzionali ai poteri espliciti; che siano, cioè, necessari per garantire che i poteri suddetti siano esercitati

nella maniera più efficace.

Esemplare di tale giurisprudenza è la sentenza AETS del 31 marzo 1971, con la quale la Corte affermò la competenza della

Comunità a concludere accordi internazionali in materia di trasporti. Secondo la Corte, tale competenza non deve essere

espressamente prevista dal Trattato ma può desumersi anche da altre disposizioni dei Trattati e da atti adottati in forza di

queste disposizioni dalle istituzioni dell’Unione.

4. Le categorie di competenza dellʼUnione europea

Il principio di attribuzione non esaurisce la disciplina relativa alle competenze dellʼUnione. Occorre, infatti, stabilire se il

conferimento di tali competenze escluda una competenza degli Stati membri o, al contrario, coesista con tale competenza e

quali siano la natura e l'intensità dei poteri assegnati allʼUnione nelle materie rientranti nelle proprie competenze.

Anteriormente al Trattato di Lisbona, sebbene varie disposizioni dei Trattati si riferissero a materie di competenza esclusiva

della Comunità, o prevedessero una competenza sia della Comunità che degli Stati membri, mancava una disciplina

organica della materia. Alcuni contributi importanti erano stati dati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, ma

lʼassenza di una normativa rendeva problematica la definizione degli ambiti di competenza rispettiva delle istituzioni

europee e degli Stati membri. Il Trattato di Lisbona ha colmato questa lacuna, distinguendo tre categorie di competenze

dellʼUnione, alle quali sono dedicati gli articoli 2-6 TFUE. Esse sono le competenze esclusive, quelle concorrenti e quelle di

sostegno, coordinamento o completamento dellʼazione degli Stati membri. Tali categorie, peraltro non esauriscono la

tipologie delle competenze dellʼUnione. Una posizione a sé, infatti, occupa la politica estera e di sicurezza comune (PESC),

fondate essenzialmente su metodi e atti di carattere intergovernativo.

Per quanto riguarda le tre categorie generali di competenza, lʼart. 2, par. 1, TFUE definisce le competenze esclusive

affermando che:” quando i trattati attribuiscono all'Unione una competenza esclusiva in un determinato settore, solo

l'Unione può legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri possono farlo autonomamente solo se

autorizzati dall'Unione oppure per dare attuazione agli atti dell'Unione”.

Pertanto, nelle materie di competenza esclusiva dellʼUnione solo questa può adottare atti obbligatori, salva autorizzazione

data agli Stati membri e salva una competenza, legislativa e amministrativa, di tali Stati al fine di eseguire le disposizioni

emanate dallʼUnione. Secondo lʼart. 3, par. 1, TFUE le materie di esclusiva competenza sono: a) unione doganale;

b) Definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno;

c) Politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l'euro;

d) Conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; e) politica commerciale

comune.

A tali materie il par. 2 aggiunge la conclusione di accordi internazionali, a determinate condizioni. Tali ipotesi di

competenza esclusiva vanno considerate di carattere tassativo, per cui ulteriori materie potrebbero essere stabilite solo

modificando i Trattati.

Per quanto riguarda, invece, la competenza concorrente, lʼart. 2, par. 2, TFUE, dichiara che: “quando i trattati

attribuiscono all'Unione una competenza concorrente con quella degli Stati membri in un determinato settore, l'Unione e

gli Stati membri possono legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti in tale settore. Gli Stati membri esercitano la

loro competenza nella misura in cui l'Unione non ha esercitato la propria. Gli Stati membri esercitano nuovamente la loro

competenza nella misura in cui l'Unione ha deciso di cessare di esercitare la propria”.

Dunque, nei casi di competenza concorrente il potere di adottare atti giuridicamente obbligatori appartiene, di regola, sia

alle istituzioni europee che agli Stati membri. Questi ultimi, peraltro, possono esercitare la propria competenza solo quando

lʼUnione non abbia esercitato i suoi poteri, oppure quando abbia deciso di abrogare un proprio atto. Ai sensi del Protocollo

n. 25 sullʼesercizio della competenza concorrente, peraltro, quando lʼUnione emana un atto di un determinato settore, gli

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Stati membri non possono più agire solo rispetto agli elementi disciplinati da tale atto, non già nell'intero settore cui lʼatto si

riferisce. In ogni caso, nell'emanare propri atti gli Stati membri devono pur sempre rispettare gli obblighi derivanti dalla

loro appartenenza allʼUnione, anche in conformità dellʼobbligo di leale collaborazione previsto dallʼart. 4, par. 3, TUE.

Le materie “principali” di competenza concorrenti, contemplate dall'art. 4, par. 2, sono: a)

Mercato interno;

b) Politica sociale, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel presente Trattato;

c) Coesione economica, sociale e territoriale;

d) Agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare; e) ambiente; f) Protezione dei

consumatori;

g) Trasporti;

h) Reti transeuropee;

i) Energia;

j) Spazio di libertà, sicurezza e giustizia;

k) Problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel presente Trattato.

Tale elenco, a differenza di quello relativo alle materie di competenza esclusiva dellʼUnione (e a quello delle materie di

sostegno, coordinamento o completamento), è esemplificativo, non esaustivo. La norma, infatti, qualifica espressamente tali

materie come i “principali” settori di competenza concorrente. Il par. 1 dellʼart. 4 dichiara in termini generali, che lʼUnione

ha una competenza concorrente con gli Stati membri ogni qual volta un settore non ricade nella competenza esclusiva (art. 3

TFUE) o in quella di sostegno, coordinamento o completamento (art. 6 TFUE). Dunque, la competenza concorrente si

presenta come residuale, rispetto alle altre, nonché di carattere generale, ivi rientrandovi qualsiasi materia non

espressamente prevista dagli artt. 3 o 6.

Infine, lʼart. 2, par. 5, TFUE dichiara che “in taluni settori e alle condizioni previste dai trattati, l'Unione ha competenza

per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l'azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla

loro competenza in tali settori”.

Questa terza categoria, delle competenze dellʼUnione di sostegno, coordinamento o completamento, consiste in un’opera di

assistenza allʼazione degli Stati membri. I settori compresi in tali competenza, anchʼessi enunciati in maniera tassativa, sono

elencati nellʼart. 6 TFUE, e sono:

a) Tutela e miglioramento della salute umana;

b) Industria;

c) Cultura;

d) Turismo;

e) Istruzione, formazione professionale, gioventù e sport;

f) Protezione civile;

g) Cooperazione amministrativa.

Tali competenze non riguardano in toto tali materie, ma solo “nella loro finalità europea”, cioè solo nella misura in cui esse

concernano la dimensione europea, e non quella meramente interna, di tali settori.

A fini della individuazione del tipo di competenza, deve essere ricordato il par. 6 dellʼart. 2, secondo il quale “la portata e

le modalità d'esercizio delle competenze dell'Unione sono determinate dalle disposizioni dei trattati relative a ciascun

settore”.

Questo significa che gli specifici poteri dellʼUnione, gli atti emanabili, le procedure di adozione degli atti stessi vanno

stabiliti sulla base delle disposizioni dei Trattati che disciplinano ciascuno dei settori, disposizioni in prevalenza contenute

nella parte terza e nella parte quinta del TFUE.

5. Il principio di sussidiarietà

I Trattati sui quali si fonda lʼUnione provvedono non solo a determinare le competenze dellʼUnione e quelle degli Stati

membri, ma anche a stabilire i principi in base ai quali lʼUnione esercita le sue competenze.

A tale proposito, lʼart. 5, par. 1, TFUE dichiara che: ”l'esercizio delle competenze dell'Unione si fonda sui principi di

sussidiarietà e proporzionalità”.

Il primo, principio di sussidiarietà, è stato introdotto dal Trattato di Maastricht del 1992. “In virtù del principio di

sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l'Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi

dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello

regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell'azione in questione, essere conseguiti meglio a

livello di Unione”.

Il principio di sussidiarietà non riguarda la ripartizione di competenze tra lʼUnione e gli Stati membri, ma il loro esercizio.

Esso distingue, infatti, le materie di competenza esclusiva dellʼUnione, nelle quali il principio non opera proprio perché può

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intervenire solo lʼUnione e non gli Stati membri, e le altre, cioè le materie di competenza concorrente, nonché quelle

concernenti le azioni di sostegno, coordinamento o completamento.

Lʼapplicazione del principio di sussidiarietà va affermata anche in materia di PESC e nelle politiche economica e di

occupazione, nelle quali i principali attori sono gli Stati membri.

Il principio di sussidiarietà è diretto essenzialmente a salvaguardare lʼambito di operatività degli Stati

membri, ponendo un argine ad un eccessivo attivismo e ad una invadenza della Comunità.

Lʼart. 5, par. 3, TFUE, infatti, appare espresso in maniera chiaramente restrittiva, rispetto allʼintervento dellʼUnione,

richiedendo, affinché esso sia giustificato, che sussistano entrambe le seguenti condizioni: lʼinsufficienza dell'azione statale

al fine della realizzazione degli obiettivi perseguiti e, per lʼaltro verso, il “valore aggiunto” insito nellʼintervento europeo,

tenuto conto delle dimensioni o degli effetti dellʼazione in questione. Lʼintento restrittivo della disposizione è confermato

dalle parole “soltanto se e in quanto”.

Il principio di sussidiarietà, oltre a rappresentare una difesa delle competenze degli Stati membri di fronte al rischio di un

eccessivo attivismo dellʼUnione, si collega allo scopo che le scelte, le decisioni concernenti il perseguimento degli obiettivi

europei siano assunte al livello più adatto a consentire ai cittadini di esprimere le proprie esigenze e le proprie

determinazioni. Si parla, al riguardo, di principio di prossimità, riconosciuto nellʼart. 1, 2° comma, TUE accanto al principio

di trasparenza.

Il collegamento tra tali principi è alla base anche dellʼesplicito riferimento, introdotto dal Trattato di Lisbona, ai livelli

statali non solo centrali, ma anche regionali e locali. Il principio di sussidiarietà tende ora a individuare il più idoneo livello

di intervento per la realizzazione degli obiettivi dellʼUnione, muovendo da quello locale, al livello regionale, nazionale ed

europeo, avendo come criterio guida, non solo lʼefficacia dellʼazione, ma anche la vicinanza ai cittadini.

Al principio di sussidiarietà si riferisce anche il Protocollo n. 2, il quale dispone che la Commissione, prima di proporre un

atto legislativo (salvo caso di straordinaria urgenza), effettua ampie consultazioni tenendo conto anche della dimensione

regionale e locale dellʼazione intrapresa. Ogni proposta di atto legislativo deve essere motivata con riguardo al principio di

sussidiarietà, e anche a quello di proporzionalità, e accompagnata da una scheda contenente elementi circostanziati che

consentano di valutare il rispetto di tali principi.

Il Protocollo n. 2 inserito dal Trattato di Lisbona aggiunge una serie di disposizioni volte a garantire lʼinformazione dei

parlamenti nazionali e a conferire loro poteri di vigilanza significativi.

Esso prevede infatti l’obbligo, a seconda dei casi, della Commissione, del Parlamento europeo e del Consiglio di trasmettere

ai parlamenti nazionali i progetti di atti legislativi europei e i progetti modificati; analogamente sono trasmesse, non appena

adottate, le risoluzioni legislative del Parlamento europeo e le posizioni del Consiglio. Rispetto ai progetti di atti legislativi

europei ciascun parlamento nazionale può mettere in moto una procedura di preallarme, entro otto settimane dalla

trasmissione del progetto di atto, se non ritiene che questo sia conforme al principio di sussidiarietà.

Se poi un atto da adottare con la procedura legislativa ordinaria sia contestato, per violazioni della sussidiarietà, dalla

maggioranza semplice dei voti dei parlamenti nazionali, la Commissione deve riesaminare la proposta e, ove intenda

mantenerla, deve inviare il proprio parere e quelli dei parlamenti nazionali al Parlamento europeo e al Consiglio. Questi ne

tengono conto e ne esaminano la compatibilità con il principio di sussidiarietà. Se il Consiglio ritiene che non sia

compatibile con una maggioranza del 55%, o il Parlamento con la maggioranza dei voti espressi, non si procede all’esame

nel merito e la proposta è respinta.

Il principio di sussidiarietà comporta una notevole margine di discrezionalità per quanto concerne sia il profilo

dellʼinsufficienza dellʼazione statale a conseguire gli obiettivi di interesse comune, sia quelli relativo al valore aggiunto

offerto dallʼintervento dellʼUnione europea. Ciò non esclude, tuttavia, che il rispetto di tale principio sia oggetto del

sindacato giudiziario attribuito alla Corte di giustizia sulla legittimità degli atti dellʼUnione. La Corte, infatti, è competente a

pronunciare lʼinvalidità di un atto che sia viziato per “violazione dei trattati” (art. 263, comma2, TFUE) e non è dubbio che

in tale ipotesi rientri la violazione del principio di sussidiarietà.

Sembra che tale principio abbia provocato una sorta di autolimitazione nella Commissione, arginando così allʼorigine quella

eccedenza legislativa, alla quale il principio di sussidiarietà intendeva porre un freno. Infatti sono diminuite le proposte

normative da parte della Commissione, a seguito dell’introduzione del principio di sussidiarietà nell’ordinamento europeo.

6. Il principio di proporzionalità

Il secondo principio sul quale si fonda lʼesercizio delle competenze dellʼUnione è il principio di proporzionalità. Ai sensi

dellʼart. 5, par. 4, TUE: “in virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell'azione dell'Unione si limitano

a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati”. Esso, considerato dalla giurisprudenza della Corte di

giustizia quale principio generale del diritto dellʼUnione, vincola non solo lʼUnione, ma anche gli Stati membri, con la

conseguenza che la sua violazione da parte di questi ultimi rappresenta una infrazione sottoponibile al giudizio della Corte

di giustizia. Il principio di proporzionalità comporta una valutazione circa la congruità dei mezzi impiegati rispetto

allʼobiettivo perseguito e implica che tali mezzi devono essere limitati a quelli occorrenti per il raggiungimento

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dellʼobiettivo in questione. Anche il principio di proporzionalità, pertanto, in quanto riferito allʼUnione, è teso a porre un

argine alla sua azione. A differenza del principio di sussidiarietà, quello di proporzionalità opera nellʼintero campo di

applicazione dei

Trattati, ivi comprese le materie nelle quali lʼUnione ha una competenza esclusiva.

Lʼart. 5, par. 4 TUE fa espresso riferimento non solo al contenuto dellʼazione dellʼUnione, ma anche alla forma, cioè ai tipi

di atti adottabili. È da ritenere, pertanto che le misure normative, graduate rispetto all'obiettivo, devono avere la minore

obbligatorietà possibile. Così, se non è indispensabile un regolamento, dovrà emanarsi una direttiva; e se non è necessario

un atto vincolante dovrà preferirsi una raccomandazione.

Deve poi aggiungersi che, qualora sia possibile, il raggiungimento di un determinato obiettivo di interesse dellʼUnione può

anche prescindere dallʼemanazione di un atto da parte della stessa Unione, la quale, infatti, può limitarsi ad incentivare

azioni degli Stati membri, o a promuovere il principio del mutuo riconoscimento.

Il principio di proporzionalità non esaurisce il suo ruolo sul piano normativo degli atti adottabili. Esso impone che non si

vada al di là del necessario anche per quanto riguarda gli oneri amministrativi e finanziari derivanti dallʼintervento

dellʼUnione.

Per quanto riguarda il controllo giudiziario sul rispetto del principio di proporzionalità, la Corte di giustizia, anche nella

sentenza 8 giugno 2010, Vodafone, ha affermato che tale controllo non mette in discussione la discrezionalità del legislatore

dell’Unione, al quale, infatti, è riconosciuto un ampio potere discrezionale nei settori in cui la sua azione richiede scelte di

natura tanto politica quanto economica o sociale e in cui è chiamato ad effettuare valutazioni complesse. Tuttavia anche in

presenza di tale potere, il legislatore è tenuto a basare le proprie scelte su criteri oggettivi. Inoltre deve verificare se gli

obiettivi perseguiti dalla misura prescelta siano idonei a giustificare conseguenze economiche negative, anche

considerevoli, per taluni operatori.

7. Le situazioni puramente interne a singoli Stati membri

Vi è un ultimo limite alla competenza dellʼUnione europea nei confronti degli Stati membri, che risulta dalla giurisprudenza

della Corte di giustizia. Si tratta dellʼimpossibilità giuridica, per lʼUnione, di intervenire in situazioni che siano puramente

interne ad un singolo Stato membro e che sfuggano allʼambito di applicazione del diritto dellʼUnione.

Si tratta di un limite che si ricollega allo stesso principio delle competenze di attribuzione, in virtù del quale lʼUnione può

agire solo nella misura delle competenze conferite dagli Stati membri con i Trattati.

In numerosi settori del diritto dellʼUnione questʼultimo è destinato ad applicarsi soltanto a situazioni “transnazionali”, a

situazioni cioè, che mettano in rapporto almeno due Stati membri. È il caso delle quattro libertà nelle quali si concretizza il

concetto di mercato interno.

La giurisprudenza della Corte di giustizia dellʼUnione europea non è del tutto priva di qualche incertezza, ed è ravvisabile in

essa una certa tendenza ad ampliare la possibilità di intervento dellʼUnione.

Per esempio, in materia di circolazione delle merci, la Corte ha affermato che l’art. 34 TFUE sia inapplicabile, articolo che

vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione, nonché qualsiasi misura di effetto equivalente a una

restrizione siffatta, rispetto ad una normativa del Belgio che poneva certe prescrizioni relative all’etichettatura del burro per

quello prodotto in tale Stato.

La corte però ha più volte applicato questo articolo a normative tecniche di uno Stato membro, che riguardano la

fabbricazione, la presentazione o l’etichettatura di date merci, qualora tali normative riguardassero indistintamente le merci

in questione, comprese quelle provenienti da altri Stati membri, e fosse riconoscibile un effetto restrittivo dell’importazione

a danno di queste ultime. In questi casi la Corte ha ritenuto applicabile l’art. 34 in base all’interpretazione della sentenza

Dassonville, secondo la quale “ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o

indirettamente gli scambi intercomunitari va considerata come una misura d’effetto equivalente a restrizioni quantitative”.

Un altro esempio è la circolazione dei lavoratori subordinati, situazione in cui la Corte nella sentenza Uecker e Jacquet, ha

negato il diritto a dei coniugi stranieri (i coniugi delle signore Uecker e Jacquet) di lavoratori cittadini di uno Stato membro,

a lavorare nello stesso Stato, qualora essi non abbiano mai esercitato il diritto di circolazione all’interno della Comunità, o

qualora non provenga da un altro Stato membro. Tali condizioni sono state affermate dalla Corte di giustizia anche con

riguardo alla libertà di circolazione fondata sulla cittadinanza europea.

Tuttavia nel 2011 la Corte di giustizia ha esteso il riconoscimento di diritti derivanti dalla cittadinanza europea, solitamente

limitato ai cittadini dinamici (che hanno esercitato il diritto di libera circolazione), anche ai cittadini statici (che non hanno

mai esercitato tale diritto e che abbiano sempre soggiornato nello Stato membro del quale possiedono la cittadinanza). Nella

specie si trattava di due fanciulli, cittadini belgi soggiornanti in Belgio dalla nascita; rispetto ad essi si poneva la questione

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se fosse compatibile con l’art. 20 TFUE, il quale attribuisce ai cittadini degli Stati membri la cittadinanza dell’Unione, il

rifiuto di soggiorno e di un permesso di lavoro in Belgio opposto al genitore di detti fanciulli, cittadino colombiano. La

Corte ha ritenuto applicabile il citato art. 20, affermando che il suddetto rifiuto era contrario a tale disposizione poiché

avrebbe impedito ai fanciulli, privati di assistenza familiare, di continuare a soggiornare in Belgio.

Le norme sulla cittadinanza europea sono applicabili a un cittadino statico solo in conformità del criterio relativo alla

privazione del contenuto sostanziale dei diritti attribuiti dallo status di cittadino dell’Unione, cioè solo nell’ipotesi di

provvedimenti nazionali che abbiano l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento reale ed effettivo del nucleo

essenziale dei diritti conferiti dallo status suddetto.

Anche le norme sulla circolazione dei servizi non si applicano alle situazioni puramente interne. Queste, ovviamente, non

comprendono i casi in cui il prestatore o il fruitore del servizio si spostino da uno Stato membro all’altro. Ma la situazione

cessa di essere interna quando sono i servizi che si spostano da un paese all’altro.

In conclusione, può dirsi che in alcune importanti materie le situazioni puramente interne ad uno Stato membro sono

sottratte alla competenza dellʼUnione e allʼapplicazione del suo diritto e restano riservate allo Stato membro in questione.

Da ciò, tuttavia, non può dedursi alcuna regola generale, perché, anzitutto, è lo stesso diritto dellʼUnione che definisce i

proprio confini e ben può, in varie materie e a vario titolo, regolare situazioni interne. Inoltre la stessa nozione di situazioni

interne è interpretata con una notevole elasticità dalla Corte di giustizia, la quale ritiene spesso rilevanti, per agganciare una

situazione al diritto dellʼUnione, anche elementi secondari o meramente potenziali, come la circostanza che un cittadino si

sia brevemente assentato dal proprio Stato o che la fornitura di un servizio possa essere destinata anche a clienti che si

trovano in uno Stato diverso da quello dove opera il fornitore.

Infine va rilevato che è possibile che il diritto dellʼUnione produca, sia pure in maniera indiretta effetti su situazioni

puramente interne. Si tratta dellʼipotesi in cui le norme europee sulla libera circolazione delle merci o delle persone vietino

ad uno Stato membro di applicare date prescrizioni (per esempio, sulla fabbricazione di un prodotto) o restrizioni nei

confronti di merci o persone provenienti da un altro Stato membro o aventi al cittadinanza di tale Stato. Le suddette

prescrizioni restano così applicabili ai soli produttori o cittadini dello Stato membro in questione (trattandosi si situazioni

interne che sfuggono al diritto dellʼUnione). Accade pertanto, che costoro cono sottoposti a norme più rigorose, rispetto a

quelle applicabili a stranieri (cittadini di altri Stati membri), restando vittime di una discriminazione “a rovescio”.

In queste ipotesi può intervenire il giudice, in specie costituzionale, o il legislatore nazionale per estendere ai propri cittadini

la normativa, più favorevole, applicabile ai cittadini di altri Stati membri, eliminando così la discriminazione a rovescio.

8. Il principio di leale cooperazione

Nei rapporti tra lʼUnione europea e gli Stati membri un ruolo chiave svolge la disposizione già contenuta nellʼart. 10 del

Trattato sulla Comunità europea, e oggi nellʼart. 4, par. 3, 2° e 3° comma, del TUE.

La norma in esame, se letta superficialmente, sembrerebbe limitarsi ribadire lʼobbligo, connaturato alla stipulazione di ogni

trattato internazionale, secondo il quale pacta sunt servanda, obbligo che, nellʼart. 4, par. 3 TUE, viene esplicitato sotto il

profilo positivo (con riguardo alle misure da adottare per assicurare lʼesecuzione degli obblighi derivanti dal diritto

dellʼUnione) e negativo (rispetto alle misure che rischiano di compromettere gli obiettivi dellʼUnione). Ma la

giurisprudenza della Corte di giustizia ha rinvenuto in tale disposizione un principio generale di leale collaborazione, o

cooperazione, degli Stati membri nei riguardi della Comunità europea, dal quale ha ricavato una serie di specifici obblighi

degli Stati.

La giurisprudenza in esame ha, quindi, applicato lʼart. 10 del Trattato sulla Comunità europea alla luce del principio

dellʼeffetto utile, in virtù del quale ogni disposizione va interpretata e applicata in maniera tale da ricavarne tutti gli effetti

idonei a farle conseguire, nella maniera più completa ed efficace, il proprio obiettivo.

A titolo esemplificativo ricordiamo alcuni settori nei quali tale giurisprudenza ha fornito importanti.

Contributi. La Corte ha applicato lʼart. 10 già nella celebre sentenza del 15 luglio 1964, causa Costa c. ENEL, con la quale

affermò il primato del diritto comunitario su quello nazionale e la conseguente impossibilità per gli Stati membri di fare

prevalere una legge interna successiva, in contrasto con l’ordinamento comunitario; questo perché, secondo la Corte, “se

lʼefficacia del diritto dellʼUnione variasse da uno Stato allʼaltro in funzione delle leggi interne posteriori, ciò metterebbe in

pericolo l’attuazione degli scopi del Trattato”.

Unʼulteriore conseguenza che viene ricavata dallʼobbligo di leale cooperazione è lʼobbligo del giudice intero di interpretare

il proprio diritto in maniera conforme al diritto dellʼUnione. Esso rileva in particolare per le direttive, le quali impongono

agli Stati membri di adottare le misure necessarie per raggiungere il risultato prescritto dalle stesse direttive.

Allʼobbligo di leale cooperazione è riportato anche il c.d. principio di assimilazione, in base al quale lo Stato membro deve

sanzionare le violazioni del diritto dellʼUnione in termini analoghi rispetto a violazioni comparabili del diritto interno. La

Corte ha poi dedotto dallʼobbligo di leale cooperazione anche lʼobbligo, per uno Stato membro, di adottare i

provvedimenti necessari per fronteggiare atti di privati che impediscano lʼesercizio delle libertà garantite dal diritto

dellʼUnione.

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Infine, la Corte aveva esteso lʼobbligo di leale cooperazione anche alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia

penale (sentenza Pupino). Sebbene questa, allʼepoca, fosse regolata nel Trattato sullʼUnione europea, non già nel Trattato

sulla Comunità europea nel quale, soltanto, era collocato lʼart. 10, contenente detto obbligo. In questo modo la Corte aveva

ricostruito il principio di leale cooperazione quale principio generale non solo comunitario, ma del diritto dellʼinterna

Unione europea.

Il Trattato di Lisbona ha inserito nellʼart. 4, par. 3, un nuovo primo comma, secondo il quale “in virtù del principio di leale

cooperazione, l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti

dai trattati”.

Lʼaspetto innovativo di tale norma è quello che prescrive lʼobbligo dellʼUnione, quindi delle sue istituzioni, di assistenza

agli Stati.

9. Lʼintegrazione differenziata (o flessibile)

I rapporti tra lʼUnione europea e gli Stati membri non sempre hanno il medesimo contenuto e la medesima portata.

Lʼapplicazione del diritto dellʼUnione avviene spesso in maniera differenziata nei diversi Stati membri, nel senso cioè, che

tali Stati non sempre sono integralmente, e uniformemente, soggetti a tutta la normativa europea.

Sino al Trattato di Amsterdam del 1997 la possibilità di una applicazione differenziata non era oggetto di uno specifico

meccanismo; ma, in concreto, essa già operava in materie di notevole importanza, dando luogo a quel fenomeno

denominato Europa a più velocità, Europa a geometria variabile, ecc.

Importante è il meccanismo adottato dal Trattato di Maastricht del 1992 relativamente allʼunione economica e monetaria, il

quale, non solo a consentito al Regno Unito e alla Danimarca di restare estranei alla terza fase dellʼUnione, che ha condotto

all'introduzione dellʼeuro quale moneta unica; ma ha previsto, quale condizione per il passaggio a questa terza fase, il

rispetto di “criteri di convergenza” attribuendo, in mancanza, lo status di Stati membri con deroga agli Stati in questione,

cioè lʼimpossibilità di adottare lʼeuro.

Il Trattato di Amsterdam ha inserito altri casi di applicazione differenziata, casi che sono ulteriormente aumentati con il

Trattato di Lisbona, nel quale sono solitamente contemplati in Protocolli.

Va ricordato, innanzitutto, il Protocollo n. 30 sulla limitazione allʼefficacia giuridica della Carta dei diritti fondamentali nei

confronti della Polonia e del Regno Unito. Va poi ricordato il Protocollo n. 32 sulla posizione del Regno Unito e dell'Irlanda

rispetto alla spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in base al quale tali Stati restano estranei alla norme contenute nella parte

terza, titolo V del TFUE. Importate è anche il Protocollo n. 22, il quale, oltre a concedere alla Danimarca una posizione

analoga a quella del Regno Unito e dell'Irlanda, prevede altresì deroghe, per esempio per le decisioni dellʼUnione aventi

implicazioni in materia di difesa.

Un ulteriore caso di integrazione differenziata può determinarsi in materia di politica estera e di sicurezza comune. In tale

materia la regola generale di votazione nel Consiglio è all’unanimità; è poi prevista la c.d. astensione costruttiva. In base a

ciò, lo Stato che motiva la sua astensione con una dichiarazione formale può sottrarsi agli obblighi derivanti dalla decisione

del Consiglio, senza impedire che essa impegni lʼEuropea. Si istituisce, così, un meccanismo di “Europa a più velocità”, o

di integrazione flessibile o differenziata.

10. La cooperazione rafforzata

Il Trattato di Amsterdam del 1997 ha introdotto un meccanismo specifico, ampliato e modificato dal Trattato di Lisbona,

per consentire forme di sviluppo flessibile o differenziato tra alcuni Stati membri, ma allʼinterno dellʼUnione europea, cioè

consentendo di assumere obblighi più incisivi, ma utilizzando le istituzioni, le procedure, gli atti dellʼUnione. Si tratta della

c.d. cooperazione rafforzata, termine con il quale si pone in primo piano lʼaspetto positivo e costruttivo, consistente in un

approfondimento dello sviluppo dellʼintegrazione, e si cerca di edulcorare lʼaspetto negativo del fenomeno: il fatto, cioè,

che alcuni Stati membri restino estranei a tale sviluppo, vuoi perché non siano disposti ad accelerare il passo, vuoi perché

non siano nelle condizioni (finanziarie, politiche, ecc,) per assumere più impegnative responsabilità, e che, di conseguenza,

si rinunci ufficialmente a mantenere lʼunità e lʼuniformità del sistema europeo.

Lo stesso Trattato di Amsterdam prevede direttamente un importante esempio di cooperazione rafforzata, mediante il

Protocollo del 1997 sullʼintegrazione dellʼacquis di Schengen nellʼambito dellʼUnione europea. Esso si riferisce

allʼAccordo di Schengen del 1985 sulla soppressione dei controlli alle frontiere interne degli Stati parti. Tali accordi erano

stati conclusi soltanto da alcuni Stati membri (ne erano estranei il Regno Unito e lʼIrlanda, mentre vi partecipavano Stati

terzi rispetto allʼUnione europea, come la Norvegia e lʼIslanda) e, pur riguardano materie rilevanti per la Comunità e

lʼUnione europea, erano formalmente estranei al quadro giuridico e istituzionale di queste ultime. Tale Protocollo del 1997

ha implicato che, con atti successivi, il contenuto normativo del sistema di Schengen è stato inserito nei Trattati europei. Il

Regno Unito e lʼIrlanda sono restati estranei a tale sistema, ma possono chiedere di volta in volta di partecipare alle

relative disposizioni, esercitando una scelta di opting in; la Danimarca si trova in una posizione particolare, poiché si

riserva, di volta in volta, di decidere se recepire nel proprio ordinamento una misura dellʼUnione in tale materia. In caso

affermativo si creerà un obbligo a norma del diritto internazionale tra la Danimarca e gli altri Stati membri. Ciò comporta

19

che la misura in questione non sarà il contenuto di un atto dellʼUnione, ma di un accordo internazionale tra a Danimarca e

gli altri Stati membri.

Le cooperazioni rafforzate (al plurale, in quanto queste possono attuarsi in differenti materie e anche tra gruppi di Stati

membri non coincidenti) sono regolate dallʼart. 20 TUE e dagli articoli 326-334 TFUE. In queste norme è contenuta la

disciplina generale, applicabile cioè nellʼintera gamma delle materie rientranti nelle competenza dellʼUnione; ma talune

varianti sono stabilite per la politica estera e di sicurezza comune. Ulteriori forme di cooperazione rafforzata sono poi

realizzabili in materie specifiche.

Il significato essenziale delle cooperazioni rafforzate, che consiste nel promuovere lʼinserimento allʼinterno del sistema

dellʼUnione europea di forme di più intenso sviluppo concernenti un limitato numero di Stati membri, è ben reso dallʼart.

20, par. 1, 1° comma TUE. Lʼobiettivo delle cooperazioni rafforzate, consistente nel consentire a un gruppo più avanzato

di Stati membri di impiegare le istituzioni e le procedure dellʼUnione per far progredire lʼintegrazione europea, risulta dal

2° comma dellʼart. 20: “Le cooperazioni rafforzate sono intese a promuovere la realizzazione degli obiettivi dellʼUnione, a

proteggere i suoi interessi e a rafforzare il suo processo di integrazione”.

Lʼistituzione di una cooperazione rafforzata ha per conseguenza che, sebbene tutti gli Stati membri possano partecipare alle

deliberazioni del Consiglio nella materia oggetto di tale cooperazione, solo quelli che partecipano alla cooperazione

rafforzata prendono parte alle decisioni con il loro voto. Le regole di votazione, pertanto, sono adattate in corrispondenza al

numero degli Stati membri partecipanti e, in particolare, lʼunanimità è data dai soli membri del Consiglio partecipanti alla

cooperazione rafforzata.

Di conseguenza, le decisioni in materia sono obbligatorie per i soli Stati partecipanti alla cooperazione rafforzata e non sono

considerate un acquis che deve essere accettato dagli Stati candidati allʼadesione.

Tuttavia gli Stati membri non partecipanti alla cooperazione rafforzata hanno, quanto meno, un obbligo negativo: quello di

non ostacolarne lʼattuazione da parte degli Stati membri che vi partecipano.

Le norme dei Trattati stabiliscono varie condizioni per lʼinstaurazione di una cooperazione rafforzata.

Per lʼinstaurazione di una cooperazione rafforzata occorre, inoltre, che vi partecipino almeno nove Stati membri; che non

riguardi competenze esclusive dellʼUnione; che essa rispetti i Trattati e il diritto dellʼUnione, non rechi pregiudizio né al

mercato interno né alla coesione economica, sociale e territoriale, non costituisca un ostacolo né una discriminazione per gli

scambi tra gli Stati membri, non provochi distorsioni di concorrenza tra questi ultimi. Le cooperazioni rafforzate, infine,

devono rispettare le competenze, i diritti e gli obblighi egli Stati che non vi partecipano.

Lʼinstaurazione di una cooperazione rafforzata richiede unʼapposita delibera di autorizzazione da parte delle competenti

istituzioni europee. Ai sensi dellʼart. 329, par. 1, TFUE la proposta è presentata dalla Commissione al Consiglio su richiesta

degli Stati membri interessati; ma la Commissione può rifiutare tale richiesta dandone una motivazione a detti Stati. Il

Consiglio delibera a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento

europeo.

Il primo caso di cooperazione rafforzata si è realizzato con la decisione del Consiglio del 2010 che ha autorizzato tale

cooperazione fra 14 Stati membri nel settore del diritto applicabile in materia di divorzio e di separazione legale. Di

conseguenza è stato emanato il regolamento relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata in tali materie. Un’altra

cooperazione rafforzata è stata poi autorizzata in materia dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria.

Diversa è la procedura prevista per lʼinstaurazione di una cooperazione rafforzata nel quadro della politica estera e di

sicurezza comune. La richiesta è presentata direttamente dagli Stati interessati al Consiglio, il quale delibera allʼunanimità,

previo parere dellʼAlto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza e della Commissione in merito alla

coerenza della prevista cooperazione rafforzata, rispettivamente, con la politica estera e di sicurezza comune dellʼUnione e

con le altre politiche dellʼUnione. Il Parlamento europeo è solo informato della richiesta.

Le cooperazioni rafforzate sono sempre aperte ad ogni Stato membro, il quale può rientrarvi in un secondo momento. A

tal fine notifica al Consiglio e alla Commissione tale intenzione, sulla quale si pronuncia la stessa Commissione, che può

richiedere che siano soddisfatte certe condizioni di partecipazione. Ove la Commissione ritenga che tali condizioni non

siano state soddisfatte, lo Stato in parola può sottoporre la questione al Consiglio che decide, con il solo voto degli Stati

membri partecipanti alla cooperazione rafforzata già instaurata. In materia di politica estera e di sicurezza comune, sulla

domanda di partecipazione a una cooperazione rafforzata si pronuncia il Consiglio, previa consultazione dellʼAlto

rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Esso può stabilire condizioni di partecipazione e si pronuncia

all'unanimità degli Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata. In ogni caso la partecipazione successiva a una

cooperazione rafforzata comporta il rispetto degli atti adottati nell'ambito di tale cooperazione anteriormente allʼingresso del

nuovo Stato membro.

Una particolare forma di cooperazione rafforzata è prevista in materia di politica di sicurezza e di difesa comune, la quale

implica l'impiego anche di mezzi militari. Si tratta della cooperazione strutturata permanente, che può essere instaurata fra

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gli Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termine di capacità militari e che hanno sottoscritto impegni più

vincolanti ai fini delle missioni militari più impegnative.

Essa sembra differenziarsi dalla cooperazione rafforzata proprio perché non episodica, legate cioè a singoli atti da adottare,

ma permanente, volta, quindi, a creare una struttura, anche militare, di carattere stabile e definito. La procedura in proposito

è regolata dallʼart. 46 TUE, il quale stabilisce che, sulla richiesta degli Stati membri di instaurare una cooperazione

strutturata permanente, delibera a maggioranza qualificata il Consiglio, previa consultazione dellʼAlto rappresentante per gli

affari esteri e la politica di sicurezza. Lo stesso Consiglio, sempre con tale maggioranza, decide su domande di

partecipazione successiva alla cooperazione strutturale permanente, ma con il voto dei soli Stati partecipanti a tale

cooperazione. Peraltro, uno Stato membro partecipante può essere sospeso dalla partecipazione ove il Consiglio ritenga che

non soddisfi più i criteri prescritti nel Protocollo n. 10, così come può ritirarsi dalla cooperazione.

Una forma particolare di cooperazione rafforzata può realizzarsi per alcune materie rientranti nella cooperazione giudiziaria

penale. Tali norme prevedono il ricorso al c.d. freno di emergenza: qualora uno Stato membro ritenga che un progetto di

direttiva, da adottare con procedura legislativa ordinaria incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico

penale, può chiedere che il Consiglio europeo sia investito della questione, con sospensione della procedura legislativa. Se

in seno al consiglio europeo si verifica un disaccordo tra gli Stati membri e almeno nove desiderano instaurare una

cooperazione rafforzata sulla base del progetto di direttiva in questione, essa è concessa automaticamente. Analogamente, in

mancanza di unanimità nel Consiglio, una cooperazione rafforzata si considera concessa tra almeno nove Stati membri

relativamente all'istituzione di una Procura europea.

CAPITOLO IV: LA CITTADINANZA EUROPEA

1. Lʼattribuzione della cittadinanza europea

Tra le più significative novità del Trattato di Maastricht del 1992 vi è l’istituzione della cittadinanza dellʼUnione europea,

consistente in un nuovo status giuridico del quale è titolare chiunque abbia la cittadinanza di un Paese membro dellʼUnione.

Tale status, enunciato nellʼart. 9 TUE, è disciplinato negli artt 20-25 TFUE. Lʼart. 20 TFUE dichiara:

“ 1. È istituita una cittadinanza dell'Unione. È cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro.

La cittadinanza dell'Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce.

2. I cittadini dell'Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati”.

Benché il par. 2 menzioni anche i doveri, non sembrano riconoscibili doveri specifici del cittadino europeo in quanto tale.

La cittadinanza europea implica il conferimento soltanto di taluni diritti che sono elencati nel prosieguo del par. 2.

Riguardo all’attribuzione della cittadinanza europea, ai sensi del par. 1, essa consegue automaticamente alla cittadinanza di

uno Stato membro. Rappresenta un arricchimento della cittadinanza nazionale che, senza sostituire questʼultima, la potenzia

mediante una serie di diritti. Rispetto alla cittadinanza nazionale quella europea costituisce una cittadinanza duale, o

derivata. Lʼattribuzione automatica della cittadinanza europea a chiunque sia cittadino di uno Stato membro esclude

l’esistenza di criteri, di acquisto o di perdita, di tale cittadinanza definiti automaticamente dallʼUnione. Sono gli Stati

membri che mantengono il potere di disciplinare come credono l'attribuzione e la perdita della propria cittadinanza,

determinando così, la nascita o la perdita anche della cittadinanza europea.

La libertà di ciascuno Stato membro, per quanto riguarda la propria cittadinanza, non può essere rimessa in discussione né

dalle istituzioni europee, né da alcun altro Stato membro.

Allo stesso modo è prevista l’impossibilità di ciascuno Stato membro di sindacare lʼattribuzione della cittadinanza ad opera

di un altro Stato membro. A tal proposito è da ricordare la sentenza 7 luglio 1992, causa Micheletti. In questo caso la Corte

ha respinto la posizione della Spagna la quale negava che una persona, provvista di doppia cittadinanza argentina e italiana,

potesse considerarsi italiana (ed esercitare, pertanto, il proprio diritto di stabilimento in Spagna) poiché, per la legge

spagnola, in caso di doppia cittadinanza deve prevalere quella corrispondente alla residenza abituale dellʼinteressato che,

nella specie, era in Argentina. La Corte ha affermato che: “la determinazione dei modi di acquisto e di perdita della

cittadinanza rientra nella competenza di ciascuno Stato membro competenza che deve essere esercitata nel rispetto del

diritto dellʼUnione. Non spetta, invece, alla legislazione di uno Stato membro limitare gli effetti dellʼattribuzione della

cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza al fine

dellʼesercizio delle liberà fondamentali”.

Dalla sentenza Micheletti può desumersi, peraltro, un limite alla rilevanza delle legislazioni nazionali ai fini

dell’attribuzione della cittadinanza dellʼUnione europea. La Corte ha affermato che la competenza degli Stati membri in

materia di cittadinanza “deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario”. Di conseguenza non produrrebbero

effetti sulla cittadinanza europea disposizioni di uno Stato membro che, per esempio disponessero la perdita della propria

cittadinanza per ragioni razziali; e, pertanto, lʼinteressato continuerebbe a godere dello status di cittadino dellʼUnione. La

Corte ha ritenuto ammissibile la revoca della concessione della cittadinanza a motivo di frode commessa dall'interessato

nellʼambito della procedura di acquisizione della cittadinanza. Tuttavia, la Corte ha affermato che, ai fini della conformità di

21

tale revoca con il diritto dellʼUnione è necessario verificare, da parte del giudice nazionale, che la decisione di revoca

rispetti il principio di proporzionalità per quanto riguarda le conseguenze sulla situazione dellʼinteressato.

2. Lo status di cittadino europeo: il diritto di libera circolazione e di soggiorno (art. 21 TFUE) La cittadinanza

dellʼUnione non consiste, come quella nazionale, in un vincolo giuridico-politico caratterizzato, per un verso, da una

soggezione del cittadino allo Stato, dallʼaltro, da una sua partecipazione alla vita politica dello Stato. Essa si risolve, invece,

in un catalogo specifico di diritti e taluni appartenenti non solo ai cittadini ma anche alle persone fisiche o giuridiche aventi

la residenza o la sede sociale in uno Stato membro.

Ciò non toglie che, da un punto di vista politico, la creazione della cittadinanza dellʼUnione rappresenti un evento di

estrema rilevanza: l’individuo, infatti, non viene più in rilievo solo come soggetto economicamente attivo, ma tende a porsi

come soggetto politico, partecipe e consapevole protagonista del processo di integrazione europea.

La Corte però ha confermato che anche i diritti derivanti dalla cittadinanza dell’Unione possono esercitarsi solo in situazioni

che non siano esclusivamente interne ad uno Stato membro, anche se è stata in concreto sempre generosa nel riconoscere un

qualche elemento che sottraesse la fattispecie ad una configurazione puramente interna e la collocasse nell’ambito del diritto

dell’Unione. La Corte così ha fatto rientrare nel diritto dell’Unione la materia, pur riservata di per sé agli Stati membri,

relativa al cognome delle persone.

Inoltre la Corte di giustizia ha affermato che lo status di cittadino dell’Unione può essere invocato anche nei confronti del

proprio stato di appartenenza; e che la condizione statica del cittadino che non abbia mai esercitato la libertà di circolazione

non va qualificata, di per sé, come puramente interna al suddetto stato, potendosi riconoscere, a certe condizioni, i diritti

della cittadinanza europea anche a un siffatto cittadino.

Ogni cittadino dellʼUnione è innanzitutto titolare del diritto di libera circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati

membri (art. 21 TFUE: “ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli

Stati membri“ [...]). Tale diritto era apparentemente già contemplato nel Trattato istitutivo della Comunità economica

europea, ma tale diritto era riconosciuto solo alle persone economicamente attive, cioè ai lavoratori subordinati e, nel

quadro del diritto di stabilimenti, ai lavoratori autonomi.

Lʼart. 21 TFUE, invece, non ricollega più il diritto di circolazione e di soggiorno ad una logica meramente economica e di

mercato, ma ad un fondamento politico, qual è lo status di cittadino europeo. Esso, inoltre, attribuisce a tale diritto un sicuro

fondamento normativo che ne favorisce anche il progressivo sviluppo e ampliamento. Il par. 2 dellʼart. 21, infatti,

contempla espressamente la possibilità di un ulteriore sviluppo del diritto in esame, stabilendo che il Parlamento europeo e

il Consiglio, deliberando con la procedura legislativa ordinaria, possano adottare disposizioni intese a facilitare il suo

esercizio.

Tale diritto, tuttavia, non è del tutto incondizionato. Lʼart. 21, par. 1, TFUE lo riconosce, infatti, “fatte salve le limitazioni e

le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi”.

Gli Stati membri, dunque, possono limitare la libertà di circolazione e di soggiorno di un cittadino dellʼUnione o di un suo

familiare adottando anche provvedimenti di allontanamento, per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità

pubblica.

La Corte, pur ribadendo che il diritto di circolazione e di soggiorno è soggetto alle limitazioni e alle condizioni previste dai

Trattati e dalla normativa emanata dalle istituzioni europee, ha affermato che tale diritto deriva direttamente dallʼart. 21

TFUE, per cui un cittadino che non benefici più nello Stato membro ospitante del diritto di soggiorno in qualità di

lavoratore migrante, può beneficiarne in virtù dellʼart. 21 TFUE; e che tale disposizione ha un efficacia diretta, nel senso

che tale diritto può essere esercitato in via giudiziaria e deve essere tutelato dai giudici nazionali.

La Corte ha sottolineato anche l’esigenza che la norma in esame sia interpretata e applicata in maniera tale da garantire

l’effettivo esercizio del diritto da essa derivante. E di conseguenza ha riconosciuto che per garantire il diritto di soggiorno di

una bimba, cittadina dell’Unione, tale diritto va riconosciuto anche alla mamma.

3. Il diritto di elettorato alle elezioni amministrative e del Parlamento europeo (art. 22 TFUE) Lʼart. 22 TFUE

contempla il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative e in quelle del Parlamento europeo. “1.

Ogni cittadino dell'Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità

alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tale

diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio adotta, deliberando all'unanimità secondo una

procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo; tali modalità possono comportare

disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino.

2. […] ogni cittadino dell'Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità

alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato.

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Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio adotta, deliberando all'unanimità secondo una

procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo; tali modalità possono comportare

disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino”.

Il par. 1 conferisce un diritto di elettorato attivo e passivo ad ogni cittadino europeo nelle elezioni comunali del Paese di

residenza. Lʼesercizio di tale diritto richiedeva l’emanazione di un atto del Consiglio, il quale ha adottato a tale fine la

direttiva n. 94/80/CE del 1994, più volte modificata.

Lʼelettorato amministrativo si colloca nell’ottica del divieto di discriminazione in base alla nazionalità. Esso, poi, si collega

al diritto di libera circolazione e soggiorno. Infatti lʼopportunità di partecipare alle elezioni amministrative facilita tale

diritto, che sarebbe invece ostacolato qualora, spostandosi da uno Stato membro allʼaltro, si venisse privati della possibilità

di contribuire alla formazione degli organi amministrativi comunali del Paese di residenza e di farne parte.

Il diritto di elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo, previsto dal par. 2, si colloca invece nellʼottica della

partecipazione del cittadino europeo alla vita politica dellʼUnione europea. In base a tale norma ogni cittadino europeo può

votare al Parlamento europeo nel Paese di residenza e in tale Paese candidarsi alla carica di parlamentare europeo. Anche

l’attuazione di questa disposizione richiedeva lʼadozione di un atto, il che è avvenuto con la direttiva n. 93/109/CE la quale,

tra lʼaltro, ha la funzione di garantire che il diritto in questione sia esercitato solo una volta, o nel Paese di origine o in

quello di residenza.

Nel 2006 nella causa Spagna c. Regno Unito, la Corte ha affermato che il Regno Unito non aveva violato alcuna

disposizione del diritto dell’Unione estendendo il diritto di elettorato al Parlamento europeo a cittadini del Commonwealth

con determinati requisiti residenti a Gibilterra, privi della cittadinanza del Regno Unito, e quindi, di quella dell’Unione. Il

diritto di elettorato è una prerogativa non esclusiva dei cittadini europei.

4. Il diritto di petizione (art. 24, 2° comma, TFUE) Lʼart. 24 TFUE, ripetendo sostanzialmente la disposizione dellʼart.

11 TFUE relativa la referendum propositivo, nei commi successivi attribuisce al cittadino europeo alcuni diritti.

Si tratta, anzitutto, del diritto di petizione, 2° comma: “ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di petizione dinanzi al

Parlamento europeo conformemente all'articolo 227”.

Il Parlamento europeo aveva contemplato tale diritto già nel suo Regolamento interno nel 1981. Il suo riconoscimento nel

Trattato rafforza il diritto di petizione configurando un corrispondente dovere di esaminarlo in capo al Parlamento europeo.

La petizione può avere un contenuto alquanto vario, da richieste di informazioni sulla posizione del Parlamento europeo in

merito a date questioni, a suggerimenti relativi alle politiche dellʼUnione o alla soluzione di specifici pormeli, alla

proposizione allʼattenzione del Parlamento di questioni di attualità, sino a veri e propri reclami contro asserite violazioni dei

diritto del petizionario. In ogni caso a petizione deve rientrare nel campo di attività dellʼUnione. Il diritto di petizione, che

secondo lʼart. 24 TFUE compete ad ogni cittadino dellʼUnione, viene esteso dallʼart. 227 TFUE anche ad ogni persona

fisica o giuridica che risieda o abbia sede sociale in uno Stato membro.

Lʼart. 227 subordina la presentazione di una petizione alla condizione che la materia oggetto della petizione concerna

direttamente lʼautore della stessa. Tuttavia, considerando lo scopo della petizione, che è quello di sollecitare lʼattenzione del

Parlamento europeo, tale condizione non può essere intesa in senso rigidamente formale, quale necessità che il petizionario

sia titolare di un diritto che possa subite un pregiudizio, ma in maniera alquanto elastica, come coinvolgimento del

petizionario nella materia in questione. Per lʼesame delle petizioni è istituita una commissione permanente del Parlamento

europeo, detta Commissione per le petizioni. Essa può organizzare anche una missione dʼinformazione nello Stato membro

o nella regione cui la petizione si riferisce. Può chiedere, inoltre, alla Commissione europea di assisterla. Il risultato

dellʼesame può essere vario, anche in corrispondenza ai diversi contenuti che le stesse petizioni possono presentare. La

Commissione per le petizioni potrebbe chiedere al Presidente del Parlamento di trasmettere il suo parere o la sua

raccomandazione alla Commissione europea, al Consiglio o all’autorità dello Stato membro in questione al fine di ottenere

un parere. Il Parlamento europeo, su proposta della Commissione per le petizioni, può adottare risoluzioni, può formulare

interrogazioni alla Commissione europea o al Consiglio o cercare di raggiungere un regolamento amichevole con lo Stato

cui la petizione imputi una violazione del diritto dell’Unione.

5. La denuncia al Mediatore europeo (art. 24, 3° comma TFUE)

Risponde allo scopo di avvicinare il cittadino alle istituzioni europee anche lʼistituto del Mediatore. In virtù dellʼart. 24, 3°

co., TFUE: “Ogni cittadino dell'Unione può rivolgersi al Mediatore istituito conformemente all'articolo 228”.

