giovanni boine, il peccato, a cura di ugo perolino, bologna, millennium, 2003

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Testi e Studi di cultura italiana

Collana diretta da

Nicola D'Antuono e Piero Pieri

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volumi di prossima pubblicazione

2CARLO MELE, Storia di un nuovo pazzo

a cura di Nunzia D’Antuono

3ENRICO RUTA, Il segreto di Partenope

a cura di Nicola D’Antuono

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Giovanni Boine

Il peccato

Saggio introduttivo, annotazioni,commento e bibliografia

a cura di Ugo Perolino

MILLENNIUM

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Sigle e abbreviazioni

Per le opere di Boine più frequentemente consultate sono stateimpiegate le seguenti abbreviazioni:

EREA = G. BOINE, L’esperienza religiosa e altri scritti di filosofia e di lette-ratura, a cura di Giuliana Benvenuti e Fausto Curi, Bologna, Pendragon,1982. Si fa riferimento a questa raccolta antologica per le seguenti opereboiniane:

AG = L’agonia, pp. 199-213;CT = La città, pp. 185-98;ER = L’esperienza religiosa, pp. 99-138;IG = Un ignoto, in EREA 138-58;PM = Di certe pagine mistiche, pp. 79-98.

Per i seguenti testi si fa inoltre riferimento a G. Boine, Il Peccato Plausie Botte Frantumi Altri scritti, cura di Davide Puccini, Milano, Garzanti,1983 (indicato con la sigla GBO):

COL = La crisi degli olivi in Liguria, pp. 395-414;FNC = La ferita non chiusa, pp. 384-95.Da questa raccolta sono inoltre ricavate le citazioni dai Frantumi e da

Plausi e Botte.

I testi delle polemiche con Croce e Prezzolini sono raccolti in G.BOINE, Carteggio, I, Giovanni Boine-Giuseppe Prezzolini (1908-1915), acura di Margherita Marchione e S. E. Scalia, Prefazione di GiuseppePrezzolini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1982, rispettivamentealle pp. 145-74 e pp. 201-53. L’epistolario boiniaino, per cui si rimandaalla bibliografia, viene richiamato con la sigla C seguita dall’indicazionedel volume, con numeri romani, e dall’indicazione delle epistole e dellepagine (con numeri arabi).

Il testo del Peccato viene indicato con la sigla PE. I rimandi internidevono essere riferiti alla presente edizione.

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Il titolo del saggio introduttivo rinvia allusivamente al testo di EmanueleSeverino, L'anello del ritorno (Milano, Adelphi, 1999), nel quale l’«anello delritorno» indica una configurazione del tempo intimamente connessa allacostellazione tematica della ripetizione, cui Boine attinge in forme autono-me ed originali.

Nel licenziare il volume desidero ringraziare i Proff.ri Nicola D'Antuonoe Piero Pieri che hanno seguito con attenzione sollecita, fornendomi pre-ziose indicazioni di lavoro, le fasi di elaborazione del libro, a cui tocca il pri-vilegio di inaugurare questa nuova collana di testi e studi di cultura italiana.

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1 Cfr. la lettera a Stefano Jacini, [Porto Maurizio, 7-11 febbraio 1910], C III,234, p. 354: «Ma qui ho buttato a mare tutto ciò che di metafisico e di mistico minavigava nell’anima e mi son fatto homo practicus. Non t’ho mai detto ch’io vogliodiventare sindaco di Portomaurizio? Vedrai fra qualche anno.

Fuor di scherzo, ecco cosa è successo. Son venuto qui, sai come. Mi ero dispo-sto a farvi una vita ritiratissima e queta senza discussioni senza scambio d’idee, unavita tutta da me per me in pro del mio corpo e della mia anima. Mi ci ero dispostoe mi ci ero rassegnato perché imaginavo questo paese come un impasto di olio e didenaro con molto tepore di sole ed infinità di mare tutto intorno.

Ho trovato invece qui cinque o sei giovani intelligenti, lettori del Rinnovamento,della Voce, e della Critica, studenti universitari e ottimamente intenzionati. Li horiuniti e tento di stringerli compattamente facendo circolare fra loro idee che lientusiasmino assieme. Parecchi di essi si daranno all’insegnamento: io tendo a que-sto: insediarli tutti quanti nelle scuole del paese, impadronirci dell’autorità comu-nale e trasformare in dieci anni Portomaurizio». Si veda inoltre la lettera ad Ales-sandro Casati, [Porto Maurizio], 23 dicembre 1909, in C III, 212, pp. 314-16.

2 La nomina di Boine a bibliotecario fu ratificata dal consiglio comunale diPorto Maurizio nella seduta del 13 maggio 1911. Occorre peraltro sottolinearecome l’universo chiuso della biblioteca fosse simbolicamente e concretamente fun-zionale alla «definizione di un disegno pedagogico aristocraticamente estraneo allalogica dell’“olio” e del “denaro” che regola il quadro della vita associata nellaLiguria di Ponente», e come la biblioteca possa idealmente darsi «come orizzonte

L’anello del ritorno: parodia, colpa ed espiazione

Dio non rivela sé nel mondoLudwig Wittgenstein

I

Nei primi mesi del 1910, poco dopo il suo trasferimento a PortoMaurizio, Boine confidava ai suoi amici di sempre di aver conosciuto«cinque o sei giovani intelligenti», «lettori del Rinnovamento, della Voce,della Critica», con cui progettava di «trasformare in dieci anni» la realtàculturale portorina: «qui ho buttato a mare tutto ciò che di metafisicoe di mistico mi navigava nell’anima – scriveva a Stefano Jacini –, e misono fatto homo practicus»1.

Homo practicus, dunque, immerso nella sfera del fare, nella figura ari-stocraticamente atteggiata del pedagogo. Si tratta di una vocazione chelo spinge a occuparsi dei programmi di riordino della biblioteca diPorto Maurizio2, a collaborare ai giornali locali (e segnatamente all’ul-

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tramoderato «Piccone»), a vestire i panni dell’animatore culturale3 eperfino dell’amministratore, interessandosi della refezione scolastica4.Sono, questi, i segni più vistosamente esteriori di una “volontà costrut-tiva” (Contorbia) che sfida la malattia e la chiusa atmosfera del paese, eche, tra ripieghi e scatti euforici, decifra il microcosmo della “caldavita” della provincia, la sua baluginante, onirica circolarità. Se la reci-sione dei legami con il luogo deve essere individuata sulla base di segniben visibili5, per cui all’iniziale fervore si sostituisce un crescente senti-mento di estraneità e inappartenenza che gli fa dipingere la scena por-torina come un macabro «alveare d’uomini»6, un immane mucchio dimorti, sul piano dell’allegoresi fantastica Porto Maurizio diviene, parti-colarmente durante il soggiorno di Davos e dopo, ricettacolo di umori

di un destino in ogni caso strozzato, come ineludibile décor di una condizione coat-ta sperimentata per sette anni ancora, fino alla morte, in una costante oscillazionetra impregiudicato abbandono al magma buio del proprio milieu “naturale” e ricer-ca di una leadership intellettuale non incrinata, ma semmai antifrasticamente pro-piziata, dall’intollerabilità di un’esistenza quotidiana tragicamente precaria e iname-na». Cfr. F. CONTORBIA, La provincia in Boine, in Giovanni Boine, «Atti del ConvegnoNazionale di Studi», Imperia (25-27 novembre 1977), a cura di Franco Contorbia,Genova, Il Melangolo, 1981, pp. 19-65 e 32-3.

3 «Tra il dicembre 1910 e il maggio 1911 non è soltanto la biblioteca a impe-gnare Boine: l’incontro con Mario Novaro, per esempio, reso possibile dalla media-zione “a distanza” di Papini, è in un certo senso la “molla” della singolare alacritàcon la quale egli attende, collocandosi in posizione privilegiata all’interno di uncomitato che comprende altri intellettuali di Porto Maurizio e di Oneglia (DionigiCastellano, Carlo Gentile, Mario Novaro, Francesco Pagliano, Battista Parodi,Carlo M. Parodi, Andrea Rambaldy), all’elaborazione di un programma di confe-renze la cui integrale realizzazione sarà pregiudicata dall’impossibilità di tre deglioratori invitati: del ciclo, originariamente articolato sulla partecipazione di sei stu-diosi – Gaetano Salvemini (Condizioni morali del Mezzogiorno d’Italia), GiuseppePrezzolini (Nazionalismo ed irredentismo), Giovanni Amendola (Tolstoi), GiovanniPapini (Walt Whitman), Tommaso Gallarati Scotti (Socrate) Stefano Jacini(Merekovski) –, verranno tenute le conferenze di Salvemini, Prezzolini e Jacini, nonquelle di Amendola, Papini e Gallarati Scotti». Cfr. F. CONTORBIA, La provincia inBoine, cit., pp. 32-3.

4 Cfr. le lettere ad Alessandro Casati, [Porto Maurizio] 11 e 27 gennaio 1911, inC III, 384 e 389, rispettivamente pp. 558-60 e 564-69.

5 Tra i quali va sicuramente annoverata la fine della collaborazione al «Pic-cone», con l’articolo Patronato scolastico, apparso il 9 marzo 1912.

6 «Città come un alveare d’uomini. Come un grande, come un secolare alvearetorno torno un monte sul mare. Alveare antico di uomini; rigurgito antico di uomi-ni. Ogni anno a centinaia gli uomini. I nati e i morti, alternamente». (CT 198).

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corporali, spazio simbiotico e placenta primordiale7. Era, questa, lamodalità simbolica a cui attingeva il luogo tema del Peccato – l’ultimapuntata sulla «Riviera ligure» recava in calce l’indicazione cronologicadel febbraio-marzo 1913 –, un microcosmo-frammento intagliato nelpaesaggio rivierasco come «un cantuccio luminoso dell’essere» raffigu-rato e compreso, secondo una intenzione di poetica programmatica-mente affidata alle pagine de L’Agonia, dal «fluttuante mareggiar delnon essere»8.

Nella breve nota recensiva alla ristampa vociana del romanzo –nella rubrica Plausi e Botte – Boine rimarcava la natura provvisoria del-l’intreccio narrativo, la forma avventizia della storia esteriore, deglieventi e dei personaggi percepiti in una dimensione “oggettiva” e veri-stica. La grana sperimentale del Peccato, la sua innovativa attrezzaturastilistica, doveva dissimularsi nei toni, nelle atmosfere intorpidite dellaprovincia, «dentro un’apparente povertà di vita». «L’intenzione genera-le – scriveva il poeta ligure – era di rappresentare quel lirico intrecciar-si di molto pensiero sulla scarsezza di pochi fatti». In questo quadro diumore crepuscolare, l’evocazione della simultaneità, resa disponibiledalla lezione di Bergson9, finiva per indicare un percorso introspettivolontanissimo da tentazioni superomistiche o marinettiane, compressonella sua estensione armonica dal «continuo sconfinare della poca cro-

7 Sul rapporto figura-sfondo che lega il protagonista alla città si rimanda inol-tre a Parte I, nota 2.

8 Cfr. AG 207.9 Fausto Curi ha osservato come, a partire dalle pagine di Un ignoto, il poeta

ligure faccia «un uso non bergsoniano, e, anzi, antibergsoniano della nozione di“simultaneità”, giacché mentre Bergson adopera tale nozione esclusivamente inrapporto ad eventi propri del tempo spazializzato, Boine la riferisce invece altempo reale». All’interno di queste coordinate il discorso che Boine viene svolgen-do sulla forma-romanzo definisce un insieme di valori semantici che possono esse-re riferiti insieme alla teoria della conoscenza e all’esperienza religiosa: «Se dunqueBoine, nel discorso che pone in bocca all’ “ignoto”, pur accennando esplicitamen-te all’ “élan” di Bergson, non parla mai di “durata” e parla invece antibergsoniana-mente di “complessità simultanea” e di “molteplicità simultanea”, ciò probabil-mente si deve al fatto che non è tanto la pura idea di un tempo puro a interessar-lo, quanto la possibilità di esperire concretamente nella vita psichica dell’io con-vertita in tempo puro la co-esistenza, la mutua compenetrazione e la fusione orga-nica di un’infinita molteplicità di eventi. Ad affascinarlo, insomma, è la facoltà cheegli sembra attribuire al soggetto di rendere psichicamente omogeneo l’infinito ete-rogeneo che è fuori dell’esistenza soggettiva». Cfr. F. CURI, Il nome, l’aforisma, l’afa-

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nistoria esteriore… nella dolorosa, angosciata complessità del pensa-re», che è compresenza di «cose diverse nella brevità dell’attimo».Erano questi, per Boine, i nodi di una critica al romanzo di impiantonaturalista a cui aveva dedicato le pagine dell’Ignoto, nelle quali, senzaquasi fare ricorso a modelli stranieri (se si esclude la suggestione delcanto di Whitman10) ed in assenza, si direbbe, di più ampi contatti ediramazioni nella cultura europea, decostruiva i modelli della rappre-sentazione “fotografica” del reale per introdurre il criterio espressioni-sta del montaggio11, la complicazione dei punti di vista, il flusso dicoscienza, il metaromanzo12.

Questa vocazione sperimentale, puntualmente recepita dalla critica,ha determinato il privilegiamento di opzioni esegetiche che vanno nelladirezione del romanzo europeo d’avanguardia13, mentre resta sostan-zialmente disatteso l’invito di Ungarelli a leggere il testo boiniano come

sia, in Giovanni Boine, «Atti del Convegno Nazionale di Studi», cit., pp. 265-98, 276e 277.

10 «Parlano del panteismo di Whitman. Ma in molti canti di Whitman la novi-tà è lo sforzo di rendere questa molteplicità simultanea della vita interiore. Questacapacità nuova della nostra vita interiore senza sformarla e geometrizzarla». (IG150).

11 «Dico che ad esempio un romanzo è, gonfialo finché vuoi, un racconto, edun racconto è un idillio; e dico che il romanzo ci costringe a rappresentare e a vede-re il nostro mondo a idilli. È questo, appunto, che mi ripugna: il veder pezzo perpezzo, ad idilli il mondo, a quadratini, a disegnetti ordinati; il vederlo come unuomo colto e pieno né lo vede né lo sente». (IG 149).

12 L’inserzione della deissi spaziale/temporale – si tratta di una tecnica che saràampiamente utilizzata nel Peccato – innesca una rottura della verosimiglianza, erende ragione del significato antinaturalistico dei valori della simultaneità e dellacompresenza: «Il mondo non è una successione ordinata di cose, di pensieri, dioggetti, di azioni con conclusioni finali […]. Il mio mondo è il Mondo, con centomilioni di azioni e di cose simultaneamente presenti, con cento miliardi di variissi-me vite armonicamente viventi e presenti. C’è nel mio mondo anche questo fogliosquadrato ch’io sto ora logaritmando d’idee, ma c’è, dentro la stessa particolareidea che esprimo, permeato all’idea che riluttante ora inchiodo qui sulla carta(come l’intrecciarsi di echi nella sonora cavità di una vallata chiusa) tutto il variotumultuare della universale vita». (IG 149).

13 Sulle aperture sperimentali verso l’antiromanzo ha insistito GiancarloVigorelli che, riprendendo le indicazioni critiche fornite da Giansiro Ferrata eGiacomo Debenedetti, ha proposto di accostare Il Peccato al Dedalus di Joyce, «nonper paragonare i due libri, ma per farli consonare»: «In quale altro nostro scrittore– domando, e rispondetemi – troviamo enunciate queste estreme illuminazionianticipatrici sull’antiromanzo, sull’“opera aperta”: e non dovremo forse sorridere,

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autoritratto dell’artista da giovane14. L’esibita povertà del materiale narrati-vo che sta alla base del Peccato – l’amore contrastato di un giovane diventisei anni per una novizia, la monacazione forzata, gli incontrisegreti in atmosfere gotico-orrifiche, la scena della seduzione nell’ortodel convento – attinge a situazioni romanzesche codificate all’internodi una lunga tradizione che dalla letteratura barocca risale fino aDiderot, Manzoni e Verga15. Ma l’evanescente stilizzazione della mate-ria narrata, la sua natura di pretesto, e sia pure di pretesto autobiogra-fico (la qualunque avventura), è funzionale al ribaltamento dei valoriprospettici sul codice. Tra il piano degli eventi (i «pochi fatti») e quellodella registrazione del vissuto (il «molto pensiero») non sussistono ele-menti di raccordo in grado di integrare la vita e la forma di quella cheè stata indicata come una Bildung fallita. Al contrario, convertendo laprogressione lineare nei termini di una immobile dialettica esistenziale,l’intera struttura del récit è incorniciata da accurate simmetrie speculari.

e alzare le spalle, davanti a tanti teorici attardati del “nouveau roman”? Ferrata hanominato Proust, io con raddoppiata cautela, ed a misure ben distanziate, propor-rei di leggere Il Peccato rileggendo (non alla Cassola…) il Dedalus, non per parago-nare i due libri, ma per farli consonare; e forse, allora, non sembrerà del tutto stra-no che Il Peccato fosse sul tavolo di lavoro di Joyce nella sua casa di Trieste». Cfr. G.VIGORELLI, Ritratto di Boine, in G. BOINE, Il Peccato e le altre Opere, Milano, Garzanti,1983, pp. IX-LVI e LV-LVI.

14 «Sì, perché Il peccato è l’unico titolo italiano che ha di diritto il suo posto nelloscaffale riservato, in quegli anni, ad un genere narrativo propedeutico al romanzodella nuova frontiera: “il ritratto dell’artista da giovane”; un genere per nulla secon-dario, che prende nome e definitiva connotazione da A Portrait of the Artist as ayoung Man di Joyce… Un genere che è sfida alla prevaricazione naturalista (nel MalteRilke scrive: “Non ho mai udito una persona narrare”) ed insieme testimonianzafedele della lancinante crisi d’identità dello scrittore nel XX secolo, vissuta daBoine, al pari dei suoi grandi colleghi europei, senza alcun risparmio di sé». Cfr. G.UNGARELLI, Nota Introduttiva a G. BOINE, Il Peccato, Torino, Einaudi, 1975, pp. V-XVI, pp. IX-X.

15 Nella tessitura del Peccato Renato Minore vede confluire tanto la consistenzaideologica del romanzo d’introspezione, quanto la ruvidità rappresentativa delromanzo naturalista dell’Ottocento: «A nostro avviso un approccio motivato alPeccato deve considerare il fatto che in esso risultano funzionanti due modelli diromanzo tradizionale: quello naturalista (o verista) e quello psicologico-decadente.Intorno al primo gravita senz’altro lo stampo corposo con cui vengono rappre-sentati i personaggi e lo spaccato della vita provinciale […]. Il secondo modello èquello per cui, ad esempio, acquista spessore e credibilità psicologica la vicenda eil personaggio di Suor Maria». Cfr. R. MINORE, Boine, Firenze, La Nuova Italia,1975, pp. 115-16.

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Nel motivo densamente simbolico dell’eredità paterna, legato da inti-me risonanze al tema della colpa, la condizione di «spiritual epicurei-smo» in cui versa il protagonista, immune ai richiami della vita, si rove-scia nel suo contrario, nell’attività che scuote «dal sonno e dal sogno»16.Anche la vicenda amorosa si consuma in un duplice movimento: se, dauna parte, vi è la rottura degli ordinamenti tradizionali, e l’eserciziodella libertà e razionalità dell’individuo assoluto, a cui fa seguito loscandalo, il rifiuto, l’esclusione e l’isolamento, dall’altra si ha la pacifi-cazione con l’ordine e le norme della vita borghese, il ritorno alla lega-lità e l’adesione alla prassi (il peccato-azione)17. Nella sezione incipitaria larivolta si esprime nei modi di un anarchismo di estrazione aristocrati-ca, cui si contrappone la sfera pubblica mormorante delle «vecchiesignore beghine», dei «ragionieri guadagna-denaro». Il protagonista,finiti gli studi, trascorre il suo tempo «senza fissa occupazione», immer-

16 Si veda la situazione specularmente opposta in riferimento al cugino diGenova e alla lite per l’eredità paterna nella prima parte: «E quando suo padremorì, che si trovò nell’imbroglio dei processi per l’eredità contrastata, con la cittàintorno divisa per famigliari partiti, mezza contro di lui, con i vecchi amici di casache l’avevan fatto ballar sulle ginocchia bambino e che ora passavan duri per stra-da come se non lo vedessero più, e non salutandolo; quando dunque un giornopieno di disgusto, un parente di Genova, uomo di polso, gli aveva detto: “E cheresti a fare lì dunque? Vientene via che soffochi lì, fra queste beghe di sciocchi e didonne. Vientene in una città per davvero e fa qualcosa di degno” gli rispose, comeuno maravigliato che no. Amava la sua vecchia casa. Amava i suoi libri, i suoi altiscaffali e la memoria su di essi diffusa del padre e del nonno» (PE 8-9). Nella terzaparte del Peccato la situazione si capovolge: «Scrisse precipitoso un giorno al cuginodi Genova che, sì, accettava ora il suo vecchio consiglio. Si sarebbe buttato negliaffari; avrebbe rifatto accanito il processo; si sarebbe tolto di qui, dal sonno e dalsogno» (PE 63).

17 Così Romano Luperini descrive la doppia accezione del peccato in Boine,come infrazione e come riconversione al codice: «Il giovane protagonista, innamo-randosi di una suora, suscita lo scandalo dei concittadini e della famiglia e la ribel-lione, contro di lui, della “tradizione” che gli si oppone. Ma l’infrazione amorosaha tale intensità da imporsi: la ragazza esce dal convento e si unisce al giovane. Aquesto punto, però, è proprio lei che, al momento di costituire una famiglia e diinserirsi nel contesto sociale, spinge il protagonista a “star nelle regole”, a badareai propri affari, ad accettare il costume corrente: il “peccato” è ora appunto questaaccettazione della realtà, questo rifiuto dell’eresia, di un’astratta purezza adole-scenziale, in favore dell’azione sociale, che unisce gli altri uomini, borghesementee spesso grettamente operanti, ma operanti». Cfr. R. LUPERINI, Il frammentismoespressionista: spirito anarchico e volontarismo etico in Slataper, Jahier, Boine, in Il Novecento,Torino, Loescher, 1985, pp. 197-217 e 214-15.

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so «nell’agio noncurante e discreto di una famiglia di patrizi antichi»:nella gelosa solitudine delle sue letture, Stirner e Pascal, il suo sogno dieroica solitudine si condensa nell’immagine di Parsifal che assalta ilcastello magico di Klingsor18.

Questa esaltata purezza, che si accosta alla purezza della morte19, èdestinata a piegare all’orizzonte del romanzo in una nškuia paradossa-le nelle viscere della vita. Com’è stato giustamente osservato, la città«subisce nella rappresentazione di Boine una sorta di astrazione nonsolo spaziale, ma anche temporale»20, una progressiva rarefazione meta-fisica che si esercita mediante accurate corrispondenze simboliche. Ladiscesa agli inferi si svolge dentro uno spazio reale, naturalisticamentee storicamente verificabile. Allo stesso tempo, però, Porto Maurizio èanche struttura e cifra allegorica, puro significante, lÒgoj, Legge eTradizione. Alla verticalità ascensionale del Monte Calvario, sulle cuipendici sono incassati la chiesa e il convento delle Carmelitane, e che«partecipa della figurazione mistica e astratta del Monte Carmelo diJuan de la Cruz»21, fa da contraltare, nella dislocazione spaziale e onto-logica, la buia materialità del mare, immagine funzionale adibita a sim-

18 Un completo rovesciamento delle posizioni iniziali di anarchismo interessa,come altre figure del romanzo, quella dell’«amico wagneriano». Nelle prime pagineè accomunato al protagonista dal sentimento di rivolta che gli fa disprezzare la vitaborghese: «…si trovava poi bene col suo wagneriano ad oltranza che gli suonava alpianoforte del Folle che balza (“Ecco il Puro che balza!”) sugli spalti del castelloincantato e che aveva in orrore i borghesi e suo padre panciuto, l’industriale dellecassette di latta di cui pure campava e la vita comune» (PE 8). Ma nell’ultima parte,Il tormento, la rappresentazione del personaggio cambia radicalmente di segno:«L’amico wagneriano – lo incontrò per via – gli si accompagnò zitto daccanto unbel po’ un giorno, e come vide la bionda in distanza che ora (anche lei!) lo tradiva,cominciò una tirata sul tono consueto contro i borghesi e le pancie. Ma ripetevadelle parole a freddo, gli pareva un po’ a macchina. E fu questa volta che avendo-lo d’un tratto, come lo lasciò, guardato, vide nella sua figura grassoccia, intravide(il mento, le mosse, qualcosa che non bene afferrava) l’altra figura più tonda e piùgrossa di suo padre il panciuto. Dietro Lohengrin e Siegfried, e dietro Tristano,d’un tratto una sartinetta sguaiata per ideale e il buon senso sapiente ed il calcoloe il commercio delle latte per l’olio». (PE 45).

19 «E son essi, i giovani, dunque, i vecchi davvero, son essi i morituri e gliastratti. Non sanno il peccato: han la purità della morte, non la purità della vita».(PE 7).

20 Cfr. G. UNGARELLI, Nota introduttiva a G. BOINE, Il Peccato, cit., p. XV.21 Cfr. G. UNGARELLI, Porto Maurizio come luogo “letterario” nel Peccato, in Giovanni

Boine, «Atti del Convegno Nazionale di Studi», cit., pp. 365-73, p. 371.

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bolizzare l’amniotico divenire della vita. È stato soprattutto GiulioUngarelli ad aver indicato per tempo la temperatura allegorica del pae-saggio ligure, che, pur nella minuziosa precisione cronachistica deirimandi a fatti e personaggi realmente presenti alla biografia boiniana,riporta «alla luce l’intrinseco significato divinatorio e simbolico delluogo come tradizione universale»22. La geografia magica e rituale dellacittà trova un preciso riscontro, sul versante della lingua, nelle formedell’azione verbale, commista di elementi che ne determinano le moda-lità di adesione allo spazio23.

Nell’apertura della prosa La città Boine sperimenta una tecnica nar-rativa che consiste nella moltiplicazione dei livelli diegetici medianteproliferazione delle parentetiche, tecnica destinata ad assumere nelPeccato valore di struttura portante del récit. Conviene osservare da vici-no la soglia del racconto:

Or dunque un giorno in mezzo alla via (una domenica in mezzo allagente vestita a nuovo, oziosa, indolente a passeggio) sentì improvvi-so…

La voce posta tra parentesi individua un narratore di secondo livello ilcui sapere si differenzia per estensione e modalità da quello del narratoredi primo livello, innesca una procedura di mise en abîme, interviene sulcodice (a livello di langue) e sul messaggio (come atto di parole) circo-stanziando e modificando lo svolgimento del racconto. La natura dellacorrectio, orientata alla puntuale trasposizione della iniziale sequenza sin-tattica (un giorno = una domenica; in mezzo alla via = in mezzo alla gente vesti-ta a nuovo…), designa una modalità rappresentativa in equilibrio tra ade-renza realistica e metalinguaggio. Sebbene sia stato fornito un inventa-rio esauriente delle forme parentetiche nel Peccato24, in ragione dell’ab-

22 Ibid., p. 369.23 Sui determinativi di spazio costituenti il sintagma verbale, si veda Parte I,

nota 26.24 Un inventario delle forme parentetiche, che Boine piega alla formulazione di

un «flusso narrativo di tipo nuovo», è stato fornito da Luperini, che vi coglie divolta in volta la funzione di esplicazione, tendente però a non interrompere il flui-re dell’azione narrativa; di espressione immediata di contenuti emozionali e psico-logici interni alla coscienza del protagonista; la messa in rilievo di elementi di rifles-sione che non appartengono al piano della mimesi; la forma del monologo inte-riore e del commento alla narrazione; la sovrapposizione di piani temporali che

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L’anello del ritorno: parodia, colpa ed espiazione

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norme estensione e della loro diversificazione funzionale, risulta perònon privo di interesse un approccio più marcatamente narratologico,tale da produrre una distinzione dei piani del racconto sulla base dellecompetenze e del sapere espressi dalla voce narrante. È possibile docu-mentare almeno tre diversi impieghi della struttura parentetica, con-correnti a determinare una segmentazione plurale delle stratificazionimorali e temporali della coscienza.

a) Nelle parentesi viene aggiunto qualcosa che il narratore di primolivello non sa o non ricorda. In questo caso il narratore parentetico s’inca-rica di colmare le incertezze, i vuoti, le lacune che tarlano la materia delcontenuto. La determinazione non riguarda soltanto elementi di detta-glio, relativi all’ambiente esterno o alla psicologia del personaggio, alfluire semicosciente del suo pensiero, ma include interi segmenti nar-rativi, fatti ed episodi necessari alla piena intelligenza della catena deglieventi:

C’era come una macchia di buio nella sua memoria. Di questo solo siricordava (e di una aridità meccanica dentro, che gli aveva detto comeparlando: «Tu devi»; e di lui che poi si moveva non bene sapendo ecome per un esterno comando); di questo si ricordava che aveva (forseun pomeriggio) bussato al convento (senza vergogna come uno man-dato, o come se tutto fosse chiaro e si presentasse da sé rassegnato aincolparsi), e chiesto al sacrista di Suora Maria. (Quello aveva fatto unlungo discorso con molti gemiti e gesti di cui solo ciò aveva afferrato:«ha, dicono, il delirio. Medico… medicine». Forse aveva aggiuntoanche, lamentoso e in confidenza, che nella notte, oltre tutto, non si sachi era entrato nell’orto a rubare dell’uva e che lui non l’aveva detto néalla superiora né a nessuno perché tanto il danno in sostanza era pocoe stavan tutti quanti già male). Poi di quest’altro…25

Il resoconto del colloquio con il sacrista, posto tra parentesi, vienesottratto alla coscienza del protagonista, la cui continuità e durata ècome immersa in «una macchia di buio» («Di questo si ricordava… Poi diquest’altro…»). In questo senso il sapere del narratore di secondo livel-lo eccede quello del narratore “ufficiale”, la cui prospettiva appare tra-dizionalmente focalizzata sul “personaggio”. Inoltre, nella primaparentetica la traccia del dialogo mistico (l’aridità è, nella lezione di

intersecano in vari punti la linearità degli eventi. Cfr. R. LUPERINI, Contraddizioni esperimentalismo narrativo in Boine, in Letteratura e ideologia del primo Novecento, Pisa,Pacini, 1973, pp. 131-47, in partic. 144-45.

25 Cfr. PE 41.

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Teresa d’Avila, il carattere distintivo della parola intrisa di segni demo-niaci) è piegata a significare una zona liminare della coscienza che sisottrae statutariamente alla rappresentazione26. Con maggiore evidenza,l’efficacia del modello dell’autobiografia mistica risulta sensibilmenteverificabile nelle stratificazioni del monologo interiore. Nel capitoloXXV della Vita di Teresa d’Avila è spiegato «che cosa sia questo parla-re di Dio all’anima» mediante «parole ben distinte, che non si odonocon l’udito del corpo, ma s’intendono ben più chiaramente che se siudissero»27. È tuttavia sempre possibile ingannarsi, attribuendo tenorerivelativo ai segni prodotti dalla mente, alle «frasi che il nostro spiritorivolge a se stesso»28. La natura non illusoria della parola divina è rive-lata dalla sua efficacia29, dal dominio incontrastato che essa esercitasulla coscienza, poiché «le parole dell’intelletto non operano, mentrequelle del Signore sono parole ed opere», tali da infondere nell’anima«capacità» e «tenerezza», dissipandone l’«aridità», l’«inquietudine», il

26 È anche, questa, la tipologia che include gli interventi del narratore più mar-catamente filosofici, che funzionano come una didascalia del narrato e che inter-pretano gli eventi del récit come segni allegorici. Si veda, ad esempio, la decisivainserzione parentetica sulla “legge fonda di Dio” e sulla misura del peccato: «Tornònon più pallido, non più a dire che avrebbe fatto quando si volesse, il suo dovere(dovere sì, ma non più come rifacimento od estrinseca pena. Il prete dei bimbi l’a-veva di nuovo preso un giorno a braccio per via, e condotto in casa sua a contar-gli, a fargli capire, come sub conditione ogni cosa fosse assolta; come il vescovo gliavesse data facoltà di accomodare ogni cosa. E che “quella povera creatura” perquesto lato, sì, poteva ora esser queta. Ma ch’era pur necessario, che lo consigliavacome amico, a fare anche lui insomma la sua brava confessione, a togliersi dallacoscienza il mal peso, ad aggiustare, ch’era facile, i suoi conti con Dio. Aggiustòdunque per non turbare il buon vecchio, i suoi conti con Dio: si confessò. Ma sisentiva bene che Dio non c’entrava qui, che questa era tutta una ben umana storia;storia dolorosa di cose umane. Non c’entrava la religione qui se non indiretta: i fattiavrebbero potuto essere altri ed in altro luogo senza che se ne mutasse l’essenza. Ildramma era tra lui e gli uomini, tra di lui contro gli uomini e le leggi loro brevi; lalegge fonda di Dio, no, non era tocca. “Dovere” sì, ma come fuso dentro di sé conse stesso, come nuovo-sbocciato dal suo intimo vivere) e tornò a dirlo ma più deci-so e lieto quasi, e più umano». (PE 54-5).

27 Cfr. TERESA D’AVILA, Libro della mia Vita, Versione, introduzione e note diLetizia Falzone, Alba, Edizioni Paoline, 1975, p. 215.

28 Ibid., p. 216.29 «Se tra noi, infatti, quando non vogliamo udire una cosa, possiamo tapparci le

orecchie o attendere ad altro in modo che, pur udendo, non s’intende ciò che si ode,qui è impossibile. Bisogna ascoltarlo anche se non si vuole, e l’intelletto è obbligatoa essere ben desto, per intendere ciò che Dio gli vuol far capire». Ibid., p. 215.

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«turbamento». Al contrario, quando «opera il demonio», i discorsiascoltati nell’intimità del pensare «non lasciano buoni effetti, ma nelasciano di cattivi»: «Tralasciando la grande aridità che resta, l’animaprova un’inquietudine al modo stesso di quella che io ho provato moltealtre volte in cui il Signore ha permesso che subissi grandi tentazioni etravagli di diversa specie…»30. L’aridità, dunque, che il protagonista delPeccato sperimenta come coazione meccanica, si materializza nellaforma intrapsichica della parola che, ravvivando come una fiamma ilfantasma onnipotente della legge, instaura nella coscienza un dialogopersecutorio:

Ma per la fessura immobile filtrava netta ora, riverbero del fanale difuori, una lista gialliccia di luce. Come a spiare; come ad accusare; come adinseguire dietro lui petulante cruda, ferendo. Sentì il sangue alle gote, sentìsalirgli, su, la vergogna proprio come se qualcuno lo stesse accusando. E den-tro, come dinnanzi ad un giudice ritto, ansiosa la voce sua a scolparsi, (la udivastordente insistente, come quando non pensi più e ripeti frettoloso nell’ansia, mec-canico) «Non faccio male! Non faccio male! Non son qui per far male!»

Ma qualcosa pensava invece in lui (in una parte calma di lui), fredda-mente: «Tu non credi. Tu hai i tuoi dubbi e non credi. Tu hai i tuoiumani diritti e non credi. Ma qui dove sei tu c’è sacro. Perché tuamadre crede, perché tuo padre, i tuoi nonni hanno creduto, perché tut-t’intorno i milioni di vivi credono ed i milioni di morti, base delmondo, hanno sostanziosamente creduto. Qui c’è sacro…»31

La ricorsività di alcune clausole e moduli dialogici («Ma qualcosa pen-sava… in lui»; «… un’aridità meccanica dentro, che gli aveva detto…»), ripro-duce il movimento subliminale dei flussi di coscienza, che trova nellatradizione dell’autobiografia mistica un persuasivo paradigma formale-letterario e fenomenologico32.

30 Ibid., p. 220.31 Cfr. PE 29 (corsivi nostri).32 La lettura della teologia mistica come erranza interiore e “romanzo” è del

resto suggerita dal dialogo tra il protagonista e suor Maria: «Ed ecco il cappellanoallora assopirsi, la testa fra mano, sulla panca, inerte. Ma i due all’altare chiacchie-ravano rapidi come se si conoscesser da un pezzo. Conosceva sì Santa Teresa bene,ne aveva letta la Vida e le Moradas più volte. “Sono romanzi. Dei più bei romanzi”(l’aveva guardata meravigliato. La parola “romanzo” non è granché monacale). Elui era sapiente in ogni parte della teologia mistica, sapeva bene dei gradi dell’esta-si, poteva discuterci su e citare da Santagostino a Maria Alacoque senza fine auto-ri ed esempi». (PE 14).

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b) Attraverso le parentesi vengono aggiunte circostanze, interpreta-zioni, elementi descrittivi che attuano una divaricazione rispetto ai fattienunciati dal narratore di primo livello (extraparentetico). È il casodella giustapposizione di episodi che appartengono a momenti diversidel narrato:

…ma quando due giorni dopo, di nuovo all’entrar nel villaggio quel-l’altro e Carrú gli passarono accanto, non rispose al saluto; strinse nelpugno il bastone, di botto si fermò a guardarli fisso e gli scintillarononell’impeto gli occhi («ti scintillano a volte gli occhi; ti fiammeggiano,bruciano quando t’arrabbi gli occhi, e sì, che sembri un demone belloallora, e mi metti paura e mi piaci». – Aveva saputo egli mai che gliocchi nell’ira gli bruciassero e che paresse a volte «un demone bello»?E che i suoi occhi fossero buoni, da bimbo? «I tuoi occhi se sono quetison chiari e di bimbo. Hai le palpebre e tutt’intorno il viso fresco ecomposto di chi non ha ancora peccato ed è ingenuo». «E che ne saitu? Dove hai imparato tutto ciò?» «So»). Quelli capirono e non torna-rono più33.

Accanto alle diversioni temporali, devono essere indicizzate sottoquesta voce le frequentissime incidentali che aprono, mediante divari-cazione interpretativa, un campo di possibilità tutte egualmente prati-cabili. È questa, ancora, la tipologia del commento ironico34, della disgi-unzione frequentemente attuata attraverso interrogazioni semplici omultiple.

c) L’intervento del narratore di secondo livello rafforza la versionedei fatti fornita dal narratore extraparentetico: è il caso dell’amplificatio,della correctio (che però può ricadere anche nella prima fattispecie, comeeccedenza semantica; o nella seconda, quando circoscrive una diver-genza interpretativa), delle determinazioni circostanziali che imple-mentano il livello del narrato35, dell’enfasi lirica e stilistica esercitata

33 Cfr. PE 59.34 «Non venne fuori di chiaro che questo, ch’egli si sentiva troppo giovane e

troppo malato per governare un convento (e di donne)…». (PE 25).35 L’inserzione parentetica adempie in questo caso all’ufficio di integrare il qua-

dro descrittivo, anche adagiando sul tempo del racconto la funzione memorativa:«S’era accostato aveva preso dalle mani della suora che lo porgevano un granmazzo di rose gialle (gialle: si ricordava di tutto ciò e ch’eran rose gialle particolar-mente)» (PE 13); «Ci restò una settimana. Rivide i conti al fattore, che non l’aspet-tava; s’occupò del fieno che giù a dorso di mulo tutto il giorno scendevan gli uomi-ni dai prati arsi sui monti, (aiutò a installare, a stipare nei vani il fieno odoroso e

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mediante modulazioni comparative o metaforiche36. La struttura paren-tetica assume in altre circostanze una funzione metalinguistica, di pre-cisazione formale e commento narrativo al testo, mediante clausole diripresa e iterazione di singoli lessemi o di intere stringhe sintagmatiche:

Dovrai secondo quello, ora, operare; dovrà esso, ora, nella vita incitar-ti; tu non sei più quel di prima e se ti sforzassi di tornar (non potresti!)allo stato di prima, qui sarebbe il mostruoso e qui di nuovo (strappo,bestemmia, diabolico caos), il peccato, veramente il peccato37

o, ancora, con valore di ripetizione enfatica:

Ella si rinfrancò, si riprese, si fece a poco a poco di timida gioiosa, diguasta e malata, giovane e come prima vivace, (come rapidamente sisvestì del passato!) Come mutò!38

Attraverso il ritocco, la precisazione, l’inserimento di dettagli e cir-costanze aggiuntive, la voce narrante parentetica scava come un vuoto,un’intercapedine, tra la rappresentazione romanzesca e i referenti cheessa ambisce a testimoniare e documentare. Lo scarto in profondità, ilmovimento di débrayage-embrayage da essa implicato, funzionalizza iltempo del ricordare a commento analitico del ricordato.

Senza alcuna pretesa di esaustività, si può però affermare, in sinte-si, che la formulazione parentetica presenta le seguenti differenziazio-

pungente, vi tuffò il viso e le mani, vi si affondò dentro sdraiato come quando dabimbo lo zio, proprio lì, gli gridava: “Ma togliti dunque, che lo pesti e lo sporchie le bestie non me lo vogliono più!”) S’occupò d’un muro ch’era caduto…» (PE23); «Salire su ai lecci era facile (si rizzò agile e rapido. E come, scavalcato il murosentì sotto i piedi, qua, là il tondeggiar delle ghiande si chinò come da bimbo pron-to ridente, tastando, a raccoglierne) ma sportosi all’altra cinta…» (PE 35); «… asinistra più in alto, indecisa la massa enorme, contro il cielo stellato, del già dor-mente paese colle rade accese collane, (due, tre, parallele) dei fanali giallicci». (PE36).

36 «I demoni osceni delle sue Cabale occulte, gli spaventi ed i favolosi spettri,le soffocazioni e gli incubi di quand’era piccino (come gli si dissotterrassero nellaincerta memoria)…» (PE 28-9); «I muri tutt’intorno (umidore nero e cespugli),cingevano altissimi; da un lato, pesanti, i cipressi ed i lecci (enormi); dall’altro amare ombrosi il campanile ed indeciso il convento (accosciato, come una granbestia torpidamente dormiente); su, brillanti pungenti d’argento, nel cavo le stel-le». (PE 37).

37 Cfr. PE 54.38 Cfr. PE 55.

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ni tipologiche: a) Il narratore di secondo livello individua un sapere ecce-dente rispetto a quello del narratore extraparentetico; b) Le aggiunteintrodotte nelle parentesi ricadono nell’ambito di un sapere divergenterispetto a quello del narratore extraparentetico e delineano una secon-da prospettiva sul narrato; c) Il sapere prodotto dal narratore di secon-do livello appare congruente e convergente (nelle forme dell’amplificazionelirica e della precisazione metalinguistica) con quello del narratoreextraparentetico.

II

Nelle pagine più densamente meditative e oscure del Peccato il pro-tagonista, giunto in ritardo al funerale dello zio Battista, trova il cimi-tero chiuso e di là dal cancello, «sul marmo della tomba di casa fra i duecipressi, dei fiori di campo, del fogliame verde di palma e dei nastri»39.Il silenzio e l’estraneità che accompagnano questa immagine, sigillanol’interdizione, attivamente simbolica, dallo spazio della sepoltura(«Come se lo scacciassero, come se lo rifiutassero. Anche di qui, ancheda un morto»). Da qui, da questa esclusione che riguarda non solo lacomunità dei vivi, ma l’intera catena delle generazioni, presenti, passa-te e future, e che ha a che fare con il dominio degli antenati40 sullamateria vivente41, scaturisce un sentimento di rivolta immediatamentedeclinato nel contatto con l’inquieta fluidità del reale:

Come una scintillazione di rapida vita gli esultò d’un tratto ebbra pel

39 Cfr. PE 51.40 Questo aspetto è soggetto nell’opera boiniana ad una sofisticata elaborazio-

ne ideologica. «La posizione politica di Boine – ha scritto Giuliana Benvenuti – èanimata da un aristocraticismo che si incarna nell’ideale del proprietario terriero.L’esaltazione del legame con la terra attraversa tutta la produzione di Boine, è iltratto saliente del suo regionalismo ed è parte di un’ideologia politica che prevede,oltre al deciso antidemocraticismo, anche un’interpretazione genetica delle diffe-renze etniche e culturali». Cfr. G. BENVENUTI, Cor meum inquietum est, Domine!, inEREA 46. Sul nazionalismo di Boine si veda F. CONTORBIA, Renato Serra, GiovanniBoine e il nazionalismo italiano, in La cultura italiana tra ’800 e ’900 e le origini del nazio-nalismo, Firenze, Olschki, 1981.

41 «Quando la mamma gli aveva detto cruda, improvvisa, la sera: “È morto” gliera passato dentro un vago pauroso pensiero. Come se ciò, questa morte, dall’oscuro dachi sa dove nel buio, venisse ancora feroce a punirlo». (PE 52).