Il Mediatore è un organo individuale, istituito dal Trattato di Maastricht del 1992, con il compito di promuovere la buona

amministrazione nellʼUnione intervenendo per riparare i casi di cattiva amministrazione. È nominato dal Parlamento

europeo dopo ogni elezione dello stesso Parlamento per la durata della legislature e il suo mandato è rinnovabile. Lo Statuto

e le condizioni generali per lʼesercizio delle funzioni del Mediatore sono fissati dal Parlamento europeo, previo parere della

Commissione e con lʼapprovazione del Consiglio.

23

Malgrado gli stretti rapporti tra il Mediatore e il Parlamento europeo, il Mediatore non può essere considerato un suo

organo. Infatti, “il Mediatore esercita le sue funzioni in piena indipendenza. Nell'adempimento dei suoi doveri, egli non

sollecita né accetta istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo. Per tutta la durata del suo mandato, il

Mediatore non può esercitare alcuna altra attività professionale, remunerata o meno”.

L’indipendenza del Mediatore anche nei riguardi del Parlamento europeo, è confermata dall’osservazione che lo stesso

Parlamento non può revocare la nomina del Mediatore, ma solo chiedere alla Corte di giustizia di dichiararlo dimissionario

“qualora non risponda più alle condizioni necessarie allʼesercizio delle sue funzioni o abbia commesso una colpa grave”.

Per quanto riguarda le funzioni del Mediatore, “è abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell'Unione o di

qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro, e riguardanti casi di cattiva

amministrazione nell'azione delle istituzioni, degli organi o degli organismi dell'Unione, salvo la Corte di giustizia

dell'Unione europea nell'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali.

Egli istruisce tali denunce e riferisce al riguardo. Conformemente alla sua missione, il Mediatore, di propria iniziativa o in

base alle denunce che gli sono state presentate direttamente o tramite un membro del Parlamento europeo, procede alle

indagini che ritiene giustificate, tranne quando i fatti in questione formino o abbiano formato oggetto di una procedura

giudiziaria. Qualora il Mediatore constati un caso di cattiva amministrazione, egli ne investe l'istituzione interessata, che

dispone di tre mesi per comunicargli il suo parere. Il Mediatore trasmette poi una relazione al Parlamento europeo e

all'istituzione, all'organo o all'organismo interessati. La persona che ha sporto denuncia viene informata del risultato

dell'indagine”.

Il diritto di sporgere una denuncia al Mediatore, pur ricompreso nella cittadinanza dellʼUnione, non è prerogativa esclusiva

del cittadino, ma di ogni persona residente o avente la sede sociale in uno Stato membro; come il diritto di petizione,

anchʼesso si pone quindi nella prospettiva dei diritti umani. Il Mediatore, peraltro, può attivarsi anche dʼufficio o su

denuncia presentata da un membro del Parlamento europeo. Inoltre non si richiede nel denunciante un interesse ad agire.

Oggetto della denuncia e dell'indagine del mediatore è un caso di cattiva amministrazione nellʼazione dellʼUnione, con

esclusione di comportamenti imputabili a Stati membri. È esclusa, inoltre, ogni possibilità di indagine sullʼattività

giudiziaria europea. Lʼattività del Mediatore è preclusa anche quando sia in atto, o si sia svolta, una procedura giudiziaria

allʼinterno di uno Stato in merito ai fatti oggetto della denuncia. Il riferimento ai casi di cattiva amministrazione esclude un

intervento del Mediatore riguardo allʼattività normativa dellʼUnione.

Il Trattato non definisce i casi di “cattiva amministrazione” nellʼazione dellʼUnione; al riguardo può essere dʼausilio il

Codice europeo di buona condotta amministrativa.

Il compito del mediatore consiste nel cercare, da un lato, di riparare lʼeventuale torto subito dal denunciante, dallʼalto di

risolvere il problema generale sollevato dalla denuncia.

Di conseguenza il Mediatore, oltre a condurre una indagine, con la collaborazione dell'istituzione o dellʼorgano interessati e

del denunciante, svolge unʼattività conciliativa con lʼistituzione o lʼorgano in questione al fine di eliminare i casi di cattiva

amministrazione e di soddisfare il denunciante. Se ciò non risulta possibile il Mediatore chiude il caso con una valutazione

critica relativa all'organo o allʼistituzione interessati, oppure, specie se ritiene che il caso abbia implicazioni generali,

elabora una relazione con progetti di raccomandazioni e lʼinvia all'istituzione o allʼorgano interessati e al denunciante. Se

tale istituzione, organo non fornisce al Mediatore risposta soddisfacente, il Mediatore invia al Parlamento europeo una

relazione speciale sul caso con eventuali raccomandazioni.

Come si vede, lʼattività del Mediatore non si esprime mai con atti giuridicamente obbligatori, ma è pure sempre molto

efficace.

Ulteriori diritti del cittadino europeo consistono nella facoltà di scrivere alle istituzioni, agli organi europei nonché al

Mediatore europeo in una delle lingue ufficiali e di ricevere una risposta nella stessa lingua, nonché nel diritto di accesso

ai documenti delle istituzioni, organi dellʼUnione, secondo i principi mediante regolamenti dal Parlamento e dal Consiglio.

La Carta dei diritti fondamentali contiene vari articoli che prevedono diritti del cittadino europeo. Tra questi, merita di

essere sottolineata la norma che ha per oggetto il diritto ad una buona amministrazione, in virtù del quale: “ogni persona

ha diritto a che questioni che la riguardano sino trattate in modo imparziale ed equo ed entro un termine ragionevole dalle

istituzioni, organi e organismi dellʼUnione”. Si tratta di un diritto che, malgrado la sua collocazione nel titolo della Carta

dedicato alla cittadinanza, non è una prerogativa dei cittadini dellʼUnione ma di “ogni persona”.

6. La tutela diplomatica e consolare allʼestero (art. 23 TFUE)

Lʼart. 23 TFUE attribuisce, infine, una protezione esterna alla cittadinanza dellʼUnione: “ogni cittadino dell'Unione gode,

nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela da

parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato.

Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie e avviano i negoziati internazionali richiesti per garantire detta

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tutela”. In realtà esso non prevede alcun ruolo dellʼUnione, ma solo una protezione da parte degli Stati membri in via

sussidiaria rispetto allo Stato di cittadinanza dellʼinteressato, e subordinatamente alla condizione che questʼultimo Stato non

sia rappresentato nel territorio dello Stato terzo.

Si aggiunga che lʼart. 23 non riguarda il diritto di protezione diplomatica esercitabile dallo Stato il cui cittadino, in un altro

Stato, sia vittima di una lesione in violazione degli obblighi internazionali relativi al trattamento degli stranieri, ma riguarda

lʼassistenza che le autorità diplomatiche e consolari forniscono ai propri cittadini per facilitarne il soggiorno in un altro

Stato.

I casi di tutela comprendono il decesso, lʼincidente o la malattia grave, lʼarresto o la detenzione, lʼessere vittima di atti di

violenza, lʼaiuto e il rimpatrio in situazioni di difficoltà.

Inoltre la norma prevede che “salvo in caso di estrema urgenza, non può essere concesso alcun anticipo o aiuto pecuniario

né può essere sostenuta alcuna spesa a favore di un cittadino dellʼUnione senza lʼautorizzazione delle autorità competenti

dello Stato membro di chi ha la cittadinanza, rilasciata dal Ministro degli affari esteri o dalla missione diplomatica più

vicina. Inoltre, salvo esplicita rinuncia delle autorità dello stato membro di cui il richiedente ha la cittadinanza, questi deve

impegnarsi a rimborsare lʼintero anticipo o aiuto pecuniario nonché le spese sostenute”.

Le condizioni di una preventiva autorizzazione alla spesa da parte dello Stato di cittadinanza e di un impegno al rimborso

dellʼinteressato contribuiscono a mettere in luce la modestia dell'istituto e a riconoscere ad esso un mero significato

simbolico.

CAPITOLO V: LE ISTITUZIONI DELLʼUNIONE EUROPEA

1. Quadro generale delle istituzioni e degli organi

LʼUnione europea dispone di unʼampia e articolata struttura organizzativa la cui azione è diretta a perseguire i suoi obiettivi.

Più precisamente, come dichiara lʼart. 13, par. 1, TUE, il quadro istituzionale dellʼUnione “mira a promuoverne i valori,

perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli Stati membri, garantire la coerenza,

l'efficacia e la continuità delle sue politiche e delle sue azioni”.

La regolamentazione relativa alla composizione, al funzionamento, alle competenze e ai poteri dei diversi organi è

ripartita tra il Trattato sullʼ Unione europea (TUE) e quello su funzionamento dellʼUnione europea (TFUE). Alla luce

dellʼart. 13, par 1, 2° comma, TUE rileviamo, anzitutto, che alcuni organi, di fondamentale importanza nella vita

dellʼUnione, sono definiti “istituzioni”. Essi sono, attualmente, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il

Consiglio, la Commissione europea, la Corte di giustizia dellʼUnione europea, la Banca centrale europea (BCE), la

Corte dei Conti. Tale qualifica, non solo ha un valore di prestigio, ma determina anche alcune conseguenze giuridiche,

poiché talune disposizioni dei Trattati si riferiscono espressamente alle istituzioni e non agli altri organi. Per esempio,

lʼart. 265 TFUE attribuisce la legittimazione a proporre ricorsi “in carenza” dinanzi alla Corte di giustizia alle “istituzioni

dellʼUnione”.

Con il Trattato di Lisbona, il Consiglio europeo, formato dai massimi vertici degli Stati membri, i Capi di Stato o di

governo, è inserito per la prima volta tra le istituzioni dellʼUnione. Malgrado ciò resta in una posizione a sé, in qualche

misura al di sopra, sul piano politico, rispetto alle altre istituzioni, poiché esso assume le decisioni fondamentali concernenti

lo sviluppo dellʼazione europea e dello stesso processo di integrazione europea.

Le successive tre istituzioni, il Parlamento europeo, il Consiglio, la Commissione, sono rappresentative, rispettivamente, dei

cittadini degli Stati membri, dei loro governi, dellʼinteresse unitario dellʼunione. Si tratta, quindi, di istituzioni lato sensu

politiche destinate a collaborare e a interagire nel quadro delle più importanti funzioni, quali la funzione normativa (e più in

generale, decisionale), lʼapprovazione del bilancio, la conclusione di accordi internazionali.

I rapporti tra tali istituzioni, per un verso devono corrispondere al principio di leale collaborazione che, stabilito

originariamente nelle relazioni tra gli Stati membri e la Comunità, è stato esteso dalla Corte di giustizia anche ai rapporti tre

le istituzioni; per altro verso, devono conformarsi al riparto di competenze tra le stesse istituzioni stabilito dalle disposizioni

dei Trattati, riparto dal quale emerge un principio di equilibrio istituzionale. Il rispetto di tale principio è essenziale nello

svolgimento dei rispettivi ruoli delle tre istituzioni politiche ed è sottoposto al controllo della Corte di giustizia.

Il principio del rispetto dellʼequilibrio istituzionale, come osserva la Corte, ha una piena valenza sul piano giuridico. Non

solo essa determina lʼillegittimità degli atti adottati in sua violazione, ma lʼesigenza di garantire in via giudiziaria il rispetto

di tale principio ha condotto la Corte di giustizia) sentenza 22 maggio 1990, causa C- 70/88, Parlamento v. Consiglio), a

riconoscere la legittimazione del Parlamento europeo ad impugnare un atto dinanzi alla stessa Corte, anche se unicamente al

fine di difendere le prerogative.

Le altre istituzioni si caratterizzano per la piena indipendenza, trattandosi di istituzioni giudiziarie, la Corte di giustizia,

dellʼautorità monetaria, la Banca centrale europea, o di controllo dei conti, la Corte

dei conti.

Lʼapparato dellʼUnione europea comprende, inoltre: il Sistema europeo di banche centrali (SEBC), costituito dalla Banca

centrale europea e dalle banche centrali nazionali nonché da altri organi bancari, quale la Banca europea per gli investimenti

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che, peraltro, ha una spiccata autonomia ed è dotata di una propria personalità giuridica e di una propria struttura

organizzativa.

I Trattati istituiscono anche degli organi ausiliari. Lʼart. 13, par. 4, TUE dichiara infatti: “il Parlamento europeo, il

Consiglio e la Commissione sono assistiti da un Comitato economico e sociale e da un Comitato delle regioni, che

esercitano funzioni consultive”.

Analoghi organi, con funzioni consultive in specifiche materie, sono previsti da varie disposizioni dei Trattati, come il

Comitato di cui allʼart. 99 TFUE in materia di trasporti; il Comitato per lʼoccupazione (art. 150 TFUE), nonché il Comitato

economico e finanziario avente, oltre a compiti consultivi, gli ulteriori compiti indicati dallʼart. 134 TFUE; il Mediatore

europeo, caratterizzato da indipendenza.

Nellʼambito della politica estera e di sicurezza comune (PESC), va ricordato il Comitato politico e di sicurezza previsto

dallʼart. 38 TUE, il quale svolge funzioni di controllo della situazione internazionale, funzioni consultive nei riguardi del

Consiglio e dellʼAlto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, funzioni di controllo sullʼattuazione delle

politiche in materia nonché, funzioni di controllo politico e di direzione strategica delle operazioni di gestione della crisi di

cui allʼart. 43 TUE, sotto la responsabilità del Consiglio e dellʼAlto rappresentante.

Ulteriori organismi sono stati creati con atti delle istituzioni europee, con compiti vari, di natura tecnica, scientifica, di

gestione, operativi, di sostegno e coordinamento dellʼazione delle autorità statali. Essi sono designati, solitamente, con il

termine di agenzie anche se la loro denominazione ufficiale è talvolta differente. Esistono oggi circa una ventina di agenzie,

tra le quali lʼAgenzia europea dellʼambiente (EEA), lʼAgenzia europea per i medicinali (EMEA), lʼAgenzia europea per la

gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne (FRONTEX).

Altre agenzie dette esecutive, aventi durata limitata sono costituite per la gestione di determinati programmi, come

lʼAgenzia esecutiva per lʼenergia intelligente; ulteriori organi sono talvolta creati da atti di diritto derivato in specifiche

materie (un esempio interessante è rappresentato dal Garante europeo della protezione dei dati, incaricato di sorvegliare

lʼapplicazione delle norme sulla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali).

Tra gli organismi più recenti meritano di essere ricordati quelli creati nel quadro della riforma della c.d. architettura

finanziaria europea: Comitato europeo per il rischio sistemico, con compiti di vigilanza macroprudenziale del sistema

finanziario in seno all’Unione, e tre Autorità di vigilanza sugli enti di intermediazione finanziaria, distinte per settore, cioè

l’Autorità bancaria europea, l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali e l’Autorità

europea degli strumenti finanziari e dei mercati, istituite nel 2010.

A) IL PARLAMENTO EUROPEO

2. Il Parlamento europeo

Seguendo lʼordine, non privo di significato politico, risultante dallʼart. 13 TUE, la prima istituzione è il Parlamento europeo.

Esso è lʼistituzione rappresentativa dellʼUnione europea, lʼorgano democratico per eccellenza. Lʼart. 14, par. 2, TUE

dichiara infatti: “Il Parlamento europeo è composto di rappresentanti dei cittadini dell'Unione”.

Tale istituzione esisteva già al momento della nascita della CECA come Assemblea e fu unʼistituzione comune alla CEE e

alla CEEA sino alla loro costituzione. La stessa Assemblea si autodefinì “Assemblea parlamentare europea” e, con una

nuova risoluzione, “Parlamento europeo”, denominazione ufficializzate nellʼAtto unico europeo del 1986.

Il numero dei parlamentari europei è variato molte volte, in corrispondenza ai successivi ampliamenti degli Stati membri,

dai sei originari agli attuali ventisette, i quali hanno comportato un aumento anche dei parlamentari. Lʼattuale Parlamento

europeo, eletto nel giugno 2009 per la legislatura 2009- 2014 sulla base della disciplina anteriore al Trattato di Lisbona, è

formato da 736 parlamentari suddivisi, sul piano nazionale, secondo un criterio grosso modo demografico. Lʼart. 24, par.

2, TUE non stabilisce un numero fisso per ciascun Paese, ma solo un numero massimo dellʼintero Parlamento,

consistente in 750 più il presidente (formula escogitata nel corso del negoziato sul Trattato di Lisbona per venire in

contro alla richiesta italiana di mantenere la parità di parlamentari con il Regno Unito), in sostanza 751. Gli Stati hanno

poi raggiunto un accordo nel 2010 che stabilisce che per il restante periodo della legislatura 2009-2014 il numero dei

membri del Parlamento europeo è aumentato provvisoriamente a 754, aggiungendo 18 membri ai 736 originariamente

eletti, e determina l’assegnazione di tali membri a ciascun Stato. Abbiamo ad esempio 99 seggi alla Germania, 74 alla

Francia, 73 Italia.

Lʼart. 14, par. 2, 1° comma, TUE, pur non disponendo il numero dei membri del Parlamento assegnato a ciascuno Stato,

pone un criterio generale e del limiti a tale numero, stabilendo che: “La rappresentanza dei cittadini è garantita in modo

degressivamente proporzionale, con una soglia minima di sei membri per Stato membro. A nessuno Stato membro sono

assegnati più di novantasei seggi”.

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Il criterio degressivamente proporzionale comporta che il numero dei parlamentari degli Stati membri non è in rapporto

diretto con il numero dei cittadini di ognuno di tali Stati, ma anzi che, mano mano che la popolazione si riduce, il criterio

proporzionale opera in maniera meno decisiva; così che, in definitiva, gli Stati demograficamente maggiori hanno un

numero di parlamentari inferiore a quello che spetterebbe in basa a un rigido rapporto proporzionale tra tali parlamentari e

la loro popolazione e, al contrario, gli Stati con una più ridotta popolazione hanno un numero di parlamentari più elevato di

quello risultante da tale rapporto proporzionale. Fermo il rispetto di tale principio di proporzionalità degressiva, nonché i

“tetti” minimo e massimo di 6 e 96 membri, il numero dei componenti del Parlamento europeo e la loro assegnazione a

ciascuno Stato membro sono stabiliti dal Consiglio europeo con una decisione votata allʼunanimità, su iniziativa del

Parlamento europeo e con la sua approvazione.

Lʼunanimità del Consiglio significa, in sostanza, che la materia richiede un accordo fra tutti gli Stati.

L'assegnazione dei seggi ai diversi Stati membri non va intesa nellʼottica nazionalistica, nella quale il Parlamento europeo

risulti come la semplice somma dei gruppi di parlamentari rappresentanti i diversi Paesi. Al contrario i parlamentari,

configurati come “rappresentanti dei cittadini dellʼUnione” si aggregano nel Parlamento secondo affinità politiche, e non

secondo la propria cittadinanza (o in base allo Stato dove sono stati eletti). Del resto, con lʼintroduzione della cittadinanza

europea il diritto di elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo è sganciato dalla cittadinanza nazionale ma spetta a

chiunque (cittadino di qualsiasi Stato membro, e quindi europeo) risieda stabilmente nello Stato di votazione. La circostanza

che i parlamentari rappresentino i cittadini dellʼUnione nel loro complesso rende il Parlamento unʼistituzione squisitamente

sopranazionale. Ciò beninteso, non esclude che i parlamentari eletti in uno Stato, e aventi generalmente la sua cittadinanza,

possano essere particolarmente consapevoli dei problemi e delle istanze presenti in tale Stato.

In origine i componenti del Parlamento europeo erano eletti dai parlamenti nazionali tra i propri componenti. Più

precisamente, esso era formato “dai delegati che i parlamenti nazionali designavano fra i propri membri secondo la

procedura fissata da ogni Stato membro”. I parlamentari europei, in altri termini, erano designati mediante unʼelezione di

secondo grado. Questo sistema presentava vari inconvenienti. Anzitutto il Parlamento europeo aveva una scarsa

rappresentatività non essendo lʼespressione diretta dei popoli europei i quali restavano del tutto estranei alla sua formazione.

Inoltre, gli stessi componenti del Parlamento europeo, essendo necessariamente anche membri del parlamento nazionale,

erano generalmente indotti a concentrare il proprio impegno in questʼultimo, sia per rispondere alla fiducia del proprio

elettorato, sia perché esso aveva realmente i poteri e le prerogative di un parlamento, mentre allʼepoca ben scarsi erano i

poteri del Parlamento europeo.

Peraltro il Trattato (art. 138, par. 3) prevedeva che il Parlamento europeo elaborasse progetti per consentire lʼelezione a

suffragio universale diretto, attribuendo al Consiglio, allʼunanimità, il potere di stabilire le disposizioni da raccomandare

agli Stati membri, affinché le adottassero conformemente alle loro rispettive norme costituzionali. In virtù di tale norma,

dopo molteplici iniziative dello stesso Parlamento restate senza seguito, il Consiglio, sulla base di un progetto approvato dal

Parlamento, adottò una decisione e un Atto allegato relativo allʼelezione dei rappresentanti nellʼAssemblea a suffragio

universale.

Le prime elezioni dirette del Parlamento europeo si sono così svolte nel 1979.

In base allʼart. 14, par. 3, TUE: “I membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale diretto, libero e

segreto, per un mandato di cinque anni”.

Per quanto riguarda il procedimento elettorale lʼart. 223, par. 1, TFUE dichiara: “Il Parlamento europeo elabora un

progetto volto a stabilire le disposizioni necessarie per permettere l'elezione dei suoi membri a suffragio universale diretto,

secondo una procedura uniforme in tutti gli Stati membri o secondo principi comuni a tutti gli Stati membri.

Il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento

europeo che si pronuncia alla maggioranza dei membri che lo compongono, stabilisce le disposizioni necessarie. Tali

disposizioni entrano in vigore previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali”.

Lʼadozione di una procedura elettorale uniforme in tutti gli Stati membri, o quanto meno di principi comuni a tali Stati, è

quindi condizionata a un procedimento alquanto complesso che richiede una deliberazione unanime del Consiglio (e quindi

unanimità egli Stati membri che vi sono rappresentati) e la successiva approvazione da parte degli Stati membri in base alle

rispettive disposizioni costituzionali. In realtà, come parte della dottrina ha messo in luce, si tratta di un procedimento di

tipo convenzionale poiché lʼapprovazione, da parte degli Stati membri, delle disposizioni stabilite dal Consiglio equivale a

un atto di ratifica di un accordo internazionale, il cui testo è predisposto dalle istituzioni europee.

Sinora non si è riusciti ad adottare una procedura elettorale uniforme, ma solo taluni principi comuni, essendo per il resto gli

Stati membri liberi di disciplinare come credono lʼelezione al Parlamento europeo. È tuttavia importante che si siano

realizzate alcune convergenze sul metodo elettorale e sul regime delle incompatibilità. In particolare , la decisione del

Consiglio ha stabilito che le elezioni debbano svolgersi con il metodo proporzionale, consentendo agli Stati membri di

adottare lo scrutinio di lista o uninominale preferenziale; essa riafferma che, fermo restando le disposizioni dello stesso atto,

la procedura elettorale è disciplinata in ciascuno Stato membro dalle proprie disposizioni che possono anche tener conto

delle particolarità di singoli Stati membri, ma non devono nel complesso pregiudicare il carattere proporzionale del voto.

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Gli atti adottati in materia della Comunità europea stabiliscono alcune incompatibilità del mandato parlamentare, per

esempio con la partecipazione alla Commissione, alla Corte di giustizia, al governo di uno Stato membro nonché, a seguito

della modifica del 2002, con il mandato di membro del parlamento nazionale. Ulteriori incompatibilità possono essere

stabilite da ciascun

Stato membro, per i parlamenti eletti nello stesso Stato.

LʼItalia, per esempio, ha stabilito lʼincompatibilità anche con le cariche di Presidente di giunta regionale e di assessore

regionale.

Anche i requisiti per lʼelettorato attivo e passivo rientrano, in principio, nella competenza degli Stati membri (e variano,

pertanto, da Stato a Stato), salvo quelli collegati alla cittadinanza europea, definiti dallʼart. 22, par. 2 TFUE.

Lʼart. 223, par. 2, TFUE prevede inoltre la procedura per stabilire lo statuto e le condizioni generali per lʼesercizio delle

funzioni dei membri del Parlamento europeo. Per quanto riguarda, in particolare, i privilegi e le immunità di tali membri,

essi sono regolati dal Protocollo n. 7 sui privilegi e sulle immunità dellʼUnione europea, che contiene specifiche

disposizioni in proposito. L’art. 8 dispone ad esempio che i membri del Parlamento non possono essere ricercati, detenuti o

perseguiti a motivo delle opinioni o dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni.

Nel 2011 la Corte ha dichiarato che, sebbene tale norma sia essenzialmente destinata ad applicarsi alle dichiarazioni

effettuate dai membri del Parlamento europeo nelle aule dello stesso Parlamento, non si può escludere che una dichiarazione

effettuata da un deputato fuori da talune aule possa costituire un’opinione espressa nell’esercizio delle sue funzioni. Si deve

valutare la natura e il contenuto della dichiarazione.

Competente a revocare l’immunità parlamentare è lo stesso Parlamento europeo.

Come già osservato, il Parlamento europeo non può considerarsi come la semplice somma di gruppi nazionali di

parlamentari. Ciò è confermato dalla disciplina contenuta nellʼart. 30 ss. del Regolamento interno relativa alla costituzione

dei gruppi parlamentari. Questa esclude che tali gruppi possano costituirsi su base nazionale, essendo necessario che i

componenti provengano da almeno un quarto degli Stati membri, e prescrivere la loro formazione esclusivamente in ragione

dell’affinità politica, anche se, in principio, al Parlamento europeo non spetta di accettare l’effettiva presenza di tale affinità.

Lʼart. 30 del Regolamento dichiara infatti: “ 1. I deputati possono organizzarsi in gruppi secondo le affinità politiche. Non è

necessario di norma che il Parlamento valuti lʼaffinità politica dei membri di un gruppo. Al momento di formare un gruppo

sulla base del presente articolo, i deputati interessati accettano per definizione di avere unʼaffinità politica. Soltanto

quando questa è negata dai deputati interessati è necessario che il Parlamento valuti se il gruppo è stato costituito in

conformità del regolamento.

2. Un gruppo politico è composto da deputati eletti in almeno un quarto degli Stati membri. Per costituire un gruppo

politico occorre un numero minimo di venticinque deputati.

4. Ogni deputato può appartenere a un solo gruppo politico”.

Peraltro, se la consistenza numerica di un gruppo scende al di sotto della soglia prescritta, il gruppo può essere autorizzato a

continuare a esistere sino alla successiva seduta costitutiva del parlamento, purché rappresenti almeno un quinto degli Stati

membri ed esista da più di un anno. Non è, invece, ammessa la costituzione di gruppi misti, per cui i deputati che non

appartengono ad un gruppo politico restano non iscritti ad alcun gruppo; il che implica lʼesclusione da alcune prerogative

che sono riservate ai gruppi.

Lʼimportanza del collante politico nei gruppi parlamentari europei è stata sottolineata anche dal

Tribunale di primo grado nella sentenza del 2001 promossa dal Front National, dalla lista Emma Bonino, nonché da diversi

parlamentari europei, contro il Parlamento europeo per impugnare il rifiuto di consentire la costituzione di un “Gruppo

tecnico di deputati indipendenti (TDI)- Gruppo misto”. I ricorrenti intendevano costituire tale gruppo al fine dichiarato di

garantire a ogni deputati lʼesercizio pieno del mandato parlamentare, affermando, gli uni rispetto agli altri, la loro totale

indipendenza politica. Lʼarticolazione del Parlamento europeo in gruppi politici tra parlamentari provenienti da un certo

numero di Stati membri (almeno un quarto) mette in luce il carattere sopranazionale di tale situazione e consente di

configura come rappresentativa dei cittadini europei, aggregati nelle loro componenti politiche non nazionali.

La caratterizzazione in senso politico del Parlamento europeo e il crescente coinvolgimento del cittadino europeo nel

processo di integrazione risulta anche dallʼart. 10, par. 4, TUE, il quale riconosce i partiti politici europei quali soggetti

politici transnazionali:

“I partiti politici a livello europeo sono un importante fattore per lʼintegrazione in seno allʼUnione. Essi contribuiscono a

formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dellʼUnione”.

Inoltre, “il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa

ordinaria, determinano lo statuto dei partiti politici a livello europeo, in particolare le norme relative al loro

finanziamento” (art. 224 TFUE).

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3. Lʼorganizzazione e il funzionamento del Parlamento europeo

Per quanto riguarda l'organizzazione e il funzionamento del Parlamento europeo, esso elegge tra i suoi membri il presidente

e lʼUfficio di Presidenza. Il Parlamento elegge, inoltre, quattordici vicepresidenti e cinque questori. Essi durano in carica

due anni e mezzo, cioè la metà della durata (quinquennale) del Parlamento. Il Presidente, i vicepresidenti e, a titolo

consultivo, i questori compongono lʼUfficio di Presidenza. Le modalità di elezione e le loro competenze sono disciplinate

nel Regolamento interno. Ulteriori organi del Parlamento sono la Conferenza dei presidenti, formata dal Presidente del

Parlamento e dai presidenti dei gruppi politici, e la Conferenza dei presidenti di commissione, composta dai presidenti di

tutte le commissioni permanenti e speciali.

Analogamente ai parlamenti nazionali, anche quello europeo è organizzato in commissioni, le quali hanno carattere

permanente o speciale. Le prime sono elette anchʼesse per la durata di due anni e mezzo e hanno una competenza per

materia. Il loro compito è essenzialmente preparatorio, istruttorio e consultivo rispetto alle tematiche sulle quali dovrà

deliberare il Parlamento e si esprime con risoluzioni, pareri, raccomandazioni. Fra tali commissioni vi è quella per le

petizioni.

Le commissioni speciali sono costituite dal Parlamento per una questione particolare e la loro durata non può superare i

dodici mesi (prorogabili dal Parlamento). Lo stesso trattato sul funzionamento dellʼUnione europea prevede la possibilità di

istituire commissioni temporanee d'inchiesta.

Lʼart. 226 TFUE dispone: “Nell'ambito delle sue funzioni, il Parlamento europeo, su richiesta di un quarto dei membri che

lo compongono, può costituire una commissione temporanea d'inchiesta incaricata di esaminare, fatti salvi i poteri

conferiti dai trattati ad altre istituzioni o ad altri organi, le denunce di infrazione o di cattiva amministrazione

nell'applicazione del diritto dell'Unione, salvo quando i fatti di cui trattasi siano pendenti dinanzi ad una giurisdizione e

fino all'espletamento della procedura giudiziaria.

La commissione temporanea d'inchiesta cessa di esistere con il deposito della sua relazione.

Previa approvazione del Consiglio e della Commissione, il Parlamento europeo, di sua iniziativa, deliberando mediante

regolamenti secondo una procedura legislativa speciale, fissa le modalità per l'esercizio del diritto d'inchiesta”. Lʼinchiesta

ha per oggetto casi di violazione del diritto dellʼUnione o anche di amministrazione scorrette, impropria, inadeguata di tale

diritto, che non si risolva necessariamente nella violazione di norme.

Questi casi possono essere imputabili sia alle istituzioni o agli organi dellʼUnione che agli Stati membri. Lʼinchiesta non

può svolgersi contemporaneamente allʼesercizio di attività giudiziaria, da parte sia di giudici dellʼUnione che di giudici

nazionali, e non impedisce che altre istituzioni o organi, come la Commissione europea o il Mediatore europeo o la

Commissione per le petizioni, si occupino del caso sottoposto all'inchiesta.

Lʼattività della commissione di inchiesta si conclude con la consegna della sua relazione al Parlamento europeo, il quale

può assumere le iniziative che ritiene più opportune, sia nei riguardi di Stati membri che di altre istituzioni o organi europei.

Il Parlamento europeo tiene una sessione annuale e si riunisce di diritto il secondo martedì del mese di marzo. Ai sensi del

Regolamento interno, tale sessione ha durata annuale e ciascuna tornata ha luogo, di regola, ogni mese. Esso si riunisce,

inoltre su richiesta della maggioranza dei suoi membri, del Consiglio o della Commissione. Per quanto riguarda la sede del

Parlamento che, come per ogni altra istituzione, è fissata dʼintesa comune dai governi degli Stati membri, essa è a

Strasburgo dove si tengono le dodici giornate plenarie mensili, mentre quelle aggiuntive e le riunioni delle commissioni si

svolgono a Bruxelles; il Segretariato generale del Parlamento europeo e i suoi servizi restano a Lussemburgo, dove era

originariamente la sede del Paramento europeo. Il TFUE art.231, in merito alla votazione, stabilisce: “Salvo contrarie

disposizioni dei trattati, il Parlamento europeo delibera a maggioranza dei suffragi espressi.

Il Regolamento interno fissa il numero legale”.

Il numero legale, occorrente, in principio, perché il Parlamento possa svolgere i suoi lavori, è dato da un terzo dei

componenti, ma le votazioni sono valide qualunque sia il numero dei votanti a meno che, allʼatto della votazione, il

Presidente, su preventiva richiesta di almeno quaranta deputati constati lʼassenza del numero legale.

Riguardo alla maggioranza richiesta dal 1° comma dellʼart. 231, va ricordato che varie disposizioni dei Trattati precisano

diverse maggioranze su specifiche materie. Per esempio, nella procedura di constatazione di una violazione grave e

persistente dei valori di cui allʼart. 2 TUE, il Parlamento europeo delibera alla maggioranza dei due terzi dei voti espressi,

che rappresenta la maggioranza dei suoi membri; maggioranza aggravare sono previste per lʼammissione di nuovi membri

nonché per alcune delibere relative alla procedura legislativa ordinaria, di approvazione del bilancio, per lʼadozione del

regolamento interno, ecc.

4. Le funzioni e i poteri del Parlamento europeo

Per quanto riguarda le funzioni e i poteri del Parlamento europeo, esso aveva in origine poteri molto modesti. In particolare,

malgrado la sua denominazione che evoca una potestà legislativa, il Parlamento non ne aveva alcuna, ma si limitava a

partecipare alla funzione legislativa con la formulazione di pareri, talvolta meramente facoltativi, più spesso obbligatori, ma

mai vincolanti, riguardo alle proposte di atti presentate dalla Commissione e sulle quali il potere di decisione apparteneva

esclusivamente al consiglio.

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Questo quadro iniziale, nel quale era evidente un deficit democratico, si è progressivamente evoluto, portando il Parlamento

ad assumere un potere “legislativo”, condiviso con il Consiglio nonché con la Commissione. Ciò si è realizzato mediante

lʼistituzione della procedura di “codecisione” che conferisce al Parlamento una posizione paritaria con il Consiglio. Questa

procedura, regolata dallʼart. 294 TFUE, con lʼentrata in vigore del Trattato di Lisbona, è diventata la “procedura legislativa

ordinaria”.

Il Parlamento europeo esercita importanti funzioni anche in materia di bilancio nonché di controllo su altre istituzioni.

Sinteticamente il ruolo del Parlamento risulta dallʼart. 14, par.1, TUE: “Il Parlamento europeo esercita, congiuntamente al

Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Esercita funzioni di controllo politico e consultive alle

condizioni stabilite dai trattati. Elegge il presidente della Commissione”.

Il ruolo del Parlamento nella funzione legislativa e, più in generale, nellʼadozione degli atti dellʼUnione può essere

compiutamente inteso solo nel contesto dei diversi procedimenti previsti dai Trattati e in raffronto al ruolo che, in tali

procedimenti, rivestono la Commissione e il Consiglio. Si tratta di procedimenti che, proprio perché coinvolgono le tre

istituzioni politiche dellʼUnione europea, Parlamento, Consiglio, Commissione, sono denominati interistituzionali. Oltre a

questo specifico potere deve ritenersi che il Parlamento europeo abbia un potere generale di deliberare e di adottare

risoluzioni su qualsiasi questione che concerne lʼUnione.

Significativi sono i poteri di controllo del Parlamento nei riguardi delle altre istituzioni europee. Essi, originariamente,

concernevano esclusivamente la Commissione ma si sono estesi, dapprima nella prassi, poi anche nei Trattati, al Consiglio

e, con il Trattato di Lisbona, in qualche misura anche al Consiglio europeo.

Nei rapporti con la Commissione va ricordato, anzitutto, lʼesame che il Parlamento europeo, in seduta pubblica, effettua

sulla relazione generale annuale sullʼattività dellʼUnione che la Commissione è tenuta a pubblicare ogni anno, almeno un

mese prima dell'apertura della sessione del parlamento. Attraverso tale esame il Parlamento europeo è messo in grado di

analizzare e di valutare non solo lʼoperato della Commissione, ma di tutte le istituzioni e gli organi dellʼUnione. Lʼesame

del Parlamento avviene a posteriori; ciò, tuttavia, può condurre Il Parlamento ad una valutazione politica che, per quanto

concerne lʼattività della Commissione, può essere la premessa per una mozione di censura nei suoi confronti.

Inoltre, la Commissione presenta, assieme alla relazione generale, un programma dʼazione relativo allʼanno successivo, sul

quale il Parlamento può esprimere proprie valutazioni, orientamenti e indirizzi. Oltre alla relazione generale annuale, la

Commissione è tenuta a presentare al Parlamento europeo varie relazioni su determinate materie, come la cittadinanza

dellʼUnione, la coesione economica, le ricerca e lo sviluppo tecnologico.

Uno strumento penetrante di controllo politico sulla Commissione è rappresentato dalle interrogazioni che possono essere

presentate dal Parlamento europeo o da singoli deputati europei e alle quali la Commissione è tenuta a rispondere oralmente

o per iscritto. Le interrogazioni possono essere con richiesta di risposta orale, seguita da discussione, che possono essere

presentate solo per iniziativa di una commissione, di un gruppo politico o di almeno quaranta deputati; interrogazioni con

richiesta di risposta scritta, che possono essere presentate da ciascun deputato.

Il mezzo più incisivo di controllo del Parlamento europeo sulla Commissione è costituito dalla mozione di censura, con la

quale il Parlamento ha il potere di provocare le dimissioni della Commissione, analogamente alla mozione di sfiducia

mediante la quale un parlamento nazionale, come in Italia, può determinare la caduta del governo. Tale potere esprime un

vero e proprio rapporto di fiducia politica tra le due istituzioni, poiché la permanenza in carica della Commissione

presuppone la sussistenza della fiducia del Parlamento; venuta meno questʼultima, con la mozione di censura, la

Commissione deve cessare dalle sue funzioni.

Il TFUE, allʼart. 234, disciplina così la mozione di censura: “il Parlamento europeo, cui sia presentata una mozione di

censura sull'operato della Commissione, non può pronunciarsi su tale mozione prima che siano trascorsi almeno tre giorni

dal suo deposito e con scrutinio pubblico.

Se la mozione di censura è approvata a maggioranza di due terzi dei voti espressi e a maggioranza dei membri che

compongono il Parlamento europeo, i membri della Commissione si dimettono collettivamente dalle loro funzioni e l'alto

rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza si dimette dalle funzioni che esercita in seno alla

Commissione. Essi rimangono in carica e continuano a curare gli affari di ordinaria amministrazione fino alla loro

sostituzione conformemente all'articolo 17 del trattato sull'Unione europea. In questo caso, il mandato dei membri della

Commissione nominati per sostituirli scade alla data in cui sarebbe scaduto il mandato dei membri della Commissione

costretti a dimettersi collettivamente dalle loro funzioni”.

Lʼadozione della mozione di censura è circondata da molteplici garanzie dato lʼeffetto “traumatico” che può produrre nella

vita dellʼUnione. Occorre, quindi, che la decisone sia sostenuta da unʼampia maggioranza, i due terzi dei voti espressi che

corrispondono alla maggioranza dei componenti del Parlamento; che essa sia discussa dopo ponderato esame e riflessione,

quindi non prima di tre giorni dal suo deposito e non sai il frutto di un “colpo di mano”; infine, che la discussione e la

votazione avvengono con la massima trasparenza, quindi con la votazione pubblica (con appello nominale). Ulteriori

garanzie sono poste dal Regolamento il quale, tra lʼaltro, richiede che la mozione di censura sia presentata da almeno un

decimo dei deputati che compongono il Parlamento.

30

Lʼapprovazione della mozione di censura comporta le dimissioni collettive dei membri della Commissione, a parte la

particolare posizione dellʼAlto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Non è ammessa la censura contro

i singoli commissari per cui essa, anche se motivata dalla condotta di taluni commissari, si ripercuote sullʼintera

Commissione. Le regioni della censura, che solo il Parlamento è competente a valutare, riguardano lʼoperato della

Commissione (o dei singoli commissari), quindi la sua azione politica e rilevanti sono eventuali illeciti o irregolarità

presenti nella sua azione. La caduta della Commissione implica la nomina di una nova Commissione, il cui mandato è

limitato alla restante durata del mandato di quella censurata. Questʼultima resta in carica sino alla nomina della nuova

Commissione, ma solo per la cura degli “affari di ordinaria amministrazione”.

La mozione di censura, sebbene talvolta presentata, non è mai stata approvata, forse perché i deputati sono consapevoli del

suo carattere “traumatico”.

Il ruolo della Commissione naturale interlocutore del Parlamento europeo è confermato dalla norma che consente alla stessa

Commissione di assistere a tutte le sedute del Parlamento e di essere ascoltata a sua richiesta.

In origine il Parlamento non aveva rapporti con il Consiglio, ma dapprima nella prassi, poi nei Trattati, è stato riconosciuto

un diritto dʼinterrogazione del parlamento e dei deputati anche nei suoi confronti. Infatti, il Consiglio è ascoltato dal

Parlamento europeo secondo le modalità previste nel Regolamento interno del Consiglio.

Le disposizioni le Regolamento del Parlamento relative alle interrogazioni alla Commissione e al question time, regolano

anche le interrogazioni al Consiglio. Non è, invece, neppure proponibile una qualche forma di censura verso il Consiglio

analoga a quella nei confronti della Commissione, essendo il Consiglio è composto dai ministri degli Stati membri, i quali,

come componenti dei governi, rispondono eventualmente, sulla base di un rapporto fiduciario, ai parlamenti nazionali.

Anche con il Consiglio Europeo originariamente non esisteva alcun rapporto, ma il TUE prevede la presentazione al

Parlamento europeo di una relazione dopo ogni riunione del Consiglio europeo da parte del Presidente di tale Consiglio.

Inoltre il TFUE estende ora al Consiglio europeo la possibilità di essere ascoltato dal Parlamento europeo, secondo le

modalità previste dal Regolamento interno del Consiglio europeo. Dʼaltra parte, il Presidente del Parlamento europeo può

essere invitato per essere ascoltato dal Consiglio europeo. Si creavo, dunque, vari canali di comunicazione tra il “vertice”

politico dellʼUnione (il Consiglio europeo) e l'istituzione rappresentativa dei cittadini europei (il Parlamento).

Scarsi sono i rapporti del Parlamento europeo con la Banca centrale europea, la quale corrisponde a un modello di piena

indipendenza rispetto a organi politici. Tuttavia, il TFUE dispone che il Presidente della BCE presenti al Parlamento

europeo una reazione annuale sullʼattività del sistema europeo di banche centrali (SEBC) e sulla politica monetaria

dellʼanno precedente e dellʼanno in corso. Su tale base il Parlamento europeo può procedere a un dibattito generale,

svolgendo così una sia pur blanda forma di controllo.

Inoltre, il Presidente e gli altri membri del Comitato esecutivo della BCE possono, a richiesta del Parlamento europeo o di

propria iniziativa, essere ascoltati dalle commissioni competenti dello stesso Parlamento. Il Regolamento interno del

Parlamento stabilisce poi, che ciascun deputato può rivolgere interrogazioni con richiesta di risposta scritta alla BCE.

Ai poteri di controllo del Parlamento europeo sulle altre istituzioni e organi, ma anche sugli Stati membri, vanno poi

ricollegati gli istituti dell'inchiesta (art. 226 TFUE), della petizione (art. 227 TFUE) e del Mediatore (art. 228 TFUE). Essi,

pur nelle loro differenze, sono accomunati dallʼesito non vincolante dei relativi procedimenti; spesso, poi, nella prassi

risultano idonei a riparare in maniera amichevole, conciliativa, casi di violazione del diritto dellʼUnione o di cattiva

amministrazione e a promuovere iniziative, di carattere politico, legislativo o anche giudiziario, volte a risolvere i problemi

generali che tali casi possano mettere in luce.

Infine rapporti di collaborazione con i parlamenti nazionali sono istituti, in particolare, in seno all Conferenza delle

commissioni per gli affari europei del parlamenti nazionali, alla quale partecipa una rappresentanza del Parlamento europeo.

Il parlamento partecipa, a vario titolo, alla formazione di altre istituzioni o organi, come la Corte dei conti e il Comitato

esecutivo della BCE. Il Parlamento, poi, nomina in via esclusiva il Mediatore europeo. Di particolare rilevanza è la

partecipazione del Parlamento alla nomina della Commissione.

Nonostante i progressi relativi a ruolo del Parlamento europeo realizzati con il Trattato di Lisbona del 2007, la sua posizione

resta ancora del tutto marginale nel settore della politica estera di sicurezza comune (PESC) e della politica di sicurezza e di

difesa comune. Le funzioni del Parlamento europeo si limitano alle seguenti: esso è consultato regolarmente dallʼAlto

rappresentante dellʼUnione per gli affari esteri e la politica di sicurezza sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali

della PESC, compresa la politica di sicurezza e di difesa comune, che lo informa sullʼevoluzione di tali politiche. Il

Parlamento europeo, inoltre, può rivolgere interrogazioni e raccomandazioni al Consiglio e allʼAlto rappresentante e

procede due volte allʼanno a un dibattito sui progressi compiuti in dette politiche. È esclusa invece, qualsiasi forma di

partecipazione del Parlamento alle procedure decisionali.

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B) IL CONSIGLIO EUROPEO

5. Il Consiglio europeo: composizione e funzionamento. Il Presidente del Consiglio europeo Il Consiglio europeo è nato

nella prassi della diplomazia intergovernativa dei c.d. Vertici, a partire dal 1961, al fine di affrontare problemi e di assumere

importanti decisioni politiche sul cammino dellʼintegrazione europea. Tale prassi fu formalizzata con il Vertice di Parigi del

9- 10 dicembre 1974, nel quali i Capi di Stato e di governo, in un comunicato finale, espressero la loro decisione di riunirsi,

accompagnati dai ministri egli esteri, tre volte allʼanno e ogni volta che fosse necessario come Consiglio delle Comunità e a

titolo di cooperazione polittica, in modo da assicurare lo sviluppo e la coesione generale delle attività delle Comunità e dei

lavori relativi alla cooperazione politica. Esso ebbe dunque la duplice funzione, da un alto di dibattere le questioni di

principale importanza al livello comunitario e di operare le scelte decisive al riguardo, e dallʼaltro di svolgere attività di

consultazione, di coordinamento e di programmazione nel campo della politica estera. Sino all Atto unico europeo del 1986

il Consiglio europeo restò estraneo al sistema organizzativo e normativo delle Comunità europee, operando essenzialmente

quale conferenza intergovernativa di carattere periodico. Lʼart. 2 dellʼAtto unico europeo diede a tale struttura un formale

riconoscimento, ma senza precisarne le funzioni e lasciando aperti i dubbi sulla natura giuridica e circa la sua appartenenza

o meno allʼordinamento comunitario.

Con il Trattato di Maastricht del 1992 il Consiglio europeo è stato formalmente inserito nellʼUnione europea e con il

Trattato di Lisbona del 2007, esso ha ricevuto al qualifica di istituzione.

Malgrado lʼinserimento del Consiglio europeo nel quadro istituzionale dellʼUnione, non viene meno la sua natura

fortemente caratterizzata in senso intergovernativo. Il Consiglio europeo si colloca al vertice della struttura istituzionale

dellʼUnione, in quanto le grandi decisioni relative agli sviluppi dell'integrazione europea sono assunte al livello di tale

Consiglio e sono poi attuate dalle altre sitituzioni, secondo le competenze e le procedure regolate dai trattati.

La composizione del Consiglio europeo è definita dallʼart. 15, par. 2, TUE:

“Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo presidente e dal presidente

della Commissione. L'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza partecipa ai lavori”.

Circa la composizione del Consiglio europeo va precisato che la partecipazione degli stati membri a livello di Capo di Stato

o di Capo di governo dipende dalla costituzioni interne, in base alle quali dovrà individuarsi chi, fra tali cariche, è posto al

vertice dellʼesecutivo.

Una delle novità più significative del Trattato di Lisbona consiste nell'istituzione della figura del Presidente del Consiglio

europeo. Si tratta di un organo individuale che non può esercitare alcun mandato nazionale, eletto dal Consiglio europeo a

maggioranza qualificata (con i soli voti dei Capi di Stato o di governo e con esclusione del presidente della Commissione)

per un mandato di due anni e mezzo rinnovabile una sola volta. Con la stessa procedura il Consiglio europeo può porre fine

al mandato del Presidente in caso di impedimento o di colpa grave. Il primo Presidente, attualmente in carica, è lʼex

Presidente belga Herman van Rompuy.

I compiti del Presidente del Consiglio europeo sono indicati dallʼart. 15, par. 6, TUE:

“a) Presiede e anima i lavori del Consiglio europeo;

b) Assicura la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio europeo, in cooperazione con il presidente della

Commissione e in base ai lavori del Consiglio «Affari generali»;

c) Si adopera per facilitare la coesione e il consenso in seno al Consiglio europeo”.

Dunque, il Presidente svolge un ruolo di coordinamento, di preparazione e di mediazione allʼinterno del Consiglio europeo.

Ha, inoltre, una funzione di rappresentanza esterna: “Il Presidente del Consiglio europeo assicura, al suo livello e in tale

veste, la rappresentanza esterna dell'Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le

attribuzioni dell'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”.

Sembrerebbe che, mediante questa nuova figura, munita di una rappresentanza dell’Unione verso i terzi in materia di PESC,

si sia voluto fornire ai terzi quel numero di telefono che, si racconta, cercava inutilmente lʼallora Segretario di Stato degli

USA Henry Kissinger per comunicare con lʼEuropa.

Lʼart. 15, par. 3, TFU, dispone che il Consiglio europeo si riunisca due volte a semestre su convocazione del Presidente;

questʼultimo se la situazione lo richiede, convoca una riunione straordinaria. In passato nessuna disposizione regolava il

sistema di votazione del Consiglio europeo, perché in realtà in esso le decisioni venivano prese di comune accordo,

mediante la pratica del consensu, che permette di riprodurre in un testo lʼintesa raggiunta dai partecipanti, ma anche di

registrare eventuali posizioni sui punti allʼordine del giorno. Si tratta di un modo di procedere che evidenzia in pieno il

carattere diplomatico e intergovernativo di tale istituzione. Il Trattato di Lisbona ha formalizzato tale pratica, ma ha previsto

anche numerosi casi nei quali il

Consiglio europeo vota formalmente. Al riguardo, infatti, lʼart. 15, par. 4, TUE, stabilisce che: “Il Consiglio europeo si

pronuncia per consenso, salvo nei casi in cui i trattati dispongano diversamente”.

In questi ultimi casi votano soltanto gli Stati membri, tramite i rispettivi Capi di Stato o di governo, mentre il Presidente del

Consiglio europeo e il Presidente della Commissione non partecipano al voto. Ciò conferma che, malgrado la presenza di

32

tali organi individuali, il Consiglio resta unʼistituzione essenzialmente intergovernativo. Nel caso di votazione, inoltre, è

stabilito che ciascun membro del Consiglio europeo possa ricevere delega da un solo altro membro e che, quando è richiesta

l'unanimità, lʻastensione di un membro non osta allʼadesione della deliberazione. Quando, invece, è prescritta la

maggioranza qualificata trovano applicazione le stesse regole previste per la votazione nel Consiglio. Nei Trattati sono

contemplate diverse regole di votazione a seconda dei casi.

Rara è lʼipotesi un cui sia prevista la maggioranza semplice (le deliberazioni di carattere procedurale e lʼadozione del

regolamento interno, le decisioni su proposte di modifiche ai trattati). Anche le questioni da decidere a maggioranza

qualificata non sono frequenti (la nomina del presidente dello stesso Consiglio, la proposta di nomina del presidente della

Commissione, la nomina dellʼintera Commissione, la nomina dell'Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di

sicurezza, ecc.). Più spesso è prevista la decisione allʼunanimità.

6. Le funzioni del Consiglio europeo

Riguardo alle funzioni del Consiglio europeo, oltre quelle concernenti la formazione d altre istituzioni e le modifiche ai

Trattati, lʼart. 15, par. 1, TUE dichiara: “Il Consiglio europeo dà all'Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne

definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Non esercita funzioni legislative”.

La formulazione della norma, volutamente alquanto generica, mette in luce la natura eminentemente politica del ruolo del

Consiglio europeo, natura che si riflette anche sugli atti che esso emana e che non possono avere natura legislativa. Al

termine delle sue riunioni, infatti, la Presidenza del Consiglio europeo esprime delle conclusioni alle quali possono

aggiungersi comunicati e dichiarazioni frutto dellʼintesa raggiunta nel Consiglio stesso.

Atti del genere, in principio, non hanno efficacia giuridica. Sul piano politico, peraltro, possono avere notevole rilevanza.

Essi possono contenere direttive o orientamenti rivolti alla Commissione e al Consiglio e diretti a promuovere loro

iniziative formali, in vista dellʼadozione di atti o dello sviluppo di politiche dellʼUnione. Non può escludersi, inoltre, che in

seno al Consiglio europeo possano realizzarsi degli accordi tra gli Stati membri, sia pure in maniera implicita ed in forma

semplificata. Il Consiglio europeo svolge un ruolo di primo piano nellʼazione esterna dellʼUnione e in particolare

nellʼambio della politica estera e di sicurezza comune, compresa la politica di sicurezza e di difesa comune, che ne

costituisce parte integrante che assicura che lʼUnione disponga di una capacità operativa con mezzi civili e militari. In

questo contesto, il Consiglio europeo adotta anche atti formali, provvisti di effetti giuridici obbligatori.

Con particolare riguardo alla politica estera e di sicurezza comune, il Consiglio europeo ha il compito di individuare gli

interessi strategici dellʼUnione, di fissare gli obiettivi e di definire gli orientamenti generali di tale politica, comprese le

questioni aventi implicazioni in materia di difesa e di adottare le necessarie decisioni. Queste determinazioni del Consiglio

europeo appaiono giuridicamente obbligatorie, almeno nei confronti del Consiglio che” elabora la politica estesa e di

sicurezza comune e prende le decisioni necessarie per la definizione e lʼattuazione di tale politica in base agli orientamenti

generali e alle linee strategiche definiti dal Consiglio europeo”.

Il Consiglio europeo ha il potere di “decidere” in merito alla definizione di una difesa comune dellʼUnione.

Sempre nellʼambito della politica estera e di sicurezza comune è prevista una sorta dʼappello al Consiglio europeo da parte

del Consiglio qualora, nei casi in cui questʼultimo delibera a maggioranza qualificata (non allʼunanimità come più spesso

accade), un membro del Consiglio dichiara che, per specificati e vitali motivi di politica nazionale, intende opporsi

all'adozione della decisione a maggioranza. In questo caso, dopo che lʼAlto rappresentante per gli affari esteri e la politica di

sicurezza abbia inutilmente cercato di raggiungere una soluzione accettabile per lo Stato in questione, il Consiglio, a

maggioranza qualificata, può chiedere che della questione sia investito il Consiglio europeo in vista di una decisione

allʼunanimità. È lecito dubitare dellʼutilità di tale meccanismo: non si vede, infatti, perché mai i Capi di Stato o di governo

dovrebbero trovare nel

Consiglio europeo quellʼintesa che i loro ministri non hanno trovato in seno al Consiglio.

Il Consiglio europeo interviene anche in talune materie estranee allʼazione esterna dellʼUnione. Esiste oggi un rapporto tra il

Consiglio europeo e il parlamento europeo, il quale può esercitare sul primo qualche forma di controllo politico.

Anteriormente al Trattato di Lisbona non era consentito alcun controllo giudiziario sullʼoperato del Consiglio. Con il

Trattato di Lisbona per la prima volta è stata prevista la possibilità di impugnare dinanzi alla Corte di giustizia atti del

Consiglio europei ritenuti illegittimi purché destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. Ma lʼipotesi di

impugnabilità si restringe sensibilmente ove si ricordi che, di regola, è esclusa la competenza della Corte di giustizia

nellʼintera materia della politica estera e di sicurezza comune; dunque, risultano impugnabili per vizi di legittimità solo

(eventuali) atti del Consiglio europeo che, per un verso, siano giuridicamente obbligatori, ma, per lʼaltro verso, non

riguardino la politica estera e di sicurezza comune.

In conclusione, va riconosciuto che il Consiglio europeo ha svolto frequentemente un ruolo positivo, riuscendo talvolta a

sbloccare situazioni di impasse e assumendo decisioni politiche fondamentali, come quelle sull'allargamento, sulla moneta

unica,ecc. Non può non confederarsi, tuttavia, che esso ha determinato una erosione dei poteri di tutte le istruzioni europea

ad esso politicamente subordinate (in particolare, al Consiglio, ma anche alla Commissione), accentuando, mediante

decisioni verticistiche, quel deficit democratico che sembra, pertanto ancora presente nella costruzione europea.

33

C) IL CONSIGLIO

7. Il Consiglio: composizione, Presidenza, COREPER

Il Consiglio è un organo tipicamente intergovernativo composto dagli Stati membri rappresentati, come di regola nelle

relazioni internazionali, dai rispettivi esecutivi.

Lʼart. 16, par. 2, TUE dichiara: “il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello

ministeriale, abilitato a impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto”. Mentre

il Parlamento esprime gli interessi dei cittadini europei, il Consiglio esprime gli interessi particolari dei singoli Stati

membri, interessi che raggiungono la loro sintesi e il loro compromesso negli atti adottati dal Consiglio.

Prima dellʼentrata in vigore del Trattato di Lisbona, precisamente con il Trattato di Maastricht, mediante una decisione dello

stesso Consiglio, si era deciso di attribuire a questa istituzione la denominazione di “Consiglio dellʼUnione europea”. Oggi

con il Trattato di Lisbona, tale istituzione viene indicata con il nome di “Consiglio”.

Lʼart. 16, par. 2, TUE, a seguito di una modifica introdotta con il Trattato di Maastricht del 1992, non stabilisce più, come

faceva il testo originario, che ogni governo deleghi un suo membro al Consiglio, ma stabilisce che ogni Stato membro vi sia

rappresentato a livello ministeriale con una persona abilitata a impegnare il governo di detto Stato e a votare. Non si

richiede più, pertanto, che alle riunioni del Consiglio partecipino necessariamente ministri del governo centrale di uno Stato:

questo può farsi rappresentare anche da componenti di organi di governo di enti locali, purché ad essi sia attribuito dal

diritto nazionale lo status ministeriale.

La composizione del Consiglio è variabile poiché esso è formato dai ministri competenti ratione materiae in corrispondenza

agli argomenti di volta in volta posti al suo ordine del giorno. Lʼelenco delle varie formazioni è adottato dal Consiglio

europeo a maggioranza qualificata, ai sensi dellʼart. 236, lett. a), TFUE. In attesa di tale determinazione lʼelenco è adottato,

in via provvisoria, dal Consiglio (formazione Affari generali): questo vi ha provveduto stabilendo dieci formazioni, idonee a

coprire il complesso delle materie di competenza dell’Unione europea.

Peraltro, lo stesso art. 16, par. 6, TUE prevede due formazioni del Consiglio: si tratta del

Consiglio “Affari generali” e del Consiglio “Affari esteri”.

Il primo assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del Consiglio, prepara le riunioni del Consiglio europeo e ne

assicura il seguito in collegamento con il Presidente del Consiglio europeo e la Commissione.

Il secondo elabora l’azione esterna dell’Unione secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo e assicura la

coerenza dell’azione dell’Unione.

Riguardo alla presidenza del Consiglio, lʼart. 16, par. 9, TUE dichiara che, fatta eccezione per la formazione “Affari

esteri”, essa è determinata dal Consiglio europeo con votazione a maggioranza qualificata secondo un sistema di rotazione

paritaria, cioè assicurando a tutti gli Stati membri, a turno, tale presidenza. La presidenza è svolta da ogni Stato membro per

un periodo di sei mesi. Più precisamente, in forza della decisione del Consiglio europeo del 1° dicembre 2009, viene

predeterminato un gruppo di tre Stati membri per un periodo di 18 mesi, tenendo conto della loro diversità e degli equilibri

geografici nellʼUnione. Ciascun membro di tale gruppo esercita a turno la presidenza di tutte le formazioni del Consiglio

(ad eccezione di quella “Affari esteri”) per sei mesi; gli altri due membri lo assistono in tutti i suoi compiti sulla base di un

programma comune.

Diversa è la disciplina concernente la presidenza del Consiglio “Affari esteri”, la quale spetta ad un organo individuale e

non ad uno Stato membro. Si tratta dellʼAlto rappresentante dellʼUnione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è

nominato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata con lʼaccordo del presidente della Commissione, ma che fa parte

anche della

Commissione ed è uno dei suoi vicepresidenti.

Il Consiglio è assistito da un Segretariato generale sotto la responsabilità di un Segretario generale, nominato dal Consiglio

a maggioranza qualificata, mentre lʼorganizzazione del Segretariato generale è decisa a maggioranza semplice.

Il Consiglio si riunisce, su convocazione del suo Presidente, per iniziativa dello stesso Presidente, di uno Stato membro o

della Commissione. La sua sede è a Bruxelles, ma in aprile, giugno e ottobre tiene le sue sessioni a Lussemburgo. Le

riunioni del Consiglio avvengono in seduta pubblica quando esso delibera e vota su un progetto di atto legislativo; le

sessioni del Consiglio sono suddivise, pertanto, in due parti dedicate, rispettivamente, alle deliberazioni su atti legislativi e

alle attività non legislative.

Nel funzionamento del Consiglio un ruolo significativo svolge il Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER),

istituito nel 1958, con compiti preparatori ed esecutivi rispetto al lavoro del Consiglio. Il COREPER è un organo

intergovernativo essendo formato da delegati dei governi degli Stati membri. Esso si articola in due parti, il COREPER I,

costituito dai rappresentanti permanenti aggiunti, e il COREPER II, composto dai rappresentanti permanenti aventi il rango

diplomatico, tra i quali si distribuiscono le materie da trattare.

Il COREPER svolge un ruolo importante ai fini dellʼadozione degli atti da parte del Consiglio. Infatti la proposta della

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Commissione vene trasmessa dal Consiglio al COREPER e, dopo un adeguata istruttoria, è posta in discussione nel

COREPER, al fine di raggiungere una posizione unanime. Se si raggiunge tale risultato la questione è iscritta al punto A

dellʼordine del giorno del Consiglio, il quale, di regola, si limita ad approvarla senza riaprire la discussione. In caso

contrario il COREPER sottopone un rapporto avente carattere istruttorio in merito allʼargomento, che viene iscritto al punto

B dellʼordine del giorno e viene adeguatamente esaminato e discusso nel Consiglio.

È da sottolineare che, in ogni caso, anche quando il Consiglio di limiti a ratificare le soluzioni raggiunte unanimemente dal

COREPER, lʼatto in questione è giuridicamente imputabile sempre al Consiglio.

Il COREPER, dunque, finisce spesso per diventare il reale interlocutore della Commissione la quale, attraverso suoi

rappresentanti, partecipa al negoziato che si svolge nel COREPER:

Alla generale competenza del COREPER fa eccezione la politica agricola per la quale lʼattività preparatoria non è svolta da

tale organo ma dal Comitato speciale agricoltura (CSA).

8. La votazione del Consiglio Il sistema di votazione nel Consiglio è disciplinato dallʼart. 16, paragrafi da 3 al 5 TUE,

integrato dallʼart. 238 TFUE. Tuttavia, quando il Consiglio delibera a maggioranza qualificata, le norme poste da tali

articoli troveranno applicazione solo dal 1° novembre 2014, mentre fino al 31 ottobre 2014 sono in vigore le disposizioni

contemplate nellʼart. 3, par. 3, del Protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie. Innanzitutto, affinché il Consiglio possa

procedere alla votazione, il quorum richiesto è dato dalla presenza della maggioranza dei membri aventi titolo a votare.

Per quanto riguarda il tipo di maggioranza da adottare, occorre fare delle distinzioni.

Procedendo con ordine, ai sensi dellʼart. 16, par. 3 TUE: “il Consiglio delibera a maggioranza qualificata, salvo nei casi in

cui i trattati dispongano diversamente”.

La regola generale, quindi, è la maggioranza qualificata, oggetto di una disciplina (sia transitoria che “a regime”) alquanto

complessa.

A fronte di tale regola generale, lʼart. 238 richiama altre due procedure applicabili, ovviamente, solo quando espressamente

prescritte dalla disposizione in questione: la maggioranza semplice e l’unanimità.

Secondo quanto stabilito dallʼart. 238 TFUE, “per le deliberazioni che richiedono la maggioranza semplice, il Consiglio

delibera alla maggioranza dei membri che lo compongono”. Attualmente quindi servono almeno 14 voti favorevoli. Le

astensioni dei membri presenti o rappresentati non ostano all’adozione delle deliberazioni del Consiglio per le quali è

richiesta l’unanimità.

Secondo il par. 4 dallʼart. 238 TFUE, “le astensioni dei membri presenti o rappresentanti non ostano all’adozione delle

deliberazioni del Consiglio per le quali è richiesta l’unanimità”. Da questa disposizione di evince che, mentre l’astensione

non impedisce il raggiungimento dellʼunanimità, questa è preclusa, e la delibera non è approvata, in caso di assenza di un

membro.

✘ Votazione a maggioranza qualificata

La disciplina introdotta dallʼart. 16, par. 4, TUE e dallʼart. 238, par. 2, TFUE relativa alla votazione a maggioranza

qualificata si applicherà solo dal 1° novembre 2014.

La disciplina attualmente vigente è contenuta nellʼart. 3, par. 3, del Protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie.

La votazione a maggioranza qualificata è caratterizzata dal sistema di ponderazione. Questo implica che, a differenza della

maggioranza semplice e della unanimità, gli Stati membri hanno un voto ciascuno, ma al voto dei doversi Stati è assegnato

un differente coefficiente numerico.

Come è evidente, l’assegnazione di un determinato coefficiente numerico è una decisione di estrema importanza politica

poiché incide sulle capacità di ciascuno Stato membro di orientare in una direzione o nell’altra la volontà del Consiglio. Tali

coefficienti sono il frutto di una valutazione dell’importanza di ciascuno Stato (sotto il profilo politico, economico,

demografico), come risulta dall’assegnazione del valore di 29 al voto dei quattro “grandi”, Germania, Francia, Italia e

Regno Unito, nonché spesso di lunghi negoziati ogni qual volta si è dovuto procedere a una loro ridistribuzione.

Importante è la determinazione della maggioranza necessaria per lʼadozione delle deliberazioni, in quanto, a seconda del

numero richiesto, diverse sono le coalizioni realizzabili tra gli Stati non solo per raggiungere tale maggioranza, ma anche

per formare quella minoranza, c.d. minoranza di blocco, sufficiente a impedire lʼadozione dell’atto.

Lʼart. 3, par. 3, prevede una duplice maggioranza, una fondata sulla ponderazione del voto, l’altra sul numero degli Stati

votanti, posti sullo stesso piano; a questi due elementi se ne può aggiungere un terzo basato sulla popolazione europea. La

maggioranza ponderata è formata da 255 voti; e considerando che il numero complessivo di voti ponderati attualmente

risultante è di 345 voti, ciò implica che la minoranza di blocco è di 91 voti. Affinché la deliberazione sia approvata occorre

che, in aggiunta a questa maggioranza, se ne determini una seconda, consistente nella maggioranza (metà più uno) degli

Stati membri, cioè quattordici. Lʼart. 3, par. 3 contempla poi una variante: la maggioranza dei membri è sufficiente quando

la deliberazione debba essere presa su proposta della Commissione.

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La norma in esame prevede un’ulteriore condizione di adozione della delibera, ma soltanto su richiesta di uno Stato

membro. Si tratta della c.d. clausola della verifica demografica in base alla quale ogni Stato membro può chiedere che si

verifichi che la suddetta maggioranza qualificata esprima anche la maggioranza del 62% della popolazione totale

dellʼUnione.

La regola della maggioranza qualificata con voto ponderato era prevista, da varie disposizioni, già nei testi originari dei

Trattati comunitari. Nella prassi, dopo una grave crisi politica culminata con il temporaneo abbandono del Consiglio da

parte della Francia (c.d. politica della sedia vuota), che contestava il lʼuso della regola della maggioranza nel Consiglio, era

invalso il sistematico ricorso all’unanimità. La votazione all’unanimità era diventata così la regola generale, con evidente

accentuazione del metodo intergovernativo e della ricerca dellʼaccordo tra gli Stati, disponendo, praticamente, ogni Stato

membro di un diritto di veto. E tale regola restò in vita sino allʼAtto unico europeo del 1986, dopo il quale si tornò a votare,

nei casi previsto dal Trattato sulla Comunità economica europea, a maggioranza.

Inoltre, anche dopo il Trattato di Maastricht il Consiglio ha preso una decisione relativa all’adozione di delibere a

maggioranza. Si tratta del c.d. compromesso di Ioannina voluto specialmente dal Regno Unito e Spagna. Secondo questa

decisione, quando la minoranza, pur non essendo sufficiente a impedire l'adozione della deliberazione, era numericamente

importante, il Consiglio avrebbe fatto tutto il possibile per raggiungere entro un tempo ragionevole una soluzione

soddisfacente che potesse convogliare una maggioranza più ampia di quella minima necessaria per l'approvazione. Anche

questo compromesso è venuto meno a seguito dell'allargamento dellʼUnione. Ma lʼinsofferenza ad accettare la regola della

maggioranza, sebbene qualificata, è riemersa anche in occasione delle modifiche al sistema di votazione a maggioranza

qualificata apportate dal Trattato di Lisbona, tanto da condurre ad una riedizione del compromesso di Ioannina.

Secondo la nuova disciplina, che dovrebbe entrare in vigore il 1° novembre 2014, “per maggioranza qualificata si intende

almeno il 55% dei membri del Consiglio, con un minimo di quindici, rappresentanti Stati membri che totalizzino almeno il

65% della popolazione dell'Unione”. Come si vede, la nuova regolamentazione della maggioranza qualificata comporta

lʼeliminazione della ponderazione del voto, in quando la maggioranza del 55% dei membri del Consiglio presuppone che

ognuno disponga di un solo voto. A questa prima maggioranza, che deve comprendere almeno quindici membri, deve poi

corrispondere una seconda maggioranza, il 65% della popolazione complessiva dellʼUnione, maggioranza che consente agli

Stati più importanti, un recupero di potere, almeno sotto lʼaspetto demografico.

Il periodo successivo dellʼart. 16 par. 4 TUE prevede che “la minoranza di blocco deve comprendere almeno quattro

membri del Consiglio; in caso contrario la maggioranza qualificata si considera raggiunta”.

Dunque la norma, al fine di evitare che un esiguo gruppo di Stati, ma dotati di vasta popolazione, sia in grado di impedire la

maggioranza del 65% della popolazione, aggiunge unʼulteriore condizione relativa alla minoranza contraria allʼadozione

della delibera. Questa minoranza, per impedire tale azione, deve comprendere almeno quattro Stati membri.

Tale atteggiamento di scarso favore per la nuova disciplina, si riflette nella previsione secondo la quale, nel periodo

transitorio che intercorre dal 1° novembre 2014 al 31 marzo 2017, in caso di votazione a maggioranza qualificata sarà

permesso a ciascun membro del Consiglio di chiedere di procedere secondo il sistema di ponderazione dei voti tuttora

applicabile.

Inoltre, durante questo periodo se un numero di membri del Consiglio che rappresenti almeno tre quarti della popolazione, o

almeno i tre quarti del numero degli Stati membri, necessari per costituire una minoranza di blocco, manifesta lʼintenzione

di opporsi allʼadozione da parte del Consiglio di un atto a maggioranza qualificata, il Consiglio discute la questione e si

adopera per raggiungere entro un tempo ragionevole una soluzione d. Si tratta del c.d. compromesso di Ioannina. A

decorrere dal 1° aprile 2017 è previsto un meccanismo analogo, il cui impiego richiede una proporzione della minoranza di

blocco anche più bassa, cioè un numero di membri del Consiglio che rappresenti almeno il 55% della popolazione o almeno

il 55% del numero degli Stati membri, necessari per costituire una minoranza di blocco.

In definitiva, con questo meccanismo, si consente ad una significativa minoranza, ma non tale da impedire il

raggiungimento della prescritta maggioranza qualificata, di sospendere la procedura di votazione e di aprire una fase di

negoziato all’interno del Consiglio, il cui esito dovrebbe sfociare in un’ampia maggioranza. Oltre ai sistemi di voti

risultano dallʼart. 16 TUE e dallʼart. 238 TFUE specifiche disposizioni dei Trattati prevedono, talvolta, maggioranze

diverse.

✘ Votazione a maggioranza semplice

È prevista in merito alle questioni procedurali e per l’adozione del Regolamento interno del Consiglio, per la definizione

dello statuto dei comitati previsti dai Trattati, per la richiesta alla Commissione di procedere a tutti gli studi che esso ritenga

opportuni e di sottoporgli tutte le proposte del caso.

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✘ Votazione a unanimità

È prevista per le misure contro varie forme di discriminazioni, per le modalità di elettorato dei cittadini alle elezioni

amministrative e del Parlamento europeo nello Stato membro di residenza, per alcune misure in materia ambientale, per gli

emendamenti alle proposte della Commissione. Specialmente si applica in politica estera e sicurezza comune, compresa la

politica di sicurezza e di difesa comune.

Si prevedono poi maggioranze diverse per alcune decisioni: ad esempio nell’ambito della procedura per i disavanzi

eccessivi, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata, escludendo il voto dello Stato nel quale esiste il disavanzo.

In seno al Consiglio si possono anche realizzare degli accordi tra gli Stati membri. Talvolta i Trattati dispongono che un

testo, elaborato a livello europeo con il voto unanime del Consiglio, sia sottoposto all’approvazione degli Stati membri in

conformità delle loro rispettive norme costituzionali. Es. procedura uniforme o secondo principi comuni di elezione del

Parlamento europeo, nonché delle disposizioni intese a completare i diritti dei cittadini dell’Unione. C’è quindi una

procedura complessa: fase europea (fino alla decisione del Consiglio) e fase dell’accordo internazionale.

Alcune rare norme prevedono che certe decisioni vengano prese di comune accordo dai governi degli Stati membri (es.

nomina giudici e avvocati generali della Corte di giustizia).

Inoltre gli Stati possono concludere degli accordi anche in seno al Consiglio: accordi in forma semplificata, mancando una

successiva ratifica da parte degli Stati. Sono ammissibili quando integrano e sviluppano le norme e le politiche dell’Unione.

9. Le funzioni del Consiglio

Le funzioni del Consiglio sono indicate dallʼart. 16, par. 1, TUE:

“Il Consiglio esercita, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Esercita

funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei trattati”.

Tale norma esprime in modo sintetico i compiti e i poteri del Consiglio e non rende adeguatamente quella posizione centrale

e decisiva che esso detiene nellʼUnione europea.

La prima parte della disposizione in esame appare speculare rispetto alle funzioni assegnate al Parlamento europeo. Emerge

così un ruolo che tende porsi come paritario tra il Consiglio e il Parlamento e che ne disegna una posizione condivisa di

autorità legislativa e di bilancio. Per il resto lʼart. 16, par. 1, TUE fa riferimento alle funzioni di definizione delle politiche e

di coordinamento. Lʼespressione è alquanto generica e può specificarsi solo in rapporto alle singole disposizioni. Sul piano

generale può dirsi che, nellʼesercizio di tali funzioni, il Consiglio non emana solo atti legislativi ma atti di indirizzo, di

assistenza, di consulenza, in definitiva, atti giuridicamente non vincolanti.

Poteri più specifici e più incisivi risultano dalle disposizioni concernenti la politica economia, come lʼadozione di una

raccomandazione contenete gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dellʼUnione, un

compito di sorveglianza, di assistenza finanziaria, poteri sanzionatori, poteri normativi.

Il Consiglio detiene un potere decisionale nella politica estera e di sicurezza comune, anche se non si tratta di un potere

legislativo perché, in tale materia, è radicalmente esclusa lʼadozione di atti legislativi.

Il Consiglio, il quale, peraltro, opera sulla base degli orientamenti generali definiti dal Consiglio europeo, adotta decisioni

per un intervento operativo che stabiliscono gli obiettivi, la portata e i mezzi di cui lʼUnione deve disporre, le condizioni di

attuazione e la durata. Tali decisioni vincolano gli Stati membri nella loro azione.

Egualmente obbligatorie sono le decisioni con le quali il Consiglio definisce la posizione dellʼUnione su una questione

particolare di natura giuridica.

Spetta al Consiglio, inoltre, su proposta dellʼAlto rappresentante dellʼUnione per gli affari esteri e la politica di sicurezza o

su iniziativa di uno Stato membro, adottare le decisioni relative alla politica di sicurezza e di difesa comune, comprese

quelle inerenti allʼavvio di una missione operativa avente anche implicazioni militari.

Nei rapporti con la Commissione, al pari del Parlamento europeo, il Consiglio può chiedere alla Commissione di procedere

a tutti gli studi che esso ritiene opportuni al fine del raggiungimento degli obiettivi comuni e di sottoporgli tutte le proposte

del caso. Il Consiglio, inoltre, interviene con varie modalità nella nomina di altre istituzioni o organi, come la Commissione,

il Comitato esecutivo della Banca centrale europea, la Corte dei Conti, il Comitato economico e sociale, il Comitato delle

regioni. Esso fissa anche gli stipendi, le indennità e le pensioni di coloro che rivestono le cariche principali nelle istituzioni

europee. Interviene, talvolta, nella definizione di atti normativi concernenti lʼazione di altre istituzioni (per esempio, il

regolamento di procedura della Corte di giustizia è stabilito dalla stessa Corte).

C’è la possibilità che il Consiglio riceva anche un potere di esecuzione di qualsiasi atto obbligatorio dell’Unione. Tale

attribuzione è però subordinata alla necessità di condizioni che inducano a preferire l’intervento del Consiglio in luogo della

generale competenza della Commissione.

D) LA COMMISSIONE

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10. La Commissione

La terza istituzioni politica dellʼUnione è la Commissione, organo tipicamente sopranazionale tenuto ad operare

nellʼesclusivo interesse dellʼUnione, in posizione di piena indipendenza rispetto sia agli Stati membri che a qualsiasi ente o

potere.

La Commissione, che rappresenta lʼinteresse generale e unitario dellʼUnione, è formata da individui indipendenti, i quali si

caratterizzano anche per la loro competenza (talvolta, infatti, si parla della Commissione come un governo di “tecnocrati”).

Il numero dei commissari era fissato, originariamente, in nove, così da consentire ai Paesi membri più importanti (Francia,

Italia e Germania) di avere due commissari di propria cittadinanza, mentre gli altri (Belgio, Lussemburgo e Olanda) ne

avevano uno a testa. Nei primi allargamenti il numero fu ampliato in maniera da garantire lʼapplicazione di questa regola

(non scritta) attribuendo due membri della Commissione anche al Regno Unito e poi alla Spagna. Proseguendo negli

allargamenti, e vista lʼesigenza di evitare che la Commissione diventasse un organo pletorico e scarsamente efficiente, il

numero dei commissari non era più definito, ma lʼart. 213, par.1 2° comma, del TCE stabiliva che la Commissione

comprendesse un cittadino di ciascuno Stato membro. Con lʼingresso della Bulgaria e della Romania, dal 1° gennaio 2007

essa risulta quindi formata da 27 componenti.

Il Trattato di Lisbona ha previsto una riduzione della composizione della Commissione. In una prima fase, cioè fino al 31

ottobre 2014, la Commissione resta formata da un cittadino di ciascuno Stato membro, compreso il Presidente e lʼAlto

rappresentante dellʼUnione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è uno dei vicepresidenti. Tale composizione

dovrebbe cambiare dal 1° novembre 2014 con una sostanziale riduzione dei suoi membri.

Infatti “a decorrere dal 1 o novembre 2014, la Commissione è composta da un numero di membri, compreso il Presidente e

l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, corrispondente ai due terzi del numero degli

Stati membri, a meno che il Consiglio europeo, deliberando all'unanimità, non decida di modificare tale numero.

I membri della Commissione sono scelti tra i cittadini degli Stati membri in base ad un sistema di rotazione assolutamente

paritaria tra gli Stati membri che consenta di riflettere la molteplicità demografica e geografica degli Stati membri. Tale

sistema è stabilito all'unanimità dal Consiglio europeo conformemente all'articolo 244 del trattato sul funzionamento

dell'Unione europea”.

Pertanto il numero dei componenti della Commissione, qualora restasse invariato il numero degli Stati membri, scenderebbe

a diciotto (due terzi degli attuali ventisette).

Alla riduzione della composizione della Commissione si collega la Dichiarazione n. 10, la quale appare eloquente circa le

preoccupazioni degli Stati membri di sentirsi emarginati da una Commissione più ristretta; e ciò malgrado i commissari non

siano affatto organi o espressione degli Stati di cittadinanza, ma siano tenuti, anzi, alla più stretta obiettività e indipendenza

nella loro condotta.

A ciò si aggiunge la concessione fatta dal Consiglio europeo allʼIrlanda, per favorire un esito positivo della procedura di

ratifica del Trattato di Lisbona, secondo la quale, in caso di entrata in vigore dello stesso Trattato di Lisbona, sarebbe stata

adottata una decisione affinché la Commissione possa continuare a comprendere un cittadino di ciascun Stato membro.

Dunque, la novità del Trattato di Lisbona, consistente nello snellimento della Commissione, sembra destinata a scomparire

con la stessa entrata in vigore del Trattato.

Indipendenza e competenza sono gli elementi che caratterizzano i membri della Commissione e questʼultima nel suo

insieme. A tali requisiti è stato ora aggiunto lʼimpegno europeo.

Lʼart. 17, par. 3, 2° comma, TUE, dichiara infatti che “i membri della Commissione sono scelti in base alla loro

competenza generale e al loro impegno europeo e tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza”.

La competenza e lʼimpegno europeo sono oggetto di una valutazione inevitabilmente discrezionale da parte dei soggetti che

intervengono nella loro nomina, mentre lʼindipendenza dei commissari è regolata dallo stesso art. 17 TUE, nonché dallʼart.

245 TFUE ed è garantita da un meccanismo sanzionatorio in caso di violazione.

Lʼindipendenza si concretizza in vari obblighi dei membri della Commissione. Essi, anzitutto, non possono ricevere né tanto

meno richiedere istruzioni da alcun governo, in particolare dallo Stato del quale sono cittadini, né da alcun organo o ente

pubblico o privato, quale partito politico, associazione, gruppo dʼinteresse economico. A tale obbligo dei commissari fa

riscontro il corrispondente dovere degli Stati membri di rispettare il loro carattere indipendente e di astenersi da qualsiasi

tentativo di influenzarli nell'esercizio delle loro funzioni.

Un ulteriore dovere nel quale sia articola l'indipendenza dei commissari consiste nell'astensione da ogni atto incompatibile

con il proprio carattere indipendente e nel divieto di esercitare qualsiasi altra attività professionale, anche se non

remunerata.

Gli obblighi dei membri della Commissione possono sopravvivere anche alla cessazione delle proprie funzioni, e ciò, in

particolare, per i doveri di onestà e delicatezza nellʼassunzione di determinate funzioni o vantaggi.

La stessa Commissione, dopo taluni episodi allarmanti che riguardavano certi membri della Commissione, avvertì la

necessità di precisare ancor più dettagliatamente gli obblighi dei commissari, al fine di garantire il massimo livello di

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correttezza e di moralità nello svolgimento dei proprio compiti. Così la Commissione presieduta da Romano Prodi nel 1999,

adottò un codice di condotta per i commissari. Un nuovo codice è stato adottato nel 2011 dalla Commissione sotto la

presidenza di Barroso.

Gli obblighi dei commissari sono passibili di un controllo giudiziario e di sanzioni in caso di violazioni. Sia il Consiglio che

la Commissione possono chiedere alla Corte di giustizia, qualora un commissario violi i propri obblighi, di pronunciarne le

dimissioni dʼufficio o, se il commissario abbia cessato le sue funzioni, la decadenza del diritto alla pensione o da altri

vantaggi sostitutivi.

11. La nomina, la cessazione e lʼorganizzazione della Commissione

■ La disciplina della nomina della Commissione ha conosciuto una lunga e significativa evoluzione, fino alle ultime

modifiche del Trattato di Lisbona del 2007. Originariamente i suoi membri erano nominati di comune accordi dai governi

degli Stati membri, quindi allʼunanimità e al di fuori del quadro istituzionale europeo. Le successive revisioni hanno

condotto il procedimento di nomina nellʼambito dellʼUnione, hanno eliminato lʼunanimità, hanno assegnato un potere

decisionale al Parlamento europeo e un ruolo di partecipazione al Presidente della Commissione.

Innanzitutto il TUE (art. 17, par. 3) dichiara che il mandato della Commissione è di cinque anni.

Il procedimento di nomina si articola in vari fasi (art. 17, par. 7):

-“[…] il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla

carica di presidente della Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che

lo compongono. Se il candidato non ottiene la maggioranza, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata,

propone entro un mese un nuovo candidato, che è eletto dal Parlamento europeo secondo la stessa procedura;

- Il Consiglio, di comune accordo con il presidente eletto, adotta l'elenco delle altre personalità che propone di nominare

membri della Commissione. Dette personalità sono selezionate in base alle proposte presentate dagli Stati membri;

- Il Presidente della Commissione, l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e gli altri

membri della Commissione sono soggetti, collettivamente, ad un voto di approvazione del Parlamento europeo. In seguito

a tale approvazione la Commissione è nominata dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata”.

■ Il TFUE fornisce un elenco tassativo dei casi in cui un membro della Commissione cessa dalla carica di commissario (art.

246 TFUE). Essi sono: scadenza del mandato, decesso, dimissioni volontarie e dimissioni dʼufficio.

Per quel che riguarda le dimissioni dʼufficio, esse possono essere dichiarate dalla Corte di giustizia, su istanza del

Consiglio o della Commissione, nellʼipotesi in cui il commissario non risponda più alle condizioni necessarie allʼesercizio

delle sue funzioni oppure quando il commissario abbia commesso una colpa grave.

Il posto divenuto vacante a seguito di dimissioni volontarie o dʼufficio o di decesso è coperto, per la restante durata del

mandato del membro, da un nuovo membro della stessa nazionalità, nominato dal Consiglio di comune accordo col

Presidente della Commissione, previa consultazione del parlamento europeo.

Qualora le dimissioni o il decesso riguardino il Presidente o lʼAlto rappresentante per gli affari esteri e la politica di

sicurezza, essi sono sostituiti per la restante durata del mandato secondo la normale procedura di nomina (art. 18 par. 1

TUE). Con il Trattato di Lisbona è stata prevista lʼipotesi di dimissioni volontarie dellʼintera Commissione. In questa

ipotesi, i membri dimissionari della Commissione restano in carica, curando gli affari di ordinaria amministrazione, fino

alla loro sostituzione, che deve essere effettuata con la procedura dii cui allʼart. 17 TUE, per la restante durata del

mandato. Nel caso di cessazione del mando per scadenza del termine può accadere che l’investitura della nuova

Commissione avvenga con ritardo rispetto a tale scadenza. L’attuale Commissione si è insediata infatti quattro mesi dopo

la scadenza della precedente. La vecchia poteva eseercitare i suoi poteri pienamente intanto o solo per l’ordinaria

amministrazione? Villani ritene preferibile la seconda opzione.

■ L’organizzazione interna della Commissione si articola in direzioni generali, servizi e uffici. Ai commissari sono affidati

dal Presidente particolari settori di attività con compiti di preparazione dei lavori della Commissione e di esecuzione delle

decisioni. Per lʼespletamento delle proprie competenze ogni commissario costituisce dei gabinetti incaricati di assisterlo. Va

però sottolineato che la responsabilità per gli atti dei singoli commissari ricade sempre sullʼintera Commissione, nel rispetto

del principio di collegialità. Quanto al sistema di votazione delle delibere, lʼart. 250 TFUE prescrive che vengano adottate a

maggioranza dei membri della Commissione, ma di fatto esse delibera solitamente per consensus. Tale maggioranza

rappresenta anche il quorum richiesto per le sue deliberazioni. Ma i membri della Commissione sono tenuti ad assistere a

tutte le riunioni, salvo impedimento, soggetto alla valutazione del Presidente.

La Commissione opera “a tempo pieno” in quanto “si riunisce almeno una volta alla settimana e ogni volta che se ne

presenti la necessità”.

Una posizione di primo piano nella Commissione è quella del Presidente. Il ruolo del Presidente della Commissione è stato

rafforzato dal Trattato di Nizza ed ha subito alcune modifiche ad opera del Trattato di Lisbona. Egli svolge un ruolo attivo

nell'individuazione dei candidati alla carica di commissario, nomina i vicepresidenti tra i membri della Commissione (fatta

eccezione per lʼAlto rappresentante dellʼUnione per gli affari esteri e la politica di sicurezza), è investito del ruolo di

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leadership ai sensi dellʼart. 248 TFUE dal momento che “i membri della Commissione esercitano le funzioni loro attribuite

dal presidente, sotto la sua autorità”.

È previsto, inoltre, ai sensi dellʼart. 17 par. 6 TUE che il presidente della Commissione:

-definisce gli orientamenti nel cui quadro la Commissione esercita i suoi compiti;

-decide l'organizzazione interna della Commissione per assicurare la coerenza, l'efficacia e la collegialità della sua azione.

Di particolare importanza è il potere di provocare le dimissioni di un commissario (con l'eccezione dellʼAlto

rappresentante). La prima ipotesi riguarda la rottura del rapporto di fiducia tra il Presidente e il singolo commissario; la

seconda riguarda la rottura del rapporto di fiducia tra il Parlamento europeo e singoli commissari.

Il Presidente della Commissione, dalla originaria posizione di primus inter pares, tende così ad assumere il ruolo di capo

dellʼesecutivo dellʼUnione.

12. Le funzioni della Commissione

Le funzioni della Commissione sono previste dallʼart. 17, par. 1, TUE.

● Innanzitutto, “la Commissione promuove l'interesse generale dell'Unione e adotta le iniziative appropriate a tal

fine”.

● La norma prosegue enunciando un compito fondamentale della Commissione, quello di vigilare sul rispetto del

diritto dellʼUnione (comprendente sia i Trattati che il diritto derivato). Sotto questo profilo la Commissione appare la

custode dei Trattati esercitando la propria vigilanza sugli Stati membri, sulle altre istituzioni e sui privati.

Tale potere viene a specificarsi in varie disposizioni dei Trattati o atti dellʼUnione. Possono ricordarsi lʼart. 105 FUE che le

attribuisce un potere generale di vigilanza in materia di regole di concorrenza applicabili alle imprese; lʼart. 106 TFUE in

materia si applicazione delle regole di concorrenza alle imprese pubbliche; lʼart. 108 TFUE relativo al controllo sugli aiuti

degli Stati alle imprese.

L’attività di vigilanza sull’osservanza del diritto dellʼUnione può sfociare in diverse determinazioni della Commissione.

Essa, nei confronti degli Stati, può proporre un ricorso alla Corte di giustizia in base allʼart. 258 TFUE affinché constati

l’infrazione dello Stato.

Nei rapporti con le altre istituzioni la Commissione può disporre di altri strumenti di tipo giudiziario, proponendo alla Corte

un ricorso di annullamento di atti dellʼUnione ex art. 263 TFUE o, nel caso, un’azione in carenza volta a fare constatare la

violazione dei Trattati consistente nell’omissione di un atto. Quanto ai privati, se specifiche norme lo prevedono, la

Commissione può giungere a infliggere delle ammende pecuniarie.

In specifiche materie un potere i vigilanza è attribuito anche al Consiglio, per esempio sulla politica economica degli Stati

membro o sui disavanzi pubblici eccessivi. In questa materia non sono mancati problemi di determinazione delle reciproche

sfera di competenza tra il Consiglio e la Commissione, che hanno dato luogo a una vicenda giudiziaria decisa dalla Corte di

Giustizia.

● Lʼart. 17, par. 1 TUE richiama poi la competenza della Commissione nel dare esecuzione al bilancio dellʼUnione,

cioè nella riscossione delle entrate e nell’erogazione delle spese. Si tratta di una competenza non esclusiva, in quanto è

largamente condivisa con gli Stati; inoltre, in principio, la Commissione non ha un potere autonomi di decidere come

impegnare le spese.

● Tra le competenze della Commissione è menzionata, inoltre, la competenza di gestione dei programmi, cioè la

competenza ad amministrare programmi e strumenti finanziari europei (si pensi al programma Erasmus per la mobilità degli

studenti universitari). Le funzioni di gestione riguardano anche i fondi a finalità strutturale, quali i fondi europei in materia

agricola, il Fondo sociale europeo, il Fondo europeo di sviluppo regionale. Tal funzioni, peraltro, sono esercitate in

collaborazione con le autorità nazionali e regionali.

● Lʼart. 211 del Trattato sulla Comunità europea dedicava uno specifico riferimento alle competenze di esecuzione

conferite alla Commissione dal Consiglio per lʼattuazione delle norme da esso stabilite. Il Consiglio ha emanato varie

decisioni concernenti le modalità alle quali sono subordinate le competenze di esecuzione della Commissione: la decisione

n.1999/468/CE e la decisione n. 2006/512/CE, le quali prevedevano quattro possibili procedure. Queste comportavano, di

regola, lʼistituzione di comitati composti da rappresentanti degli Stati membri che affiancavano la Commissione (disciplina

della comitologia). Vi era poi una procedura di regolamentazione del controllo applicabile alle misure della Commissione di

portata generale intese a modificare elementi essenziali di un atto di base adottato con la procedura di codecisione. Questa

disciplina è stata abrogata con il Trattato di Lisbona.

Oggi la potestà legislativa è condivisa tra il Consiglio e il Parlamento; invece la competenza ad eseguire gli atti obbligatori

dellʼUnione è condivisa tra gli Stati membri e la Commissione. Inoltre la disciplina fondata sulla “comitologia” poneva

sullo stesso piano la funzione strettamente esecutiva, cioè di mera attuazione delle norme emanate dalle istituzioni dotate di

poteri legislativi, e quella parzialmente normativa consiste nella emanazione di misure di portata generale intese a

modificare elementi non essenziali dellʼatto da eseguire, anche sopprimendo taluni di questi elementi, o completandolo con

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lʼaggiunta di nuovi elementi non essenziali. Al contrario, il Trattato di Lisbona distingue nettamente le due ipotesi,

stabilendo una differente disciplina. Le funzioni esecutive sono ristrette alla prima ipotesi considerata, cioè della adozione

di misure di mera attuazione di un atto, mentre la seconda ipotesi è ricondotta alle competenze delegate dalla Commissione.

COMPETENZE DELEGATE -> A queste competenze è dedicato lʼart. 290 TFUE, il quale dispone che un atto legislativo

può delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano

determinati elementi non essenziali dellʼatto legislativo.

Gli atti legislativi fissano esplicitamente le condizioni cui è soggetta la delega, che possono essere: a)

il Parlamento europeo o il Consiglio possono decidere di revocare la delega;

b) l'atto delegato può entrare in vigore soltanto se, entro il termine fissato dall'atto legislativo, il Parlamento europeo o il

Consiglio non sollevano obiezioni.

COMPETENZA DI ESECUZIONE -> la funzione di esecuzione riguarda non solo gli atti legislativi, ma anche tutti gli atti

giuridicamente vincolanti dellʼUnione. La competenza ad adottare tutte le misure di attuazione di tali atti spetta anzitutto

agli Stati membri che vi provvedono nellʼambito del loro diritto interno. Spetta invece alla Commissione solo quando

occorrono condizioni uniformi di esecuzione di atti, sia generali sia particolari. Le modalità di svolgimento delle

competenze di esecuzione della Commissione sono oggetto di una disciplina generale preventiva.

Detta disciplina è stata adottata con il regolamento del 2011, che contiene le nuove regole sulla “comitologia”, che

prevedono due tipi di procedure, entrambe con la partecipazione di un comitato composto da rappresentanti degli Stati

membri e da un rappresentante della Commissione che lo presiede (ma senza diritto di voto). Le due procedure sono:

• Esame: la Commissione è vincolata a seguire il parere del comitato;

• Consultiva: la Commissione gode di una maggiore autonomia, dovendo solo tenere nella massima considerazione

le conclusioni e il parere del comitato.

La scelta tra le due procedure è fatta nello stesso atto da eseguire (c.d. atto di base), in considerazione della natura o

dell’impatto degli atti di esecuzione richiesti; ma il regolamento stabilisce una serie di casi ai quali è applicabile la

procedura di esame, applicandosi agli altri la procedura consultiva.

● Lʼart. 17, par. 1 TUE attribuisce alla Commissione anche la rappresentanza esterna dellʼUnione. Tale

rappresentanza, peraltro non è esclusiva: lo stesso art. 17, par. 1, TUE eccettua la materia della politica estera e di

sicurezza comune, per la quale la rappresentanza esterna è assicurata dal Presidente del Consiglio europeo, fatte

salve le prerogative dellʼAlto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Sempre sul piano esterno, assieme al Consiglio e con lʼassistenza dellʼAlto rappresentante per gli affari esteri e la politica di

sicurezza, deve garantire la coerenza tra i vari settori dellʼazione esterna dellʼUnione e tra questi settori e le altre politiche.

Inoltre la Commissione e lʼAlto rappresentante sono incaricati di attuare ogni utile forma di cooperazione con le Nazioni

Unite e i suoi istituti specializzati, il Consiglio dʼEuropa, lʼOrganizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico,

nonché di assicurare gli opportuni collegamenti con altre organizzazioni internazionali.

La rappresentanza dellʼUnione è attribuita alla Commissione anche allʼinterno degli Stati membri.

● Oltre al compito di avviare la programmazione dellʼUnione per giungere ad accordi interistituzionali, ulteriori

funzioni della Commissione sono indicate anzitutto dallʼart. 17, par. 2 TUE. Si tratta di una norma che esprime la

partecipazione della Commissione ai procedimenti decisionali di carattere interistiuzionale, in particolare ai

procedimenti legislativi (ordinario e speciali). La Commissione detiene quasi il “monopolio” delle proposte di atti

dellʼUnione, senza le quali non è possibile avviare i procedimenti legislativi (o decisionali), anche se le proposte

possono essere sollecitate dal parlamento europeo, dal Consiglio o da cittadini dellʼUnione in numero di almeno un

milione. La forza della proposta della Commissione è tale che essa può essere respinta, ma ove il Consiglio intenda

modificarla può farlo, di regola, solo allʼunanimità. Rispetto a questo potere di iniziativa, che fa della Commissione

il motore dellʼattività dellʼUnione, estremamente rari sono i casi nei quali i Trattati consentono lʼadozione di atti

senza la sua proposta.

Come di consueto, a parte si colloca la politica estera e di sicurezza comune, nella quale il ruolo della Commissione è

alquanto modesto e viene attenuato il suo potere dʼiniziativa. In questo caso, infatti, il potere di iniziativa, comprensivo del

potere di sottoporre proposte al Consiglio è conferito a ciascun Stato membro e, autonomamente, allʼAlto rappresentante per

gli affari esteri e la politica di sicurezza, salva la possibilità di un appoggio della Commissione, che non costituisce, però,

una condizione necessaria per le iniziative dellʼAlto rappresentante.

● Rientrano anche nel potere di proposta della Commissione anche i numerosi atti atipici, non vincolanti, che essa è

solita emettere nella prassi, come comunicazioni, dichiarazioni, programmi. Tra questi particolare importanza

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presentano i libri bianchi, i quali contengono un articolato programma di azione e di atti da adottare in un

determinato settore, e i libri verdi, che si collocano in una fase preparatorio meno avanzata e contengono una

documentazione volta a provocare, su una certa problematica, una discussione e un dibattito con le istituzioni

europee e gli Stati membri, o anche con categorie interessate e settori della società civile.

● Sebbene lʼart. 17 TUE non menzioni un potere di decisione, talune disposizioni dei Trattati attribuiscono alla

Commissione tale potere. Talvolta esso è contemplato nel quadro dei poteri di vigilanza della Commissione e, in

questa ipotesi, la decisione diventa uno strumento di controllo sulla condotta degli Stati membri.

● Non mancano, poi, disposizioni che conferiscono alla Commissione un vero e proprio potere normativo. Sia pure

in via dʼeccezione, quindi, la Commissione, oltre a un potere normativo di carattere delegato e a un potere

esecutivo, può avere un potere normativo primario, derivante, cioè, direttamente dai Trattati.

● La Commissione dispone anche di un potere di raccomandazione di carattere generale esercitabile ogni qual volta

lo ritenga necessario, con il solo limite che riguardi materie rientranti nellʼambito dei Trattati. Tali atti possono

rivolgersi ad altre istituzioni o organi, come a Stati membri e a soggetti privati o pubblici e possono avere

destinatari generali o particolari. In ogni caso, le raccomandazioni non sono obbligatorie, anche se possono

produrre taluni effetti giuridici.

● In qualche caso è previsto anche che la Commissione, quando non abbia un potere esclusivo di proposta, emani

pareri. Un particolare valore giuridico ha il parere motivato che la Commissione emette nel quadro della procedura

dʼinfrazione nei confronti di uno Stato membro che essa reputi abbia violato propri obblighi derivanti dal diritto

dellʼUnione. ● Inoltre, la Commissiona pubblica annualmente, almeno un mese prima dellʼapertura della sessione

del parlamento europeo, una relazione generale sullʼattività dellʼUnione. Tale relazione, sottoposta allʼesame del

Parlamento europeo, costituisce anche una preziosa fonte di conoscenza sullʼattività e i risultati dellʼUnione.

● Infine, la Commissione ha un ruolo nel procedimento di stipulazione degli accordi dellʼUnione.

13. LʼAlto rappresentante dellʼUnione per gli affari esteri e la politica di sicurezza

LʼAlto rappresentante dellʼUnione per gli affari esteri e la politica di sicurezza costituisce un organo “ibrido” poiché, oltre

alla posizione di presidente del Consiglio “Affari esteri”, riveste lo status di componente della Commissione, della quali è

uno dei vicepresidenti. Questa duplice condizione dellʼAlto rappresentante si riflette nella duplicità dei rapporti che si

determinano, da un lato, con le istituzioni governative dellʼUnione (Consiglio europeo e Consiglio), dallʼaltro, con

lʼistituzione “soprannazionale” (la Commissione), formata da individui indipendenti da qualsiasi Stato.

L'Alto rappresentante è nominato dal Consiglio europeo dʼaccordo con il Presidente della Commissione. La sua nomina poi,

come per tutti i membri della Commissione, è subordinata allʼapprovazione del Parlamento europeo il quale, nel contesto di

fiducia che intercorre con la Commissione, ha dunque il potere di impedire la nomina di un candidato ad Alto

rappresentante. Egli, inoltre, resta soggetto allʼeventualità di una mozione di censura da parte del Parlamento europeo.

L'Alto rappresentante fa parte anche della Commissione e ne è vicepresidente. In qualità di membro e vicepresidente della

Commissione, l'Alto rappresentante “è incaricato delle responsabilità che incombono a tale istituzione nel settore delle

relazioni esterne e del coordinamento degli altri aspetti dell'azione esterna dell'Unione”.

Solo nei limiti entro i quali egli opera in seno alla Commissione resta soggetto alle procedure che regolano il funzionamento

della Commissione; ma, a differenza degli altri membri della Commissione, l'Alto rappresentante è sottratto al divieto

generale secondo il quale tali membro non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o

organismi, in quanto questi opera quale mandatario del Consiglio e attua la politica estera e di sicurezza comune. Al di là

delle norme che si riferiscono allʼAlto rappresentante nella sua veste di presidente del Consiglio “Affari esteri” e di

vicepresidente della Commissione, numerose disposizioni dei Trattati stabiliscono le sue funzioni nellʼambito generale

dellʼazione esterna dellʼUnione e, più specificatamente, nel quadro della politica estera e di sicurezza comune.