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corpo. Gli si dilatò l’anima dentro con impeto com’era giunto al verti-ce del colle e gli ulivi ad ondate grigie, si stendevan sotto di lui ampifino al mucchio, lungi, rotto-colorato della città contro il mare. Si sentìrude e reale sulla salda ampiezza della terra dintorno (sentì l’elementa-rità eterna e la bellezza e la incancellabile forza della terra viva e delcielo); si sentì partecipe della sanità vigorosa, della sicura quiete dellebrute cose viventi, respirò largo l’aria, palpò, strinse con la mano untronco ruvido torto d’ulivo, batté coi piedi i ciotoli duri come a senti-re ed affermare che era, che lui e le cose, lui e la vita erano e forti (erannell’essenza senza mutamenti), che la sua umanità viva, pulsava e vole-va. E come, più queto, cominciò per ricostruirsi per rifarsi, a pensare,a questo ancora tornò che aveva sì peccato e che non c’era rimedio42.

L’ascesa al colle e la vista sul bosco digradante degli ulivi, l’ebbrez-za che si riversa nel sentimento di «indissolubile legame, di comunica-zione con la totalità del mondo esterno»43, evidenziano i tratti di un’e-sperienza estatica. Non se ne potrebbe esagerare l’importanza nel pen-siero di Boine, che vi fonda allo stesso tempo il suo paradossale idea-lismo mistico, che lo fa polemizzare con Croce44 e con Prezzolini45, e

42 Cfr. PE 52-3.43 Cfr. S. FREUD, Il disagio della civiltà, trad. it. di Ermanno Sagittario, in Il disagio

della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri, 1971, p. 200. Scorgendovi piutto-sto la configurazione sistematica dell’impotenza infantile e della nostalgia del padre,Freud tenta di circoscrivere l’area di pertinenza del «sentimento oceanico», cheRomain Rolland vuole all’origine dell’esperienza religiosa: «L’idea che l’uomo debbaavere conoscenza della propria connessione con il mondo circostante attraverso unsentimento immediato e fin dall’inizio orientato in tale direzione, appare così stra-na e si accorda così male con la struttura della nostra psicologia da legittimare il ten-tativo di una spiegazione psicoanalitica, ossia genetica, di tale sentimento». L’ipotesifreudiana si ricollega al narcisismo originario sedimentato negli strati arcaici dell’Io:«Se possiamo ammettere che – in misura più o meno notevole – tale senso prima-rio dell’Io si sia conservato nella vita psichica di molte persone, esso si colloche-rebbe, come una sorta di controparte, accanto al più angusto e più nettamente deli-mitato senso dell’Io della maturità e i contenuti rappresentativi ad esso conformisarebbero precisamente quelli dell’illimitatezza e della comunione con il tutto, ossiaquelli con cui il mio amico [Romain Rolland] spiega il sentimento “oceanico”» (ibid.,p. 203). Per una lettura interna al percorso freudiano delle forme di derealizzazio-ne e depersonalizzazione come meccanismi di difesa cfr. E. FACHINELLI, Freud acro-politano, in La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989, pp. 127-80.

44 Sulla posizione di Boine nella polemica Croce-Gentile cfr. Parte II, nota 6.45 I testi della polemica con Croce e con Prezzolini sono raccolti in C I, pp. 145-

74 e 201-53.

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una visione dell’esperienza religiosa influenzata da Whitman e da Sorel.Nei versi whitmaniani, oltre ad un modello ritmico incisivo tanto sullapoesia quanto nella prosa, ed anzi tendente ad una sintesi fusionaledelle due istanze, Boine sorprende il motivo dell’ininterrotta solidarie-tà dell’essere, la vibrazione di un’energia originaria che non si trasfor-ma, come nel poeta americano46, nell’apologia vitalistica del corpo, mainsiste nella contemplazione di un retaggio di morte sulla vita47. Alrifiuto della storia48 fa da sfondo una concezione dell’attività speculati-va che confina con il risveglio, l’accensione e l’estasi49. Nelle pagine diSorel, con la riabilitazione del misticismo50 e la definizione degli ambi-

46 «Passo attraverso la morte con il morente e attraverso la / nascita con il neo-nato lavato appena, e non sono / contenuto tra il mio cappello e i miei stivaletti».Da Il canto di me stesso, VII, in W. WHITMAN, Foglie d’erba, con un saggio di HaroldBloom e una nota di Henry David Thoreau, trad. it. di Giuseppe Conte, Milano,Mondadori, 1991, p. 47.

47 «Questa erba è molto scura per venire dai capi canuti delle antiche madri /più scura delle barbe incolori dei vecchi, / scura per venire dai palati di un rosadebole // O mi accorgo alla fine di così tante lingue che mormorano, / e mi accor-go che non vengono dai palati per niente. / Potessi tradurre i loro cenni sui gio-vani morti, sulle giovani morte, / e i loro cenni sui vecchi e sulle madri, e sui pic-coli sottratti anzitempo al loro grembo. // Che cosa pensate che siano divenuti igiovani e i vecchi? / E che cosa pensate che siano divenuti le donne e i piccoli? //Sono vivi e stanno bene, chissà dove, / il più minuto germoglio dimostra che dav-vero non c’è nessuna morte, / e che se anche ci fosse porterebbe dritta alla vita, enon l’aspetta alla fine per arrestarla, / ed è cessata il momento che la vita è appar-sa. // Tutto continua e si estende, niente si annulla, / e morire è qualcosa di diver-so da quello che si suppone, qualcosa di più fortunato». Da Il Canto di me stesso, VI,in W. WHITMAN, Foglie d’erba, cit., pp. 45-6.

48 «Tra il pensiero e l’andar della vita ci sono parallelismi e concomitanze,intrinseche influenze e rapporti, scarsissimi. Quanto all’influenza ch’egli esercitò èpressoché un caso che Kant stia, nel tempo, sull’aprirsi di una serie di rivoluzionisociali e politiche: poteva non esserci e le rivoluzioni si sarebber compiute lo stes-so. Non è l’attività filosofica che governa gli uomini, non è la contemplazione». Cfr.la lettera a Prezzolini, Portomaurizio, 3 aprile 1913, in C I, 88, pp. 77-90 e 83.

49 «Immanenza in filosofia vuol dire attualità di pensiero. E l’immanenza è soloraggiunta nell’attimo intenso della contemplazione filosofica in cui l’universo ha ilsuo vertice vivo; lo spirito è pieno, e immanente sol nel filosofo singolo in quanto(non è così che altri l’intende? ed io intendo col capo mio) in quanto attivamenteegli pensa, come Dio era soltanto presente pel mistico nella momentanea ardenza dell’estasi»(corsivi nostri). Cfr. la lettera a Prezzolini, Portomaurizio, 3 aprile 1913, in C I, 88,pp. 84-5.

50 «Evidentemente una grande differenza è da stabilirsi tra l’esperienza scienti-

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ti di pertinenza dell’esperienza religiosa, Boine poteva inoltre trovareuna teoria del “subliminale” come superamento dei confini dell’Io51,derivata da James e Myers, che presenta marcate analogie con l’intelli-genza del divino prospettata nell’introduzione al Monologio di S.Anselmo52, e che risulta tra le sue frequentazioni culturali fin dagli annimilanesi del «Rinnovamento»53.

fica e l’esperienza religiosa: la prima deve essere condotta in modo da trascinare laconvinzione di ognuno che abbia conoscenza bastevole per intraprenderla; laseconda è accessibile soltanto ad anime privilegiate che vogliono sollevarsi finoall’eroismo. Credo tuttavia che W. James abbia avuto ragione di usare il termineesperienza per indicare cose così dissimili, perché coloro che entrano in relazione colsoprannaturale, sono tanto certi della reatà di ciò che conoscono per vie straordi-narie, quanto il sapiente può essere certo di quella ch’egli ha esaminata nel suolaboratorio. Non si saprebbe presentare alcuna obiezione contro le valide afferma-zioni dei mistici, perché costoro identificano le loro convinzioni con le trasforma-zioni delle loro anime; e l’estraneo è incompetente a discutere la legittimità di simi-le identificazione». Cfr. G. SOREL, La religione d’oggi, trad. it. di Agostino Lanzillo,Lanciano, Carabba, 1974, p. 56. Il testo di Sorel – una recensione in forma saggi-stica a Science et religion dans la philosophie contemporaine (Paris, Flammarion, 1908) diÉmile Boutroux – apparve nel 1911 nella papiniana «Cultura dell’Anima». Boine sene serve ampiamente nell’Esperienza religiosa, pubblicato sull’«Anima» (I, 10,novembre 1911) di Giovanni Amendola.

51 «L’esperienza religiosa si attua quando il subliminale si introduce nellacoscienza. È impossibile sapere se il subliminale è tutto in noi, ovvero non con-tenga, a nostra insaputa, qualche potenza esteriore. Così niente si potrebbe oppor-re, sotto l’aspetto scientifico, a ciò che i mistici dicono, di essere uniti in qualchemodo, a questo divino». Cfr. G. SOREL, La religione d’oggi, cit., p. 56.

52 Significative convergenze sono infatti da segnalare nella rappresentazione diun’attività non direttamente o consapevolmente riconducibile al Soggetto:«Qualcosa è sorto dalle profondità oscure ed ha informata ogni altra cosa dentrodi noi, intellettuale e morale; è qualcosa di affine a noi, perché così sottilmente hasaputo adattarsi all’anima nostra, ma di tuttavia perennemente ed enormementenon noi. Accanto ad esso, cioè, abbiamo ancora una vita che ci appare più propria-mente la nostra, essendo immersi e per ogni lato stretti non ci siamo tuttaviadisciolti. Ed esso non è l’oggetto, non è il mondo, non è la passività pesante che tut-t’intorno ci preme, ma una attività non nostra, una attività sovrapposta alla nostra,così terribilmente più grande e più forte della nostra, così impetuosamente e sicu-ramente invadente, che l’attività nostra definita e incerta, s’abbandona». (FNC 387).Il testo della prefazione al Monologio anselmiano apparve (decurtato degli ultimi dueparagrafi) sulla «Voce» del 23 marzo 1911 con il titolo La ferita non chiusa. Fu poipubblicato nella collana «Cultura dell’Anima» nel 1912.

53 Come ha ricordato Bruno Ulian, lo studio e il confronto culturale tra psico-logia e religione occupa ampio spazio all’interno del gruppo del «Rinnovamento»,

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Un capitolo della formazione boiniana che attende ancora un esamerigoroso riguarda la conoscenza di Durkheim e dell’«Année sociologi-que»54, sicuramente attestata sulla base dei riscontri epistolari. Boinedescrive un modello “funzionalista” della religione come insieme isti-tuzionalizzato di rappresentazioni rituali e simboliche atto ad assicura-re la durata di un organismo sociale. Nell’Esperienza religiosa si legge che«tradizione e logicità; senso, rispetto della tradizione ed intima necessi-tà logica, devono… avere una comune radice»55. Se la base su cui ripo-sano logica e tradizione è la natura non individuale dell’assenso, secon-do una modalità di pensiero collettivo, il nesso tra la razionalità delsapere (l’immagine dispiegata del mondo) e il fondale mitico da cuiquesta si distacca sembra replicare un motivo caratteristico della socio-logia durkheimiana della conoscenza56. In forma irriflessa ma oggettiva

di cui costituisce un settore tematico documentato dalla realizzazione dellaBiblioteca di psicologia religiosa di Alfieri e dagli articoli apparsi nei primi numeri dellarivista, di Edward Caird, Per una definizione della religione («Il Rinnovamento», I, 1, pp.19-33); Aiace Antonio Alfieri, Ai nostri critici («Il Rinnovamento», I, 2, pp. 220-24)e Rudolf Eucken, Il fondamento interiore della religione («Il Rinnovamento», I, 3, pp.256-76). Fin dall’inizio del 1907, in coincidenza con l’apertura della stagione del«Rinnovamento», è inoltre documentabile da parte di Boine una precoce attenzio-ne per l’opera di James, Le varie forme della coscienza religiosa (Torino, Bocca, 1904), incui si coglie il tentativo di saldare la verticalità dell’esperienza mistica alla radicaleimmanenza della psicologia positivistica. In alcuni appunti inediti per un articolosulla psicologia della religione e del misticismo è inoltre posta in rilievo la teoriajamesiana del subliminale: «Lungo tutta l’opera il James aveva posto in chiaro lagrande importanza che nei fenomeni religiosi ha il sub cosciente concepito da luinella maniera larga del Myers; questo misterioso inesplorato da cui improvvisa-mente sorgono energie insospettate, e voci e profezie, ed in cui vive una strana vitache sentiamo a tratti, lo fece pensare che se comunicazione v’è tra gli uomini edalcunché di superiore possa essere solo attraverso questa via oscura [.] Egli stabili-sce in ogni modo come certo che la persona cosciente è [in contatto] con un Io piùvasto attraverso il quale pervengono esperienze salvatrici…». Cfr. G. BOINE, Inediti.Appunti per un articolo sulla psicologia della religione e del misticismo. Traduzione di un capi-tolo di Arische Weltanschauung, a cura di Bruno Ulian, Roma, Bulzoni, 1987, pp.55-7. Tra parentesi quadre sono poste alcune integrazioni al manoscritto che cisembrano intuitivamente evidenti.

54 Cfr. le lettere ad Alessandro Casati, [Porto Maurizio], 5 luglio 1911, in C III,418, pp. 618-22 e 622; e Ponti di Nava, 1 settembre 1911, in C III, 424, pp. 628-29e 629.

55 Cfr. ER 102.56 «Il pensiero religioso – ha scritto Remo Cantoni –, non coincide… con il

pensiero razionale e scientifico, ma le rappresentazioni collettive in cui si esprime

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e condivisa, mito e ierofania contengono il germe della razionalità cheda essi si evolve attraverso successive trasformazioni. La religionecome «sistema di rappresentazione del mondo», scrive Durkheim, è altempo stesso «una cosmologia e una speculazione sul divino»: «Gliuomini non le hanno dovuto soltanto, per una gran parte, la materiadelle loro conoscenze, ma anche la forma in base a cui queste cono-scenze vengono elaborate»57. È vivissima in Boine questa percezionedella fecondità del pensiero mitico e della sua costituzionale anteriori-tà nel divenire storico della coscienza. Un’idea che lo porta a distin-guere e a contrapporre la forma del rito collettivo, sedimentata nel ciclodelle generazioni umane, dal demonismo e dall’anarchia del momentomistico. In polemica opposizione contro ogni riduzione sociologica alledeterminazioni naturalistiche del sentimento religioso, il poeta ligure vicoglie il senso di un’esperienza pura e originaria58, nell’«affacciarsi dellospirito oltre le forme che questo prodigioso sforzo d’ordinamento del-l’uomo (della natura) ha definite e accordate»59.

Tra il 1911 e il 1913 si registra una modificazione complessiva dellecoordinate ideologiche e letterarie dell’opera boiniana. Un reticolo diletture, una griglia filosofica che immette alla “scoperta” della corpora-lità del pensiero60, nei giorni di Davos, si dispiega nel trittico costituitoda La Città (cronologicamente anteriore, ma inserita in una medesimasintonia), L’Agonia e Il Peccato, scritti in successione tra il 1912 e il 1913

e si obiettiva la religiosità arcaica contengono in nuce, secondo Durkheim, la strut-tura del pensiero logico e concettuale». Cfr. R. CANTONI, Introduzione a É.DURKHEIM, Le forme elementari della vita religiosa, trad. it., Milano, Edizioni diComunità, 1963, pp. XV-XLIII, p. XIX.

57 Ibid., p. 11.58 «Il momento religioso, cioè, si attua, si perpetua solo in chi è fuori d’ogni

positiva religione, di ogni consacrato ordinamento pratico e logico: - bisogna allar-gare e restringere il senso della parola religioso. Perché religiosità si ha pur fuori dipositive tradizioni religiose, fuori anche degli schemi soliti di ciò che siam usichiamar religione e spirito religioso. E d’altra parte ciò che chiamiamo tradizione reli-giosa e religione positiva è, per ciò stesso che è tradizione, per ciò stesso che èpositività storica, fuori anzi contro la pura, la originale religiosità». Cfr. ER 132-133.

59 Cfr. ER 133.60 Nella lettera al Casati scritta da Davos il 21 gennaio 1913 rimprovera all’o-

limpismo di Croce di voler «costruire il mondo fuori del male»: «La conclusione èch’io potrò anche aderire alla concezione hegeliana del male morale come negati-vità superata (potrò; non son deciso); ma il male fisico, la violenza fisica quella sta

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e innestati sulle forme dell’autobiografia e della confessione. Su unaltro versante, quello della meditazione, tra l’Esperienza religiosa (1911),la revisione della Ferita non chiusa per la collana di Papini (1912) e lapolemica antiidealistica, Boine salda i conti non soltanto con il moder-nismo, ma anche con l’agonismo ascetico che aveva caratterizzato lasua formazione giovanile61, rispecchiatasi nel don Quijote di Unamuno. Aquesta tormentata elaborazione del sacro si collega, attraverso il mec-canismo della narativizzazione, l’estasi sperimentata dal protagonistanella pagina del Peccato che si è precedentemente evidenziata. Al fondodella quale sono faticosamente ricuciti, non senza circonvoluzioni ecifrature, i nessi della colpa62, dell’arbitrio e della legge. L’emersionedell’io, la sua lenta risalita alla superficie dell’essere («E come…comin-ciò…a pensare») come in una seconda nascita, prelude alla riflessione sulpeccato, che è rottura degli ordinamenti tradizionali e affermazione disé attraverso le cesure della storia familiare63. Nell’immagine della

lì come una montagna a strapiombo e mi soffoca. Quando ogni mia forza spiritualeè annullata ed io sento qualcosa di grave su me, schiacciarmi, spingermi al limiteopaco, condurmi per macchinali necessità alla morte, certo ch’io son costretto anon filosofare. È inutile che tu me lo predichi. Ma so una cosa che tu che sei libe-ro e sano non sai o sai poco. So che l’attività mia cede e si sperde dinnanzi ad un’al-tra colossale attività. Lo so miticamente, imaginosamente. E va bene. Ma quandosarò chiaro e ricomincerò a filosofare, è di qui che partirò. E se questo lo chiamiun elemento personale tant’è ch’io chiami personale anche il tuo non tener contodi ciò che invece mi colpisce, perché tu sei in salute». C III, 509, p. 760.

61 Annota infatti il protagonista del Peccato, quando ormai l’avventura volge altermine: «Questa è una storia d’amore che tu hai annebbiata di musica prima, e poidi religiose paure e poi di moralità disperata. Tutto codesto subbuglio, tutta code-sta rovina, e tua madre ammalata e la città nello scandalo, è per un amore di fem-mina come avviene a diciott’anni per tutti. Ma tu a diciott’anni leggevi i mistici edisputavi accanito sui dogmi ed ecco che aspetti ora sui ventisei a far le pazzie».(PE 56).

62 Il tema della colpa, marcato dai contrassegni dell’oblio e della dimenticanza(«l’Iddio scordato»), dispone su un medesimo asse isotopico la figura del padre el’immagine veterotestamentaria del Dio vendicatore. Non a caso la colpa vieneassociata al fallimento della causa per l’eredità, che è lascito, protensione degli ante-nati sulla comunità dei vivi: «Come se ciò, questa morte, dall’oscuro da chi sa dovenel buio, venisse ancora feroce a punirlo. Come se Dio (ed anche quando trepi-dando aveva aperta, il giorno ch’era arrivata, la gialla busta con la sentenza dentrosu carta bollata solenne del processo fallito, quasi lui solo ne fosse la colpa – qual-cosa di ciò aveva pure sentito), come se l’Iddio scordato gli si fosse levato in ven-detta di contro, dal buio, a punirlo». (PE 52).

63 «E come, più queto, cominciò, per ricostruirsi per rifarsi, a pensare, a questo

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“vedetta”, gravida di reminiscenze scritturali64, è depositata un’ambiguaeredità:

Tu hai degli impegni; tu hai dei doveri; tu sei lì tenuto e per la coscien-za legato; tu sei lì attento in vedetta perché ciò che è già stato e ti lega,non muti65.

La vigile attesa della coscienza custodisce il circolo delle ripetizioni;nel sonno della vedetta sta la sua smemorata adesione alla vita e l’atti-va evidenza del peccare66:

…tu sei di vedetta, tu devi volere cosciente con mill’occhi a te d’intor-no intentissimo e se tu non vedi e se tu per un tratto, inattivo ti scor-di, non vuoi, ecco nella macchina tua come un urto il peccato!67

Qualche pagina più in là, quando, ormai a mente fredda, il prota-gonista riflette sulla ramificazione sottile di cause ed effetti che hannoorientato, attraverso impercettibili contingenze, lo svolgimento dellavicenda narrata, appare allora chiaro che il filo diegetico della «qualun-que avventura» è destinato ad intrecciarsi, nell’«aggroviglio del… vivosentire», ad una infinita serie di possibili variazioni, di eventi casuali, diingovernabili concomitanze. Questo scoprirsi «sperduto in balìa dellapassione e del caso» («Egli avrebbe potuto, si diceva, a questo tal punto rom-pere tutto; e perché non aveva, risoluto, parlato al prete dei bimbi? E perché eraandato in chiesa al convegno? E perché aveva scalato…il muro dell’orto?»68), incui sta il più chiaro segno del peccato69, è, nello stesso tempo, immersio-ne nel fluire della vita e perdita di sé, «incosciente raffica», ebbrezza,

ancora tornò che aveva sì peccato e che non c’era rimedio. Che s’era, sì, peccandopermesso un arbitrio (aveva rotta l’onesta tradizione della sua famiglia; ne avevaguasto l’onore; danneggiato ogni cosa e se stesso), giacché la sua vita non era a luiintera, era come già radicata nella vita degli altri, non era né d’oggi, né libera». (PE52-3).

64 Si può cogliere nella estensione figurale del testo un’analogia con l’episodioevangelico della veglia nel Getsemani. Cfr. MATTEO 26, 40-41; MARCO 14, 37-38.

65 Cfr. PE 53.66 Per un’interpretazione complessiva di queste pagine si veda la nota 10 della

Parte III.67 Cfr. PE 53.68 Cfr. PE 57.69 «(Ma questo era appunto il peccato: questo, senza che tu sappia, impeto di

raffica in te)». (PE 57).

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«esaltamento senza freno improvviso»70. L’assopirsi della vedetta, il suoinattivo non volere, spezza l’anello del ritorno, spalanca l’abisso vitali-stico della contingenza e dell’arbitrio, dell’azione e dello smarrimento.

La parziale congruenza di “logica” e “tradizione”, che apparivacome una delle tessere del mosaico dell’Esperienza religiosa71, viene inte-grata in questa pagina del romanzo dalla confessione del protagonista72,ormai assorbito nella prospettiva del narratore, che dichiara una para-dossale conversione alla prassi, alla concretezza, commisurata sullarivalutazione della sfera corporea73.

Questa ambigua impalcatura nietzscheana è destinata però a disar-ticolarsi ad una più attenta analisi. Nelle ultime righe del Peccato il pro-tagonista osserva dalla finestra una scena che scandisce, con la sincro-na precisione di una “immagine parallela”, una sintesi visiva dell’espe-rienza vissuta:

Or dunque ecco che il compito tuo è d’esser attento e conservare ognicosa con scrupolo. Ma tu hai rotto, tu guardi con accorata elegia lasicurezza di chi sta con freno nella spiritual tradizione fuor del tumul-to, tu hai rotto come questa paranza che il maestrale ha questa nottestrappata dal porto e sballotta ora (c’è sul molo nello spruzzo e nelvento la calca a guardarla), fuor delle tue aperte finestre sul mare gial-lastro bavoso74.

Nella sua condizione di osservatore interessato, portato a identifi-carsi con la «paranza che il maestrale ha… strappata dal porto», il protago-nista è però simile alla folla dei curiosi che sosta sul molo, in una sortadi sdoppiamento che il romanzo innalza a strategia formale, nel dupli-ce registro della descrizione e del commento, nell’intreccio delle istan-ze ideologiche e psicologiche. Questa lacerata distonia, questo insana-

70 Cfr. PE 57.71 Nell’Esperienza religiosa il rapporto Logica-Tradizione implica un’inesausta

dialettica spirituale, «la tradizione essendo (dove non è razionalità), valore, vita intravaglio verso la razionalità (vita con la razionalità per limite); la razionalità essen-do (dove non è vita concreta) ricerca affannosa di vita». (ER 102).

72 «Abbi coraggio e confessa (o l’amore era insieme cresciuto, si era sovrappo-sto e intrecciato con tutto l’altro d’intorno ch’era per sé, preso volta a volta, indif-ferente ed onesto?…)». (PE 56).

73 «Certo che la misticità e le platonicherie, le ambiguità sentimentali e malategli sarebbero parse sciocchezze e sì veramente inutilità di peccato». (PE 57).

74 Cfr. PE 65.

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bile dissidio, appare come una recisa negazione della Bildung: il percor-so formativo si chiude su di sé, non perviene ad una chiave di letturaunitaria ed armonica, capace di comporre la serie contraddittoria deglieventi75. Ora, se l’immagine della barca alla deriva sul mare giallastro ebavoso dell’esistenza mette capo al contrasto che oppone permanente-mente l’Io alla comunità di tradizione, e ne satura le valenze sociologi-che in riferimento alla marginalità ed al ruolo degli intellettuali, il sensodel peccato (e della colpa) sembra attingere a sorgenti più profonde.C’è qui un punto sul quale è necessario insistere. La sfera dell’azione(«il peccato-azione», scrive Boine) e del mutamento entra in conflitto conla polarità onnipotente della Legge76, ma non in maniera tale che l’unasia in assoluta alterità rispetto all’altra. C’è anzi, tra Legge e peccato, unrapporto di reciproca generazione, una segreta alleanza di squisita fat-tura scritturale, trovandosene la matrice nel dettato paolino della Letteraai Romani (Rom. 3, 20: «Mediante la Legge…si conosce il peccato»77).

75 Come è stato osservato, il Peccato rovescia la caratteristica progressione delBildungsroman, poiché non vi è accrescimento di consapevolezza nell’autocoscienzadel protagonista, ma un’apertura problematica sulla realtà. Cfr. G. BÀRBERISQUAROTTI, Forma e Vita nel Peccato di Boine, in La forma e la vita: il romanzo del nove-cento, Milano, Mursia, 1987, pp. 37-54. «Lo schema del romanzo d’esperienza è pro-fondamente trasformato, anzi pressoché capovolto: l’eroe intellettuale si ritrovaalla fine sballottato dalle onde della vita, eppure attaccato alla forma che egli avver-te come un dovere, ma che è contraddittoria con quella libertà che, con la sua cla-morosa trasgressione, si è procurato» (p. 42). L’esperienza, il dominio della vita, èlacerato dal fermento della contraddizione: «È questo il carattere costitutivo delromanzo boiniano: le esperienze del protagonista non rappresentano mai una solu-zione, un accrescimento, una maturazione, bensì la proposta di nuove contraddi-zioni sul cammino di quell’irrimediabile allontanamento dalla sicurezza razionale ecoscienziale dell’intellettuale quale si presenta all’inizio, prima del “peccato”. Sono,quindi, tappe sempre provvisorie di uno sdoppiamento che continuamente si ripro-pone nel protagonista: accrescimenti, insomma, di contraddittorietà, strade inter-rotte che mettono, se mai, in una direzione opposta rispetto a quella che ciascunapareva proporre come opportuna da seguire» (ibid., p. 48).

76 La Legge dispiega la sua onnipotenza pervasiva invadendo ossessivamentel’intero reticolo del reale, sì da tramutare in colpa, potenziale o attuale, qualsiasipensiero o azione: «Mi son del resto persuaso che non v’è pressoché cosa che sifaccia che non sia per certi lati una colpa. E commessa che l’hai non c’è rimedio eti tocca viver con quella». Cfr. la lettera ad Alessandro Casati, Davos, 23 febbraio1913, in C III, 514, p. 768.

77 Per il testo paolino si fa riferimento a SAN PAOLO, Le lettere, a cura di CarloCarena, Torino, Einaudi, 1999.

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L’accostamento non deve risultare problematico se l’autoritàdell’Apostolo, e le sue «tesi sul peccato», sono richiamate in un rile-vante passaggio della Religione d’oggi teso a rigettare le posizioni pantei-stiche, che, scrive Sorel, «conducono a considerare i dogmi e i sacra-menti come costruzioni simboliche»78. Inoltre, come ha osservatoFrancesco Mattesini, l’impianto antimodernista della Ferita non chiusa«riecheggia la seconda parte della definizione ripresa da Dante dalla let-tera agli Ebrei (“Argomento delle cose non parventi”)»79, colorandoned’oscurità la promessa escatologica80. La dialettica spirituale del deside-rio e del comandamento81 si coniuga, nella meditazione dell’Apostolo, allarappresentazione del peccato come processo di depersonalizzazione82,che determina l’allargarsi di una lacuna della coscienza, e diviene nel

78 Cfr. G. SOREL, La religione d’oggi, cit., p. 114.79 Cfr. F. MATTESINI, Dante in Boine, in Giovanni Boine, «Atti del Convegno nazio-

nale di Studi», cit., pp. 255-64 e 259.80 Cfr. SAN PAOLO, Ebrei, 11, 1-4: «La fede è certezza delle cose sperate, con-

vinzione delle non vedute. In essa gli antichi ricevettero testimonianza; per fedeintendiamo che i secoli vengono costituiti sulla parola di Dio, cosicché ciò che sivede non deriva da ciò che appare». Il passo paolino è riecheggiato, con significati-ve sfumature, in un brano dell’Esperienza religiosa, a fondamento dell’intelligibilitàmetafisica della Tradizione: «L’immortalità, la comunione, la resurrezione, la spe-ranza, l’eternità temporale, sono la forma mitica della fondamentale certezza, dellasicurezza umana sulla realtà della storia: – non è evanescente fumo ciò che abbia-mo nella storia costrutto. E tu operi bene, e ciò che fai resterà e sarà giudicato; edi tuoi occhi ti dicono che passa, che muore ogni cosa, ma non passa in verità e nonmuore nessuna cosa. La speranza e la fede sono nel loro multivario variare, sono,contro il dolore della vita, speranza e fede nella solidità dello spirito». (ER 137).

81 «Che diremo dunque? La legge è peccato? Non sia mai. Però io non conob-bi il peccato se non mediante la Legge. Non avrei conosciuto il desiderio, se laLegge non avesse detto: Non desiderare. Il peccato, prendendo spunto di lì, median-te il comandamento produsse in me ogni desiderio. Senza Legge il peccato èmorto; ma io un tempo senza Legge vivevo. Sopravvenne il comandamento, e ilpeccato si destò a vita, mentre io morii: il comandamento, ch’era per la vita, a merisultò per la morte. Infatti il peccato, prendendo spunto di lì, m’ingannò colcomandamento e con questo mi uccise. Santa quindi è la Legge, e santo, giusto,buono il comandamento. Dunque ciò che era buono divenne morte per me. Nonsia mai. È il peccato, che per rivelarsi peccato produce in me la morte attraverso ilbene, diventando, il peccato, un peccatore smisurato mediante il comandamento».Rom. 6, 7-13.

82 «Ciò che compio non lo comprendo: non ciò che voglio faccio, ma ciò chedetesto, questo faccio, e nel fare ciò che non voglio riconosco la bontà della Legge.Allora non sono più io a compiere il mio atto, ma il peccato che abita in me. So

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motivo paolino del «corpo di morte» (Rom. 7,25: t…j me lÚsetai ™ktoà sèmatoj toà qan£tou toÚtou) figura alienata dell’Io. È il temadella perdita di sé (il sonno della vedetta) che cripticamente, ma condiramazioni che via via si chiariscono nell’esegesi delle fonti, Boine col-lega al mutamento e all’agire, al libero arbitrio e al determinismo:

Intendimi bene. Tu non eri libero d’un atto arbitrario perché la tua vita,sì, non era né d’oggi, né tua. Ma ora che l’arbitrio s’è dentro infilato (ecome subdolo! E come necessario e come a poco a poco, senza che tusapessi e vedessi! E convinciti dunque, che tu non sei nemmeno del tuo formalevolere padrone, e che la vita, lei ti costringe, lei ti conduce, lei inaspettata ti strappad’un tratto, ecco che senza tu sappia t’ha strappato al passato!) or che l’arbitrios’è dentro infiltrato nella compagine del vivere tuo, ecco che anch’essoti lega, ecco che tu sei libero anche meno di prima e tuo ancor meno83.

Su queste basi è dato inoltre di cogliere, più che in un puntuale rap-porto di prestiti e prelievi, un accostamento al materialismo leopardia-no, che in Boine agisce come negazione della storia e come immersio-ne nella cieca vertigine della natura84. Il protagonista del Peccato compieun itinerario spirituale inverso e parodico (intendendo la parodia comemisrule e rovesciamento), dalla trascendenza all’immanenza, dai misticialla compromissione risentita nella sfera del “cuore”85, in un adultero

infatti che non abita in me, ossia nella mia carne, il bene, poiché mi è vicina lavolontà ma non il compimento del bene. Io non faccio il bene che voglio, ma ciòche non voglio, il male, ecco io faccio. E se ciò che non voglio io faccio, non sonopiù io a compierlo, ma il peccato che risiede in me». Rom. 7, 15-21.

83 Cfr. PE 53-4 (corsivi nostri).84 Un’indagine sulla presenza leopardiana in Boine, con particolare attenzione

all’«epica contratta» di Varsavia (un testo dialogico appartenente all’arco deiFrantumi e rimasto a lungo inedito) è stata condotta da Leonardo Bucciardini, cheha evidenziato come «Leopardi diviene… insieme al Nietzsche della Inattuale sullaStoria (ripreso in una estraneità ad ogni decezione superomistica e zarathustriana),il punto di riferimento imprescindibile per decifrare la parabola creativa dell’ultimoBoine, e la sua “filosofia” che si presenta come un insieme di residui di una meta-fisica sistematizzante…». Cfr. L. BUCCIARDINI, Il coraggio dell’inattualità. Cenni sullapresenza leopardiana in Boine, in N. BELLUCCI-A. CORTELLESSA (a cura di), «Quel librosenza uguali». Le Operette morali e il Novecento italiano, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 99-112 e 101-2.

85 «(E senti dunque come in questa voce vive la carne, come dice, come dice,senti come dice e commuove, – lascia il tuo cuore tremare, – lasciati via d’un trat-to portare e commuovere – senti che forza reale di vita e che sentimentale umanapassione!) Ascoltava. Fu qui che d’un tratto come per analogia la popolaresca sen-

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timentalità dei romanzi d’Hugo (i “miserabili” Jean Valjean e Cosetta. LaEsmeralda, la Sacchetta e l’immortale Quasimodo), gli si fece più prossima e chia-ra. Pensò ad Hugo che nella spinetta cantava o la Manon di Massenet o la Bohèmedi Puccini. Come se un mondo peuple e inferiore, tutto un mondo elementare di“cuore” di sentimento di leggenda e bontà (un mondo rosso e sdolcinato), malfat-to e volgare, mondo vago ed umano, torbido, fuor del diritto e con per gran leggeil “Cuore” gli facesse d’un tratto per più lati impeto dentro». (PE 62).

86 «Gli diede il senso d’avere, sì, un corpo, un senso della concreta spiritualitàdel suo corpo. Egli tutt’intento al di fuori di sé, tutto assorto nell’immateriale vaga-re dell’idea e dell’imagine, trascurato dunque di sé, dovette sottostare a mutarsicome ella voleva». (PE 59).

87 Opera cioè un sistematico rovesciamento della lezione paolina. Cfr. Gal. 3,27-28: Ósoi g¦r e„j KristÕn ™bapt…sqhte, KristÕn ™nedÚsasqe («Poiché quan-ti siete stati immersi in Cristo, di Cristo vi siete rivestiti»).

88 Elio Gioanola discorre dell’attrazione verso l’oscurità dell’abisso divinocome di una poetica dell’Altro derivata dalla tradizione mistica spagnola, e in par-ticolare da S. Giovanni della Croce, di cui Boine porrebbe in evidenza «la naturaascetica assai più che quella estatica». Cfr. E. GIOANOLA, Il mistico senza estasi. Saggiosul religioso e il poetico in Giovanni Boine, in Giovanni Boine, «Atti del ConvegnoNazionale di Studi», cit., pp. 129-48.

guazzabuglio sentimental-popolare che mescola Hugo e la Bohème,rigettando infine l’esaltata purezza wagneriana; dall’astrazione asceticaalla carnalità e alla scoperta del corpo86; dalla limpida tersità della con-templazione all’“aggroviglio” oscuro del vivere. Parodica è anche l’ese-gesi scritturale: il protagonista del romanzo boiniano si riveste delcorpo di carne87, ne scopre l’intima vivibilità, impara a conoscersi attra-verso lo sguardo degli altri (si veda, nelle ultime pagine, l’episodio dellospecchio e della rasatura), e oggettivandosi rientra nel dominio dellatradizione, nel mondo condiviso, nella spuria congerie delle cose fluen-ti e mortali.

III

Qualcosa è intervenuto a tramutare lo «spavento amorfo», il terro-re e l’angoscia legati alla regressione nell’informe, di cui la «noche oscuradelle sete senza esaudimento»88 forniva una rappresentazione altamen-te stilizzata nel mosaico figurativo della letteratura mistica. L’abissodell’esperienza religiosa, spogliato di ogni sublimità, si è convertito neltormento della contingenza, nella piena assunzione di quel «mondo di

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89 Cfr. ER 120.90 Esiste una notevole continuità tematica tra la rappresentazione carceraria di

Davos e l’immagine dell’alveare umano consegnata alle pagine del racconto Lacittà. Come ha mostrato Piero Pieri, Boine si rivela «un solerte conoscitore dellaletteratura sociologica della metropoli e della città che imbestia, riacutizzatrice diantichi riti di sopravvivenza e di nuove volontà di sopraffazione», «legata al princi-pio della lotta per la vita» e fecondata dalla «vitalità necessaria che viene dalloscambio fra storia e preistoria» (cfr. P. PIERI, La metropoli primordiale, in La poli-tica dei letterati. Mario Marasso e la crisi del modernismo europeo, Bologna,CLUEB, 1993, pp. 141-70). È tuttavia nella piccola città, più somigliante alla chiu-sa atmosfera del sanatorio, che, «lontani dal gusto per l’autentico “struggle of life”,giovani e adulti mostrano… l’avvilente condizione dell’animale da pollaio; man-cando in loro lo spirito leonino del nietzscheano animale da rapina, il cui solo com-fort è la volontà di continuare in solitudine rabbiosa, in continuo pericolo di vitaper amore della vita non mortificata» (ibid., p. 162).

91 Cfr. D. PUCCINI, Introduzione a GBO, p. XIV.

embrioni e di larve» che, «come una fonte, come un rigurgito perenne»,rappresenta «la matrice mai stanca di ogni sentimento e di ogni nettaespressione»89. La conversione boiniana – parodica conversione, comesi vede – ha di mira una piena incarnazione di sé90, coglie nel corpo isegni e l’opera imminente del male. «Alcune delle lettere a Casati, piùdella prosa L’agonia», ha scritto Davide Puccini, «appartengono a pienotitolo alle maggiori pagine di letteratura sulla malattia (è forse il caso diricordare che sulle medesime coordinate di tempo e luogo si colloca Lamontagna incantata di Thomas Mann)»91. Il soggiorno di Boine a Davos,in Svizzera, si prolunga dal novembre del 1912 al marzo del 1913. Nelristretto perimetro di un macabro universo concentrazionario il temposospeso della stazione di cura, incassata in una valle di montagna, siscioglie nel vuoto dell’attesa. Come marionette mosse dai fili dellamorte («Senti che sei appeso ad un filo. Tutto è appeso ad un filo.Proprio un filo, materiale, palpabile, di carne»), gli ospiti di Davosmimano una pienezza di vita che si disfa nei rantoli sfiatati della malat-tia. Praticano finzioni e ripieghi d’astuzia prima di giocare l’ultima par-tita del nulla:

È un male vile. In fondo si tratta di una graffiatura, nel polmone piut-tosto che ad un dito. Cammini, ridi, ingrassi, fai l’affare tuo e hai unagraffiatura nel polmone. Ecco tutto. Ma ecco qui una storia. Un grecopochi giorni prima ch’io arrivassi doveva partirsene. Era guarito: ilmedico non sentiva più niente. Tondo, sano, uomo normale, guarito.Improvvisamente ha una emotisi. Due giorni dopo partì diffatti defi-

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92 Cfr. la lettera ad Alessandro Casati da Davos del 13 dicembre 1912, in C III,502, p. 745.

93 «Qui pressoché tutti hanno l’aspetto d’allegri: aspetto di salute contenta. Ilsanatorio pare un hôtel di lusso mica un ospedale. La gente par qui per godere micaper curarsi. Ma di notte li sento orribilmente tossire e ansimare, di sopra, di sotto,intorno, dall’un lato e dall’altro; all’oscuro non è piacevole. Ed appena arrivato,tutta questa lustra apparente con sto marcio di moribonda soffocazione sotto, cre-devo dovesse gettare anche me nella tristezza. Ma niente affatto: io voglio esseregioioso fuori e dentro; vuol dire che io solo qui riderò sicuramente e col cuore; nonfarò confessioni a nessuno. Non ne ho da fare». Cfr. la lettera a Casati da Davosdel 15 novembre 1912, in C III, 495, p. 727.

94 «Insomma la morte ti convince della prodigiosa solidità dell’essere. E vuoi(puoi) affondare il mondo col corpo tuo giù nel buiore? Abbandona dunque il tuocorpo e te stesso al destino certissimo ed apri gli occhi, nuovamente, sull’essere. Èquesto il punto. Liberaci. Liberaci dal peso dell’individuo nostro giudicare. È que-sto il punto. Ma io son lì, sempre sulla soglia: un po’ assorbendo, trascinando conme il mondo, un po’ contemplandolo innanzi. Tutto ciò è inutile. Non arriverò atal punto di disinteresse da sinceramente considerar come un bene la mia polmo-nar graffiatura. E resterò tra la commedia e la tragedia credo ancora per molto…».Cfr. la lettera al Casati da Davos del 13 dicembre 1912, in C III, 502, pp. 745-48,p. 746.

nitivamente.La è una irritante tragicommedia. Senti che sei appeso a un filo.

Tutto è appeso ad un filo.Il mondo è appeso ad un filo. Proprio un filo, materiale, palpabile,

di carne.Che è la condizione di tutti, anche dei sani, e di tutte le cose sub

sole. Ma non a tutti è imposto, come in questo speciale caso, di pen-sarci. È l’imposizione meccanica, il rodere che senti di questi invisibilivermini, che ti irrita. Il comico meccanico nel tragico92.

L’ironia carceraria93 e la spoliazione di sé alimentano una vena discrittura felicemente umoristica (il «comico meccanico nel tragico»),che scorre in alveoli sotterranei, su falde non ancora depurate dallescorie dell’autobiografia94. Nelle lettere al Casati Boine dà libero sfogoad una caratterizzazione comico-grottesca che nei testi narrativi tra-scolora fino a fondersi nella densità più acre del registro tragico-apo-calittico. Anche la mescidazione della grana lessicale, in cui aggallanoelementi del parlato («…tutta questa lustra apparente con sto marcio disoffocazione…»), abilmente intarsiati nell’ornato retorico, nel ritmoiterativo del periodare («Il sanatorio pare un hôtel di lusso mica un

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95 Cfr. Inf.,V, v. 4: «Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia». Per un quadro gene-rale degli influssi danteschi cfr. F. MATTESINI, Dante in Boine, cit.

96 Cfr. la lettera a Casati da Davos del 20 dicembre 1912, in C III, 505, p. 751.97 Sull’antinomia dentro-fuori come costruzione identitaria e forma spazializ-

zata dell’Io si veda Parte I, nota 17.

ospedale. La gente par qui per godere mica per curarsi…»), nell’anomiadi uno spazio epictonio, infernale, indistinto («Ma di notte li sento orri-bilmente tossire e ansimare, di sopra, di sotto, intorno, dall’un lato e dall’al-tro; all’oscuro non è piacevole»), contribuisce a marcare, non senza lamessa in rilievo di forme dantesche («Ma di notte li sento orribilmentetossire e ansimare…»95), un tono complessivo di commedia umorale edannata. Come in un gioco di specchi, mediante mise en abîme della rap-presentazione – al cui interno è dislocato il se stesso malato e scriven-te al Casati –, si compie una radicale trasformazione dell’Io, che, priva-to della sua aura d’unicità, coglie il divenire reale come relazione sim-metrica, rete di prospettive uniformi da cui non emerge alcun puntod’osservazione privilegiato:

Delle tue buone parole per farmi coraggio, grazie. Ma non m’abbattose non a momenti. Il mio vicino di sinistra è moribondo o morto (nonsi sa bene; queste cose, qui, sono segrete). Ora è giusto ch’io pensi cheil mio vicino di destra, un rauco greco che brontola e tosse e geme tuttala notte, possa domani anche lui scrivere ad un suo qualunque Casatidi Atene: “il mio vicino di sinistra l’italiano che leggeva sempre, è mori-bondo o morto… Pareva più sano di me… ma qui queste cose sonosegreti”96.