Sul piano generale, lʼAlto rappresentante assiste il Consiglio e la Commissione nel loro compito di garantire la coerenza tra

i vari settori dellʼazione esterna e tra questi e le altre politiche dellʼUnione. Inoltre, l'Alto rappresentante svolge una

funzione di proposta (di questioni o di iniziative) nei confronti del Consiglio, di attuazione delle decisioni dello stesso

Consiglio, così come del Consiglio europeo, di rappresentanza dellʼUnione nei rapporti con i terzi, di consultazione.

Di particolare importanza appaiono le funzioni dell 'Alto rappresentante nellʼattuazione delle missioni implicanti lʼimpiego

di mezzi civili e militari nellʼambito della politica di sicurezza e di difesa comune (c.d. operazioni di Petersberg). Esse

comprendono le azioni in materia di disarmo, le missioni umanitarie e di soccorso, di consulenza e assistenza in amteria

militare, le missioni di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace, ecc. Tali missioni sono decise dal Consiglio e

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spetta allʼAlto rappresentante, sotto lʼautorità del Consiglio e in stretto contatto con il comitato politico e di sicurezza,

provvedere a coordinare gli aspetti civili e militari delle stesse missioni.

Una significativa novità introdotta dal Trattato di Lisbona consiste nellʼistituzione di un servizio europeo per lʼazione

esterna, che potrebbe configurarsi come un servizio europeo di diplomazia, posto sotto la direzione dellʼAlto rappresentante.

La disciplina di tale Servizio è oggetto della decisione del Consiglio 427 del 2010: il Servizio europeo per l’azione esterna è

configurato come un organo dell’Unione che opera in autonomia funzionale, sotto la responsabilità dell’Alto rappresentante,

e provvisto della capacità giuridica necessaria all’adempimento dei suoi compiti. Assiste l’A.R. nell’esecuzione delle sue

funzioni di guida della politica estera e di sicurezza comune, compresa la politica di sicurezza e di difesa comune, nelle

funzioni svolte nella veste di presidente del Consiglio “Affari esteri” e in quella di vicepresidente della Commissione;

assiste anche il Presidente del Consiglio europeo, quello della Commissione e la stessa Commissione nell’esercizio delle

rispettive funzioni nelle relazioni esterne. Rappresenta l’Unione nelle delegazioni nei Paesi terzi.

14. La Corte di giustizia dellʼUnione europea

In base allʼart. 19 TUE la Corte di giustizia dellʼUnione europea, qualificata dal TUE come istituzione dellʼUnione,

comprende la Corte di giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati. Essa, in sostanza, si identifica con lʼintero

ordinamento giudiziario dellʼUnione, al quale compete di assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e

nellʼapplicazione dei Trattati.

Diverse sono le regole concernenti la composizione e le competenze dei tre organi giudiziari menzionati.

La Corte di giustizia era, originariamente, lʼunica istituzione giudiziaria dellʼUnione europea, fornita di una pluralità di

competenze e deputata ad assicurare il rispetto del diritto dellʼUnione europea da parte degli Stati membri, delle istituzioni

politiche dellʼUnione e degli individui.

Successivamente, con una decisione del Consiglio del 1988, fu istituito un secondo organo giudiziario, il Tribunale di primo

grado, con alcune limitate competenze che, peraltro, sono progressivamente aumentate. Esso è stato formalmente inserito

nei Trattati con il Trattato di Maastricht del 1992, mentre con il Trattato di Lisbona ha assunto la denominazione di

Tribunale. La creazione del Tribunale rispondeva principalmente a due esigenze: anzitutto, decongestionare la Corte di

giustizia rispetto a una massa smisurata di ricorsi che rischiava di minarne l'efficienza e la funzionalità; la seconda ragione

risiede nella opportunità di garantire un doppio grado di giurisdizione, con il diritto dʼimpugnare le sentenze del Tribunale

dinanzi alla Corte di giustizia.

Il doppio grado di giurisdizione non è, tuttavia, di generale applicazione, poiché vi sono tuttora importanti competenze,

basti pensare alla procedura di infrazione contro gli Stati membri, riservate alla sola Corte, che, dunque, è giudice unico.

Riguardo alla prima esigenza ricordata, sollevare la Corte di giustizia dal rischio di restare travolta dai ricorsi, la creazione

del Tribunale si è rivelata misura insufficiente.

Al fine di alleggerire il peso del contenzioso della Corte non solo sono state, di volta in volta, aumentate le competenze del

Tribunale, ma il Trattato di Nizza del 2001 ha previsto, con una "clausola abilitante”, divenuta lʼattuale 257 TFUE, la

possibilità di affiancare al Tribunale dei tribunali specializzati, incaricati a conoscere in primo grado di talune categorie di

ricorsi proposti in materie specifiche.

Sulla base della disposizione del Trattato di Nizza è stato già creato un tribunale specializzato. Il Consiglio, infatti, con

decisione del 2004, ha istituito il Tribunale della funzione pubblica dellʼUnione europea, competente a pronunciarsi in

primo grado sulle controversie tra lʼUnione e i suoi agenti.

Contro le sue decisioni può essere proposta impugnazione, solo per motivi di diritto, al Tribunale che così, nella materia in

esame, diventa giudice di secondo grado. Le decisioni del Tribunale, emanate a seguito di impugnazione di una decisione

del Tribunale della funzione pubblica, possono essere oggetto di riesame da parte della Corte di giustizia, ove sussistano

gravi rischi che lʼunità o la coerenza del diritto dellʼUnione siano compromesse. In questa ipotesi, per quanto eccezionale, si

configura un terzo grado di giurisdizione presso la Corte di giustizia.

La Corte di giustizia è composta da un giudice per ogni Stato membro e da otto avvocati generali.

I giudici e gli avvocati sono nominati dagli Stati membri di comune accordo per sei anni e il loro mandato è rinnovabile. I

giudici e gli avvocati devono essere scelti “tra personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza e che riuniscano le

condizioni richieste per l'esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti

di notoria competenza”.

La nomina dei giudici (come degli avvocati generali e dei membri del Tribunale) è preceduta da un parere sulla loro

adeguatezza fornito da un comitato di sette personalità scelte tra ex membri della Corte e del Tribunale, membri dei massimi

organi giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza, uno dei quali proposto dal Parlamento europeo.

I giudici e gli avvocati generali restano in carica sei anni, ma ogni tre anni si procede ad un rinnovo parziale; il mandato è

rinnovabile.

La Corte nomina ogni tre anni il Presidente, che dirige i lavori e le udienze. Infine, la Corte nomina un Cancelliere,

fissandone lo statuto.

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Sebbene i giudici vengano nominati per ciascuno Stato membro, questi non rappresentano tale Stato, non solo perché la loro

indipendenza è prescritta dal TFUE, ma anche perché il carattere di piena indipendenza è connaturato alla funzione

giudiziaria; la Corte, pertanto, è un tipico organo di individui.

La Corte di giustizia è assistita da otto avvocati generali, il cui numero può essere aumentato dal Consiglio, allʼunanimità,

su richiesta della Corte. Lʼavvocato generale, la cui nomina e i cui requisiti sono identici a quelli dei giudici, si pone al

servizio dellʼinteresse generale del diritto dellʼUnione, fornendo maggiori garanzie di equilibrio e di preparazione tecnica

alla Corte di giustizia. Lʼavvocato generale “ha l'ufficio di presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena

indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che, conformemente allo statuto della Corte di giustizia dell'Unione

europea, richiedono il suo intervento”.

La sue funzioni e la sua natura sono state precisate dalla Corte di giustizia in una ordinanza, nella quale essa ha affermato

anche che egli è un membro dell’istituzione giudiziaria e partecipa allʼesercizio della funzione giurisdizionale.

I giudici godono dellʼimmunità della giurisdizione, la quale si estende oltre la cessazione delle funzioni per quanto concerne

gli atti compiuti in veste ufficiale; l’immunità può essere tolta solo dalla Corte di giustizia, riunita in seduta plenaria.

In passato lʼavvocato generale presentava sempre le sue conclusioni. Oggi, anche per snellire il procedimento, lo Statuto

della Corte può stabilire in quali casi egli deve presentarle e lʼart. 20 di tale Statuto dispone che, ove ritenga che la causa

non sollevi nuove questioni, la Corte può omettere le conclusioni dellʼavvocato generale, dopo averlo sentito.

La Corte ha sede a Lussemburgo. Essa si riunisce in sezioni, composte da tre o cinque giudici, o in grande sezione,

costituita da tredici giudici e presieduta dal Presidente della Corte. Eccezionalmente può riunirsi in seduta plenaria, cioè

nella composizione di tutti i suoi giudici.

Il Tribunale, anchʼesso avente sede a Lussemburgo, è formato da almeno un giudice per Stato membro con un meccanismo

di nomina eguale ai giudici della Corte. Il loro numero, attualmente di ventisette, è fissato dallo Statuto della Corte.

Analoghi sono i requisiti per la nomina (art. 254 TFUE). Le funzioni di avvocato generale sono svolte da un giudice, ma

solo nelle ipotesi contemplate dal Regolamento dello stesso Tribunale.

Il Tribunale della funzione pubblica, composto da sette giudici, è nominato dal Consiglio allʼunanimità. Peraltro, la

decisione del Consiglio è subordinata alla consultazione di un comitato composto da sette personalità scelte tra ex giudici

della Corte e del Tribunale e tra giuristi di notoria competenza, il quale fornisce un parere sullʼidoneità dei candidati allo

svolgimento delle funzioni di giudice del Tribunale della funzione pubblica.

15. La Banca centrale europea e gli organi monetari

Nellʼambito dellʼunione economia e monetaria un ruolo importante spetta alla Banca centrale europea, qualificata

istituzione dallʼart. 13 TUE, e agli organi monetari dellʼUnione europea.

In materia monetaria poteri estremamente incisivi sono attribuiti alle autorità monetaria. Queste sono la Banca centrale

europea (BCE) e il Sistema europeo di banche centrali (SEBC), le cui competenze e poteri sono regolati sia dal Trattato

sul funzionamento dellʼUnione europea che dallo Statuto, contenuto nel Protocollo n. 4.

Il SEBC ha, quale obiettivo principale, il mantenimento della stabilità dei prezzi; i suoi compiti fondamentali sono: definire

e attuare la politica monetaria dellʼUnione; svolgere le operazioni sui cambi; detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta

estera degli Stati; promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento.

Il SEBC non è un organo autonomo, in quanto è composto dalla BCE, con sede a Francoforte, e dalle banche centrali

nazionali (per lʼItalia, la Banca dʼItalia) ed è retto dagli organi decisionali della BCE.

È la BCE, fornita di personalità giuridica, che con il suo apparato esercita in concreto le competenze in materia monetaria, a

cominciare dalla emissione e dal governo dellʼeuro.

Gli organi della BCE sono: il Consiglio direttivo e il Comitato esecutivo. Il primo è composto dai membri del Comitato

esecutivo della BCE e dai governatori delle banche centrali nazionali degli Stati partecipanti allʼeuro. Il Comitato esecutivo

comprende il Presidente, il vicepresidente e quattro altri membri, nominati, tra persone di riconosciuta levatura ed

esperienza professionale nel settore monetario o bancario e cittadini di Stati membri, dal Consiglio europeo, che delibera a

maggioranza qualificata su raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio

direttivo della BCE. Il loro mandato è di otto anni ed è rinnovabile. Il Comitato esecutivo svolge funzioni preparatorie ed

esecutive rispetto al Consiglio direttivo e, in generale, attua la politica monetaria sulla base delle determinazioni del

Consiglio direttivo, il quale stabilisce le linee generali della politica monetaria.

La BCE si caratterizza per la sua posizione di indipendenza, sia nei confronti degli Stati membri, che delle istituzioni

politiche europee. Questa scelta corrisponde essenzialmente allʼintento politico di salvaguardare la stabilità dei prezzi e,

quindi, di evitare spinte inflazionistiche. A tal fine le decisioni di politica monetaria vengono sottratte ad ogni forma di

condizionamento o di pressione politica proveniente da organi o istituzioni politiche.

A tal proposito il TFUE stabilisce che “né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei

rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi

dell'Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo”.

Tale indipendenza non implica però incomunicabilità fra le autorità monetarie europee e le istituzioni. Al contrario, il

Presidente del Consiglio e un membro della Commissione possono partecipare, senza diritto di voto, alle riunioni del

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Consiglio direttivo della BCE, al quale il Presidente del Consiglio può anche sottoporre una mozione per lʼapprovazione. Il

Presidente della BCE è invitato a partecipare alle riunioni del Consiglio su argomenti relativi agli obiettivi e ai compiti del

SEBC.

La BCE trasmette una relazione annuale sullʼattività del SEBC e sulla politica monetaria al Parlamento europeo, al

Consiglio, alla Commissione e al Consiglio europeo. Infine, il Presidente della BCE e gli altri membri del Comitato

esecutivo, a richiesta del Parlamento o di propria iniziativa, possono essere ascoltati dalle commissioni competenti del

Parlamento europeo.

La BCE svolge anche funzioni consultive e talvolta deve essere obbligatoriamente consultata, come sulle proposte di atti

dellʼUnione rientranti nelle sue competenze (da parte delle istituzioni europee) e, dalle autorità nazionali, sui progetti di

disposizioni legislative che rientrino nelle sue competenze.

Di particolare importanza è il potere normativo che è conferito alla BCE per l’assolvimento dei compiti del SEBC: essa,

infatti, può emanare regolamenti, decisioni, raccomandazioni e pareri. Tali atti hanno le stesse caratteristiche che lʼart. 288

TFUE assegna agli atti menzionati nell’ordinamento dellʼUnione: regolamenti e decisioni sono obbligatoti e i primi, di

portata generale, sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri (la cui moneta è l’euro). Essi, in omaggio al

carattere indipendente delle BCE, sono adottati al di fuori di qualsiasi partecipazione o controllo di istituzioni politiche, in

specie del Parlamento, e non sfuggono al controllo giudiziario della Corte di giustizia.

16. La Corte dei conti

La Corte dei conti fu istituita con il Trattato di Bruxelles del 22 luglio 1975 per rispondere allʼesigenza di assicurare un

controllo finanziario esterno alle singole istituzioni. Oggi alla Corte dei conti è formalmente riconosciuto lo status di

istituzione ex art. 13 TUE

La Corte dei conti è composta da un cittadino di ciascuno Stato membro. I suoi componenti sono nominati per sei anni dal

Consiglio a maggioranza qualificata, su proposta di ciascuno Stato membro e previa consultazione del Parlamento, e sono

scelti tra personalità che fanno o hanno fatto parte, nei rispettivi Stati, delle istituzioni di controllo esterno o che posseggono

una qualifica specifica per tale funzione e che offrano tute le garanzie di indipendenza. Essi esercitano le loro funzioni in

piena indipendenza e nell'interesse generale dell'Unione.

“Nell'adempimento dei loro doveri, i membri della Corte dei conti non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo

né da alcun organismo. Essi si astengono da ogni atto incompatibile con il carattere delle loro funzioni. Essi non possono,

per la durata delle loro funzioni, esercitare alcun'altra attività professionale, remunerata o meno.

Fin dal loro insediamento, i membri della Corte dei conti assumono l'impegno di rispettare, per la durata delle loro

funzioni e anche dopo la cessazione di queste, gli obblighi derivanti dalla loro carica ed in particolare i doveri di onestà e

delicatezza per quanto riguarda l'accettare, dopo tale cessazione, determinate funzioni o vantaggi”.

La funzione principale della Corte dei conti è quella di assicurare il controllo finanziario dellʼUnione esaminando i conti di

tutte le entrate e le spese, compresi quelli degli organismi creati dallʼUnione. Si tratta di un controllo c.d. esterno, cioè

effettuato da unʼistituzione, la Corte dei conti, nei confronti di altre istituzioni o organi. Il controllo della Corte riguarda la

legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese e si estende allʼaccertamento della sana gestione finanziaria.

Nellʼesercizio della sua funzione la Corte dei conti dispone di incisivi strumenti di indagine, sia controllando i documenti

sia, ove necessario, mediante sopralluoghi presso le altre istituzioni dellʼUnione, nei locali di qualsiasi organo che gestisca

le entrate o le spese per conto dellʼUnione e negli Stati membri, compresi i locali delle persone fisiche o giuridiche che

ricevano contributi a carico del bilancio dellʼUnione.

Negli Stati membri la Corte dei conti e le competenti autorità nazionali collaborano in un spirito di reciproca fiducia, pur

mantenendo la loro indipendenza.

La Corte dei conti, inoltre, assiste il Parlamento europeo e il Consiglio nella loro attività di controllo sullʼesecuzione del

bilancio.

La Corte dei conti ha anche una funzione consultiva. Essa, infatti, può dare pareri su richiesta di una delle altre istituzioni

dellʼUnione. Si tratta di pareri facoltativi, nel senso che le altre istituzioni hanno la facoltà, non lʼobbligo, di richiederli. In

qualche raro caso il parere è obbligatorio (ad esempio, lʼart. 325, par. 4 TFUE, il quale prescrive che il Parlamento europeo

e il Consiglio consultino la Corte dei conti per lʼadozione delle misure di prevenzione e di lotta contro le frodi le ledano gli

interessi finanziari dellʼUnione).

La potestà consultiva può essere esercitata dalla Corte dei conti anche di propria iniziativa, in quanto è stabilito che essa può

presentare in ogni momento le sue osservazioni su problemi particolari.

17. Gli organi ausiliari consultivi

I Trattati e gli atti di diritto derivato, ma anche accordi internazionali stipulati dallʼUnione, istituiscono numerosi altri

organi. Tra questi meritano di essere segnalati gli organi ausiliari, rispetto alle istituzioni politiche, aventi carattere

consultivo e previsti dallʼart. 13, par. 4, TUE. Si tratta del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, che

esercitano funzioni consultive.

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Tali organi ausiliari consultivi sono entrambi organi di individui, poiché sono composti da persone indipendenti dai governi

degli Stati membri. Diversi sono gli interessi e le istanze che essi sono destinati a rappresentare.

A) Il Comitato economico e sociale “è composto da rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori

dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile, in particolare nei settori socioeconomico, civico,

professionale e culturale”. Tale composizione è riesaminata a intervalli regolari dal Consiglio per tener conto

dellʼevoluzione economica, sociale e demografica dellʼUnione. I componenti del Comitato, quindi, sono espressione

della società civile, nelle sue diverse articolazioni.

Il loro numero non può essere superiore a trecentocinquanta. La composizione del Comitato sarà determinata con decisione

unanime del Consiglio su proposta della Commissione. In attesa di tale decisione lʼart. 7 del Protocollo n. 36 sulle

disposizioni transitorie mantiene lʼattuale ripartizione ponderata tra i vari Stati membri, dai cinque assegnati a Malta fino ai

ventiquattro di Germania,

Francia, Italia e Regno Unito.

La loro nomina è effettuata dal Consiglio per cinque anni, deliberando a maggioranza qualificata su proposta degli Stati

membri, previa consultazione della Commissione.

I componenti del Comitato non sono rappresentanti degli Stati per i quali sono nominati: essi, infatti, “non sono vincolati da

un mandato imperativo ed esercitano la loro funzione in piena indipendenza e nellʼinteresse generale dellʼUnione”. Il

Comitato si riunisce su convocazione del Presidente eletto dallo stesso Consiglio, di propria iniziativa o su richiesta del

parlamento europeo, del Consiglio o della Commissione.

La funzione consultiva è esercitata mediante pareri obbligatori o facoltativi. I primi devono essere richiesti, a pena di

invalidità dellʼatto successivamente emanato, dal Parlamento europeo, dal Consiglio o dalla Commissione solo nei casi

espressamente previsti dai trattati. I pareri facoltativi sono quelli richiesti dal Parlamento europeo, dal Consiglio o dalla

Commissione in tutti i casi in cui lo ritengano opportuno, e quelli emanati dal Comitato di propria iniziativa.

B) Il Comitato delle regioni, è stato formalmente istituito dal Trattato di Maastricht del 1992 al fine di dare una

rappresentanza, a livello europeo, alle autonomie locali.

Il numero è la nomina dei componenti del Comitati delle regioni sono regolati in maniera analoga a quanto previsto per il

Comitati economico e sociale, così come la loro indipendenza. Inoltre, essi non possono essere contemporaneamente

parlamentari europei.

Anche la composizione del Comitato delle regioni è riesaminata a intervalli regolati dal Consiglio; così pure, in attesa di una

decisione del Consiglio sulla sua composizione, è confermata la composizione attuale, che è la stessa del Comitato

economico e sociale.

Sebbene lʼart. 300, par. 3 TFUE qualifichi i membro del Comitato “rappresentanti delle collettività regionali e locali”, tali

collettività e gli enti che le rappresentano a livello interno non partecipano alla designazione dei suddetti membri. Lʼassenza

di reale rappresentatività del Comitato delle regioni rispetto alle collettività regionali e locali trova un rimedio solo parziale

nella prescrizione, inserita dal Trattato di Nizza del 2001, in virtù della quale i componenti del Comitato delle regioni,

devono rivestire un mandato assembleare o di governo in una regione o altro ente locale (per esempio, per lʼItalia, di

consigliere regionale o di componente di una giunta regionale). Tale requisito deve sussistere non solo ai fini della nomina

al Comitato delle regioni, ma anche per la durata della partecipazione allo stesso. Infatti, alla scadenza del suddetto

mandato, termina automaticamente anche il mandato di membro del Comitato e si procede alla sostituzione, secondo la

stessa proceduta, per la restante durata del mandato.

Analogamente al Comitato economico e sociale, il Comitato delle regioni emette pareri obbligatori o facoltativi. I primi

sono prescritti in varie materie nelle quali solitamente è richiesto anche il parere del Comitato economico e sociale.

Il Trattato di Lisbona ha riconosciuto al Comitato delle regioni anche una limitata legittimazione ad impugnare dinanzi alla

Corte di giustizia atti dellʼUnione europea. Una prima ipotesi riguarda lʼimpugnazione di atti al fine di salvaguardare le

proprie prerogative, per esempio, perché lʼatto sia stato adottato senza consultazione, ove obbligatoriamente prescritta, dello

stesso Comitato. La seconda ipotesi consiste nell'impugnazione di un atto per violazione del principio di sussidiarietà, ma

limitatamente agli atti legislativi per i quali sia richiesta obbligatoriamente la sia consultazione.

C) Altro rogano consultivo è il Comitato per lʼoccupazione, il quale è incaricato di seguire la situazione dellʼoccupazione

e le politiche in materia, di formulare pareri su richiesta del Consiglio o della Commissione o di propria iniziativa e di

preparare i lavori del Consiglio relativi alla elaborazione degli orientamenti nella politica di occupazione.

D) Funzione consultive, di carattere facoltativo, ha anche il Comitato dei trasporti.

E) Infine, nellʼambito della politica sociale va ricordato il Comitato per la protezione sociale.

18. La Banca centrale europea per gli investimenti.

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La Banca centrale europea per gli investimenti, pur facendo parte della struttura dellʼUnione europea sin dalla sua origine,

costituisce in realtà unʼentità autonoma, i cui membri sono gli Stati membri dellʼUnione europea, dotata di personalità

giuridica e regolata in un apposito Statuto. La marcata autonomia risulta dalla presenza di una propria struttura

organizzativa: il Consiglio dei governatori, composto dai ministri designati dagli Stati membri, il Consiglio di

amministrazione, formato da individui che offrano ogni garanzia di indipendenza e di competenza, e il Comitato direttivo,

anchʼesso costituito da personalità indipendenti.

Anche il sistema di finanziamento e il bilancio hanno una loro autonomia; il capitale della BEI è costituito, infatti, dalle

quote sottoscritte dai singoli Stati membri.

La funzione essenziale della BEI è quella di contribuire allo sviluppo equilibrato del mercato interno nell'in-teresse

dell'Unione.

I mezzi utilizzabili a tal fine dalla BEi sono le concessioni di prestiti e di garanzie, senza finalità di lucro, a favore di Stati

membri o di imprese private o pubbliche, per il finanziamento di progetti per la valorizzazione delle regioni meno

sviluppate, di progetti contemplanti lʼammodernamento e la riconversione di imprese e di progetti di interesse comune per

gli Stati membri, che non possono essere interamente assicurati da finanziamenti esistenti nei singoli Stati membri a causa

della loro ampiezza o natura.

CAPITOLO VI: I PROCEDIMENTI INTERISTITUZIONALI

1. Il finanziamento dellʼUnione europea

Le tre istituzioni politiche, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione, interagiscono in molteplici materie. Di

particolare rilevanza, per la vita e lo sviluppo dellʼUnione europea, sono il bilancio, lʼadozione degli atti dellʼUnione, la

conclusione degli accordi internazionali della stessa Unione.

A) BILANCIO

Per quanto riguarda il bilancio, la materia è regolata, oltre che dal Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea (artt.

310-324), dal regolamento finanziario n. 1605/2002 del Consiglio e da accordi interistituzionali fra le tre suddette

istituzioni. Un ruolo importante, anche ai fini del riequilibro dei poteri del Parlamento europeo in merito all'approvazione

del bilancio, hanno avuto, il Trattato di Lussemburgo del 1970, che modificava i trattati originari conferendo maggiori

poteri al Parlamento in materia di bilancio, e quello di Bruxelles del 1975, che ampliava ulteriormente tali poteri e istituiva

la Corte dei conti.

Il bilancio dellʼUnione è composto dalle entrate e dalle spese. “Tutte le entrate e le spese dell'Unione devono costituire

oggetto di previsioni per ciascun esercizio finanziario ed essere iscritte nel bilancio” (art. 310, par. 1, 1° comma, TFUE).

In base al principio di equilibrio delle entrate e delle spese, “nel bilancio, entrate e spese devono risultare in pareggio”.

Diversa è la disciplina relativa alla determinazione sulle entrate e a quelle sulle spese. Mentre sulle spese significativi sono i

poteri progressivamente acquisiti dal Parlamento europeo il quale, con il Trattato di Lisbona, ha raggiunto pari poteri di

decisione con il Consiglio, le entrate sfuggono ai suoi poteri e sono sostanzialmente decise dai governi degli Stati membri.

Lʼart. 311, 2° comma, TFUE dichiara che “il bilancio, fatte salve le altre entrate, è finanziato integralmente tramite risorse

proprie”. Tale norma, relativamente al finanziamento dellʼUnione europea adotta quindi il sistema delle risorse proprie.

Originariamente il finanziamento della CEE e della CEEA proveniva da contributi obbligatori degli Stati membri, che

questi erano tenuti a versare secondo parametri fondati sulla loro rispettiva importanza politica ed economica. Oggi, invece,

è lʼUnione europea che decide in maniera autonoma le fonti di finanziamento senza dipendere più dai pagamenti dei

contributi degli Stati membri.

Il sistema, dunque, tende a rendere lʼUnione totalmente indipendente dagli Stati membri.

Malgrado lʼindipendenza e lʼautonomia che il sistema delle risorse proprie è volto a garantire, le decisioni sulle fonti e la

misura di tali risorse sono adottate con un procedimento che implica sostanzialmente un accordo tra gli Stati membri.

Infatti, le decisioni sulle entrate dellʼUnione richiedono anzitutto lʼunanimità degli Stati membri nel Consiglio. Inoltre il

Consiglio adotta una decisione, ma la sua efficacia è subordinata allʼapprovazione espressa di ciascuno Stato membro, in

forme analoghe alla ratifica di un accordo internazionale, secondo le proprie norme costituzionali.

Pertanto, il sistema delle risorse proprie, se affranca lʼUnione dai contributi degli Stati membri, non la rende propriamente

indipendente da questi ultimi; gli Stati membri non hanno più la possibilità di rifiutarsi di finanziare lʼUnione, ma hanno

ancora il potere di decidere quali risorse destinare ad essa.

Un ruolo del tutto marginale nella determinazione delle entrate dellʼUnione è riconosciuto al Parlamento europeo, che ha un

potere meramente consultivo. Tuttavia, se il procedimento di definizione delle risorse proprie appare poco democratico a

livello europeo, il riferimento alle costituzioni statali ai fini dellʼapprovazione delle deliberazioni del Consiglio da parte

degli Stati membri comporta che tale approvazione sia subordinata a una manifestazione di volontà dei rispettivi parlamenti.

Il TFUE, nello stabilire che il bilancio è finanziato integralmente tramite risorse proprie, fa salve le altre entrate. Queste

hanno portata residuale e comprendono, tra le altre, le trattenute sulle retribuzioni dei dipendenti dellʼUnione, le ammende

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alle imprese, le somme forfettarie o penalità dovute da Stati ex art. 260 TFUE, i contributi degli Stati membri, lʼassunzione

di prestiti, ecc. Quanto alle risorse proprie, esse sono le seguenti: a) i prelievi, premi, importi supplementari o compensativi,

importi o elementi aggiuntivi, dazi della tariffa doganale comune e altri dazi sugli scambi con Paesi terzi, nonché contributi

ed altri dazi nellʼambito dellʼorganizzazione comune dei mercati dello zucchero; b) unʼaliquota uniforme sullʼimponibile

IVA di ciascuno Stato membro, determinato secondo regole europee e limitato al 50% del suo reddito nazionale lordo; c)

unʼaliquota del reddito nazionale lordo degli Stati membri da fissare annualmente nel bilancio. È stato osservato dalla

dottrina che la prima entrata dà luogo a un vero e proprio potere impositivo in capo allʼUnione, mentre quelle derivanti

dallʼIVA e dallʼaliquota sul reddito nazionale lordo si riducono a contributi che gli Stati membri devono obbligatoriamente

versare allʼUnione.

La riscossione delle entrate è effettuata dagli Stati membri, i quali intrattengono una certa percentuale a titolo di spese di

riscossione.

2. I principi relativi al bilancio

La formazione del bilancio dellʼunione deve conformarsi a taluni principi.

Lʼart. 310, par.1, 1° comma, TFUE enuncia anzitutto il principio della unità del bilancio, stabilendo che in esso devono

essere comprese tutte le entrate e le spese. Sono escluse dal bilancio dellʼUnione le spese derivanti da operazioni che hanno

implicazioni del settore militare e della difesa, e le spese (diverse da quelle amministrative sostenute dalle istruzioni)

derivanti dallʼattuazione di una cooperazione rafforzata.

Correlato al principio dellʼunità è quello della universalità del bilancio, secondo il quale lʼinsieme delle entrate deve

coprire indistintamente lʼinsieme delle spese, senza possibilità di destinare determinate entrate alla copertura di talune spese

specifiche e, per altro verso, non può esservi compensazione fra entrate e spese (divieto di contrazione).

Un ulteriore principio relativo al bilancio è il quello della annualità, secondo il quale lʼesercizio finanziario ha inizio il 1°

gennaio e si chiude al 31 dicembre.

Il bilancio, dunque, deve contenere tutte le entrate e le spese previste per lʼanno al quale si riferisce. Eccezioni sono previste

per i programmi o le azioni dellʼUnione destinate a realizzarsi in un arco di tempo pluriennale. Dal 1988 il bilancio annuale

si colloca nel quadro di una programmazione pluriennale oggetto di un accordo interistituzionali tra il Parlamento europeo,

il Consiglio e la Commissione.

Il Trattato di Lisbona consacra tale prassi prescrivendo la definizione di un quadro finanziario pluriennale, al cui rispetto è

subordinato il bilancio annuale.

Un altro principio generale del bilancio è quello di specializzazione (o specificazione), in base al quale le risorse del

bilancio sono affidate alla gestione soltanto per gli scopo previsti in modo sufficientemente dettagliato dal bilancio.

Lʼart. 310, par. 1, 3° comma, stabilisce che entrate e spese devono risultare in pareggio. Da ciò discende il principio del

pareggio (o equilibrio) del bilancio. Tale principio comporta il divieto per lʼUnione di ricorrere al prestito per coprire

eventuali disavanzi. A ciò si ricollega la prescrizione in virtù della quale lʼUnione, prima di adottare degli atti, deve

assicurarsi che essi abbiano una copertura finanziaria.

Un altro principio generale è, infine, quello della buona gestione finanziaria al quale devono attenersi sia la Commissione,

che cura l'esecuzione del bilancio, sia gli Stati membri, nel cooperare con la Commissione. Il principio è precisato nel

regolamento finanziario n. 1605/2022, il quale pone le c.d. tre “e”, cioè i principi di economia, efficienza ed efficacia.

3. Lʼapprovazione e lʼesecuzione del bilancio

Lʼapprovazione del bilancio è disciplinata dallʼart. 314 TFUE, il quale, a seguito di una serie di modifiche rispetto al testo

originario dei Trattati, consacra il Parlamento europeo e il Consiglio come due rami dellʼautorità di bilancio.

Il Trattato di Lisbona ha modificato sensibilmente la disciplina del bilancio la quale, in precedenza, ruotava intorno alla

distinzione tra spese obbligatorie, cioè derivanti obbligatoriamente dal Trattato sulla Comunità europea, e spese non

obbligatorie: per le prime lʼultima parola spettava al Consiglio, per le seconde al Parlamento europeo. Il Trattato di Lisbona

ha eliminato la distinzione, ponendo così sullo stesso piano le due autorità di bilancio, ed ha semplificato la disciplina

relativa all'approvazione del bilancio. A seguito delle riforme effettuate dal Trattato di Lisbona, lʼart. 312 TFUE prescrive

formalmente lʼadozione del quadro finanziario pluriennale, il quale assumere una funzione decisiva in merito alle spese

dellʼUnione, poiché esso fissa gli importi dei massimali annui degli stanziamenti per impegni relativi ad ogni categoria di

spesa. Le determinazioni del bilancio annuale sono così subordinate alle decisioni assunte nel quadro finanziario

pluriennale, che diventa la sede realmente decisiva delle scelte politiche e finanziarie.

Riguardo lʼadozione di tale quadro finanziario pluriennale, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione prendono

ogni misura necessaria a facilitarne lʼadozione. Esso è determinato mediante un regolamento adottato dal Consiglio

(secondo una procedura legislativa speciale) allʼunanimità e previa approvazione del Parlamento europeo, a maggioranza

dei suoi membri (salva la possibilità che il Consiglio europeo, allʼunanimità, decida di consentire al Consiglio di deliberare

a maggioranza qualificata). Va notato che, sebbene il Parlamento europeo possa condizionare lʼadozione del quadro

finanziario, esprimendo o meno la sua approvazione, la necessità di una votazione unanime nel Consiglio tende a spostare

il fulcro del processo decisionale a livello intergovernativo nello stesso Consiglio.

48

Lʼapprovazione del bilancio annuale dellʼUnione prevede una complessa procedura che vede coinvolti il Parlamento

europeo e il Consiglio, congiuntamente, secondo una procedura legislativa speciale prevista dallʼart. 314 TFUE.

Anzitutto, entro il 1° luglio di ogni anno, ciascuna istituzione (ad eccezione della Banca centrale europea) elabora uno stato

di previsione delle spese per il successivo anno finanziario. La Commissione raggruppa tali previsioni in un progetto di

bilancio, comprendente una previsione delle entrate e delle spese, nel quale può fare anche previsioni divergenti rispetto a

quelle elaborate dalle varie istituzioni. Tale progetto viene proposto entro il 1° settembre (dellʼanno precedente a quello di

esecuzione del bilancio) al Parlamento europeo e al Consiglio da parte della Commissione, che può modificarlo fino

allʼeventuale convocazione di un comitato di conciliazione. Il primo esame del progetto di bilancio è fatto dal Consiglio

che, entro il 1° ottobre, comunica la sua posizione al Parlamento europeo, motivandola in modo esauriente. Entro i

successivi 42 giorni il Parlamento europeo può approvare la posizione del Consiglio, nel qual caso il bilancio è adottato.

Lʼadozione avviene anche nellʼipotesi in cui entro tale termine di 42 giorni, il Parlamento non abbia deliberato alcunché

(c.d. silenzio- assenso).

Entro il termine di 42 giorni può emergere, al contrario, un dissenso del Parlamento rispetto al progetto inviatogli dal

Consiglio, che si manifesta con lʼadozione di emendamenti (alla maggioranza dei componenti dello stesso Parlamento

europeo). In questo caso il progetto emendato è trasmesso al Consiglio, il quale, entro 10 giorni, può approvare tutti gli

emendamenti del Parlamento. In caso contrario si apre una fase dinanzi ad un comitato di conciliazione, formato dai membri

del Consiglio o dai loro rappresentanti e da altrettanti rappresentanti del Parlamento europeo e con la partecipazione della

Commissione, che prende ogni iniziativa necessaria per favorire un riavvicinamento tra le posizioni del Parlamento e del

Consiglio. Compito del comitato di conciliazione è di giungere, entro 21 giorni dalla sua convocazione, a un accordo su un

progetto comune, a maggioranza qualificata dei membri (o rappresentanti) del Consiglio e a maggioranza dei rappresentanti

del Parlamento. Qualora il Comitato di conciliazione non pervenga a tale accordo il progetto va considerato respinto e la

Commissione deve sottoporre un nuovo progetto di bilancio. Se, invece, entro i 21 giorni si raggiunge nel comitato di

conciliazione un accordo, il Parlamento europeo e il Consiglio dispongono di 14 giorni per approvare il progetto comune.

Entro il suddetto termine di 14 giorni possono verificarsi varie possibilità. Può accadere anzitutto (ed è questa lʼipotesi più

probabile) che sia il Parlamento che il Consiglio approvino espressamente il progetto comune: in questo caso il bilancio è

definitivamente adottato (lett. a). Se, al contrario, il progetto comune è respinto sia dal Parlamento (maggioranza dei suoi

membri) che dal Consiglio, oppure se una delle due istituzioni respinge il progetto mentre lʼaltra non riesce a deliberare, il

progetto è respinto e la Commissione deve presentarne uno nuovo (lett. b). Il progetto è bocciato anche se è approvato dal

Consiglio ma respinto dal Parlamento (lett. c). Nellʼipotesi opposta, di rigetto del Consiglio e di approvazione del

Parlamento, la posizione di eguale autorità delle due istituzioni viene alterata a favore del Parlamento. Questʼultimo, entro

ulteriori 14 giorni dal rigetto del Consiglio e deliberando a maggioranza dei suoi membri e dei tre quinti dei voti espressi,

può decidere di confermare tutti gli emendamenti originariamente adottati rispetto alla posizione del Consiglio, oppure solo

alcuni di tali emendamenti; il bilancio è definitivamente adottato secondo le determinazione del Parlamento, cioè nel testo

della posizione espressa dal Consiglio, come emendata dal Parlamento (se questo abbia confermato tutti i suoi

emendamenti), oppure nel testo risultante dal comitato di conciliazione come emendato dal Parlamento (nel caso di

conferma solo parziale degli originari emendamenti) (lett. d).

Una volta che il bilancio sia definitivamente adottato, quale che sia la procedura che abbia condotto a questo risultato, è

formalmente il Presidente del Parlamento europeo che constata tale adozione.

Ove il bilancio sia respinto, o, in ogni caso, se allʼinizio dellʼanno finanziario (cioè 1° gennaio) esso non sia stata ancora

approvato, le spese vengono erogate secondo il regime dei dodicesimi. In base del questo regime, disposto dallʼart. 315

TFUE, di norma le spese effettuare mensilmente non possono superare un dodicesimo dei crediti aperti nel bilancio

dellʼesercizio precedente, né un dodicesimo di quelli previsti nel progetto di bilancio non adottato.

Quando il bilancio sia stato approvato la sua esecuzione, cioè la riscossione delle entrate e lʼerogazione delle spese, è di

competenza della Commissione. Essa è largamente coadiuvata dagli Stati membri, ai quali è in buona parte delegata

lʼesecuzione del bilancio, in specie nella politica agricola nella gestione decentrata dei fondi strutturali. La responsabilità

della esecuzione del bilancio resta in capo alla Commissione.

La commissione esegue il bilancio sotto il controllo finanziario della Corte dei conti, la quale svolge le sue funzioni sia sulla

base dei documenti, sia, se necessario, in loco, presso le istituzioni o organismi dellʼUnione, negli Stati membri e anche nei

locali di persone fisiche e giuridiche che ricevano contributi a carico del bilancio.

Il controllo della Corte dei conti non è solo di carattere formale, ma investe il merito della gestione del bilancio; esso,

infatti, non si limita ai profili di regolarità e legittimità, ma riguarda anche lʼaccertamento della sana gestione finanziaria, il

che implica una valutazione di merito concernente lʼeconomicità e lʼefficacia della stessa gestione.

Il controllo politico sulla complessiva attività di amministrazione della Commissione è affidato invece al Parlamento

europeo, il quale lo effettua sulla base di un esame dei conti e della relazione annuale e dichiarazione di affidabilità della

Corte dei conti.

49

4. Lʼadozione degli atti dellʼUnione europea

Il secondo procedimento inter istituzionale è quello relativo all’adozione degli atti dellʼUnione. I Trattati, in specie il

Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea, prevedono una pluralità di procedimenti decisionali, in ciascuno dei quali

può variare il ruolo delle istituzioni, in particolare quello del parlamento e del Consiglio; possono altresì variare le regole di

votazione, in specie nel Consiglio, talvolta chiamato a deliberare all’unanimità o, molto più spesso, a maggioranza

qualificata. Inoltre può essere prescritta la consultazione di organi ausiliari, quali il Comitato economico e sociale o il

Comitati delle regioni. Il ricorso all’uno o allʼaltro procedimento dipende dalla prescrizione della specifica disposizione

sulla base della quale lʼatto in questione deve essere adottato.

La procedura prevista dalle singole disposizioni del Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea va obbligatoriamente

applicata solo agli atti che contengono gli elementi essenziali della disciplina da emanare in forza delle stesse disposizioni.

È possibile che tali atti, detti atti di base, prevedano lʼadozione di un’ulteriore normativa integrativa, o persino modificativa

di elementi non essenziali, da parte della Commissione, oppure lʼemanazione di atti di esecuzioni della Commissione o,

eccezionalmente, del Consiglio. Secondo la costante giurisprudenza della Corte di giustizia, formatasi anteriormente al

Trattato di Lisbona, atti del genere non sono soggetti alla procedura prevista dalla specifica disposizione del Trattato sul

funzionamento dellʼUnione europea, ma possono essere adottati secondo una procedure semplificata, nella quale intervenga

solo il Consiglio o solo la Commissione.

La possibilità di adottare atti di attuazione con una procedura semplificata rispetto a quella prescritta dalla norma del

Trattato per lʼatto di base è stata riaffermata sia per i regolamenti che per le direttive, volti ad attuare, rispettivamente, un

regolamento o una direttiva di base. Con il Trattato di Lisbona sono state espressamente previste le possibilità sia di atti

delegati della Commissione di portata generale, con le caratteristiche e nei limiti stabiliti nellʼatto legislativo di delega e, in

ogni caso, non suscettibili di modificare gli elementi essenziali dellʼatto legislativo, sia di atti esecutivi della Commissione

(o del Consiglio) volti ad attuare atti giuridicamente vincolanti dellʼUnione. Sia gli atti delegati, sia quelli esecutivi, sono

emanati dalla sola Commissione (o, dal Consiglio), senza eseguire, quindi, le procedure stabilite dalle disposizioni del

Trattato per lʼatto di base. Sebbene sussistano numerose varianti nei procedimenti di adozione degli atti dellʼUnione, il

Trattato di Lisbona ha cercato di stabilire delle tipologie generali di tali procedimenti, collegandovi, inoltre, la

individuazione di atti legislativi dellʼUnione. Nel Trattato sullʼUnione europea emergono le istituzioni che possono

considerarsi le autorità legislative, cioè il Parlamento europeo e il Consiglio. Infatti lʼart. 14, par. 1, dichiara “Il

Parlamento europeo esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio”; e in maniera

speculare, lʼart. 16, par. 1, recita che “Il Consiglio esercita, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione

legislativa”.

Il Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea stabilisce una procedura legislativa ordinaria. Ai sensi dellʼart. 289, par.

1, “la procedura legislativa ordinaria consiste nell'adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una

decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione. Tale procedura è definita

all'articolo 294”.

Accanto a questa procedura, denominata “codecisione” e che oggi può considerarsi di applicazione generale, esistono delle

procedure legislative speciali, nelle quali viene meno quella perfetta simmetria di poteri tra Parlamento europeo e Consiglio

che si realizza nella procedura ordinaria di codecisione. Nella maggior parte dei casi in queste procedure speciali, infatti, il

Consiglio riprende una posizione prioritaria sul Parlamento europeo, il quale partecipa allʼadozione dellʼatto del Consiglio

con il suo parere o con una approvazione. Lo squilibro di poteri a favore del Consiglio non risulta dallʼart. 289, par. 2,

TFUE, il quale sembra evocare la possibilità che, di volta in volta, possano assumere un ruolo determinante sia il Consiglio

che il Parlamento europeo. Ma alla luce dei “casi specifici previsti dai Trattati”, risulta evidente uno sbilanciamento di

poteri a favore del Consiglio, con riduzione di quelli del Parlamento europeo.

La procedura legislativa, sia essa ordinaria o speciale, vale a qualificare un atto dellʼUnione come legislativo. Le

procedure legislative, siano esse ordinarie o speciali, non esauriscono le possibilità procedurali di adozione di atti

dellʼUnione. A parte le ipotesi di atti delegati e di atti di esecuzione, esistono numerosi altri casi nei quali le procedure

legislative, ordinaria come speciali, non trovano applicazione.

Anzitutto per alcune istituzioni, o in talune materie, è esclusa radicalmente la possibilità di adottare atti legislativi e, quindi,

lʼapplicazione delle procedure legislative. Riguardo alle istituzioni, è il caso del Consiglio europeo, per il quale lʼart. 15,

par. 1, TUE dispone espressamente che non esercita funzione legislative. Per quanto concerne le materie basti ricordare la

politica estera e di sicurezza comune, nella quale è esclusa lʼadozione di atti legislativi. In tale materia il potere di decisione

è concentrato nel Consiglio europeo e nel Consiglio, mentre marginale è la posizione della Commissione, dato che le

proposte sono avanzate dagli Stati membri o dallʼAlto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, e

altrettanto può dirsi per il Parlamento europeo, il quale non è neppure consultato in merito allʼadozione degli atti

dellʼUnione.

Esistono poi specifiche disposizioni del Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea (anche se molto rare), che non

prevedono alcuna forma di partecipazione del Parlamento europeo allʼadozione di un atto da parte del Consiglio. Ciò accade

nellʼambito di materie come lʼattuazione del mercato interno, la definizione della tariffa doganale comune, lʼadozione di

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certe misure in materia di agricoltura e pesca, la politica economica, lʼadozione di misure restrittive verso Paesi terzi (o

individui) con semplice informazione del Parlamento europeo. In tali ipotesi è possibile che il Consiglio chieda comunque il

parere del Parlamento. Si tratterà di un parere facoltativo, nel senso che il Consiglio non solo non è tenuto a conformarvisi,

ma neppure a richiederlo. La mancata consultazione del Parlamento, pertanto, un influisce in alcun modo sulla legittimità

dellʼatto.

Inoltre, in alcuni casi, lʼatto, pur corrispondendo ad atti tipici dellʼUnione, quali definiti dallʼart. 288 TFUE, è adottato da

istituzioni e secondo procedure del tutto particolari. Un esempio è dato dallʼart. 132 TFUE il quale attribuisce alla Banca

centrale europea il potere di emanare regolamenti e decisioni, oltre che raccomandazioni e parei.

Unʼaltra procedura particolare può rinvenirsi nellʼart. 155 TFUE, il quale prevede che, in materia di politica sociale,

possano essere conclusi contratti collettivi fra le parti sociali (associazioni di datori di lavoro e sindacati di lavoratori) a

livello dellʼUnione e che, a richiesta congiunta delle parti firmatarie, possano essere attuati mediante una decisione del

Consiglio su proposta della Commissione, mentre il Parlamento è solo informato. Tuttavia, come ha sottolineato il

Tribunale, la Commissione e il Consiglio devono verificare la rappresentatività delle parti sociali, poiché, i assenza di un

intervento del parlamento europeo, è tale rappresentatività che fornisce un carattere democratico al procedimento

legislativo.

5. La proposta della Commissione

Secondo quanto previsto dai trattati, la Commissione è lʼistituzione a cui spetta, di regola, il potere di proporre lʼadozione di

atti dellʼUnione. Infatti, lʼart. 17, par. 2, TUE prescrive che “un atto legislativo dell'Unione può essere adottato solo su

proposta della Commissione, salvo che i trattati non dispongano diversamente. Gli altri atti sono adottati su proposta della

Commissione se i trattati lo prevedono”.

Ciò sono dei casi, in realtà assai rari, in cui un atto dellʼUnione può essere adottato senza una proposta della Commissione.

A tali ipotesi fa riferimento lʼart. 289, par. 4, TFUE: “nei casi specifici previsti dai trattati, gli atti legislativi possono

essere adottati su iniziativa di un gruppo di Stati membri o del Parlamento europeo, su raccomandazione della Banca

centrale europea o su richiesta della Corte di giustizia o della Banca europea per gli investimenti”.

Talvolta la proposta di soggetti diversi dalla Commissione è prevista i via alternativa rispetto alla proposta della

Commissione, che resta possibile (per esempio, in materia di cooperazione giudiziaria penale e di polizia, nonché di

cooperazione amministrativa nello spazio di libertà sicurezza e giustizia).

Un potere esclusivo di iniziativa, invece, sussiste a favore del Parlamento europeo per lʼelaborazione di un progetto di

disposizioni relative alla sua elezione e per l'emanazione di regolamenti sullo statuto e condizioni generali per lʼesercizio

delle funzioni dei suoi membri.

La Commissione è priva del potere di iniziativa nella materia della politica estera e di sicurezza comune, nonché riguardo

gli atti, anche obbligatori, adottati dalla banca centrale europea.

Il potere di iniziativa della Commissione può essere sollecitato dal Parlamento, dal Consiglio, da un milione di cittadini e lo

stesso Consiglio europeo può indicare alla Commissione temi sui quali formulare proposte e criteri e principi ai quali

attenersi. Eccezionalmente la proposta della Commissione può essere sollecitata da uno Stato membro.

La proposta della Commissione viene preparata non solo a seguito delle riflessioni della stessa Commissione e in base alle

competenze tecniche dei commissari e dei propri uffici. La Commissione si consulta anche con esperti degli Stati membri e

tiene conto delle sollecitazioni, delle segnalazioni, del dialogo con gli ambienti sociali e i gruppi di interesse (quali

associazioni di categorie economiche, sindacati, rappresentanze di enti locali, ditte individuali, studi legali specializzati in

materie dellʼUnione, ecc.). Il dialogo con gli ambienti interessati alle proposte della Commissione consente a questʼultima

di disporre di notizie e di conoscere tematiche che rappresentano il risultato dellʼattività di detti gruppi dʼinteresse. Inoltre

tale dialogo comporta che le proposte della Commissione possano tenere conto delle reali esigenze, delle aspettative degli

ambienti sociali nei quali gli atti dellʼUnione sono destinati a produrre i propri effetti.

Il Consiglio può respingere una proposta della Commissione, essendo a ciò sufficiente che non si formi, nello stesso

Consiglio, la maggioranza (o, lʼunanimità) richiesta per lʼadozione dellʼatto. Ma ove il Consiglio voglia modificare il testo

proposto dalla Commissione può farlo solo allʼunanimità. Tale regola tende ad accrescere lʼautorità della proposta in quanto

presumibilmente espressione dellʼinteresse generale rappresentato dalla Commissione.

Il potere della Commissione di modificare l'originaria proposta può essere esercitato per tenere conto delle possibilità di

consenso delle altre due istituzioni, il Parlamento e il Consiglio, competenti nel procedimento decisionale; la Commissione,

cioè, può decidere una modifica per rendere più accettabile la proposta di tali istituzioni. Tuttavia, la Commissione può

usare tale potere per contrapporsi al Consiglio, per impedire lʼadozione di un emendamento, non gradito dalla stessa

Commissione, sul quale si profili il raggiungimento della unanimità nel Consiglio.

Il potere di modica della proposta sembra comportare anche il potere di ritirare la proposta, così impedendo lʼadozione

dellʼatto nella materia oggetto dell'originaria proposta.