La spoliazione del sublime nel comico si consuma nella rappresen-tazione di sé come oggetto, attraverso il punto di vista dei meccanicialtri – medici e ospiti del sanatorio –, personaggi di un incastro meta-narrativo che, complice l’occhio esterno dello spettatore, tracimacostantemente dall’autobiografia alla più stilizzata finzione. Tra le pro-cedure di astrazione alle quali è sottoposta la materia del racconto, par-ticolare rilievo ha la costruzione antinomica dello spazio, l’elaborazio-ne del paesaggio e dei luoghi mediante un codice simbolico binario chesi struttura attraverso opposizioni categoriali: vita-morte, sacro-profa-no, spirito-materia, corpo-mente, trascendenza-immanenza97. Fin dal-l’arrivo a Davos il paesaggio si colora dei segni funebri della malattia,mentre il mondo separato della vita scivola nell’altrove simbolico diPorto Maurizio («Al mio paese quand’io son triste esco a guardare il mare e gli

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ulivi: sono caldi, mi nutriscono»). La pagina boiniana documenta il proces-so compositivo e immaginativo che assorbe progressivamente, nell’ar-ticolazione di un’antinomia spaziale e topologica, l’intero spettro delleconnotazioni simboliche recanti la disgiunzione ontologica vita-morte:

Ma è meglio ch’io ti dica delle montagne, finalmente, sebbene in questomomento siano invisibili tanto è densa la nevicata. Montagne cometante altre: soffocano di bianco il paese tutto intorno che è in una val-letta larga un paio di chilometri e lunga sette od otto. Il fondo della valleè piano e nevoso, e nevose son le vette, morbide, da collina: tra il fondoe la vetta, in giro al paese, una larga benda bronzea di bosco d’abete.Più preciso di così è impossibile essere. Tutto ciò ti dirò che è bello:come si fa a negarlo? Ma non è mio, non mi riposa. Questa taglientebianchezza della montagna sul cielo freddo, questo silenzio ovattato,(silenzio anche agli occhi) questa stessa delicatezza cristallino-rosatasulle cime al tramonto, non sono miei. Al mio paese quand’io son tri-ste esco a guardare il mare e gli ulivi: sono caldi, mi nutriscono. Qui ilpaesaggio m’esaspera. Ho trovato anche parecchie imagini che ne lorappresentano bene. Ma chi si fida a ridirtele? Ho paura della tua cen-sura. Tuttavia quando tu mi hai scritto da Velate «ora la terra suonasotto il passo» io ho battute le mani di contentezza. Proprio così, laterra suona cristallizzata di gelo. Ma qui non suona, nemmeno se cicaschi su e ci batti con tutto il peso del corpo tuo (com’io ho fatto no-nostante la gomma delle soprascarpe che mi hai raccomandato di com-prare). Qui la neve imbottisce ogni cosa, neve pulita, neve arenosa chenon fonde, né impantana le vie come in questa tua palustre Milano, nési lascia come la neve d’Italia ai miei bei tempi stringere in palla e lan-ciare: arena secca di neve. Incipria, spolvera i boschi di contro a me ora,li cancella, li diminuisce. (Ma incipria non va. I boschi d’abeti son bellidavvero. Funebri, seri, bronzei: ti s’impongono duri sul bianco. Incipriaè troppo femminile, non va. Ti dirò dunque un’altra volta, meglio, lafemminilità variegata ed incerta della neve, sulla durezza del bosco)98.

L’inserzione metalinguistica («Incipria è troppo femminile, non va»99)denuncia la natura codificata e antirealistica della descrizione, cui sonoconsegnati precisi riferimenti lirici e simbolici che troveranno attuazio-ne nell’incipit de L’Agonia, oscillante tra le linee funeree del presente –

98 Cfr. la lettera a Casati da Davos del 3 dicembre 1912, in C III, 499, pp. 740-41.

99 Ne L’Agonia la notazione verrà infatti mutata come segue: «Cacumini d’alpe,gran dorsi nevosi, bronzeo negrore di abeti terribilmente serï ed irti nel bianco…».(AG 200).

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un «montagnoso-gelato paese di cura» insidiato dal male e percorso dapresagi luttuosi («…e corvi, corvi a sciami neri di cento, grevi-volanti,a tondo nell’aereo zitto fluttuar della neve… rauchi-osceni profetiappollaiati in funebre attesa contro a te immobile steso») nella «taglien-te, brillante bianchezza» della neve, nella sua accecante perfezione «sulcristallo blu del cielo»100 –, e un trasognato aldilà, indefinitamente assor-bito dal «brusio della linfa» e dall’«umida calura della vita diffusa» («Edun’irritazione ansiosa lo aveva preso, un desiderio dell’aldilà dei monti,del colorato lontano: la nostalgia…»). In questo sguardo che oltrepas-sa l’orizzonte, e lo trafigge come un vetro colorato, riposa un barlumemessianico, come di esilio sereno verso un non esplorato paese.

L’esodo dalla storia, che immediatamente tramuta la presenza sen-sibile in diaframma simbolico e in astratta sostanza linguistica, docu-menta in Boine l’insorgenza di una costellazione gnostica. L’identifi-cazione di vita e pensiero, in cui si riassume il bilancio tracciatonell’Esperienza religiosa, lascia dietro di sé residui cospicui, come «unaimmensa ombra che incombe, che minaccia sul mondo (in cui si divin-cola il mondo) e che infiltra, che imbeve, che fascia tutte quante lecose»101. L’ordinamento mondano affiorante dal caos delle origini vi siriflette nella forma mitica della genealogia, che inscrive la durata dellavita nella successione delle morti e delle nascite. «Il rapporto tra legenerazioni – ha scritto Jacob Taubes –, è convincente ed illuminantenella coscienza mitica per il legame tra colpa e espiazione»102. Tale lega-

100 «Funerea sublimazione di bellezza non vita, non bellezza vivace in questopuntuto nereggiar di foreste tutt’intorno al paese; ed anche la sera quando il tra-monto tingeva di una sottilissima lucentezza di rosa i campi di neve in alto, ciò eracome fuori di lui, freddo». (AG 201).

101 L’intero brano, che chiude l’Esperienza religiosa, contiene un invito a «rilegge-re con questi intenti San Paolo, Calvino, Pascal»: «Scindere, bisogna, in ogni docu-mento lo sforzo di naturale ordine logico con cui il caos gorgogliante si copre siraggruma nella mente dell’uomo dagli indizi veri, dall’anarchia prementale del caos.Bisogna rileggere con questi intenti San Paolo, Calvino, Pascal ed ogni mistico laicoo religioso che sia. E fatta la sua parte alla storia, dato ciò che gli spetta allo spiri-to, rimarrà (questo io ho voluto mostrare!) molto ancora, rimarrà troppo, troppodico, troppo ancora per Iddio, per il vero iddio. Il quale, è, in ogni nostra afferma-zione sicura, l’ansia dell’incerto, in ogni definita forma, il tremore germinale delvago e del nuovo; una immensa ombra che incombe, che minaccia sul mondo (incui si divincola il mondo) e che infiltra, che imbeve, che fascia tutte quante le cose».(ER 138).

102 Cfr. J. TAUBES, Sulla congiuntura del politeismo, in Messianismo e cultura, trad. it.Elettra Stimilli, Milano, Garzanti, 2001, pp. 357-71.

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me, la cui recisione, di fondamentale importanza nella storia evolutivadel soggetto, informa il discorso dottrinario del Profeta nel capitolodiciottesimo di Ezechiele103, è però ambiguamente ribadito in Boine nellacontinuità che assorbe il vivente nella schiera degli antenati104. Ciò chedistingue l’esperienza boiniana è, semmai, la permanenza del nessocolpa-espiazione anche attraverso la sua negazione, e l’urgenza di unorizzonte mitico che insidia lo scenario mondano e lo rovescia in asce-tico annientamento. Su questa soglia, sospesa tra affermazione di sé einclinazione alla morte, estasi e tradizione, sosta la scrittura allegoricadel Peccato.

103 Cfr. Ezechiele, 18,19: «Voi dite: Perché il figlio non sconta l’iniquità delpadre? Perché il figlio ha agito secondo giustizia e rettitudine, ha osservato tutti imiei comandamenti e li ha messi in pratica, perciò egli vivrà».

104 «Ma tua madre è per contro a te il diritto della morta-vivente tua razza anti-ca e ti dice che sei tuo, sì, ma anche non tuo; che così i tuoi vecchi hanno operatoe così hanno duramente voluto, che ci sono nell’anima tua i solchi delle abitudiniloro a mostrarlo, e che se tu li rompi essi ne soffrono in te». (PE 50).

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Nota biografica

Giovanni Boine nacque a Finalmarina, in provincia di Savona, il 2settembre 1887. Il padre, originario di Verolengo (Torino), era capo-stazione della cittadina. La madre, Irene Benza, proveniva da una fami-glia benestante di proprietari terrieri. Durante l’infanzia trascorre leestati a Dolcedo, nella valle di Porto Maurizio, nella vecchia casa delnonno. Presto gli attriti familiari provocano la separazione dei genito-ri. Un vivido ricordo del padre è consegnato alla dedica dei Discorsi mili-tari: «A mio padre, savoiardo all’antica, il quale appena seppi, mi feceleggere (e quasi compitavo), il “Regolamento di disciplina militare” conmaschia semplicità solendo dire: “Ciò fa bene a un ragazzo”».

Dopo aver frequentato il ginnasio e il liceo musicale a Genova, nel1907 si trasferisce con la madre a Milano, dove consegue la maturità al“Beccaria”. Si iscrive alla Regia Accademia Scientifica e Letteraria, doveha per compagni Clemente Rèbora e Antonio Banfi, mentre tra i suoiprofessori figurano lo storico Gioacchino Volpe e il filosofo PietroMartinetti. A Milano Boine viene in contatto con il Circolo diSant’Alessandro attraverso la figura di Alessandro Casati. Si tratta di unsodalizio aristocratico che accoglie e discute le tesi del modernismoeuropeo sotto la guida del padre barnabita Pietro Gazzola. «Eranocostoro – ha scritto Lorenzo Bedeschi –, alcuni esponenti delle princi-pali famiglie milanesi imparentati fra loro come Melzi d’Eril e GallaratiScotti, Soragna e Casati, Jacini e Pestalozza, Torri e Alfieri. Tutti di tra-dizione liberalcattolica, ma nei quali però la valenza politica non esau-riva più l’inquietudine religiosa che sul piano culturale risentiva ormaidegli apporti scientifici mitteleuropei e su quello pratico della filosofiavo-lontaristica. A tradurglieli in vigorosi termini evangelici, con libertàdi spirito e sicurezza culturale evitandogli rovinose crisi di fede, si pre-stava padre Gazzola che la pubblicistica coeva riconosceva di grandefascino e che, poco dopo, la repressione antimodernista curiale toglie-rà dalla parrocchia per mandarlo a morire in esilio a Livorno».

Nel 1907 nasce «Il Rinnovamento», su cui Boine pubblica, fin dalsecondo numero, una recensione alla Vita de D. Quijote y Sancho diMiguel de Unamuno. Nel mese di settembre con l’enciclica Pascendidominici gregis Pio X condanna in via ufficiale il modernismo dogmatico.Tuttavia la collaborazione di Boine al «Rinnovamento» proseguirà conimpegno crescente fino alla chiusura della rivista.

Intanto la sua salute comincia a dare evidenti segni di cedimento.Dal dicembre del 1908 alla metà di marzo dell’anno successivo viene

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ricoverato, grazie all’appoggio economico di Casati, nella clinica deldottor Huber a Zurigo. Dopo alcuni viaggi in Italia, a Roma, a Salso-maggiore e poi a Craveggia (Novara), si trasferisce a Porto Maurizio,allora capoluogo di provincia, nella speranza di trovare un climamigliore per recuperare le forze e ristabilirsi. Dall’estate del 1908 hainizio la collaborazione alla «Voce» di Prezzolini. Il primo articolo, inti-tolato Lettere ginevrine. Ginevra e l’Italia, esce il 18 febbraio 1909. Graziealla mediazione di Papini conosce intanto Mario Novaro, direttore della«Riviera ligure», su cui pubblicherà a partire dal 1912 la maggior partedei suoi scritti. Vive una fuggevole avventura platonica con una novi-zia del convento delle Carmelitane di Porto Maurizio, che sarà poi allabase della vicenda narrata nel Peccato. Il 23 marzo 1911 appare sulla«Voce» La ferita non chiusa, uno dei testi più sintomatici della laceratareligiosità boiniana; nel mese di ottobre, sull’«Anima» di GiovanniAmendola, compare l’Esperienza religiosa, un testo che rappresenta la suapiù ampia e organica riflessione sui temi della Tradizione, della Legge,della ragione e della fede. Negli ultimi mesi del 1911 ha inizio la storiad’amore con Maria Gorlero, una bellissima popolana vedova di un vet-turino. La sua collaborazione alla «Riviera ligure» si inaugura con laprosa La città (5 maggio 1912); intanto appaiono sulla «Voce», a brevedistanza l’uno dall’altro, gli articoli Un ignoto (8 febbraio) e L’estetica del-l’ignoto (29 febbraio), con cui apre un’aspra polemica con BenedettoCroce. Sono anni di febbrile attività letteraria e pubblicistica, a cui noncorrisponde un sostanziale miglioramento delle condizioni di salute,che restano precarie. A novembre si reca per un periodo di cura nelsanatorio di Davos, in Svizzera. Nell’ottobre del 1913 compare sulla«Riviera ligure» la prima parte del Peccato. Accetta di curare per la stes-sa rivista una rubrica di recensioni, Plausi e Botte, che sarà pubblicata atre riprese tra marzo e novembre 1914, gennaio e agosto 1915, e nelsettembre-ottobre 1916. Nella lettera a Casati del 30 dicembre 1913così riferisce degli impegni assunti verso Novaro: «Ho accettato di fario per 25 lire al mese il lavoro che faceva una volta nella Riviera Ligureil Lipparini… S’intende che mi sono assunto di farlo meglio e con piùsincerità. Sono d’accordo con Novaro che le stroncature sono permes-se. Se il libro da recensire è troppo sconcio e di persone, non per me,ma per Novaro compromettenti, piuttosto non se ne parla». Al terminedel lavoro, Boine avrà segnalato complessivamente 69 autori, tra cuiClemente Rèbora e Dino Campana, dando prova di sicura intuizionecritica. Ha una relazione travagliata con Sibilla Aleramo che sarà rievo-cata dalla scrittrice nel romanzo Il frustino. Nel marzo del 1915, quando

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il legame è ormai reciso, così ne scrive a Casati: «Caro Casati, si rompecon una donna per tante altre ragioni oltre quella che dici. Tollera ch’ioti scriva che ho rotto con l’Aleramo proprio come chi riesce a scampa-re da un pericolo grosso: l’affogamento in mare o la prigione… Farògli scongiuri perché tu scampi in questa e nell’altra vita dal desiderio diquelle donne per cui l’amore è una cosa troppo più alta e letteraria-mente complicata, di questa elementarità schietta, come il respirare edil vivere, quale è per me e per te uomini alla buona, un po’ ironici, mainfine senza eccessive aspirazioni e senza intellettuali pretese».All’entrata dell’Italia in guerra tenta di farsi inviare al fronte come cor-rispondente. Si impegna anche in attività di assistenza al seguito dipadre Giovanni Semeria. L’immane carneficina del conflitto accresce ilsuo pessimismo, e finisce per alimentare in lui la sensazione di assiste-re ad un’apocalisse grottesca. Le lettere a Emilio Cecchi ne sono unatestimonianza urticante: «La storia, caro Cecchi – scriveva il 4 luglio del1915 –, è un barile di merda che il diavolo rotola per la china dellamorte: sotto sopra, su giù la merda è sempre quella». Negli ultimi mesi,con l’aggravarsi delle condizioni di salute, si fa più pressante il bisognodi denaro. Boine ne chiede disperatamente agli amici, a UgoBernasconi, a Leopolda Casati; tenta di ricavare qualche ulteriore pro-fitto dai Discorsi militari, ormai rifiutati sul piano ideologico. In unadrammatica lettera all’amministratore della Libreria della Voce scrive-va: «Non tornerei a sollecitare, se non mi trovassi indebitato, malato,senza né santi né diavoli a cui rivolgermi. Ho per esempio un conto dilire 227 dal farmacista giacché mangio più medicine che pane e non unquattrino per pagarlo. Non so bene chi sia lei a cui mi rivolgo, ma eccoqui: io sono un uomo che non può pagare il suo farmacista. Cosadebbo dire d’altro?». Giovanni Boine muore a Porto Maurizio il 16maggio 1917. Secondo le sue ultime volontà nel recinto della tombaviene piantato un cipresso.

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Bibliografia

Opere

Ampie raccolte antologiche delle opere di Boine sono state realiz-zate da G. VIGORELLI (a cura di) Il peccato e le altre Opere, Parma,Guanda, 1971; D. PUCCINI (a cura di), Il Peccato Plausi e botte FrantumiAltri scritti, Milano, Garzanti, 1983. Per gli scritti su misticismo, religio-ne e filosofia si rinvia inoltre a G. BOINE, L’esperienza religiosa e altri scrit-ti di filosofia e di letteratura, a cura di Giuliana Benvenuti e Fausto Curi,Bologna, Pendragon, 1997.

Nel tormentato rilievo dell’opera boiniana è possibile distinguereschematicamente tre diverse fasi: a) La prima pubblicazione, nella quasitotalità dei casi affidata alle colonne di una rivista (o di un giornale),durante la vita dell’autore; b) Una fase editoriale sostanzialmentepostuma, che si spinge fino ai quattro volumi di Guanda alla fine deglianni Trenta, in cui i testi vengono organizzati e raccolti dagli amici ecompagni di strada del poeta ligure per essere stampati in volume; c)Un periodo di riletture e approfondimenti filologici, che registra unaparticolare intensità negli anni Settanta del Novecento. La riscoperta diBoine, incoraggiata dalla pubblicazione dei carteggi e di inediti signifi-cativi, è segnata dalla ristampa dei quattro volumi guandiani curata daVigorelli (non priva peraltro di deformazioni idealizzanti nella pro-spettiva interpretativa del curatore) e, in sede critica, dall’importanteconvegno di Imperia del 1977.

Si elencano di seguito le prime stampe in volume, le riedizioni pos-tume e le ristampe commentate dei testi boiniani che sono stati più fre-quentemente richiamati negli apparati critici e nel saggio introduttivo.

Il peccato apparve in quattro puntate su «La Riviera ligure» tra l’au-tunno del 1913 e l’estate dell’anno successivo (XIX, 22, ottobre 1913,pp. 213-20; XX, 26, febbraio 1914, pp. 253-260; XX, 29, maggio 1914,pp. 282-87; XX, 31, luglio 1914, pp. 306-10). Fu successivamenteristampato nel volume Il peccato ed altre cose (contiene Il peccato, La città,Conversione al codice), Firenze, Libreria della Voce, 1914; II ediz. postu-ma, Firenze, Soc. An. Ed. «La Voce», 1922; III ediz. a cura di M.Novaro, Modena, Guanda, 1938. In seguito si segnalano le seguentiedizioni: a cura di G. Vigorelli, in Il peccato e le altre Opere, cit. (senza notema con un importante saggio introduttivo sull’opera boiniana); a curadi G. Ungarelli, Torino, Einaudi, 1975; a cura di D. Puccini, cit.

La Prefazione al Monologio di S. Anselmo fu pubblicata presso l’edi-

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tore Carabba di Lanciano nel 1912, pp. 5-12, ma essa era stata parzial-mente anticipata con il titolo La ferita non chiusa in «La Voce», III, 12,23 marzo 1911, p. 537. Il testo vociano, decurtato degli ultimi due para-grafi, è quello seguito nelle successive ristampe: La ferita non chiusa,Firenze, Soc. An. Ed. «La Voce», 1921 (contiene: La ferita non chiusa, Dicerte pagine mistiche, Esperienza religiosa, Un ignoto, Salmi della vita e dellamorte, Ragionamento al sole, L’agonia, Parole d’un uomo moderno, Epistola al«Tribunale», Ringraziamento, Pensiero e azione, Congedo); nuova ediz. a curadi M. Novaro, Modena, Guanda, 1939 (contiene: La ferita non chiusa, Dicerte pagine mistiche, Esperienza religiosa, Un ignoto, Salmi della vita e dellamorte, Ragionamento al sole, L’agonia, Giovanni della Croce, La casa del nonnoe la cattedrale degli ulivi).

Per la stampa in volume dei Frantumi e delle recensioni pubblicatesu «La Riviera ligure» si veda rispettivamente: Frantumi seguiti da Plausi ebotte, a cura degli Amici, Firenze, Libreria della Voce, 1918; II ediz.Firenze, Soc. An. Ed. «La Voce», 1921; Frantumi, III ediz. a cura di M.Novaro, Modena, Guanda, 1938 (senza Plausi e botte); Plausi e botte, IIIediz. con aggiunte inedite e un Ricordo a cura di M. Novaro, Modena,Guanda, 1939; Plausi e botte, con un Invito alla lettura di Geno Pampaloni,Firenze, Vallecchi, 1978. Oltre alle ristampe dei testi nelle edizionicomplessive dell’opera boiniana sopra ricordate, si segnala: Frantumi: imateriali preparatori, a cura di L. Gatti, Alessandria, Edizioni dell’Orso,1986.

Il testo dell’Esperienza religiosa fu pubblicato per la prima sulla rivi-sta di Giovanni Amendola, «L’Anima», I, 10, novembre 1911, pp. 291-319. Successive ristampe: in La ferita non chiusa, cit., rispettiv. nell’ediz.1921 e 1939; Milano, Garzanti, 1948 (nella collana «Opera prima» acura di E. Falqui); in Giulio Cattanei, La Liguria e la poesia italiana delNovecento, Milano, Silva, 1966, pp. 635-77; in L’esperienza religiosa e altriscritti di filosofia e di letteratura, a cura di Giuliana Benvenuti e FaustoCuri, cit., pp. 99-138 (contiene: La ferita non chiusa [il testo vociano], Dicerte pagine mistiche, L’esperienza religiosa, Un ignoto, L’estetica dell’ignoto,Amori con l’onesta, La città, L’agonia); Torino, Aragno, 2000 (prefazionedi Carlo Bo, con una nota biografica di Milva Maria Cappellini dal tito-lo Il percorso di G. B.).

I Discorsi militari apparvero per la prima volta a Firenze, Libreriadella Voce, con la data 1915 (ma 1914). Sono stati successivamenteriproposti da G. VIGORELLI (a cura di), in Il peccato e le altre Opere, cit.

Si vedano inoltre: Scritti inediti, edizione critica e saggio introduttivodi G. Bertone, Genova, Il melangolo, 1977; Inediti. Appunti per un articolo

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sulla psicologia della religione e del misticismo. Traduzione di un capitolo diArische Weltanschauung, a cura di B. Ulian, Roma, Bulzoni, 1987. Siveda inoltre: Da Anselmo d’Aosta a Bergson: studi su Anselmo d’Aosta,Machiavelli, Montagne, Madame de Stael, Gobineau, Pater, Ruskin, Weininger eBergson, Bologna, Boni, 1987.

L’epistolario boiniano, in quattro volumi, è curato da M. Marchione eS. E. Scalia per le Edizioni di Storia e Letteratura: Carteggio, I, G. B.-Giuseppe Prezzolini (1908-1915), prefaz. di Giuseppe Prezzolini, 1971;Carteggio, II, G. B.-Emilio Cecchi (1911-1917), prefaz. di C. Martini, 1972;Carteggio, III (2 tomi), G. B.-Amici del «Rinnovamento», tomo primo(1905-1910) e tomo secondo (1911-1917), prefaz. di G. Vigorelli, 1977;Carteggio, IV, G. B.-Amici della «Voce»-Vari (1904-1917), prefaz. di G. V.Amoretti, 1979.

Si vedano inoltre: Lettere a Mario Novaro, a cura di GiuseppeCassinelli, Bologna, Boni, 1984; G. B.-Miguel de Unamuno: un carteggio ine-dito (1906-1908), introduzione di Eugenio Garin, commento diGaetano Foresta, Bologna, Boni, 1991.

Studi critici

E. CECCHI, La morte di G. B., in «La Tribuna», 20 maggio 1917 (poiin C II, pp. 213-214); M. NOVARO, G.B. (ricordo), in «La Riviera ligure»,XXIII, 5° serie, 7, luglio 1917 (ora in Il Peccato e le altre Opere, cit., pp.635-39); G. BELLONCI, G. B., in «Giornale d’Italia», 5 giugno 1918; G.PAPINI, in Testimonianze, Milano, Facchi, 1918 (poi in Opere, IV, Scrittorie artisti, Milano, Mondadori, 1959, pp. 936-43); G. PAPINI e P.PANCRAZI, in Poeti d’oggi, Firenze, Vallecchi, 1920; G. V. AMORETTI, G.B. e la letteratura italiana contemporanea, Bonn-Leipzig, Schroeder, 1922;G. DEBENEDETTI, G. B., in «Primo tempo», I, 1923 (ora in «Primotempo» 1922-1923, a cura di Franco Contorbia, Milano, Celuc, 1972,pp. 288-302); P. GOBETTI, La ferita non chiusa, in «L’ora», 10 marzo1924 (ora, con il titolo G. B., in Scritti teorici, letterari e filosofici, Torino,Einaudi, 1969, pp. 579-83); A. CAVALLI, L’estetica di G. B., in«Convegno», 25 agosto 1927, pp. 459-64, e La mistica di G. B., in«Ricerche religiose», gennaio 1931, pp. 51-9; A. Gargiulo, G. B., in«L’italia letteraria», 5 febbraio 1931 (poi in Letteratura italiana delNovecento, Firenze, Le Monnier, 1940, II ediz. Ampliata, ivi, 1958, pp.164-70); A. TILGHER, G. B., in Ricognizioni, Roma, 1934, pp. 103-12; C.BO, G. B., in «Frontespizio», gennaio 1938 (poi Intorno a B., in Otto studi,

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Firenze, Vallecchi, 1939, pp. 39-65); E. FALQUI, in Capitoli, Milano,Panorama, 1938 (II ediz. con postille Milano, Mursia, 1964, pp. 353-58); G. CONTINI, Alcuni fatti della lingua di G. B., in «Lingua nostra», giu-gno 1939, pp. 82-88 (ora in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi,1970, pp. 247-58); O. MACRÌ, G. B., in «Letteratura», ottobre 1939, gen-naio e aprile 1940 (poi, con il titolo Limite della volontà, in Esemplari delsentimento poetico contemporaneo, Firenze, Vallecchi, 1941, pp. 173-264); W.ROSSANI, Tormento di G. B., in «L’orto», dicembre 1939 e L’estetica e l’ar-te di G. B., in «Il Meridiano di Roma», 7 e 14 gennaio 1940 (poi inTormento di B. ed altri saggi, Bologna, Alfa, 1959); G. MANACORDA, G. B.,in «Belfagor», V, 3, 31 maggio 1950, pp. 308-17; M. COSTANZO, G. B.Note critiche, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1951, anche in Studi critici,Roma, Bardi, 1955 (successiv. rifusi in G. B., Milano, Mursia, 1961); «LaFiera letteraria», numero speciale, 19 dicembre 1954, con scritti di G.A. Cibotto, C. De Roberto, O. Sobrero, G. Bárberi Squarotti, G.Cattaneo, M. Costanzo; G. MARIANI, Poesia e tecnica nella lirica delNovecento, Padova, Liviana, 1958; G. BÁRBERI SQUAROTTI, Alcune costan-ti del linguaggio di G. B., in Astrazione e realtà, Milano, Rusconi e Paolazzi,1960, pp. 177-93 (già apparso in in «La Fiera letteraria», 19 dicembre1954); A. MAZZOTTI, G. B., in AA.VV., I contemporanei, I, Milano,Marzorati, 1963, pp. 811-42; L. Lugnani, G. B.: critica e poetica, in «LaRassegna della letteratura italiana», maggio-dicembre 1964, pp. 419-40;U. CARPI, Amendola e B.: prospettive di etica vociana, in «Annali della ScuolaNormale Superiore di Pisa», XXXIII, 2° serie, 3-4, 1964, pp. 223-50 eG. B.: idee sulla poesia, in «Belfagor», XXI, I, 31 gennaio 1966, pp. 72-81;G. CATTANEI, La Liguria e la poesia italiana del novecento, Milano, Silva,1966, in part. pp. 156-82; G. CONTINI, Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 723-725; D. VALLI, Croce e B.: la “con-dizione” del letterato italiano tra filosofia e vita, in «Lettere italiane», XXII, 3,luglio-settembre 1970, pp. 325-50 (poi Il misticismo dei contenuti: esempla-rità di B., in Anarchia e misticismo nella poesia italiana del primo Novecento,Lecce, Milella, 1973, pp. 239-82); M. Isnenghi, in Il mito della grande guer-ra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1960, pp. 71-81; G.DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, pp. 72-80; S. RAMAT, Il vitalismo armonico tra B. Campana e Ungaretti, in«L’Albero», 47, 1971, pp. 19-59 (ora Il regime del corpo nel «Ragionamento»di B., in Storia della poesia italiana del Novecento, Milano, Mursia, 1976, pp.105-115); C. BO, Con B., in «Corriere della sera», 29 aprile 1971; G.VETTORI, G. B., in «Cultura e scuola», 41, 1972; G. Cassinelli, Per B.,Savona, Sabatelli, 1972; F. CONTORBIA, rec. a G. B., Il Peccato e le altre

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Bibliografia

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Opere, a cura di G. Vigorelli, cit., in «La Rassegna della letteratura ita-liana», maggio-dicembre 1972, pp. 544-45; e rec. a G. B., Carteggio I e II,cit., ivi, settembre-dicembre 1973, pp. 724-30; G. BERTONCINI, G. B.nella civiltà letteraria del primo Novecento, Padova, Liviana, 1973; B.CASTAGNA, B. e «Dedalus», in «Resine», 5, 1973, pp. 59-67; M.Guglielminetti, in AA.VV., Dizionario critico della letteratura italiana, I,Torino, UTET, 1973, pp. 373-77; F. CURI, Sulla poetica di G. B., Mantova,Edizioni del Verri, 1973 (ora Di un “caos in travaglio”, in Perdita d’aureola,Torino, Einaudi, 1977, pp. 181-232); R. LUPERINI, Contraddizioni e speri-mentalismo narrativo in B., in Letteratura e ideologia nel primo Novecento, Pisa,Pacini, 1973, pp. 131-47; D. VALLI, Anarchia e misticismo nella letteraturaitaliana del primo Novecento, Lecce, Milella, 1973; E. CIRCEO, Ritratto di B.e altri saggi, Napoli, Guida, 1974; U. CARPI, Ideologia proprietaria e lettera-tura religiosa: in margine a due carteggi di G. B., in «Studi novecenteschi»,III, 7, marzo 1974, pp. 5-56 (poi in «La Voce». Letteratura e primato degliintellettuali, Bari, De Donato, 1975, pp. 135-97); A. DE GUGLIELMI, Lostile di B. critico, in «Resine», 14, 1975, pp. 3-20; R. MINORE, B., Firenze,La Nuova Italia, 1975; L. DE MARIA, Peccato d’amore di una novizia, in«Paese Sera», 9 gennaio 1976; A. GUGLIELMI, Peccato d’amore della novi-zia, in «Corriere della sera», 8 febbraio 1976; P. Tedeschi, Il Peccato di B.,in «Gazzetta di Parma», 18 giugno 1976; G. CASSINELLI, Una “botta” ine-dita di B., in «Resine», 16, 1976, pp. 3-7; A. DE GUGLIELMI, B.-Campana:un incontro al limite, in «Resine», 17, 1976, pp. 3-18; M. MIGNONE, B. e ilrifiuto dei Discorsi militari, ivi, 19, 1976, pp. 10-25; A. L. GIANNONE,Ritorno del Peccato di B., in «L’Albero», 56, 1976, pp. 203-6; G. BERTONE,Per un’edizione critica dei Frantumi di B., in «Resine», 20, 1977, pp. 3-19; A.DE GUGLIELMI, Pianissimo letto da B., in «Resine», 22, 1977, pp. 3-11; R.DEDOLA, Il Peccato di B., in «Nuovi Argomenti», luglio-settembre 1977,pp. 69-88; M. GUGLIELMINETTI, Plausi e Botti di B., in «Tuttolibri», 105,26 novembre 1977; E. SANGUINETI, La “rettorica dell’anima”, in«L’Unità», 8 dicembre 1977, poi in Giornalino secondo 1976-1977, Torino,Einaudi, 1979, pp. 337-339; V. COLETTI, La scrittura “continua” di B., in«Rinascita», 49, 16 dicembre 1977; S. RAMAT, Gli inediti di B., in «LaNazione», 21 aprile 1978; P. V. MENGALDO, in Poeti italiani del Novecento,Milano, Mondadori, 1978, pp. 415-20; F. CURI, Il nome, l’aforisma, l’afa-sia, in «il Verri», 12, 1978, pp. 18-63; E. GHIDETTI, Invito alla lettura diB., in «Rinascita», 7, 16 febbraio 1979; A. BENEVENTO, Il peccato di B. elo stile parentetico, in «Otto-Novecento», 2, 1979, pp. 99-136; E. CIRCEO,G. B., in AA.VV., Il Novecento, II, Milano, Marzorati, 1979, pp. 1489-1509; G. Bertoncini, Poesia e involuzione ideologica di B., ivi, pp. 1509-17;

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C. BO, G. B., in AA.VV., Letteratura italiana contemporanea, I, Roma,Lucarini, 1980, pp. 837-48; D. VALLI, in Vita e morte del frammento inItalia, Milella, Lecce, 1980, pp. 122-31: A. M. PARODI, G. B. e «IlRinnovamento», in AA.VV., Studi di filologia e letteratura dell’Istituto di Lett. it.della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova, V, Genova, Ilmelangolo, 1980, pp. 183-222; AA.VV., G. B. Atti del convegno nazionaledi studi, Città di Imperia, 25-27 novembre 1977, a cura di FrancoContorbia, Genova, Il Melangolo, 1981, con scritti di G. V. Amoretti,C. Bo, F. Contorbia, G. Bertone, L. Bedeschi, E. Gioanola, U. Carpi, M.Isnenghi, S. Ramat, P. Boero, D. Puccini, A. De Guglielmi, M. Rossi, F.Mattesini, F. Curi, V. Coletti, G. Conte, D. Valli, M. Mignone, G.Bárberi Squarotti, M. Guglielminetti, G. Ungarelli, M. Dillon Wanke;G. CASSINELLI, Il tormento, la poesia, gli ulivi. Note su G. B., La «RivieraLigure» e Mario Novaro, Bologna, Boni, 1981; M. DEL SERRA FABBRI,Misure espressive dell’“esilio” di B., in «L’Albero», 63-64, 1981, pp. 81-131;F. CONTORBIA, Renato Serra, G. B. e il nazionalismo italiano, in AA.VV., Lacultura italiana tra '800 e '900 e le origini del nazionalismo, Firenze, Olschki,1981, pp. 189-231; R. Luperini, Il frammentismo espressionista: spirito anar-chico e volontarismo etico in Slataper, Jahier, Boine, in Il Novecento, Torino,Loescher, 1985, pp. 197-217; G. Bárberi Squarotti, Forma e Vita nelPeccato di Boine, in La forma e la vita: il romanzo del novecento, Milano,Mursia, 1987, pp. 37-54; GIOANOLA, Il mistico senza estasi, in Psicanalisi,Ermeneutica, Letteratura, Milano, Mursia, 1991, pp. 171-90; A.Benevento, Le prime interpretazioni della poesia di Clemente Rebora, in«Cultura e scuola», 124, 1992, pp. 9-16; R. BERTACCHINI, in Il romanzodel Novecento in Italia: dal Piacere al Nome della Rosa, Roma, Studium, 1992;S. RAMAT, La poesia di Rebora nel giudizio dei suoi primi lettori, in AA.VV.,Clemente Rebora nella cultura italiana ed europea, a cura di GiuseppeBeschin, Gualtiero De Santi, Enrico Grandesso, Roma, Editori Riuniti,1993, pp. 143-64; C. BO, Omaggio a B., in Letteratura come vita, a cura diSergio Pautasso e Jean Starobinski, testimonianza di GiancarloVigorelli, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 470-83; F. CONTORBIA, B. eGallarati Scotti, in AA.VV., Rinnovamento religioso e impegno civile in TommasoGallarati Scotti, a cura di Fulvio De Giorgi e Nicola Raponi, Milano,Vita e Pensiero, 1994; A. CORTELLESSA, Dal “Culte de Moi” all’“Enracinement”: L’esempio di Maurice Barrès e la generazione “vociana”, in«Annuario di critica letteraria e comparata», I, 1995, pp. 33-61; G. DIPAOLA, Indagine su alcuni esempi di prosa d’arte dei primi decenni del secolo, in«Cultura e scuola», 132, 1994, pp. 55-76; G. GIUDICE, Il programmamodernista di Boine in un “Plauso” di Sbarbaro, in «Il lettore di Provincia»,

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Bibliografia

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90, 1994, pp. 115-16; G. MARCHETTI, «La Voce»: ambiente, opere, protago-nisti, Firenze, Vallecchi, 1994; C. Martignoni, Poesia-Prosa: “Incrocio” nelNovecento, in «Campo», 8, 1994, pp. 172-76; M. Mola, Boine: i Discorsi inparentesi, in «Filologia e Critica», XIX, 1994, pp. 427-46; LetteraturaItaliana del Novecento, V, «La Voce» e i “vociani”. Il “Frammentismo lirico”,dir. Gianni Grana, Milano, Marzorati, 1995 (Volume V dell’ediz.Economica della Lett. It. del Novecento basata sull’edizione del 1979, Milano,Marzorati, e successivi aggiornamenti fino al 1989. All’interno: E.CIRCEO, G. B., pp. 124-44; G. BERTONCINI, Poesia e involuzione ideologicadi B., pp. 144-52); C. MARTIGNONI, Espressionismo tedesco e vociano a con-fronto, in «Autografo», 30, 1995, pp. 21-34; F. PETROCCHI, La letteraturadelle valli di Piero Jahier, in «Galleria», 2-3, 1995, pp. 27-37; AA.VV.,L’umanità di Giuseppe Cassinelli, a cura di Giovanni Giudice, in «Resine»,68, 1996, pp. 55-8; S. Gentili, La critica letteraria del Novecento (1900-1960), Firenze, Le Lettere, 1996; G. IOLI, Frantumi e rottami: B. e Montale,in AA.VV., La Liguria di Montale, a cura di Franco Contorbia e LuigiSurdich, Savona, Sabatelli, 1996, pp. 147-58; «Sit. Cahiers du sèminaired’Italien», 5, 1996, pp. 159-221 (fascicolo monografico che pubblica gliAtti di una giornata di studio tenutasi all’Università di Berna il 26 giugno 1995.Contiene: P. G. CONTI, Il “balbo narrare”. Strutture e forme della confessione:una modalità del genere “romanzo autobiografico”, pp. 159-67; W.BREITENMOSER-C. RIATSCH, «Questo aggroviglio immane»: distanza e vici-nanza tra narratore e personaggio nel Peccato di B., pp. 169-82; M. HEYER-CAPUT, Il Peccato di G. B.: un “ondeggiamento filosofico”?, pp. 183-207; D.BERRA, «Una mostruosa ignota malìa». Dell’ambiguità della musica nel testo,ovvero: musica filosofica e musica sentimentale, pp. 209-21); S. RAMAT,Millenovecentododici: la polemica B.-Croce e i suoi dintorni, in Bufere e molliaurette. Polemiche letterarie dallo Stil Novo alla «Voce», Milano, Guerrini,1996, pp. 307-26; A. CORTELLESSA, Il “momento” autobiografico. La tensio-ne all’autobiografismo nelle poetiche dei vociani, in AA.VV., Scrivere la propriavita. L’autobiografia come problema critico e teorico, a cura di Rino Caputo eMatteo Monaco, Introduzione di Raul Mordenti, Roma, Bulzoni, 1997,pp. 191-244; G. GIRALDI, Liguria letteraria, in «Sistematica», 104, 1997,pp. 9-118; D. PUCCINI, «L’ineffabile non si dimostra»: poetica e poesia inAdriano Grande, in «Resine», 73-74, 1997, pp. 35-40; S. RAMAT, Frantumidi G. B., in La poesia italiana (1903-1943): quarantuno esemplari, Venezia,Marsilio, 1997, pp. 172-84; D. VALLI, Feriali registrazioni sul rapporto trafede e letteratura oggi, in Cinque studi per Clemente Rebora, Galatina, Congedo,1997, pp. 5-24; G. BÀRBERI SQUAROTTI, La beatitudine del nulla, in Lecapricciose ambagi della letteratura, Torino, Tirrenia Stampatori, 1998, pp.

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161-72 (già edito in «Sigma», XIX, 1994, con il titolo La contemplazionedel nulla); G. BELLINI-G. MAZZONI, D’Annunzio e la letteratura europea, acura di Margherita Gentile, Roma-Bari, Laterza, 1998; P. CEOLA-F.ORTOLAN-V. MICHELOTTO, Lo sperimentalismo vociano. Tre possibili percorsididattici, in «Institutio», I, 1998, pp. 59-116; P. Luxardo, Lo scrittore e ilsuo doppio: proiezioni autobiografiche nella narrativa del primo Novecento, in«Avanguardia», 9, 1998, pp. 114-36; S. MORANDO, Il mondo senza sirene.I poeti liguri del primo Novecento di fronte a D’Annunzio, in Terre, Città e Paesinella vita e nell’arte di Gabriele D’Annunzio, vol. V, Sogni di terre lontane…,Pescara, Ediars, 1998, pp. 264-91; S. SOLMI, Romanzo e frammento (1934),in La Letteratura Italiana Contemporanea, II, Scrittori, critici e pensatori delNovecento, a cura di Giovanni Pacchiano, Milano, Adelphi, 1998, pp.171-80; F. CURI, B., in La poesia italiana nel Novecento, Roma-Bari,Laterza, 1999, pp. 144-149; M. GUGLIELMINETTI, Poeti, Scrittori eMovimenti culturali del primo Novecento, in Storia della letteratura italiana, vol.VIII, Tra l’Otto e il Novecento, dir. da Enrico Malato, Roma, SalernoEditrice, 1999, pp. 1017-1140; F. RICCIARDELLA, Una rilettura di B., in«Studium», XCV, 1999, pp. 295-313; L. BUCCIARDINI, Il coraggio dell’inat-tualità. Cenni sulla presenza leopardiana in Boine, in N. BELLUCCI-A.CORTELLESSA (a cura di), «Quel libro senza uguali». Le Operette morali e ilNovecento italiano, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 99-112; D. PUCCINI, Tracceleopardiane in G. B., in «Resine», 2000, 84, pp. 7-13; A. AVETO, «Sono comequando ti ho scritto per la prima volta». Su una lettera dispersa di Boine a Papini,in «Archivi del nuovo», 2001, n. 8-9, pp. 5-23.

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Nota al testo

La prima stampa del Peccato apparve sulla «Riviera ligure» in quattropuntate: XIX, n. 22, ottobre 1913 pp. 213-20, e XX, n. 26, febbraio1914, pp. 253-60 (corrispondenti alle Parti I e II, di cui recano i rispet-tivi titoli); XX, n. 29, maggio 1914, pp. 282-87 (con il titolo Il peccato,corrisponde alla prima sezione della parte III); XX, n. 31, luglio 1914,pp. 306-10 (con il titolo Il tormento, corrisponde alla parte conclusiva delromanzo).

Un’edizione filologicamente accurata del Peccato è stata realizzata daGiulio Ungarelli (Torino, Einaudi, 1975), che ha ricostruito l’integritàdel testo sulla base del manoscritto; della prima stampa sulla “Rivieraligure” e delle bozze relative alla seconda puntata del romanzo (La qua-lunque avventura), per la medesima rivista, con correzioni autografe; e,infine, della pubblicazione in volume del 1914 per i tipi della “Libreriadella Voce”.

Nella presente edizione sono state generalmente adottate le osser-vazioni correttive proposte da Davide Puccini (Milano, Garzanti,1983), sempre segnalate nelle note. Eventuali refusi o interventi cor-rettorî sono anch’essi segnalati nelle note. I criteri seguiti nella ripro-duzione del testo boiniano sono orientati alla conservazione delle suespecificità lessicali, stilistiche e sintattiche. La grafia di Boine è di rego-la rispettata, ma si è provveduto a ripristinare l’accentazione delle paro-le – frequentemente omessa nei manoscritti. Un analogo criterio con-servativo è stato seguito per l’alternanza del di genere del pronomepersonale, da ricondurre senz’altro ad un accreditato uso boiniano.Anche per la punteggiatura, organizzata secondo una modalità estre-mamente soggettiva e di caratterizzazione espressiva, si è mantenutol’uso boiniano con la sola “normalizzazione” delle frasi parentetiche,per le quali si è preferito posporre i segni di interpunzione fuori dellaparentesi (mentre Boine li inserisce all'interno), secondo un sistemacomunemente invalso nelle ristampe del Peccato.