51

6. La procedura legislativa ordinaria

La procedura legislativa ordinaria consiste nellʼadozione congiunte di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da

parte del parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione. Tale procedura, comunemente denominata

procedura di “codecisione” è regolata dallʼart. 294 TFUE. Essa, contemplata già dal c.d. progetto Spinelli che istituisce

lʼUnione europea, è stata introdotta dal Trattato di Maastricht del 1992 e successivamente modificata e ampliata più volte.

Nella codecisione di realizza una parti potestà legislativa fra Parlamento europeo e Consiglio.

La procedura in esame parte, come di consueto, con la proposta della Commissione, la quale è inviata simultaneamente dal

Parlamento europeo e al Consiglio, così da favorire un confronto tra le due istituzioni; lʼinvio contemporaneo della proposta

al Parlamento e al Consiglio esprime, inoltre, la posizione di eguaglianza fra tali istituzioni.

Sulla proposta della Commissione si svolge una “Prima lettura” da parte del Parlamento europeo e del Consiglio.

Anzitutto il Parlamento adotta la sua posizione e la trasmette al Consiglio; se quest'ultimo l'approva lʼatto è adottato nel

testo convenuto dalle due istituzioni; in caso contrario il Consiglio adotta la sua posizione e la trasmette al Parlamento,

informandolo esaurientemente delle proprie motivazioni. Anche la Commissione informa esaurientemente il Parlamento

della sua posizione.

A questo punto si apre la fase della “Seconda lettura”, che può condurre ai seguenti risultati. Entro tre mesi dalla

comunicazione della posizione del Consiglio il Parlamento può approvare tale posizione del Consiglio e, in questo caso,

lʼatto è adottato nel testo formulato dal Consiglio; a tale ipotesi è equiparata quella in cui il Parlamento, sempre entro i tre

mesi, non si sia pronunciato (silenzio-assenso). Al contrario, entro il suddetto termine, il parlamento può respingere la

posizione del Consiglio a maggioranza dei suoi membri e lʼatto si considera definitivamente non adottato. Infine il

Parlamento può proporre, sempre a maggioranza dei suoi membri, emendamenti alla posizione del Consiglio; il testo così

emendato è trasmesso al Consiglio e alla Commissione, che formula in proposito un parere. In questʼultimo caso il

Consiglio svolge anchʼesso una seconda lettura. Se entro tre mesi dal ricevimento degli emendamenti il Consiglio,

deliberando a maggioranza qualificata, approva tutti gli emendamenti del Parlamento lʼatto è approvato, ovviamente come

emendato dal Parlamento. Se, invece, il Consiglio non approva tutti gli emendamenti il Presidente del Consiglio, dʼintesa

con il Presidente del parlamento, convoca entro sei settimane un comitato di conciliazione. In questa fase il Consiglio solo

allʼunanimità può approvare emendamenti sui quali la Commissione abbia espresso parere negativo.

Nel caso di dissenso tra il Parlamento europeo e il Consiglio in merito agli emendamenti proposti dal primo si svolge una

fase di “conciliazione”, aperta con la convocazione del comitato di conciliazione, composto dai membri del Consiglio o dai

loro rappresentati e da altrettanti rappresentanti del Parlamento. Tale comitato deve cercare di giungere a un accordo su un

testo comune, approvato a maggioranza qualificata dei membri (o loro rappresentanti) del Consiglio e a maggioranza dei

rappresentanti del Parlamento. Alla ricerca dellʼaccordo contribuisce, in veste di conciliatore, la Commissione, che cerca di

favorire un ravvicinamento fra le posizioni delle altre due istituzioni. Nella ricerca di un accordo, il comitato di

conciliazione si base sulle posizioni del Parlamento europeo e del Consiglio in seconda lettura.

Si noti come in questa fase, come in quella successiva di eventuale adozione dellʼatto, viene meno la regola secondo la

quale solo allʼunanimità il Consiglio può modificare la proposta della Commissione, posto che il Consiglio vota a

maggioranza qualificata. Ciò denota che il cuore della procedura consiste nella ricerca di un atto condiviso tra il Parlamento

e il Consiglio, ed è quindi lʼaccordo tra questi due istituzioni che assume carattere decisivo, mentre la Commissione si pone,

in un certo senso, al loro servizio. Se entro sei settimane dalla sua convocazione il comitato di conciliazione non approva un

progetto comune, lʼatto in questione si considera non adottato e la procedura si chiude definitivamente. Se un progetto

comune è approvato si apre la fase della “Terza lettura”. Entro ulteriori sei settimane il Parlamento europeo (a maggioranza

dei voti espressi) e il Consiglio (a maggioranza qualificata) possono adottare lʼatto in questione in base al progetto comune

del comitato di conciliazione, lʼatto, quindi, è definitivamente adottato. In mancanza di decisione (anche di una sola di tali

istituzioni) lʼatto si considera non approvato.

I termini di tre mesi e di sei settimane previsti dallʼart. 294 possono essere prorogati, rispettivamente di un mese e di due

settimane, al massimo, su istanza del Parlamento europeo o del Consiglio.

7. Le procedure legislative speciali

Lʼart. 289, par. 2, TFUE contempla anche la possibilità di procedure legislative differenti dalla codecisione regolata

dallʼart. 294, procedure qualificate come speciali.

“Nei casi specifici previsti dai trattati, l'adozione di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del

Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio o da parte di quest'ultimo con la partecipazione del Parlamento

europeo costituisce una procedura legislativa speciale”.

Nelle procedure legislative speciali il rapporto (paritario nella codecisione) tra Parlamento europeo e Consiglio viene a

sbilanciarsi a favore dellʼuna o dellʼaltra istituzione. In queste procedure legislative speciali è il Consiglio che, di norma,

assume il potere decisionale, mentre si affievolisce la posizione del Parlamento, il cui intervento si esprime con un parere o

con lʼapprovazione. Estremamente rara è lʼipotesi opposta, di adozione di un atto da parte del Parlamento europeo con la

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partecipazione del Consiglio. Può ricordarsi lʼart. 223, par. 2, TFUE, il quale prevede che il Parlamento europeo stabilisca,

mediante regolamenti, lo statuto e le condizioni generali per lʼesercizio delle funzioni dei suoi membri.

Se, come di regola avviene, la decisione spetta al Consiglio, in tali procedimenti la partecipazione del Parlamento europeo si

esprime, a seconda della disciplina prevista dalle norme dei Trattati, o con un parere o con un atto di approvazione. Nella

prima ipotesi rientrano numerose disposizioni del Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea, quali quella in materia di

sicurezza sociale e di protezione sociale dei cittadini europei che circolino o soggiornino nel territorio degli Stati membri;

quella sulle modalità di voto nelle elezioni comunali e al Parlamento europeo dei cittadini europei in Paesi diversi dal

proprio; quella per lʼadozione di direttive in materia di tutela dei cittadini allʼestero; quello in materia di movimenti di

capitali nei riguardi di Paesi terzi ecc.

La consultazione del Parlamento è prescritta come obbligatoria e i conseguenti pareri emanati dal Parlamento sono

qualificati, pertanto, obbligatori. Nei testi originari dei Trattati europei la procedura di consultazione obbligatoria era la

regola più diffusa e rappresentava il massimo potere attribuito al Parlamento europeo in materia legislativa. La modestia di

tale potere determinava il deficit democratico della costruzione europea. Oggi, il parere obbligatorio rappresenta una

eccezione, sebbene non rara, rispetto alla procedura legislativa ordinaria della codecisione. Il parere obbligatorio comporta

che il Consiglio è giuridicamente vincolato a chiedere al Parlamento europeo il parere sul progetto di atto, presentato dalla

Commissione, prima di assumere la propria decisione. Tuttavia, lʼobbligo del Consiglio riguarda solo la consultazione del

Parlamento, ma esso resta poi del tutto libero di accettare o meno il parere dello stesso Parlamento.

L'obbligo del Consiglio di consultare il Parlamento europeo comporta che, in caso di mancata consultazione, lʼatto

eventualmente emanato dal Consiglio sia illegittimo per “violazione delle forme sostanziali”. E esso potrà essere dichiarato

nullo dalla Corte di giustizia. La procedura di parere obbligatorio implica, inoltre, che il Parlamento europeo venga

consultato nuovamente se lʼoriginaria proposta, sulla quale esso aveva già espresso il suo parere, sia stata sostanzialmente

modificata, dalla Commissione o dallo stesso Consiglio. È evidente, infatti, che affinché la consultazione abbia una

effettiva utilità, essa deve riguardare lʼoggetto reale sul quale il Consiglio dovrà successivamente decidere.

Lʼobbligo di riconsultazione si pone solo quando la modifica dellʼiniziale proposta sia sostanziale, quando che essa sia

realmente mutata rispetto a quella già esaminata dal Parlamento; non occorre, invece, procedere alla riconsultazione se le

modifiche presentino carattere puramente tecnico, o di metodo, o integrino o specifichino il testo iniziale.

È poi da considerare che, sia pure eccezionalmente, il Consiglio può emanare lʼatto in assenza del parere del Parlamento

qualora questʼultimo ritardi eccessivamente nel darlo. Invero, non può escludersi che il Parlamento usi il suo potere

consultivo come arma di pressione verso il Consiglio, al fine di indurlo a conformarsi alla propria posizione o, ad impedire

lʼadozione di un atto non gradito, rinviando o omettendo lʼemanazione del parere. Un tale atteggiamento sarebbe però in

contrasto con il principio di leale cooperazione.

Lʼaltra forma di partecipazione del Parlamento europeo alle procedure legislative speciali è rappresentata dalla sua

approvazione della decisione del Consiglio. Fra le ipotesi più significative possiamo ricordare lʼadozione dei provvedimenti

contro le discriminazioni, il completamento dei diritti dei cittadini dellʼUnione, la definizione delle disposizioni relative

allʼelezione del Parlamento europeo, ecc.

Abbastanza frequente è la prescrizione dell'approvazione del Parlamento europeo al di fuori dellʼadozione di atti legislativi,

per esempio nella constatazione di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui allʼart.

2 TUE, per certe ipotesi di revisione dei Trattati ai sensi dellʼart. 48 TUE, per lʼammissione di nuovi membri.

Lʼapprovazione del Parlamento europeo sostituisce, i virtù del Trattato di Lisbona, il preesistete atto dello stesso Parlamento

denominato “parere conforme”. L'approvazione precede lʼemanazione dellʼatto del Consiglio. In sostanza, lʼatto del

consiglio è adottato validamente solo se il Parlamento lo abbia precedentemente approvato. Lʼapprovazione comporta un

potere determinante del Parlamento, il quale può impedire lʼadozione dellʼatto esercitando una sorta di diritto di veto. Tale

potere, poi, ha una natura esclusivamente negativa, potendo essere esercitato solo al fine di impedire che lʼatto in questione

sia adottato. Il Parlamento, invece, a differenza della procedura legislativa ordinaria di codecisione, non può incidere in

senso propositivo sul contenuto dellʼatto, in quanto è estraneo alla sua elaborazione. Inoltre, la votazione unanime,

solitamente prescritta per il Consiglio, tende a spostare il baricentro della procedura dalla ricerca di unʼintesa tra il

Consiglio e il Parlamento alla ricerca di un accordo tra gli stati membri del Consiglio.

8. La conclusione di accordi internazionali e la competenza dellʼUnione europea

Lʼultimo procedimento interistituzionale da considerare è quello si stipulazione da parte dellʼUnione europea di accordi

internazionali con Stati terzi o con organizzazioni internazionali. La materia, di per sè, ricade sotto la regolamentazione del

diritto internazionale generale, quale risulta codificato da note convenzioni multilaterali concluse su impulso delle Nazioni

Unite, in particolare la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati.

Accanto alle norme di diritto internazionale generale, i Trattati pongono una propria disciplina concernente la competenza a

stipulare dellʼUnione, il processo di stipulazione e il ruolo che in esso hanno le diverse istituzioni, gli effetti giuridici degli

accordi nellʼordinamento dellʼUnione. Tale normativa profondamente innovativa rispetto a quella vigente anteriormente al

Trattato di Lisbona, rappresenta in larga misura il riconoscimento normativo della giurisprudenza della Corte di giustizia.

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Questa aveva già interpretato in maniera sensibilmente evolutiva le norme precedenti, giungendo ad affermare una

competenza generale dellʼUnione europea a concludere accordi internazionali in tutte le materie di propria competenza.

Lʼart. 300 del Trattato sulla Comunità europea, vigente sino allʼentrata in vigore del Trattato di Lisbona, dettava la

disciplina sulla conclusione degli accordi della Comunità con riferimento a “quando le disposizioni del presente Trattato

prevedano le conclusioni di accordi tra la Comunità e uno o più Stati ovvero unʼorganizzazione internazionale”. Varie

disposizioni del Trattato sula Comunità europea, ampliate a seguito delle successive modifiche dello stesso, contemplavano

accordi internazionali della Comunità. Contrariamente a quanto suggeriva la lettera del citato art. 3000, il quale induceva a

riconoscere una competenza della Comunità a concludere accordi solo nei casi espressamente previsti dal Trattato, la Corte

di giustizia aveva da tempo elaborato la teoria del parallelismo delle competenze (interne ed esterne), in base alla quale la

Comunità doveva considerarsi provvista della competenza a concludere accordi internazionali in tutte le materie nelle quali

avesse la competenza a dettare norme sul piano interno dellʼordinamento comunitario.

I principi normativi sui quali la Corte fondava tale competenza erano rappresentati dal riconoscimento della personalità

internazionale della Comunità europea, dalla teoria dei poteri impliciti e dallʼobbligo di leale cooperazione tra gli Stati

membri e la Comunità. Dopo aver ricavato dalla personalità la capacità di concludere accordi internazionali, la Corte di

giustizia ha affermato che la Comunità aveva la competenza a stipulare accordi in ogni materia nella quale avesse la

competenza a emanare atti normativi al proprio interno. In mancanza di tale competenza a stipulare, gli Stati membri,

concludendo accordi con Stati terzi, avrebbero potuto pregiudicare la normativa emanata dalla Comunità: pertanto la

competenza a stipulate tendeva a concentrarsi progressivamente nelle sole mani della Comunità.

Successivamente la Corte, ribadendo il parallelismo delle competenze, ha mostrato di non ritenere più necessaria, ai fini

della competenza a concludere accordi, la previa emanazione di una normativa interna. La Corte ha poi precisato che la

possibilità di concludere accordi ancor prima di emanare norme interne è ammissibile solo nellʼipotesi “in cui la

competenza interna può essere esercitata soltanto contemporaneamente alla competenza esterna, quando cioè è necessaria la

conclusione di un accordo internazionale per realizzare determinati obiettivi del Trattato che non possono essere raggiunti

mediante lʼinstaurazione di norme autonome”.

Il Trattato di Lisbona ha sostanzialmente recepito tale giurisprudenza. Lʼart.

216, par. 1, TFUE dichiara infatti:

“L'Unione può concludere un accordo con uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali qualora i trattati lo

prevedano o qualora la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare, nell'ambito delle politiche dell'Unione,

uno degli obiettivi fissati dai trattati, o sia prevista in un atto giuridico vincolante dell'Unione, oppure possa incidere su

norme comuni o alterarne la portata”. Questo articolo rinvia alle disposizioni dei Trattati che espressamente prevedono la

conclusione di accordi, come quella in materia di politica commerciale; quella in materia di cooperazione allo sviluppo,

quella in materia di cooperazione economica, finanziaria e tecnica; quella in materia di cooperazione in tema di ricerca e

sviluppo tecnologico; quella in materia di politica ambientale. Esso contempla, inoltre, la competenza dellʼUnione a

concludere accordi quando ciò sia previsto da un atto giuridicamente vincolante emanato dalla stessa Unione.

La norma in esame mostra poi di accogliere la teoria giurisprudenziale del parallelismo: essa, infatti, dispone che lʼUnione

possa concludere un accordo quando ciò sia necessario per raggiungere un obiettivo fissato dai Trattati nellʼambito delle

politiche dellʼUnione, quindi in tutte le materie nelle quali lʼUnione abbia il potere di emanare la propria normativa interna

nonché quando la conclusione di un accordo sia idoneo a incidere o modificare norme comuni già emanate dallʼUnione.

9. La competenza esclusiva o concorrente dellʼUnione europea

Alla competenza dellʼUnione a concludere accordi internazionali fa riferimento anche lʼart. 3, par. 2, TFUE, relativo alle

competenze esclusive dellʼUnione. Esso dichiara: “l'Unione ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi

internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell'Unione o è necessaria per consentirle di

esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata”.

Tale articolo non implica che la competenza dellʼUnione a concludere accordi sia sempre esclusiva, con definitiva perdita di

tale competenza degli Stati membri. In realtà va osservato che spesso le norme del Trattato sul funzionamento dellʼUnione

europea, nel prevedere la possibilità di concludere accordi, dichiarano espressamente che la competenza dellʼUnione non

esclude quella degli Stati membri (per esempio in materia di politica ambientale, di cooperazione alla sviluppo, di

cooperazione economica, finanziaria e tecnica e in materia di regime monetario o valutario). In questi casi non previsti dai

Trattati (ai quali lʼart. 3, par. 2 non fa riferimento) la competenza a concludere accordi non appartiene in via esclusiva

allʼUnione, ma ha natura concorrente con quella degli Stati membri. Inoltre, lʼart. 3, par. 2 va interpretato in maniera

conforme alla giurisprudenza della Corte di giustizia, che è alla base della normativa inserita in materia del Trattato di

Lisbona.

Alla luce di tale giurisprudenza e, in particolare, del principio del parallelismo delle competenze, recepito dallʼ art. 3, par. 2,

TFUE (nella parte in cui fa riferimento alla conclusione, da parte dellʼUnione, di accordi che sia necessaria “per consentirle

di esercitare le sue competenze a livello interno”), deve ritenersi che questo principio operi non solo quale fondamento della

competenza dellʼUnione a concludere accorsi, ma anche per stabilire se tale competenza sia esclusiva o meno. In altri

termini, dove la competenza interna dellʼUnione sia esclusiva (come del settore dellʼunione doganale, nella conservazione

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delle risorse biologiche marine, ecc.), altrettanto sarà esclusiva la competenza a concludere accordi internazionali, salva la

possibilità che la stessa Unione utilizzi gli Stati membri a concludere accordi. Nelle altre materie, di competenza

concorrente, il potere dellʼUnione di concludere accordi internazionali coesiste con quello degli Stati membri. Peraltro,

anche nelle materie di competenza concorrente, in linea con la giurisprudenza formatasi anteriormente allʼintroduzione

dellʼart. 3, par. 2, TFUE, gli Stati membri devono esercitare i propri poteri in modo da non compromettere i fini

dellʼUnione, in omaggio al principio della leale cooperazione. Inoltre, i poteri degli Stati membri vengono progressivamente

a ridursi mano a mano che lʼUnione emana norme interne nelle varie materie. Pertanto, sebbene glia articoli del Trattato

prevedano una competenza a stipulare concorrente dellʼUnione e degli Stati membri, lʼemanazione di disposizioni interne

da parte dellʼUnione trasforma progressivamente tale competenza in esclusiva. Questo principio trova oggi riconoscimento

normativo nellʼart. 3, par. 2. TFUE, nella parte in cui dichiara che la competenza dellʼUnione per la conclusione di accordi è

esclusiva “nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata”.

10. Gli accordi misti

Il contenuto di un accordo può riguardare materie differenti, lʼuna appartenente alla competenza esclusiva dellʼUnione,

l’altra a quella concorrente; o, addirittura, materie comprese solo parzialmente nella competenza nella competenza

dellʼUnione, per i resti essendo invece completamente estranee a tale competenza e rientrando in quella a stipulare dei soli

Stati membri. In casi del genere è da tempo invalsa la prassi di stipulare degli accordi “misti”, i quali sono negoziati e

sottoscritti sia dallʼUnione che dagli Stati membri e richiedono non solo una decisione dellʼUnione, ma anche la ratifica

degli Stati membri. Questa pratica consente di eliminare in radice il problema di determinare in quale misura lʼaccordo

rientri nella competenza dellʼUnione o degli Stati membri. Inoltre essa assicura la valida stipulazione dellʼaccordo,

scongiurando il rischio che la volontà di impegnarsi sul piano internazionale sia manifestata da un soggetto (a seconda dei

casi, lʼUnione o gli Stati membri) privo di competenza.

La prassi degli accordi misti può rispondere anche ad esigenze diverse da quelle concernenti la definizione delle rispettive

competenze dellʼUnione e degli Stati membri. In passato la formula dellʼaccordo misto era spesso dovuta alla

indisponibilità di Stati terzi a riconoscere l'Unione in quanto tale o, alla richiesta di tali Stati di avere quali contraenti gli

Stati membri dellʼUnione, non solo questʼultima. Successivamente il ricordo alla prassi degli accordi misti è stato voluto,

invece, proprio dagli Stati membri, restii a consentire allʼUnione di gestire da sola le relazioni esterne e preoccupati di

salvaguardarne le proprie prerogative di fonte alla tendenza ad un continuo ampliamento della competenza esclusiva

dellʼUnione.

La prassi degli accordi misti è stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.

Di fatto la maggior parte degli accordi multilaterali dellʼUnione è costituita da accordi misti.

Gli accordi misti determinano, tuttavia, anche alcune difficoltà e inconvenienti. Anzitutto la necessità della ratifica degli

Stati membri, oltre alla decisione del Consiglio dellʼUnione, per la conclusione dellʼaccordo può implicare notevoli ritardi;

per rimediare a tale eventualità solitamente gli accordi misti prevedono la loro applicazione in via provvisoria. Gli accordi

misti determinano, inoltre, anche problemi di coordinamento tra lʼUnione e gli Stati membri, ed è quindi importante

definire, anche nei confronti degli Stati terzi contraenti, in quale misura i diritti e gli obblighi nascenti dallʼaccordo misto si

ripartiscano tra lʼUnione e gli Stati membri. Sebbene la materia oggetto dellʼaccordo rientri nella competenza, anche

esclusiva, dellʼUnione, la partecipazione di questʼultima può essere preclusa dal fatto che lʼaccordo sia aperto solo a Stati,

non anche ad organizzazioni. Ciò accade, per esempio, per accordi adottati nellʼambito di organizzazioni internazionali,

quale lʼOIL (Organizzazione internazionale del lavoro), o dalla conferenza dellʼAja di diritto internazionale privato.

11. La procedura di stipulazione degli accordi dellʼUnione europea e i loro effetti giuridici

Per quanto riguarda la conclusione degli accordi internazionali dellʼUnione europea lʼart. 218 TFUE prevede il

procedimento generale, mentre varianti solo contemplate riguardo a specifiche categorie di accordi, come quelli

commerciali o quelli in materia di cambi e di regime monetario o valutario; regole specifiche poste peraltro nello stesso art.

218 riguardano anche la conclusione di accordi in materia di politica estera e di sicurezza comune.

Il procedimento generale inizia con una raccomandazione della Commissione (o dellʼAlto rappresentante dellʼUnione per

gli affari esteri e la politica di sicurezza, se lʼaccordo previsto riguarda esclusivamente o principalmente tale materia) rivolta

al Consiglio affinché autorizzi lʼavvio dei negoziati. Il Consiglio, che detiene i principali poteri nella stipulazione degli

accordi, in quanto “autorizza l'avvio dei negoziati, definisce le direttive di negoziato, autorizza la firma e conclude gli

accordi”, se accoglie la raccomandazione, adotta una decisione che autorizza lʼavvio dei negoziati e designa, in funzione

della materia dellʼaccordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato. Il negoziatore agisce sotto il

controllo dello stesso Consiglio, il quale può impartirgli direttive e designare un comitato speciale che deve essere

consultato nella conduzione dei negoziati. Originariamente, i questa fase non era prevista alcuna partecipazione del

Parlamento europeo. Ora lʼart. 218, par. 10, TFUE dispone che esso è immediatamente e pienamente informato in tutte le

fasi della procedura di stipulazione. Inoltre, il Regolamento interno del parlamento dispone che il parlamento venga

esaurientemente informato dalla Commissione, ancor prima dellʼapertura dei negoziati, sulla proposta del mandato a

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negoziare e che esso possa chiedere al Consiglio di non autorizzare lʼapertura dei negoziati finché non si sia pronunciato su

tale proposta.

La decisione di concludere lʼaccordo spetta al Consiglio nel quale, quindi, si concentra la competenza a stipulare in nome

dellʼUnione. Sia la firma che la decisione di concludere lʼaccordo dono decise su proposta del negoziatore.

La conclusione può avvenire in forma specifica, mediante la semplice firma da parte della persona delegata dal Consiglio, o

in forma solenne, con una decisione o un regolamento del Consiglio. Quando si segue la forma solenne, la determinazione

del Consiglio di procedere alla forma può essere accompagnata da una decisione di applicazione provvisoria dellʼaccordo.

Una volta eseguita la determinazione del Consiglio di concludere lʼaccordo (con la firma o con lʼadozione di una decisione

o regolamento), alla controparte è comunicato che sono state adempiute le formalità necessarie per la conclusione

dellʼaccordo. La sua entrata in vigore avviene poi secondo le norme di diritto internazionale in materia.

Per quanto riguarda il sistema di votazione del Consiglio, questo delibera di regola con la maggioranza qualificata; delibera

invece allʼunanimità quando lʼaccordo riguarda un settore per il quale è richiesta lʼunanimità per lʼemanazione di atti sul

piano interno dellʼUnione, per gli accordi di associazione, gli accordi di cooperazione economica, finanziaria e tecnica con

gli Stati candidati allʼadesione, lʼaccordo di adesione alla Convenzione europea dei diritti dellʼuomo, alcuni tipi di accordi

commerciali, gli accordi sui tassi di cambio dellʼeuro nei confronti delle valute dei Paesi terzi.

Nel procedimento di conclusione degli accordi internazionali il ruolo del Parlamento si esprime, a seconda dei casi, con la

sua preventiva approvazione o consultazione. Esso, invece, resta sostanzialmente estraneo al procedimento quando

lʼaccordo riguardi esclusivamente la politica estera e di sicurezza comune. Lʼapprovazione del Parlamento europeo è

richiesta nei casi seguenti:

• Accordi di associazione;

• Accordo sull'adesione dell'Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà

fondamentali;

• Accordi che creano un quadro istituzionale specifico organizzando procedure di cooperazione;

• Accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli per l'Unione;

• Accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria oppure la procedura legislativa

speciale qualora sia necessaria l'approvazione del Parlamento europeo. In caso d'urgenza, il Parlamento europeo e il

Consiglio possono concordare un termine per l'approvazione”.

Lʼart. 218 prevede che il Consiglio possa attribuire una sia pur limitata competenza a stipulare al negoziatore. Infatti,

allʼatto della conclusione di un accordo, il Consiglio può abilitare il negoziatore ad approvare a nome dellʼUnione le

modifiche dellʼaccordo se questʼultimo ne preveda lʼadozione con una procedura semplificata o da parte di un organo

istituiti dallʼaccordo stesso. Per quanto riguarda lʼeventuale sospensione di un accordo, la decisione spetta al Consiglio, su

proposta della Commissione o dellʼAlto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, mentre non è previsto

alcun intervento del Parlamento europeo.

Una parziale competenza a stipulare accordi a norme dellʼUnione può riconoscersi anche alla Commissione e allʼ Alto

rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza comune. Alla Commissione e allʼAlto rappresentante fa

riferimento lʼart. 220 TFUE. Sulla base della corrispondente disposizione del Trattato sulla Comunità europea (lʼart. 302), la

Commissione poteva concludere accordi con altre organizzazioni di contenuto essenzialmente amministrativo e

organizzativo. Oggi la competenza della Commissione va condivisa e coordinata con quella dellʼAlto rappresentante, che

dovrebbe prevalere quando ciò si trovi nella materia della politica estera e di sicurezza comune.

La Commissione, inoltre, ha cercato di utilizzare a proprio profitto il principio del parallelismo, affermato dalla Corte di

giustizia per il riconoscimento di una competenza a stipulare dellʼUnione in tutti i settori nei quali ha la competenza ad

emanare disposizioni sul piano interno.

Gli accordi internazionali dellʼUnione sono subordinati al rispetto delle disposizioni dei Trattati, disposizioni che essi non

possono modificare né abrogare. Ciò risulta con chiarezza dallʼart. 218, par. 11, il quale stabilisce che “uno Stato membro,

il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la

compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della Corte, l'accordo previsto non può entrare

in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati”.

Il parere richiesto dalla Corte di giustizia riguarda la compatibilità tra il contenuto dellʼaccordo e quello dei Trattati.

Sebbene la competenza della Corte si esprima con un parere, esso vincola le istituzioni. Infatti, ove la Corte accerti

lʼincompatibilità dellʼaccordo con i Trattati, esso può essere concluso solo dopo averlo modificato, o dopo avere modificato

gli stessi Trattati

Per quanto riguarda gli effetti giuridici degli accordi internazionali dellʼUnione, lʼart. 216, par. 2, TFUE, dispone che “gli

accordi conclusi dall'Unione vincolano le istituzioni dell'Unione e gli Stati membri”.

Ciò implica che tali accordi, oltre ad obbligare lʼUnione nei confronti degli altri contraenti in base alla norma di diritto

internazionale generale pacta sunt servanda, entrano a far parte dellʼordinamento dellʼUnione, vincolando le istituzioni a

rispettarli nello svolgimento delle proprie funzioni. Lʼefficacia di tali accordi nellʼordinamento dellʼUnione non richiede

alcun atto da parte dellʼUnione di adattamento o di esecuzione, ma avviene in maniera immediata e automatica, non appena

lʼaccordo entra in vigore sul piano internazionale.

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L'obbligatorietà degli accordi conclusi dallʼUnione anche per gli Stati membri determina una efficacia degli stessi per tali

Stati, senza bisogno di alcun atto statale di firma o di ratifica (salvi gli accordi misti), né di atti statali di adattamento o di

esecuzione al proprio interno. Anche se in dottrina si dubita che la conclusione di accordi dellʼUnione implichi la nascita di

obblighi degli Stati membri sul piano internazionale, secondo la Corte di giustizia obblighi degli Stati membri nei confronti

degli altri Stati contraenti sussistono, ma sembrerebbe che il loro fondamento non si collochi tanto nel diritto internazionale,

quanto piuttosto nello stesso ordinamento dellʼUnione, proprio in virtù della disposizione dellʼart. 216, par. 2.

Sembrerebbe, pertanto, che lʼesecuzione dellʼaccordo da parte degli Stati membri rappresenti lʼadempimento di un obbligo

interno derivante dal diritto dellʼUnione del quale lo stesso accordo è parte integrante.

CAPITOLO VII: LE FONTI DELLʼORDINAMENTO DELLʼUNIONE EUROPEA

1. Caratteri generali

Lʼordinamento giuridico dellʼUnione è riconducibile ad una pluralità di fonti.

In posizione primaria si pongono il Trattato sullʼUnione europea (TUE) e il Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea

(TFUE), i quali hanno lo stesso valore giuridico. Sullo stesso piano di fonte primaria di diritto dellʼUnione si collocano, poi,

i protocolli e gli allegati ai Trattati i quali ne costituiscono parte integrante.

Gli stessi Trattati, in particolare il Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea, prevedono, inoltre, un sistema di fonti,

rappresentate dagli atti obbligatori che le istituzioni europee hanno il potere di emanare; tali fonti - regolamenti, direttive,

decisioni - sono dette di diritto derivato, o secondario, dellʼUnione e danno vita alla c.d. legislazione dellʼUnione.

Fra i Trattati e le fonti di diritto derivato dellʼUnione sussiste un sicuro rapporto gerarchico, nel senso che le seconde sono

subordinate ai primi. Queste fonti, di regola, non possono modificare o abrogare le disposizioni contenute nei trattati

istitutivi.

Riguardo allʼUnione europea la subordinazione delle fonti di diritto derivato risulta espressamente dallʼart. 263, 2° comma,

TFUE, il quale pone tra le cause d’invalidità degli atti dellʼUnione, suscettibili di determinare il loro annullamento, la

violazione dei Trattati. È evidente, quindi, che la validità e lʼefficacia degli atti dell'Unione, costituenti fonti di diritto

derivato, sono subordinate al rispetto dei Trattati e che questi si pongono a un rango gerarchicamente sovraordinato nei

confronti di tali atti.

Se il rapporto di superiorità fra i Trattati e le fonti di diritto derivato è netto e indubitabile, meno nitido è il quadro generale

del sistema delle fonti dellʼordinamento dellʼUnione. Anzitutto, infatti, non esiste, di regola, una gerarchia tra le fonti di

diritto derivato. Così come non è possibile rinvenire alcun rapporto gerarchico tra gli atti tipici dellʼUnione (regolamenti,

direttive, decisioni), i quali vanno posti sul medesimo piano, sia che costituiscano atti a portata generale, come i

regolamenti, sia che rappresentino atti particolari, diretti a specifici destinatari, come le decisioni. Parimenti i Trattati non

consentono di operare alcuna distinzione, quanto alla loro forza giuridica, tra atti adottati con la procedura legislativa

ordinaria, atti adottati con procedure legislative e atti emanati dal Consiglio senza lʼobbligo di consultare il Parlamento

europeo. Resta poi da definire non solo la collocazione nellʼordinamento dellʼUnione, ma anzitutto il valore giuridico di una

pluralità di atti “atipici”, talvolta previsti dai Trattati, altre volte nati nella prassi.

Il sistema del diritto dellʼUnione si arricchisce, poi, con una serie di altre fonti, quali gli accordi conclusi dallʼUnione con

Stati terzi e organizzazioni internazionali, il diritto internazionale generale e i principi generali del diritto dellʼUnione. È

compito dellʼinterprete individuare il loro rango allʼinterno dellʼordinamento dellʼUnione e si tratta di un compito non

agevole, specie riguardo ai principi generali; questi, infatti, sono una creazione della giurisprudenza europea e

rappresentano una categoria alquanto eterogenea, che neppure la Corte di giustizia ha precisamente sistemato nella cornice

dellʼordinamento dellʼUnione.

2. I Trattati sullʼUnione europea e sul funzionamento dellʼUnione europea

Riguardo ai Trattati va osservato che essi, da un punto di vista formale, sono accordi internazionali soggetti, in principio,

alle regole di diritto internazionale generale concernenti la conclusione, la validità, lʼefficacia, lʼinterpretazione dei trattati.

È frequente, tuttavia, nella giurisprudenza della Corte di giustizia lʼaffermazione secondo la quale tali Trattati rappresentano

la “costituzione” dellʼUnione. I Trattati, da un punto di vista giuridico formale, non si distinguono dagli altri trattati

internazionali, né si sottraggono alle norme di diritto internazionale generale in materia; ma, da un punto di vista sostanziale

e contenutistico, nella misura in cui danno vita a un nuovo ente, lʼorganizzazione internazionale, stabilendo i suoi fini

istituzionali, le regole di funzionamento, lʼapparato istituzionale, i poteri, tendono a porsi come lʼatto costituzionale di base

di tale ente.

Il carattere costituzionale dei Trattati relativi allʼUnione europea è, peraltro, accentuato in quanto essi danno vita ad un ente

sopranazionale a favore del quale gli Stati membri hanno rinunciato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani e il cui

ordinamento giuridico riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche il loro cittadini.

Nel quadro di una concezione costituzionale dei Trattati è stata adombrata la possibilità di individuare taluni principi

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“supercostituzionali”, i quali non sarebbero modificabili neppure mediante il procedimento di cui allʼart. 48 TUE

3. Lʼefficacia diretta delle disposizioni dei Trattati

Considerando i Trattati come istitutivi di un ordinamento giuridico che riconosce quali soggetti anche gli individui discende

che le loro disposizioni sono idonee ad attribuire a questi ultimi diritti soggettivi. Qualora tali disposizioni abbiano un

contenuto chiaro, preciso e incondizionato e, quindi, la loro applicazione non sia subordinata all'emanazione di ulteriori atti

da parte degli Stati membri o delle istituzioni europee, esse sono munite di efficacia diretta. Tale efficacia implica che le

suddette disposizioni attribuiscano agli individui diretti che essi possono esercitare nellʼambito dellʼordinamento degli Stati

membri e per la cui tutela possono agire in via giudiziaria dinanzi ai tribunali statali. Lʼattribuzione di questi diritti avviene

in maniera diretta e automatica, a prescindere dalla volontà dello Stato membro interessato, o persino contro la sua volontà.

Norme del genere sono, ad esempio, quelle che pongono agli Stati membri un divieto, come il divieto di discriminazione per

ragioni di nazionalità.

Lʼefficacia diretta rappresenta non solo un mezzo per rafforzare la tutela dei singoli, i quali non sono legittimati a

promuovere un giudizio di infrazione a livello giudiziario europeo, in caso di violazione dei propri diritti da parte degli Stati

membri; ma anche uno strumento ulteriore di garanzia di rispetto del diritto dellʼUnione, nell'interesse della stessa Unione

europea.

Il Trattato di Lisbona ha dato un ulteriore riconoscimento normativo al principio dellʼefficacia diretta stabilendo, nellʼart.

19, par. 1, 2° comma, TUE, che “gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela

giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione”.

Lʼefficacia diretta che va riconosciuta alle disposizioni dei Trattati deve essere tenuta distinta da un altro concetto giuridico

proprio del diritto dellʼUnione, quello di applicabilità diretta. Questʼultima esprime il carattere, proprio di numerose

disposizioni dei Trattati, di essere applicabili allʼinterno degli Stati membri senza bisogno di alcun atto statale di esecuzione

o di adattamento. Essa dipende dl contenuto “autosufficiente”, o “self-executing” della disposizione, cioè dalla circostanza

che essa abbia un contenuto chiaro, preciso e incondizionato, ma tende a mettere in luce una qualità della norma, la non

necessità, cioè, di un provvedimento statale di attuazione. Lʼefficacia diretta, invece, pone in evidenza il profilo soggettivo,

concernente il diritto dei singoli nascente da una norma siffatta e la sua azionabilità immediata dinanzi ai giudici nazionali.

Lʼefficacia diretta di una disposizione dei Trattati opera anzitutto nei rapporti tra i singoli e gli Stati membri, o altri enti

pubblici. Si parla, in questo caso, di effetti diretti “verticali”, termine che evoca la posizione di soggezione del singolo

rispetto alla pubblica autorità. Tale effetto diretto sorge sia nei casi in cui espressamente i Trattati attribuiscono ai singoli in

diritto che gli Stati sono tenuti a rispettare, sia nellʼipotesi in cui il diritto soggettivo sia riconoscibile implicitamente in

corrispondenza a un obbligo diretto formalmente agli Stati membri. Lʼeffetto diretto verticale va riconosciuto dalle

competenti autorità statali e comporta che il diritto derivante dalla norma del Trattato sia fatto valere anzitutto nei confronti

della pubblica amministrazione. Nel caso in cui questʼultima si rifiuti di soddisfare il diritto in questione, lʼinteressato ha

diritto a rivolgersi allʼautorità giudiziaria per ottenere tutela giudiziale del suo diritto.

Le disposizioni dei Trattai sono invocabili anche nei rapporti tra privati; sotto questo profilo esse sono produttive di effetti

diretti “orizzontali”.

Il riconoscimento di effetti diretti orizzontali comporta che le disposizioni in questione conferiscano non solo diritti ai

singoli, ma anche obblighi. I lavoratori hanno il diritto a non subire discriminazioni per ragioni di nazionalità o di sesso, ma

il datore di lavoro ha l’obbligo di non operare distinzioni di nazionalità.

4. I principi generali del diritto dellʼUnione europea

Frutto della giurisprudenza della Corte di giustizia è un’altra categoria di fonti del diritto dellʼUnione costituita dai principi

generali. Non si tratta dei principi che sono contenuti in espresse disposizioni dei Trattati, come, per esempio, il principio di

sussidiarietà, il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, il principio di libera circolazione delle merci o

delle persone, ecc. Tali principi, per quanto possano qualificarsi come generali o fondamentali, rappresentano il contenuto

di disposizioni dei Trattati, e quindi sono già vigenti come diritto primario.

Al contrario, i principi generali elaborati dalla Corte di giustizia, innanzitutto, costituiscono principi autonomi

dellʼordinamento dellʼUnione che si ispirano agli ordinamenti degli Stati membri; in secondo luogo, sono destinati ad

operare nellʼambito generale del diritto dellʼUnione.

I principi generali del diritto dellʼUnione hanno un'origine pretoria in quanto non derivano da specifiche disposizioni, ma da

una giurisprudenza sostanzialmente creativa della Corte di giustizia. Si tratta, quindi, di principi non scritti, alquanto

eterogenei, la cui presenza nellʼordinamento dellʼUnione è di solito affermata dalla Corte senza una particolare

preoccupazione di giustificarne lʼorigine o il fondamento e senza neppure motivare il proprio modo di procedere. Ciò non

significa che questi principi siano frutto di pronunce estemporanee della Corte, ma al contrario, essi sono il risultato di varie

metodologie da essa utilizzate.

Alcuni principi sono dichiarati dalla Corte sulla base di una riflessione che essa compie in merito ai caratteri propri

dellʼordinamento dellʼUnione.

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Un altro fondamentale principio legato ai caratteri propri dellʼordinamento dellʼUnione è quello del primato del diritto

dellʼUnione rispetto a quello interno degli Stati membri, in virtù della quale eventuali norme interne incompatibili con il

predetto diritto sarebbero prive di efficacia.

Certi principi sono stati proclamati dalla Corte partendo da specifiche disposizioni dei Trattati. Un esempio può rinvenirsi

nel principio di leale cooperazione il quale, stabilito dallʼart. 10 del Trattato sulla Comunità, è apparso alla Corte quale

manifestazione di un principio generale non scritto applicabile ai rapporti fra le istituzioni europee e persino a carico delle

istituzioni e a favore degli Stati membri.

Un ulteriore esempio è rappresentato dal principio di eguaglianza.

Altre volte la Corte giunge ad affermare dei principi generali a seguito di un raffronto tra gli ordinamenti degli Stati

membri. È questo il caso dei diritti fondamentali, i quali sono entrati a far parte del diritto dellʼUnione, grazie alla

giurisprudenza, in quanto tutelati da principi generali di tale diritto.

In altri casi, infine, la Corte considera principi generali del diritto dellʼUnione dei principi che trovano la loro fonte nella

logica giuridica, o in esigenze di giustizia sostanziale, e che, in quanto tali, appaiono di carattere pressoché universale,

vigenti quindi in ogni ordinamento giuridico, compreso quello dellʼUnione. Si pensi, per esempio, al principio della certezza

del diritto o a quelli del legittimo affidamento.

Non è semplice individuare la precisa collocazione ed il rango dei principi generali nellʼordinamento dellʼUnione europea,

anche perché la Corte, che è lʼartefice del loro riconoscimento, non sembra si sia preoccupata di tale questione.

Sembra, inoltre, che essi tendano a porsi sullo stesso piano dei Trattati, quindi, al livello del diritto primario dellʼUnione.

Ciò appare chiaro per quei principi che la Corte desume dai caratteri generali del diritto dellʼUnione o da specifiche

disposizioni dei Trattati; ma anche gli altri principi, corrispondenti a norme di logica giuridica o di giustizia sostanziale o

ricavati da una comparazione degli ordinamenti degli Stati membri, sono utilizzati dalla Corte quale parametro di legittimità

degli atti dellʼUnione e, pertanto, si pongono ad un livello gerarchicamente superiore al diritto derivato. I principi generali si

pongono quali fonti non scritte di diritto dellʼUnione e, in quanto tali, integrano il sistema giuridico dellʼUnione,

completandolo e colmandone le eventuali lacune. Essi, pertanto, operano anzitutto nei confronti delle istituzioni europee, le

quali sono tenute a rispettarli nello svolgimento della loro attività; di conseguenza un atto dellʼUnione che sia in contrasto

con un principio generale deve considerarsi invalido e suscettibile di annullamento da parte della Corte di giustizia. I

principi generali operano anche nei confronti degli Stati membri; nellʼipotesi in cui questi violino i suddetti principi sarà

esperibile nei loro riguardi la procedura dʼinfrazione. Si pensi, per esempio, al principio di proporzionalità.

Ma i principi generali svolgono anche unʼimportante funzione interpretativa rispetto alle altre norme dellʼUnione. Un

principio che opera essenzialmente ai fini della interpretazione di altre norme di diritto dellʼUnione è il principio

dellʼeffetto utile, secondo il quale ogni norma deve essere interpretata in modo che possa raggiungere nella maniera più

efficace il proprio obiettivo. Cercare di definire un elenco dei principi generali del diritto dellʼUnione non pare opportuno in

quanto lʼelenco rischierebbe di risultare incompleto, oltre che suscettibile di variazioni, di pari passo con gli sviluppi della

giurisprudenza della Corte. Tra gli altri vi è il principio di eguaglianza, desunto dalla giurisprudenza della Corte, sulla base

delle specifiche norme del Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea che vietano le discriminazioni per determinati

motivi, come la nazionalità, il sesso, o in specifici settori.

Un altro principio frequentemente richiamato, che può considerarsi un principio universale di giustizia sostanziale, è quello

della certezza del diritto. Esso non è chiaramente definito nella giurisprudenza, ma varie e numerose sono le sue

applicazioni. A riguardo, la Corte ha dichiarato che “la legislazione dellʼUnione devʼessere certa e la sua applicazione deve

essere prevedibile per gli amministrati”.

Connesso a tale principio è quello del legittimo affidamento che implica la tutela delle aspettative che gli interessati nutrano

ragionevolmente, in quanto suscitate dal comportamento delle stesse istituzioni europee. Secondo la Corte, “il principio

della tutela del legittimo affidamento implica che lʼistituzione dellʼUnione interessata abbia fornito agli interessati precise

assicurazioni che hanno fatto sorgere in capo a loro fondate aspettative”

Numerosi altri principi generali sono individuabili nella giurisprudenza europea, come il principio di democrazia, il

principio di buona fede, il principio di solidarietà degli Stati membri, quello della forza maggiore, ecc.

Va poi menzionata lʼintera categoria dei diritti fondamentali, oggetto di principi generali di diritto dellʼUnione e

corrispondenti alle principali convenzioni internazionali di protezione dei diritti umani.

5. Gli accordi internazionali dellʼUnione europea

In una posizione intermedia fra i Trattati (ai quali sono equiparabili i principi generali) e gli atti di diritto derivato si

collocano gli accordi internazionali conclusi dallʼUnione (inclusi i c.d. accordi misti), i quali contribuiscono parte

integrante dellʼordinamento dellʼUnione sin dal momento della loro entrata in vigore.

Tali accordi di per sé non hanno la forza giuridica necessaria per modificare i Trattati: essi possono essere stipulati solo se e

quando sia stata assicurata la loro compatibilità con gli stessi Trattati mediante la loro formale revisione. È quindi evidente

che gli accordi conclusi dallʼUnione europea si trovano ad un livello gerarchicamente inferiore ai Trattati. La loro eventuale

contrarietà ai Trattati determina la loro illegittimità, suscettibile di sindacato giurisdizionale da parte della Corte di giustizia,

sindacato formalmente rivolto non già allʼaccordo, ma allʼatto dellʼUnione.

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Per quanto riguarda i rapporti tra gli accordi internazionali conclusi dallʼUnione europea e il diritto derivato, cioè gli atti

emanati dalla stessa Unione, lʼart. 216, par. 2, TFUE induce a ritenere che tali atti siano subordinati agli accordi. Se, infatti,

tali accordi vincolano le istituzioni dellʼUnione, le istituzioni, per rispettare tale vincolo, devono astenersi dallʼadottare atti

che siano in contrasto con i suddetti accordi. Anche la Corte di giustizia ha dichiarato che gli accordi dellʼUnione

prevalgono sugli atti emananti dalle sue istituzioni, deducendone un obbligo di interpretare questi ultimi in conformità dei

primi. Lʼulteriore conseguenza della subordinazione degli atti dellʼUnione a detti accordi risiede nella invalidità di atti posti

in violazione degli accordi dellʼUnione e nella loro annullabilità da parte della Corte di giustizia. Questʼultima ha peraltro

condizionato la pronuncia di invalidità dei suddetti atti incompatibili con un accordo alla circostanza che le disposizioni di

questʼultimo fossero produttive di effetti diretti. Gli accordi stipulati dallʼUnione, entrando automaticamente a far parte

dellʼordinamento dellʼUnione europea, sono suscettibili di produrre effetti diretti per i singoli, cioè di creare diritti, e

corrispondentemente obblighi, che i singoli possono direttamente esercitare, eventualmente anche in via giudiziaria dinanzi

ai giudici degli Stati membri. Tale efficacia diretta è riconoscibile solo se le norme dellʼaccordo abbiano un contenuto

chiaro, incondizionato e preciso, che non richieda, per la sua applicazione, lʼemanazione di alcun atto ulteriore.

6. Gli accordi conclusi tra gli Stati membri

Oltre agli accordi internazionali dellʼUnione, occorre prendere in considerazione anche gli accordi conclusi da Stati

membri, nei loro reciproci rapporti ovvero nei riguardi di Stati terzi (in materie rientranti nellʼambito dellʼUnione europea).

Rispetto agli accordi tra Stati membri va osservato, anzitutto, che quelli preesistenti alla loro partecipazione, dapprima, alla

Comunità, poi allʼUnione europea, se incompatibili con obblighi derivanti dai rispettivi Trattati istitutivi, sono destinati ad

essere abrogati dalle norme di questi ultimi, alla stregua delle regole di diritto internazionale generale concernenti la

successione nel tempo fra trattati aventi contenuto incompatibile.

Per quanto riguarda gli accordi tra Stati membri conclusi successivamente alla loro partecipazione alla Comunità e

allʼUnione, anche su di essi è destinato a prevalere il diritto dellʼUnione. Lʼeventuale stipulazione di accordi in contrasto

con gli obblighi derivanti da tale diritto, inoltre, potrebbe dare luogo all'apertura di una procedura di infrazione nei loro

confronti. Peraltro, ove un contrasto non sussista, gli Stati membri restano liberi di concludere accordi anche in materie di

competenza dellʼUnione, a condizione che tale competenza non sia esclusiva. In questʼultimo caso, infatti, gli Stati, in

principio, non potrebbero più adottare propri atti, né singolarmente, né mediante un accordo.

In materia di competenza non esclusiva dell'Unione e senza l'assunzione di obblighi configgenti con quelli derivanti dal

diritto dellʼUnione, gli Stati membri possono concludere accordi, nulla vieta che lʼaccordo sia stipulato anche in seno al

Consiglio. È, infatti, possibile che gli Stati membri adottino atti denominati “atti degli Stati membri riuniti in sede di

Consiglio”, i quali non hanno la natura giuridica di atti dellʼUnione, imputabili al Consiglio, ma restano imputabili

collettivamente agli Stati membri.

La possibilità di adottare atti del genere è stata riconosciuta dalla Corte di giustizia, la quale ha negato che tali atti siano

“dellʼunione”, escludendo di conseguenza la propria competenza a sindacarne la legittimità.

Talvolta gli stessi Trattati rinviano ad accordi degli Stati membri. Per esempio, le norme relative alla nomina di componenti

di istituzioni, quali i giudici e gli avvocati generali della Corte di giustizia e i giudici del Tribunale, le quali stabiliscono che

tali nomine avvengano di comune accordo da parte dei governi degli Stati membri. Avendo una funzione integrativa

dellʼordinamento dellʼUnione, è da ritenere che accordi siffatti (conclusi in forma semplificata) facciano parte di tale

ordinamento, ponendosi, peraltro, in una posizione subordinata rispetto alle disposizioni dei Trattati che li prevedono.

Una specifica norma del Trattato sulla Comunità, lʼart. 293, disponeva, inoltre, che gli Stati membri avviassero tra loro

negoziati in materie quali la tutela delle persone, l'eliminazione della doppia imposizione fiscale, il reciproco

riconoscimento ed esecuzione delle decisioni giudiziarie e delle sentenze arbitrali.

7. Gli accordi tra Stati membri e Stati terzi

Non fanno parte del diritto dellʼUnione europea gli accordi conclusi da Stati membri con Stati terzi, anteriormente alla

conclusione del Trattato sulla Comunità economica europea, ovvero anteriormente allʼadesione degli Stati membri alla

Comunità e allʼUnione europea. A tali accordi fa espresso riferimento lʼart. 351 TFUE, il quale, al 1° comma, contenente

una “clausola di salvaguardia”, fa salvi gli accordi disponendo che: “le disposizioni dei trattati non pregiudicano i diritti e

gli obblighi derivanti da convenzioni concluse, anteriormente al 1° gennaio 1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente

alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall'altra”.

Tali convenzioni, dunque, continuano ad applicarsi; uno Stato membro, quindi, può sottrarsi agli obblighi derivanti dai

Trattati relativi allʼUnione europea nella misura in cui ciò sia necessario per adempiere gli obblighi prescritti da una

convenzione conclusa anteriormente con uno Stato terzo. Lo stesso art. 351 TFUE, oltre a stabilire, al 3° comma, che gli

Stati membri devono tenere conto del contesto complessivo dell’ordinamento dellʼUnione nell’applicare le convenzioni in

discorso, prescrive agli Stati membri di adoperarsi per eliminare le incompatibilità stesse e i Trattati.

Quest’obbligo dello Stato comporta, anzitutto, che i suoi giudici debbano interpretare la convenzione preesistente in

maniera conforme al diritto dellʼUnione. Infatti, come la Corte ha stabilito “il giudice ha lʼobbligo di verificare se

un’eventuale incompatibilità fra il Trattato e la convenzione bilaterale possa essere evitata fornendo a questʼultima

un’interpretazione conforme al diritto dellʼUnione e nel rispetto del diritto internazionale”.

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Inoltre lo Stato membro deve ricevere tutti i mezzi, consentiti del diritto internazionale, per eliminare l'incompatibilità, in

particolare rinegoziando con lo Stato terzo la convenzione in questione.

8. Il diritto internazionale generale

Anche il diritto internazionale generale deve essere ricompreso nellʼambito dell’ordinamento dellʼUnione. Esso viene in

rilievo nei rapporti tra lʼUnione europea e gli Stati terzi e le altre organizzazioni internazionali. LʼUnione, essendo un

soggetto di diritto internazionale, è tenuta a rispettare gli obblighi e può esercitare i diritti derivanti dal diritto internazionale

consuetudinario.

La Corte di giustizia non ha mancato di riferirsi alle norme di diritto internazionale generale quali norme giuridiche da esse

applicabili, sempre che riguardino situazioni di competenza dellʼUnione.

In una sentenza del 2011, la Corte ha individuato un fondamento testuale della obbligatorietà per l’Unione del diritto

internazionale generale nell’art. 3, par.5, TUE, ai sensi del quale l’Unione contribuisce alla rigorosa osservanza e allo

sviluppo del diritto internazionale, inteso nella sua globalità e quindi comprensivo del diritto internazionale consuetudinario.

Dalla giurisprudenza si desume, inoltre, che il diritto internazionale generale fa parte direttamente dell'ordinamento

dellʼUnione, con la conseguenza che esso rappresenta un parametro giuridico alla cui stregua valutare la legittimità degli atti

emanati dalle sue istituzioni.

Le norme di diritto internazionale generale possono venire in rilievo anche nelle relazioni interne fra gli Stati membri o, più

in generale, fra i soggetti dell’ordinamento dellʼUnione.

Si applica ad esempio la regola per cui un mutamento fondamentale delle circostanze può determinare la sospensione o

l’estinzione di un accordo, così come il principio per cui gli accordi non possono nuocere né giovare a terzi.

A parte le norme imperative del diritto internazionale generale (ius cogens), le quali sono inderogabili dai trattati, compresi i

Trattati relativi allʼUnione e il diritto derivato e la cui violazione comporterebbe la nullità delle disposizioni convenzionali

configgenti, per il resto il diritto generale è derogabile dagli stessi Trattati, i quali sono destinati a prevalere sulle norme

consuetudinarie. È infatti derogabile il principio di autotutela, che permette ad uno Stato di reagire con contromisure ad un

comportamento lesivo dei propri diritti.

9. Gli atti dellʼUnione europea e i loro requisiti

Per quanto riguarda il diritto derivato, cioè il complesso degli atti emanabili dalle istituzioni dellʼUnione, lʼart. 288 TFUE

elenca e definisce cinque categorie di atti: regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. Solo i primi tre

costituiscono propriamente fonti del diritto dellʼUnione, in quanto sono atti obbligatori. Tale qualità, invece, non può

riconoscersi agli altri due, i quali sono definiti in termini puramente negativi (“le raccomandazioni e i pareri non sono

vincolanti”).

Tutti questi atti possono considerarsi “tipici”, in quanto lʼart. 288 ne stabilisce in via generale i loro caratteri ed effetti. Essi,

tuttavia, non esauriscono lʼintera gamma degli atti dellʼUnione, che è molto vasta e variegata, comprendendo una serie di

atti che vengono definiti “atipici” e che presentano caratteri differenti da quelli definiti dallʼart. 288. Di tali atti atipici

occorre, di volta in volta, individuare gli effetti giuridici.

Per quanto riguarda gli atti atipici, il TFUE stabilisce alcune regole e requisiti generali, concernenti i tre atti obbligatori,

cioè i regolamenti, le direttive e le decisioni. Lʼart. 288 definisce così tali atti: “Il regolamento ha portata generale. Esso è

obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri.

La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la

competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi.

La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi”.

Come stabilito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, lʼidentificazione dellʼatto, cioè la sua appartenenza all’una o

allʼaltra categoria, non va fatta semplicemente in base al suo nomen iuris, cioè alla sua denominazione ufficiale, ma in

considerazione del suo contenuto e dei suoi caratteri sostanziali.

Il TFUE dichiara: “Gli atti giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o

pareri previsti dai Trattati”.

Come la Corte di giustizia ha affermato più volte, l’obbligo di motivazione è diretto, da un lato, a consentire alla Corte

stessa di esercitare il proprio controllo, ripercorrendo l’iter logico seguito dalle istituzioni, dall’altro a fare conoscere agli

interessatile ragioni del provvedimento adottato, anche al fine, eventualmente, di tutelare i propri. La motivazione deve

riguardare in maniera specifica il rispetto del principio di sussidiarietà.

La motivazione è contenuta nei “considerando” che, in ogni atto, precedono la parte dispositiva contenuta nei suoi articoli.

Legato all’obbligo di motivazione è l’ulteriore obbligo, pur non espressamente richiesto dai Trattati, di indicare la base

giuridica dell’atto, cioè la disposizione dei Trattati che conferisce il corrispondente potere di emanare l’atto in questione.

L’indicazione della base giuridica dell’atto, più significativamente, consente di stabilire l’efficacia di tale atto e di valutare

la sua legittimità, per esempio, in rapporto alla procedura seguita per la sua adozione. Può accadere che una disposizione

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preveda la procedura legislativa ordinaria, invece l’altro la consultazione obbligatoria del Parlamento. Si sceglierà la base

giuridica che prevede il procedimento che garantisce meglio le prerogative del Parlamento. In questo caso quindi si sceglie

l’atto che prevede il procedimento di codecisione.

La scelta dell’una o dell’altra base giuridica non è demandata al mero convincimento delle istituzioni interessate, ma deve

fondarsi su elementi oggettivi, verificabili in via giudiziaria, quali, in particolare, il contenuto e lo scopo dell’atto in

questione.

Ove non sia possibile individuare una competente principale, quando, cioè, l’atto riguardi inscindibilmente due materie

contemplate dai Trattati, occorre che l’altro, in principio, si fondi su tutte le disposizioni rilevanti e abbia, quindi, i requisiti,

da esse prescritti. Non sempre tale applicazione cumulativa è possibile.

Il criterio di scelta, in questa ipotesi, è rappresentato dalla base giuridica che contempla il procedimento che garantisce in

misura maggiore le prerogative del PE.

L’individuazione della specifica disposizione in base alla quale emanare un atto vale, naturalmente, anche a stabilire quale

tipo di atti può essere adottato dalle istituzioni nel settore contemplato dalla predetta disposizione. Spesso le norme dei

Trattati prevedono gli atti che possono essere adottati e, in questi casi, non può essere emanato un atto differente da quelli

previsti.

La scelta delle istituzioni non è del tutto libera: “Qualora i Trattati non prevedano il tipo di atto da adottare, le istituzioni lo

decidono di volta in volta, nel rispetto delle procedure applicabili e del pricipio di proporzionalità”.

Secondo quest’ultimo, nella scelta dell’atto, le istituzioni dovranno preferire un tipo di atto il meno intrusivo possibile, per

esempio una direttiva piuttosto che un regolamento, o una raccomandazione, a preferenza di un atto giuridicamente

obbligatorio.

Il problema si pone in termini particolarmente acuti nei rapporti tra le disposizioni di carattere, per così dire, generale

concernenti i poteri, le procedure e gli atti adottabili e quelle “specifiche”, relative alla politica estera e di sicurezza comune.

L’individuazione della base giuridica di un atto all’interno del settore della politica estera e di sicurezza comune, in luogo di

disposizioni collocate negli altri settori dell’adozione dell’UE, determina l’azione di atti differenti da quelli tipici dell’UE,

l’impiego di procedure non legislative, con decisioni prese dal Consiglio europeo o dal Consiglio, un ruolo modesto e

marginale del PE, l’esclusione, di regola, del controllo giudiziario della Corte di giustizia.

Nell’ipotesi di un atto che persegua contemporaneamente più obiettivi o abbia più componenti, senza che uno si possa

considerare accessorio rispetto all’altro, la Corte aveva escluso, l’applicazione simultanea delle disposizioni relative alla

politica estera e di sicurezza comune e di quelle comunitarie. Quindi essa aveva affermato che, sempre in tale ipotesi, l’UE

non poteva emanare un atto sulla base di una disposizione concernente la politica estera e di sicurezza comune poichè

comportava che: “l’Unione non può ricorrere a un fondamento normativo rientrante nella PESC per adottare disposizioni

rientranti ugualmente in una competenza attribuita dal Trattato CE alla Comunità”.

Il quadro normativo appare mutato a seguito del Trattato di Lisbona. L’articolo 40 TUE pone sullo stesso piano le

competenze dell’UE previste dalle disposizioni di carattere “generale” e quelle contemplate dalle disposizioni “specifiche”

relative alla politica estera e di sicurezza comune. I rapporti fra tali competenze sono delineati come rapporti di reciproco

rispetto: la politica estera e di sicurezza comune non può invadere il campo delle competenze “generali” dell’UE, così come

l’esercizio di queste ultime non può invadere l’ambito proprio della politica estera e di sicurezza comune. Di fronte a questo

nuovo rapporto riteniamo che debba applicarsi, anzitutto, il criterio consolidato nella giurisprudenza, della individuazione di

una componente principale dell’atto ai fini della sua collocazione su una determinata base giuridica.

Si tratta di un criterio consolidato nella giurisprudenza della Corte di giustizia e utilizzato per la individuazione della base

giuridica di un atto, anche a prescindere dalla distinzione in pilastri dell’azione dell’UE.

Al contrario, quando sia impossibile rinvenire nell’atto da emanare una componente principale la previsione di un rapporto

reciproco e pari rispetto tra le competenze “generali” dell’UE e la politica estera e di sicurezza comune non consente di

affermare alcuna preferenza per l’applicazione delle disposizioni, relative, rispettivamente, alle competenze “generali” o

alla politica estera di sicurezza.

L’unica soluzione praticabile è quella di emanare due atti distinti, uno sulla base di una disposizione in materia di politica

estera e di sicurezza comune, l’altro ai sensi della pertinente disposizione concernente le competenze “generali” dell’UE.

L’art. 297 TFUE reca disposizioni concernenti la loro firma e le forme di pubblicità.

Per quanto riguarda la firma, gli atti adottati secondo la procedura legislativa ordinaria sono firmati dal Presidente del PE e

dal Presidente del Consiglio. Quelli adottati con procedura legislativa speciale sono firmati dal Presidente dell’istituzione

che li ha adottati. Gli atti non legislativi adottati sotto forma di regolamenti, direttive o decisioni sono firmati dal Presidente

dell’istituzione che li ha adottati. Circa le forme di pubblicità e le condizioni per l’entrata in vigore degli atti dell’UE il

TFUE dispone che tali atti legislativi sono pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’UE ed entrano in vigore nella data da essi

stabilita oppure, in mancanza di data, Il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione (periodo vacatio legis). Identica

disciplina si applica agli atti non legislativi consistenti in regolamenti, direttive rivolte a tutti gli Stati membri e decisioni

che non designano i destinatari.

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Solo per serie ragioni un atto può entrare in vigore lo stesso giorno della pubblicazione, mentre in principio, non è

ammissibile una sua efficacia retroattiva, anteriore, cioè alla stessa pubblicazione, in quanto in contrasto con il principio

della certezza di diritto.

Le altre direttive, cioè quelle rivolte solo ad alcuni Stati membri, e le decisioni che hanno un destinatario specifico sono

notificate ai loro destinatari ed entrano in vigore in virtù di tale notificazione. Nella prassi anche tali atti, solitamente, sono

pubblicati nella serie L della Gazzetta ufficiale.

Infine va ricordato che gli atti obbligatori possono contenere sanzioni pecuniarie nei confronti persone fisiche o giuridiche.

In queste ipotesi essi hanno efficacia di titolo esecutivo. La formula esecutiva è apposta dall’autorità nazionale designata da

ciascuno Stato membro (in Italia il ministro per gli affari esteri), la quale verifica solo l’autenticità del titolo. L’esecuzione

forzata è regolata dalle norme di procedura civile vigenti nello Stato nel cui territorio è effettuata.

10. I regolamenti

Il regolamento ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile in ciascuno degli

Stati membri.

Emergono così i tre caratteri distintivi di tale atto, la generalità, l’integrale obbligatorietà e la diretta applicabilità, che ne

mettono in luce la natura normativa. L’analogia con la legge statale è confermata dalla forma di pubblicità, cioè dalla

pubblicazione in una raccolta ufficiale quale la Gazzetta dellʼUnione europea, richiesta per la sua entrata in vigore.

◆ La portata generale del regolamento implica che esso si applichi ad una fattispecie definita in termini generali e astratti

e si rivolga, pertanto, ad una serie indeterminata di destinatari, conferendo ad essi diritti o obblighi giuridici. Tale carattere

differenzia il regolamento dalla decisione, la quale, al pari del primo, è integralmente obbligatoria, almeno nella sua

originaria connotazione, quando, cioè, è rivolta verso specifici destinatari predeterminati. Il giudice europeo ha affermato

che: “il regolamento ha portata generale ed è direttamente applicabile in ciascuno Stato membro, mentre la decisione è

obbligatoria solo per i destinatari. La caratteristica essenziale della decisione consiste nella limitatezza dei destinatari ai

quali è diretta, mentre il regolamento, che ha natura essenzialmente normativa, è applicabile non già a un numero limitato di

destinatari, indicati espressamente oppure facilmente individuabili, bensì ad una o più categorie di destinatari determinate

astrattamente e nel loro complesso”.

Per la qualificazione di un atto quale regolamento risulta quindi decisivo che i suoi destinatari vengano individuati sulla

base di elementi oggettivi e non, al contrario, sulla base di qualità personali. In questʼultimo caso lʼatto, pur emanato nella

forma di un regolamento, dovrà considerarsi come una pluralità di decisioni individuali. Più problematica è la distinzione

dei regolamenti rispetto a quelle decisioni che non designano i destinatari e, pertanto, spiegano effetti integralmente

obbligatori verso una pluralità indeterminata di destinatari.

Ormai frequentemente lʼUnione europea emana regolamenti volti a stabilire misure contro specifiche persone fisiche o

giuridiche: un esempio è rappresentato dal congelamento di capitali e di altre risorse finanziarie di governanti o persone

sospettate di terrorismo. In questo caso, pur pregiudicando in maniera individuale i soggetti colpiti da tali misure, il

regolamento non perde la sua natura giuridica di atto di portata generale. Come ha chiarito il Tribunale. Regolamenti

siffatti, pur avendo uno specifico oggetto, cioè le misure contro determinate persone, si rivolgono ad una generalità

indeterminata di destinatari, in quanto vietano a chiunque di mettere a disposizione di tali persone capitali o risorse

finanziarie, e restano, pertanto, atti di portata generale.

La generalità del regolamento non va intesa, poi, come implicante necessariamente la sua applicazione in tutti gli Stati

membri. È, infatti, possibile che un regolamento sia emanato con riguardo ad un solo Stato, o che abbia una sfera territoriale

limitata di applicazione.

◆ La seconda caratteristica del regolamento risiede nella sua obbligatorietà integrale (“in tutti i suoi elementi”); essa

differenzia tale atto dalla direttiva, la quale ha una obbligatorietà limitata al risultato da raggiungere, mentre gli Stati

membri destinatari conservano la libertà di stabilire mezzi e forme dirette ad assicurare tale risultato. Come risulta dalla

giurisprudenza della Corte di giustizia, data lʼintegrale obbligatorietà dei regolamenti “è inammissibile che uno Stato

membro applichi in modo incompleto o selettivo un regolamento dellʼUnione”.

◆ La terza caratteristica del regolamento è data dalla sua applicabilità diretta (o immediata) negli Stati membri; e in tale

diretta applicabilità, si manifesta lʼaspetto essenziale della sopranazionalità. I regolamenti, infatti, esprimono la capacità

dellʼUnione europea di produrre una normativa che, superando il diaframma statuale, raggiunge direttamente i consociati,

creando per essi diritti e obblighi giuridici, e si impone a qualsiasi autorità, giudiziaria o amministrativa, che sia chiamata ad

applicarla. L'applicabilità diretta comporta che i regolamenti acquistano efficacia giuridica allʼinterno degli Stati membri al

momento stesso in cui, a seguito della pubblicazione dell Gazzetta ufficiale dellʼUnione europea, essi entrano in vigore ai

sensi dellʼordinamento dellʼUnione, senza che detti Stati nulla debbano fare per dare attuazione agli stessi, e nulla possano

fare per impedire tale efficacia. Tale carattere dei regolamenti esclude, infatti, la necessità di qualsiasi atto statale di

adattamento, recezione o attuazione. Al contrario, atti statali che fossero pur solo riproduttivi dei regolamenti, sarebbero

vietati.

63

In proposito, la Corte di giustizia ha dichiarato illegittima la prassi secondo la quale alcuni Stati usavano emanare atti

legislativi interni volti a dare attuazione ai regolamenti, il cui testo veniva riprodotto in tali atti statali. La Corte di giustizia

ha dichiarato illegittima tale prassi, sostenendo che “lʼefficacia diretta del regolamento implica che la sua entrata in vigore e

la sua applicazione nei confronti degli amministrati non necessitano di alcun atto di ricezione nel diritto interno”.

Tale prassi, non solo contrasta con la diretta applicabilità dei regolamenti, ma può anche pregiudicarne la simultanea entrata

in vigore in tutti gli Stati membri, in quanto lʼatto legislativo interno può determinare lʼentrata in vigore del regolamento

spostandola al momento di entrata in vigore dellʼatto statale. Inoltre, la riproduzione del regolamento in un atto legislativo

statale finisce per celare la natura europea della norma, camuffandola in legge statale.

Il carattere direttamene applicabile dei regolamenti non esclude che possano essere necessari o, comunque, opportuni,

ulteriori atti di esecuzione dellʼUnione. È anzi frequente che rispetto ad un regolamento diretto a disciplinare una data

materia seguano regolamenti di esecuzione, adottati dal Consiglio o dalla Commissione.

In via eccezionale il regolamento può richiedere perfino unʼattività statale di esecuzione. E ciò accade quando il

regolamento non sia pienamente self-executing, non contenga, cioè, una disciplina del tutto esaustiva e richieda la

determinazione di taluni elementi necessari per la sua pratica applicazione.

Oggi spesso i regolamenti prevedono una certa data per la loro entrata in vigore e una differente per la loro applicazione.

Questo per permettere che gli Stati adottino misure di esecuzione indispensabili ai fini di un’effettiva applicazione del

regolamento.

Lʼapplicabilità diretta dei regolamenti non significa soltanto che essi penetrano negli ordinamenti degli Stati membri senza

bisogno di alcun atto di adattamento, ma anche che essi sono idonei a creare diritti a favore dei singoli e obblighi a loro

carico. In altri termini, essi sono produttivi di effetti diretti, sia nei rapporti “orizzontali”, cioè tra privati, sia nei rapporti

“verticali”, tra i singoli e lo Stato.

Tale efficacia diretta comporta che il titolare del diritto nascente da un regolamento può esercitarlo nei confronti della

controparte, tenuta allʼobbligo corrispondente; e che, ove il diritto non venga spontaneamente soddisfatto, il titolare può

chiederne la tutela giudiziaria dinanzi al giudice nazionale.

11. Le direttive

La direttiva, come risulta della stessa definizione che ne dà lʼart. 288 TFUE, può essere destinata a tutti o a taluni Stati

membri (direttiva generale nel primo caso, e particolare nel secondo), ma è sempre rivolta a Stati, non ai singoli (o altre

entità).

La direttiva ha unʼefficacia parzialmente obbligatoria poiché, a differenza dei regolamenti e delle decisioni, vincola gli

Stati destinatari solo per i risultati da raggiungere, mentre riconosce una sfera di libertà a tali Stati in merito alla scelta dei

mezzi e delle forme necessarie per conseguire il risultato prescritto.

La direttiva appare un atto meno intrusivo nella realtà giuridica degli Stati membri e, quindi, più conforme sia al principio di

sussidiarietà, in quanto implica un intervento dellʼUnione solo nella misura nella quale gli scopo dei Trattati non siano

raggiungibili dai singoli Stati, sia a quello di proporzionalità, poiché si limita a porre un obbligo che non va al di là di

quanto le istituzioni europee ritengano necessario per il raggiungimento degli obiettivi dei Trattati.

A differenza del regolamento, la direttiva non è direttamente applicabile, ma acquista efficacia allʼinterno degli Stati

destinatari in via mediata, grazie ad atti statali che provvedono a dare attuazione alla direttiva e ad integrare il suo contenuto

normativo, dato che questo, di regola, è incompleto, limitandosi la direttiva a prescrivere lʼobiettivo, ma anche la forma e i

mezzi. Nella prassi, tuttavia, non sono mancati esempi di direttive che forniscono una disciplina esaustiva e completa della

materia, finendo per sottrarre agli Stati destinatari ogni sfera di libertà sui mezzi di attuazione. Tali direttive sono

denominate direttive dettagliate (o particolareggiate) e, in realtà, non corrispondono alla definizione che delle direttive

fornisce lʼart. 288, 3° comma, TFUE; a ragione, pertanto unʼautorevole dottrina ha dubitato della loro legittimità. Deve

riconoscersi, peraltro, che la Corte di giustizia non ha mai annullato direttive dettagliate, né i singoli Stati ne hanno

formalmente contestato la legittimità.

Le direttive stabiliscono il termine entro il quale gli Stati devo darvi attuazione. Tale termine può variare da pochi mesi ad

alcuni anni, in rapporto a diversi fattori valutati dalle istituzioni europee, quali ad esempio, lʼurgenza di raggiungere

lʼobiettivo o la difficoltà di realizzarlo, ecc. Prima della scadenza del termine la direttiva non è priva di effetti giuridici:

essa, in realtà, è già in vigore e determina un obbligo a carico degli Stati destinatari, anche se questi, ovviamente, non

possono considerarsi inadempienti nel caso in cui non abbiano ancora emanato le misure di attuazione della direttiva.

Lʼobbligo in questione (stand-still) consiste nel divieto di adottare misure che abbiano il risultato di rendere più difficile

lʼattuazione della direttiva.

Entro il termine prescritto dalla direttiva gli Stati destinatari hanno lʼobbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per

dare esecuzione alla direttiva nel proprio ordinamento; eventuali difficoltà che uno Stato incontrasse non lo esimono

dallʼinadempimento di tale obbligo, ma gli consentono al massimo di chiedere una proroga.

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Le misure adottate dagli Stati destinatari in esecuzione della direttiva vanno comunicate alla Commissione. Con riguardo

alle direttive adottate con una procedura legislativa, tale obbligo di comunicazione ha una sua autonomia rispetto

allʼobbligo di adottare le misure di attuazione. Il Trattato di Lisbona ha introdotto una norma che prevede che la

Commissione possa aprire una procedura dʼinfrazione contro lo Stato membro che non abbia adempiuto lʼobbligo di

comunicare le misure di attuazione di una direttiva del genere, chiedendo alla Corte di giustizia anche di comminare a tale

Stato il pagamento di una sanzione pecuniaria.

La scelta della forma delle misure rientra nella competenza degli Stati. Questi, peraltro, non hanno al riguardo una libertà

assoluta: esigenze di certezza del diritto impongono, infatti, agli Stati di emanare atti normativi che siano idonei a garantire

pienamente il risultato prescritto dalla direttiva.

Una volta che il termine sia scaduto senza che lo Stato abbia attuato correttamente la direttiva, esso è responsabile della

violazione dellʼart. 288 TFUE. Nei suoi confronti, pertanto, può essere esperita una procedura di infrazione ai sensi dellʼart.

258 o dellʼart. 259 TFUE; inoltre, a certe condizioni, è possibile richiedere il risarcimento dei danni che i singoli abbiano

subito a seguito di tale inadempimento.

Sebbene la direttiva abbia, per sua natura, un efficacia “mediata” negli Stati membri, richiedendo un atto statale di

recezione, la giurisprudenza della Corte di giustizia e quella statale, ha da tempo affermato che, a date condizioni ed entro

certi limiti, essa, pur non attuata dallo Stato membro destinatario, può produrre effetti diretti per i singoli all'interno di tale

Stato. Secondo tale giurisprudenza, qualora una direttiva abbia un contenuto sufficientemente chiaro e preciso, preveda per

gli Stati destinatari un obbligo incondizionato e sia diretta a conferire ai singoli un diritto, essa ha una diretta efficacia, cioè

è suscettibile di creare in capo ai singoli diritti da essi esercitabili ed eventualmente invocabili in giudizio dinanzi ai giudici

nazionali.

Lʼefficacia diretta richiede, anzitutto, che la direttiva (o una sua disposizione) sia sostanzialmente self-executing, abbia un

contenuto autosufficiente, completo, tale, cioè, da essere praticamente applicabile dal giudice nazionale anche in assenza di

una legge statale di attuazione. La presenza di un contenuto “chiaro e preciso” può riconoscersi, per esempio, in direttive

che stabiliscano un divieto o comportino lʼobbligo di abrogare una data normativa, o che consistano in direttive dettagliate.

La presenza di un siffatto contenuto “chiaro e preciso” può riconoscersi, in direttive che stabiliscono un divieto, o comportino

l’obbligo di abrogate una data normativa, o contengano una certa interpretazione di norme dell’UE preesistenti, o che

consistano in direttive “dettagliate”. Un ulteriore requisito è quello dell’obbligo incondizionato. Ciò significa non solo che

esso non richiede alcun atto ulteriore di esecuzione, ma anche, e principalmente, che il termine, per l’attuazione della direttiva

sia scaduto e lo Stato non l’abbia trasposta nel proprio ordinamento, o l’abbia trasposta in maniera inadeguata. Solo allora

l’obbligo derivante dalla direttiva può dirsi incondizionato; prima della scadenza, dunque la possibilità che la direttiva produca

effetti diretti per i singoli va senz’altro esclusa.

Chiarita la ratio dell’efficacia diretta delle direttive, la Corte ne desuma anche i limiti di tale efficacia. Dato che essa costituisce

una garanzia per i singoli e una sanzione contro lo Stato inadempiente, e dato che la direttiva crea solo per lo Stato, non anche

per i privati, l’obbligo di eseguirla, i diritti da essa derivanti possono essere invocati dai singoli solo nei confronti dello Stato,

non anche nei confronti di altri privati; questi ultimi, infatti, né sono destinatari di obblighi previsti dalla direttiva, né sono in

alcun modo inadempienti. In altri termini, le direttive possono avere solo un’efficacia diretta verticale ma non orizzontale.

Occorre, inoltre, precisare che l’effetto diretto verticale di una direttiva è anche “unilaterale”, nel senso che opera

esclusivamente a favore del singolo.

12. Le decisioni

Il terzo atto obbligatorio dellʼUnione europea, contemplato dallʼart. 288, 4° comma, TFUE, è la decisione. Essa è

qualificata come obbligatoria in tutti i suoi elementi e, sotto questo profilo, si differenzia dalla direttiva, che è vincolante

solo per quanto riguarda il risultato da raggiungere. Anteriormente al Trattato di Lisbona il secondo carattere distintivo della

decisione era rappresentato dalla sua “particolarità”, cioè dalla circostanza che essa era necessariamente diretta a uno (o più)

specifici destinatari. La nuova formulazione dellʼart. 288, 4° comma, consente che siano emanate decisioni prive di

indicazioni sui destinatari (“Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi”).

Ciò è rilevate ai fini delle forme di pubblicità della decisione. Premesso che, se adottate con una procedura legislativa, le

decisioni vanno sempre pubblicate nella Gazzetta ufficiale dellʼUnione europea ed entrano in vigore a seguito di tale

pubblicazione, le decisioni non legislative prive di destinatari sono pubblicate anchʼesse nella Gazzetta ufficiale. Quelle che

designano i destinatari, al contrario, sono notificate a questi ultimi e acquistano efficacia i virtù di tale notificazione.

Per quanto riguarda le decisioni rivolte a specifici destinatari, tali destinatari possono essere sia Stati membri

(eccezionalmente anche tutti gli Stati membri), sia persone fisiche o giuridiche.

Sempre riguardo alle decisioni particolari, è proprio la presenza di destinatari specifici che consente di distinguere tali

decisioni dai regolamenti che, invece, hanno una portata generale in quanto si rivolgono a una serie indefinita di destinatari.

Per quanto riguarda le decisioni che non designano i destinatari, esse restano in ogni caso obbligatorie in tutti i loro

elementi. I primi commenti al Trattato di Lisbona comprendono i questa categoria vari tipi di decisioni.

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In primo luogo si menzionano quelle che hanno quale oggetto la composizione di date istituzioni o altri organi,

come le decisione del Consiglio europeo sulle formazioni e sulla presidenza del Consiglio, o, quella del Consiglio

europeo sulla composizione del Parlamento europeo. Tuttavia parlare di atti obbligatori in tutti gli elementi non è

appropriato, non creano sono obblighi, sono atti organizzativi. Inoltre nella prassi sono inseriti nella GU nella

sezione “artti la cui pubblicazione non è obbligatoria”.

Alcuni autori ricomprendono tre le decisioni prive di designazione di specifici destinatari, anche decisioni

sostanzialmente normative di portata generale che, nella prassi, si erano diffuse già anteriormente al Trattato di

Lisbona per la previsione della disciplina di dettaglio di materie regolate da un regolamento o da una direttiva; altri

autori, invece, escludono tale possibilità, rilevando che decisioni di portata generale si confonderebbero con i

regolamenti. Sembrano comunque gli atti che meglio rientrano nella definizione.

Infine è stato affermato che le decisioni prive di specifichi destinatari comprenderebbero le decisioni in materia di

politica estera e di sicurezza comune. Tuttavia l’effetto obbligatorio risulta già dalle specifiche disposizioni, inoltre

queste disposizioni hanno già una regolamentazione distinta dalle discipline generali.

Si fa rientrare a volte anche la decisione del Consiglio che autorizza i negoziati, ma altri affermano che l’effetto

obbligatorio sia in realtà collegabile alla conclusione dell’accordo.

Per quanto riguarda gli effetti integralmente obbligatori delle decisioni, lʼart. 288, 4° comma, omette qualsiasi indicazione

in merito alla eventuale diretta applicabilità della decisione. Considerato che essa è obbligatoria i tutti i suoi elementi,

qualora sia indirizzata a Stati dipenderà dal contenuto della decisione stessa stabilire se essa richieda o meno lʼemanazione

di atti statali di esecuzione. Ma, in principio, dato il suo carattere tendenzialmente completo (derivante dalla obbligatorietà

in tutti i suoi elementi), deve presumersi che la decisione sia direttamente applicabile allʼinterno dello Stato destinatario.

Applicabili senza bisogno di atti statali sono poi le decisioni indirizzate a persone fisiche o giuridiche. Esse possono

contenere delle sanzioni di natura pecuniaria che hanno il valore di titolo esecutivo.

Riguardo al carattere solo “verticale” (invocabilità del diritto da parte del singolo nei confronti dello Stato) e anche

“orizzontale” (nei rapporti tra privati) dellʼeffetto diretto, è da ritenere che, in principio, la decisione sia invocabile nei

rapporti sia con i poteri pubblici che tra i privati. Infatti, tale carattere non si fonda, come per le direttive, sulla necessità di

tutelare i singoli contro lʼinadempienza dello Stato e di sanzionare tale inadempienza; ma esso è il riflesso del contenuto

tendenzialmente self-executing e completo della decisione, insito nel fatto che essa è obbligatoria in tutti i suoi elementi e

non contempla una sfera di discrezionalità degli Stati, o, in genere, dei destinatari.

13. Le raccomandazioni e i pareri

Lʼart. 288 TFUE, infine, al 5° comma contempla le raccomandazioni e i pareri, dei quali si limita ad affermare che non

sono vincolanti.

Nonostante lʼassenza di definizioni nella disposizione, è da ritenere che la raccomandazione sia una manifestazione di

volontà con la quale lʼistituzione che la emana chiede al destinatario, sia pure in maniera esortativa e non vincolante, di

tendere la condotta raccomandata. Il parere, invece, è una manifestazione di giudizio, un consiglio, dal quale è assente

lʼintento, proprio della raccomandazione, di sollecitare il destinatario a tenere un certo comportamento.

Per quanto riguarda le istituzioni competenti ad adottare raccomandazioni, lʼart. 292 TFUE attribuisce al Consiglio e alla

Commissione un potere generale di adottare tali atti, mentre dichiara che la Banca centrale europea adotta raccomandazioni

nei casi specifici previsti dai Trattati. Determinate disposizioni dei Trattati conferiscono il potere di emanare atti del genere

anche ad altre istituzioni ed organi. È poi diffusa lʼopinione che tutte le istituzioni avrebbero una competenza generale ad

adottare raccomandazioni. La stessa Corte di giustizia ha affermato che “le raccomandazioni sono in genere adottate dalle

istituzioni dellʼUnione quando queste non dispongono, in forza del Trattato, del potere di adottare atti obbligatori o quando

ritengono che non vi sia motivo di adottare norme più vincolanti”.

La raccomandazione può avere quali destinatari unʼistituzione ovvero Stati membri o anche persone fisiche o giuridiche.

Sebben sia priva di effetti obbligatori la raccomandazione fa parte del diritto dellʼUnione; di conseguenza essa ricade nella

competenza pregiudiziale della Corte di giustizia.

Talune disposizioni attribuiscono effetti giuridici (peraltro non vincolanti) a date raccomandazioni. Per esempio, se uno

Stato non si conforma alle raccomandazioni della Commissione volte ad evitare che la normativa che tale Stato intenda

emanare provochi una distorsione alla concorrenza, non si potrà chiedere agli altri Stati membri di modificare le loro

disposizioni nazionali per eliminare tale disposizione.

La Corte di giustizia, inoltre, ha dichiarato che le raccomandazioni sono produttive di un effetto giuridico, consistente nel

dovere dei giudici nazionali di prenderle in considerazione nella decisione delle cause ad essi sottoposte.

Bisogna poi attribuire alle raccomandazioni dellʼUnione lʼeffetto giuridico c.d. di liceità, generalmente riconosciuto alle

raccomandazioni dalle organizzazioni internazionali. Esso consiste in ciò che la condotta di uno Stato; cioè la

raccomandazione rende lecito un comportamenti che, in mancanza della raccomandazione, sarebbe lecito, poiché contrario

ad un obbligo giuridico.

66

Per quanto riguarda i pareri, è incerto che rientrino nella categoria enunciata i pareri interorganici, la cui efficacia giuridica

dipende dal procedimento nel quale si inseriscono. I pareri in questione sono piuttosto le manifestazioni di giudizio, di

opinione, che la Commissione, o altre istituzioni, possono emanare in una data materia o nei confronti di specifici

destinatari.

Nonostante lʼassenza di obbligatorietà dei pareri, talora specifiche disposizioni dei Trattati prevedono conseguenze

giuridiche in caso di inosservanza.

Deve tenersi poi conto della possibilità che, sotto il nomen iuris di parere, si celi un atto di diversa natura, quale una

decisione, idonea ad incidere sulla sfera giuridica del destinatario. La problematica, che si ricollega al criterio generale,

secondo il quale gli atti dellʼUnione vanno identificati sulla base del loro carattere sostanziale, ha una specifica rilevanza

per quanto riguarda lʼimpugnabilità dellʼatto dinanzi alla Corte di giustizia, inammissibile per i pareri, consentita, invece,

per le decisioni.

14. Gli atti atipici

Lʼart. 288 TFUE non esaurisce la gamma degli atti adottabili dallʼUnione europea. Gli atti diversi da quelli contemplati

dalla citata disposizione sono denominati, nel loro complesso, come atipici. Essi comprendono unʼestrema varietà di figure,

non sempre provviste di effetti giuridici, e rappresentano, specie quelli nati dalla prassi, ma privi di alcuna previsione

normativa, un elemento di incertezza giuridica, che può anche pregiudicare unʼadeguata tutela giudiziaria dei singoli. Dato

il carattere vario ed estremamente eterogeneo degli atti atipici, una loro classificazione sistematica non appare possibile.

Prescindendo dagli atti che, inserendosi in un procedimento interistituzionale non hanno una loro autonomia, ciò limitiamo,

pertanto, a raggrupparli in tre categorie: atti espressamente previsti da disposizioni dei Trattati che hanno a medesima

denominazione di uno di quelli tipici contemplati dallʼart. 288 TFUE, ma caratteri giuridici differenti; atti espressamente

previsti da disposizioni dei Trattati e aventi denominazioni (e caratteri) diversi da quelli tipici; infine, atti non contemplati

da alcuna disposizione dei Trattati e nati dalla prassi. Per questi ultimi lʼassenza di qualsiasi disposizione, che ne costituisca

specifico fondamento, rende particolarmente problematica lʼindividuazione dei loro effetti, che possono avere, a seconda

dei casi, valore giuridico o meramente politico.

◆ Riguardo alla prima categoria di atti si possono ricordare, per esempio, i regolamenti interni delle varie istituzioni e

organi. Essi non hanno nulla in comune con i regolamenti previsti dall’art. 288 TFUE e hanno una rilevanza meramente

interna all’organo che li adotta. Diversi, inoltre, possono essere i procedimenti di adozione degli stessi.

I regolamenti di procedura della Corte di giustizia e del Tribunale, a differenza dei predetti regolamenti interni delle

istituzioni politiche, hanno anche rilevanza esterna, poiché non si limitano a disciplinare l’organizzazione della Corte di

giustizia e del Tribunale, ma anche lo svolgimento del processo e pertanto si rivolgono a quanti abbiano titolo a partecipare

al processo.

Talvolta anche le norme dei regolamenti interni di altre istituzioni possono avere una rilevanza esterna, anzitutto quando

sono dirette a creare diritti a favore dei terzi, per esempio a garantire certezza del diritto e stabilità delle situazioni

giuridiche. A proposito poi delle direttive è evidente che sfuggono completamente alla definizione fornita dall’ART.

288 TFUE le direttive che il Consiglio può impartire al negoziatore in vista della conclusione di accordi internazionali.

L’atto che più frequentemente è menzionato dai Trattati è la decisione, con carattere in contenuti profondamente

differenziati. La considerazione di tali decisioni quali atti atipici o, quali decisioni tipiche rientranti nella nozione

dell’articolo, dipende dall’ambito della categoria della decisione che si ritiene sia configurata da tale disposizione.

◆ La seconda categoria di atti atipici è costituita da atti previsti nominativamente da disposizioni dei Trattati, ma non

inquadrabili tra quelli definiti nellʼart. 288. La materia dellʼunione monetaria offre esempi di atti del Consiglio, volti ad

accettare se gli Stati membri soddisfino le condizioni per il passaggio allʼadozione della moneta unica. Altro atto atipico del

genere può considerarsi quello del Presidente del Parlamento europeo con il quale constata che il bilancio è definitivamente

adottato. Vanno poi ricordati i programmi di azione in materia ambientale, con le connesse misure di attuazione, i

programmi pluriennali di cooperazione allo sviluppo, le misure di incentivazione nei riguardi degli Stati membri nel settore

dellʼoccupazione, in materia di istruzione, ecc. Gli atti che stabiliscono tali misure possono qualificarsi come risoluzioni

operative, in quanto le istituzioni, adottandoli, regolano la propria attività nei vari settori. Vi rientrano gli accordi inter

istituzionali tra Parlamento, Consiglio e Commissione chiamati a volte dichiarazioni comuni, scambi di lettere, codici di

condotta. Producono effetti obbligatori quando ciò corrisponde alla volontà delle istituzioni (se l’accordo è espressione del

principio di leale collaborazione).

◆ Esiste poi una gamma, ampia ed eterogenea, di atti nati nella prassi, ma privi di uno specifico fondamento nei Trattati.

Per quanto riguarda gli atti a rilevanza esterna, diretti, cioè, a soggetti diversi dalle istituzioni europee, possono considerarsi,

per esempio, le numerose risoluzioni che tali istituzioni sono solite emanare in varie materie e che, di regola hanno un

valore solo politico, così come le conclusioni sovente adottate dal Consiglio. Non è da escludere, tuttavia, che in certi casi,

atti del genere possano produrre effetti giuridici.

Varie e numerosi sono gli atti a rilevanza esterna della Commissione, quali libri verdi, libri bianchi, conclusioni, lettere,

comunicazioni (talvolta denominate linee-guida, orientamenti, codici di condotta ecc.).

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Essendo pacifica la loro subordinazione ai Trattati (come per gli atti dellʼUnione in genere), il fondamento del valore

vincolante delle suddette comunicazioni sembra risiedere, da un lato, nel principio di certezza del diritto, dallʼaltro, nella

tutela del legittimo degli interessati, come risulta dal riferimento allʼaccettazione degli Stati membri.

La precisa definizione degli eventuali effetti giuridici degli atti atipici risultanti dalla prassi è fatta dal giudice europeo, il

quale, a questo fine, tiene conto della volontà dellʼistituzione che emana lʼatto, ma anche del potere del quale è espressione

e dei principi giuridici sui quali si fonda.

15. Gli atti in materia di politica estera e di sicurezza comune (PESC)

Lʼeliminazione della struttura in “pilastri” dellʼUnione europea, effettuata dal Trattato di Lisbona, non ha fatto venire meno

le peculiarità dellʼazione dellʼUnione in materia di politica estera e di sicurezza comune (comprensiva della politica di

sicurezza e di difesa comune), che si riflettono anche sui tipi di atti che le istituzioni possono adottare.

Tali atti non possono avere il carattere di atti legislativi; va esclusa anche la possibilità di una loro efficacia diretta verso i

singoli, tipica del fenomeno dellʼinterazione europea, ma non l'obbligatorietà di tali atti, nei confronti degli Stati membri o

delle istituzioni dellʼUnione. Ai sensi dellʼart. 25 TUE

“l'Unione conduce la politica estera e di sicurezza comune: a) definendo gli orientamenti

generali,

b) adottando decisioni che definiscono:

i) le azioni che l'Unione deve intraprendere, ii) le posizioni che l'Unione deve assumere,

iii) le modalità di attuazione delle decisioni di cui ai punti i) e ii), e

c) rafforzando la cooperazione sistematica tra gli Stati membri per la conduzione della loro politica”.

Al vertice degli atti dellʼUnione nella materia in esame si pongono le determinazioni del Consiglio europeo, il quale

“individua gli interessi strategici dellʼUnione, fissa gli obiettivi e definisce gli orientamenti generali della politica estera e di

sicurezza comune, ivi comprese le questioni che hanno implicazioni in materia di difesa. Adotta le decisioni necessarie”.

Inoltre, il Consiglio europeo definisce le linee strategiche della politica dell'Unione dinanzi a eventuali sviluppo

internazionali. Lʼoggetto di tali atti del Consiglio europeo non appare ben definito, ma si desume che possano riguardare i

rapporti dellʼUnione con un Paese o una regione, o un tema particolare (per esempio, il terrorismo, la pirateria, ecc.).

Gli atti del genere del Consiglio europeo possono avere valore politico, come le conclusioni emanate a seguito delle sue

riunioni. Essi, però, possono produrre anche effetti obbligatori. Infatti, le decisioni del Consiglio europeo sugli interessi e gli

obiettivi strategici dellʼUnione “fissano la rispettiva durata e i mezzi che lʼUnione e gli Stati membri devono mettere a

disposizione”.

Il Consiglio prende le decisioni per la definizione e lʼattuazione della PESC “in base agli orientamenti generali e alle linee

strategiche definiti dal Consiglio europeo”.

Tali orientamenti generali e linee strategiche del Consiglio europeo vincolano giuridicamente il Consiglio. Alle

determinazioni del Consiglio europeo appaiono subordinate le decisioni del Consiglio. Vengono in rilievo, anzitutto, le

decisioni che definiscono le azioni che lʼUnione deve prendere e che hanno un carattere specifico e operativo. Nella prassi

gli esempi di decisioni di carattere operativo sono molto numerosi; ad esempio lʼazione relativa a un programma di

sostegno allʼAutorità palestinese nella lotta al terrorismo, quella relativa alla missione di polizia dellʼUnione europea in

Bosnia-Erzegovina, ecc. Più in generale, decisioni di azione sono quelle adottate nellʼambito delle operazioni di disarmo,

umanitarie e di soccorso, di missioni di prevenzione dei conflitti, di mantenimento e di ristabilimento della pace, nonché

della lotta al terrorismo. Le decisioni di azione operative sono obbligatorie per gli Stati membri; peraltro, in caso di

difficoltà rilevanti nellʼapplicazione di decisioni del genere, uno Stato membro ne investe il Consiglio che delibera a

riguardo e ricerca le soluzioni appropriate, le quali non possono essere in contrasto con gli obiettivi dellʼazione né nuocere

alla sua efficacia. Tali decisioni, inoltre, vanno rispettate e attuate anche da parte delle missioni diplomatiche e consolari

degli Stati membri e delle delegazioni dellʼUnione nei Paesi terzi e nelle conferenze internazionali, nonché delle loro

rappresentanza presso le organizzazioni internazionali.

Il Consiglio adotta decisioni che definiscono la posizione dellʼUnione su una questione particolare di natura geografica o

tematica. Tra le numerose posizioni decise su questioni geografiche, possono ricordarsi quelle relative a specifiche aree di

crisi, come la Repubblica federale di Iugoslavia, o contenenti misure contro Stati, come la Somalia, o contro i Talebani,

ecc.; tra quelle tematiche, le posizioni sulla non proliferazione di armi nucleari, sulla lotta al terrorismo, ecc. Di solito tali

decisioni, adottate spesso a seguito di analoghe decisioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, comportano misure

sanzionatorie contro Stati terzi, o anche individui (per esempio, persone fisiche o giuridiche coinvolte in attività

terroristiche). Anche le decisioni che definiscono posizioni dellʼUnione sono obbligatorie per gli Stati membri: “gli Stati

membri provvedono affinché le loro politiche nazionali siano conformi alle posizioni dellʼUnione”.

Infine, vanno ricordate le decisioni definiscono le modalità di attuazione delle decisioni relative ad azioni o posizioni

dellʼUnione e che sono gerarchicamente a queste ultime decisioni.

Come già accaduto nella struttura a pilastri dellʼUnione europea, anche il Trattato di Lisbona provvede a coordinare atti

emanati nel quadro della PESC e atti ordinari. Quando il Consiglio abbia deciso lʼinterruzione o la riduzione, totale o

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parziale, delle relazioni economiche e finanziarie con uno o più Paesi terzi, lo stesso Consiglio, deliberando a maggioranza

qualificata, su proposta congiunta dellʼAlto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza e della

Commissione, adotta le misure necessarie, informandone il Parlamento europeo. Tali misure sono oggetto di atti tipici

dellʼUnione, in particolare regolamenti idonei ad assicurare una obbligatorietà integrale e diretta, negli ordinamenti degli

Stati membri delle misure restrittive in questione.

CAPITOLO VIII: LE COMPETENZE GIUDIZIARIE

1. Premessa

LʼUnione europea è una comunità di diritto nel senso che né gli Stati che ne fanno parte, né le sue istituzioni sono sottratti al

controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base costituita dal Trattato.

Per garantire tale controllo da parte di tutti i soggetti, le istituzioni e gli organi dellʼUnione, i Trattati istituiscono la Corte di

giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati (attualmente il Tribunale della funzione pubblica).

Ai sensi dellʼart. 19, 1° comma TUE, il sistema giudiziario dellʼUnione prende complessivamente la denominazione di

Corte di giustizia dellʼUnione europea, articolata in Corte di giustizia, Tribunale e tribunali specializzati. Essa assicura il

rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati.

Tali organi costituiscono lʼapparato giudiziario dellʼUnione europea; essi, peraltro, non escludono affatto il contributo dei

giudici nazionali i quali, in conformità del principio di leale cooperazione, sono tenuti, nello svolgimento delle proprie

funzioni, a garantire lʼesecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati. Il compito dei giudici nazionali è ribadito

espressamente dallʼart. 19, par. 1, 2° comma, TUE. Nei confronti di detti giudici lʼart. 267 TFUE istituisce uno strumento di

cooperazione con la Corte di giustizia, consistente nella competenza pregiudiziale (o di rinvio) di questʼultima. La Corte di

giustizia, con lʼausilio del Tribunale, ha sempre svolto un ruolo propulsivo e creativo nello sviluppo del diritto del diritto

dellʼUnione. È suo merito, infatti, la costruzione e il consolidamento dellʼordinamento dellʼUnione come sistema giuridico

autonomo, integrato negli ordinamenti degli Stati membri e dotato dei caratteri della diretta efficacia e del primato su tali

ordinamenti. Spesso la Corte ha svolto un ruolo di supplenza nei confronti delle istituzioni pubbliche, segnando, con alcune

sue sentenze storiche, delle svolte nellʼevoluzione del diritto dellʼUnione.

Anteriormente al Trattato di Lisbona, la distinzione della costruzione europea nei tre pilastri (diritto comunitario, PESC,

cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale) si rifletteva anche sulla competenza della Corte di giustizia che,

riguardando a pieno il primo pilastro, quello comunitario, era esclusa, invece, nella PESC e subiva varie limitazioni nel

terzo pilastro. Lʼeliminazione dei pilastri e l'unificazione delle diverse competenze nel quadro unitario dell'Unione europea

effettuate dal Trattato di Lisbona, non hanno determinato una estensione delle competenze giudiziarie allʼintero campo di

azione dellʼUnione. Tali competenze si applicano anche nelle materie rientranti in precedenza del primo pilastro

(cooperazione di polizia e giudiziaria penale), ma la loro piena applicazione a tali materie è rinviata di cinque anni in base a

talune disposizioni transitorie.

Per quanto riguarda la politica estera e di sicurezza comune (secondo pilastro), la regola resta lʼincompetenza della Corte di

giustizia dellʼUnione europea, sicché tale materia è sottratta ad ogni controllo giudiziario.

Peraltro la competenza della Corte di giustizia dellʼUnione europea è prevista in due ipotesi. In proposito lʼart. 275 TFUE

dichiara che: “la Corte di giustizia dell'Unione europea non è competente per quanto riguarda le disposizioni relative alla

politica estera e di sicurezza comune, né per quanto riguarda gli atti adottati in base a dette disposizioni.

Tuttavia, la Corte è competente a controllare il rispetto dell'articolo 40 del trattato sull'Unione europea e a pronunciarsi

sui ricorsi, proposti secondo le condizioni di cui all'articolo 263, quarto comma del presente trattato, riguardanti il

controllo della legittimità delle decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche

adottate dal Consiglio in base al titolo V, capo 2 del trattato sull'Unione europea”.

Il 1° comma dellʼarticolo in esame ribadisce lʼincompetenza della Corte di giustizia dellʼUnione europea in materia di

politica estera e di sicurezza comune. Riguardo alle due eccezioni contemplate al 2° comma, la prima (art. 40 TUE) riguarda

il controllo sul rispetto, da parte delle istituzioni dellʼUnione, delle competenze generali dellʼUnione e può condurre

allʼannullamento di un atto emanato ai sensi delle disposizioni sulla PESC in materia nelle quali si sarebbe dovuto adottare

un atto in forza delle disposizioni generali dei Trattati. La seconda si riferisce agli atti in materia di PESC che stabiliscono

misure restrittive (per esempio, il congelamento dei beni, risorse economiche) a carico di privati: essi sono soggetti al

controllo di legittimità che la Corte di giustizia dellʼUnione esercita, in via generale, sugli atti dellʼUnione ai sensi dellʼart.