Alla prima edizione in volume, Il peccato ed altre cose (unitamente alleprose La città e Conversione al codice, Firenze, Libreria della Voce,Quaderno ventitreesimo, maggio 1914), è premessa la seguente nota:«Ristampo queste cose ch’io credevo sotterrate per sempre nella Rivieraligure dove apparvero gli anni scorsi come schizzi e studi e, spesso,pudiche intimità che dell’aperto pubblico s'intimidivano. Ma sebbene iosappia che non valgono che come intimità e come schizzi, e sia delparere che solo ciò che è bello e grande meriti di escire in libro, perché

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è inutile e dannoso aumentare le tonnellate della carta stampata, la“Libreria della Voce” le ha dissotterrate e non per vanità o desiderioche se ne parli io le ho concesse. Il che mi serva di giustificazionedinanzi ai pochi che mi conoscono e del giudizio dei quali m’importa.Portomaurizio, 30 aprile 1914».

In calce al testo apparso sulla «Riviera ligure» si legge la dataFebbraio-Marzo 1913, omessa nelle successive ristampe.

Per quanto riguarda le annotazioni e il commento che corredano lapresente edizione, dopo il lavoro di puntuale precisazione «naturalisti-ca» svolto da Ungarelli, si è proposto un allargamento delle confluen-ze letterarie del Peccato in grado di evidenziarne prestiti, richiami eradicamenti intertestuali, con particolare rilievo statistico alle corri-spondenze interne al corpus dell’opera boiniana. La documentazionedelle caratteristiche tecniche della scrittura ha reso pertanto necessariauna specifica attenzione alle procedure di lemmatizzazione – ad esem-pio, nella segmentazione paratestuale – e alla costruzione di stringhelessicali ricorrenti, cui Boine conferisce valori di significato che atten-gono alla sfera del pensiero filosofico e dell’esperienza religiosa, maugualmente pertinenti sul piano dei riferimenti descrittivi e storici delrécit.

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L’avventura cominciò qualche anno dopo che egli se n’era, finiti glistudi, tornato a casa. Fece molto rumore in paese2. La gente avevaavuto fino allora di lui un certo diffidente rispetto come per unoche è d’altra razza che noi3: che opina e fa diversamente da noi, chenon si cura di noi, ma di cui qualcosa precisamente di male nessu-no può dire. Vivendo senza fissa occupazione nell’agio noncuran-te e discreto di una famiglia di patrizi antichi, i saggi mercanti, ivari ragionieri guadagna-denaro della città dicevano di lui che per-deva il suo tempo. «E che fa? Perde il suo tempo». Le vecchiesignore beghine, i fabbriceri ed il parroco sebben si togliesse sem-pre con rispetto il cappello quando passava il Santissimo (ma c’e-rano invece in paese gli spiriti forti che lo calcavano fieri e ferocifino agli orecchi); e venisse spesso in chiesa alla messa e ci stessecome si deve serio senza fare alle occhiate e ai segnali colle ragazzein parata (ci van perciò appunto i giovani la domenica in chiesa),sospettavan di lui. S’eran sentite certe voci su lui di quand’era aglistudi... E par che avesse detto ch’egli al catechismo nelle scuolenon ci teneva gran che. – Pei politicanti del Consiglio comunaleegli era un «originale». Non si capiva cos’era. Aveva scritto sul gior-nale del sito in pro, che so io, della «scuola serale» (dunque è connoi socialisti) e poi detto male del discorso del tale e del talaltro alcomizio del primo maggio passato (dunque non è socialista). Simescolava del resto di rado nelle conversazioni a caffè; non gioca-va; che avesse donne nessuno per allora sapeva; le compagnie alle-gre, quelle che restan di notte fino alle due in schiamazzi a far laserenata alla bella, o si spandon fra le quinte in teatro l’inverno apizzicar le coriste, i giovanotti che capiscon la vita e come si deve(«son nell’età!») se la godono, quelli lo avevano un poco in concet-to tra di «prete» e babbeo.

S’era fatti amici fra gente «di nessun conto», dicevano4: ragazzidi diciasette diciotto anni senza un soldo, ragazzi di liceo smilzi apasseggio con sotto il braccio un libro; un giovane capitano dimare che chissà perché aveva piantato il mestiere d’un tratto, spe-cie di matto solitario tutto il giorno a leggere libri (Stirner, Hae-ckel, Büchner5 ed i volumi più misteriosamente decorati in nero ed

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in bianco della «piccola biblioteca» del Bocca6. Ma ora in ultimodicevano che il cervello gli stesse dando completamente di volta es’occupasse d’occultismo e di simboli e farneticasse sull’interpre-tazione dei sogni), tutto il giorno in un canto al sole a legger palli-do, torvo i suoi libri in disparte; un altro giovane studente di lette-re, malato di nervi, rabbuffato, occhialuto, grassoccio (repubblica-no dicevano), anche lui «bigotto» giacché stava composto allamessa, innamorato chissà perché (in città la gente si chiedeva per-ché? Risa e schiamazzi, commenti, giù per le botteghe e i mercatied in casa prediche ed urla del padre industriale positivo e panciu-to) innamorato d’una sartinetta un po’ sciocca, sì, un po’ rauca, unpo’ bionda e più innamorato di Wagner [– O cos’è dunque questoincomprensibile Wagner? Voglion fare il difficile: corron tre giorniquando a Genova c’è del Wagner a teatro. E fan le smorfie aPuccini e a Manon. – Ma per le finestre in alto dell’innamoratobigotto se non si versava la urlante rivoluzione del padre e le gridae le strida di tutta la famiglia in paure perché era corsa in giornatala voce che la bionda che so io, che la sartina aveva fatto, avevadetto, che so io, sentivi il tumulto canoro del Walhalla in ebbrezzaod il galoppo furioso delle tempestose Walkyrie, o ancor più, ancorpiù, il religioso languente lamento del loricato Lohengrin riparten-te col cigno7. E la gente che passava si tappava giù in strada gliorecchi e rifischiava rabbiosa: «sono andati – fingeva di dormire»8].S’era dunque fatti amici di gente siffatta, e faceva con essi vita indisparte, specie di chiusa, malnota fratría nella affacendata mate-riale quietudine – (il porto giù in basso col lento suo traffico, imagazzeni dell’olio, la farmacia e il caffè e su, torreggiante, la grancorpulenza bianchiccia di un chiesone in classico stile9, netto, linea-re senza misteri pesante, quasi a dar il tono o a riassumere nel defi-nito spazzato paesaggio l’anima chiara massiccia) della vecchiasbadigliante città10. (Oh! notturne escursioni in disputante frotta super i vicoli zitti del dormiente paese! Oh! amicali libazioni di bian-co vino sulla terrazza nota, come un alto sperone sul mare e di-scussioni focose! Oh! esoterici conciliaboli e sguardi diffidentidella gente d’intorno). Stava in disparte con essi e con un vecchioprete che chiamavano il Santo11, semplicione di prete sempre cir-condato di bimbi sempre sorridente cogli occhi cilestri e tutta lacurva persona ai suoi bimbi d’intorno che gli chiedevan crocette edimagini pinte, sempre a parlare di bimbi, ed a correr qui e là quan-

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do uno dei suoi bimbi ammalava. E questo sì ch’era davvero ridi-colo di veder un uomo, un giovane, intelligente, «istruito» pareva,e a questi lumi di luna, lui (alto, barbuto, pallido, con qualcosa sem-pre di corrucciato negli occhi e questo suo parlare a scatti),accompagnarsi su giù per il corso com’un vecchio al calducciod’oro del tramonto d’inverno con questo dolce dolce malingambedi prete, a parlar di che cosa? Già a parlar poi di che cosa? Stava indisparte (grettezza maligna di una città di provincia e contrastigrotteschi; piccineria con mille occhi stupidamente curiosi su te, seci capiti in mezzo!) come non degnandosi, dicevano; e dentro si capi-sce la gente se ne sentiva offesa un poco.

In verità non c’entrava il degnarsi: non era di quelli che fanno i«puah!» schifiltosi ad ogni cosa fuori di regola; rideva anche delpettegolezzo se mai gli arrivava e guardava la piccola vita della suacittà d’intorno con una certa tal quale compiacenza bonaria; avevapersino tentato di pigliarvi parte in qualche modo quando era capi-tato. Una volta che lo volevan far consigliere (sì, gli avevan detto«lo metteremo nella lista») non s’era rifiutato, aveva volentieriaccettato. (La cosa s’intende andò come tutte l’altre a monte, «ècon noi? Non è con noi? e cos’è dunque?») E se una questioneseria niente niente, era agitata in città, non in farmacia dove si fanchiacchiere e non servono, ma sul giornale le sue opinioni nette(credeva, e c’era del buffo in questo suo ingenuo illudersi. Quantaillusione, amici! E come tuttociò che è netto per noi tutti questialtri lo piglian per nebbia!) da offendere sino, non si faceva prega-re a metterle fuori. Ma la conclusione di chi leggeva essendo poisempre la stessa – «ma con chi è? ma cos’è dunque lui per suoconto?» – aveva concluso ch’era meglio star zitti in disparte. Nonc’era presa, non c’era glutine fra lui e questi altri d’intorno. E forseche in ultimo il torto era suo. Chi lo sa? Affondata così com’eranella sua torbidità elementare chissà che questa gente non avesseun suo più sicuro senso di vita, un suo fiuto a condurla diritta, chenon lui maculato d’astratto e di poesia sebbene poi a parole sde-gnasse la poesia e l’astratto.

Un uomo di buon senso che gli voleva bene gli aveva detto ungiorno: «Tu sei giovane, tu sei assoluto, tu vuoi il mondo perfetto,ma le cose del mondo son di loro natura imperfette e perciò nonandate d’accordo»12. Forse che in ultimo il torto era suo, ne conve-niva. – Voleva la perfezione che vogliono i giovani: idealità (anche

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fuor degli imbrogli della piccola vita del paese suo piccolo) presafatta e come artificialmente aggiunta sulla iniziale coscienza mora-le loro. Non ci son giunti vivendo, togliendo, aggiungendo, viven-do. Non l’han fatta in loro, l’han di colpo affermata. E c’è come unsalto tra l’effettivo germine di aspirazioni buone in loro e la mora-le già quadra, già sistemata che si impongono, che vorrebberoimporre. Ci son le fondamenta ed il tetto, mancano i piani dimezzo. Manca la prova, il tormento, la vita; manca il costrurrelento, la fatica durata, la difficoltà superata, manca di nuovo, l’ave-re vissuto. Piglian d’assalto le idealità, le deducono in corsa, giù persillogistici dirizzoni, come se si trattasse di un esercizio di logica. Leapplicano a sé come agli altri, ci credono fervidi e tanto più sonoeroiche tanto più le sostengono, come chi non sa pensare vivo efluente che invece di svilupparlo ed accrescerlo fa le ipostasi e lecontraddizioni dell’essere e dunque l’uccide: ipostatizzano l’istintomorale, ne traggon l’essenza assoluta e la fan metro del mondo. Èl’eroismo che vogliono. Perché è nobile ci credono ciechi e sonoseveri. Solo i giovani infatti, sì, sono severi. Voglion l’eroismo ancorpiù della moralità sostanziosa e guai al compromesso (guai dunquealla vita). Badan alle leggi (voglion realizzate le leggi) non alla vita.Son essi i giovani che mantengono le leggi. (Sanno le leggi e nonconoscono i casi. Arrivano di colpo a Pascal ed odian Liguori)13.

Ciò non è dell’opinione comune, ma io dico che sono i giovania «conservare» nel mondo; se tu badi son essi sempre gli intransi-genti. Studia le rivoluzioni e vedrai che sono i vecchi a prepararlepian piano: concedono tanto al caso ed ai casi, sminuzzano e trita-no tanto la legge che l’equilibrio ne è rotto e la legge finalmentecoi giovani ti scatta nuda fuori di nuovo. Forse che tu non pensi lerivoluzioni come un improvviso ritorno ai principii? Alle origini, aiprincipii, alla legge? Giovani sono i cristiani e vecchi i cattolici.Perché i giovani sanno le leggi e non conoscono i casi: arrivan dicolpo a Pascal ed odian Liguori. (Ma né con giovani né con vecchiio tengo. Io tengo cogli uomini, voglio il caso e la legge, la leggericca di caso, il caso ricco di legge). Odian Liguori e ti paion piùpresso l’essenza. Ed io ti dico, guarda più fondo dunque e ti par-ran più presso al nulla che all’essere, più presso alla morte, perchél’essenza è il nulla se non è corposa di caso. (E perciò tu vedi cosìspesso un giovane passar qui di colpo dalle idealità affermate alleimbrogliate brutture della cotidiana vita; vedi così spesso i giovani

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scordarsi d’un tratto, come se un soffio solo di vento avesse ba-stato a spazzarli, a sgombrarli della dorata nebbia. E perciò anco-ra i migliori, i più delicati finiscon così spesso invece che nell’azio-ne, nel sogno. Confinano, chiudono, sperdono come disgustati leaspirazioni intime loro in una specie di perfezion conventuale. Per-ché l’aspirazione dei giovani è molto vicina alla irrealtà, alla pover-tà del sognare). E son essi, i giovani, dunque, i vecchi davvero, sonessi i morituri e gli astratti. Non sanno il peccato: han la puritàdella morte, non la purità della vita14. Tu arrivi alla purità sostan-ziosa se hai molto peccato «fortemente peccato». Se hai fatto e vis-suto, se sei salito, se ti sei provato e risolto. I giovani ipostatizzanoil bene e perciò anche il peccato. Contrappongono bene e peccatocome se fosser due regni e stando nel bene anatemizzano il male.Perché non han fatto mai né il male né il bene, perché non co-noscono il fare, non hanno una storia. Non han niente dietro diloro (e perciò s’accollano nuovi ed ingenui alla generalità dellalegge. Son come chi stordito dall’onda afferri uno scoglio alla rivae lo tenga. Ma c’è della spiaggia, ma c’è terra e soda e ricca poi aldi là!) Non han nessun bene compiuto su cui avanzare, nessunbene da convertire in male avanzando. Non sanno dunque né ilmale né il bene: sono dei vergini, son degli embrioni. Son fuori delmondo, l’han tutto innanzi e di fuori, – non l’hanno ancora creato– e perciò come falsi iddii, manovrando con miti illusori di male edi bene, sono a vuoto severi e lo giudicano.

E tu dici che così atteggiati son belli? Sì. Son belli i giovani eservono nella economia della vita come servono gli astratti a com-prendere l’essere: ti fan chiara nella sua trama la vita e sono deinulla. Non son mai se tu badi i mezzi uomini che ammirano i gio-vani. Perché l’ammirazione per essi è ammirazione per te che l’haicompresi e avanzati, che hai vivificata la trama e la legge. Tu haiinfine il diritto di ammirare e i giovani e la loro severità, solo se tusei da più d’essi; che essendo più efficacemente severo con te tuabbia dunque cessato di esserlo vuotamente con gli altri.

Arrivan infine di colpo a Pascal (ma credi che siamo in molti adaver capito Pascal? Ti mostrerò io un giorno dove dia di mano aiGesuiti). Egli amava parlar di Pascal e di «grazia» col vecchio pretedei bimbi (che non era peraltro granché giansenista e ripeteva d’inquando: «Ma dio è buono; ma dio ti dico che è buono e perdona ipeccati») e sebben tenesse per la tradizione e la pace e spesso dices-

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se che le cose, già, sono; son così come sono «E cosa vuoi dunque?uscir fuori dall’essere?» – ascoltava paziente i torbidumi anarchicidel lettore di Stirner15 che gli sembravan follie senza nome, ma incui una certa frase del «dover essere» e che le cose dovrebbero essereetc. etc. tornando sovente gli faceva breccia dentro e quasi trovavagiù nel sentimento suo se non nel chiaro intelletto qualcosa diaperto all’accogliere. (Dover essere. Dover essere secondo un pro-totipo, secondo una platonica idea, – ma poiché le cose voglion,curioso, ritrovarla pian piano da sé, farla sbocciare, codesta ideacercarla pian piano gemendo da sé, – disillusione dunque sconten-ta e come voglia di uscire dal mondo). Amava dunque discutere suStirner e Pascal, come critichi, avversi e discuti le cose che ami; esebben credesse di essere di gusti un classico al tutto ed ascoltassepiù Mozart e Bach che Wagner e Strauss; od ancora dicesse che lavita è buona e da amarsi e che conviene viverci queti dentro e la-sciarsi portare, – si trovava poi bene col suo wagneriano ad oltran-za che gli suonava al pianoforte del Folle che balza («Ecco ecco ilPuro che balza!»)16 sugli spalti del castello incantato e che aveva inorrore i borghesi, suo padre panciuto, l’industria delle cassette dilatta di cui pure campava e la vita comune. Diceva in conclusione,sì, «mescoliamoci alla vita degli uomini così come viene!» ma inverità gli piaceva il guardarla come da una specola alta dal mezzodi questo suo cenacolo (insieme accozzato, così invece che pervolontaria stranezza o, quasi, avresti detto, per pigliarsene gioco)cenacolo di strambi scontenti e di giudicarla inattivo e da lontanoinvece che farla, viverla tormentosamente ogni giorno.

Già; non era un cervello d’un palmo o con una sola finestra. Segli parlavi complessamente da uomo ti rispondeva da uomo. Potevicredere che avesse la sodezza esperimentata di un uomo. Timostro fuori dunque delle sfumature, degli indizi lievi e degli echiperché tu ne veda bene il nascosto. E quando suo padre morì, chesi trovò nell’imbroglio dei processi per l’eredità contrastata, con lacittà intorno divisa per famigliari partiti, mezza contro di lui, con ivecchi amici di casa che l’avevan fatto ballar sulle ginocchia bam-bino e che ora passavan duri per strada come se non lo vedesseropiù, e non salutandolo; quando dunque un giorno pieno di disgu-sto, un parente di Genova, uomo di polso, gli aveva detto: «E cheresti a fare lì dunque? Vientene via che soffochi lì, fra queste beghedi sciocchi e di donne. Vientene in una città per davvero e fa qual-

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cosa di degno» gli rispose, come uno maravigliato che no. Amavala sua vecchia casa. Amava i suoi libri, i suoi alti scaffali e la memo-ria su di essi diffusa del padre e del nonno17. Giusto in quei giornisfogliando testamenti, donazioni, cartaccia vecchia e bollata (que-sto maledetto processo!) gli era venuto fra mano un manoscrittodel nonno (gran lettore di Orazio e Lucrezio) con fra versi latiniraccolti e chiosati, una piccola dissertazione «della umana infelici-tà»18. E c’era questo passo curioso fra gli altri, con in margine, dise-gnata a tratti di penna, come spesso nei vecchi libri, una di questeschematiche mani, indice teso, a segnarlo: «e non sarai felice sequesta o quella cosa che ami possederai, ma se tutte le potrai aseconda del tuo vario volere imaginare». – Non approvò. Ma sentìbene che questo un po’ amaro invito a sognare, a veder la vita indistanza traverso il sogno come i vecchi attraverso il diffidentericordo, era un poco nelle carnali radici dell’essere suo. Invito dis-creto come di chi fosse stato dalle «cose del mondo» punto e feri-to ma non tanto da odiarle. Cosicché: «non absolute li oggetti dellituoi desideri, ma le condizioni perché li possa senza impedimentiimaginare, tu devi cercare. Che se tu bene opini vedrai come nellacondizion dello concepimento tuo sia posta la fonte della tua con-tentezza, perché di questo tu sei duce e signore essendo esso in tee come tua cosa, ma non dell’oggetto che è cosa di tutti e da con-traria legge e misura dibattuto e partito». Curarsi dunque dell’og-getto e del mondo solo in quanto è condizione di sogno, non più.Come se pretender di più fosse o pericoloso o impossibile. Ed ilnonno certo, arguto vecchietto tutto legge e latino, non s’eraimpacciato mai né di sfumature soggettivistiche novalisiane né diSigismondi spagnuoli19. Diceva ciò senza troppa tragedia. – Nem-meno lui per altro amava granché la tragedia. E non approvava.Bisognava pure accettare la vita. Ed il sogno era il sogno. Maamava la sua casa tranquilla, lo zittire dormiente della sua grandecasa dove fin da bimbo era cresciuto su solitario (penombra pertutto, eco di vuoto, sottile odore di antico ed anche fuori, chias-suoli deserti nella calda quiete del sole); amava i suoi libri ordinatied anche questo qualcosa di triste come un dolore sotterrato,affondato negli anni, nel pur placido e semplice viso della madreaffettuosa. Amava starsene in pace qui e chissà? anche lui distilla-re pian piano qualche discreta dissertazione, qualche commentarioalla maniera dei mistici tutto polposo, tutto buono di vita mode-

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stamente profonda e disperderlo anche lui come il nonno, qui, frai testamenti e gli atti a far meditare e sognare qualche lontanonipote. Pareva dunque ch’egli dovesse lento (s’era dunque propo-sto di) placidamente invecchiare così, di cullarsi zitto e compostoin questa specie (non nuova) di spiritual epicureismo, quando sub-dola, senza ch’egli se n’accorgesse agli inizi, non disturbando, nonurtando la voluta quietudine del naturale suo, quasi un delicatodimonio la conducesse insinuante, ecco cominciò l’avventura.

La lontana origine della quale egli si diceva quando poi ci pensò,era stata l’anno innanzi in uno spettrale meriggio del giugno ch’e-gli vagabondava fuori solo nell’enorme barbaglio. Frinire di cicaleper tutto, barbaglio accecante bianchiccio, cose nette, sfacciate sen-z’ombra. Con in mano un libro e il bastone, andava a testa bassalento. Pensava di salirsene su pian piano ai cipressi del Monte20, chela frescura c’era lassù e la queta vista intorno dei colli e del mare.Ma come arrivò al convento delle Carmelitane dove la salitacomincia (sassosa, incassata fra i muri sgretolati bianchi di cinta,con al di là gli orti e i giardini e su svettanti le cime dei mandorli edei limoni lucide-verdi) come dunque costeggiava, salendo, il con-vento, gli giunse grave, nascosto, d’un tratto un suono d’armo-nium21. Sostò. Profonda, lenta, come non curante della sfacciatatrionfale arsura del sole al di fuori, musica come una sicura animagiù in un immobile corpo nascosta a meditare quieta-canora22.Veniva a lui come di lontano, smorzata, gli si spandeva soffice,lenta come un’ombra carezzante-notturna d’intorno: buon gorgo-glio come di fontana fluente in questo bruciare vasto di sete. Comese ritrovasse, come se avesse aperto un silente sgorgo, una pacifi-ca meditazione di vita dentro di lui d’un tratto. Come se d’un trat-to ecco egli si fosse affondato in sé, avesse rotta questa superficiecolorata gridante, si fosse affondato in sé nella quiete, lento23.

Rifece in giù rapido i pochi passi e poiché sulla gradinata videla minor porta della chiesuola, socchiusa, salito la spinse. Buio,stordimento. Riluccichio rossastro d’un lumicino in fondo. Cercòcome a tastoni una panca e sedette. E nell’ombra vaga quasi unastessa cosa con essa, diffusa-riempiente la voce piana su dell’ar-monium anche qui a tratti smorzata, anche qui come in distanzanascosta. Cantava spiegato ora, ora rinchiuso e sperduto, misterio-so continuo insistente come se volesse dire qualcosa, come se nonsi potesse saziare, un salmodiamento vago di coro. Respirava, sali-

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va, saliva, scendeva pensoso, teneva lento le note, insistendo, tor-nando, ripigliando instancato continuo e come cercando. Gli pare-va che volesse, che cercasse qualcosa, gli pareva che meditasse, checullasse, che cercasse nell’ombra quetamente qualcosa. Efinalmente come un ricordo che ti torni netto, disteso ad un trattosforzando su dal buiore, come se la diffusa canorità delle note sifosse fatta sforzando trasparente così da scoprire una trama voca-le e parlare, ecco che l’armonium diceva, ripeteva, cantava, dicevapiano sicuro nella densa soffice ombra: Labia, labia mea aperies domi-ne. Schiudi, schiudi le mie labbra o signore, come quando luibimbo ascoltava, gli occhi allargati, attento accanto al nonno nelcoro, che veramente gli pareva di dentro il signore gli aprisse (oraecco veramente gli aprisse!) la bocca a parlare, veramente ora lasalmodia canora-composta ne uscisse; uscisse, ondeggiasse, esalas-se per ritmi coralmente da lui. Un’attesa, un’ansia, una riposataattesa sicura; una laudante aspettazione d’iddio.

Ciò durò molto: egli stava così sulla panca immobile curvocome dormendo e ci restò parecchio ancora come il suono cessòed un fruscio discreto di passi di dietro la grata verde di legno inalto, allontanandosi, ebbe lasciato nella navata il silenzio. Filtravaora d’in alto una luce serale per i vetri rossastri e le spesse tendine,e l’odore dell’incenso e dei ceri impregnava tutt’intorno la buonafrescura. Uscito, le cicale di nuovo e negli occhi, ma atroce ora, ilbarbaglio.

Fu questo armonium, questo ricco, pastoso, pingue d’animaeco d’armonium, il Galeotto della storia sua24. Gli si intrecciò tutta,gli si abbarbicò subdola e vaga sulla claustrale tranquillità senzascatti dei preludi di Bach; fu tutta permeata e fasciata di accordilunghi e di note. Egli si ricordava più tardi benissimo di quandoaveva chiesto (e della sua voce!) agli amici: «Ma chi dunque suonacosì meravigliosamente l’armonium laggiù, ch’io non sapevo?» ecome, dalla servente, in casa, si fosse sentito contare la sera, diSuor Maria25, una francese, un’attrice che suonava e cantava, ora, alconvento; e la storia che correva che si fosse fatta monaca la voltache «a Parigi» bruciandole intorno il teatro ella aveva fatto allaMadonna un voto se la salvava.

«E canta come un angelo. Vada a sentirla a benedizione, lasera». Era andato il giorno dopo, la sera, più sere, a sentirla canta-re; c’era pieno, ci si moriva ora in chiesa tra il fumo dell’incenso ed

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il caldo dei fiati. Ma era bello, ti riposava il tripartito ritmo, comeun largo respiro (e l’ora pro nobis come un interrogante sospiro achiuderlo) delle litanie lente cantate; era bello, ti riposava ed a trat-ti che la porta s’apriva perché qualcuno od usciva od entrava veni-va più largo di fuori, di là dalla piazza e si fondeva con esso l’altroritmo monotono-ondante del mare. Cantava nel Tantum ergo e quae là in qualche laude. Cantava bene sì, con una voce educata e pura.Ma ci si sentiva come l’obbligo della melodia stilizzata ed egli persuo conto preferiva il vagabondare dell’armonium pregante dasolo nella vuota chiesa di giorno. Era tornato spesso dunque all’ar-monium, tutti i giorni quasi nella frescura queta canora a l’ora cheoramai conosceva e ci sognava pomeriggi interi. (Ci si trovava be-ne, la musica ed il luogo gli muovevano dentro tutto il suo più anti-co essere, gliel’esaltavano: sentimenti, paure vaghe scordate di luibambino, mansuetudine religiosa della sua composta educazionefamigliare, improvvisi gridi nell’anima inquieta del suo misticismoa diciott’anni... navigava, sognava cullato e si sorprese una voltauscendo a pensare «se tu fossi nato duecento anni fa e non avessiil cervello, come l’hai, impiastricciato di libri e di dubbi, tu sarestivolentieri entrato in convento»).

Come l’aveva conosciuta e le aveva la prima volta parlato fu lacosa più semplice e naturale del mondo (anche di questo minutis-simamente si ricordava). Conosceva il Cappellano al convento, (neera amico: giovane scialbo, malato tisico forse). Un giorno entratonella chiesuola in ritardo (l’armonium taceva) ecco nella penombragli parve (lo era) ecco ad un altare, il cappellano intento a parare eduna monaca accanto, alta con un fascio di fiori fra le braccia,mazzo per mazzo ad offrirglieli. «Tu? Arrivi a tempo. Venivi percosa»? la voce, rauca un poco, sonò strana nella vacuità sacra silen-te d’intorno. Esitò. Poi, come ascoltandosi e più piano poté: «Fandella musica spesso a quest’ora...» «Non c’è musica oggi» ed il preteaveva sorriso colle sue labbra smorte alla suora. «Ma arrivi a tem-po». Il discorso continuava forte echeggiando come si fosse inpiazza od in casa. Gli pareva di profanare. Ma l’altro: «Accostatidunque» e soffiava ed annaspava allungato nero con le braccia tesesu sull’altare26 intorno al Santissimo, «Domani è la festa. E proprioora mi s’ammala il sacrista. Come s’io fossi sano! Lassù vedi... biso-gna ficcar questi fiori lassù. Tu sei alto, ci arrivi». S’era accostatoaveva preso dalle mani della suora che lo porgeva un mazzo gran-

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de di rose gialle (gialle: si ricordava di tutto ciò e ch’eran rose gialleparticolarmente). S’era appoggiato riguardoso all’altare, (la tovagliabianca, trapunta! Gli pareva di macchiare, di guastare). S’era sfor-zato col braccio anche lui su ed aveva messo attento il mazzo fral’argento scolpito di due candelabri ritti. «Così, continua cosi finoin fondo». Il prete si era appoggiato alla panca lì allato mormoran-do che faceva caldo, «ben caldo» e ch’era stanco. (La chiesa in veri-tà era fresca). «Ma si segga, reverendo, allora» aveva detto la suora.

Il giovane aveva trasalito: era la voce del Tantum ergo alla bene-dizione. Non aveva quasi guardato, aveva obbedito un po’ stordi-to nell’incerta penombra. Era alta, teneva con l’un braccio il fascioodoroso in un lembo rialzato di stoffa come se venisse allora dal-l’orto e stava un po’ china col capo nell’atto intento del scegliere27.(Aveva parlato ben puro, italiano). Come l’aveva rialzato, lenta, perdare ancor delle rose, le aveva visto gli occhi nel viso ovale grandi,maravigliati neri, ridenti. Egli aveva preso le rose esitando. Il pretes’era difatti seduto, accasciato, sopra la panca in un canto e guar-dando come a dirigere seguitava fra sé quasi gemendo a lamentar-si. La suora aveva sorriso cogli occhi a lui motteggianti; e qui eracominciata la scenetta gustosa delle citazioni spagnuole. Quantospagnuolo le udì da allora recitare per burla! «Dicen que están las salu-des mas flacas y que no son los tiempos pasados»28. Anche il prete come amalincuore aveva sorriso. Il giovane, qui improvvisamente, gettatoun «Oh» meravigliato, aveva lui continuato guardando ora la suora,ora l’amico seduto «y este santo hombre desde tiempo era... Ma legge,dunque Santa Teresa in spagnuolo lei!» La suora s’era curvata suifiori arrossendo. «Sì, legge Santa Teresa in spagnuolo, aveva bor-bottato o press’a poco il prete, – la suora. Io non la leggo, ma ilpasso su San Pietro d’Alcántara ch’era fatto di radici di alberi e chenon dormiva da quarant’anni, quello lo so anch’io a memoria. Cipiglia gusto Suor Maria a rider di me in spagnuolo. Ed io dico chesì, la salute non è più quella ed i tempi nemmeno... Non so cosasia... Non mi reggo più». «Ma, reverendo, io dicevo per tenerla alle-gra!» Suor Maria seguitava col viso porpora e china a rimuover qui,là nei suoi mazzi. Pareva non osasse più alzar gli occhi al giovane.

Il quale s’era invece ora d’un tratto come tolto di imbarazzo.Aveva cercato uno sgabello «Ci vuole uno sgabello, qui, per farmeglio. Paro io, paro io... Sta queto lì tu». Tolta la tovaglia sveltoaveva preso fiori, era montato su a collocarli, rimosso ceri e sta-

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tuette che pareva non avesse fatto altro mai (o fosse tornato bimboquando si pavoneggiava in sacrestia col cottine bianco in collo edil messale grande e pesante fra le braccia, pronto a servir la messa).La suora l’aiutava, consigliando, sorridente.

Ed ecco il cappellano allora assopirsi, la testa fra mano, sullapanca, inerte. Ma i due all’altare chiacchieravano rapidi come se siconoscesser da un pezzo. Conosceva sì Santa Teresa bene, neaveva letta la Vida e le Moradas più volte. «Sono romanzi. Dei piùbei romanzi» (l’aveva guardata maravigliato. La parola «romanzo»non è granché monacale). E lui era sapiente in ogni parte della teo-logia mistica, sapeva bene dei gradi dell’estasi, poteva discuterci sue citare da Santagostino a Maria Alacoque29 senza fine autori edesempi. «O com’è dunque? Ne sa più di me!» Era, ecco tutto, cheanche lui aveva trovato che i libri dei mistici sono i romanzi piùbelli. Ed il vagabondar del discorso li portò alla musica. «Non erala messa di papa Marcello ridotta, quella di ieri». «Era, sì,Palestrina»30. «Vengo qui tutti i giorni... (la suora di nuovo avevaarrossito ed abbassati gli occhi: «Lo so») da quando ho... scopertoquesto suo armonium».

Pareva sì, che si conoscessero da un pezzo. Eran due giovani;incontratisi ora soltanto, ma con questo in comune ch’eran duegiovani. Lui stava ora sull’altare seduto, le gambe giù penzoloni.Ella aveva anch’essa appoggiato se stessa e il suo fascio e stava unpo’ molle, il busto ed il viso fra i fiori inclinato. Sentivi sotto ilsevero dell’abito la giovinezza del corpo; ed il viso nella cornicebendata del bianco era sano, gli occhi ben vivi e la parola rapida echiara. Aveva chiesto ad un tratto: «Ed han data bene la Carmen31

l’inverno passato?» Nuova meraviglia dell’altro: «Ma come, lei sadella Carmen? Conosce la Carmen lei?» «Ho visto a caso sul giorna-le di qui. L’ho intesa a Palermo or sono quattr’anni». E poiché ilgiovane allargava gli occhi e chiedeva ancora il come, poco a poco,pezzo a pezzo come un bimbo quando racconta, che s’imbroglia eripiglia, raccontò ingenua la vita sua. E ch’era da tre anni in con-vento, che n’aveva ventuno ed era novizia da un anno. E che c’eraentrata quando le era morto anche il babbo e che l’unica parenteche avesse era una zia ch’era abbadessa nell’Ordine e che essa dun-que l’aveva persuasa. – Il discorso era parecchio durato (era comese quel che di stilizzato disumano e lontano ch’è in una figuraammantata dall’abito sacro, si disciogliesse pian piano, si rimpol-

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passe di buona vita vicina, si rifacesse comprensibile e vivo) il dis-corso aveva durato parecchio ma poiché era senza scatti, monoto-no non rompendo il sonnecchiare spossato del prete metteva solonella quete fresca dell’ombra come un discreto ronzio di cercantiapi32. Certo che di spirito non era una suora o non era comequest’altre antiche e famose ch’egli aveva studiate nei libri (men-tr’ella parlava egli l’osservava pensando). Pareva avesse portato ilmondo con sé, il convento non l’aveva ammollita. Non sentivi inlei né rimpianti né rassegnazione, come se non le avesse tolto nien-te o non le fosse penoso il star qui. Quasi, se avesse osato, gliel’a-vrebbe chiesto «ed è contenta ora qui?». Ma era inutile, diceva leistessa che era contenta. Sopportava bene ogni cosa e la regola, per-ché era forte; eran del resto in poche in convento qui («non è comea Palermo!») e le volevano bene. Era stata la zia a farla mandare inquesto paese per il noviziato e c’era quiete, e poteva far musicasempre... Quando il bisbiglio canoro della sua voce cessava, veni-va di fuori il respiro sciabordante della calma marina o l’eco diqualche rapido passo sul selciato dinnanzi. Aveva svegliato il cap-pellano per chiedergli se andasse bene così («andava bene, benissi-mo». Aveva gli occhi sperduti e puntava tutte e due le mani allapanca nello sforzo d’alzarsi) e poi, com’era tardi e c’era non so cheuffizio da dire, (avevan risteso insieme pigliandola ai bordi, la bian-ca tovaglia sopra l’altare. Eran rimasti petali e foglie qua e là suigradini, ma Suor Maria sortendo l’abito ampio, lo batteva collamano aperta, – piccola mano sul nero – dicendo «puliremo noi,puliremo noi, ora lasci, che basta») com’era tardi e la bisogna fini-ta s’eran salutati. Egli aveva promesso che avrebbe portato uncerto spartito a cui s’era accennato, di Bach, e come già s’era allon-tanato, d’un tratto voltandosi «Lo devo dare a Don Lindo?» «Sì aDon Lindo». Con bonaria petulanza, come a minacciare avevaaggiunto che sarebbe tornato a sentirla ed ella aveva riso cogliocchi come approvando. – Don Lindo aveva barcollato curvoverso una porticina a lato, tentando sveglio non bene forse («SanPietro d’Alcantara... quarant’anni d’insonnia... i tempi sono muta-ti, sicuro che son mutati i tempi») tentando nel brontolamento an-che lui di sorridere.

L’aveva conosciuta così l’anno prima. Non aveva detto dellacosa a nessuno. Gli pareva un segreto. («Ma la clausura, diceva frasé, non ha rotta così la clausura?» Forse no perché s’era in chiesa e

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non in convento e poi questa era una riforma recente dell’ordine enon ne conosceva le regole bene). E com’era intelligente e checose fini gli aveva dette su Santa Teresa e sulla musica antica ecom’era donna e vivace in mezzo a questo suo mondo zitto ecomposto, e com’era ingenua e bimba nel raccontare (e com’erabella! come dunque non veder ch’era bella!) Pensandoci, pianpiano, quella sera aveva concluso il suo giudizio così: «È novizia,ha fatti i voti, ma non si rende ben conto di essere suora ancora. Èlì come in collegio. Ha ventan’anni!» – E manco a dirlo due giorniappresso passata la festa era tornato col suo Bach al convento.Aveva cercato del Cappellano prima e poiché era fuori in affari, eraentrato dunque aspettando in chiesa, dove l’armonium si spande-va queto di già. S’era seduto, un poco voltato verso la grata verdee la balaustra in alto, sulle ginocchia il cappello ed il rotolo. Ed erastato un’ora così. L’armonium provava ora una laude – (girar trat-to tratto di fogli, tonfo di registri mutati, qua là qualche nota comeper bene fissarla, cantata, tranquillo affaccendarsi di chi solo senzasospetto fa le sue cose intento) imparava. Poi s’era udito il rumo-re d’uno sgabello smosso, il fruscio del solito passo ed il viso diSuora Maria fra le liste fitte incrociate. Egli aveva mostrato il roto-lo e fatto segno che Don Lindo non c’era. Il viso alla grata era spa-rito: silenzio. S’era aperta poco dopo la porticina in un canto edapparsa seria la suora. S’era alzato, s’era accostato, aveva porto ilpacco, zitto. Ella lo aveva preso ed aperto lo aveva scorso concompiacenza curiosa e chiesto piano: «Posso tenerlo?» «Quantovuole» «Lo ridarò a Don Lindo. Grazie» aveva salutato cennandoed era rientrata rapida. Il domani l’armonium tentava qua e là sere-no e profondo il Natale di Bach33.

Fu l’armonium e questo frequente prestare di musica a far daGaleotto. Fu l’armonium l’estate dell’anno innanzi. – L’inverno l’a-veva passato mezzo via in città per istudi ed affari; ci furono dellepause e delle riprese d’in quando; tutto tutto non si ricordava; cifurono delle cose che certo incoscientemente lo avevan legato a lei(e lei a lui), ch’egli ora non poteva riordinarsi e specificarsi din-nanzi; certo ci furono delle cose da nulla che gli sfuggirono quan-do le fece (ed anche in gran parte quando poi ci pensò), che pre-pararono dentro di lui poco a poco ciò che da ultimo accadde. Ela più strana (e più forte) certo fu questo suo ostinarsi (chissà per-ché? né c’era ragione allora di farlo), questo suo capriccio di non

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parlar di tutto ciò mai con nessuno, nemmeno ai più intimi amici.Fu, ch’egli, senza volere, s’era dentro creata come una nicchia disegreto romantico dove ci stava in un religioso ondeggiamentod’armonium una figura di giovane monaca da nessuno conosciutae solo da lui. – L’inverno e la primavera li aveva passati mezzi incittà, lontano, mezzi su ai poderi in vallata; andava, tornava, erainfine occupato. Ma quando tornava e restava una settimana inpaese, il pomeriggio lo passava nella chiesa al convento ed eracome a dire di casa. La chiesa era vuota. Quando la suora si accor-geva di lui gli sorrideva passando di lassù dalla grata; gli facevafesta col viso e gli occhi come a dir «ben tornato». S’egli aveva tro-vato dal libraio in città musica nuova (musica vecchia-nuova; un’e-dizione recente della Passione di S. Matteo –, un Händel bello; unbrano di Monteverde. Le portò una volta il «Lasciatemi morire»dell’Arianna di Monteverde34 tutto angosciata passione d’amore –e cos’ha fatto l’opera italiana di meglio di poi? – e sorrideva tra sécome di un tiro che le avesse giocato è di una innocente bizzarria.Ma ella lo cantò e lo suonò nella chiesa meravigliosamente con unasua certa incosciente infantile ingenuità che profanazione nonc’era); se aveva trovata musica nuova la passava a Don Lindo. Edattraverso Don Lindo, ed attraverso gli spartiti passati, una curio-sa amicizia (di lei in convento e di lui libero fuori; amicizia tutta ri-guardose delicatezze quasi fanciullesche, fatta di cento cosette tol-lerate-proibite, ma infine ingenua ed onesta), s’era pian piano stret-ta fra i due.

Tornato tuttavia il giugno di nuovo, la cosa, un po’ strana, glipigliò dentro l’aspetto vago di un sogno a cui egli cedesse nel tor-pore della estiva calura. Egli aveva trovato ora un buon posticinonell’angolo tra il muro bianco di calce ed il confessionale scolpito,vi si rincantucciava assorto ogni giorno con gli occhi su al trema-re verde della grata nell’ombra sognando veramente. Si lasciavacullare, non seguiva più il morbido intreccio degli accordi sonori(nemmeno il passo di Suor Maria, quando se n’andava, valeva tal-volta a destarlo; – un giorno si scosse che i grandi occhi di lei difra le bende bianche tirate lo fissavano meravigliati, da quanto?) edera come se la melodia lo portasse, lo cullasse, egli ondeggiasse inun mare molle di pace, in una vaga estatica esaltazione. La qualeora (ci sono negli uomini che vivon sui nervi degli improvvisi ri-mutamenti quasi carnali, come rivoluzioni, intensificazioni, ina-

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spettati lavacri nella stessa fisica sostanza del corpo. Rivoluzioni,acutizzamenti, novità improvvise, nella tua sensibilità di cui nonc’è ragione che spieghi); la quale ora permaneva in lui come un’e-co anche se uscito di chiesa; quasi passava, si propagava per con-centriche onde da lui, gli pareva, intorno tutt’intorno alle cose. Edegli s’abbandonava, egli affondava in questa indecisa sottile nebbia(vaga) di note a cui ti si riduce dentro la vita e il sentire se troppoa lungo ti nutri di musica. La musica a lungo, se non t’arrobustiscidi più quadro, di più sostanzioso pensiero, ti sfiacca e t’effemina (tiscioglie), quasi come un magico filtro, ti sfa la tua anima dentro.Certo che ti sfa e t’effemina; certo che come un’animata magiat’invade e dentro ti muta ogni legge e il volere. Perché muta i geo-metrici rapporti delle cose, le sfalda nell’impalpabile ritmo (le scio-glie); perché sostituisce alla precisione del netto concetto, l’ondeg-giamento della molle intuizione perché t’affonda di là dal mondodelle rigide forme e della tradizione consueta nell’umido fumigan-te mistero del Caos. Dico che il mondo della musica non è (non è!)quest’altro delle restanti arti e del consueto pensiero. (C’è l’abissodi mezzo). Dico che sempre la musica (più, meno. Vi è una musi-ca-musica; e vi son contraffazioni poetiche, pittoriche, drammati-che, le musiche commento etc.) sempre ti fa sprofondare, che soio, di là dell’essere sodo come sprofondi nel sogno chi sa dove,(chissà dove!) in regioni dello spirito ignote; di là dalla Storia edall’Ade. Dico che sempre, dico che se tu batti nel silenzio una solanota di basso al tuo piano od un accordo e li ascolti echeggiare,lunghi, profondi, qualcosa si rimuove in te che non è la imaginechiara od il definito pensiero. Qualcosa che tu chiami sentimento,che è dunque nella embrionale indecisione dell’essere tuo il miste-rioso richiamo ad un mondo non nostro oscuramente incerto elontano35. Dico ch’io ho paura, che un’ansia vaga mi piglia dinnan-zi alla musica vostra, come s’io assistessi alle notturne invocazionidi un necromante potente. Ora tu evochi, sì, ora lo spazio tutt’in-torno ti si riempie in folla e in tumulto di demoni osceni, e potraitu imbrigliarli ora? e potrai tu comandarli? e non si getterannorapaci in infernale ridda su me inerme e su te? Dico ch’io ho paura,che questo non è il mondo di cui la tradizione si fa e la legittimalegge; che tu non l’imbriglierai; che tu l’evochi e non l’imbriglierai;che invaderà, si verserà fiottando sulla tua anima chiara e la discio-glierà smemorata come per un magico filtro. Dico, che come bimbi

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incoscienti giocherellate ai bordi di un vasto mistero, vi fate untitillo e un solletico di una mostruosa ignota malìa, ma che io m’ag-grappo a questa dura chiarezza, alla tradizional geometria, dov’è ilgiure, dov’è la travata impalcatura della coscienza morale e che nonavete il diritto di turbarmi, di infiacchirmi, angosciarmi, di toglier-mi la padronanza di me, colla musica vostra.