263 TFUE e che, in presenza dei motivi i illegittimità previsti da tale norme, può condurre al loro annullamento.

2. Il riparto di competenze tra la Corte di giustizia e il Tribunale

La Corte di giustizia (intesa quale specifico organo giudiziario) e il Tribunale non si pongono su un piano gerarchico. Le

loro competenze sono fissate in base alle norme dei Trattati, integrate da quelle dello Statuto della Corte di giustizia.

DellʼUnione europea. Alla luce di tali norme, alcune competenze sono attribuite al Tribunale e le sue sentenze possono

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essere oggetto di ricorso alla Corte di giustizia; altre competenze, invece, sono riservate alla Corte di giustizia e, quindi, per

esse non sussiste un doppio grado si giurisdizione.

Lʼart. 256, par. 1, 1° comma, TFUE, dichiara che” il Tribunale è competente a conoscere in primo grado dei ricorsi di cui

agli articoli 263, 265, 268, 270 e 272, ad eccezione di quelli attribuiti a un tribunale specializzato istituito in applicazione

dell'articolo 257 e di quelli che lo Statuto riserva alla Corte di giustizia. Lo Statuto può prevedere che il Tribunale sia

competente per altre categorie di ricorsi”. Gli articoli menzionati in tale disposizione riguardano la competenza di

annullamento egli atti dellʼUnione (art. 263 TFUE), il ricordo c.d. in carenza (art. 265 TFUE), lʼazione di risarcimento

danni contro lʼUnione (art. 268 TFUE), le controversie tra lʼUnione e i suoi agenti (art. 270 TFUE, demandate, peraltro, al

Tribunale della funzione pubblica), la competenza attribuita in virtù di una clausola compromissoria contenuta in un

contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato dallʼUnione per suo conto (art. 272 TFUE).

In base allʼart. 51 dello Statuto della Corte, peraltro, alla Corte di giustizia sono riservati, in principio, i ricorsi previsti dagli

articoli 263 e 265 (rispettivamente, di annullamento e in carenza) proposti da unʼistituzione dellʼUnione, nonché quelli

proposti da uno Stato membro contro il Parlamento, il Consiglio o entrambi che statuiscano congiuntamente, con

l'eccezione dei ricorsi statali contro decisioni del Consiglio, contro atti del Consiglio in forza di un regolamento concernente

misure di difesa commerciale, contro atti del Consiglio con cui questo esercita competenze di esecuzione, ricorsi che

entrano quindi nella competenza del Tribunale. Sono riservati alla Corte di giustizia, ai sensi dello stesso art. 51, 1° comma,

lett. b), anche i ricorsi di Stati membri conto un atto unʼastensione dal pronunciarsi della Commissione; a parte questʼultima

ipotesi, quindi, restano nella competenza del Tribunale i ricorsi fondati sugli articoli 263 e 265, diretti contro atti (o

omissione) della Commissione.

La ripartizione di competenze fra Tribunale e Corte di giustizia, pertanto, si basa solo in parte sullʼoggetto del ricorso; per il

resto, in materia di ricorsi di annullamento e in carenza, essa si fonda su elementi soggettivi e, più precisamente, sulla

circostanza che il ricorrente sia una persona fisica o giuridica (nel qual caso è sempre competente il Tribunale), oppure

unʼistituzione (con conseguente competenza esclusiva della Corte), oppure uno Stato membro, i cui ricorsi rientrano, di

regola, nella competenza della Corte, ma in quella del Tribunale se diretti contro la Commissione o contro il Consiglio nei

casi contemplati dallʼart. 51, 1° comma lett. a), dello Statuto della Corte.

Le altre competenze giudiziarie non menzionata dallʼart. 256 TFUE ricadono nella competenza della Corte di giustizia (che

si pronuncia, quindi, in un unico grado di giudizio). Di grande importanza, al riguardo, è la procedura di infrazione contro

gli Stati membri, per violazione degli obblighi derivanti dai Trattati, che può essere messa in moto dalla Commissione o fa

uno Stato membro e che resta riservata alla competenza della Corte di giustizia.

Anteriormente al Trattato di Nizza del 2001 era di esclusiva competenza della Corte di giustizia anche la competenza

pregiudiziale (o di rinvio). Nel testo precedente al Trattato di Nizza, infatti, il Trattato sulla Comunità europea dichiarava

che “il Tribunale non è competente a conoscere delle questioni pregiudiziali”.

La modifica di Nizza, confermata dal Trattato di Lisbona, consente lʼattribuzione al Tribunale di tale competenza, ma solo

in materie specifiche determinate dallo Statuto. Poi, al fine di salvaguardare lʼunità e la coerenza del diritto dellʼUnione, il

Trattato di Lisbona ha previsto al possibilità di un rinvio della causa alla Corte da parte del Tribunale e di un riesame (in via

eccezionale) delle decisioni in materia del Tribunale ad opera della Corte, riesame proposto dal primo avvocato generale.

Alla sola Corte di giustizia spetta poi la competenza consultiva in merito alla compatibilità di un accordo previsto

dallʼUnione con i Trattati.

Le competenze rispettive del Tribunale e della Corte i giustizia sono previste talvolta anche da atti di diritto derivato. Le

competenze conferite alla Corte e al Tribunale sono di carattere tassativo (o, meglio, sono espressione di una competenza di

“attribuzione” allʼUnione). Infatti, “fatte salve le competenze attribuite alla Corte di giustizia dell'Unione europea dai

trattati, le controversie nelle quali l'Unione sia parte non sono, per tale motivo, sottratte alla competenza delle giurisdizioni

nazionali”.

3. La “litispendenza” tra la Corte di giustizia e il Tribunale e lʼimpugnazione delle sentenze di tale Tribunale In date

materie il Tribunale e la Corte di giustizia hanno entrambi competenza e questa si ripartisce solo in considerazione del

ricorrente. É quindi possibile che si pongano casi di litispendenza, cioè, è possibile che lo stesso caso sia sottoposto, da

diversi ricorrenti, ad ambedue i giudici. È possibile inoltre che, pur ricadendo i casi sottoposti ai due giudici in distinte

competenze, essi presentino lo stesso problema interpretativo o di validità di un atto. Si tratta, in queste ipotesi, di stabilire

in quale modo coordinare i due processi, per garantire lʼunità del diritto dellʼUnione e la nuova amministrazione della

giustizia ed evitare contraddizioni di sentenze.

La prima questione è regolata dallʼart. 54, 3° comma, dello Statuto della Corte. Esso prevede le ipotesi in cui “la Corte e il

Tribunale sono investiti di cause che abbiano lo stesso oggetto, sollevino lo stesso problema dʼinterpretazione o mettano in

questione la validità dello stesso atto”.

In tali casi possono darsi tre soluzioni, sulla base del prudente apprezzamento dei giudici investiti delle cause. Anzitutto il

Tribunale il Tribunale, ascoltate le parti, può sospendere il procedimento sino alla pronuncia della Corte; per tale via, è

garantito il doppio grado di giurisdizione, rispetto al caso sottoposto al Tribunale, ma, di fatto, questʼultimo si sentirà

vincolato dalla pronuncia della Corte. Quando si tratti di ricorsi di annullamento il Tribunale può declinare la propria

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competenza affinché la Corte statuisca sui ricorsi; è così favorita una decisione celere, ma con sacrificio del doppio grado di

giurisdizione. La terza soluzione prevede che sia la Corte a sospendere il procedimento, proseguendo, invece, quello dinanzi

al Tribunale; questa soluzione garantisce il doppio grado di giurisdizione, ma presenta lʼinconveniente di rallentare i tempi

della giustizia. Infine, lo stesso art. 54, 4° comma, stabilisce che, quando uno Stato membro ed unʼistituzione dellʼUnione

impugnino lo stesso atto, il Tribunale declina la propria competenza a favore della Corte.

Una seconda questione che si pone è quella delle condizioni e degli effetti di una impugnazione dinanzi alla Corte delle

sentenze del Tribunale. Lʼart. 256, par. 1, 2° comma, TFUE, stabilisce che ”le decisioni emesse dal Tribunale possono

essere oggetto di impugnazione dinanzi alla Corte di giustizia per i soli motivi di diritto e alle condizioni ed entro i

limiti previsti dallo statuto”.

Da tale norma si ricava che lʼimpugnazione delle sentenze del Tribunale, essendo limitata ai soli motivi di diritto, non

comporta un riesame del caso da parte della Corte di giustizia, ma solo la valutazione di eventuali vizi giuridici nella

sentenza del Tribunale. Il procedimento, quindi, può avvicinarsi a quello in cassazione dellʼordinamento italiano, piuttosto

che a quello di appello. L'impugnabilità delle sentenze del Tribunale per i soli vizi di diritto, attinenti alla stessa sentenza, è

confermata e precisata nello Statuto della Corte: “lʼimpugnazione proposta dinanzi alla Corte di giustizia deve limitarsi ai

motivi di diritto. Essa può essere fondata su motivi relativi allʼincompetenza del Tribunale, a vizi della procedura dinanzi al

Tribunale recanti pregiudizio agli interessi da parte ricorrente, nonché alla violazione del diritto dellʼUnione da parte del

Tribunale”.

La Corte ha affermato che unʼimpugnazione non può limitarsi a riproporre gli argomenti addotti nel giudizio di primo

grado, ma deve essere motivata in base a vizi di diritto della sentenza.

Inoltre il ricorrente non può sollevare dinanzi alla Corte motivi nuovi, rispetto al procedimento di primo grado, tali da

implicare la portata della controversia decisa dal Tribunale: infatti, consentire ad una parte di sollevare per la prima volta

dinanzi alla Corte un motivo che essa non abbia dedotto dinanzi al Tribunale equivarrebbe a consentirle di sottoporre alla

Corte, la cui competenza in materia dʼimpugnazioni è limitata, una controversia più ampia di quella di cui sia stato investito

il Tribunale.

Alla Corte è preclusa, invece, qualsiasi riesame delle questioni di fatto, il cui accertamento e la cui valutazione spettano

esclusivamente al Tribunale. Dalla giurisprudenza della Corte può però ricavarsi unʼeccezione a tale principio quando

lʼaccertamento dei fatti o la valutazione delle prove risultino palesemente erronei, in particolare nel caso di “snaturamento

dei fatti”. Tale snaturamento sussiste quando la valutazione dei mezzi di prova disponibili risulta, in modo evidente,

inesatta. Per quanto riguarda la fondatezza del ricorso, va sottolineato che se lʼeventuale vizio di diritto risulti ininfluente ai

fini del dispositivo della sentenza del Tribunale il ricorso è respinto.

Le decisioni del Tribunale possono essere impugnate nel termine di due mesi a decorrere dalla loro notifica. Legittimata

allʼimpugnazione è qualsiasi parte che sia rimasta parzialmente o totalmente soccombente. Lʼimpugnazione, peraltro, può

essere presentata anche dagli Stati membri e dalle istituzioni dellʼUnione, pur se non siano affatto intervenuti nel giudizio di

primo grado. Tale legittimazione è fondata, quindi, su un interesse oggettivo al rispetto della legalità, riconosciuto a questi

soggetti.

Se l'impugnazione è accolta, la Corte annulla la decisione del Tribunale.

Essa, quindi, può rinviare la causa al Tribunale affinché decida, in conformità della decisione resa dalla Corte sui punti di

diritto; o, qualora lo stato degli atti lo consenta, cioè quando i fatti siano stati sufficientemente accertati nel giudizio di

primo grado, la Corte può trattenere la causa e decidere nel merito.

Il Trattato di Nizza del 2001, confermato dal Trattato di Lisbona, ha introdotto il nuovo istituto del riesame, da parte della

Corte di giustizia, sia per le sentenze emanabili dal Tribunale qualora gli fosse attribuita una competenza pregiudiziale, sia

per quelle rese sulle impugnazioni di sentenze dei tribunali specializzati (attualmente, del Tribunale della funzione

pubblica). Tale rimedio è esperibile, su proposta del primo avvocato generale, ove sussistano gravi rischi che lʼunità o la

coerenza del diritto dellʼUnione siano compromesse; lʼesame della proposta è subordinato a una decisione preliminare della

Corte sulla opportunità o meno di riesaminare la decisione del Tribunale.

Nello Statuto della Corte è previsto inoltre, rispetto alle sentenze di primo grado passate in giudicato (perché non impugnate

entro due mesi o perché confermate dalla Corte) e per quelle della Corte (non impugnabili), il rimedio straordinario della

revocazione. Esso è esperibile solo in seguito alla scoperta di un fatto avente unʼinfluenza decisiva e che, prima della

pronuncia della sentenza, era ignoto alla Corte e alla parte che domanda la revocazione. Lo stesso Statuto conferisce,

inoltre, alla Corte la competenza ad interpretare le sentenze europee.

4. La procedura dʼinfrazione nei confronti di Stati membri

Tra le diverse competenze attribuite dai Trattati alla Corte e al Tribunale viene il rilievo, anzitutto, quella esclusiva della

Corte di giustizia relativa al controllo sul rispetto del diritto dellʼUnione da parte degli Stati membri. Essa, regolata dagli

articoli 258-260 TFUE, può essere esercitata su iniziativa della Commissione oppure di uno Stato membro. La procedura è

solitamente chiamata procedura d’infrazione, poiché è diretta a fare accertare, da parte della Corte, una violazione degli

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obblighi derivati dai Trattati commessa da uno Stato membro. Essa presenta talune varianti a seconda che sia promossa

dalla Commissione (art. 258 TFUE) o da uno Stato membro (art. 259 TFUE)

Riguardo alla prima ipotesi, quando cioè la procedura viene promossa dalla Commissione, lʼart. 258

dichiara che:

“La Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei

trattati, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni.

Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di

giustizia dell'Unione europea”. Lʼattribuzione del potere dʼiniziativa alla Commissione, qualora ritenga che uno Stato

membro sia venuto meno a un obbligo derivante dai Trattati, è coerente con il ruolo della Commissione di guardiano, di

custode dei Trattati, ad essa assegnato in termini generali dallʼart. 17, par. 1, TUE. La Commissione difficilmente

riuscirebbe ad adempiere tale funzione di vigilanza, data lʼestrema ampiezza dellʼarea dellʼUnione europea, qualora non

fosse anche informata e sollecitata da denunce o esposti, provenienti da soggetti vari, compresi privati cittadini, con i quali

le sono segnalati casi di possibili infrazioni. Tali denunce, malgrado siano di grande ausilio per la Commissione, non

implicano per la stessa un dovere giuridico d'intraprendere unʼazione contro lo

Stato, né un diritto dell'autore della denuncia a che la Commissione assuma conseguenti iniziativi. In tale materia, infatti, la

Commissione gode in un ampio potere discrezionale.

La discrezionalità della Commissione, tuttavia, è attenuata in alcune materie, in specie relativamente alle violazioni delle

regole sulla concorrenza, nelle quali la Commissione è tenuta a procedere ad un esame diligente e imparziale degli elementi

di fatto e di diritto portati alla sua conoscenza da parte degli autori di denunce di violazioni delle suddette regole.

Inoltre, in particolari materie, i poteri solitamente spettanti alla Commissione nella procedura dʼinfrazione sono attribuiti ad

organi differenti, come il Consiglio di amministrazione della Banca europea per gli investimenti per le violazione degli Stati

membri degli obblighi derivanti dallo Statuto della Banca e il Consiglio direttivo della Banca centrale europea per le

violazioni delle banche centrali nazionali degli obblighi derivanti dai Trattatati e dallo Statuto del SEBC e della BCE.

Quanto alle infrazioni comportanti lʼapertura del procedimento da parte della Commissione, esse comprendono qualsiasi

violazione di obblighi previsti dai Trattati, come da ogni altra norma rientrante nel diritto dell'Unione, quali le disposizioni

di atti di diritto derivato o di accordi conclusi dallʼUnione, ivi compresi gli accordi misti.

La condotta dello Stato può essere di carattere commissivo, come una prassi amministrativa o uno specifico atto contrari

agli obblighi previsti dal diritto dellʼUnione, o omissivo, quale, frequentemente, la mancata attuazione di una direttiva entro

il termine prescritto. Tale condotta può essere tenuta da organi legislativi, amministrativi o giudiziari dello Stato. Ma, ai fini

della procedura di infrazione, lo Stato è responsabile anche dei comportamenti di altri enti pubblici, in particolare degli enti

locali, la cui attività è giuridicamente imputata allo Stato.

Lʼinfrazione può derivare anche dal fatto di individui. Tuttavia, la condotta di privati non è, di per sé, imputabile allo Stato;

ma questʼultimo può incorrere in responsabilità per non avere adottato adeguate misure preventive e repressive volte a

contrastare la condotta di privati diretta a impedire lʼesercizio di diritti derivanti dai Trattati.

5. Segue: le fasi di tale procedura

La procedura dʼinfrazione dalla Commissione si articola in due fasi. La prima è di natura precontenziosa (o amministrativa)

in quanto non coinvolge la Corte di giustizia e si esaurisce nel dialogo tra la Commissione e lo Stato membro. Ad essa

segue una eventuale fase contenziosa, che si svolge in un processo dinanzi alla Corte e si conclude con la sua sentenza.

La fase precontenziosa “ ha lo scopo di dare allo Stato membro interessato lʼopportunità, da un lato, di conformarsi agli

obblighi che gli derivano dal diritto dellʼUnione e, dallʼaltro, di sviluppare una difesa contro gli addebiti formulati dalla

Commissione. La regolarità di tale procedimento costituisce una garanzia essenziale, prevista dal Trattato non soltanto a

tutela dei diritti dello Stato membro, ma anche per garantire che lʼeventuale procedimento contenzioso verta su una

controversia chiaramente definita”.

Tale fase inizia mediante lʼinvio, da parte della Commissione, di una lettera, detta di messa in mora, o di diffida, o di

intimidazione o di addebito, con la quale la Commissione contesta allo Stato destinatario lʼesistenza di una sua violazione di

un obbligo derivante dal diritto dellʼUnione; in essa la Commissione indica gli elementi di fatto e di diritto in base ai quali

reputa che sussiste lʼinfrazione e le specifiche disposizioni violate dallo Stato; inoltre la Commissione invita lo Stato a

comunicarle le proprie osservazioni entro un certo termine. Lʼinvio della lettera è solitamente preceduto da contratti

informali tra la Commissione e lo Stato in questione.

Ricevuta la lettera di messa in mora lo Stato ha il diritto di sottoporre alla Commissione le sue osservazioni con eventuali

giustificazioni della propria condotta.

Lʼart. 258, 1° comma, TFUE, infatti, precisa che lo Stato viene posto, tramite la lettera di messa “in mora”, in condizione di

presentare le sue osservazioni. Infatti, la lettera di messa in mora ha lo scopo di definire lʼoggetto della contestazione,

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consentendo allo Stato di esercitare la propria difesa, e di favorire uno spontaneo adempimento degli obblighi di tale Stato,

senza bisogno di ricorrere alla Corte.

Il contenuto della lettera in parola, in principio, non è modificabile né da parte del successivo atto della fase precontenziosa,

né dallʼeventuale ricorso alla Corte. Ove questʼultimo contenga degli addebiti non contestati già nella lettera di messa in

mora, il ricorso dichiarato irricevibile dalla Corte.

Tuttavia non è indispensabile che la lettera di messa in mora sia formulata in termini rigorosamente formali, essendo

sufficiente che contenga un primo riassunto degli addebiti, purché sufficientemente preciso.

Qualora lo Stato in questione presenti delle osservazioni ritenute insufficienti dalla Commissione (o ometta di presentarle),

la Commissione, ai sensi dellʼart. 258, 1° comma, emette un parere motivato. In esso precisa in maniera rigida e formale gli

addebiti contestati, gli elementi di fatto e di diritto implicanti lʼinfrazione, le norme violate e assegna allo Stato un termine

entro il quale esso deve conformarsi al parere. Circa il contenuto del parere, secondo la Corte, esso è soggetto a un rigido

formalismo, superiore, quindi, a quello richiesto per la lettera di messa in mora.

Lʼart. 258 non stabilisce quale sia il termine entro il quale lo Stato è invitato a conformarsi al parere, né quello per

presentare le proprie osservazioni a seguito della lettera di diffida. La Corte di giustizia, alla luce dello scopo della fase

precontenziosa, ha affermato che deve trattarsi di un termine ragionevole, tenuto conto delle particolarità del caso in

questione.

Esistono alcune specifiche ipotesi nelle quali non è contemplato lo svolgimento della fase precontenziosa e la Commissione

(o uno Stato membro) può adire direttamente la Corte di giustizia. A tal proposito si devono considerare, lʼart. 108, par. 2,

TFUE in merito ad aiuti di Stato ritenuti dalla Commissione incompatibili con il mercato interno o attuati in modo abusivo;

lʼart. 114, par. 9, TFUE in materia di ravvicinamento delle legislazioni; lʼart. 348 TFUE riguardo allʼuso abusivo, da parte

di uno Stato membro, delle misure di sicurezza concernenti la produzione o il commercio di armi, munizioni e materiale

bellico e a quelle prese nellʼeventualità di gravi agitazioni interne, di guerra, di grave tensione internazionale o per il

mantenimento della pace e della sicurezza sociale.

A parte questi casi, solo dopo la scadenza del termine fissato dalla Commissione, senza che lo Stato interessato si sia

conformato al parere motivato, la stessa Commissione può adire la Corte di giustizia. La Commissione ha un potere

pienamente discrezionale in merito alla presentazione o meno del ricorso alla Corte di giustizia e alla determinazione del

momento in cui presentarlo. Qualora la Commissione adisca la Corte di giustizia il processo deve invece necessariamente

concludersi con il giustizio sullʼinadempimento dello Stato, senza che rilevino né lʼadempimento (tardivo) dello Stato, né il

riconoscimento da parte dello Stato convenuto, del proprio inadempimento. Il giudizio della Corte, infatti, è rigorosamente

riferito al comportamento dello Stato quale risulta al momento della scadenza del termine fissato nel parere motivato. La

Corte, in attesa della sentenza, può emanare provvedimenti provvisori (ex art. 279 TFUE) con i quali, per esempio, può

prescrivere allo Stato convenuto la sospensione dellʼapplicazione di una data legge o di una certa prassi.

6. Segue: i ricorsi promossi da Stati membri

Il ricorso per infrazione può essere proposto non solo dalla Commissione, ma anche da un altro Stato membro. Nella prassi,

peraltro, tale ipotesi è estremamente rara.

Lʼart. 259, 1° comma, TFUE dichiara che: “ciascuno degli Stati membri può adire la Corte di giustizia dell'Unione europea

quando reputi che un altro Stato membro ha mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati”.

Il ricorso dello Stato non richiede uno specifico interesse ad agire, se non lʼinteresse obiettivo al rispetto dei Trattati. Tale

norma va posta in relazione con lʼart. 344 TFUE, il quale configura come esclusiva la competenza della Corte nelle

controversie tra gli Stati membri relative allʼinterpretazione o applicazione dei Trattati.

Di conseguenza uno Stato membro che ritenga un altro Stato membro responsabile di violazioni dei Trattati è tenuto a

rivolgersi alla sola Corte, non ad altri procedimenti di regolamento delle controversie disponibili.

La procedura di infrazione promossa da uno Stato membro contempla anchʼessa una fase precontenziosa con un

coinvolgimento della Commissione. Ai sensi del 2° e 3° comma dellʼart. 259, TFUE “uno Stato membro, prima di proporre

contro un altro Stato membro un ricorso fondato su una pretesa violazione degli obblighi che a quest'ultimo incombono in

virtù dei trattati, deve rivolgersi alla Commissione.

La Commissione emette un parere motivato dopo che gli Stati interessati siano posti in condizione di presentare in

contraddittorio le loro osservazioni scritte e orali”.

L'esperimento della fase precontenziosa è, anche in questo caso condizione di ricevibilità del ricorso alla Corte. La

Commissione pone non solo lo Stato accusato ma anche quello attore nella condizione di esercitare le proprie difese

instaurando il contraddittorio fra tali Stati. Inoltre, pur essendo indispensabile che lo Stato attore si rivolga alla

Commissione (essendo, in mancanza, il ricorso irricevibile), questʼultima non può precludere a tale Stato di promuovere la

fase contenziosa dinanzi alla Corte. Infatti, in base al 4° comma dellʼarticolo in esame, “qualora la Commissione non abbia

formulato il parere nel termine di tre mesi dalla domanda, la mancanza del parere non osta alla facoltà di ricorso alla

Corte”.

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Malgrado il Trattato preveda solo lʼipotesi di assenza del parere entro tre mesi, al fine di consentire allo Stato attore di adire

la Corte, è da ritenere che il ricorso sia proponibile anche qualora il parere emesso sia favorevole allo Stato convenuto ed

esprima il convincimento della Commissione circa lʼinesistenza della violazione.

7. Segue: la sentenza della Corte e la sua esecuzione

Qualora la Corte, a seguito del processo, giudichi lo Stato convenuto responsabile della violazione contestatagli, essa emana

una sentenza, la quale ha la natura di sentenza dichiarativa dellʼinadempimento, cioè di accertamento di tale

inadempimento, non già di condanna alla adozione di specifici atti, quali, per esempio, lʼabrogazione di una legge, il

recepimento di una direttiva, la cessazione di una prassi amministrativa. La sentenza è però obbligatoria per lo Stato in

questione, il quale è tenuto ad eseguirla adottando i provvedimenti a tal fine necessari.

Lʼart. 260, par. 1, TFUE dichiara che “quando la Corte di giustizia dell'Unione europea riconosca che uno Stato membro

ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trattati, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che

l'esecuzione della sentenza della Corte comporta”. La norma non stabilisce alcun termine per lʼadozione dei provvedimenti

di esecuzione, la Corte ha però statuito che essi debbano essere adottati al più presto (“[…] impone che tale esecuzione sia

iniziata immediatamente e conclusa entro termini il più possibile ristretti”).

I provvedimenti da adottare per eseguire la sentenza potranno essere di varia natura a seconda dellʼinadempimento

accertato. Lo Stato, per esempio, dovrà abrogare o modificare una legge, o un atto amministrativo, contrastante con gli

obblighi derivanti dai Trattati, o adottare una normativa di attuazione di tali obblighi (come il recepimento di una direttiva),

o cessare una prassi amministrativa ecc. Lʼobbligo di esecuzione grava su tutti gli organi dello Stato; pertanto anche i

giudici dovranno astenersi dall'applicare una legge nazionale giudicata in conflitto con una norma dellʼUnione direttamente

applicabile, provvedendo, peraltro il legislatore ad abrogare tale legge.

Qualora lo Stato membro non dia esecuzione alla sentenza resa nei suoi confronti, originariamente era possibile solo un

nuovo ricorso dʼinfrazione da parte della Commissione (o, eventualmente, di un altro Stato membro), diretto a dare

constatare la violazione dellʼobbligo di eseguire la sentenza. Si parlava in proposito di un procedimento di “doppia

condanna”: lo Stato membro subiva, infatti, una prima sentenza di accertamento della violazione di una determinata

disposizione e una seconda sentenza di accertamento della violazione dellʼobbligo di eseguire la prima sentenza. Era

possibile, ciosì, che uno Stato ricevesse una duplice condanna anche per una sola omissione, qualora si astenesse

dallʼattuare una direttiva e, avendo subito una sentenza di inadempimento, perseverasse in tale inerzia, rendendosi

responsabile dell'inadempimento pure della sentenza e subendo, per questa ragione, una nuova procedura di infrazione, con

conseguente seconda condanna. In assenza di mezzi sanzionatori di pressione verso lo Stato inadempiente, il meccanismo

della “doppia condanna” finiva per rivelarsi di scarsa efficacia pratica, potendo condurre, al massimo, ad una

moltiplicazione delle procedure dʼinfrazione rispetto ad ogni sentenza di accertamento della mancata esecuzione di una

precedente sentenza.

Il Trattato di Maastricht del 1992 ha modificato la disposizione in esame stabilendo che la Commissione possa non solo

aprire un procedimento dʼinfrazione per fare dichiarare che lo Stato ha violato lʼobbligo di eseguire la precedente sentenza,

ma possa chiedere alla Corte di condannare lo Stato al pagamento di una sanzione monetaria. Il Trattato di Lisbona ha

semplificato il non richiedendo più la previa emanazione, da parte della Commissione, di un parere motivato e di un termine

entro il quale adottare i provvedimenti di esecuzione. Lʼart. 260, par. 2, TFUE oggi stabilisce che:

“Se ritiene che lo Stato membro in questione non abbia preso le misure che l'esecuzione della sentenza della Corte

comporta, la Commissione, dopo aver posto tale Stato in condizione di presentare osservazioni, può adire la Corte. Essa

precisa l'importo della somma forfettaria o della penalità, da versare da parte dello Stato membro in questione, che essa

consideri adeguato alle circostanze.

La Corte, qualora riconosca che lo Stato membro in questione non si è conformato alla sentenza da essa pronunciata, può

comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità”.

La sanzione pecuniaria si fonda sulla gravità dell’infrazione, sulla durata, sulla necessità di ottenere un effetto dissuasivo

tenendo quindi conto della capacità finanziaria dello Stato. La somma forfettaria è una somma sanzione dell’inadempimento

tra prima e seconda sentenza. La penalità è da pagare invece per ogni giorno di ritardo a partire dalla seconda sentenza.

Lʼimpiego di questo meccanismo sanzionatorio può operare verso lo lo Stato inadempiente in maniera ben più persuasiva

che non la c.d. doppia condanna.

In base all'art. 260, par. 3, inserito dal Trattato di Lisbona, un procedimento analogo può essere instaurato dalla

Commissione, senza bisogno di una precedente sentenza dichiarativa della violazione, qualora ritenga che uno Stato

membro non abbia adempiuto allʼobbligo di comunicare le misure di attuazione di una direttiva adottata con una procedura

legislativa. In questo caso, peraltro, la norma dispone espressamente che la condanna della Corte deve restare entro i limiti

dellʼimporto indicato dalla Commissione. È la stessa Corte che, nella sentenza, fissa la data alla quale il pagamento della

somma forfettaria o della penalità è esigibile.

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8. La responsabilità dello Stato per i danni derivanti da violazione degli obblighi previsti dal diritto dellʼUnione

europea La violazione di obblighi previsti dal diritto dellʼUnione da parte di uno Stato membro può dare luogo ad

unʼulteriore conseguenza: a certe condizioni, tale violazione determina lʼobbligo dello Stato inadempiente di risarcire i

danni che il singolo abbia subito a causa della violazione stessa.

Tale obbligo va fatto valere non dinanzi alla Corte di giustizia, né al Tribunale, i quali non hanno alcuna competenza in

materia, ma davanti ai giudici nazionali, competenti in base alle proprie norme processuali.

Inoltre, lʼobbligo risarcitorio, pur fondandosi sul diritto dellʼUnione, non è espressamente previsto da nessuna disposizione

dei Trattati, ma è una creazione giurisprudenziale della Corte di giustizia, la quale ha affermato lʼesistenza si tale obbligo e

le condizioni necessarie affinché esso sorga. Il caso celebre nel quale, per la prima volta, la Corte ha enunciato lʼobbligo di

risarcimento è quello della sentenza del 19 novembre 1992, cause Francovich e Bonifaci. Esso traeva origine dalla mancata

attuazione, da parte dellʼItalia, nel termine prescritto dalla direttiva n.80/987/CEE, relativa alla tutela di lavoratori

subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, la quale predispone un meccanismo di garanzia, mediante lʼistituzione

di un fondo di solidarietà, dei crediti dei lavoratori. Lʼinadempienza dellʼItalia aveva privato i lavoratori subordinati del

diritto di utilizzare tale garanzia, in caso dʼinsolvenza del datore, provocando ad essi un evidente danno.

La Corte, in questa sentenza, ha riconosciuto la pretesa di alcuni lavoratori italiani, di rivendicare nei confronti del governo

italiano il risarcimento di tale danno. Tale decisione è essenzialmente motivata sulla base di due argomenti, lʼuno collegato

allʼesigenza di assicurare la piena efficacia del diritto dellʼUnione e dei diritti da esso scaturenti; lʼaltro, allʼobbligo di

cooperazione dello Stato, compresi i giudici nazionali, per garantire che sino eliminate le conseguenze della violazione del

diritto dellʼUnione riparando il danno derivante da tale violazione. Secondo la Corte “lʼobbligo degli Stati membri di

risarcire tali danni trova il suo fondamento anche nellʼart. 4, par. 3, TUE, in forza del quale gli Stati membri sono tenuti ad

adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare lʼesecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal

diritto dellʼUnione. E tra questi obblighi si trova quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto

comunitario”.

Nella sentenza in esame la Corte ha dichiarato che non ogni violazione del diritto dellʼUnione dà luogo ad un obbligo di

risarcimento, ma occorrono, a tal fine, alcune condizioni. Tali condizioni sono poi state ulteriormente chiarite nella

giurisprudenza successiva, la quale ha costantemente ribadito il principio della responsabilità patrimoniale dello Stato per

violazione del diritto dellʼUnione, facendone applicazione a ipotesi estremamente differenziate implicanti una violazione.

Così, muovendo dalla sentenza 19 novembre 1991, la casistica si è estremamente differenziata, riguardano la violazione di

disposizioni dei Trattati, la non corretta attuazione di una direttiva, violazioni commesse dalla pubblica amministrazione

dello Stato, oppure da altri Enti pubblici o enti pubblici non territoriali (quale unʼassociazione di professionisti di diritto

pubblico), o enti previdenziali, o, da parte di giudici nazionali di ultimo grado.

La giurisprudenza della Corte ha chiarito che, affinché sorga lʼobbligo risarcitorio dello Stato, non è necessario che la

violazione sia stata precedentemente accertata dalla Corte di giustizia. Il giudice interno, pertanto, ben può egli stesso

constatare la violazione e condannare il proprio governo al risarcimento dei danni conseguenti.

Tale obbligo può derivare dalla violazione non solo di un atto privo di effetti diretti, ma anche di una norma produttiva di

tali effetti e, quindi, di diritti invocabili dinanzi al giudice nazionale.

Lʼobbligo risarcitorio sussiste anche per violazione di disposizioni direttamente efficaci: è il caso della lesione di un diritto

conferito da una norma dellʼUnione che i singoli possono invocare dinanzi ai giudici nazionali.

Oltre alle due argomentazioni già ricordate, quella concernente lʼefficacia del diritto dellʼUnione e lʼobbligo di

cooperazione, la Corte ravvisa un principio generale del diritto dellʼUnione, che trova espressione nell'art. 340, 2° comma,

TFUE, il quale stabilisce lʼobbligo dellʼUnione di risarcire i danni da essa arrecati per fatto illecito e rinvia ai principi

generali comuni degli Stati membri. Lʼobbligo risarcitorio è subordinato allʼesistenza di alcune condizioni. Esse sono

essenzialmente tre: la norma giuridica violata deve essere preordinata a conferire diritti ai singoli; deve trattarsi di una

violazione sufficientemente caratterizzata, cioè di una violazione grave e manifesta; occorre, infine, che sussista un nesso di

causalità diretto tra la violazione dellʼobbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

Per quanto riguarda la seconda condizione, consistente in una violazione grave e manifesta del diritto dellʼUnione, la Corte,

nelle sentenze nelle quali ha affermato che lʼobbligo risarcitorio può derivare anche da una violazione compiuta da giudici

di ultimo grado, ha sostenuto che “occorre tener conto della specificità della funzione giurisdizionale nonché delle legittime

esigenze della certezza del diritto. La responsabilità dello Stato a causa della violazione del diritto dellʼUnione in tale

decisione può sussistere solo nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente”.

Peraltro la Corte di giustizia nel 2011, causa Commissione c. Italia, con riguardo alla legge italiana sul risarcimento dei

danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, ha dichiarato che l’Italia è

venuta meno agli obblighi incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del

diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado. Questo perché l’Italia ha escluso

qualsiasi responsabilità dello Stato per i danni arrecati a singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione

imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado, quando tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o

da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo, limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave.

75

Per determinare il carattere manifesto della violazione il giudice nazionale, investito di una domanda di risarcimento, deve

tener conto di una pluralità di elementi, fra i quali vi sono in particolare il grado di chiarezza e di precisione della norma

violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o lʼinescusabilità dellʼerrore di diritto, la posizione adottata

eventualmente da unʼistituzione dellʼUnione nonché la mancata osservanza, da parte dellʼorgano giurisdizionale, del suo

obbligo di rinvio pregiudiziale.

La Corte di giustizia, sin dalla sentenza Francovich e Bonifaci, ha affermato che “è compito dei giudici nazionali incaricati

di applicare le norme del diritto dellʼUnione, garantire la piena efficacia di tali norme e tutelare i diritti da esse attribuiti ai

singoli”.

Dunque, questi ultimi devono rivolgersi ai giudici nazionali per chiedere, alle condizioni fissate dalla Corte, il risarcimento

dei danni derivanti da violazioni del diritto dellʼUnione. In realtà, la disciplina europea (essenzialmente di origine

giurisprudenziale) non esaurisce la regolamentazione della responsabilità dello Stato membro per i danni causati ai singoli

dal suoi inadempimento, ma va completata con quella nazionale, sia di carattere processuale, sia sostanziale, nei limiti in cui

la materia non sia già regolata a livello dellʼUnione europea

La Corte ha sostenuto che “fermo restando il diritto al risarcimento che trova direttamente il suo fondamento nel diritto

dellʼUnione, purché siano soddisfatte le condizioni descritte in precedenza, è nellʼambito delle norme del diritto nazionale

relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, restando inteso che le

condizioni fissate dalle norme nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle

che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere tali da rendere praticamente impossibile o

eccessivamente difficile ottenere il risarcimento”.

Dunque, in base al principio di equivalenza la disciplina in materia di risarcimento dei danni provocati dallʼinadempimento

dello Stato non può essere meno favorevole al danneggiato rispetto a quella che, nel diritto statale, riguarda reclami

analoghi di natura interna. Il principio di effettività, invece, comporta che la legislazione nazionale non può essere

congegnata in modo tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento dei danni:

essa, in altri termini, deve essere tale da garantire lʼeffettivo esercizio del diritto al risarcimento.

I principi di equivalenza e di effettività vengono in rilievo anche ai fini della determinazione del danno risarcibile. A tal

riguardo vanno applicati i criteri fissati dal diritto nazionale, e tali criteri non possono essere meno favorevoli di quelli

relativi ai reclami analoghi di diritto interno e, non possono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile il

risarcimento.

La Corte ha, poi, affermato che il danno risarcibile comprende non solo quello emergente, ma anche il lucro cessante.

9. La competenza sulla legittimità degli atti dellʼUnione europea: gli atti impugnabili

Il controllo giudiziario sulla condotta delle istituzioni e degli organi dellʼUnione europea si realizza principalmente nella

competenza di legittimità sugli atti dellʼUnione, volta a verificare che tali atti siano immuni da vizi che ne comportino

lʼinvalidità. In proposito sussiste la competenza sia del Tribunale che della corte di giustizia: a tale giudici i soggetti

legittimati possono sottoporre un ricorso per ottenere lʼannullamento dellʼatto.

Lʼart. 263, 1° comma, TFUE stabilisce anzitutto quali sono gli atti impugnabili, in quanto ritenuti illegittimi dal ricorrente:

“La Corte di giustizia dell'Unione europea esercita un controllo di legittimità sugli atti legislativi, sugli atti del Consiglio,

della Commissione e della Banca centrale europea che non siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del

Parlamento europeo e del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. Esercita inoltre un

controllo di legittimità sugli atti degli organi o organismi dell'Unione destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di

terzi”.

Lʼimpugnabilità presuppone, anzitutto, che lʼatto, sebbene viziato, sia giuridicamente esistente. In caso contrario, di

inesistenza giuridica, un ricorso di annullamento sarebbe irricevibile in quanto privo di oggetto.

Lʼatto per essere impugnabile deve essere, inoltre, imputabile allʼUnione europea. Lʼart. 263, 1° comma, menziona

espressamente alcune istituzioni europee (Parlamento, Consiglio europeo, Consiglio, Commissione, Banca centrale

europea). Anteriormente al Trattato di Lisbona la corrispondente disposizione non contemplava, invece, gli atti (produttivi

di effetti giuridici verso i terzi) degli organi o organismi dellʼUnione. Oggi, lʼespresso riferimento agli atti degli organi o

organismi implica la loro impugnabilità, sempre che siano suscettibili di determinare effetti giuridici. Lʼinnovazione è

significativa perché, eliminando ogni possibile incertezza al riguardo, estende il controllo giudiziario di legittimità agli atti

delle numerose agenzie istituite con atti di diritto derivato i quali, solitamente, prevedono anche taluni rimedi giurisdizionali

applicabili ai propri atti, ma in termini e limiti più ristretti. Unʼaltra innovazione introdotta sul punto dal Trattato di Lisbona,

è la menzione del Consiglio europeo tra le istituzioni i cui atti sono suscettibili di costituire oggetto della competenza di

legittimità della Corte. Peraltro sono impugnabili solo i suoi atti destinati a produrre effetti giuridici verso i terzi: vanno,

pertanto, esclusi le dichiarazioni o atti analoghi aventi natura politica: così pure, di norma, non sono impugnabili gli atti

emanati in materia di politica estera e di sicurezza comune.

Esempi di atti impugnabili, invece, potrebbero essere la nomina del Presidente dello stesso Consiglio europeo o le decisioni

relative al passaggio dalla votazione allʼunanimità nel Consiglio alla votazione a maggioranza qualificata, o dalla procedura

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legislativa speciale a quella ordinaria. Oltre allʼimputabilità allʼUnione europea, lʼimpugnabilità di un atto richiede che esso

sia un atto legislativo, cioè adottato mediante una procedura legislativa ordinaria o speciale, o, comunque, sia produttivo di

effetti giuridici obbligatori.

In proposito lʼart. 263, 1° comma, usa una formula negativa, escludendo lʼimpugnabilità delle raccomandazioni e dei pareri.

Ciò non significa, peraltro, che siano impugnabili solo gli atti tipici elencati dallʼart. 288 TFUE, cioè regolamenti, direttive

e decisioni. Accanto a questi atti, vanno considerati impugnabili tutti gli atti dellʼUnione che, a prescindere dalla loro

denominazione, siano idonei a produrre effetti obbligatori.

Si prende, dunque, in considerazione una impostazione “sostanzialistica”, per la quale è irrilevante la denominazione o la

forma dellʼatto, mentre è decisivo, ai fini della sua impugnabilità, che esso sia suscettibile di creare obblighi o diritti per i

terzi.

Tale impostazione ha il risultato di estendere al massimo il controllo di legalità sugli atti dellʼUnione e, di garantire la tutela

giurisdizionale dei soggetti. Alla stregua di detta impostazione sono stati considerati impugnabili numerosi atti atipici, quali

comunicazioni, codici di condotta, linee direttrici della Commissione.

La Corte, tuttavia, non ha mancato di riconoscere lʼimpugnabilità di atti che non sembravano produttivi di diritti o obblighi

verso determinati soggetti, ma solo di effetti giuridici di carattere obiettivo.

La condizione di impugnabilità consistente nellʼidoneità dellʼatto a produrre effetti giuridici obbligatori implica, peraltro,

che sono impugnabili solo atti definitivi, non anche quelli meramente preparatori di altri atti, la cui invalidità potrà essere

fatta valere in sede di impugnazione dellʼatto finale del procedimento.

Non impugnabili sono pure gli atti meramente confermativi di atti precedenti. Lʼimpugnazione è esclusa anche per gli atti

dellʼUnione che si limitano a prendere atto di provvedimenti nazionali.

10.Segue: la legittimazione all’impugnazione

Per quanto riguarda la legittimazione ad impugnare atti dellʼUnione, dall'art. 263 TFUE discende la distinzione tra

ricorrenti privilegiati e ricorrenti non privilegiati. La distinzione risiede nel fatto che i primi possono impugnare lʼatto

anche se non li riguardi specificatamente, senza bisogno cioè di allegare un loro interesse ad agire (se non lʼinteresse

obiettivo al rispetto del diritto dellʼUnione); i secondi, al contrario, possono impugnare solo un atto che leda le proprie

prerogative o i loro individuali interessi

Secondo la norma sono legittimati a proporre ricorso tutti gli Stati membri e tre istituzioni europee: Parlamento (al quale,

originariamente il Trattato sulla Comunità economica europea negava la legittimazione), Commissione e Consiglio. Il loro

ricorso non è subordinato ad alcuna condizione soggettiva, né ad un interesse ad agire. Uno Stato membro, per esempio, può

impugnare una decisione destinata ad un altro Stato, così come la Commissione può impugnare un atto del Consiglio per

mancata consultazione del Parlamento, ecc. Per quanto riguarda gli Stati, va precisato che la legittimazione spetta solo allo

Stato quale rappresentato dal suo governo, non anche ad altri enti pubblici, come enti locali (in specie regioni).

Ciò non esclude, peraltro, la possibilità che le regioni impugnino atti dellʼUnione nella loro qualità di persone giuridiche ai

sensi dellʼart. 263, 4° comma, TFUE.

Ricorrenti non privilegiati sono invece, in primo luogo, la Corte dei conti, la Banca centrale europea e, a seguito delle

modifiche del Trattato di Lisbona, il Comitato delle regioni.

La loro legittimazione è, quindi, subordinata allʼinteresse a tutelare le loro prerogative, ritenute pregiudicate dallʼatto. Si

pensi ad atti per la prevenzione e la lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dellʼUnione adottati senza il parere

della Corte dei Conti, o ad atti emanati senza la consultazione del Comitato delle regioni nei casi nei quali tale

consultazione sia prescritta come obbligatoria.

La legittimazione ad impugnare atti dellʼUnione è riconosciuta, ma sempre a condizione che sussista un loro interesse ad

agire, anche ai singoli, persone fisiche e giuridiche, le quali, quindi, sono da considerare ricorrenti non privilegiati.

Infatti, lʼart. 263, 4° comma, TFUE dispone che” qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre un ricorso contro gli atti

adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e individualmente, e contro gli atti regolamentari che la

riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura d'esecuzione”.

Analizzando questo quarto comma, sensibilmente modificato dal Trattato di Lisbona, si nota che i ricorrenti comprendono

anche le persone giuridiche di diritto pubblico, come regioni, comuni o altri enti locali.

La legittimazione delle regioni è riconosciuta quando le loro competenze non possono ritenersi assorbite da quelle dello

Stato cui appartengono, ma presentano una propria autonomia.

I singoli possono agire solo per lʼannullamento di atti pregiudizievoli per i loro interessi giuridicamente tutelati. Lʼipotesi

tipica è quella del ricorso proposto dal destinatario dellʼatto, per esempio, di una decisione, o di un atto che abbia carattere

individuale. Lʼesempio più significativo è offerto dalle decisioni della Commissione rivolte a imprese e relative al rispetto

delle regole sulla concorrenza.

La stessa disposizione ampia la legittimazione delle persone fisiche e giuridiche ad impugnare anche gli atti che, pur non

adottati ne loro confronti, le riguardino “direttamente e individualmente”. Dunque, ai fini dellʼammissibilità di ricorsi dei

singoli, occorre questa duplice condizione, di un effetto diretto e individuale dellʼatto sulla posizione giuridica del singolo.

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La prima condizione, cioè che lʼatto produca un effetto diretto sulla posizione giuridica del singolo, va intesa nel senso che

deve sussistere un rapporto di causalità fra lʼatto e il pregiudizio del singolo. Questʼultimo deve essere il risultato dellʼatto,

senza che il suddetto rapporto sia interrotto da fattori diversi, quale, lʼazione di uno Stato. In principio, quindi, tale

condizione è presente per i regolamenti, posto che essi sono direttamente applicabili allʼinterno degli Stati membri e, quindi,

suscettibili di creare obblighi o ledere diritti per forza propria, senza lʼintervento di Stati o altri soggetti.

Più problematica risulta la seconda condizione, cioè che lʼatto riguardi individualmente lʼinteressato. A tal proposito la

giurisprudenza della Corte di giustizia si è basata sulla formula enunciata nella sentenza del 1963 causa Plaumann c.

Commissione, nella quale ha affermato che “chi non è destinatario di una decisione può sostenere che questa lo riguarda

individualmente soltanto qualora il provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali, ovvero di particolari

circostanze atte a distinguerlo dalla generalità, e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari”.

Da tale formula sembra che sussista il pregiudizio individuale solo quando lʼatto sia applicabile al ricorrente in ragione di

una sua specifica qualità soggettiva, o per una situazione oggettiva in cui egli si trovi, che siano in grado di differenziarlo da

chiunque altro al quale lʼatto sia pure applicabile. Si tratta di casi nei quali un regolamento menzioni nominativamente

alcune persone, come quelli per la lotta al terrorismo; o sia stato adottato tenendo specificatamente conto della situazione

del ricorrente, come i regolamenti che istituiscono dazi antidumping dopo avere esaminato i prezzi praticati dalle imprese

produttrici o esportatrici della merce in questione; o a seguito di un procedimento che ha coinvolto il ricorrente.

Il criterio affermato dalla giurisprudenza Plaumann conduce ad escludere la legittimazione di associazioni rappresentative

di interessi generali o diffusi, come, in materia ambientale, Greenpeace.

La giurisprudenza in matteria si caratterizza in generale per un approccio alquanto restrittivo; inoltre il criterio enunciato

nella sentenza Plaumann non può dirsi così chiaro da consentire ai singoli di individuare agevolmente gli atti generali da

essi impugnabili.

La Corte escludeva la possibilità di un mutamento di giurisprudenza, suggerendo una modifica legislativa dellʼarticolo in

questione. Il suggerimento della Corte di giustizia è stato parzialmente accolto in sede di modifica dei Trattati, realizzata dal

Trattato di Lisbona. Infatti, come dichiara lʼart. 263, 4° comma, qualsiasi persona fisica o giuridica, oltre agli atti dei quali

sia destinataria e a quelli che la riguardino direttamente e individualmente, può impugnare “gli atti regolamentari che la

riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura dʼesecuzione”.

Gli atti regolamentari sono atti generali, non rientranti nell’art. 288, ma atti non legislativi. Si ritiene infatti che se il

legislatore avesse voluto ricomprendervi atti legislativi avrebbe usato il termine atti generali.

Per tali atti, dunque, viene meno il requisito consistente nel pregiudizio individuale del ricorrente, essendo sufficiente il

rapporto diretto fra lʼatto dellʼUnione e tale pregiudizio. A questʼultimo legame diretto corrisponde la condizione che gli atti

in questione non comportino alcuna misura di esecuzione. Ove si richiesto, invece, un atto di esecuzione, a livello

dellʼUnione europea, oppure da parte degli Stati membri, lʼazione giudiziaria dovrà essere esperita nei confronti dellʼatto di

esecuzione dinanzi alla Corte di giustizia o al giudice nazionale.

11.Segue: il termine dʼimpugnazione

L'impugnazione degli atti dellʼUnione è sottoposta al termine di due mesi. Ai sensi dellʼart. 263, 6° comma, TFUE “i ricorsi

devono essere proposti nel termine di due mesi a decorrere, secondo i casi, dalla pubblicazione dell'atto, dalla sua

notificazione al ricorrente ovvero, in mancanza, dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto conoscenza”.

Il termine di due mesi decorre dalla data della effettiva conoscenza dellʼatto da parte del ricorrente solo se esso non sia stato

pubblicato o notificato. In caso contrario il termine decorre sempre dalla pubblicazione o dalla notificazione, anche se il

ricorrente ne aveva avuto conoscenza in precedenza.

In realtà, il termine è prolungato rispetto ai due mesi in quanto termini aggiuntivi sono previsti dal Regolamento di

procedura in ragione della distanza del ricorrente.