Gli pareva ora insomma che una larga ondata di lirico vibrareesultasse per entro la stessa opaca durezza del materiale mondo. Ilmondo pigliava un’anima, i morti oggetti vivevano, la vita di tutti igiorni cantava spiritualizzata come se il sogno la dilatasse esaltan-dola:

Souvent dans l’être obscur habite un Dieu caché;Et, comme un œil naissant couvert par ses paupières,Un pur esprit s’accroît sous l’écorce des pierres.

Egli ripeteva a sé piano il sonetto di Gérard de Nerval36 come segli esprimesse a pieno questa sua specie nuova di ebbrezza. E vera-mente che le cose son vive, veramente ch’eran più e diverse da quelche parevano: avevano nascosti significati (rilesse come ad eccita-re la sua stessa eccitazione i suoi occultisti e le cabale a lungo untempo per curiosità studiati, rilesse Leone Hebreo37, i frammenti diPitagora e Dante, tuttociò che gli moltiplicasse per fantastiche sug-gestioni la vita del mondo), eran come geroglifici e cifre. – Nonpensava ciò partitamente credendoci, ma era come in una scon-finante ricchezza, come in un gorgogliante abbondare di senti-mento su ad invadergli la netta intelligenza, a popolargli di vita glioggetti e le più consuete cose. (Amava star solo, ma se capitavamaravigliava gli amici in quei giorni con la stranezza imaginosa delsuo conversare; sostenne ad esempio che v’era tutta una bizzarratragedia dietro una semplice lite d’affari che occupava allora tuttele chiacchierazioni in città; ricostrusse come su indizi la più straor-dinaria orditura di mistero e di agitate passioni sotto un’assai lisciasuperficie di pettegolezzo comune, e la gente quasi credette. Fuallora che bollò di nomignoli mezzo il paese, così giusti, così biz-zarramente veri che la più parte restarono e fu allora ancora chescoperse un dimonio in un certo floscio e gialliccio venditore dipolli al mercato e fece tanto colpo la cosa che si diffuse la leggen-da per tutto e le donnette credettero e credono). Egli s’eccitava, la

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fantasia gli fumigava; come in un soffice dilatarsi, nell’aereo cavo,di nubi, le forme e le idee gli si penetravano l’una coll’altra nell’a-nima libera. Il mondo s’arricchiva, il mondo tripudiava abbondan-te e più vasto al di là della geometricità definita. Veramente, vera-mente che al di là dei colorati contorni gli s’allargava musicalmen-te popolato un mistero come s’allarga sconfinante e rifratto unsuono nell’eco. – Ogni giorno ascoltava in chiesa l’armonium, unpo’ come avrebbe fumato dell’haschich o dell’oppio. Non avrebbesaputo una sola volta mancare, come ad un rito obbligatorio e peruna magica costrizione. Ma a poco a poco (cominciò qui l’avven-tura) come accorgendosi del meccanismo abitudinario che s’eraformato in lui sentì quasi vergogna. Entrava in chiesa alla cheti-chella come nascondendosi per lunghi giri, invece che per la stra-da diritta. Ed una volta, entrato che fu non osò avanzare: la balau-strata dell’organo essendo sopra la porta a far tetto non osò oltre-passarla e cercare come sempre il suo cantuccio di contro alla grataa vedere. Restò lì appoggiato nell’ombra. Ma nell’ombra tuttaondosa di vocale sospiro –, strano, gli si figurarono in allucinatobarbaglio or vaghi, or vivi, or maravigliati, ora quasi in corrucciogli occhi di Suor Maria come l’avevan guardato quel giorno ches’era destato improvviso. E quando il rumore s’udì di lei che s’al-zava (sostò un poco come soleva e più, forse, prima d’andare. Gliparve d’indovinare che traverso la grata il suo sguardo cercasse lachiesa) – strano di nuovo! – gli batteva forte il cuore. «Cos’era ciòdunque?» – Passare il limite della balaustrata dell’organo, fu dopoquesta volta un insuperabile sforzo. Quando lo tentò e rivide ilcapo bendato consueto ed un poco del busto ad un certo momen-to emergendo avanzare verso la grata d’un tratto, si turbò e chinògli occhi. Anch’ella passò rapida via. Entrava dunque ora zittoaccompagnando con la mano il battente e come temendo. Ma sel’armonium taceva, un cigolio, uno scricchiolio della sedia o delpasso, talvolta il respiro si moveva sottile nel vano e di lassù, –pareva che ella fosse tutt’intenta a lui se veniva, – di lassù come asoffocare, come a nascondere (quasi un rossore che tu voglia cela-re), un po’ a caso ripigliavan gli accordi. Che non eran più compo-sti e chiesastici ora: erano a strappi, (tentarono una volta ancoracome un ricordo che torni, come in sordina, il Lasciatemi morire!),eran rotti ad un tratto od improvvisamente cercanti, (non più conriposata attesa come in quel primo meriggio lontano che li aveva

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piano ascoltati) ma quasi con angoscia, con agitazione angosciatae con ansia. Erano improvvisazioni vagabondanti e impreciseimpazienze di scatti e tentare. Di notamente classico non le udì piùeseguire intera e com’è (ma accorata, ma come se v’aggiungesse, visovrapponesse, vi mescolasse per echi sforzando un travagliosodolore suo proprio ed un disperato pregare: come se tentasse diquetarsi con Bach, e la passione fuori tuttavia le facesse violenza)non le udì più che la magnifica (magnifica!) invocazione dell’Actustragicus: in manus tuas commendo. «Nelle tue mani rimetto l’anima miao Signore» dove senti il Signore, dove senti il Cristo atteso, sospi-rato, propriamente venire e l’anima trepida come con tremulebraccia accoglierlo. (Che maraviglioso, che profondo, che variopoeta del Cristo fu Bach!)

La voce accompagnava qui larga, intensa come se il cuore laspingesse alla bocca (come se fosse il cuore a parlare) la musicaampia di note: («Signore, o Signore, nelle tue mani rimetto...!») e fuquesta volta ch’egli sentì giù per le guancie improvviso l’umidoredel pianto e tutto il corpo da ultimo in un sussulto di brividi.Questo Actus tragicus una sol volta eseguì d’intero e parecchie altre,come una cosa che piace ed a pieno t’esprime, la difficilissimaFantasia cromatica tutta fughe, tutta scatti ed intrecci, velata qui unpo’ dalla pastosa continuità dell’armonium, dove l’antica compo-stezza bachiana e la quieta discreta meditazione claustrale paionpresentire la rotta angoscia moderna, paion come una calma mari-na incresparsi qua e là di raffiche a tratti e del negrore38 densovagante di procellose nubi. Rapidi, agili giochi di note dove quasisi confessa, dove senti un corruccio, un complesso travaglio cheaffiora gemente qua e là.

Ma un giorno l’armonium stette zitto del tutto: egli attese alungo; uscì ch’era il tramonto. Tornò il giorno dopo: vagabondaredi nuovo di note, un recitativo del Natale, ch’ella aveva ancora,come a studiarlo, e poi ad un tratto dopo un silenzio, un precipita-to motivo e quasi lo strumento forzasse il suo naturale respiro, unanota acuta insistente. Si scosse, si scosse; l’armonium di nuovo par-lava; come quando aveva detto chiaro e vivo «Domine aperies» l’ar-monium parlava. Sentivi l’anima limpida di una cosa voluta dire,detta, gridata... era un grido, un grido umano d’aiuto. Rumoresecco, di sopra il suo capo, dello sgabello rovesciato sul tavolatosonoro e passi precipitosi in fuga. Egli ricadde smarrito.

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II

La qualunque avventura1

... Quand’egli il domani come un automa arrivò incerto guatando,la chiesa era vuota zitta. Anche il dopo dimani, entrato, silenzio.Ma gli si fece incontro la figura spaurita del cappellano, cereo,curvo, come a far festa, come a dire qualcosa che non bene capì.Parlava a mezza voce ora, quasi si ricordasse di essere in chiesa elo spinse fuori di nuovo al chiaro del sole e diceva del tempo e delcaldo, rapido, presto, senza guardarlo. Alzò gli occhi a lui di sfug-gita, chiedendogli a un tratto: «Tu vieni qui sempre?» ma subito liabbassò come a nasconder qualcosa o non osando, impacciato, diraltro. Continuò a balbettare del tempo e del caldo e a dir ch’erastanco. – Il giovane rimase turbato. Lasciato il prete tentò di met-tere ordine in sé. Non capiva, non si capiva, come se avvenissequalcosa in lui a cui non avesse parte. Come se il mistero d’al di làdelle cose fosse calato subdolo in lui e non ne fosse padrone («Macos’è dunque che avviene?») La sua volontà e la sua intelligenzaoperavano accanto, fuori di questo qualcosa; eran nette e pronteper ogni necessità e i casi occorrenti, ma non penetravano qui.Come non sapessero, come non ci avessero a fare («Ma cos’è dun-que che avviene?») Pigliò il mattino dopo la prima diligenza par-tente e salì su in vallata quattr’ore distante ai suoi terreni di ulivi.Ci restò una settimana. Rivide i conti al fattore, che non l’a-spettava; s’occupò del fieno che giù a dorso di mulo tutto il gior-no scendevan gli uomini dai prati arsi sui monti, (aiutò a installare,a stipare nei vani il fieno odoroso e pungente, vi tuffò il viso e lemani, vi si affondò dentro sdraiato come quando da bimbo lo zio,proprio lì, gli gridava: «Ma togliti dunque, che lo pesti e lo sporchie le bestie non me lo vogliono più!») S’occupò d’un muro ch’eracaduto, della vasca dell’acqua che bisognava cementare di nuovo,dell’aratura che era già innanzi bene e d’un certo orto che avrebbevoluto comprare. Tuttociò lucido, queto, come uno a cui tu abbiadato un comando o faccia indifferente il tuo affare. La sera chetornò, stordito un po’ dal traballar sgangherato della vecchia car-rozza e con ancora lo scalpito uguale dei due cavalli ed il tinnire ar-gentino delle sonagliere negli orecchi confuso, a cena, udì la ser-vente mentre andava e tornava coi piatti, raccontare alla madre che

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alle «Carmelitane» era cominciata la novena (non intese bene diche) e che ci davan tutti i pomeriggi la benedizione dopo il rosarioe che «l’attrice» certo era malata perché non la si sentiva cantare. –Non osò andarvi da solo. Ci trascinò l’«anarchico» due giorni dopoed entrò bene innanzi, su fra le donnette alle panche, quasi pen-sasse di voltarsi poi, di voltarsi a guardare alla grata. Ma non sivoltò. Stette cogli occhi fissi, legati, innanzi, all’altare e non sivoltò. Trasalì d’un tratto ad una certa laude: era la sua voce? nonera? Si levava in mezzo all’altre solo al finir della strofe, quasi peraiutare, ma come più timida, come se temesse ed insieme volessedisperdersi. La servente la sera riparlò dell’attrice e che l’aveva orabenissimo udita e che dunque non era malata.

Cominciò per il giovane un’agitazione dolorosa; soffriva anchefisicamente, aveva confuso e pien di soffi il cervello come quandodormi male nel sogno, (come contro un incubo quando ti sforzi).Stabilì col wagneriano amico2 che avrebbero fatte insieme certetraduzioni dal tedesco progettate altra volta. Tradusse meccanica-mente per dieci giorni, tutti i giorni, a l’ora del vespro laggiù alconvento, con accanto l’amico a cercar inquieto nel dizionarioparole; [e s’accostava tratto tratto alla finestra; eran in una soffittain alto piena di libri a cataste e di mobili vecchi; ma l’amico che l’a-veva ottenuta dal padre dopo molto litigio – aveva ottenuto intrionfo di star finalmente da solo in soffitta, di star su sopra tutti:«son giù gli altri», calcava col piede sdegnoso, «son giù tutti – quasifosser moralmente più giù – i conigli arrabbiati. E ci stiano!» – l’a-mico s’accostava tratto tratto alla finestra quadra e piccina a direentusiasta: «Ma guarda, ma guarda!» come un re che mostri ilnuovo suo regno. C’era, d’innanzi, lo sghembo tumulto dei tettirossi o d’ardesia con su, torreggiante, la gran massa bianca dellaCollegiata in alto e i suoi due campanili quadri pesanti come a dife-sa; da un lato a destra, i dorsi lievi-argentati dei colli d’olivi scon-finavano, svanivano l’un dietro l’altro dolcissimi verso ponente (e,su, l’infinità trasparente dell’arioso cielo); dall’altro, di là dai tetti,la punta ferrigna nel bleu del molo più lungo e la stesa uguale delmare con qualche freccia movente di vela] con accanto l’amico acercar rapido nel dizionario o a discutere frasi. Per dieci giorni. Mal’undecimo giorno persuase l’amico ad uscire con lui e così pas-seggiando arrivarono piano al convento. Il quale era mascheratosulla piazza a mare dalla facciata della dipinta chiesuola e si sten-

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deva dietro, incuneato nascosto fra la salita murata al Monte, lemasse verdi-folte dei cipressi e dei pini, e, in alto, di certi gran leccineri d’un confinante vecchio giardino. La chiesa era zitta, non dice-van più vespro: essi costeggiarono lenti il parapetto a sinistra dellastrada che s’allargava qui sul mare in chiazzuolo3, a terrazza, dovefra il selciato nell’angolo rompeva in aiuola il mostruosamente car-noso fogliame (puntuto) di un grande cespuglio di cacti4, con sudue steli nudi enormi contro l’intensa nettezza del mare e del cielo:e guardavan giù, passando, sulla spiaggia ghiaiosa l’onda queta edolce frangersi al sole. L’amico chiacchierava ironico dell’ultimafuria borghese di suo padre il panciuto, ed egli pareva ridente, tuttoa lui, ascoltare. – Ora, quasi tutti i pomeriggi a l’ora che prima sole-va, passava per qui dondoloni, spesso coll’amico, qualche volta dasolo come per una giterella consueta. All’altezza della chiesa sifaceva muto, attento a qualcosa: ripigliava a parlare al di là dellapiazza guardando in alto da un lato ai lecci e ai cipressi. Ma unasegreta vergogna lo torceva dentro per questa specie d’inganno,per questa doppiezza nascosta accanto all’amico ignaro-parlantedelle comuni lor cose5. Avrebbe voluto dire, liberarsi, dire infineogni cosa. Che, dire? Che, cosa? Ma di che dunque infine liberarsiche non bene sapeva? Di che, di che, di che?

Un giorno ch’era solo ecco l’armonium smorzato come un’eco,profondo. Balzò su, passò entrando il tetto del palco sopra laporta, quasi non vedendo arrivò in mezzo alla chiesa e urtò nellepanche ansimante. L’armonium interruppe e precipite apparve allagrata bianco nera la monaca. Si guardarono avidi, confusi, unistante. Ella passò via smarrita, quasi fuggì urtando rumorosa qual-cosa. Egli restò appoggiato così, come non capendo. – Ma dallaporticina a lato uscì cauto il prete, quasi fosse lì in attesa, che s’ac-costò e presolo per mano lo condusse fuori zitto questa volta co-me fosse più fermo e deciso. Fuori, parve non osare di nuovo: loguardò gli chiese come a caso qualcosa, s’ingarbugliò, disse deltempo e cominciò una specie di lezione, come un imparaticcioscordato, sul voto, sulla santità del voto, sul voto, sul voto. Nonvenne fuori di chiaro che questo, ch’egli si sentiva troppo giovanee troppo malato per governare un convento (e di donne) ancheridotto e pacifico come questo in cui officiava. Il giovane ritrovòse stesso, si padroneggiò sicuro come t’avviene anche se sei intorto se uno di te più debole t’abborda e s’imbroglia. Riconobbe

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che doveva esser difficile, sì, governare un convento e che il votoera certo una santa e terribile cosa. Lo lasciò, complimentoso esmarrito, battendogli la spalla ed amicamente consigliandolo distarsene finalmente un poco a riposo e di badare alla salute. Manon tornò più.

Ora vedeva cos’era. Era una pazzia; si rimproverò dentro, siincolpò rude. Si fece forza, come a svegliarsi, riprese la traduzionetedesca, si mescolò d’affari e di liti. E come un giorno sua madre(si occupava di beneficenza, era «patronessa» etc.) gli diede un in-volto e una busta per la superiora al convento, esitò. «Chiedi di lei.Le dirai...» Prese busta ed involto ed andò. Non era turbato; le paz-zie son pazzie e bisogna pure svegliarsi. Il sacrestano, una specie diebete bruto, curvo sporco grinzoso colla barba d’un mese ed alcollo un collare sconcio da prete, lo introdusse in parlatorio e glidisse, incerto, d’attendere. Stava ritto con le spalle all’inferriata agran quadri, il pacco e la busta sul davanzale sporgente e l’occhioad una testa di santo bronzato, come affondata nell’oscuro oleosodel vecchio dipinto (tutto intorno era il biancore nudo dei muri edil silenzio tombale), quando entrò qualcuno, lieve di là dai ferriincrociati. Si voltò come a salutare la mano all’involto... Suor Mariaalta nel vano! S’arrestò parve volersi gettare indietro di nuovo... Poiavanzò decisa, zitta fino alla grata. Era pallida gli occhi cerchiati elucenti, le linee del viso contratte. Disse guardandolo a mezzavoce: «Ho ancora il suo Bach...» come quando cerchi di compri-mere l’agitazione dentro e parli, così per parlare.

Una improvvisa chiarezza si fece nel giovane. Non fu turbato.Pensò rapidissimo, calcolò freddo distinto, scordando (o gli parve)completamente se stesso, come per una cosa obiettiva; e ritrovò ladomanda che non aveva fatta l’anno prima, la volta che s’eran par-lati. Chiese lento, fermo e fissandola: «È contenta lei qui?»Qualcosa di simile doveva succedere anche nell’animo della suoradinnanzi, perché non arrossì, non si mosse, guardò anch’ella piùintensa e rispose forte: «Ho fatto i voti...» «E non si possono scio-gliere?» «... e non ho nessuno fuori».

Un passo nell’eco leggera delle stanze vuote, misurato s’avvici-nava. Suor Maria si voltò senza saluto, scivolò lenta, zitta via.Entrava tonda, gli occhi piccoli buoni, ma come inquieti in sospet-to, la mano paffuta al rosario pendente, la superiora avvisata.«C’era qualcuno qui?» e guatava turbata. «È passata una suora»

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rispose il giovane e s’inchinò... «mia madre mi manda con questoe con una lettera. Dice...»

Qualcosa di risoluto gli restò dentro. La pazzia era guarita asso-lutamente. Qui lo interessava, diceva, obiettivamente una creatura.Lui non c’entrava. Ma qualcosa di grave qui certo andava succe-dendo... Qualcuno soffriva qui a cui era giusto pensare. – Cercò delsuo vecchio prete dei bimbi per dirgli, per esporgli, per dirgli. Masi ricordò ad un tratto che appunto il prete dei bimbi era confes-sore al convento, (l’aveva a caso saputo) e che l’aveva visto questigiorni addietro col cappellano suo amico, per via. Esitò. La pazziaera in tutti i casi passata bene, bene passata. E gli affari, la lite, lefaccende sue di casa l’occupavan parecchio. Una sera tuttavia chel’incontrò fuori paese tornando, cominciò anche lui come il cap-pellano un discorso non troppo chiaro sui voti, sulla possibilità dirompere i voti, e se i voti, se i voti...

Il vecchio lo lasciò dire, sorridente facendo un po’ curvo i suoipassi innanzi, lento, per la strada sassosa appoggiato al bastone.Poi come riassumendo: «Ci son voti perpetui indissolvibili e votitriennali di noviziato, a parte ecclesiae, solvibili... Ma di cosa ti me-scoli ora tu...?» Ed alzò gli occhi cilestri a lui col viso placido ebuono, ma serio. «Già di che cosa mi mescolo io ora!» Trovò den-tro sé, ch’era giusto il velato rimprovero, mutò discorso e ripen-sandoci poi si disse che se il buon uomo si occupava lui della cosa,bisognava starsene queti e non c’era di meglio da fare. Che delresto la «pazzia» era ben passata, sì, era lontana bene.

Senonché salendo al Monte una settimana dopo eccoti a caso ilsacrestano bisunto, come quando uno ti cerca e t’incontra per via,farglisi incontro a borbottare, a mugolare che il cappellano eramalato e che Suor Maria, Suor Maria (e cercava nel panciotto coldito), gli aveva dato un biglietto e che sarebbe venuto a portarglielose non l’avesse ora veduto, e ch’era certo per la sua musica d’orga-no. Il biglietto era un mezzo foglio mal ripiegato, più volte, senzala busta. Lo pigliò un po’ stupito, vi gettò gli occhi: «Ve l’ha datolei?» «Sì, sì, lei Suor Maria, per la musica». «Quando?» «Mezz’orafa, sì, per la musica certo». Pensò un momento con corrugata lafronte: «Ditele che va bene» e proseguì.

«Il sagrestano non sa leggere. Ma cosa succede cosa succedequi?» Ora il turbamento e la pazzia lo ripigliavano. Gli fischiavanle orecchie, e gli occhi gli si annebbiavano. S’appoggiò al muro e

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rilesse; insomma gli diceva, due righe, di trovarsi in chiesa la nottealle dieci che aveva da dirgli qualcosa. «Qualcosa? In chiesa? Alledieci di notte? E che fosse uno scherzo? Uno sbaglio? Ma no, eracosì senza dubbio». Si compresse, cercò di pensare, decise: «Nonvado» e parve sollevato. – Ma dopo cena (gli sembrava d’esserecalmo), un altro giro di idee gli nacque dentro. «Insomma che lacosa è semplice. Cosa guasto io se ci vado? Ha bisogno di dirmiqualcosa; è sorvegliata, è costretta a sceglier la notte e la chiesa:Non ho nessuno fuori. Conosce me; è una disgraziata, pena, ha biso-gno di me. Son così debole dunque da non poter vincere dei pre-giudizi e delle apparenze?» Si aggirava per le strade lungo il mare,non lontano dal convento, discuteva fra sé, non era deciso.Quando suonarono le dieci (non c’era sulla piazza un’anima; lumiqueti di fanali qua e là; la marina sciabordava lì presso ed un lentosottile canto di grilli si lamentava stridendo nella tepida notte) eglisi trovò ai piedi della gradinata larga dinnanzi alla chiesa. Sorrisefra sé: «la porta è chiusa! È uno sbaglio». Salì: tentò il battente dub-bioso, piano... cedette! Restò indeciso, stupito. Ma come gli parved’intendere un passo per la strada venire, ed un gialliccio riverbe-ro di acceso fanale s’allungava per la gradinata su fino a lui (gliparve lo toccasse crudo alla schiena, lo seguisse insistente), di scat-to entrò come spinto, come a nascondersi: e rinchiuse. Buio. Due,tre fiammelle rosse fumanti qua e là forse agli altari. Con voce disoffio fece: «Suora» attendendo in ascolto. Rimase ritto nella tene-bra un po’, poi risoluto a tastoni cercò il muro e dirigendosi, i piediinnanzi riguardosi tentanti, press’a poco all’altezza della porticinalaterale che dava al convento, trovò una panca; pian piano senzafar rumore sedette. Tuttociò meccanicamente, intento alle manisue tese, brancolanti vaghe come se il tatto solo fosse vivo in lui.Ma seduto che fu e riaperti gli occhi come qualche ombra nel den-so cominciava a disegnarsi e ritrovava, indovinava presso a poco ladisposizione delle cose nella navata: il vano degli altari, il pulpitocontro a lui e i confessionali qua e là quasi un lievissimo riflessodelle tre fiammelle rossastre filtrasse lento nell’oscurità vuota, ri-pigliò coscienza. Come un brivido di paura gli passò per l’anima.Le ombre indecise gli fumeggiarono innanzi molli confuse; unatorbida folata di vaghe forme gli ondeggiò intorno a guardarlo,zitta. I demoni osceni delle sue Cabale occulte, gli spaventi ed ifavolosi spettri, le soffocazioni e gli incubi di quand’era piccino

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(come gli si dissotterrassero nella incerta memoria), l’indecisa vitadel buio, il soffio freddo della morte, l’ansioso mistero zitto dellanotte, i brividi, i brividi e gli occhi sbarrati... Ma si dominò; questaera una fila di panche; là c’era l’altra, questi i confessionali; lassùquello era il pulpito e quelli gli altari. Gli parve nel vano dell’altarea sinistra, di là dalla balaustra di marmo di distinguere, nera, la por-ticina al convento. – Dietro a lui in fondo alla porta per cui era en-trato, il battente come se ci fosse qualcuno, ad un tratto frusciò. Sivoltò scattando, mozzo il respiro. Era la brezza certo: aveva di duedita socchiuso il battente. Ma per la fessura immobile filtrava nettaora, riverbero del fanale di fuori, una lista gialliccia di luce. Comea spiare; come ad accusare; come ad inseguire dietro lui petulantecruda, ferendo. Sentì il sangue alle gote, sentì salirgli, su, la vergo-gna proprio come se qualcuno lo stesse accusando. E dentro, comedinnanzi ad un giudice ritto, ansiosa la voce sua a scolparsi, (laudiva stordente insistente, come quando non pensi più e ripetifrettoloso nell’ansia, meccanico6) «Non faccio male! Non facciomale! Non son qui per far male!»

Ma qualcosa pensava invece in lui (in una parte calma di lui),freddamente7. «Tu non credi. Tu hai i tuoi dubbi e non credi. Tuhai i tuoi umani diritti e non credi. Ma qui dove tu sei c’è sacro.Perché tua madre crede, perché tuo padre, i tuoi nonni hanno cre-duto, perché tutt’intorno i milioni di vivi credono ed i milioni dimorti, base del mondo, hanno sostanziosamente creduto. Qui c’èsacro. Nasce da qui, da queste cose la tua stessa vita più fonda. Lapiù fonda vita del mondo si districa da qui, poggia qui, si nutre diqui: qui lo spirito che tu manipoli e dici chiaro ora, s’è dilatatoeffettivo, s’è tormentato sulla carnosità dolorosa del mito; forse havissuto, vive forse più intenso. C’è sacro qui, c’è sacro anche per tee tu calpesti... e tu sei qui che profani»8. Stava accasciato sulla suapanca, come spesso in passato quando tutto l’occupava l’imaginedel Dio della Bibbia. Quando credeva e Dio gli pareva intorno a luivasto, sopra di lui terribile. Quando credeva... e come se ora anco-ra credesse. Forse che anche ora credeva. Forse che intorno a luiora, come questo vivo mistico buio, si stendeva pauroso l’anticoiddio. Stava vergognoso, sperduto, umiliato. – Ma come gli parved’udire uno scricchiolio lieve avanzare di là dal nero nel vano del-l’altare a sinistra, si scosse, si rizzò contrasse adunche contro a séle mani, qualcosa di demoniaco gli passò balenando pel corpo,

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come una bieca ribelle voluttà di peccare, di profanare, di rompe-re. E fu un attimo. Cigolò la porticina nel muro: un’ombra avanzò.Dentro, la voce come disperata seguitava insistente: «Non son quiper far male; non son qui per far male!» L’ombra esitò; come unsoffio smorzato chiese: «È qui signor B...?»9 «Son qui». S’alzò pron-to verso la balaustra: anche l’ombra avanzò, s’appoggiò. Nonrespiravano. «Le ho scritto... ma ero pazza!» «Voleva cosa? Perché?»«Son pazza... ma non posso rimaner in convento più. Non posso.Non ho nessuno fuori. Le ho scritto... perché m’aiutasse». «Ma, neha parlato a qualcuno, alla superiora, alla madre di lì?» «Ne ho par-lato...» «Al Santo?» «A chi?» «Al prete dei bimbi. Mi ha detto che ivoti triennali si possono sciogliere». «Ne ho parlato sì. Dicono cheè il dimonio e che son tentazioni. Che bisogna vincersi. Ora misorvegliano. Mi fan la guardia sempre... Mi puniscono. Il giornoche ho visto lei in parlatorio... Infine veda dove mi son ridotta aparlarle...» E poi come smarrita, tra sé, staccandosi come se voles-se fuggire: «Cosa ho fatto; cosa ho fatto!» «Infine, ora ci siamo, sifermi; in cosa pensa ch’io possa servirle?» S’accostò ancora, s’ap-poggiò come se pensasse. Egli movendo sentì calda sul marmo lamano di lei puntata e la tenne, come a farle coraggio. Ella parevanon accorgersi, esitava pensando. «Non so... veramente non so».C’era del pianto nel suo soffio di voce. «Sua zia... non m’ha dettod’avere una zia?» «Forse l’han informata di già... Mi farà mutar diconvento. Han paura di scandalo. Mi chiuderanno in cella». Il gio-vane ebbe un tuffo dentro; strinse accorato sul marmo la manopuntata. Ella ebbe un sussulto, si strappò indietro, disse ancora:«Cosa ho fatto, cosa ho fatto!» gemendo. Il giovane si riprese:fermo e chiaro disse parlando ritto nel buio a lei che quasi nonvedeva: «Senta, si faccia coraggio». Gli pareva in questo vagosogno come di trarre parlando le cose alla soda realtà. «Tuttociònon è consueto. Qui io direttamente non ci posso niente. Ma se leisoffre... Penserò cosa c’è da fare. Dice di non aver nessuno almondo. Ma ci son degli onesti ancora. Potremo aiutarla».«Aiutarmi?» «Sì... parlerò... Non è giusto... Non so dirle ancora pre-ciso. Lei si confidi ancora col prete dei bimbi. Non è direttorequi?» «Sì... ma mi faran mutare convento, ecco tutto». «E ses’accorgesse di questo, m’avvisi ancora. Il sacrestano è sicuro».«Non più, non più qui!» ansimò spaventata. «Non più qui... èmeglio» assentì il giovane e voleva dire ancora, ma s’arrestò d’un

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tratto. – «Perché», chiese turbato, parola a parola, rotto il respiro,«perché... si è decisa ora a questo? Sol ora?» Un balbettamentoincerto, un singhiozzo nel vano; d’improvviso l’ombra urtandofuggì.

Sentì un fruscío allontanarsi, morire nell’eco. Restò fasciato dibuio, stordito. A tastoni ancora, più lesto, tornò alla porta guidatoora dalla fessura gialliccia; uscì, rinchiuse piano, scese i gradinirasente il muro e scivolò via nell’ansia. – Venti passi innanzi, ac-canto a lui qualcuno sul parapetto seduto borbottò «buona sera».Trasalì. Cosa faceva lì a quest’ora? Era il floscio, quello del demonio,quello dei polli al mercato. Rispose «Buona sera» e passò rapido.Era agitato, voleva fare. Qualcosa lo serrava alla gola, andava quasidi corsa, stringeva, su, al petto, nel moto, chiusi i pugni. Si trovòsenza accorgersene, essendo salito, nelle viette tortuose su delpaese vecchio. Il prete dei bimbi abitava lì presso, voleva parlargli,voleva dirgli; non era giusto... Come ebbe trovata la porta, un oro-logio sopra i tetti batté grave (due volte) una mezza. «Undici emezza?... Undici e mezza». Guardò alle finestre; tutto buio intor-no e zitto. Era tardi troppo; scese più queto, giù a casa sua e tentòdi dormire.

Passò il mattino appresso a dirsi chiuso in stanza che bisogna-va essere calmi, che bisognava decidere, che il prete dei bimbi...Uscì nel pomeriggio a cercarlo. Ma appena fuori eccoti incontrocol muso puntuto i baffetti volpini e gli occhi furbeschi un giovi-ne magro, paglietta in Comune, specie di gazzetta del luogo, sem-pre per le botteghe fra i sacchi di riso e le botti dell’olio a racco-glier frottole e a dirne: «Dicono» e gli stendeva la mano, mellifluo,ghignando, «dicono che tu batta ai conventi di notte e che ti piac-cia di molto l’armonium». Restò male. «Chi... dice?» «Dicono...»Arrossì: «Iersera alle dieci passavo. Mi è parso che fosse aperta laporta della chiesa. Son salito a tentarla... Ho visto il «floscio» pocodistante che m’ha salutato. È lui...?» «Può darsi. Ma l’armonium ècerto che ti piace parecchio». S’allontanò canzonando «bene, bene,ma bene... sappiamo...» Restò male. Dunque parlavano già!Maledetto paese. Sei spiato, ti contan addosso le pulci. San tutto,vedon tutto anche di più che tu stesso non sappia e non veda. Èuna specie di mistero come ciò avvenga ma san sempre tutto in ungiorno, e tutta la città se ne riempie. «No, in verità non san nulla.Che han da sapere dunque? Il «floscio» m’ha visto scendere, ma

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uscire no... non poteva, di dov’era, vedere. Né m’han visto entra-re; non c’era nessuno...» Ma rimase intimidito; non osò cercare del«santo»; girovagò tutto il giorno per le vie più sole tentando diordinarsi dentro le cose. «Insomma non ti ha detto perché voglialasciare il convento... Or è un anno quando ti raccontò le sue cosein chiesa, all’altare, parando, sembrava contenta di starci. È suc-cesso che cosa?» Arrossiva. «C’entro dunque io?... Ma cosa hofatto dunque, Signore iddio? È chiaro che c’entro io. Oppure cheno?... Qui c’è un dramma più fondo e questa disgraziata si dibattecome hai fatto anche tu negli anni passati?10 Poni che non credapiù. Ed ha fatto i voti ed è chiusa! Tu eri libero, e laico; ciò chedentro ragionando ponevi, era posto, era base ed aiuto: t’appog-giavi senza scrupoli lì. Costei... Ma cos’è successo, cosa succede dilà da queste finestre tappate da cui non vedi che cielo; di là da que-ste sbarre di ferro come in prigione incrociate?» E lo pigliava l’an-goscia vaga di quando indovini di uno che soffre e non puoi giun-gere a lui. Certo era così, certo era così. «Anche qui questa dolo-rosa tragedia della fede perduta, anche qui i rimorsi, gli strappi vio-lenti dentro, gli smarrimenti dinnanzi al caos del mondo, dinnanzial disordine dell’essere ora che dio non v’è più. E qui peggio: lepreghiere in comune ora che non crede più, i sospetti, le calunnie,questa insopportabile apparenza e le forme vecchie della fede su dite nuovo, su di te vuoto. Ed il nuovo ed il vecchio in torbida lotta,ed il mondo ed il cielo e il rimorso!... Ma no, che questa è unadonna: non ci sono tragedie teologiche qui. È giovane. L’avevopensato io, che non avesse bene coscienza dell’essere suo. Ci sonoa ventun’anni dei risvegli improvvisi. Tu li conosci per conto tuo...si è risvegliata, la musica di chiesa non le è bastata più né leMoradas, né l’autobiografia in spagnuolo di Santa Teresa. È troppoviva, è troppo intelligente per essere monaca e carmelitana ai gior-ni nostri. Ed ha fino a diciott’anni vissuto nel mondo, ne ha vistoil bello, non ha avuto il tempo di disamorarsene. L’han chiusa poi,l’han cullata, pensavano d’addormirla; ecco tutto. Ed ora si con-torce tra la paura e il rimorso. Non può incolpare gli altri perchéha fatto i voti che aveva vent’anni già e volentieri. Non può ri-bellarsi dunque, perché la colpa è o par sua. E le dicono che sontentazioni e vede che se la mutano di sito e la chiudono, con nes-suno a darle mano di fuori dovrà ammansirsi e finire così. Si dibat-te così. (...O si dibatte più fondo colla fede perduta?) Io non c’en-

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tro...» Ma di nuovo arrossì e gli tornò a mente di colpo la manopiccola, piccola calda sul freddo del marmo nel buio e lo strappoimprovviso. «Sì c’entro anch’io».

Come la sera tornò, la servente abbassava gli occhi impacciata.Sua madre lo prese a parte ed anch’essa gli chiese: «Dicono...» «Masì...» e ripeté senza scomporsi ciò che aveva detto in istrada alpaglietta nasuto, «... e che vai sempre a sentire sonare...» «Sonoandato qualche volta tra le quattro e le cinque a sentire l’armoniumsonare. Suona bene. Perché?» Passaron due, tre giorni così. Uscìpoco. Sentì a caso due comari a una porta dirsi in confidenza chel’attrice del convento doveva essere malata. Non cantava più da unmese. «Ed io ho sentito dire invece che è stufa del voto. E che piut-tosto la superiora ne è, lei, di vergogna ammalata e di dispiacere.C’è chi lo sa». Tirò via rapido. «San tutto, san tutto qui. Maledettepettegole». E vide anche il prete dei bimbi a un canto di via, unasera: si fece forza, e tentò d’accostarlo. Ma il vecchio con la manolo salutò di sfuggita guardandolo un attimo serio col viso e le lab-bra contratte ed accelerò il passo giù. «Che cosa ho fatto; che cosaho fatto dunque Signore iddio? Che cosa ho fatto? E ch’io avessialmeno una colpa!» Quasi avrebbe voluto averci ben netta unacolpa a giustificar tuttociò, perché sentiva con vago malessere chel’aveva rasentata vicino. C’era stata, c’era in lui ancora la possibili-tà della colpa, come se avesse avuto paura a commetterla, come senon l’avesse commessa perché ondeggiante in un’indecisione mor-bosa. La colpa! (ma quale, ma quale, quale colpa dunque?) Eraappunto ciò che lo faceva arrossire se qualcuno per via lo guar-dasse quando passava, o se sorprendeva la servente e sua madre abisbigliare misteriose nei canti. Era ciò appunto che lo rendevafiacco ed inerte, come quando un’azione netta, compiuta dentro,od al male od al bene non ti segna, non ti traccia una via.

Rimuginava queste cose fra sé una sera ch’era uscito giù versoil mare a pigliare finalmente una boccata di brezza, quando qual-cuno che gli zoppicava da qualche passo di dietro anfanando11, lotirò per la manica. «Venivo da lei». Era il sacristano bisunto delleCarmelitane e gli porgeva un pezzetto spiegazzato di carta. Preserapido dal panciotto una moneta d’argento e gliela passò intascan-do il biglietto. L’altro diceva: «Sa, per la musica, sempre la musica.E sì che ora sta male. Ed anche la superiora. Sa... l’influenza. C’èin giro l’influenza, e la superiora sta proprio male mi han detto».

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Ma il giovane lo piantò accelerando. Due donne a venti passi nellaviuzza bionda ancora di sole sbirciavan la scena e sussurravan fraloro; un monello gettò sghignazzando al sacristano qualcosa, untorsolo gridandogli da un portico pronto a fuggire. «E corri ecorri». L’ebete si voltò come una scimmia frustata col suo tondocollare da prete in cui il collo ballava, a strillare rabbioso.

Come fu fuori vista (diceva fra sé «Dove casco! Dove casco,mio Dio») spiegò la carta e lesse. Anche qui due righe, senza firma,senza intestazione, scritte a matita: «Mi fanno partire. Non posso,non posso». E che doveva dirgli assolutamente ancora qualcosa, lopregava di trovarsi di nuovo alle dieci, forse più tardi (Non nellachiesa, grazie al Signore) al muro di cinta dalla parte dei lecci soprail convento.

– «Che m’avvisi, sì, gliel’ho detto io. Ma la cosa...» si fece calmo,freddo d’un tratto come gli succedeva nei mali casi sovente; pensò:«Ma la cosa diventa romantica qui. Perché non ha detto lei stessadecisa ai suoi superiori, al confessore, che so io, a chi deve che vuoluscire senz’altro? L’inquisizione non esiste più. Ha ventun’anni, èmaggiorenne». Gli si diffuse dentro il corruccio: pensò a suamadre, pensò alle due donne di poco prima alla scena del messag-gio, bisbiglianti curiose; pensò al paglietta beffardo, agli occhi dellagente fissi su lui, alle labbra contratte del Santo ed al suo fugacesaluto. «Dove son cascato». Ma poi ancora gli tornarono lamento-se dentro quelle parole di lei: «Non ho nessuno fuori nel mondo»e capiva, sì, che una donna in quelle condizioni, è forse minaccia-ta... «E questo non è giusto». E d’impeto corse su verso il paesevecchio a cercare del prete. Non c’era nient’altro da fare, nient’al-tro. Dirgli chiaro ch’era ingiusto tutto questo, che lui non avrebbeesitato un momento a sciogliere od a rompere anche dei voti so-lenni, permettesse o non permettesse la chiesa, in un caso comequesto. Ma che qui per fortuna... E che se non lo facevano per lasolita paura dello scandalo, queste le eran grettezze da beghine eda preti; e che se temevano che fuori di convento la giovane aves-se da trovarsi male o da male finire, che peggio di così non le pote-va andare, (e gli avrebbe mostrato il biglietto e chiesto: «quandouna donna perde la testa così, vuoi dire che sta male o sta bene?)»e che in tutti i casi essa sapeva di musica ottimamente e potevaguadagnarsi il pane così, e che gente onesta ad aiutarla se ne sareb-be bene trovata nel mondo (pensava d’offrire lui stesso da parte di

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sua madre, protezione e denaro). Arrivò ansimante stringendo intasca il mezzo foglio spiegazzato di carta. Suonò. Qualcuno dallafinestra gli disse ch’era uscito la mattina e sarebbe stato fuoripaese, ad una sagra, due giorni.

Non gli riuscì più da questo momento di mettersi innanzi chia-ra un’idea. Cenò distratto. Uscì subito senza salutare dimenticandoil bastone e camminò a caso gli occhi, senza riconoscere, ora allagente queta a passeggio, ora a due aeree nuvole rosa su nel grancavo fondo del cielo, nel riverbero ultimo del settembrino tramon-to. Si trovò fuori di città fra le vigne e gli ulivi. Salì, scese, erròvagabondo. Non pensava. Si fece notte, qualcuno passò che losalutò. Non rispose. Un cane gli abbaiò d’un tratto accanto e nonsi scosse: continuò smemorato ad andare. Ma improvvisamentecome si spandeva sulla paurosa funereità della boscaglia d’olividalla più vicina chiesa il rintocco dell’ore sonoro, attento, contò.«Nove, un quarto, due quarti, la mezza». Si scagliò come se qual-cosa gli fuggisse dinnanzi. Fra sterpi, fra sassi, saltando le siepi, persentieri tortuosi, deserti. Arrivò al convento dalla parte del Monte,scendendo, che battevan le dieci. La massa nera degli enormi leccipendeva alta sulla vietta, fra i muri, incassata. Conosceva bene ilsito. I lecci eran d’un piccolo parco privato che serrava, scenden-do anch’esso giù fin sulla strada del mare, fra sé e la vietta alMonte, l’orto finitimo del vecchio convento. Conosceva bene ilsito, perché ragazzo aveva infinite volte giocando scalato il murosu a coglier nel parco le ghiande.

Il terreno del quale era più alto d’assai del terreno dell’orto: cheera sprofondato giù di quattro, di cinque e più metri sotto il muret-to irto di cocci puntuti a difesa.