Inoltre, la decadenza del diritto di impugnazione non può essere eccepita ove il ricorrente provi lʼesistenza di un caso

fortuito o di forza maggiore. In mancanza di tali eventi, la scadenza del termine rende il ricorso irricevibile, assicura la

definitività dellʼatto e produce lʼimpossibilità di contestarne la legittimità anche dinanzi ai giudici nazionali. La

violazione del termine dʼimpugnazione è rilevata dʼufficio dal giudice, poiché costituisce un motivo di irricevibilità di

ordine pubblico.

12.Segue: i motivi dʼimpugnazione

I motivi di impugnazione si identificano con i vizi dellʼatto che, ove esistenti, conducono al suo annullamento. Essi sono

stabiliti nell'art. 263, 2° comma, TFUE e consistono nella incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione dei

Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione, sviamento di potere.

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Tali motivi si riferiscono tutti alla legittimità dellʼatto, cioè alla sua conformità alle norme giuridiche che disciplinano la sua

formazione.

Il controllo della Corte, salva lʼipotesi dellʼart. 261 TFUE, non si estende al merito, cioè al contenuto dellʼatto e alla sua

opportunità. I vizi di incompetenza e di violazione delle forme sostanziali comportano anchʼessi una violazione dei

Trattati, pertanto il vizio della violazione dei Trattati finisce per avere un valore residuale rispetto agli altri due e consiste

principalmente nel contrasto dellʼatto con le norme e i principi materiali dei Trattati. Solo i vizi di incompetenza e di

violazione delle forme sostanziali sono di ordine pubblico e pertanto sono rilevabili dʼufficio dal giudice, anche se non

invocati dal ricorrente, mentre gli altri due, la violazione dei Trattati e lo sviamento di potere, possono essere fatti valere

solo su richiesta del ricorrente.

• Lʼincompetenza: consiste nellʼassenza del potere di emanare lʼatto in questione. L’incompetenza può essere

assoluta, quando lʼUnione in quanto tale sia priva di tale potere, o relativa, quando è la singola istituzione ad

esserne priva.

• Violazione delle forme sostanziali: consiste nella violazione delle regole giuridiche riguardanti il procedimento di

adozione dellʼatto (esempio mancata o insufficiente motivazione, mancata consultazione di unʼistituzione se

obbligatoria, erronea indicazione della base giuridica); non è sufficiente una qualsiasi violazione, ma deve trattarsi

di una violazione di una certa gravità che finisca per colpire principi sostanziali come quello della certezza del

diritto.

• Violazione dei Trattati: consiste nella violazione di norme e principi dei Trattati istitutivi, di trattati di adesione, o

di principi generali del diritto dellʼUnione, nonché accordi internazionali e norme del diritto internazionale

generale. Per quanto riguarda la violazione di accordi dellʼUnione, la Corte considera soltanto quegli accordi

provvisti di effetti diretti, che abbiano i caratteri di completezza, precisione e incondizionata obbligatorietà

• Sviamento di potere: avviene quando, lʼistituzione ha il potere di emanare un atto, ma questʼultimo è adottato per

un fine diverso da quello in vista del quale il potere è stato attribuito il potere. (esempio: sviamento di procedura

per cui una certa procedura viene usata per uno scopo diverso da quello per il quale è stata istituita). In merito a tale

vizio la Corte di Giustizia richiede sempre una prova pressoché inconfutabile dellʼavvenuto sviamento; ciò al fine

di evitare che la sua competenza sfoci in un controllo di merito sullʼoperato delle istituzioni, controllo che è

inammissibile.

Alla Corte può essere attribuita anche una competenza di merito sugli atti dellʼUnione. Infatti lʼart. 261 TFUE attribuisce

alla Corte una competenza di merito per quanto riguarda le sanzioni previste nei regolamenti, competenza che si estende

appunto allʼesame del contenuto dellʼatto e al controllo circa lʼopportunità e lʼammontare delle sanzioni pecuniarie. La

Corte può così annullare le sanzioni e modificarne lʼimporto.

13.Segue: la sentenza della Corte

Il ricorso per annullamento non ha effetti sospensivi sullʼatto impugnato. Tuttavia, la Corte, qualora reputi che le

circostanze lo richiedono, e cioè quando crede che i motivi di ricorso potrebbero essere fondati, può sospendere la sua

esecuzione, soprattutto per evitare che la durata del giudizio possa ulteriormente pregiudicare i diritti del ricorrente. La corte

può ordinare anche i provvedimenti provvisori necessari (tutela cautelare).

La sospensione dellʼatto impugnato avviene con ordinanza tenendo conto delle presumibile fondatezza del ricorso e dei

motivi di urgenza, cioè di un rischio di danno grave ed irreparabile.

Ai sensi dellʼ art. 264 TFUE, una volta accertata lʼesistenza del vizio nellʼatto impugnato, la Corte dichiara nullo o non

avvenuto lʼatto impugnato.

LʼArt. 266 TFUE stabilisce poi che lʼistituzione o lʼorgano che ha emanato lʼatto, deve prendere tutti i provvedimenti che

lʼesecuzione della sentenza comporta. La decisione che accerta lʼesistenza del vizio ha efficacia di giudicato e nel caso di un

atto di portata generale come un regolamento lʼeffetto di giudicato si produce erga omnes. Per gli atti parti colari come le

decisioni, lʼeffetto di annullamento è limitato allo specifico atto impugnato e al solo ricorrente.

Lʼannullamento può essere anche parziale, nel senso che vengono annullati solo i punti dellʼatto considerati illegittimi dal

ricorrente. Questo però si può fare solo se questi punti possono essere effettivamente separati dal resto dellʼatto e solo se

lʼannullamento parziale non determini una modifica sostanziale del contenuto dellʼatto stesso (altrimenti la competenza

della Corte si risolverebbe in un intervento legislativo). Per quanto riguarda gli effetti temporanei delle sentenze di

annullamento, questi retroagiscono fino al momento dellʼadozione dellʼatto (efficacia ex tunc), anche se ciò contrasta con le

esigenze di certezza del diritto e di tutela dellʼaffidamento per cui sarà poi la Corte a stabilire quali saranno gli effetti

dellʼatto annullato cha andranno fatti salvi. La Corte nella sentenza di annullamento si limita soltanto a verificare la

sussistenza del vizio, saranno poi le istituzioni che dovranno individuare le misure necessarie da prendere per conformarsi

alla sentenza. Non può giuridicamente condannare le istituzioni interessate a tenere un particolare comportamento.

Cʼè da ricordare infine che la pur corretta esecuzione della sentenza non pregiudica il diritto del ricorrente al risarcimento

del danno ai sensi dellʼ art. 340 TFUE.

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14. Lʼeccezione dʼinvalidità degli atti dellʼUnione europea

La competenza della Corte della giustizia a “legittimare gli atti dellʼUnione” e a controllare la condotta delle istituzioni, si

manifesta, ai sensi dellʼart. 277 TFUE, anche nella eccezione di invalidità.

Questa eccezione risulta essere una ulteriore tutela per i singoli, in quanto stabilisce che questʼultimi possano contestare un

atto illegittimo di portata generale (anche quando esso sia un regolamento), anche quando sia già scaduto il termine per la

sua impugnazione. Risulta utile per i singoli che in principio non sono legittimati ad impugnare atti legislativi di portata

generale come i regolamenti. Si può impugnare una decisione di cui si è destinatari (immune da vizi) se è stata emanata in

applicazione di un regolamento illegittimo. Oppure si impugna atto delegato o esecutivo facendo valere il vizio dell’atto che

contiene la delega.

Un’ipotesi tipica di applicazione della norma in esame è, infatti, quella in cui si eccepisca l’invalidità di un regolamento in

sede di impugnazione di un decisione diretta ad eseguirlo. L’inapplicabilità del regolamento illegittimo fa venir meno il

fondamento giuridico della decisione, con suo conseguente annullamento.

Anteriormente al Trattato di Lisbona la norma in esame menzionava solo i regolamenti. L’ampliamento a tutti gli atti

generali recepisce la giurisprudenza della Corte di giustizia secondo cui l’eccezione non può essere sollevata nei confronti

di atti individuali, di per sé impugnabili, ma non impugnati nel termine di decadenza di due mesi.

Un’altra ipotesi nella quale l’eccezione di invalidità appare invocabile è quella di una procedura d’infrazione contro uno

Stato membro per violazione di atto generale, quale un regolamento.

La Corte ha stabilito che oggetto della norma in esame sono tutti gli atti di portata generale, per cui lʼeccezione non può

essere sollevata nei confronti di atti individuali che non siano stati impugnati nel termine di decadenza di 2 mesi.

Lʼeccezione se accolta, non implica lʼannullamento dellʼatto in questione, ma la sua inapplicabilità nel processo in corso.

15. Il ricorso in carenza

Il ricorso in carenza è previsto dall'art. 265 TFUE ed è un ricorso diretto a sindacare la legittimità dei comportamenti delle

istituzioni europee al pari del procedimento ex art. 263 TFUE e quindi è diretto a controllare se unʼistituzione o organo

dellʼUnione, abbia omesso di adottare un atto che aveva lʼobbligo giuridico di emanare.

Tale ricorso è proponibile, quindi, solo in caso di inerzia, di astensione della istituzione, cioè nel caso di mancata

emanazione dellʼatto, non anche quando esso emani un atto diverso da quello richiesto o rifiuti lʼatto che gli era stato

richiesto.

La mancata emanazione dellʼatto, deve avvenire in “violazione dei Trattati”, nel senso che affinché il ricorso sia proponibile

lʼistituzione deve aver violato lʼobbligo giuridico di emanare lʼatto in questione.

Quindi esso non è ammissibile qualora lʼistituzione goda di discrezionalità nell’emanare lʼatto.

Diverso è il caso in cui lʼistituzione gode di discrezionalità circa il contenuto dellʼatto, pur essendo obbligata ad emanarlo.

Anche in questo caso se c’è inerzia, il ricorso è proponibile. Ciò induce a ritenere impugnabili omissioni rispetto a qualsiasi

tipo di atto, anche se non vincolante e non definitivo.

Riguardo ai soggetti legittimati a proporre il ricorso in oggetto, si ripresenta la distinzione tra i ricorrenti privilegiati e non

privilegiati presumibile dall’art. 265, il ricordo può essere presentato, senza alcuna condizione soggettiva, dagli Stati

membri e dalle istituzioni dell’UE che rappresentano, quindi, i ricorrenti privilegiati. In questo caso però rientrano nella

definizione di ricorrenti privilegiati anche la Corte dei Conti, la Banca Centrale Europea e il Consiglio Europeo.

La legittimazione a ricorrere delle persone fisiche o giuridiche risulta limitata sia sotto un profilo oggettivo che soggettivo.

Sotto il primo, il ricorso è escluso per le raccomandazioni e i parerei e riguarda, pertanto, la mancata emanazione di una

decisione nei confronti del ricorrente. Sotto il secondo, i singoli devono essere destinatari dell’atto omesso. Anche se non

diretto a loro, possono fare ricorso se li riguarda in maniera diretta e individuale.

Il Trattato di Lisbona ha accentuato, peraltro, le differenze tra i due rimedi giudiziari. La legittimazione dei singoli nei

riguardi di atti regolamentari è limitata alla sola azione di annullamento e non si estende al ricorso in carenza. La ricevibilià

del ricorso, quale sia ricorrente, è subordinata al previo svolgimento di una fase, che può denominarsi precontenziosa o

amministrativa, volta a far emergere con chiarezza l’inerzia dell’inerzia dell’istituzione, organo o organismo.

Il primo atto di tale fase consiste, dunque, nell’intimazione di agire rivolta all’istituzione organo o organismo in questione

(c.d. messa in mora). Tale intimazione dovrebbe essere fatta entro un termine ragionevole dal momento in cui appare

evidente l’inerzia dell’istituzione, organo o organismo.

La richiesta rappresenta una condizione imprescindibile di ricevibilità del ricorso, in quanto, da un lato, fissa il termine dal

quale decorrono i due mesi entro i quali l’istituzione, organo o organismo devono prendere posizione, dall’altro, definisce

l’oggetto dell’eventuale giudizio dinanzi alla Corte.

Ai fini della proponibilità del ricorso occorre, inoltre, che nei due mesi successivi l’istituzione, organo o organismo richiesti

non abbiamo preso posizione. Qualora, al contrario l’istituzione, l’organo o l’organismo respingono formalmente la

richiesta o adottino un atto diverso da quello richiesto, non è possibile un ricorso in carenza, ma, se del caso, un ricorso di

annullamento ai sensi dell’art. 263.

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Se la Corte di giustizia constati l’illegittima omissione da parte dell’istituzione, organo o organismo in questione, essa non

può condannarlo ad emanare l’atto richiesto; la sua sentenza è di mero accertamento.

In definitiva, essi dovranno adottare l’atto la cui omissione è stata dichiarata contraria ad un obbligo previsto dai Trattati;

ciò, peraltro, non significa necessariamente che l’atto debba soddisfare le pretese del ricorrente, poichè l’illegittimità

consiste nella mancata adozione dell’atto, mentre il suo contenuto potrà dipendere dal margine di discrezionalità di cui

dispone, al riguardo, l’istituzione, organo o organismo convenuti in giudizio.

16.Lʼazione di responsabilità contro lʼUnione europea

Un’ulteriore competenza della Corte giustizia sullʼoperato della Comunità è la competenza in materia di responsabilità

extracontrattuale, con cui conosce che la Comunità debba risarcire i danni provocati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti

nellʼesercizio delle loro funzioni.

La disciplina sostanziale va ricavata dai principi generali comuni agli Stati membri; si tratta in sostanza della responsabilità

aquiliana ex art. 2043 c.c.

Lʼautonomia del ricorso in esame rispetto al ricorso di annullamento rende inapplicabili all’azione di risarcimento le più

stringenti condizioni richieste nel ricorso per annullamento e consente di esperire lʼazione anche in caso di un atto non

impugnato.

Nei rapporti tra la competenza della Corte e quella dei giudici nazionali, questʼultimi sono competenti quando lʼillecito sia

imputabile agli Stati membri e non allʼUnione. Invece quando gli Stati membri si limitano a dare esecuzione ad un atto

dellʼUnione, senza margine di discrezionalità, il danno sarà imputabile allʼUnione stessa e di conseguenza, competente a

decidere sarà la Corte di Giustizia. Se invece, lʼatto comunitario è lecito, mentre quello di esecuzione dello Stato è illecito,

allora i danni saranno attribuiti allo Stato in questione e la competenza è dei giudici nazionali. Solo qualora i ricorsi interni

non abbiano reso giustizia allʼinteressato allora questi può ricorrere alla Corte (carattere residuale).

Non tutti gli atti o omissioni danno luogo al risarcimento, ma devono sussistere alcune condizioni: a)

la norma violata deve essere preordinata a conferire diritti al singolo;

b) deve trattarsi di una violazione grave e manifesta;

c) deve esserci un nesso di causalità tra lʼobbligo incombente sullʼautore e il danno subito dai soggetti lesi.

Per quanto riguarda la responsabilità dellʼUnione per un illecito commesso dai suoi agenti nellʼesercizio delle loro funzioni,

sono necessarie 2 condizioni: a) colui che ha prodotto il danno deve essere un dipendente dellʼUnione; b) deve aver agito in

esecuzione di un compito affidatogli dalla stessa Unione

La responsabilità extracontrattuale dellʼUnione potrebbe configurarsi anche a seguito di una condotta lecita.

In questo caso però il danno sarebbe risarcibile solo in presenza di rigorose condizioni: a) L’esistenza di un

danno effettivo e certo;

b) Il nesso di causalità tra la condotta dellʼUnione e il danno;

c) Il fatto che il danno sia anormale e speciale.

In realtà la Corte di Giustizia, nella sentenza Fiamm ha espressamente negato tale possibilità.

Le azioni contro l’Unione in materia di responsabilità extracontrattuale si prescrivono in 5 anni dal momento in cui avviene

il danno; il termine È calcolato a partire dalla nascita del danno e non dellʼillecito. Non rientrano nella competenza della

Corte, né la responsabilità contrattuale dellʼUnione, che ricade nella competenza dei giudici nazionali, a meno che nel

contratto non sia stata inserita una clausola compromissoria a favore della Corte;

Né le controversie tra lʼUnione e i suoi dipendenti che invece ricadono nella competenza del Tribunale della funzione

pubblica.

17.La competenza in via pregiudiziale e le sue funzioni

Competenza fondamentale riservata alla Corte di giustizia è quella pregiudiziale o di rinvio, prevista dallʼart. 276 TFUE.

Essa è un prezioso strumento di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte di Giustizia. Tale competenza viene

esercitata nellʼipotesi di controversia relativa allʼinterpretazione di una disposizione di diritto dellʼUnione, la cui soluzione

sia necessaria affinché il giudice nazionale possa decidere la causa. Lʼart. 267 TFUE prevede che il giudice nazionale

sospenda il processo e rinvii allʼesame della Corte di Giustizia la questione relativa al diritto dellʼUnione. Una volta

emanata la sentenza della Corte, il processo interno viene riassunto e il giudice nazionale dovrà conformarsi a tale

sentenze per decidere il caso.

Attraverso tale competenza, la Corte di giustizia ha contribuito allo sviluppo del sistema del diritto dellʼUnione.

La competenza il via pregiudiziale serve a scongiurare il rischio che il carattere uniforme del diritto dellʼUnione sia messo a

repentaglio da possibili interpretazioni difformi dei giudici nazionali. Se una questione pregiudiziale si pone dinanzi ad un

giudice le cui sentenze sono appellabili, questo ha la facoltà di rinviarla alla Corte di Giustizia. Se invece si pone davanti ad

un giudice di ultimo grado questo è tenuto a rinviare la questione alla Corte.

L’attribuzione alla Corte della competenza si fonda sull’osservazione che il giudice nazionale è rivolto essenzialmente ai

privati, persone fisiche e giuridiche, ed è quindi destinato ad applicarsi nei processi, nazionali, coinvolgenti loro diritti e

interessi. Tenuto conto di ciò, la competenza in via pregiudiziale risponde al duplice obiettivo, da un lato, di scongiurare il

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rischio che il carattere uniforme del diritto dell’UE sia pregiudicato da interpretazioni difformi dei giudici nazionali;

dall’altro, di evitare che questi giudici applichino atti dell’UE che presentano vizi implicanti la loro illegittimità.

La questione pregiudiziale può avere ad oggetto o l’interpretazione sia di disposizioni dei Trattati che di atti dell’UE,

oppure la validità di tali atti. Se una questione pregiudiziale si pone dinanzi ad un giudice le cui sentenze siano

impugnabili, tale giudice ha la facoltà di rinviarla alla Corte di giustizia; se, invece si pone davanti ad un giudice di ultimo

grado, questi è tenuto a rivolgersi alla Corte.

Per quanto riguarda la competenza pregiudiziale interpretativa del diritto dell’UE, può dirsi che, tendenzialmente, essa è

centralizzata nella Corte di giustizia, mentre l’applicazione di tale diritto è riservata al giudice nazionale.

Per quanto riguarda la competenza del giudice nazionale a valutare la rilevanza della questione concernente il diritto

dell’UE ai fini della sua decisione, va notato che non è assoluta, né si sottrae a una verifica della Corte, tesa ad accertare una

manifesta irrilevanza, implicante l’irricevibilità della domanda del giudice nazionale.

Nella giurisprudenza la competenza interpretativa della Corte è impiegata frequentemente per accertare, nella sostanza, la

compatibilità con il diritto dell’UE della condotta di Stati membri, risultante da leggi, atti amministrativi, prassi, ecc. Questo

impiego alla competenza pregiudiziale si giustifica presentando come oggetto della questione l’interpretazione di una tale

disposizione, al fine, peraltro, di stabilire se sia conforme o meno a tale interpretazione una legge, un atto amministrativo,

una prassi statale. La condotta statale viene in rilievo solo indirettamente, ma, nella sostanza, è essa l’oggetto reale della

pronuncia della Corte di giustizia. Per tale via, quindi, viene ad aggiungersi un altro strumento di controllo sull’osservanza

da parte degli Stati membri dei propri obblighi; strumento particolarmente prezioso per i singoli, i quali, privi di una

legittimazione a promuovere una procedura d’infrazione, possono ottenere una pronuncia della Corte di giustizia sollevando

in un processo interno la questione, sotto il profilo della interpretazione della disposizione europea che si presume violata.

L’art. 267 attribuisce alla Corte anche la competenza a decidere, su rinvio di un giudice nazionale, in merito alla legittimità

di un atto dell’UE, direttamente applicabile o costituente la base per l’emanazione di una legge interna di attuazione o di un

atto amministrativo. La competenza esclusiva della Corte a decretare l’invalidità di un atto dell’UE non appare pienamente

coerente con l’art. 267: questo, attribuendo al giudice non di ultima istanza la facoltà di rinviare la questione alla Corte,

presuppone infatti il suo potere di stabilire anche l’illegittimità dell’atto, beninteso, con effetti limitati al processo in corso.

La Corte, peraltro, riconosce al giudice nazionale il potere di emanare provvedimenti provvisori a tutela dei diritti delle

parti, ove sospetti l’invalidità di un atto dell’UE. Tali provvedimenti possono consistere nella sospensione di un atto

amministrativo adottato in base a un atto dell’Unione o persino in un provvedimento cautelare che sospenda l’applicazione

dello stesso atto dell’UE, quale un regolamento. Detta possibilità è sottoposta a rigorose condizioni.

Va sottolineato che il rinvio pregiudiziale di legittimità arricchisce la tutela del singolo, in quanto gli consente, tramite il

rinvio del giudice nazionale, di promuovere una pronuncia di invalidità della Corte rispetto ad atti, quali regolamenti e

direttive, che non lo riguardano direttamente e individualmente e che, pertanto egli non può impugnare.

18.Segue: lʼoggetto della competenza pregiudiziale

Bisogna distinguere tra la competenza interpretativa e quella di legittimità.

La competenza interpretativa riguarda qualsiasi disposizione del diritto dellʼUnione senza alcuna eccezione, cioè il suo

intero ordinamento giuridico. Essa, quindi, può esercitarsi su norme dei Trattati, sugli accordi di adesione, sugli accordi

internazionali, sui principi generale del diritto dell’UE, dagli atti emanati dalle sue istituzioni, organi o organismi, su quelli

adottati da organismi istituiti da accordi di associazione e persino sulle sentenze della stessa Corte di giustizia. Oggetto

della competenza interpretativa non può essere una normativa nazionale che non sia diretta ad applicare una disposizione

del diritto dellʼUnione.

Più limitato è lʼoggetto della competenza di legittimità: esso comprende i solo atti dellʼUnione suscettibili di essere

impugnati ai sensi dellʼart. 263 TFUE, quindi solo quelli produttivi di effetti giuridici, non anche raccomandazioni e pareri.

A differenza della competenza interpretativa, è da escludere che si possa rinviare alla Corte una questione relativa alla

validità di una sua sentenza.

La competenza di legittimità della Corte inoltre riguarda i soli atti dell’Unione, non anche il diritto primario, cioè le stesse

disposizioni dei Trattati. Questo non ha impedito però alla Corte di pronunciarsi in merito alla validità della decisione del

Consiglio europeo del 2011, che ha modificato l’art. 136 inserendo il paragrafo 3 (abilitazione degli Stati dell’eurozona a

istituire un meccanismo di stabilità). Tale decisione è stata presa in base all’art. 48, par.6 TUE, il quale ha introdotto una

procedura di revisione semplificata, alle condizioni in esso stesso previste. La Corte, nella sentenza Pringle poi, ha

affermato che: “poiché il controllo del rispetto delle dette condizioni è necessario per accertare se possa essere applicata

la procedura di revisione semplificata, spetta alla Corte, nella sua qualità di istituzione che assicura, in forza dell’art. 19

par.1, il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati, esaminare la validità di una decisione del

Consiglio europeo fondata sull’art. 48, par.6, TUE”.

La ricevibilità delle questioni pregiudiziali sono subordinate alla natura di organo giurisdizionale posseduta dallʼautorità

82

che opera il rinvio, stabilita a livello del diritto dellʼUnione europea e non alla stregua dei differenti sistemi giuridici degli

Stati membri.

Per quanto riguarda lʼItalia, cʼerano stati dei problemi in merito alla competenza di rinvio della Corte Costituzionale poiché

essa stessa si era dichiarata incompetente. Successivamente la Corte Costituzionale ha mutato atteggiamento per quanto

riguarda lʼipotesi in cui essa fosse adita in via principale, quando cioè essa operi come giudice della controversia, stabilendo

in questo caso la sua competenza a sollevare la questione di rinvio alla Corte di Giustizia.

Tale impostazione è stata poi confermata anche dalla Corte di Giustizia, la quale ha stabilito che anche se la Corte

Costituzionale è un organo di garanzia costituzionale, essa ha comunque natura di giudice, e in particolare di ultima istanza.

Nel caso in cui una questione concernente il diritto dellʼUnione rientri anche nella competenza della Corte Costituzionale, il

giudice comune deve prima adire la Corte di Giustizia per la pronuncia attinente al diritto dellʼUnione e solo dopo può

sollevare davanti alla Corte Costituzionale il problema dellʼincostituzionalità della legge. Sussiste quindi una priorità

logico­giuridica della “pregiudizialità comunitaria” rispetto alla “pregiudizialità costituzionale”.

Quando la Corte Costituzionale è legittimata al rinvio alla Corte di Giustizia, questa ha il dovere di praticare il rinvio

essendo essa opera da organo di ultima istanza, contro le cui decisioni non può essere presentato ricorso ai sensi del diritto

interno. La ratio sta nel fatto che un errore del giudice non di ultima istanza può essere riparato col ricorso; al contrario un

errore di un organo di ultima istanza non può essere riparato.

Ciò anche al fine di evitare che in uno Stato membri si vada a consolidare un orientamento giurisprudenziale in contrasto

col diritto dellʼUnione. Il rinvio pregiudiziale non è necessario quando il significato della norma dellʼUnione sia evidente.

La Corte ha poi negato la propria competenza nel caso quando il giudice nazionale non le abbia dato gli elementi di fatto e

di diritto necessari alla soluzione.

19.Segue: gli effetti della sentenza della Corte

Le sentenze della Corte di Giustizia emanate a seguito del rinvio pregiudiziale sono obbligatorie

Nei confronti del giudice a quo, il quale è tenuto a decidere il caso in conformità alla pronuncia della Corte.

La sentenza ha quindi gli effetti del giudicato per tale giudice. I giudici nazionali possono nuovamente rivolgersi alla Corte

per sottoporle una questione diversa o nuovi elementi di valutazione.

I giudici nazionali non sono obbligati a rivolgersi alla Corte se la questione interpretativa sorta sia identica o analoga ad

altra già decisa dalla Corte stessa.

La Corte Costituzionale italiana ha riconosciuto alla sentenze pregiudiziali della Corte unʼefficacia egra omnes, dichiarando

la loro prevalenza sul diritto nazionale incompatibile. Da ciò deriva che una sentenza della Corte che dichiari lʼinvalidità di

un atto dellʼUnione, sebbene abbia come diretto destinatario solo il giudice che si è rivolto alla Corte, diviene obbligatoria

anche nei confronti di tutti gli altri giudici che sono tenuti a considerare lʼatto non valido.

La sentenza che dichiari lʼinvalidità dellʼatto impone anche alle altre istituzioni di uniformarsi. Le istituzioni che hanno

emanato lʼatto devono quindi provvedere a revocarlo o a modificarlo. Se la sentenza dichiari invece lʼinvalidità dellʼatto, il

giudice richiedente è tenuto ad uniformarsi alla sentenza, ma la questione di legittimità potrà essere sollevata da altri giudici

per motivi differenti. La sentenza della Corte retroagisce fino al momento dellʼentrata in vigore della disposizione oggetto

di interpretazione, e quindi dovrebbe applicarsi anche a rapporti sorti anteriormente alla sentenza. Nella sentenza Denkavit,

la Corte affermò che essa possa decidere di limitare nel tempo gli effetti della sua sentenza. Tale impostazione però non può

pregiudicare coloro che, prima della pronuncia abbiano avviato azione giurisdizionale.

20. La competenza della Corte nelle controversie sottoposte in base a compromesso

L’art. 273 TFUE prevede una competenza della Corte di carattere facoltativo, nel senso che essa non è istituita

direttamente dai Trattati, ma è attribuita alla Corte di comune accordo dalle parti di una controversia. Ai sensi di tale

articolo, la Corte “è competente a conoscere di qualsiasi controversia tra Stati membri in connessione con l’oggetto dei

Trattati, quando tale controversia le venga sottoposta in virtù di un compromesso.”

La norma ha avuto applicazione solo di recente, richiamata come fondamento della competenza attribuita alla Corte dall’art.

37, par.3 del Trattato che istituisce il MES e dal Trattato del Fiscal Compact.

Il MES prevede che se uno Stato membro contesta una decisione con la quale il Consiglio dei governatori abbia statuito su

una controversia tra il MES e i suoi membri, o fra tali membri, relativa all’interpretazione o all’applicazione dello stesso

Trattato MES la controversia è sottoposta alla Corte di giustizia. La sentenza è vincolante per le parti in causa, che adottano

le necessarie misure per conformarvisi entro il periodo stabilito dalla Corte.

Il Fiscal Compact prevede che se uno Stato parte non ha rispettato l’obbligo di inserire la regola del pareggio di bilancio nel

proprio ordinamento, la Corte di giustizia può essere adita da uno o più Stati affinché dichiari tale inadempimento.

Le condizioni richieste dall’art. 273 sono:

83

- Controversia tra Stati (con esclusione di controversie delle quali siano parti anche Stati terzi o organizzazioni

internazionali): il MES non appare conforme allora, perché la competenza riguarda anche controversie tra Stati membri e

il MES, il quale non è uno Stato né un membro dell’Unione. Al contrario la Corte di giustizia, causa Pringle, ha ritenuto

giustificata la competenza della Corte, dichiarando che il MES è composto esclusivamente da Stati membri e quindi la

disciplina è ugualmente applicabile. Il problema è che in realtà lo stesso MES si qualifica come un’istituzione finanziaria

internazionale, cioè come una organizzazione internazionale, con propri organi e poteri, distinti dagli Stati che ne fanno

parte.

- La controversia deve presentare una connessione con l’oggetto dei Trattati. La Corte con la sentenza Pringle

ha dichiarato che tale connessione sussiste con riguardo il MES, perché il protocollo di intesa tra il MES e lo Stato

membro che richieda un sostegno finanziario alla stabilità deve essere pienamente conforme al diritto dell’Unione, in

particolare alle misure di coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri adottate dalla Commissione.

Pertanto le condizioni per la concessione di un sostegno sono determinate dal diritto dell’Unione e un’eventuale

controversia legata all’interpretazione o applicazione del MES può vertere altresì sull’interpretazione o sull’applicazione

delle disposizioni del diritto dell’Unione.

- La controversia sia sottoposta alla Corte in base a un compromesso: il compromesso è l’accordo con il quale

gli Stati parti di una controversia convengono di sottoporla alla decisione di un terzo, assumendo preventivamente

l’obbligo di vincolarsi al rispetto della sentenza da lui emanata. La formulazione dell’art. 273 e la nozione di

compromesso comportano che sia idoneo a sottoporre alla competenza della Corte una singola controversia in atto. Al

contrario, le disposizioni del MES e Fiscal Compact attribuiscono alla competenza della Corte una serie indeterminata di

controversie future ed eventuali. La sentenza Pringle ha comunque salvato il MES affermando che se è vero che l’art. 273

subordina la competenza della Corte all’esistenza di un compromesso, nulla impedisce che tale accordo si verifichi

preventivamente con riferimento a un’intera categoria di controversie predefinite.

CAPITOLO IX: I RAPPORTI TRA LʼORDINAMENTO DELLʼUNIONE EUROPEA E QUELLO ITALIANO

1. Il fondamento costituzionale del trasferimento di poteri sovrani allʼUnione europea

Il tema dei rapporti tra l’ordinamento dell’UE e quello italiano ha sollevato numerosi e delicati problemi, che hanno visto un

originario vivace contrasto tra l’atteggiamento della Corte costituzionale italiana e quello della Corte di giustizia dell’UE.

Contrasto, per altro, appianatosi nel corso degli anni, sino a giungere ad una sostanziale armonia nelle conclusioni.

Il primo problema nasceva dal fatto che i Trattati istitutivi delle Comunità europee, come quelli ora vigenti a seguito delle

modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, comportano un sia pur parziale trasferimento di poteri sovrani, in particolare di

competenze legislative e giudiziarie dagli Stati membri alle istituzioni europee.

Proprio la consapevolezza della profonda incidenza dei Trattati in parola sugli ordinamenti statali, a causa del suddetto

trasferimento di poteri sovrani, ha indotto numerosi Stati a dare esecuzione a tali Trattati con legge costituzionale o a emanare

norme costituzionali, per rendere compatibile con la propria costituzione il suddetto trasferimento di potere, fornendo ad esso

un fondamento ed una giustificazione costituzionale.

In Italia l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione dei Trattati istitutivi delle Comunità europee sono stati dati con

legge ordinaria, non costituzionali, essendo improbabile l’adozione di quest’ultima a causa di una forte opposizione ostile,

all’epoca, all’integrazione europea.

Di conseguenza si è posta ben presto, dinanzi alla Corte costituzionale italiana la questione della legittimità costituzionale

delle leggi. La Corte ha dichiarato che le leggi di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dei Trattati comunitari trovano

un fondamento nell’ART. 11 della Cost.

Benché nata principalmente, per favorire la partecipazione dell’Italia all’Organizzazione delle Nazioni Unite, tale disposizione

è stata considerata idonea a consentire “limitazione di sovranità”, e, quindi, a permettere al legislatore ordinario di effettuale

tali limitazioni.

2. Il primato del diritto italiani dellʼUnione europea direttamente applicabile su quello italiano in caso

dʼincompatibilità

Si poneva, per altro, un ulteriore problema con cernente la prevalenza del diritto dell’UE o di quello interno nell’ipotesi di

contrasto tra le norme dei due ordinamenti. Il problema riguardava le norme europee direttamente applicabili poiché solo

per esse può porsi la questione se il giudice nazionale debba applicare la norma europea o quella nazionale, qualora abbiano

un contenuto incompatibile. Inizialmente, la sentenza della Corte Costituzionale Costa c. Enel, stabilì che, essendo stati resi

esecutivi i Trattati con legge ordinaria, le disposizioni nel diritto europeo non avevano efficacia superiore a quella propria

della legge ordinaria e pertanto, un eventuale contrasto andava risolto in base al principio della successione delle leggi nel

tempo.

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Tale tesi incontrò una immediata reazione da parte della Corte di Giustizia nella sentenza Costa c.ENEL, la quale affermò il

primato del diritto comunitario direttamente applicabile, sulle norme interne contrastanti.

Secondo la Corte, infatti, a seguito del trasferimento della sovranità, il diritto dellʼUnione si integra negli ordinamenti degli

Stati membri in una posizione sovraordinata.

Un primo passo verso la risoluzione del conflitto tra le due Corti, ciò fu quando la Corte Costituzionale ha ammesso che, nei

confronti delle leggi interne successive, incompatibili con il diritto dellʼUnione era possibile sollevare la questione di

legittimità e quindi spettava a tale Corte pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di siffatte leggi. La Corte di Giustizia

non ha però approvato la posizione della Corte Costituzionale, infatti nella sentenza Simmenthal, la Corte di Giustizia ha

dichiarato che il giudice nazionale deve garantire la piena efficacia del diritto dellʼUnione, disapplicando se necessario il

diritto interno incompatibile anche posteriore, senza dover attendere la previa rimozione mediante qualsiasi altro

procedimento costituzionale. Tale soluzione discende dallo stesso principio di applicabilità diretta.

Unʼulteriore svolta ciò fu quando la Corte Costituzionale stabilì che lʼart.11 Cost. non comportava lʼinvalidità della norma

interna incompatibile con quella europea, bensì la sua disapplicazione da parte del giudice comune, il quale non deve più

sollevare la questione di legittimità costituzionale.

La Corte Costituzionale arriva quindi a garantire il primato del diritto dellʼUnione su di quello italiano incompatibile.

Lʼeffetto di una regolamento non è però quello di caducare la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma

venga in rilievo per la definizione della controversia davanti al giudice nazionale.

3. Lʼevoluzione della giurisprudenza europea e di quella costituzionale

Nella giurisprudenza successiva della Corte costituzionale è possibile constatare, pur nella sostanziale riaffermazione della

sentenza Granital, una serie di precisazioni ed ampliamenti del riconoscimento del diritto dell’UE destinato ad “prevalere”

su quello interno contrastante e a qualche correzione.

Il suddetto primato è affermato dalla Corte di giustizia anche nei confronti di norme interne di rango costituzionale.

La Corte di giustizia, in oltre, ha chiarito che l’obbligo di assicurare il primato del diritto europeo, applicando quest’ultimo in

luogo del diritto nazionale contrastante, fa capo non solo ai giudici, ma anche alla pubblica amministrazione, comprese le

autorità indipendenti, quali la nostra Autorità garante della concorrenza e del mercato. La Corte di giustizia è giunta anche ad

affermare che il primato del diritto dell’UE comporta la disapplicazione del principio dell’autorità della sentenza passata in

giudicato. Nella sentenza del 2007 Lucchini la Corte ha dichiarato che una sentenza passata in giudicato, che abbia

riconosciuto il diritto di un’impresa di ottenere degli aiuti pubblici, non può impedire il recupero di tali aiuti già erogati, ove

la commissione, decida che gli stessi sono incompatibili con il mercato comune.

Più di recente la Corte di giustizia ha avuto cura di sottolineare l’importanza che riveste il principio di autorità di cosa

giudicata, nell’ordinamento giuridico dell’UE come negli ordinamenti giuridici nazionali, al fine di garantire sia la stabilità

del diritto e dei rapporti giuridici che una buona amministrazione della giustizia.

La Corte di giustizia ha aggiunto che le modalità di attuazione del principio di cosa giudicata rientrano nell’autonomia

procedurale degli ordinamenti degli Sati membri.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di giustizia ha confermato la propria posizione ma ricordando che, in tal caso, si era

in presenza di una situazione del tutto particolare, dato che si trattava di materia nella quale la commissione dispone di una

competenza esclusiva a valutare la compatibilità con il mercato comune di aiuti statali a imprese.

La prevalenza dei trattati e del diritto adottato dall’UE sulla base degli stessi, quale risulta dalla giurisprudenza della Corte

di giustizia dell’UE e alle condizioni da essa stabilite.

La giurisprudenza costituzionale aveva affermato la prevalenza dei regolamenti, in quanto atti, direttamente applicabili, sulla

legge nazionale incompatibile, ha ampliato la categoria degli atti direttamente applicabili, uniformandosi ai principi elaborati

parallelamente dalla Corte di giustizia. La nostra Corte costituzionale finisce per riconoscere alle sentenze della Corte di

giustizia un’efficacia Erga omnes, che conferisce alla giurisprudenza di tale corte effetti analoghi a quelli che la giurisprudenza

produce in sistemi di Common low. La prevalenza viene poi estesa anche alle direttive, purché provviste di effetti diretti alla

stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia, cioè de le loro disposizioni appaiono incondizionate, chiare e

sufficientemente precise, per cui i singoli possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, sia

nell’ipotesi in cui quest’ultimo non le abbia tempestivamente recepite, sia qualora le abbia recepite in maniera inadeguata.

Inoltre, va sottolineata la modifica della Costituzione italiana attuata con le modifiche al titolo V della parte seconda della

costituzione. Quella disposizione, con riguardo ai vincoli posti al legislatore dal diritto comunitario non ha modificato il

quadro dei rapporti tra il diritto dell’UE e quello italiano risultante dalla giurisprudenza costituzionale; essa per altro, ha

esplicitato e confermato il fondamento costituzionale della limitazione di sovranità a favore dell’UE.

E’ il caso di sottolineare che il giudice nazionale deve interpretare il diritto interno in maniera conforme alle norme

dell’Unione; solo quando il contrasto con queste ultime risulti insanabile sul piano interpretativo tale giudice deve disapplicare

il diritto interno, garantendo la diretta applicazione delle norme europee.

85

4. I “controlimiti” al diritto dellʼUnione europea e le residue competenze della Corte costituzionale

Come si è visto, nel caso di contrasto tra le norme nazionali e il diritto dell’UE direttamente applicabile è compito del giudice

comune disapplicare le suddette norme in base alla limitazione di sovranità fondata sull’Art. 11 Cost., giovandosi, del rinvio

pregiudicale alla Corte di giustizia. La questione di costituzionalità sarebbe destinata ad essere dichiarata inammissibile dalla

stessa Corte costituzionale.

Va segnalato che la stessa Corte costituzionale, avendo giustificato nell’Art.11 Cost. la limitazione di sovranità e il primato

del diritto dell’UE, ha elaborato una teoria dei “controlimiti”; dei principi nazionali, cioè, che vanno necessariamente

salvaguardati e che, a loro volta, limitano la prevalenza del diritto dell’UE.

Tale controlimiti non coincidono con tutte le norme costituzionali. I controlimiti, che non possono in alcun caso essere

pregiudicati dal diritto dell’UE, consistono nei principi fondamentali nel nostro ordinamento costituzionale e nei diritti

inalienabili delle persona umana.

Come è stato chiarito dalla giurisprudenza successiva, ove una disposizione o un atto dell’UE violassero un siffatto principio

o un diritto umano fondamentale, il giudice comune dovrebbe sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità

costituzionale della legge italiana di esecuzione dei Trattati europei, in riferimento alle singole disposizioni o atti in conflitto

con detti principi o diritto fondamentali. L’eventuale pronuncia di incostituzionalità avrebbe come oggetto la legge italiana di

esecuzione non nella sua interezza ma solo nella misura in cui consentisse a specifiche disposizioni o atti dell’UE di spiegare

i propri effetti nell’ordinamento italiano.

Vi è una seconda ipotesi nella quale la Corte costituzionale ha affermato una proprio competenza esclusiva. E’ il caso,

chiamato di “ribellione del legislatore”, nel quale la legge ordinaria è deliberatamente diretta a “impedire o pregiudicare la

perdurante osservanza del Trattato, in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei propri principi”, come quelli concernenti

l’instaurazione di un mercato comune. Negli anni ’90 emerge una terza fattispecie nella quale il dissidio tra diritto interno e

diritto dell’UE va risolto dalla Corte costituzionale. Si tratta della competenza della stessa corte a conoscere, in via principale,

dei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e di quelli tra lo Stato e le regioni, e tra le regioni.

Vi è ancora un’ipotesi nella quale il giudizio sulla incompatibilità del diritto italiano con quello dell’UE deve essere risulto

della Corte costituzionale mediante la declaratoria di legittimità costituzionale della legge italiana. Essa si verifica quando le

disposizioni dell’UE non siano direttamente applicabile, per cui, pur disapplicando le norme interne contrastanti, il giudice

ordinario non potrebbe ritrovare una disciplina europea sufficientemente completa per regolare il caso. L’incostituzionalità

della legge statale trova oggi un esplicito fondamento nell’art. 117, 1° comma, Cost., che subordina la podestà legislativa

dello Stato e delle regioni al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

Tale indirizzo è ormai consolidato, come risulta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 28/2010, nella quale afferma che

il controllo sulla conformità di una legge ad una direttiva europea non munita di efficacia diretta spetta alla stessa Corte,

dinanzi alla quale il giudice comune può sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 11 e 117 c.1

della Costituzione.

5. Lʼadeguamento legislativo del diritto italiano al diritto dellʼUnione europea. La “legge di delegazione europea” e la

“legge europea”

L’adeguamento del diritto italiano agli obblighi nascenti dal diritto dellʼUnione richiede un intervento ad opera del

legislatore.

Tale intervento è necessario per gli atti europei non direttamente applicabili. La prassi originariamente usata dal nostro Stato

era quella di dare esecuzione agli atti europei, attraverso leggi che delegavano al governo lʼemanazione di decreti legislativi

volti a dare attuazione ad un pacchetto di direttive indicate nella legge delega.

Lo strumento della delega veniva concesso sotto lʼurgenza di eseguire le direttive il cui termine di attuazione era già

scaduto. Il sistema era assai criticato in quanto non appariva conforme allʼart. 76 Cost., il quale dichiara che la delega al

governo doveva contenere i criteri direttivi, doveva essere limitata nel tempo e per oggetti definiti. In realtà però l’oggetto

della delega era estremamente diversificato e il Parlamento risultava così espropriato dei suoi poteri.

C’era bisogno di un sistema che abbandonasse gli interventi episodici e confusi della legge delega e assicurasse una corretta

e tempestiva attuazione delle direttive, garantendo al tempo stesso il pieno rispetto della Costituzione. Una disciplina

organica venne introdotta con la c.d. “legge La

Pergola”: tale legge aveva un duplice obiettivo: da un lato regolare le forme di partecipazione del Parlamento e delle

regioni alla formazione degli atti, dallʼaltro garantire l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dellʼItalia

allʼUnione europea. Tale legge è stata modificata più volte e infine sostituita.

Lo strumento centrale per garantire tale adempimento era la “legge comunitaria”, che conteneva disposizioni per

l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dellʼItalia allʼUnione europea.

Venne sostituita dalla c.d. legge Buttiglione la quale, rispettando lo schema generale, i principi ispiratori e gli strumenti di

attuazione, ne costituisce un opportuno ammodernamento.

86

La legge Buttiglione è stata abrogata nel 2012 e sostituita dalla legge n. 234, contente “Norme generali sulla

partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”.

Anche tale legge ha una duplice finalità: disciplinare il processo di partecipazione dell’Italia alla formazione delle decisioni

degli atti dell’unione; garantire l’adempimento degli obblighi e l’esercizio dei poteri derivanti dall’appartenenza dell’Italia

all’Unione, in coerenza con gli art. 11 e 117 della Costituzione, sulla base dei principi di attribuzione, sussidiarietà,

proporzionalità, leale collaborazione, efficienza, trasparenza.

La tempestiva attuazione delle direttive e degli altri obblighi derivanti dal diritto dell’Unione è assicurata non più da una

legge comunitaria annuale, ma da due leggi: di delegazione europea ed europea.

LEGGE DI DELEGAZIONE: contiene le disposizioni per il conferimento al governo di delega legislativa volta

all’attuazione delle direttive; disposizioni che autorizzano il governo a recepire in via regolamentare le direttive; delega

legislativa per l’adozione di sanzioni; ecc.

Per quanto riguarda, in particolare, le direttive, di norma il governo adotta i decreti legislativi di recepimento entro due mesi

anteriori al termine stabilito in ciascuna direttiva. L’autorizzazione al governo ad attuarle in via regolamentare è consentita

anche in materia già disciplinate con legge, ma non coperte da riserva assoluta di legge, sempre che così disponga la legge

di delegazione europea.

LEGGE EUROPEA: contiene disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali in contrasto con gli obblighi

derivanti dall’Unione europea; disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali oggetto di procedure

d’infrazione avviate dalla Commissione contro l’Italia o di sentenze della Corte di giustizia; disposizioni necessarie per dare

attuazione o per assicurare l’applicazione di atti dell’Unione europea.

Ulteriori disposizioni della legge di delegazione europea e della legge europea riguardano le materie di competenza

regionale (vedi paragrafo successivo).

Prescindendo da queste disposizioni, i contenuti delle due leggi sono in parte sovrapponibili.

L’elaborazione della legge di delegazione europea e della legge europea prende avvio con la verifica, da parte del

Presidente del Consiglio, con la collaborazione delle amministrazioni interessate, dello stato di conformità dell’ordinamento

interno e degli indirizzi di politica del governo in relazione agli atti normativi e “di indirizzo” emanati dall’Unione. Entro il

28 febbraio di ogni anno si presenta al Parlamento i relativi disegni di legge.

Queste due leggi rappresentano lo strumento ordinario per assicurare il periodico adeguamento dell’ordinamento italiano

agli obblighi derivanti dal diritto europeo, ma ciò non esclude la possibilità di adottare al di fuori di tali leggi le norme di

attuazione di obblighi conseguenti a singoli atti dell’Unione, come sentenze di condanna della Corte di giustizia, o norme

dirette a fare cessare procedure d’infrazione aperte dalla Commissione contro l’Italia. La scelta di ricorrere a disposizioni

specifiche può derivare dalla complessità della materia oppure dall’urgenza di eseguire sentenze o richieste nell’ambito di

procedure di infrazione (si usa di solito il decreto legge).

Ad esempio la legge costituzionale che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale nel 2012,

non è stata emanata in attuazione di obblighi propriamente derivanti dal diritto dell’Unione, ma in esecuzione di un obbligo

previsto dal trattato sul Fiscal Compact.

Una recente legge del 2012 contempla espressamente la possibilità di adempiere obblighi derivanti dal diritto dell’Unione

mediante disposizioni diverse dalla legge di delegazione europea e dalla legge europea, in specie qualora siano necessarie

misure urgenti o in casi di particolare importanza politica, economica e sociale.

6. Il ruolo delle regioni nellʼattuazione del diritto dellʼUnione europea

Lʼattuazione del diritto dellʼUnione europea comporta anche un delicato problema di riparto delle competenze tra Stato e

Regioni. Infatti molto spesso, le materie oggetto degli atti europei, ricadono nella competenza legislativa della regioni; e

tale fenomeno si è ovviamente intensificato con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione che ha

ampliato notevolmente la sfera di competenza. Occorre quindi stabilire in quale misura alle regioni spetti lʼattuazione degli

obblighi del diritto europeo, e quando eventualmente le loro competenze vanno coordinate con quelle dello Stato.

Andavano quindi conciliati da un lato il principio del rispetto delle competenze regionali, dallʼaltro quello della

responsabilità dello Stato nellʼattuazione degli obblighi dellʼUnione.

In una prima fase, all’indomani della stessa istituzione delle regioni a statuto ordinario, il principio di responsabilità dello

Stato per l’attuazione degli obblighi derivanti dall’UE aveva fortemente compromesso le competenze regionali. La

competenza delle regioni ad attuare direttive era subordinata, in principio, alla previa emanazione di una legge statale che

facesse proprie le direttive, indicando espressamente le norme di principio, obbligatorie per la successiva attuazione da parte

delle regioni. Dopo l’intervento della legge costituzionale 3/2001, è stata riconosciuta a livello costituzionale la competenza

delle regioni a dare attuazione nella fase “discendente”, a tale atti; peraltro anche il potere sostitutivo dello Stato è garantito a

livello costituzionale al fine di evitare che l’eventuale inerzia delle regioni derivi la responsabilità dello Stato nei confronto

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dell’UE. L’art. 117, 5° comma, cost. va coordinato con il 3° comma, ai sensi del quale nelle materie di legislazione concorrente

la potestà legislativa delle regioni è subordinata ai principi fondamentali posti con legge statale.

Va ricordata, in fine, un ulteriore disposizione costituzionale sul potere sostitutivo dello Stato, posta nell’Art. 120, 2°

comma. In base a tale norma il governo può sostituirsi a organi delle regioni nel caso di mancato rispetto della normativa

europea.

La materia è oggi contenuta nella disciplina della legge n.234/2012, che corrisponde nella sostanza alla disciplina già

contenuta nella “legge Buttiglione” e successive modifiche.

Le regioni, nelle materie di propria competenza, possono dare immediata attuazione alle direttive dellʼUnione. Sebbene si

parli solo di direttive, si ritiene che la competenza riguardi il dare attuazione a qualsiasi atto europeo che richieda

disposizioni di recepimento o di applicazione.

In caso di inerzia regionale nellʼattuazione degli obblighi europei, le disposizioni sono contenute nella legge europea, e

si afferma che lo Stato ha il potere di sostituirsi con una propria normativa di attuazione a partire dalla scadenza del

termine, fissato per lʼattuazione della normativa europea. La normativa statale di sostituzione perde poi valore nel

momento in cui entra in vigore quella regionale, in ragione del carattere cedevole delle disposizioni in essa contenute.

Da tale legge, è stato poi stabilito, un “diritto di rivalsa” dello Stato per gli oneri finanziari conseguenti alla violazione di

obblighi derivanti dallʼUnione europea a causa della mancata emanazione della normativa regionale di attuazione.

Questo diritto di rivalsa si comprende per il fatto che di fronte all’ Unione europea, l’unico soggetto responsabile è lo

Stato, anche se l’inadempimento sia dovuto ad altri enti pubblici. Alcune regioni hanno addirittura previsto lʼadozione di

una “legge comunitaria regionale”, come per esempio il Friuli Venezia Giulia.