Salire su ai lecci era facile (si rizzò agile e rapido. E come, sca-valcato il muro sentì sotto i piedi, qua, là il tondeggiar delle ghian-de si chinò come da bimbo pronto ridente, tastando, a raccoglier-ne) ma sportosi all’altra cinta di fra i cocci di vetro a fatica, si vede-van giù bassi come in un pozzo i solchi soffici uguali ed i cespid’ortaglia. Era diffusa per l’aria una freschezza chiara (forse si leva-va all’orizzonte la luna) e veniva dal mare, il rumore dell’onda unpo’ mossa. I lecci stavano immobili, scuri di sopra il suo capo(senza stormire); un odore di terra umidiccia e di muschio si levavad’intorno; una finestra di là dal convento alle case del ponte, rossain una gran chiazza scura, luceva come a fissarlo; a sinistra più in

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alto, indecisa la massa enorme, contro il cielo stellato, del già dor-mente paese colle rade accese collane, (due, tre, parallele) dei fana-li giallicci. Il convento era zitto e tutto chiuso: di là dei suoi tettisghembi e del campaniletto a punta forato, sentivi l’ondoso allar-garsi del mare. Attese. «Di qui, è ridicolo, come ha potuto pensarech’io la possa sentire?» si disse. «Bisognerebbe che parlasse forteda svegliare anche i sordi». Guatava intorno da monello che medi-ta il colpo: faceva calcoli, pigliava misure svelto coll’occhio. Nonun pensiero, assolutamente niente del turbamento passato, comese non avesse coscienza quasi di ciò che faceva, fosse attento,attentissimo solo all’atto immediato. «Bisogna o sentirla di qui oscender giù a sentirla nell’orto». Ecco tutto. Ed il muro qui era disei metri, ma c’era una pergola di viti in basso; e là di quattro sol-tanto, ma c’eran dei cespi di rose che lei non si sarebbe potutaaccostare ed il convento era troppo vicino. Attese queto: toglieva ivetri, i fondi di bottiglia, i bicchieri rotti e taglienti incastrati sullacresta calcinosa, con le dita forzando; fece posto bene e sedettecavalcioni. Non udì qualcuno che s’avanzava fra i solchi lento. Sen’accorse ch’era sotto lui, fuor della pergola, a un tratto. «SuorMaria?» Il frangersi ghiaioso del mare sembrava ora echeggiare,rotolare per l’aria più forte. Pensò: «Qui è inutile: bisognerebbegridare». Si sporse fuori tutto, (la figura laggiù parve cennare, simosse), risoluto volteggiò poggiando alla cresta colle mani, colventre e secondo una ginnastica usata forzando colle punte deipiedi contro il ruvidore del muro, si lasciò pendere giù. (La pergo-la era sotto circa tre metri). Rimase un istante macchia allungatapiù scura sul fondo piatto a strapiombo, si torse a guardare apigliar bene la mira e schiantò giù d’un tratto crosciando. La don-na ch’era rimasta non bene capendo, attenta a guardare, represseun grido e si precipitò fra i pali strappati e le viti, (egli si ricordòpiù tardi d’avere nel cadere afferrato grappoli d’uva a tenersi e chela mano gli era rimasta tutta pastosa e odorosa di mosto) si preci-pitò pronta chiedendo. Le soffiò immobile: «ferma». E stette, edanch’essa, qualche minuto in ascolto: affondato, nascosto fra l’ag-groviglio del fogliame e dei rami. Come niente si mosse (non sen-tiva che il mare ed il rapido tuffo del cuore dentro e alle orecchie)si districò svelto ed uscì. «Male?» chiese ansando la donna.Qualcosa di caldo ed un bruciore ora, sì, un dolore vivo sopra delpolso, nel braccio, sentì. Forse un chiodo od un vetro lassù vol-

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teggiando. Rimboccò con l’altra mano la manica, presto, e guar-dando: «un po’ di sangue, qui». «Sangue!» La donna gli afferrò ilbraccio, vi chinò gli occhi su anche lei, sbigottita, tremante, a guar-dare, lamentando: «E perché saltar giù, e perché saltar giù!»

Trasalì stupito. Era; non era? il capo innanzi a lui chino al suobraccio, non bendato, non velato era; capelli sciolti e lunghi.Lunghi, sì, mal trattenuti sul collo. E giù pel corpo non il mantel-lo: l’abito solo in figura d’una veste femminile comune, strettodalla cinta sui fianchi.

Non osò dire... La donna12 si lamentava sommessa: «Cola, colaforte... uno strappo d’un palmo». E l’attirava dicendo: «venga,venga» verso una gran botte ritta fra i solchi dove gorgogliava del-l’acqua. Vi bagnò delle tele: gli pigliò lei stessa di tasca senza chie-dere i fazzoletti; lavava e curva fissava: «Cola, cola sempre...» Lofece sedere su di un tronco abbattuto; sedette accanto chinata (c’e-ran dietro loro a spalliera dei gran cespi di vaniglia odorosa) efasciava attenta e stringeva. Zitta... Era una donna, una donna...Sentivi sotto l’abito lieve l’ansimare del petto; le ciocche ab-bondanti ai lati del viso in due bande giù; la radice del collo bian-ca (nuda) fin giù, lineata, allo scuro dell’abito; e (gli pareva), s’ellaalzava lo sguardo un rilucere vivo negli occhi... era una donna, unadonna... Ma com’ebbe finito, si scosse, sembrò smarrita, vollemuoversi, alzarsi: la tenne. «E come risale ora?» chiese spaurita.«Risalirò». I muri tutt’intorno (umidore nero e cespugli), cingeva-no altissimi; da un lato, pesanti, i cipressi ed i lecci (enormi); dal-l’altro a mare ombrosi il campanile ed indeciso il convento (acco-sciato, come una gran bestia torpidamente dormiente)13; su, bril-lanti pungenti d’argento, nel cavo le stelle. Gli parve tremasse: nonla chiamò più: «Suora»; la fissava. Chiese, come non pensando, cheavesse, e quella: «Ho la febbre...» ed ebbe un sussulto improvvisopel corpo e le si fece rauca la voce ed a scatti. «Ho la febbre... L’hofatto venire perché ho deciso d’uscire... non mi lasciano... Dopodimani voglion ch’io parta. Vogliono chiudermi ancora e dove nonso. E dicono che è il dimonio e ch’io mi perdo. Ma niente; s’io ri-mango qui, sì mi perdo. Ho vergogna di portarlo quest’abito. Daieri non ho messe né bende, né cilicio, né velo. Non voglio più pro-fanare...» Ansava. Un carro giù nella strada a mare, passava sco-tendo lento, pesante, e s’udiva il sonaglio a strappi dei muli. Unsoffio di brezza sussurrò un attimo lieve nella chioma nera del

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parco, «...e se non vogliono loro, dal vescovo andrò io. I voti mieisono solvibili. So. Ma non vogliono. Chiedono il perché... Ed ilperché... l’ho detto. Qui non ci vivo più... Dicono che sarebbe unoscandalo e che l’Ordine è recente, che son cose che passano, ango-scie di gioventù e che infine ciò è dannoso e scandaloso per tutti.Han fatte preghiere in coro tutte insieme. Voglion ch’io preghi,ch’io preghi. Mi serran in cella a pregare. Dio, Dio mio! Io non sopiù nulla. Non intendo più. Bisogna ch’io esca, ch’io esca... E senessuno mi darà una mano mi guadagnerò da sola da vivere. Ioesco così come sono... Mamma, mia mamma!» (Mamma?... Era unabimba piangente, era una donna un cuor vivo in angoscie).Coperse con le mani il viso in singhiozzi. Egli l’accarezzò mecca-nico come a quetarla, zitto. Pareva pensare, ma era vuoto dentro.Aveva dinnanzi, come una mosca impertinente, il viso volpino e gliocchi del gazzettiere paglietta; e poi questa voce: «Dove caschi,dove caschi tu dunque!» ed il bisbigliare ed il fare impacciato dellaservente e di sua madre per casa. Come gli si fosse stretta l’animae non vedesse più; come dentro gli si fosse seccata ogni cosa ed ilcuore. «Dargli del denaro» questo pensò, «scrivere a tua cuginaPaolina che l’aspetti alla stazione a Genova, e la collochi lei». – Maquesta imagine della stazione fumosa, coi treni in moto ed i binaried i fischi e i facchini e le valigie e la gente, lo fissò netta un istan-te. Ci vide in mezzo lei che gli piangeva lì accanto, lei coi capelligiù sciolti e la cinta e l’abito nero (in abito, in abito così di con-vento?) Si turbò, sentì la vergogna su alle guancie e la commozio-ne fondergli dentro; «Perbacco, ma il prete dei bimbi bisognerà purche ci pensi! E se s’intestano...» Vide di nuovo la servente e lamadre in un canto in sussurri, sentì come un sussurro spandersiintorno per le piazze e le vie della città e le case; vide i mill’occhisu lui e i sorrisi e le risa e l’impaccio del camminare per strada, e idubbi e i commenti e le boccaccerie senza più fine al caffè... «...ese s’intestano...» Pensò ad una fattoressa che aveva in un paese lìpresso «se s’intestano, disse forte, mando io qualcuno dopodima-ni con una carrozza a pigliarla».

Fu come se un groppo gli si sciogliesse che lo stringeva allagola: gli tumultuò dentro qualcosa come un gorgoglio impetuoso.S’accostò vivace alla donna, le prese dal viso le mani e la quetavafestoso «non pianga, non pianga più» e parlava rapido come quan-do fai buono un bimbetto dopo averlo sgridato che lo cingi col

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braccio ed inventi e colori e gli calmi ridente con molte parole ilsinghiozzo. Diceva che le cose andran bene, che certo andranbene, che tutto andrà bene. Che sì, che c’era lui per ogni caso, chelui avrebbe fatto, che lui avrebbe pensato... (avrebbe pensato co-me? a che cosa? E forse che fuor di convento questa donna sareb-be stata contenta così? Di vivere sola, dando lezioni di piano tuttala vita? Forse che usciva di convento per quello?... E perché dun-que veramente voleva uscir di convento? E non si pigliava, lui, gio-vanotto di ventisei anni una responsabilità grave ad aiutarla e dinascosto così? Non s’impegnava, non si legava? Insomma perchéproprio, in sostanza, voleva essa uscir di convento?) Stava zitto orain sospeso, con rotto il respiro con fra le mani le mani di lei caldis-sime che singhiozzava ancora, ma come quetandosi (sì, come unbimbo che hai rasserenato, che quasi, dopo aver pianto s’addor-me). E cedendo verso il cespo foltissimo della vaniglia di dietro,come stanca, a poggiarsi un poco piegava verso la spalla, sfioran-dola, del giovane accanto.

Bruciava di febbre. Certo che gli occhi fra il bianco ed il nerobrillavano se si voltavano a lui! Tratto tratto il singhiozzo rotto,profondo le sussultava nel petto. E stava abbandonata, silente chepareva addormirsi. Il giovane guardava lei ora, ora guardava intor-no per l’umido ombroso. I muri bianchicci di cinta li serravano, liabbracciavano (li nascondevano) alti; il convento innanzi era buio,senz’anima zitto e c’eran sempre nel cavo le stelle tremanti e l’on-deggiare sonoro del mare. Qualcosa di sconosciuto faceva oranuovamente impeto in lui. Anche a lui si sollevava ora il petto conlarghi respiri come se non la freschezza notturna ma il senso vivodella sua forte maschiezza lo gonfiasse in un ritmo sicuro. Gliparve ad un tratto come di farsi da vago reale; sentì la muscolosi-tà del suo corpo robusto come qualcosa di pronto a lottare (qual-cosa d’ignoto e di nuovo in lui d’un tratto) ben fermo, ben saldo.Aveva accanto una donna, appoggiata a sé languente una giovanedonna... che certo l’amava (non aveva accanto a sé la sua donna?)E poteva esitare indeciso così come un debole abulico o come unleguleio invecchiato? E se le responsabilità c’erano se le sobbar-cava. Anche gli impegni sì; ed appunto perché era giovane ed avevaventisei anni soltanto. Vuoi camminar sempre con le mani innanzie col tuo piano già fatto secondo le regole e l’uso? (Vuoi trarti die-tro passo passo la legge e vivere per non tradirla e per essa? o devi

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vivere risoluto e violento perché la legge si crei, perché s’accrescala legge e lo spirito? Questa donna soffre, ha bisogno di te, s’ag-grappa a te e tu fai calcoli e tu concedi come un fariseo gli aiuti ametà? Tu pensi al mondo, alle chiacchiere del mondo, ai bisbigliscandalizzati della tua servente in casa (e di tua madre? Ma anchetua madre...) Tu pensi agli altri; fabbrichi la tua coscienza condetriti di chiacchiere d’altri e con pregiudizi. Fa, dunque, e sveglia-ti dunque secondo l’impeto della tua stessa coscienza che è tempotu viva. Tu vuoi vivere o tu vuoi queto dormire? Fa dunque secon-do la tua coscienza viva, che qui accanto c’è una donna che sof-fre... Una esaltazione di generosità lo scuoteva e qualcosa al di làdella generosità e della composta onestà. Come il desiderio di but-tarsi innanzi, sì, ancora di ribellarsi (di profanare) come per unattimo in chiesa la notte del convegno. Ribellione non sterile, nonvuota, non per voluttà vuota e infeconda, ma per scuotere ungiogo, per respirare più libero e largo, per farsi trascinar via dalgorgo intorno della vita vissuta e battercisi rude da uomo.Desiderio di rompere l’uso e la legge. Bruciante desiderio e sanodi vita e di colpa.

Si strinse alla donna e disse ad un tratto ancora, lento: «Ci sono,sì, io. Ha me nel mondo», ma con voce mutata, contratta. Non piùcome parli ad un bimbo; come parli ad un’anima perché ti inten-da, come parli nell’ansia ad una donna che ami.

La giovane accanto si scosse. Pareva che avesse in simpaticaangoscia seguito l’ondeggiare, l’allargarsi umano del pensiero suo,che qualcosa anche in lei si fosse svegliato e tumultuasse: qualcosala rimutasse profondo, la facesse nuova risolutamente. (Piegòverso lui con volontario atto). Come se decisa le ripigliasse dentrola vita, come le si risaldasse nella giovane vita questa larga divari-cata ferita di quattro lunghi inutili anni. Era vigorosa e rinata. Erauna giovane donna (e non aveva gridato «mamma!» come una crea-tura del mondo che soffra? Era viva era come lui qui nel mondo,una creatura umana a volere, a sentire, a dibattersi), sentì contro lesue spalle il suo viso caldo poggiare. Era una donna accanto a lui,viva, ad amarlo. (Non era questa forse, non era questa dunque ladonna sua?)

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III

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Che cosa precisamente il giorno dopo e i seguenti avesse fatto esentito, anche molto più tardi in calma pensando non gli riuscì maidi metterlo insieme bene.

C’era come una macchia di buio nella sua memoria. Di questosolo si ricordava (e di una aridità meccanica dentro, che gli avevadetto come parlando: «Tu devi»; e di lui che poi si moveva nonbene sapendo e come per un esterno comando); di questo si ricor-dava che aveva (forse un pomeriggio) bussato al convento (senzavergogna come uno mandato, o come se tutto fosse chiaro e si pre-sentasse da sé rassegnato a incolparsi), e chiesto al sacrista di SuoraMaria. (Quello aveva fatto un lungo discorso con molti gemiti egesti di cui ciò solo aveva afferrato: «ha, dicono, il delirio. Medico...medicine». Forse aveva aggiunto anche, lamentoso e in confiden-za, che nella notte, oltre tutto, non si sa chi era entrato nell’orto arubare dell’uva e che lui non l’aveva detto né alla superiora né anessuno perché il danno in sostanza era poco e stavan tutti quantigià male)2. Poi di quest’altro: che aveva atteso ritto sui gradini ampidi marmo con le colonne alte contro a lui della Collegiata bianca,il prete dei bimbi alle cinque uscir di capitolo. L’aveva toccatomuto al braccio, l’aveva tirato con sé cento passi lungo il granmuro nudo sul piazzale di dietro, fra i quercioli in fila radi; e che ilvecchio docile l’aveva seguito e col viso buono di nuovo, gli avevachiesto fermandolo, gli occhi cilestri a lui: «Ora dunque che hai?»Egli, contratta, rauca la voce, ma senza ansito, calmo, (pallidopesto nel viso), come se facesse un Caso dei soliti a sciogliere, ocontinuasse distratto un discorso: «E se un religioso, poniamo unasuora (una novizia)», aveva domandato «va contro i suoi tre votigiurati, rompe uno dei voti, poniamo...» parlava lento, «poniamoche pecchi contro il sesto comandamento dei dieci, che peccato è...questo?» II vecchio stupito, fra sé: «Mortale, riservato»3 borbottò.Ma pronto aveva afferrato il giovane al braccio e guardandolo sufisso: «Sei arrivato a ciò? Tu? Siete arrivati a ciò?» Ed era rimastocosì, la bocca socchiusa, fermo. Poi aveva riabbassato il capo rica-scando curvo, aveva detto piano e dolce come soleva convinto:«Ma Dio è buono... Dio, sì, è buono, sì, sì...» come a persuadere,

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come a rassicurarsi e l’aveva lasciato rapido senza aggiungere altropuntando sul bastone (gli era parso) giù verso il convento.

E come egli era tornato più tardi di sera a chieder di lui, (e nonsapeva perché, per che cosa), dalla solita finestra in alto, la solitavecchia fantesca gli aveva gridato nell’ombra della stretta viuzza:«È partito da un’ora: sarà domani qui in giornata; dev’essere an-dato dal vescovo ad A». (Questa parola: «dal vescovo» gli avevaronzato tutta la notte all’orecchio. «Dal vescovo? E perché dalvescovo? Dal vescovo?»)

Un’atona arida grigia opacità gli fasciava l’anima e il capo; pas-sava la sua giornata quasi intera sdraiato a fissare nel vuoto senzaassolutamente pensare e la notte a rigirarsi nel letto. E come nelsilenzio un grido che rompa, tratto tratto un’imagine rapida, vivacome un razzo4 a scuoterlo: il gemito, il lamento piangente e poitutt’a colpo l’inerzia di lei svenuta sul tronco squadrato; l’odor delterriccio nell’orto con quello molle e buono delle vaniglie in fiore;lo smarrimento, la disperazione nel buio, la sua corsa verso il con-vento d’un tratto come a battere a chiedere aiuto. E lui piangente(lacrime lente sulla calda guancia) a carezzarla zitto e lei a divinco-larsi muta a sparire improvvisa nell’ombra. Ed un zirlo improvvi-so di grillo come un riso sottile di chi avesse veduto. E i vetri dinuovo puntuti a tagliarlo e lo sforzo e l’ansia paurosa e un passan-te che s’era fermato a cinquanta passi sotto un fanale forse inascolto... E poi ancora il gemito, il gemito che gli echeggiava den-tro, come di uno che muoia e che chiami, che gli si moveva, glistrappava dentro ogni cosa, gli serrava la gola in angoscia.

Ciò a tratti, come nella inerte oscurità sprazzi e barbagli a ferir-lo. Gli pareva di essere inabissato in un aere grave pesante e che glifosse difficile (torpido) muovervi in mezzo le membra e il cervel-lo. Un dopo pranzo sul tardi gli entrò nella stanza (vide alla portail viso cereo di sua madre a introdurlo) il prete dei bimbi che(steso) lo trovò in questo stato. Parlò per un po’ senza che né l’in-tendesse né gli rispondesse. (Gli si gonfiava accanto bionda dibrezza e di sole la tendina, pendente, ed uno specchio di dietronell’ombra rifletteva bianco e rasato il suo capo e giù il dorsocurvo nel nero). Anche lui torpida ombra a guardarlo cogli occhicilestri, queto. Afferrò del discorso che la «creatura» era adesso insalvo e che il vescovo (il vescovo? di nuovo il vescovo...) e che eraai Poggi, ch’era bene allogata presso la sorella sua (di lui, del prete);

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e che poi certo bisognava pensarvi, «che sarebbe bisognato parlar-ne». Il vecchio gli palpò con la mano buona la fronte, lo prese alpolso un momento attento, (gli passò per la mente incerta, l’ima-gine di lei curva e i capelli disciolti a toccarle5 il braccio ferito, astringerlo col fazzoletto bagnato, a lamentare sommessa: «Cola,cola sempre»); se n’andò sorridendo facendo segno di saluto ecome incoraggiando amico, senza ch’egli riuscisse a bene capire néa scuotersi. Ma questo gli restò nell’orecchio (se lo ripeteva sme-morato), come una frase a cui t’appigli quando ti sforzi di fissareun’idea: «che certo bisognava pensarci, certo, e parlarne».

E fu tuttavia di qui (fu la cosa che gli s’impresse dentro più luci-da di tutta quella sonnolenta settimana); ed anche più tardi avevariflettendo spesso concluso che appunto di qui aveva ricominciatoa connettere. Fu la cosa più lucida insieme a quest’altra che gliaccadde la sera dopo ch’egli assorto, le mani in tasca, a terra gliocchi vagava per via a caso. S’era imbattuto ad un canto con Carrúl’avvocato6 (piccolo, quadro, dongiovanni famoso, tutto impeti eboccaccevoli frottole, – inesauribili frottole sconce fra gli amici infarmacia, od in crocchio sull’angolo, – colpi di pugno sul bancoquando perorava in Consiglio (era in Consiglio); occhi piccoli, neri,cisposi, scintillanti di un’umida loro malizia; gran fottitore diserve), s’imbatte con Carrú che fece un gesto vedendolo come seci fosse una cosa festosa e segreta; e toccandolo al braccio gli dissepiano, accostandolo: «Ma complimenti dunque! Lo dicevo io beneche ti saresti svegliato. Ed hai tirato di colpo alla quaglia, amicomio! Questo è un colpo. Mi degradi, mi hai degradato, che quaglia,che quaglia». Si strappò via torvo senza dire parola e lasciò l’altrosorpreso. Che corse a spifferare nei crocchi con bisbigli e con risa,in segreto, che la cosa era vera e che ora lo sapeva di certo.

Tornò padrone pian piano di sé, ma come quando ti svegli dauna febbre di un mese che le cose intorno son gravi e non hannosapore. Le cose non avevan sapore ed eran lì adipose senz’animanel più geometrico ordine. Non avevan misteri più al di là del loromateriale contorno, non avevan più risonanze né intime vite, face-van insieme corpose il gran mucchio rotondo del mondo e cosìcome le vedi e le senti sonnolente giacevano. Così come le vedi ele senti imbastite e aggiustate seconda la causa e gli effetti, nel con-sueto inquadrarsi di sillogismi ben chiari, nell’andar senza scossedell’ordinaria ragione. Non vibravano più, non echeggiavano più,

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non esultavano più come si fossero spente d’un tratto, come se sifosse seccato il gran flusso di vita che scorreva giovanile per essea gonfiarle (come se in lui si fosse dispersa, smarrita la magica fon-te, la corrente ed il flusso). Come se l’echeggiamento dei senti-menti si fosse taciuto non allargasse più umettandolo il mondo, ilmondo posasse pesante non ci fosse modo più di trasformarlodinnanzi, di trarlo su a poesia, di farlo cantante e gioioso, di mol-tiplicarlo infine cantando. Bisognava accettarlo così pezzo a pezzo,anatomico e morto, bisognava camminarvi per mezzo senza nériso né pianto, meccanici e grevi («sei uscito fuor dell’imaginarediscreto! Hai rotta la sapiente prudenza predicata nella dissertazio-ne dal nonno»). Bisognava accettarlo così senza speranze, che que-sto era il mondo dopo il peccato, spento; questo era dunque, senzapiù il lievito e il sogno, fiacco. Questi gli uomini, così e così ragio-nanti e operanti; questa la realtà con queste e quest’altre necessitàordinate; questo lui stesso senza veli e senza eccitamenti irreali.Questo dunque lui stesso macchina malfatta di muscoli e nervi, fraaltre macchine in moto a maciullare (null’altro!) o male o benecome si può il suo pezzo breve di tempo, così come da quando c’èil mondo s’è fatto. E sentì dentro sé una incolore, una esanime vitasenza meraviglie e senza stupori stendersi grigia, vita veduta senzaorizzonti netta, senza sconfinamenti né palpiti, vita d’umano auto-ma, rotolante giù, fredda.

E l’accettava e si rassegnò come uno che curvi. Si rassegnò,stette come uno che osservi. Fu in questi giorni che gli scrisser daGenova come la lite in appello (la lite per l’eredità di suo padre)fosse di nuovo perduta. Fece i calcoli piano, rilesse gli atti e le map-pe: il suo patrimonio era ridotto ad un terzo: si disperdeva fracugini e parenti. Gli lasciavan con un podere d’olivi la casa vecchiaed inutile. – Ma anche la casa come tutto il resto pareva ora si fossemutata. Eran cominciati i giorni piovosi di ottobre; c’era del fred-do, del vuoto, senz’eco, qui dentro c’era del freddo e dell’inutilemorte su questi libri allineati uguali, non più il ricordo buono ecomposto del nonno e del padre. La madre era a letto malata, nongli parlava, non gli rispondeva; sentiva nella sua stanza buia con leimposte e le cortine serrate quando l’andava a trovare e dicevasommesso entrando a tastoni «mamma» l’odore del chiuso ed ilsuo respiro rauco ineguale. (Restava lì nella penombra appoggiato,meditabondo e poi se n’andava in punta di piedi zitto, con stretta

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la gola). La servente muta gli posava innanzi la sera e a mezzo-giorno sul tavolo (solo) nella gran sala vacua i piatti della cena e delpranzo e non lo guardava. C’era per tutto nel vano dell’ombra enell’odore vecchio di muffa, la funereità senza conforto dei giornich’era morto suo padre. Fuori, le volte che usciva, la gente gli mor-morava dietro e lo guardava fisso sfacciata.

Anche gli amici erano impacciati con lui. I ragazzi del Liceo glipassarono un giorno in frotta d’accanto abbassando gli occhi erapidi, salutandolo col cappello come intimiditi senza farglisi intor-no festosi (qualcuno anche, gli parve, ghignò). Uno che lo accostò,un buon giovane per cui sentiva affetto, tutto chiesa e lezione, dicui gli altri come sempre dei buoni e dei timidi ridevano un po’, fuper ritornargli un libro su Mazzini che gli aveva tempo prima pre-stato. Parlò di Mazzini, pareva che parlando si dicesse fra sé: «Maz-zini e quel ch’io ne penso non hanno a che fare con te né con quelche si dice tu hai fatto. Parliam di Mazzini, sì. Io son qui, tu sei lìnon ti tocco e non muto».

L’amico wagneriano – lo incontrò per via – gli si accompagnòzitto daccanto un bel po’ un giorno, e come vide la bionda indistanza che ora (anche lei!) lo tradiva, cominciò una tirata sul tonoconsueto contro i borghesi e le pancie. Ma ripeteva delle parole afreddo, gli parve un po’ a macchina. E fu questa volta che aven-dolo d’un tratto, come lo lasciò, guardato, vide nella sua figuragrassoccia, intravide (il mento, le mosse, qualcosa che non beneafferrava) l’altra figura più tonda e più grossa di suo padre il pan-ciuto. Dietro Lohengrin e Siegfried, e dietro Tristano, d’un trattouna sartinetta sguaiata per ideale e il buon senso sapiente ed il cal-colo e il commercio delle latte per l’olio. – L’anarchico quello nondisse nulla e approvò così: «Infischiati dei borghesi» (anche lui iborghesi). Null’altro e lo piantò. Fu ad un canto di strada, gli strin-se forte la mano (gli si era accostato zitto come lo aveva veduto),con corrugato il viso e più torvo lo sguardo. Aveva al collo unacravatta nera abbondante e sotto il braccio un Bakunine7 nuovo-uscito, rosso.

I «borghesi» «i borghesi» infischiarsi dei borghesi. Eran invecegli amici vecchi, i due, i tre che di sfuggita come per compassionee dovere lo consolavan così che non gli importavano ora. Eranoanch’essi vuoti. Il loro giudizio era vuoto senza peso e valore. – Iborghesi come la notizia s’era diffusa, s’era propagata giù di bot-

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tega in bottega, di crocchio in crocchio, al mercato, in farmacia,per le sacristie, al caffè, nei salotti delle molte giovani e vecchiebeghine signore, ascoltata, ripetuta, ingrossata e contorta con l’a-vidità, con la voluttà ora scandolezzata ora apertamente gaudented’ogni buon pettegolezzo nuovo in provincia (ma questo sì, eranuovo davvero e mica dei soliti: «Han fatto cambiar aria all’attri-ce!» «Già, l’han vista che partiva in carrozza». «E dove e dove?» «Acambiar aria, a cantar Tantum ergo in campagna» e risa ed «Oh!» esenza fine particolari e commenti)8, i borghesi corporazione abantico ben stretta e d’accordo, reagirono tutt’insieme secondo ununico tono. Ora il male da dire era scattato fuori d’un tratto chenessuno trovava. Ora gli offesi in segreto potevan bene dir final-mente la loro, e colpire. Ora c’era cascato al di sotto di loro, lui chevoleva starne al disopra; lui il morale. Gioia, gioia maligna. E c’e-ran, c’eran i ragionieri gli uomini di buon senso e d’affari che noncapivano che si facesse coi libri e i discorsi ai ragazzi di scuola etutto il giorno la musica, che avevan detto fino allora di lui: «è unbuono a nulla; non fa nulla». C’erano i ragionieri che calcolavanoora col lapis sul bianco del tavolino a caffè quanto gli restassedopo il processo, di suo. Ed era poco, pochetto. Così che, oltre-tutto, che contava ora in paese costui? E c’erano i «neri» i fabbri-ceri, le beghine ed il parroco che, già, se l’aspettavano da tempo(«l’hai visto tu mai a far pasqua da quand’è andato agli studi?») ederano costernati, vergognosi perché certo c’entravano anch’essi;anche per loro, già, questo l’era bene uno scandalo e ne pativa ilbuon nome. «E la superiora, avete sentito della superiora? Quellanon s’alza più di crepacuore». «Ma il signore comincia a punirloanche lui, lo svergognato. Disgraziata la mamma. Ma è certo chequesto processo perduto è un castigo. Vedi dunque se non è uncastigo di Dio!» E nell’ombra serale delle ammuffite canoniche,passava quel soffio (vago, quel tremito pallido di purgatorio), inde-ciso che sa di paura, di mistero, di grettezza e di cera.

Seppe che uno di quei del Consiglio, caporione di parte di cuiaveva detto qualche male una volta sul giornale del luogo, s’erasotto sotto informato se c’erano i termini di una buona querela peroffese palesi al pudore e se la novizia in questione (andò al con-vento a chiedere) fosse ancor minorenne eccetera eccetera. I gio-vanotti gaudenti, Carrú l’avvocato, i «boccacci» eleganti, questiridevano e se la contavan fra loro: «È un porco anche lui. Ma le fa

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di nascosto». Ma insomma che il colpo era buono e fatto in «granstile». Il problema era questo: nient’altro: «Ci è cascato, in-namorato, da sciocco che non sa quel che fa; o l’ha fatta come sideve con calcolo?» «Ed io dico che l’ha fatta con calcolo e dà deipunti a tutti noi che ci contentiamo di serve». «Ed io dico inveceche l’ha rotta e l’aggiusta, e si sposa la monaca» «Oh! oh! oh!» «Esì, si sposa la monaca che del resto è un’attrice e la storia la sa».

Tuttociò gli arrivava indiretto (sussurri, bisbigli, chiacchierareper tutto; n’era pieno il paese) o per indizi intuiva. «Ed ecco ches’io ridessi ora una volta, passando, di sott’occhi a Carrú , e milasciassi tirare una sera a contargli da «bulo» la cosa coi particolariche vuole; pagassi magari lo sciampagna a due altri di questi efacessi fuori un allegro viaggetto d’un mese, ecco ch’io sarei qui uneroe, ed avrei con me intanto la gioventù mattacchiona. Sareianch’io come tutti gli altri giovani un «matto» e la mattana mifarebbe da scudo; mi godrei due tre anni in mattane e la volta cheti portassi di fuori tutt’a colpo come fanno questi altri una mogliebella e vistosa, e che la gente sapesse che è ricca (certo che sia riccabisogna) anche i vecchi concederebbero che io ho messo a postofinalmente la testa e chissà non mi mandassero allora davvero inConsiglio ad amministrar la città!» Diceva ciò non amaro; consta-tava queto che così era il fatto. «E se facessi così? E se tentassi digirar l’affare così?» Si ricordò più tardi che anche ciò gli aveva sibi-lato un di quei giorni pel capo e ch’era stato d’un tratto comequando col bastone passando rimescoli in una pozza per gioco ilfondo fangoso, che ti viene su il torbidume a soffioni sporco e l’ac-qua tutt’intorno brutta, ingiallisce ed annera. Sentì il torbidume dalfondo dell’anima opaco, le voglie vigliacche le brutture quetantinascoste come una cloaca che non sapevi ci fosse e si rompe; esentì la vergogna e il rossore. «Questo avevi dentro tu dunque, oantiborghese, e te ne stavi sdegnoso in disparte a chiacchierar diPascal e di Dio!» Nell’umiliazione sua, nel rassegnato abbattimen-to, nell’opacità senza slanci più del suo cuore, riconosceva giusti gliimproperi ed il disprezzo di tutta la città contro a lui. «Ci son glisciocchi, sì ed i vili che son contenti per malignità senza scopo,batton le mani perché tu hai peccato, come chi ride se casca lì pres-so qualcuno. Ma c’è chi si sente nell’anima offeso da te. Perché tuora t’appiglierai alla tua coscienza morale, tu ora dirai che hai l’u-niversale con te e che s’esci dall’orizzonte d’un palmo del paesu-

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colo tuo, accuse contro te non ci sono (ci son pregiudizi). Che tuhai rotto i pregiudizi, hai dato ai pregiudizi un colpo di spalla edhai liberato te alla vita ed un’altra creatura con te. Ma ecco chesotto i pregiudizi, se tu guardi, ci sono mill’anni, e mill’anni son piùdi te che sei nato da un giorno. Ecco sì che le grettezze ti soffoca-no, ma hanno per secoli irreggimentata la vita e se han fatto sof-frire, se han causato dolore, pensi tu che si viva e si cresca senzadolore e tristezze come se l’azione morale non fosse imposta, dap-pertutto forzata e costretta? (E non è in ogni caso costrizione di tecontro te? E la pensi tu forse gioiosa e facile a farsi?) Ti sei con-cesso di romper le regole e gli usi come se fossero inutili ceppi; masono argini al fiume, sono sapienza ed esperienza e se tu le neghie t’appelli di colpo alla legge ed alla coscienza più fonda neghi latradizione con ciò, distruggi la sicurezza, l’umana fede di tutticostoro che sono gli onesti e che lavorano giorno per giornopazienti, (non rompono, non scattano) e ti puntellano il mondo. LaLegge9 e l’Universale, sì, sono; ma perché non t’imbranchi allora turisoluto con questo tuo amico dalla nera cravatta che ti predica adogni canto come le cose dovrebbero essere, nel «dovere dell’esse-re»? Perché tu dunque non approvi l’adultero od ancora non diciche il fine giustifica i mezzi? La legge tua vera non è quella fondae troppo al di là della vita, ma questa e quell’altra che vedi e chechiami grettezza; legge sancita di comma di codice e legge venera-ta d’usanze». – E quando ebbe un giorno detto al prete dei bimbi(era salito da lui cinque minuti una sera, corrucciato e pallido inviso come uno che va ad accusarsi ad un giudice ed era, subitodopo, in vergogna, venuto via per la scala precipitosa), ch’era dis-posto da parte sua quando egli consigliasse e credesse a far il suodovere intero (ed il buon vecchio gli aveva detto: «E va dunque adirlo anche tu a quella povera figliuola che è in pena!» ed egli eraandato – era pallida, non la vide bene, era sdraiata in una camerachiusa e si faceva notte; – anche lì era rimasto cinque minuti solied aveva detto senz’anima ch’era disposto a fare quando che sia ilsuo dovere); gli parve ancora che ciò fosse inutile e che fosse din-nanzi agli uomini la perpetuazione del peccato suo, che fosseun’offesa nuova alla composta vita d’intorno. «E cosa vuoi aggiu-stare?» si diceva duro. «Hai peccato, non c’è rimedio». Il cuginovenuto da Genova per l’affar del processo (quello stesso che l’ave-va consigliato l’anno avanti, a disbrigarsi di lì), gli aveva fatto que-

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sto discorso rapido senza né rimbrotti né stupori: «Non hai cheuna cosa da fare. Rifar fortuna; toglierti dalla vergogna e di qui,mostrar alla gente e a tua madre che vali qualcosa. Vieni con me».Togliersi dalla vergogna e rifar fortuna. Scordare in altri termini efar scordare ogni cosa; pigliare una moglie ricca, mettersi negliaffari ad accumular guadagno. Questo pure egli giustificava; questoanche era nel borghesismo delle millenarie usanze e se qui nonc’entrava di morale, né la legge che è fonda né quest’altra che vedi,qui pure si sentiva la sapienza e la vita. «Almeno le apparenze sal-vare!» gli aveva fatto dire sua madre (se n’era andata una mattinaper tempo senza avvisarlo, s’era levata di letto forse malconciaancora e s’era, come fuggendolo, e fuggendo la vergogna, fattaportare ad un paese in collina in casa d’un vecchio parente. «E per-ché dunque?» aveva egli chiesto alla servente come lo seppe.«Vostro zio sta male». «Zio Battista sta male?» l’amava. «Molto?».«Dicono». «Vado allora anch’io!» «Farete meglio di no»). Almeno leapparenze. Sì le apparenze e il guadagno. E tu dirai che la cosa,così, ti ripugna e che il wagneriano ha ragione e che questa gentenon vive e che è come un sepolcro pien di marenghi. Ma «questagente» ha faticato tre secoli per fare a te che la odii una casa efasciarti tutt’intorno di comodo perché tu possa distillare in pacelo spirito. Ha accumulato marenghi, ed ha accumulato con sforzo,con ascesi paziente nei tuoi nervi la vita e la capacità d’altro sfor-zo. Onde sboccia in te come spirito (se pur sboccia! o non sei tuneghittoso e degenere?) il suo ordinato tendere e la dura fatica. El’apparenza, il decoro delle apparenze che tu dici falso e deridi(certo che è facile riderne), vedi bene che sa d’eroismo. Tu parli difarisei e d’ipocriti; ed io ti dico che costoro son pigliati nella mac-china torbida e sporca della vita animale (e bisogna pur che qual-cuno la viva, bisogna pur che qualcuno baratti dell’olio e lo mesco-li, o giochi in borsa all’alzo ed al basso, se tu sei intento, come devi,solo al tuo libro), ed io ti dico che costoro si traggon come posso-no, si strappano eroici dal torbido. E la meccanicità rigida e vuotadelle apparenze morali, che «salvano» (si estendon, s’allargano sututta la vita loro pian piano per un processo psicologico chiaro),testimonia della loro istintiva buona coscienza. Un fariseo, un«borghese», come tu dici, è un uomo costretto alle brutture dal-l’andar della vita e che, come può, sacrifica al buono. Guarda benee sotto il vuoto, compassato e scheletrito, della educazione pro-

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vinciale e borghese, questo ci trovi. – Sì, le apparenze e il guada-gno. Ed egli capiva ottimamente sua madre. Sua madre. Sua madreera la sua famiglia, era la discendenza ab antico della sua onoratafamiglia: dei nonni gentiluomini e podestà, gente di bene ed one-sta, che gli parlava che si faceva valere. Tu sei cresciuto su pog-giandoti a te (credi d’aver poggiato solo su te), sei cresciuto con latua ragione per guida, con la tua coscienza ben chiara, col tuo vole-re nato con te e fra gli altri ben netto; sei un uomo in un nuovomondo e pensi che le tue azioni cominciano in te e vi finiscono. Tisei allevato con questo pensiero come una bandiera dinnanzi; chetu devi a te solo dar conto di ciò che tu fai; che hai la coscienza, eche dentro ci spazia il tuo dio. – Ma tua madre è per contro a te ildiritto della morta-vivente tua razza antica e ti dice che sei tuo, sì,ma anche non tuo; che così i tuoi vecchi hanno operato e cosìhanno duramente voluto, che ci sono nell’anima tua i solchi delleabitudini loro a mostrarlo e che se tu li rompi essi ne soffrono inte. E che se la tua casa si dirocca improvvisa tu devi innalzarla dinuovo com’essi hanno fatto perché la memoria loro e il decoronon muoia, e che se le passioni ti diroccano dentro la macchinasalda del cuore che ti han tramandato, ti devi far forza e rifarti. Latua strada è segnata: tu hai qualcosa di delicato e geloso da perpe-tuare nel paese tuo: hai l’anima della famiglia tua da conservareferma e com’è. Lascia le rivoluzioni e le avventure, lascia il nuovoe l’incerto agli uomini che non hanno una storia, che tu hai vivad-dio una tradizione e una storia. Fatti forza, soffoca dentro le maleerbe dei sentimenti molli e più tuoi che tu non sei tuo del tutto eciò che non è tuo in te è più largo di te e più sacro di te. – Noneran queste le parole di sua madre: non era riuscito a sentirne lavoce da quindici giorni e se gli avesse parlato non gli avrebbe detto,certo, cose troppo sottili e profonde. Ma questo ne era bene il pen-siero, questo il sentire. «Perché ti sei permesso l’arbitrio di unaazione fuor di quello, dunque, che tu eri in diritto di fare, fuor diquello che nessuno dei tuoi vecchi avrebbe mai fatto? Tu copritutti noi di vergogna e la tua vita non era libera, non era a te».

Capiva tutto ciò bene: oh se lo capiva bene! Andava al di làanche di quel che avrebber saputo obiettargli tutti costoro d’intor-no che l’accusavano. Avrebbe fornito loro ragioni, avrebbe messoinsieme bene e con logica le loro ragioni (tutti avevan contro di luiragione; esclusi i vili e gli sciocchi); tant’era convinto di essere in

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colpa. Ma era questo appunto il suo più fisso pensiero, ch’egli erain colpa, che aveva peccato e che non c’era rimedio.

La madre tornò tre giorni dopo, una sera dopo cena ch’era giànotte. Sentì ch’era lei, – si era fermata una carrozza alla porta – ele mosse per le vuote stanze incontro. «Mamma» le disse con umilevoce. C’era la servente lì dietro col lume alzato su nel vano dellasala grande, a far chiaro. La madre era in nero, vestita all’antica difrusciante seta e la veletta di pizzo intorno al viso sul capo. Gliparve pallida enormemente e più magra. Si fermò innanzi a luinella mezz’ombra sonora, ritta a due passi. Parve esitare. Dissecalma (fredda) «Tuo zio Battista è morto». «Morto lo zio!... E per-ché non mi avete chiamato». «La notte passata quasi improvviso,che non lo avremmo creduto». «Morto lo zio!» allargava gli occhi,ripeteva rauco lento. La madre continuò: «Ed ha parlato di te inultimo». Diceva senza accento con la sua voce usuale «...che avreb-be voluto parlarti prima di andarsene; che, io riferisco, che questosolo gli rincresceva, di non poterti parlare prima d’andarsene. Dilasciarti senza consiglio in questa vergogna. Che non avrebbecreduto tu finissi così, né di vedere prima di morire di queste ver-gogne, di queste rovine... Lo interrano domani, son tornata perchénon mi reggo più». Si mosse zitta e la servente col chiaro. Lolasciarono nel vuoto buio, col capo sul petto, in piedi, le braccia giùmorte, stordito.

Corse il domattina al villaggio; non chiese, salì al cimitero edera già chiuso. Fan per tempo i mortori in campagna. Di là dal can-cello vide sul marmo della tomba di casa fra i due cipressi, dei fioridi campo, del fogliame verde di palma e dei nastri. Aveva il grop-po alla gola. Come se lo scacciassero, come se lo rifiutassero.Anche di qui, anche da un morto. E tornò giù lento per la via deicolli solo, traverso il bosco d’olivi contorto-cinereo, verso il paese.

Fu di qui che la rivolta, qualcosa di duro e di fermo cominciò,si levò improvvisa dentro lui. Come se avesse detto d’un tratto che«basta». Parlava fra sé come se l’avesse dinnanzi, vecchio patriarcasaggio nelle cose dei campi ed in quelle men composte della vitadegli uomini (ma rideva lui col suo viso bronzato, buono e rugo-so, ed il biancore aperto della rude camicia sul petto robusto; ride-va a contar arguto alla veglia con intorno gli amici, cronache e frot-tole dei tempi passati). «No, zio. E tu eri così uomo e sano così, inmezzo alle tue viti e agli olivi, che avresti, se t’avessi spiegato, capi-

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to». Quando la mamma gli aveva detto cruda, improvvisa, la sera:«È morto» gli era passato dentro vago pauroso un pensiero. Comese ciò, questa morte, dall’oscuro da chi sa dove nel buio, venisseancora feroce a punirlo. Come se Dio (ed anche quando trepidan-do aveva aperta, il giorno ch’era arrivata la gialla busta con la sen-tenza dentro su carta bollata solenne del processo fallito, quasi luisolo ne fosse la colpa – qualcosa di ciò aveva pure sentito), comese l’Iddio scordato gli si fosse levato in vendetta di contro, dalbuio, a punirlo. Ma ora «No, non è la vergogna ciò». E se mi cal-pestate così e se mi riducete così e se pensate d’avermi annientatocosì (aveva agli orecchi un’atroce parola che gli avevan riferita diun tale in un crocchio) e allora io mi levo. Mi avete tolto i beni dimio padre che erano miei sacrosanti; non mi salutate più e vi tor-cete se io passo per via; ghignate dietro me segnandomi a dito e miavete infangato al livello e più giù dei vostri giovani frusta-postri-bolo, ed allora io mi levo. Mia madre mi sprezza e mi sfugge, pal-lida; l’unico dei miei, qui, che io venerassi ed amassi, mi muore emi crede un «vigliacco» tutt’a colpo impazzito; la famiglia, l’onoree il rispetto a cui avevo diritto ecco che mi sono crollati... ed allo-ra io mi levo. Perché se non avrò più nulla d’intorno, perché sem’avrete d’un tratto strappato, m’avrete avvilito e nudato ed alloraio, qui, resto che sono un uomo: riman la mia forza viva che nons’è mica mutata; io rimango, ritto e fermo (come la mia ragione ela mia coscienza quando la fede mi cadde), contro l’affetto perdu-to, la tradizione che ho rotta ed il rispetto e l’onore vostro negato.

Come una scintillazione di rapida vita gli esultò d’un trattoebbra pel corpo. Gli si dilatò l’anima dentro con impeto com’eragiunto al vertice del colle e gli ulivi ad ondate grigie, si stendevansotto di lui ampi fino al mucchio, lungi, rotto-colorato della cittàcontro il mare. Si sentì rude e reale sulla salda ampiezza della terradintorno (sentì l’elementarità eterna e la bellezza e la incancellabi-le forza della terra viva e del cielo); si sentì partecipe della sanitàvigorosa, della sicura quiete delle brute cose viventi, respirò largol’aria, palpò, strinse con la mano un tronco ruvido torto d’ulivo,batté coi piedi i ciotoli duri come a sentire ad affermare che era,che lui e le cose, lui e la vita erano e forti (eran nell’essenza senzamutamenti), che la sua umanità viva, pulsava e voleva. E come, piùqueto, cominciò per ricostruirsi per rifarsi, a pensare, a questoancora tornò che aveva sì peccato e che non c’era rimedio. Che

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s’era, sì, peccando permesso un arbitrio (aveva rotta l’onesta tradi-zione della sua famiglia; ne aveva guasto l’onore; danneggiato ognicosa e se stesso), giacché la sua vita non era a lui intera, era comegiù radicata nella vita degli altri, non era né d’oggi, né libera. Mapensò che la vita di nessuno è libera al mondo, che ciò che sta die-tro di noi ci comanda e la nostra azione s’intreccia con le milleazioni degli altri, dei vivi e dei morti. Che la vita di nessuno non èné d’oggi né libera; che tu sei lì tenuto pel corpo e per l’anima aciò che già è stato. Tu hai degli impegni; tu hai dei doveri; tu sei lìtenuto e per la coscienza legato; tu sei lì attento in vedetta perchéciò che è già stato e ti lega, non muti. E se qualcosa del tuo parti-colare intreccio morale ti sfugge ecco che pecchi: ecco che pecchi,se sei disattento; tu sei in vedetta, tu devi volere cosciente con mil-l’occhi a te d’intorno intentissimo e se tu non vedi e se tu per untratto, inattivo ti scordi, non vuoi, ecco nella macchina tua comeun urto il peccato! (Il peccato è quando tu per un tratto ti scordi edinattivamente non vuoi10, come la colpa ed il caos irrompessero sud’un colpo veementi nel forzato ordine delle morali tue cose). – Tudevi esser vigile affinché ciò ch’è già stato non muti11. Ma ecco chese tu operi muti; tu non ti muovi senza che qualcosa in te, intornoa te non si muti; tu vivi, ed accresci e rimuti, accrescendo e mutan-do. Vedi dunque come per i delicati ed i timidi sia dolorosa l’azio-ne. Perché vi sentono accanto il peccato; perché se operi, strappi,perché se operi rompi: opera e tu rompi la legge e il passato che hadeciso, che decide sempre di sé d’esser la legge. (E questo è lo sfor-zo, qui la lacerazione e lo sforzo e il dolore: a scindere dal Passatola Legge, a fissar la Legge qual sia nel molto passato).

Or ecco che se tu vivi accresci e rimuti, tu operi e quando tu haioperato ecco che l’opera tua non è secondo il passato o secondola legge: è peccato. Credi tu di poter vivere senza peccato? «Chi fafalla e sol chi non fa, fa male»: tu t’aumenti, tu t’accresci di peccatoogni giorno (ogni istante) e procedi. Ed ecco che ogni azione tuaè peccato; ecco che il peccato ti penetra, ecco tutt’intorno a te, nel-l’anima tua, in tutto l’intreccio dolente della tua vita, il Peccato.Ecco che il tuo passato è tutto quanto peccato! Ecco che tu sei le-gato al passato e secondo questo e la composizione sua per dove-re tu operi (tu devi operare); ma ecco dunque che tu operi secon-do il comando e la legge del tuo passato peccato. Intendimi bene.Tu non eri libero d’un atto arbitrario perché la tua vita, sì, non era

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né d’oggi, né tua. Ma ora che l’arbitrio s’è dentro infiltrato (e comesubdolo! e come necessario e come a poco a poco, senza che tusapessi e vedessi! E convinciti dunque, che tu non sei nemmenodel tuo formale volere padrone, e che la vita, lei ti costringe, lei ticonduce, lei inaspettata ti strappa d’un tratto, ecco che senza tusappia t’ha strappato al passato!) or che l’arbitrio s’è dentro infil-trato nella compagine del vivere tuo, ecco che anch’esso ti lega,ecco che tu sei libero anche meno di prima e tuo ancor meno.

E vuoi tu ora espeller da te il peccato come uno straniero daltempio o come qualcosa di nemico, d’eterogeneo, di diverso da te?Ma è, senza rimedio, è compiuto, in te! ma è te, ma è l’azione tuache ha determinato in modo nuovo te ed intorno a te il tuomondo! Dovrai secondo quello, ora, operare; dovrà esso, ora, nellavita incitarti; tu non sei più quel di prima e se ti sforzassi di tornar(non potresti!) allo stato di prima, qui sarebbe il mostruoso e quidi nuovo (strappo, bestemmia, diabolico caos), il peccato, vera-mente il peccato. – E vuoi tu peccare volendo! Guarda fondo enon puoi. Certo che se tu vuoi ecco che più non pecchi. E guardain fondo a cos’è il tuo volere. Non puoi tu ora tornare indietro epeccare (volendo). Ecco che tu pecchi se per un istante non vuoi;ecco che le cose ti conducono esse con terribile, con invincibileforza, non volente ed insciente al peccato. Tu scorderai la tualegge12 o volendo seguirla, secondo un’antica parola, tu incapperainel contrario. Ecco che tu peccherai; tu lagrimerai in avvenire dinuovo per avere peccato. Tu fa ogni giorno secondo il tuo oriz-zonte di un giorno, sveglio alle tue cose immediate; fa rassegnatoed attento più puoi, che pur peccherai e senza rimedio13. – Mettinelle tue cose dell’ordine e procedi ora al di là della tua azione-pec-cato, in te assorbendo, fecondando te stesso (e la vita) del peccatocommesso.

Tornò non più pallido, non più a dire che avrebbe fatto quan-do si volesse, il suo dovere (dovere sì, ma non più come rifaci-mento od estrinseca pena. Il prete dei bimbi l’aveva di nuovo presoun giorno a braccio per via, e condotto in casa sua a contargli, afargli capire, come sub conditione ogni cosa fosse assolta; come ilvescovo gli avesse data facoltà di accomodare ogni cosa. E che«quella povera creatura» per questo lato, sì, poteva ora esser queta.Ma ch’era pur necessario, che lo consigliava come amico, a fareanche lui insomma la sua brava confessione, a togliersi dalla

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coscienza il mal peso, ad aggiustar, ch’era facile, i suoi conti conDio. Aggiustò dunque per non turbare il buon vecchio, i suoi conticon Dio: si confessò. Ma si sentiva bene che Dio non c’entrava qui,che questa era tutta una ben umana storia; storia dolorosa di coseumane. Non c’entrava la religione qui se non indiretta: i fatti avreb-ber potuto essere altri ed in altro luogo senza che se ne mutassel’essenza. Il dramma era tra lui e gli uomini, tra di lui contro gliuomini e le leggi loro brevi; la legge fonda di Dio, no, non eratocca. «Dovere» sì, ma come fuso dentro di sé con se stesso, comenuovo-sbocciato dal suo intimo vivere) e tornò a dirlo ma più deci-so e lieto quasi, e più umano. Ella si rinfrancò, si riprese, si fece apoco a poco di timida gioiosa, di guasta e malata, giovane e comeprima vivace, (come rapidamente si svestì del passato!) Come mu-tò! quasi avresti detto che non aveva a mutare – che fosse tutta fre-sca tutta piena dei suoi diciotto anni a Palermo quando avevaascoltato in teatro la Carmen e studiato in Conservatorio la musica;che l’avesser di poi, come avviene, rinchiusa ed ora ad un tratto co-me a primavera uscisse sciamando a ripigliare a godere la sua gio-vane vita. Un giorno che arrivò (era in rifugio sempre ai Poggi, su,in casa la sorella del santo), la udì di giù dalla strada cantare che unrumore di macchina cucirina si mescolava zirlando monotono erapido alla limpidità della voce pel deserto della piccola aia soleg-giata. Salì: stava cucendo intenta, il capo chino (cucendo, il suocorredo!) la nuca nuda (gli dava la schiena, non s’era accorta di lui)sotto la capigliatura abbondante castana e il corpo e le spalle benmodellati nel gaio colore e leggero della camicetta stretta alla sot-tile cintura. Cantava curva forzando col piede, le mani intente stesea guidare a piegare tra il bianco arruffio della scorrente tela nel pic-chiettio della macchina. (Questo lo meravigliava che si fosse rifattadonna, che si fosse rifatta così scioltamente e rapida). Cantava «OLola bianca ch’hai di latti la camisa»14. Un riso gli salì su dal cuore ecome una corporale allegrezza: «O dove dunque hai imparato que-sto? anche questo con la Carmen a teatro?» «Tu!» Si scosse, spinsela sedia, s’alzò pronta all’incontro e ridente. (Era bella, sì ch’erabella; e gli occhi grandi ora, fra le due bande scure giù dei capelli ela bocca rossa, ed il colmo seno e anelante e giù la grazia svelta edelicata del corpo ed il gioco agile delle ginocchia nella stretta(scura) gonna... Come senza impacci di colpo aveva saputo abbi-gliarsi! ed aveva essa stessa fatte, cucite queste sue cose? La cami-

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cetta e la gonna? Ecco ch’era curioso ora di ciò e la cercava su, giùcon rapida meraviglia guardando). «C’è di là sulla vecchia spinettadi zia Teresa un mucchio di questa musica nuova. Vieni. D’estatec’è qui sempre una nipote del tuo prete dei bimbi, che, dicono,suona». Ma ora invece suonava lei e la sua voce nella queta casatutta bianca di calce fra l’orto e gli ulivi da un lato giù fino al mareper la valletta scoscesa, e di qui entrando, il selciato netto dell’aia ele rustiche viuzze al paese. Casa tutta piena di un buon odore dimele e di un certo comodo agio campagnuolo, tutta chiara di sole,buona e ospitale con questa vecchia e linda e materna di «ziaTeresa» ad accoglierti sulla scala, lieta, come a dirti: «Entra ch’ètuo». Stavan dell’ore in una saletta sull’orto, tutta vecchia di stam-pe, di specchi annebbiati opachi di tempo nella cornice di oroscrostato, tutta fiori finti, polverosi, di carta, negli angoli e sbiadi-ti sofà, lei sullo sgabello ritta a scorrer tratto tratto parlando latastiera gialla d’avorio, lui molle-appoggiato, col gomito all’un latodella bassa lucente spinetta, la guancia alla palma inclinato adascoltare avido (chiacchierava così vagabonda ed allegra! E così dabambina!) ed a guardarla. «Ed ecco che questo è l’amore». Quandola lasciava sul tardi e veniva giù per il biancor della strada (ulivi evigne dall’un lato e dall’altro) nella pungente freschezza della seragià innanzi «ecco che questo è l’amore» si diceva arrossendo equalcosa come un rimprovero amaro o come una vergogna pudicagli saliva su dall’accoramento riflesso dell’anima che ripigliavadura, come scotendosi, a meditare il peccato e gli affari. Ecco chequesto è l’amore, l’ingenuo amore di cui ti ridevi e che non crede-vi possibile in te. E che arzigogoli dunque di dovere imposto difuori o di dovere nato di dentro ed umano. Questa è una storia d’a-more che tu hai annebbiata di musica prima, e poi di religiosepaure e poi d’avventura romantica e di moralità disperata. Tuttocodesto subbuglio, tutta codesta rovina, e tua madre ammalata e lacittà nello scandalo, è per un amore di femmina come avviene adiciott’anni per tutti. Ma tu a diciott’anni leggevi i mistici e dispu-tavi accanito sui dogmi ed ecco che aspetti ora sui ventisei a far lepazzie. Abbi coraggio e confessa (o l’amore era insieme cresciuto,si era sovrapposto e intrecciato a tutto l’altro d’intorno ch’era diper sé, preso volta a volta, indifferente ed onesto? Ma come puoitu districare l’aggroviglio del tuo vivo sentire e la vita? Ecco che tuvivi e non sai, ecco che dentro come un ricco terreno il cuore

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fecondo ti germina). Ma s’umiliava, ma questo volere suo sperdu-to in balìa della passione e del caso, lo faceva arrossire e dentro disé, abbattuto gemere. Egli avrebbe potuto, si diceva, a questo talpunto rompere tutto; e perché non aveva, risoluto, parlato al pretedei bimbi? E perché era andato in chiesa al convegno? E perchéaveva scalato (la «notte») il muro dell’orto? E perché aveva ondeg-giato così quando ella parlò (aveva gridato «mamma, mia mamma!»e s’era abbandonata in singhiozzi contro la spalliera odorosa). Eperché questi impeti, questo intenerirsi, questo tumulto d’amore,questa incosciente raffica, questo esaltamento senza freno improv-viso in lui che si credeva padrone di sé? (Ma questo era appunto ilpeccato: questo, senza che tu sappia, impeto di raffica in te). Ecome, se tu guardi, come compatte una dietro all’altra determina-te le cose si seguono! E chi poteva pensare quel meriggio lontanodi giugno? E lei e lei? forse ch’egli aveva cercato l’amore di lei?L’aveva costretta ad amarlo? E l’amore di lei? Volevi anche questoarrestare, volevi anche questo calcare e disperdere come il sognaretuo molle? Non ha anch’ella commesso peccato per te? Non s’èdibattuta e contorta, non s’è angosciata nell’anima anch’ella per te?Non ha sofferto, non ha disperato, non ha lottato impotente pre-gando? Ed ora ecco che questo è l’amore.

Gli restò dentro una rassegnazione umile (un po’ corrucciata)come di chi abbia ora improvvisamente coscienza della debolezzasua, come sentendosi fragile uomo in un mondo di uomini fragili,dopo aver sognato asceticamente la forza e il dominio di sé. Mainsomma che questo era amore e del più schietto ed umano. Ellaera una donna ed egli un giovane e fermo. Certo che le misticità ele platonicherie, le ambiguità sentimentali e malate gli sarebberoparse sciocchezze e sì veramente inutilità di peccato. Giacchéaveva incontrata una donna, era contento d’amarla con semplicitàschiettamente ed umanamente così. Come gl’ingenui amatori di cuis’era riso, come gli uomini semplici e sani. Con trepidazioni, congioie improvvise; con un senso di padronanza maschile, con infan-tili gelosie e corrucci. Sentì qui l’acre sottile puntura della gelosia,nel sorriso e questo gioco vario leggero nell’ansia, questa giovi-nezza viva, fresca e leggera dell’amare una donna che è donna. Eti sfugge e si mostra, e si dà e si riprende ed è vagula e varia e t’amae non t’ama e dice e disdice ed è tutta con te ed ora fantastica,vagabonda sognando ed è sua, di sé, o ti par (trepidi) d’altri.

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T’obbliga a muovere, ti fa esser giovane, ti rompe dentro l’aridumee le croste, non ti lascia nella sonnolenza composta quetare. E setu pensi precede, e se tu t’arresti t’incita, e se tu senti ha sentito, haintuito rapida e fonda; è innanzi a te gaia, è intorno a te giovine, ècome un lavacro di riso e di vita.

Maravigliava, s’apriva, tuttociò era nuovo, tuttociò era ignoto; eda lei! da lei a cui aveva creduto di dovere insegnare la vita.Tuttociò d’un tratto da lei di cui, così un giorno pensando si eradetto: «ora sarà curioso per te, l’educarla e vederla pian piano ches’apre». L’aveva lasciata in chiesa col saio ed il cordon dei tre votialla cinta, la ritrovava qui d’improvviso a cantar Lola bianca ed afargli ridendo l’abile gioco della gelosia. Lo scopriva lei a se stesso;gli traeva fuori, lei, con tocchi e punture dall’anima ciò che non sa-peva ci fosse; lo faceva uomo lei sorridendo leggera. E s’era egliforse prima d’allora saputo capace d’amare; si conosceva egli forseuomo con umane passioni? Un giorno che entrato in paese gli ven-nero incontro (l’uno piccolino e tozzo, l’altro alto largo e diritto) escantonarono via salutando abbassati gli occhi Carrú l’avvocato edun bellimbusto elegante impiegato di banca, corse su senza fiato ele chiese «hai visto qui giù, quei due?» «Chi due?» «Quei due!» «Già,vengono a pigliare il fresco sulla panca nell’aia». «Vengono?... altrevolte?» «Sì altre volte. Salutano. Se sono alla finestra, naturalmen-te, saluto». «Saluti!» «Ma sì». «Senti, quei due...» Ma non intendevaragione, rideva. E poi volubile: «Ci viene anche il maestro delluogo. Un bel giovane. La sera». «La sera! il maestro del luogo! Eche dice?» «Niente. Resta giù queto. Dice qualche volta che iltempo è buono e guarda su. L’altro ieri che c’era la zia Teresa ederavamo tutte e due sedute sul terrazzino a guardare, chiese se nonleggo e che voleva imprestarmi un romanzo. Gli dissi di sì, e chelo mandasse». «Ed ha mandato... il romanzo?» «Ha mandato. È unafaccenda di Barrili15. È lì». Stava difatti il libro, su d’un tavolo, gial-lo disteso. «E l’hai letto?» «Caro, ho il corredo da fare». «C’è den-tro certo la dichiarazione scritta» rise forzato, voglioso di stenderla mano a prenderlo, comprimendo il battito dentro. E l’altra mali-ziosa: «No, ci ho guardato. La dichiarazione non c’è. Chissà chenon venga più tardi». Si fece serio, pensò: «È giusto che si com-piaccia di ciò. È come un omaggio che il mondo gli fa16. Rico-noscon dunque che è una donna, che è viva. Quei due son poltro-ni senza cervello e costui, il maestro, legge Barrili e chissà che

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cos’altro. Cercano qui l’avventura e chissà cosa sognano. Mainsomma che senza volere riconoscon che è viva e gli rendonoomaggio». Anch’ella si fece seria d’un tratto: «E t’importa davverodi quei due scimuniti in scarpine e colletto e del maestro delluogo?» Non gl’importava, non gl’importavano affatto; ma quandodue giorni dopo, di nuovo all’entrar nel villaggio quell’altro e Carrúgli passarono accanto, non rispose al saluto; strinse nel pugno ilbastone, di botto si fermò a guardarli fisso e gli scintillarononell’impeto improvviso gli occhi («ti scintillano a volte gli occhi; tifiammeggiano, bruciano quando t’arrabbi gli occhi, e sì, che sem-bri un demone bello allora, e mi metti paura e mi piaci». – Avevasaputo egli mai che gli occhi nell’ira gli bruciassero e che paresse avolte un «demone bello»? E che i suoi occhi fossero buoni, dabimbo? «I tuoi occhi se sono queti son chiari e di bimbo. Hai lepalpebre e tutt’intorno il viso fresco e composto di chi non haancora peccato ed è ingenuo». «E che ne sai tu? Dove hai impara-to tu ciò?» «So»). Quelli capirono e non tornarono più.

Ma ecco che a lui ripensandoci, questo bastone impugnato equest’impeto e questo pronto balzo e questo scatto che aveva unattimo sentito in sé dentro, che s’essi avessero riso o gli avesserodetta una parola sguaiata od un atto solo avessero fatto si sarebbegettato innanzi perduto e l’avrebbe, sì, stretti alla gola con la manoadunca e percossi, questo inumano rantolo che gli si era strozzatosibilante un attimo dentro, gli parve nuovo in lui, una nascostabestialità che violenta gorgogliando affiorava. «Tu non sapevi diciò. Ecco qui dunque che cosa ancora c’è in te. Tu ti credevi uncivile, avevi ripugnanza per i fatti di cronaca, non capivi la bestia-lità negli uomini, vivevi una tua composta vita di pace come se tuavessi quetamente attinto ad una tua morale età dell’oro ma eccoqui d’improvviso... E se questa donna ti tradisse ora? Poni che titradisse». – Sentiva bene ch’ella s’era come fusa con lui, erano rina-ti insieme; era tutta a lui, tutta avida di lui, curiosa infantilmente dilui (e del suo corpo. Gli diede il senso d’avere, sì, un corpo, sensodella concreta spiritualità del suo corpo. Egli tutt’intento al di fuoridi sé, tutto assorto nell’immateriale vagare dell’idea e dell’imagine,trascurato dunque di sé, dovette sottostare a mutarsi come ellavoleva. Gl’impose di mutarsi così e così, di rasarsi così e così, diguardarsi nello specchio: «Ma a cosa mai dunque mi servirà ciò?Ciò è ridicolo» chiedeva irritato. «Serve nel caso tuo. Tu stai nelle

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nubi troppo, ed io ti tiro giù un poco». – Si guardò, si mutò, sentìd’avere un corpo ed ancora di essere «uomo» quand’ella finalmen-te gli disse: «Ora sì, sei più maschio; sei maschio»). Lo amava sì. Seun giorno non saliva a trovarla la trovava il giorno dopo agitata.Voleva che le parlasse continuamente di sé, di ciò che aveva fattodi ciò che pensava di fare ed ella stessa amava parlargli di quand’e-ra fanciulla e di sua mamma e delle sue precoci tristezze di orfana.(Della vita in convento no; girava il discorso ed un giorno ch’egliinsistette, gli recitò con un mezzo sorriso un passo in spagnuolo diS. Teresa: «...sólo quedaba una memoria como cosa que se ha soña-do para dar pena...»17 «Tutte le grazie che mi aveva fatto il Signoreme le ero scordate (le ho ora scordate...) solo restava un lieve ricor-do come di cosa sognata per darmi dolore...» «...pareciéndome queyo no lo había sabido entender...» «parendomi che non l’ho sapu-to capire» – «Ma dunque rimpiangi?» «Como de cosa que se hasoñado...» Ed arrivò qualcuno improvviso che scosse il miosogno... qualcuno!») S’erano insieme disciolti dal sogno e quasipareva ch’ella ora assai meglio di lui sapesse le vie della nuova lorvita e fosse tutta penetrata del compito di guidare; ella, non lui. –Voleva che gli spiegasse dei suoi affari, voleva capire, voleva sape-re e decider con lui. Dovette contarle minutissimamente di tutto ilprocesso; contò, descrisse, imprecò ricordando e finì dicendo:«Meglio così; si abbiano denaro e ogni cosa di cui sono ingordi. Mitolgono un peso, mi rifarò da me, sarò più libero e mio. L’avvocatom’ha detto che si può ancora forse ricorrere in Cassazione. Niente:m’infischio di loro e dei beni. Niente: si tengano i beni giacchédicono ch’io ne sono indegno e lascino me a me stesso». Ma lei chescuoteva il capo, chiese che cosa fosse davvero questa «cassazio-ne». «Oh! questo almeno non sai!» e spiegò sorridendo cos’era. Edecco l’altra a ripigliarsi, – egli stupiva. Giorni prima avevan fattoinsieme l’uno coll’altro il sogno di ritirarsi su al podere d’ulivi incima alla valle e di viversi la loro vita queti, lui a girar per i colli, ilfucile a tracolla ed in tasca un libro, lei in casa a far la massaia. Ec’era una terrazza lassù e ci si arrampicavano le viti ed a sera erabello sentir, alla frescura, insieme, il zirlo cantante dei grilli empirela valle. E non c’era un rumore e tutto era queto e tutto era buonoed amico. – Ecco l’altra a ripigliarsi col dire: «Tu devi. Questo nonè giusto che tu rompa con gli uomini del tutto così e che tu nonsia più del tutto della famiglia tua e la scordi. Anch’io ho dato uno

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strappo. Ma mi son messa in regola. Credi che sarei serena cosìora, se non mi fossi rimessa in regola anche con gli usi oltre checon la mia coscienza? Ho parlato un po’ più d’una volta col pretedei bimbi. Ed ho voluta una lettera... del vescovo. L’ho qui.Dovevo rompere forse? starmene col peccato e il rimorso in cor-ruccio fuor degli usi e di tutte le regole, contro gli usi e gli uominicome una disperata? Tu devi. Continua il tuo ufficio come prima...il tuo ufficio diritto. I beni sono i tuoi e di tua madre, devi difen-derti. Questo di abbandonarti sì è peccato: troppo volentieri ti riti-ri e ti metti in disparte. Ed io ti dico che se tu sei un uomo tu deviscuoterti e difenderti come si picchiano e difendono tutti questialtri d’intorno. E che se tu non lo fai io non ti vorrò più bene». Eglila guardava sempre, zitto stupito. «Tu devi». Fare come lei avevafatto, star nelle regole, mettersi in regola e non ritirarsi corruccia-to in disparte. Questa donna usciva di convento ad insegnargli lavita «Tu devi». – Ma aveva spesso di queste parole rapide in mezzoal chiacchierio lieto-vagante, frasi e parole (come se un pensiero alungo riflesso le sostenesse vivo), d’un tratto fonde a svegliarlo. Ecome un giorno le rimproverò d’aver scordato il suo Bach e la mu-sica vera per questa ch’ella diceva musica «nuova» le disse (nonaltro, – e tentava non so che della Carmen) «Ascolta anche tu. Tifarà bene». Ti farà bene? Come se dalla semplicità chiara del ritmodi danza, dalla sonora scioltezza della cantata melodia («Toreador» ela gaia scattante malizia di «e se tu non m’ami») gli dovesse passardentro un lavacro di spirituale freschezza, qualcosa d’infantile, dilieto e di sano come la limpidità soleggiata di un mondo visto conocchi ingenui. Come se convenisse anche qui farsi, fra uomini,uomo, ed ascoltare avendo lasciato un momento d’accanto una dif-ficile nobiltà tutta eroismi e severità raffinate e complesse: ascolta-re aperti e con anima uguale. Ascoltava, sì. La vecchia spinetta fattaalle gavotte ed ai minuetti pareva maravigliarsi e svegliarsi. Nelladebole tonalità del suo tarlato polveroso echeggiare, passavancome sforzando, come scotendo (come una festa improvvisa dibimbi irrompenti nel chiuso dormiente di una abbandonata dainfinito tempo casa di nonni), passavan cercandosi incerte, trovan-dosi a strappi cantando come il vivo d’un tratto sul vecchio, comeun saltellante ruscello sull’arso, le irruenti o le dolci, le accorate ole tenui, le febbrili e tumultuose umane passioni della musica che isemplici amano. Passione, passione, passione: l’ira e l’amore, la tor-

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tura e l’amore, la gelosia e l’amore, lo scherzare lieve e l’amore, l’a-more e il dolore, la melanconia dolce e la gioia chiassosa, la legge-rezza e la burla, la vendetta e l’inganno, e l’amore e l’amore e poisempre l’amore. (E senti dunque come in questa voce vive la carne,come dice, come dice, senti come dice e commuove, – lascia il tuocuore tremare, – lasciati via d’un tratto portare e commuovere –senti che forza reale di vita e che sentimentale umana passione!)Ascoltava. Fu qui che d’un tratto come per analogia la popolarescasentimentalità dei romanzi d’Hugo (i «miserabili» Jean Valjean eCosetta. La Esmeralda, la Sacchetta e l’immortale Quasimodo), glisi fece più prossima e chiara. Pensò ad Hugo che nella spinettacantava o la Manon di Massenet o la Bohème di Puccini18. Come seun mondo peuple e inferiore, tutto un mondo elementare di «cuore»di sentimento di leggenda e bontà (mondo rosso e sdolcinato),malfatto e volgare, mondo vago ed umano, torbido, fuor del dirit-to e con per gran legge il «Cuore» gli facesse d’un tratto per più latiimpeto dentro. «Lascia la diffidenza e gli aristocratici pudori. Quiti completi. Qui, questa donna ha trovato per te ciò che mancava,ti scopre dentro, aggiunge al tuo irreale pensare il calore ed il peso,la umanità della vita». Si sentiva più pieno; aveva aggiunto alle (ari-de) sue, tutte queste altre vivaci passioni; si sentiva più uomo,aveva scoperto in questa donna qui allato il suo necessario umanocompletamento.

Ma appunto per ciò, ripigliava (s’era detto «ecco ch’io l’amoviolento e più di me e più di tutto». S’era detto ancora «E cosam’importerebbero ora le cose più belle del mondo, di scrivere difare le cose più grandi e più belle senza questa donna, aridamentesenza l’amore di questa donna e solo?») ma appunto per ciò s’elladunque lo avesse tradito? Poni che mi tradisse, che non fosse piùa me. Cos’è dunque quest’impeto nuovo, questa rude animalità delpossesso in me, questo improvviso rugghio dentro, il giorno chemi parve qualcuno me la volesse rubare? Io ho sacrificato a leitutto; la rovina intorno a me per lei e l’angoscia; e s’ella d’un trat-to non fosse più a me, se questa cattiveria bizzarra, questa inco-sciente infantile caparbietà che senti in lei fra tutto l’altro – è unadonna! – inquieta dormire, rompesse fuori a ferirti: s’ella d’un trat-to come per un capriccio passato non t’amasse più? Cos’è dunquequesto gemito come di carne nel crampo del tetano, come unalacerazione di muscoli vivi? Ecco, sì, sei un uomo, ecco che hai

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conosciuta la gioia e conosci ora il dolore, qui, carnale degli uo-mini. Ecco il peccato t’ha aperta la giovane gioia e condannato allacerato dolore. Gioia e dolore a vicenda, carnale ed umano aggro-viglio.

Ma tuttociò l’umiliava, tuttociò gli prospettava dinnanzi la vitain tumulto caotico, gli rovinava, gli faceva franare le ben costruttecategorie con cui s’era ordinato e composto in passato il suomondo. L’umiliava. Si sentiva perché più ricco, impacciato, comese con pastoie e con lacci gli avessero dentro legate, tarpate nell’a-nima l’ali. Ecco che la tua intelligente nobiltà è contaminata erotta, che tu disperdi le tue forze ch’eran sacre alle più pure attivi-tà spirituali, ecco che tu gemi e ti affondi e ti sperdi e divaghi perle inutilità del tuo sensibile cuore. Dove, dove metterà capo questotuo divagare angosciato, a che servirà questa tua passione indecisae inattiva? Di sforzo, di volontà, di rinuncia e di concettuale chia-rezza si fa l’eternità dello spirito; e tu tumultui impreciso e tu bran-cichi e vagoli.

Scrisse precipitoso un giorno al cugino di Genova19 che, sì,accettava ora il suo vecchio consiglio. Si sarebbe buttato negli affa-ri; avrebbe rifatto accanito il processo; si sarebbe tolto di qui, dalsonno e dal sogno. Ad un vecchio, venerato, amico20 che chissàcome informato (era lontano) dell’avventura sua, gli scriveva(sconforto!) «So d’ogni cosa... Speravo almeno in te ed anche tuora... Grigiume ora intorno e desolazione» (come si parla ad unuomo finito; come si rimprovera uno che vigliaccamente s’im-branca nel volgare gregge! – Gregge e vigliaccheria dapertutto –come se l’ultima illusione fosse caduta e fatto torbido intorno ogniideale); rispose, sì, d’un tratto vigoroso ch’egli per suo conto nondisperava affatto, che gli pareva inutile fermarsi elegiaci a giudica-re del mondo, ch’egli voleva vivere, ch’egli non aveva perduto ilrispetto di sé, se aveva vissuto e dunque peccato; ch’egli non s’erasentito mai come ora pieno e vivace di così risoluta vita. –S’inorgogliva infatti, qualcosa di gagliardo tra di incoscientementeribelle e di duramente voluto pareva gli si irrobustisse nell’anima.Ecco ch’io sono un uomo fra gli uomini (ma vivo!) sono nel pec-cato come gli altri uomini e mi batto. Sono nel peccato, nella con-traddizione, nel dolore torbido e nella dibattuta angoscia. Ma homuscoli a sopportarla e mi batto. Ora veramente ho muscoli a so-stenere la vita; ora veramente la irrealtà vana e scontenta del mio

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cuore non fatto, combacia con la durezza rotta-reale della con-traddittoria vita: ecco ch’io son fatto concreto e mi batto. Questaè la realtà: questo aggroviglio immane. Non le gerarchie ch’ioimpongo e le distinzioni della logica chiara, ma questo peso e que-sto tumulto, questo farsi e disfarsi, questo gemere e rotare in undisordinato aritmetico ordine. Ordine sì. Ma è della contemplazio-ne. Se tu contempli assurgi forzando all’ordine; – ma ecco che aldi sotto di me contemplante vi è la congerie vasta, la inesausta con-flagrazione del particolare ed il contraddirsi. Dove io incerto mimuovo, dove io annaspo, dove io mi batto a trarmi su, a farmi lamia strada, rude. Dove io gemo, dove io soffro perché il contrad-dirsi è in me anzitutto e la congerie. (Dove io gemo ora sbigottitoe sbarrati gli occhi). – Qualcosa di orgoglioso e gagliardo era in lui.Come uno che d’improvviso s’affacci da un picco di monte e giùguati ansante l’intreccio scolpito profondo e il turgor dei torrentinelle valli in ruina e l’ispido nereggiare vasto, su, giù per gran gibbee gran cavi delle chiomate foreste, che piange e che grida e senteper gli agili muscoli agitarsi e bruciare la brama di giù precipitare etuffarsi, di vagabondare barbaro, ed alla sua non vista meta viastrappando, passare, così ora in lui. La vita dinnanzi, – la vita oradi colpo novissima terra scoperta – come una gran selva scom-posta (immergersi, risoluto tuffarsi, vagabondare chiusi i pugni auna meta! ) gran selva di forze, di passioni e di uomini come ti siaccavalla dinnanzi se tu leggi la Bibbia ed i drammi di Shakespeare.Dramma di milioni di scene senza aristoteliche leggi e senza gover-ni; uomini, anime scattanti dal buio improvvise a gettar ciascuna ilsuo grido; balenii, profondità rischiarate, impeto di cuori gonfi permalvagità di demoni o per inumana grandezza: ira, passione etumulto. Ira, passione, dolore ed umano tumulto, senza astrattezzadi legge morale o di composto pensiero a guidarle. S’inorgogliva,s’esaltava. Certo qualcosa di nuovo era cominciato in lui.

Ma a tratti, quando il ragionamento sulle «inutilità vaghe delcuore» gli tornava alla mente (una volta ad es. che il vecchio suoamico, – aveva ripigliato a scrivergli come scordando o come seniente fosse accaduto, come ignorando, ripigliato l’usato quetoconversare per lettera su cose di coltura obiettive, – una volta cheil vecchio amico, così, parlando d’un certo filosofo – secondo lasua riposata maniera, – e che sicurezza e che ordinata, misuratasensibilità egli aveva, come se non nell’astratto concetto ma nella

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sua stessa vivente sensibilità egli si fosse lentamente composto unmisurato sistema! – una volta per esempio che parlandogli di unfilosofo noto disse per definirlo che v’era in lui lo scrupolo dellaspiritualità fino alla sillaba: «senti che dà valore spirituale anche allasillaba») a tratti quando il sogno di compostezza passato, lo ripi-gliava e questo inutile tumulto questo pratico aggroviglio lo turba-va, era l’umiliazione ancora, era l’accorata rassegnazione ad inva-derlo. Egli ondeggiava fra questa abbondante tragico-gioiosa con-cezione del mondo come di uno scatenato torrente; tripudio vio-lento e barbarico dove la misura è fuor della misura come in unamusica dove la melodia ti nasca dal disaccordo cozzante (tripudiocarnascialesco e lottare con sguainate le armi a sentir le ferite, laconnaturata fiacchezza ed il sanguigno gioco dei muscoli), ondeg-giava fra questo esaltamento baccante ed un attento, preciso gover-no dell’anima, un quasi avaro sempre cosciente sforzo di ordine.Spiritualizzare fino alla sillaba, controllare ogni tuo atto, non dis-perdere nulla come se d’ogni cosa tu dovessi in giudizio dar conto:fabbricare fuscello a fuscello, economizzare dentro a te lentamentelo Spirito. Sottile congegno della coscienza tua, delicato cesello percui lavori e costruisci lo spirito. Rispetto minuto di te, rispetto dituttociò ch’è già stato, coscienza e scrupolo per la tradizione e loSpirito.

Or dunque ecco che il compito tuo è d’essere attento e conser-vare ogni cosa con scrupolo. Ma tu hai rotto, tu guardi con acco-rata elegia la sicurezza di chi sta con freno nella spiritual tradizio-ne fuor del tumulto, tu hai rotto come questa paranza che il mae-strale ha questa notte strappata dal porto e sballotta ora (c’è sulmolo nello spruzzo e nel vento la calca a guardarla), fuor delle tueaperte finestre sul mare giallastro bavoso21.

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I

Il limbo1 Il limbo: Nella polemica con Prezzolini, tesa a negare ogni idealistica cor-

rispondenza nel rapporto tra storia (prassi, effettualità, materia) e pensiero(spirito), Boine adotta un argomento anticrociano che sarà svolto, con altre epiù pertinenti e drammatiche implicazioni, in una lettera ad Alessandro Casati(per cui si veda la nota 14). Il nodo è costituito, in entrambi i casi, dalla evi-denza corporale del male. Si veda la lettera da Porto Maurizio del 3 aprile 1913:«Nel quale [determinismo incosciente], pel quale la società (in quanto società)si muove e rimescola. Brancola nella cecità naturale: vagola e geme e si torcein questo limbo dello spirito che è la Natura. […] Quando io avrò negato,come avviene realmente, nello spirito il corpo (ogni corpo), il corpo non saràperciò scomparso, né leviterà negli spazi. Quando avrò riconosciuto ch’io sonvivo nella veglia e pressoché morto od inerte nel sonno ed avrò liberata e rias-sunta nella forzata veglia l’anima mia fatta corpo nel sonno, non perciò miriuscirà di vincere a sera il torpore alle tempie e sugli occhi. Quand’io avròcontemplando sigillata ed attinta la universale coscienza, avrò in me, un atti-mo, fatto immanente lo spirito, non mi crederò ch’esso come tale praticamen-te permanga né in me né nei bestioni che ho intorno. Vi è nello spirito il peso,la bestialità, ed il sonno. Vi è la natural sonnolenza ed il limbo. Ma non mesco-liamo il limbo col paradiso, né la immanenza della civiltà con la immanenza delpensiero». (C I, 88), pp. 85-6. I testi della polemica Boine-Prezzolini sonoriportati in C I, pp. 201-50.

2 L’avventura…in paese: Il brusio, il «pettegolezzo comune», l’opinione pub-blica della città costituiscono una funzione narrativa e un interlocutore fittiziodavanti al quale il protagonista vaglia e approfondisce le ragioni del proprioagire. Da questo fondale mormorante e anonimo spicca di volta in volta unafisionomia definita (il paglietta, la madre, il prete dei bimbi), che replica le opzio-ni etiche e pragmatiche della comunità. La divaricazione dei punti di vista trala prospettiva dell’io e lo sguardo pubblico che sull’io si rifrange diviene, in talmodo, tensione dialogica strutturale intimamente connessa allo svolgimentodella trama narrativa. È stato infatti osservato che il «frequente passaggio dal-l’io all’egli non è solo una concessione di parola da parte del narratore», ma unespediente tecnico atto ad instaurare «una specie di discorso interlocutorio odialogico a due voci alternanti». Cfr. P. G. CONTI, Il “balbo narrare”. Strutture eforme della confessione: una modalità del genere “romanzo autobiografico”, in «SIT!»,Cahiers du séminaire d’italien dell’Università di Neuchâtel, n. 5, 1993, disponibiliin formato elettronico (http://www.unine.ch/italien/publications/SIT PUB.HTM).La comunicazione può assumere le forme mimetiche del discorso diretto,

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scorciato ed ellittico, come nell’episodio del “paglietta” (PE 31-2), o eleggereun mediatore privilegiato, come nelle parole della madre alla morte dello zioBattista («…che, io riferisco, che questo solo gli rincresceva, di non poterti parlare primad’andarsene. Di lasciarti senza consiglio in questa vergogna. Che non avrebbe credutotu finissi così, né di vedere prima di morire di queste vergogne, di queste rovi-ne…», PE 51). O, ancora, materializzarsi nella risentita presenza della città,come geometria urbana di vie, piazze, luoghi di ritrovo, e come pluralità inde-terminata: «Sentì come un sussurro spandersi intorno per le piazze e le vie dellacittà e le case; vide i mill’occhi su lui e i sorrisi e le risa e l’impaccio del camminare perstrada, e i dubbi e i commenti e le boccaccerie senza più fine al caffè». Questa presenzadi voci dialoganti e giudicanti, che immettono nel testo il punto di vista e leprocedure interpretative dell’opinione comune, con i suoi parametri moralirispetto ai quali vengono commisurate e sanzionate le condotte dei personag-gi, innesca «un secondo racconto sotteso al racconto del ricordo, una vocepubblica opposta a quella privata della memoria personale, che sovente smuo-ve nel protagonista la riflessione individuale sui propri comportamenti».Inoltre, questa «coscienza pubblica parla, e parla al peccatore, il quale rispon-de ma in modo indiretto, cioè parlando a se stesso in una certa forma di sdop-piamento del soggetto» (CONTI). La coscienza, il limite circoscritto dell’identi-tà individuale, si presenta come confine poroso, assorbente, condizionato dallapervasiva presenza degli altri: «Tu pensi al mondo, alle chiacchiere del mondo,ai bisbigli scandalizzati della tua servente in casa (e di tua madre? Ma anche tuamadre...) Tu pensi agli altri; fabbrichi la tua coscienza con detriti di chiacchiere d’altri econ pregiudizi» (PE 40). Elio Gioanola ha invece sottolineato come la città rap-presenti nella narrativa di Boine l’epicentro di un universo claustrofobico, col-legato ai valori semantici della cultura, della storia, della società, dell’ordine edella tradizione: «La città – scrive – è simbolo per eccellenza paterno e signi-fica obbedienza alla Legge, accettazione del Codice (si pensi alla diffusione diquesto termine nell’opera di Boine). Se si bada, la struttura di un raccontocome Il peccato è fondata sul rapporto oppositivo (ma anche attrattivo, per l’ir-rimediabile vincolo delle ambivalenze) tra un singolo e la propria città: e lacittà, anche figurativamente, come nella pittura prospettica, è rappresentatacome un blocco chiuso di volumi tra l’aperto del cielo e del mare. Il singolodeve lottare contro una duplice clausura: quella del costume locale e quella, piùpropria, del monastero. La suora è una proiezione del protagonista e trasferi-sce la legge a livello di sacralità. Il peccato sarà proprio la rottura di un doppiomuro di cinta, quello della città e quello del convento, alla ricerca di respirocontro l’incombenza della soffocazione (con tutti gli inevitabili rimorsi e pene:l’esclusione, il ludibrio, la morte-punizione dello zio, che incarna la legge pater-na)». Cfr. E. GIOANOLA, Il mistico senza estasi, cit., pp. 134-35.

3 La gente…d’altra razza che noi: Nella sequenza incipitaria della Città, cui èopportuno rinviare come ad «una sorta di sinopia del romanzo» (UNGARELLI),al «ritratto apologetico» (BÀRBERI SQUAROTTI) del protagonista è conferita unacondizione di eccezionalità mediante la sottolineatura e iterazione delle mar-

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che semantiche della follia (che nell’opinione comune si degrada a stranezza:«Non gridò. Chi gli passò accanto sorrise: lo si sapeva un po’ strambo». Si vedaanche la nota precedente) e dello straniamento dal ritmo consuetudinario dellavita di provincia: «Perché gli pareva a tratti d’esser davvero pazzo […]. Lagente era queta. Usciva al sole. Queta e come sempre: visi noti, andature note,voci note di tutti i giorni. Ed anche la via intorno era la solita via cento volteogni giorno percorsa: via maestra di piccola città provinciale, pacifica via […].E lo pigliò uno stupore inquieto… Voglia di fuggire come chi fiuta un perico-lo al buio». Nel racconto boiniano l’«autoritratto dell’artista da giovane»(UNGARELLI) insiste sulla dialettica interna di ordine e anarchia, «sentimento»e «rigidità morale», su cui si inscrive, quasi a stendere un ponte tra La Città el’Agonia, la torbida fiacchezza del male: «Convien dire ch’era colto e al mododi quelli che giudicano, non subiscono, il mondo. Giovane. Vasta tumultuarie-tà di sentimento e per contro, quasi a schermo, bisogno e sforzo di correttez-za logica di rigidità morale; bisogno profondo di tuttociò che non è individua-le arbitrario, che è istituto tradizionale; senso eroico del giure. Ed era un gio-vane. Su tuttociò, il male; su tuttociò s’era stesa la torbida fiacchezza del malefisico». Nelle pagine iniziali del Peccato Boine intensifica i tratti oppositivi tra ilprotagonista e l’ambiente, marcandone l’anomia sociale (la descrizione si svol-ge paradossalmente attraverso un ritmo ternario di negazioni: «Si mescolava dirado nelle conversazioni a caffè; non giocava; che avesse donne nessuno per allo-ra sapeva…»), il rovesciamento degli orientamenti pragmatici («le compagnieallegre… quelli lo avevano un poco in concetto tra di “prete” e babbeo») e lamarginalità («S’era fatti amici fra gente “di nessun conto”, dicevano…»).

4 S’era fatti amici…dicevano: Il «giovane capitano di mare» deve essere iden-tificato in Angelo Saglietto, detto Angelo Sagittario o anche il Sofo, a cui èdedicata la prosa I miei amici di qui («La Riviera ligure», XXI, n. 48, 1 dicembre1915, pp. 473-75, successivamente raccolta nei Frantumi); nello «studente dilettere» è da riconoscere probabilmente l’amico Giovanni Battista Parodi(1885-1955).

5 Stirner, Haeckel, Büchner: Max Stirner, pseudonimo di Johann KasparSchmitt (Bayreuth 1806 - Berlino 1856), filosofo tedesco, teorico dell’indivi-duo assoluto, è autore de L’Unico e le sue proprietà (1845); Ernst Haeckel (1834-1919), biologo e filosofo tedesco, sostenitore della teoria darwiniana, per cui siveda inoltre (ER 104-5); Ludwig Büchner (1824-1899), medico e filosofo tede-sco, materialista e seguace delle teorie di Darwin.

6 i volumi…del Bocca: La casa editrice Bocca di Torino, fondata nel 1775, nelcui catalogo figurava la traduzione delle opere di Nietzsche e l’importante sag-gio dello psicologo americano William James (1842-1910) Le varie forme dellacoscienza religiosa (1904).

7 sentivi il tumulto canoro…col cigno: Riferimenti all’opera di Richard Wagner(Lipsia 1813 - Venezia 1883). Il cigno trascina l’imbarcazione su cui si allonta-na Lohengrin nel finale dell’opera omonima; le Walkirie sono le fanciulle guer-riere nell’Anello del Nibelungo; il Walhalla, la dimora degli dei.

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8 «sono andati – fingeva di dormire»]: Il duetto di Mimì e Rodolfo nel quartoatto della Bohème, che si trasforma nell’ “inno” degli antiwagneriani.

9 un chiesone in classico stile: Nella prosa La Città, che «può essere considera-ta una sorta di sinopia del romanzo» (UNGARELLI), il profilo del duomo di SanMaurizio, progettato in stile neoclassico dall’architetto Gaetano Cantoni(1745-1838), partecipa più direttamente degli ambiti attributivi della tradizione,anche mediante la messa in rilievo della dislocazione topologica («Su in altov’era nel paese vecchio una gran chiesa»), dei valori urbanistici e del decoro architet-tonico, di cui però segnala lo svuotamento interno, la perdita di vitalità e la solasopravvivente funzione di simulacro dell’ordine sociale. CT 188-89: «E glipareva che l’uomo nella sua normale misura fosse ormai così. Senza ideali,senza ordinanze sociali, senza intimità religiose. Su in alto v’era nel paese vec-chio una gran chiesa bianca e bella (gran chiesa bianca come una chiara capa-cità sonora) e vi si diceva ogni domenica messa. Ma la messa era una parata ela gente v’andava come si va a passeggio. – Alla messa non più, perché la reli-gione è in disuso; all’opere pubbliche nemmeno se non per individuale inte-resse perché gli affari privati a tutte l’ore premono. Uomini ridotti ai loro corpied ai comodi dei loro corpi. Vita rotolante sulle due, sulle tre elementari neces-sità della carne senza che nessuna spirituale vibrazione la sollevasse più».

10 vecchia sbadigliante città: (CT 190): «Ma a tratti come al cessare della feb-bre, allo spavento cosmico, succedeva in lui l’irritazione acciaccosa. Questipiccoli uomini che gli passavano accanto, che sbadigliavano al sole, polluendosguaiati ogni cosa nelle loro anime morte, questi piccoli uomini beati e senzapensiero incoscienti, accanto a lui in tormento l’irritavano. E tutta l’anima glisi empieva del doloroso solletico, della sbadigliante nervosità grinzosa chepenetra e titilla irritante dopo una notte di febbre per tutti i muscoli pesti. –Vi era in tutto questo, in fondo a tutto questo, anche il disgusto di sé; v’era l’o-dor di cadavere nauseante su dalla oscurità della sua anima sfatta. Ma obietti-vava. La putrefazione era nelle cose, era in questa parvenza di cose, di istituti,di uomini che non avevano realtà, ch’eran parvenze, che non avevan piùragione di essere, ch’eran galvanizzamento, ch’eran carname residuo di unospirito non più attivo come le macerie ammucchiate di un gran monumentocrollato. Ma la gente intorno invece si muoveva e viveva: beatamente, inco-scientemente».

11 il Santo: La figura del Santo, cui presta i suoi lineamenti biografici quelladi don Giuseppe Abbo (1856-1944), rappresenta nelle pagine de La Città, incui fa la sua prima apparizione, quasi l’ombelico mistico della comunità, il suopunto di consistenza spirituale. (CT 191-92 passim): «Un santo. Sì, nel paesev’era un santo. Egli lo conosceva. Lo rivide un giorno per strada prete un po’curvo, dall’occhio cilestro, arguto, dal viso nella sua contadinesca robustezza,fine. Un po’ curvo, con una certa sicurezza modesta nell’andare. E lo fermò.Parlava il dialetto del paese: parlava delle cose del paese, delle olive che nel-l’anno erano abbondanti e della pioggia che aveva diroccati assai muri, ma erabuona e ci voleva… Come nelle leggende ch’egli conosceva a cento, un santo

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che assumeva la peccaminosa carnalità degli altri, che bilanciava, reale e saldo,la vuota inconsistenza carnale di tutto il paese… S’occupava di bambini, pre-dicava qui e là un po’ vagabondo e irrequieto sebbene avesse la sua cappella-nia e fosse canonico nella collegiata. Predicava in dialetto con delle immagininella quotidiana semplicità loro, un po’ strane; parlava anche allora di cose vici-ne e immediate, dell’alluvione che bisognava tollerare, del colèra che dio avevamandato, e bisognava aspettar che passasse, e finiva (pareva che la predica lafacesse per ciò) finiva sempre dicendo con grande intensità le preghiere. Lepreghiere: il pater, l’ave, quelle che diciamo sera e mattina. Le diceva comefacendo una cosa. Intensamente, realmente: cose reali e presenti; cose pres-santi e importanti da farsi subito e con attenzione, da farsi sempre. A questomodo officiava pure la messa».

La figura del prete dei bimbi può inoltre essere ricondotta al revival dellaspiritualità francescana a cui, come ha rilevato Francesco Mattesini, l’interessedel poeta ligure si orienta fin dai primi anni milanesi (Cfr F. MATTESINI, Dantein Boine, cit., pp. 255-56). Infatti, in occasione del sesto centenario della mortedi Jacopone (1906), Boine suggeriva per lettera a Tommaso Gallarati Scotti diportare a termine un’edizione critica del corpus jacoponico o «una generale sto-ria filosofico-critica del movimento poetico francescano in Italia» (cfr. la lette-ra a Gallarati Scotti [Milano 1906] in C III, 8, p. 15). Qualche anno più tardi, lacollaborazione alla «Voce» doveva nascere e consolidarsi attraverso una serie diarticoli sull’Italia religiosa commissionati a Boine da Prezzolini: «Egli [Boine]prometteva, purtroppo senza mantenere, per quanto mi risulta, di trattare, sullascia certo del Sabatier, la questione delle fonti francescane, allora dibattutissi-ma, e di illustrare il testo dei Fioretti, le Laudi di Jacopone. Non del tutto imme-more, penso, nonostante la polemica in atto nei confronti della Scuola storicae dei suoi più autorevoli e tenaci rappresentanti, dei corsi del Novati sulla poe-sia religiosa e dei saggi del dotto maestro raccolti nel libro Freschi e minii deldugento (1908), che il Boine ebbe in mano sicuramente, tramite il Casati, anchese mai volle o riuscì a recensire». Cfr F. MATTESINI, Dante in Boine, cit., p. 256.

Nella semplicità francescana del Santo, nutrita di tratti arcaici (l’uso del dia-letto, la fiducia rituale nell’efficacia “magica” della preghiera), Boine vede inol-tre inverarsi il rovesciamento dell’atteggiamento religioso modernista ed este-tizzante. Emerge qui la figura dell’«uomo fedele», saldamente piantato nellatradizione, nel reticolato descritto dal rito e dalla legge. Si veda, a questo pro-posito, la retractatio antimodernista in chiave di scoperto autobiografismo con-tenuta in (PM 86-7): «Noi ingannavamo gli ingenui. Io dico che noi inganna-vamo e ci ingannavamo. Io dico che noi non crediamo com’essi credono ech’io non posso a lungo stare accanto ad uno di essi senza sentir che l’ingan-no. La grandezza, la bellezza della tradizione e del rito, il conforto, la profon-da emozione che ci dà il rito, sì, l’eco confuso di molti secoli e d’infinite vitenel rito, sì, anche la jeratica, la sicura compostezza della vita nostra col rito…Ma accanto a me l’uomo fedele, prega, fa, ed il suo fare e la sua preghiera sondefiniti, son netti e corposi come cose che tocchi. Non si cura, l’uomo fedele

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accanto a me, né di bellezza, né di profondità; fa, prega duramente, necessa-riamente, come duramente lavora e come necessariamente vive».

Appaiono rischiaratrici, a tale proposito, le annotazioni antimoderniste di(ER 109): «Esiste veramente, (gli psicologi hanno un po’ ragione) una catego-ria di spiriti, fondamentalmente, necessariamente religiosi, (ci dev’essere moltadi questa necessaria ingenuità in fondo all’anima di taluni modernisti imper-territi: l’eterogeneo imbroglio filosofico in cui si trascinano e vivono, dopotutto non li tocca: ci son cascati per accidente e ci stanno appunto perché nonhanno per la filosofia nessun essenziale interesse. Il centro spirituale loro èquesta certezza obiettiva che diffonde tutt’intorno per la loro attività e su quel-le che credono le loro idee – la loro filosofica base, – un senso di saldezza sicu-ra); spiriti definitivamente ingenui, di cui l’ingenuità obiettivistica è il carattereessenziale, è la ragione di essere, spiriti per cui la negazione dell’ingenuità ori-ginale vuol dire (è) la negazione totale, la morte».

12 Un uomo…d’accordo»: Nelle pagine di Un ignoto, tra le ragioni di una serra-ta critica al romanzo di impianto naturalista e in polemica opposizione rispet-to alla dottrina crociana, Boine dispiega una teoria della rappresentazionecome costruzione del Soggetto: «Perché io non sono come un piccolo spec-chio, uno specchio come un occhio rotondo, portato successivamente dinnan-zi alle cose, innanzi a questa e a quella cosa, lungo una rettifila serie di cose. Iovivo. Io sono il centro vivo del mondo. Io sono il mondo: passato e presente,lontano e vicino io sono il mondo. E come staccare dal lontano il vicino, comestrappare dal passato il presente? Armonica fusione, compenetrazione vastacome di un organismo vivo. Io sono il mondo». (IG 150).

13 Liguori: Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) fu vescovo di S. Agata deiGoti e fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore. Scrittorefecondissimo (sua è anche la popolare canzoncina natalizia Tu scendi dalle stelle),si ricordano tra le sue opere la raccolta di meditazioni dell’Apparecchio alla morte(Napoli, Di Domenico, 1758, e Venezia, Remondini, 1759) e la Storia delle ere-sie (Napoli, Paci, 1772). Boine lo assume ad esempio di un atteggiamento spi-rituale di “compromissione” con il reale. Su Pascal, testimone del pensieroabissale della morte, si veda invece la lettera ad Alessandro Casati da Davos, 13dicembre 1912, in (C III, 502), pp. 745-48, e in particolare pp. 745-46:«Senonché Pascal ha dimostrato come qualmente il male è la natural condizio-ne del cristiano. Non son cristiano interamente: ma i benefici della meditaziondella morte non li disconosco. Certo che lo spirito dei morituri è più franco epiù libero d’egoismi. Perché s’io vivo io son tentato di assorbire in me tutto ilmondo e farmene l’apice. Ma s’io muoio ecco d’innanzi a me la realtà. E s’iovivo io sono misura d’ogni cosa e miserevole (e dolorosa) misura. Ma s’iomuoio ecco dinnanzi a me la realtà con la sua propria essenziale misura.Dinnanzi a me è lo spirito, senza fondo, che resta. La nullità mia m’impone lapienezza dell’essere. Ed io non metterò nell’essere più imperfezione e più maleche non ve ne sia in realtà. Giacché avrò eliminato dal mio giudizio sul mondoil torbido delle passioni mie».

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14 Non sanno il peccato…la vita: Questa riflessione sui giovani, in cui si river-berano alcuni motivi della polemica Boine-Croce, si inscrive all’interno di unacostellazione teorica che oppone la purezza ideale e vuota – riferita, nel pen-siero di Boine, alla polarità dello Spirito –, alla concretezza reale della vita (lamateria, il corpo). Infatti, il discorso sulla natura del peccato contiene, comesuo referente allegorico, una modulazione critica dell’idealismo che comportala interna decostruzione della dialettica hegeliana (e crociana) cui viene negatoil punto di approdo nella sintesi storica. La critica di Boine al criterio crocianodel bello e alla “teoria del contenuto indifferente”, nelle pagine dell’Estetica del-l’ignoto (sulla «Voce», IV, 9, 29 febbraio 1912), provocò una risentita risposta daparte di Croce, dai toni insolitamente aggressivi sotto una patina di apparentebonomia. Il filosofo abruzzese, ironizzando sulle «burrasche psichiche» del«giovane scrittore» (e nominandolo soltanto in ultimo), rispose a Boine sulla«Voce» (IV, 14, 4 aprile 1912) con un articolo avvelenato dalla reiterata sottoli-neatura della immaturità anagrafica dell’interlocutore, accusato direttamente di“misticismo”: «Perché ho voluto togliere in esame queste ineptiae? Perché vedoche da qualche tempo in qua i giovani italiani (anche taluno di quelli chepotrebbero fare assai di meglio, e hanno dato prova di saper far di meglio,come per l’appunto il Boine, che è il giovane del quale finora ho parlato) si tra-stullano con questi balocchi, e insieme stimano che non siano balocchi, macose gravi e quasi tragiche; carezzano la loro immaturità mentale e credono diabbracciare il Cosmo, di celebrare i misteri dell’Assoluto, di avere scorto ilvolto della Dea, invisibile ai profani. C’est ne pas ainsi que l’on se bat, diceva ilmaresciallo Bazaine. Non è così che si lavora» Cfr. B. CROCE, Amori con l’onestà,in EREA 165-71, e in particolare 170-71. Tuttavia, nel periodo di Davos, larivendicazione boiniana delle prerogative della soggettività (l’«individualità diogni opera d’arte») è destinata a innestarsi sul tema della malattia. Cfr. la lette-ra ad Alessandro Casati dal sanatorio di Davos, 21 gennaio 1913, in cui si rim-provera all’olimpismo di Croce di voler «costruire il mondo fuori del male». Cosìscrive infatti Boine all’amico: «La conclusione è ch’io potrò anche aderire allaconcezione hegeliana del male morale come negatività superata (potrò; nonson deciso;) ma il male fisico, la violenza fisica quella sta lì come una monta-gna a strapiombo e mi soffoca. Quando ogni mia forza spirituale è annullata edio sento qualcosa di grave su me, schiacciarmi, spingermi al limite opaco, con-durmi per macchinali necessità alla morte, certo ch’io son costretto a non filo-sofare. È inutile che tu me lo predichi. Ma so una cosa che tu che sei libero esano non sai o sai poco. So che l’attività mia cede e si sperde dinnanzi ad un’al-tra colossale attività. Lo so miticamente, imaginosamente. E va bene. Ma quan-do sarò chiaro e ricomincerò a filosofare, è di qui che partirò. E se questo lochiami un elemento personale tant’è ch’io chiami personale anche il tuo nontener conto di ciò che invece mi colpisce, perché tu sei in salute». (C III, 509),p. 760. Un ampio sviluppo delle osservazioni su Croce si trova già nella letteraad Alessandro Casati, Portomaurizio, 23 dicembre 1913, in (C III, 543), pp.797-800 e in particolare p. 798: «…ho visto sempre ottimamente come attra-

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verso l’azione, attraverso questa che Croce chiama la vita entrasse nel sistemadello spirito qualcosa che non era né soggetto né concetto».

15 torbidumi anarchici…di Stirner: Nei moralisti vociani – Boine, Slataper.Jahier – il tentativo di superare le iniziali posizioni di ribellismo, anarchia erifiuto degli ordinamenti borghesi, appare costitutivamente connesso, sulpiano ideologico, con la sublimazione della polarità conservativa della tradi-zione, che ne determina la destinazione finale. «In questa dialettica fra ordinee disordine, fra tradizione e rottura – ha scritto Romano Luperini – il primotermine finisce dunque per prevalere sul piano ideologico e nelle scelte di vitapiù che nelle soluzioni formali […] L’accettazione di una norma verrà sentitacome “morale” per eccellenza (è il “lavoro” per Slataper, il “peccato” cherende concreta e possibile la vita sociale per Boine, il contatto con il popoloper Jahier: e diviene rispetto anche esteriore di una regola religiosa in Rebora,valorizzazione degli ordinamenti militari in Boine, “realismo politico” inSlataper) e quindi contrapposta all’anarchismo iniziale, sino a castigarlo e a sof-focarlo». Cfr. R. LUPERINI, Il Novecento, cit., pp. 200-01.

16 «Ecco ecco il Puro che balza!»: Riferimento a Wagner, Parsifal, Atto II.Parsifal è il Puro (Parsi) folle (Fal), che, secondo la leggenda, è destinato a sal-vare Amfortas, il re del Graal, recuperando la sacra lancia custodita nel castel-lo incantato di Klingsor.

17 la memoria… del nonno: La figura del nonno di Boine incarna efficace-mente l’identità e il destino storico del ceto dei possidenti agrari, e, con esso,dell’ordinamento arcaico della società ligure (cfr. U. CARPI, Ideologia proprietariae letteratura religiosa in Boine, in «La Voce». Letteratura e primato degli intellettuali,Bari, Di Donato, 1975, pp. 135-96). Il fatto che in questa immagine coincida-no il culto degli antenati e la contemplazione nostalgica di un passato idealiz-zato in tutte le sue forme di vita, ed assunto a modello di riferimento da cuigiudicare il presente, testimonia delle insorgenze, in Boine, di quella religionedella morte tragicamente destinata ad inquinare la pratica politica e l’autorap-presentazione della comunità nazionale nei primi decenni del secolo XX. Lacasa del nonno è descritta nella pagina di apertura di COL, dove, attraversol’antitesi dentro-fuori, nella sottile melodia salmodiante che oppone la recita-zione del rosario (all’interno, nello spazio domestico, dentro le mura della«casa salda») al rumore della brezza e alla voce dei grilli (che percorrono l’in-quietante “fuori”: che è “buio”, “silenzio”, voce «grandissima stesa per ognidove», secondo una partizione che, anche nell’enfasi del superlativo, richiamaun caratteristico modulo leopardiano), è inoltre spazializzata una costruzioneidentitaria, un possibile paradigma dell’Io. (COL 396): «Si vende qui su in val-lata, a dieci chilometri dal mare, sopra Porto Maurizio, la casa di mio nonno.Casa fra gli ulivi, con vigna ed orto, casa a due piani a mezza collina, con log-giati, con terrazze, (oh i meriggi di quand’ero ragazzo e seccavano sul para-petto al sole, i fichi neri, bianchi, carnosi, polposi, gravemente odoranti e goc-cianti di miele gommoso! Oh al sole le api a migliaia ronzanti ed io quetoall’ombra, disteso, meriggiante da solo in ascolto; e la vallata dinnanzi, giù,

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scialba di ulivi nella calura; e tutt’intorno e nelle stanze il silenzio o nel silen-zio le voci a tratti e i rari romori delle donne per casa e delle loro compostefaccende! Terrazza, terrazza mia con un pochino di mare in fondo lontano! Ei grilli a sera! La voce nella brezza, la piangente, l’ondeggiante, la ritmata vocedei grilli ch’io ascoltavo (grandissima stesa per ogni dove) alla frescura, nelbuio, trasognando sbigottito mentre dentro il rosario che il nonno e le zie dice-vano empieva di una sommessa sonorità la casa!) casa salda, grande, nella viamulattiera con stalla e con fienile, ampi: – si vende». Sulle implicazioni episte-miche e religiose della dialettica dentro/fuori, si veda inoltre il seguente passo di(ER 109): «Credere in Dio non è per costoro sforzo logico o sforzo pratico,credere in Dio è necessario, è naturale. Soggetto ed oggetto sono due inavvi-cinabili, eterogenei mondi; anzi l’oggetto è il mondo vero, la realtà, ed il sog-getto è il me empirico, tu, io che vaghiamo incerti sulla realtà irriducibile e duradel mondo. Tempre salde, tempre conchiuse di anime, in cui senti qualcosa disano, qualcosa di antico: anime barbare e salde. Uomini per cui il di dentro edil di fuori hanno una definita significazione: uomini per cui il mio ed il tuohanno una radicale realtà; uomini sani».

18 «della umana infelicità»: Nel manoscritto e nella stampa sulla «Riviera ligu-re» si legge «felicità» (UNGARELLI).

19 Sigismondi spagnuoli: Il principe Sigismondo è il protagonista del drammaLa vita è sogno (1635), di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681).

20 Pensava…Monte: Il Monte Calvario, a ovest del promontorio di PortoMaurizio, sovrastante il convento delle Carmelitane. Cfr. anche Trasfigurazione:«Annegano l’occidente con minacciosi pennacchi i quattro queti cipressi delMonte-Calvario; per l’altitudine degli orizzonti esala l’accovacciato conventoun letale tenebrore di cripta»

21 un suono d’armonium: È questo propriamente il segno, l’esperienza percet-tiva che dà inizio all’avventura, termine incipitario del romanzo boiniano:«L’avventura cominciò qualche anno dopo che egli se n’era, finiti gli studi, torna-to a casa» (PE 3); «Pareva dunque ch’egli dovesse lento (s’era dunque propo-sto di) placidamente invecchiare così…quando subdola…ecco cominciò l’avventu-ra» (PE 10); «Ma a poco a poco (cominciò qui l’avventura) come accorgendosi delmeccanismo abitudinario che s’era formato in lui sentì quasi vergogna» (PE20). L’inserzione del tema della musica, mutuato, nella sua accezione estetica efilosofica, da Schopenhauer, determina le modalità di un’esperienza conosciti-va privilegiata, perché «muta i geometrici rapporti delle cose, le sfalda nell’im-palpabile ritmo», «t’affonda di là dal mondo delle rigide forme e della tradi-zione consueta nell’umido fumigante mistero del Caos» (PE 18).

Il suono dell’armonium, frequentemente utilizzato nell’accompagnamentostrumentale dei salmi, si colora però di connotazioni erotiche («Veniva a luicome di lontano… come un’ombra carezzante-notturna») che assecondano losvolgimento della narrazione. Tra il protagonista e la suora la musica svolge lafunzione di un linguaggio cifrato, come un fitto dialogo in codice che muovedalla «claustrale tranquillità dei preludi di Bach» per dipanarsi, con la progres-

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siva rivelazione del sentimento amoroso, attraverso il Lamento di Arianna diMonteverdi, fino alle tonalità apertamente erotiche e passionali della Carmen diBizet o della Cavalleria rusticana di Mascagni. Il passaggio dalla salmodia clau-strale al libretto d’opera è rimarcato, nelle ultime pagine del romanzo, dalla tra-sformazione dell’armonium nella «vecchia spinetta di zia Teresa», su cui Maria,deposto ormai definitivamente l’abito monacale e sciolti i voti, suona una«musica nuova».

22 quieta-canora: Le forme nominali e aggettivali composte rappresentanouna procedura essenziale di arricchimento del lessico boiniano. Esse costitui-scono, inoltre, un elemento cardine della poetica della simultaneità fondata sulla«compresenza di cose diverse nella brevità dell’attimo». La formazione deicomposti si realizza, nella sua più feconda formulazione stilistica, mediantel’accostamento di elementi linguistici divaricati: «è la loro distanza, che, a rigo-re, pone l’unità del substrato» (cfr. G. CONTINI, Alcuni fatti della lingua diGiovanni Boine, in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 247-58, p.253). Ad esempio, la stringa sintattica «Oh nel sonno voluttà del tuo corpomolle-allacciato col mio!» di Frantumi, deriva la sua estensione di significato dallasomma algebrica dei costituenti semici – «corpo la cui tenerezza si sente nel-l’avvinghiamento» –, poiché una «qualità è sentita in perfetta contemporaneitàall’altra: attributi percepiti attraverso l’unità della sostanza» (ibid.). Svolgendo leindicazioni continiane, Fausto Curi ha rilevato come, in «un disperato ma spes-so efficacissimo tentativo di unificazione dei distinti», Boine proceda a «ribal-tare l’asse sintagmatico sull’asse paradigmatico, ossia a trasformare la combi-nazione sintagmatica in unità paradigmatica» (cfr. F. CURI, La poesia italiana nelNovecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 144-49, p. 149). Tra le occorrenzeregistrate nel romanzo si segnalano: «le cime dei mandorli e dei limoni lucide-verdi» (PE 10); «un’ombra carezzante-notturna d’intorno» (PE 10); «E nell’om-bra…diffusa-riempiente la voce piana» (PE 10); «salmodia canora-composta» (PE11); «ritmo monotono-ondante del mare» (PE 12); «i dorsi lievi-argentati dei collid’olivi» (PE 24); «le masse verdi-folte dei cipressi e dei pini» (PE 25); «accantoall’amico ignaro-parlante» (PE 25); anche senza trattino: «Le ombre indecise glifumeggiarono innanzi molli confuse» (PE 28); «traverso il bosco d’olivi contorto-cinereo» (PE 51); «fino al mucchio…rotto-colorato della città contro il mare» (PE52); «“Dovere”…nuovo-sbocciato dal suo intimo vivere)» (PE 55); «lui molle-appog-giato» (PE 56); «in mezzo al chiacchierio lieto-vagante» (PE 61).

Fitto anche l’indice delle forme composte ne L’Agonia: «montagnoso-gelatopaese» (AG 200); «corvi a sciami neri di cento, grevi-volanti, a tondo…» (AG200); «o corvi…rauchi-osceni profeti» (AG 200); «il tremito vago-sottile dell’alid’insetto vaganti» (AG 201); «il terriccio e gli sterpi grassi-striscianti» (AG206); «pugni stretti e nodosi con vene tortuose-saglienti» (AG 210); «lo scampa-nare festivo diffondersi grave-argentino» (AG 210-11);

23 Profonda…lento: Nella lettera ad Alessandro Casati del 25 febbraio 1914,Boine, che in quei giorni si interessa a Bergson in vista della stesura dell’arti-colo La novità di Bergson, apparso sulla «Nuova Antologia» (XLIX, 1-16 set-

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tembre 1914, pp. 24-37) osserva come «tra le fonti o le suggestioni tedeschedelle teorie bergsoniane, specie sulla durata e lo spazio (a parte gli accosta-menti a Schelling che son stati fatti) sia da mettere l’estetica di Schopenhauerspecie negli sviluppi wagneriani. Musicalità della durata, proiezione spazialedella durata, come musica e dramma, musica e plasticità in Wagner eNietzsche». (C III, 561), p. 815.

24 il Galeotto della storia sua: Cfr. DANTE, Inf., V, v. 137: «Galeotto fu ‘l libroe chi lo scrisse». È stato opportunamente osservato come «il tema della vicen-da erotica» si muove «sulla scia del canto di Francesca con la chiara se purdecadente trasposizione dell’oggetto-causa dal libro all’armonium», circostan-za che implica uno spostamento «dalla parola alla musica». Cfr. F. MATTESINI,Dante in Boine, cit., p. 261.

25 Suor Maria: Il personaggio di suor Maria è tratto dalla cronaca reale diPorto Maurizio. Come riferisce l’Ungarelli, in quegli anni (1910-1911) «la chie-setta delle Carmelitane si riempiva di una folla di amanti del bel canto venutiad ascoltare la monaca che aveva un’impostazione lirica se non addirittura tea-trale. Secondo una diceria corrente in città la giovane – al secolo probabil-mente una povera corista – aveva fatto voto alla Madonna di prendere il velose si fosse salvata da un incendio scoppiato durante la rappresentazione in unteatro di Palermo (e non di Parigi, come dice Boine; d’altronde, più avanti, loscrittore fa dire alla novizia di aver sentito, quattro anni prima, la Carmen aPalermo). La verità forse è diversa e meno patetica: la giovane, senza mezzi esola al mondo, salvo una zia, madre superiora nell’Ordine, aveva pensato dirisolvere il problema della vita facendosi monaca». (UNGARELLI). L’avventuradi Boine, squisitamente platonica, subì poi una brusca interruzione per il tra-sferimento della novizia, di cui si persero le tracce.

26 le braccia tese su sull’altare: Particolare incidenza sull’area del verbo hannonel Peccato i determinativi di spazio, la cui ricorrenza formulare concorre a pre-cisare la topografia simbolica del romanzo, fondata sulla antitetica verticalitàdi definite coppie oppositive (alto/basso, Convento/città, Monte Calva-rio/mare). La struttura stilistica del sintagma verbale viene a determinarsi neltesto boiniano sulla base di tre elementi: 1) la ridondanza o semiridondanzarispetto al contesto, misurabile, al limite, mediante rilievo delle iterazioni diluogo: «…e soffiava ed annaspava allungato nero con le braccia tese su sull’al-tare intorno al Santissimo» (PE 12), dove la ripetizione /su sull’/ evidenzia lafusione, a livello del significato, del primo elemento nel sintagma verbale /ten-dere in alto/ (si tratta di costruzioni del tipo: «Rimuginava queste cose fra sé unasera ch’era uscito giù verso il mare…», di PE 33); 2) la stereotipia, misurabilesulla ricorrenza formulare statistica (è il caso dei verbi di percezione, special-mente visiva, frequentemente accompagnati da un determinativo spaziale e dimovimento); 3) la segmentabilità della forma verbale composita, che può esse-re diversamente distribuita lungo l’asse sintagmatico senza smarrire la suaunità paradigmatica (si tratta di costruzioni del tipo: «un gialliccio riverbero diacceso fanale s’allungava per la gradinata su fino a lui…», PE 28).

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Si fornisce di seguito un rapido elenco delle forme censite nel romanzo:«… e guardavan giù, passando, sulla spiaggia ghiaiosa» (PE 25); «Ella passò viasmarrita, quasi fuggì, urtando rumorosa qualcosa. Egli restò appoggiato così,come non capendo. – Ma dalla porticina a lato uscì cauto il prete, quasi fosse lìin attesa, che s’accostò e presolo per mano lo condusse fuori zitto…» (PE 25); «ungialliccio riverbero di acceso fanale s’allungava per la gradinata su fino a lui…»(PE 28); «Le ombre indecise gli fumeggiarono innanzi molli confuse; una torbidafolata di vaghe forme gli ondeggiò intorno a guardarlo, zitta» (PE 28); «Ellaebbe un sussulto, si strappò indietro, disse ancora…» (PE 30); «Rimuginava que-ste cose fra sé una sera ch’era uscito giù verso il mare…» (PE 33); con antitesispaziale dentro-fuori o alto-basso: «Ma poi ancora gli tornarono dentro lamento-se quelle parole di lei: “Non ho nessuno fuori nel mondo”… E d’impeto corsesu verso il paese vecchio…» (PE 34); «Conosceva bene il sito, perché ragazzoaveva infinite volte giocando scalato il muro su a coglier nel parco le ghiande[…]. Salire su ai lecci era facile… ma sportosi all’altra cinta di fra i cocci di vetroa fatica, si vedevan giù bassi come in un pozzo i solchi soffici uguali e i cespid’ortaglia» (PE 35); «Si strappò via torvo» (PE 43); «Le cose non avevan saporeed eran lì adipose…» (PE 43); «C’era per tutto… la funereità» (PE 45); «Fuori…la gente gli mormorava dietro» (PE 45); «I ragazzi in frotta… gli passarono d’accan-to… senza farglisi intorno…» (PE 45); «L’amico wagneriano… gli si accompagnòzitto daccanto» (PE 45); «Ora il male da dire era scattato fuori…» (PE 46);«…s’io… facessi fuori un allegro viaggetto» (PE 47); «ti portassi di fuori… unamoglie» (PE 47); «ed era… venuto via per la scala precipitosa» (PE 48).

27 Era alta…scegliere: La descrizione della novizia può essere posta a con-fronto con la figura manzoniana della monaca di Monza a cui il personaggioboiniano si ispira per alcuni tratti (la mobilità e il colore degli occhi, la figura«alta», la «grandezza ben formata della persona»). Boine insiste sulle notazionivitalistiche («Certo che di spirito non era una suora…»), sulla trattenuta sen-sualità («Sentivi sotto il severo dell’abito la giovinezza del corpo…»). Gertrudeè al contrario immagine abissale e dilaniata della lontananza da Dio: in lei ilsenso violento del peccato si avvinghia alle radici profonde del romanzo fami-liare. Così la pagina manzoniana: «Il suo aspetto, che poteva dimostrare venti-cinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellez-za sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stiratoorizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso;sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fron-te di diversa, ma non d’inferiore bianchezza… Ma quella fronte si raggrinzavaspesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si rav-vicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi si fissa-vano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chi-navano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un atten-to osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza,pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivendicazione istantanea d’unodio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando

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restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata unasvogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pen-siero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quelloche non gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un con-torno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenua-zione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure spiccava-no in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi,pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della personascompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata incerte mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che peruna monaca» Cfr. A MANZONI, I Promessi Sposi (2 voll.), a cura di GuidoBezzola (con le illustrazioni di Francesco Gonin), Milano, Rizzoli, 20008, vol.I, cap. VIII, p. 271.

28 «Dicen…pasados»: «Sembra che il mondo non sia più capace di sopporta-re tanta perfezione: si dice che le costituzioni fisiche sono più deboli e che itempi sono cambiati». Cfr. TERESA D’AVILA, Libro della sua vita, cit., cap.XXVII, p. 239. Più oltre la novizia mostra di conoscere oltre alla Vida, leMoradas (Le dimore o Castello interiore), la più importante opera dottrinale diTeresa d’Avila (1512-1592). La citazione è riferita a Pietro D’Alcantara, di cuiTeresa d’Avila racconta le mortificazioni corporali («Mi sembra che mi dices-se che da quarant’anni dormiva solo un’ora e mezzo tra notte e giorno, e chevincere il sonno era stata in principio la sua più faticosa penitenza», ibid., p.239), l’esposizione al freddo e alla fame («Mangiare ogni tre giorni era per luicosa ordinaria», ibid., p. 240), la straordinaria resistenza fisica e morale («Edessendo molto vecchio, quando io lo conobbi, era di così estrema magrezzache sembrava fatto di radici d’albero», ibid., p. 240). Sono tratti di una fedeeroica che acquisisce ironico rilievo, nel collegamento istituito dalla citazionedi Suor Maria, sulla fiacchezza malaticcia del prete.

29 Maria Alacoque: Margherita Maria Alacoque (1647-1690) suoradell’Ordine della Visitazione, autrice di memorie mistiche e di un’autobiogra-fia. Trascorse gran parte della sua vita nel monastero di Paray-le-Monial, dovemorì il 17 ottobre del 1690, a 43 anni. È ricordata in La religione d’oggi (cit., pp.139-41) tra gli esempi di rigenerazione mistica.

30 Palestrina: La Missa Papae Marcelli, capolavoro di Giovanni Pierluigi daPalestrina (1525 ca.-1584).

31 la Carmen: La Carmen, libretto di H. Meilhac e L. Halévy, tratta libera-mente dal romanzo omonimo di Merimée, è il capolavoro di Georges Bizet(1838-1875). L’opera fu rappresentata per la prima volta il 3 marzo 1875, tremesi prima della morte dell’autore.

32 ronzio di cercanti api: (AG 202), «Imagini come nella stanza un’ape chiusanella scia del sole contro la chiarezza dura del vetro: ritornavano senza stan-carsi testarde con canoro brusio»; e inoltre (AG 207): «Ed un verso chissàcome, chissà di dove gli ronzava duro, insistente agli orecchi…».

33 il Natale di Bach: L’Oratorio di Natale di Johann Sebastian Bach (1685-

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1750). Tra le altre opere di Bach citate in queste pagine, la Fantasia cromatica efuga in re minore e l’Actus tragicus.

34 l’Arianna di Monteverde: L’Arianna (1608) di Claudio Monteverdi (1567-1643) fu composta su libretto del poeta fiorentino Ottavio Rinuccini, per lefeste nuziali del principe Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia.Dell’opera perduta rimane soltanto il celebre Lamento. Arianna, abbandonatada Teseo su una spiaggia deserta, invoca la morte: «Lasciatemi morire! / E chivolete voi che mi conforte / In così dura sorte / In così gran martire? /Lasciatemi morire». Monteverde è lezione antica.

35 Qualcosa…lontano: (FNC 387): «Qualcosa è sorto dalle profondità oscureed ha informata ogni altra cosa dentro di noi, intellettuale e morale; è qualco-sa di affine a noi, poiché così sottilmente ha saputo adattarsi all’anima nostra,ma tuttavia perennemente ed enormemente non noi. Accanto ad esso, cioè,abbiamo ancora una vita che ci appare più propriamente la nostra, essendoimmersi e per ogni lato stretti non ci siamo tuttavia disciolti. Ed esso non èl’oggetto, non è il mondo, non è la passività pesante che tutt’intorno ci preme, maun’attività non nostra, un’attività sovrapposta alla nostra, così terribilmente piùgrande e più forte della nostra, così impetuosamente e sicuramente invadente,che l’attività nostra definita ed incerta, s’abbandona». Come ha osservatoFausto Curi l’uso del quantificatore indefinito “Qualcosa”, che fa risuonare inquesta pagina del Peccato l’eco di quella lontana pagina della Ferita non chiusa,demarca, come «surrogato del nome», i confini di un accadere psichico cheBoine descrive nelle forme letterarie della tradizione mistica, e che, al tempostesso, presenta marcate analogie con l’inconscio freudiano (cfr. F. CURI, Suldiscrimine dei mondi, in EREA 9-22, in particolare 9-12) . L’intera sequenza èinoltre violentemente allusiva al manifestarsi del demoniaco, che oscura minac-cioso la nitida razionalità del vissuto, la «imagine chiara od il definito pensie-ro» («Dico ch’io ho paura, che un’ansia vaga mi piglia dinnanzi alla musicavostra, come s’io assistessi alle notturne invocazioni di un necromante potente. Ora tu evo-chi, sì, ora lo spazio tutt’intorno ti si riempie in folla e in tumulto di demoni osce-ni…»). L’integrazione dell’esperienza mistica e dell’esperienza satanica è il filoconduttore della terza parte dell’Esperienza religiosa, in cui Boine teorizza, nel-l’arte, la negazione di ogni residuo di umanesimo: «Ma l’artista perché vuolessere più vicino alla vita e coglierla nel suo fetale umidore, quello sovverte gliordini, quello trae più spesso fuori dal suo antiumano bagno di vita la disgre-gazione di ogni ordine ed è tutto trepido e inquieto di religiosità anche se ciòche dice ed esprime (appunto se ciò che dice ed esprime) sia demoniacamenteimmorale» (ER 133). E, poco oltre: «Ma l’esperienza mistica colorata com’è dimito e tradizione nasconde la più satanica, la più angosciosa disgregazionedello spirito, la più antitradizionale violenza che si possa nello spirito che èordine e tradizione commetterete» (ER 134).

36 Gérard de Nerval: La terzina è tratta dal sonetto Versi dorati, appartenentealle Chimere, di Gérard de Nerval (1805-1855)

37 Leone Hebreo: Leone Ebreo (Jehudah Abrabanel, 1465 ca. - 1535 ca.),

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medico, letterato e filosofo ebreo di origine portoghese. Visse a Lisbona finoal 1483. Si rifugiò in seguito a Toledo, dove rimase per otto anni. Viaggiò alungo in Italia, fu a Napoli, Genova, Venezia e ancora a Napoli. Il suo nome èlegato ai Dialoghi d’amore, opera in cui dà pieno sviluppo alla dottrina neopla-tonica dell’eros in chiave medica e fisiologica. La prima edizione dei Dialoghi fustampata a Roma nel 1535 a cura di Mariano Lenzi con il titolo Dialoghid’Amore di Maestro Leone medico ebreo.

38 negrore: Entrata decisiva nel lessico boiniano che riverbera con tonalitàgnostiche, nella serie cromatica cui dà luogo in alternanza con “buiore”, il pesoe l’opacità dell’oggetto, e l’esperienza sensibile del male. (PE 11): «E finalmen-te come un ricordo che ti torni netto, disteso ad un tratto sforzando su dal buio-re…». Nel racconto L’Agonia il registro infero è reiterato con frequenza osses-siva: «Cacumini d’alpe, gran dorsi nevosi, bronzeo negrore di abeti compatti ter-ribilmente serï ed irti nel bianco, e rimescolio malparlante di forestierumecosmopolita» (AG 200); «Qui a questo ceppo inceppava ed ecco il suo interio-re fluire arrestarsi, cessare. E qui dunque voglio tu batta, annaspando, qui con-tro il duro, contro il gelato buiore. Qui, qui batti, percuoti nel buio, ché qui è ilpeso e qui l’opacità dell’oggetto» (AG 204); «Come se il male, la originaria ini-micizia del male fosse il palpabile segno, il visibile indice di un sostanzialemondo di là dal nostro, non nostro. Come se il nostro, diafano mondo di luce,fosse tutto intorno cerchiato e battuto da uno sconosciuto buiore assediante leben definite mundi moenia dell’antico Lucrezio» (AG 205); «…come quando lanotte, lasciato il chiaror della stanza egli si protendeva dalla sua terrazza sulnegrore agitato del mare…» (AG 205); «…un gran buiore opaco sommergenteinevitabile la colorata lucidità della vita» (AG 206); «E prima tuttavia uno sfor-zo contrastava al buiore, s’ergeva gridava alto, pareva fissare gli attimi, indurir-li…» (AG 211); «Si mise a letto (oh agonia, oh agonia senza viatico più dellamia floscia carne; lacrime lente da non più tese palpebre, umidore diffuso sullamia guancia cava. O dissolvimento, o dissolvimento agognato-temuto nell’in-certo buiore!)» (AG 211); «(Bestemmiò. Ed è morto anche lui. Ed eccolo nelbuiore opaco anche lui e qui inutile il libro)» (AG 212). Per l’Epistolario si vedaalmeno la lettera al Casati da Davos del 13 dicembre 1912, in (C III, 502), p.746: «Insomma la morte ti convince della prodigiosa solidità dell’essere. E vuoi(puoi) affondare il mondo col corpo tuo giù nel buiore? Abbandona dunque iltuo corpo e te stesso al destino certissimo ed apri gli occhi, nuovamente, sul-l’essere. È questo il punto. Liberaci. Liberaci dal peso dell’individuo nostro giu-dicare. È questo il punto. Ma io son lì, sempre sulla soglia: un po’ assorbendo,trascinando con me il mondo, un po’ contemplandolo innanzi. Tutto ciò è inu-tile. Non arriverò a tal punto di disinteresse da sinceramente considerar comeun bene la mia polmonar graffiatura. E resterò tra la commedia e la tragediacredo ancora per molto…». Una variante dotta sulla medesima scala cromaticaè in (ER 114): «L’uomo religioso (l’uomo completo, non astratto, non limitatoe conchiuso) reclama quindi il suo diritto a gran voce. Il mondo è dimezzatoqui; del mondo solo una faccia si vede qui: la realtà qui sfugge e tumultua fuori

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della chiazza chiara dell’umano e del tangibile nel tenebrore incerto del noumenodi Kant». Più in generale, nel lessico boiniano la suffissazione è adibita a fini didensa espressività coloristica e materica. Si veda, nel Peccato, la seguente serie dioccorrenze: «…e fu questa volta ch’egli sentì giù per le guancie improvviso l’u-midore del pianto…» (PE 21); «(tutto intorno era il biancore nudo dei muri ed ilsilenzio tombale)» (PE 26); «…e secondo una ginnastica usata forzando collepunte dei piedi contro il ruvidore del muro…» (PE 36); «I muri tutt’intorno (umi-dore nero e cespugli), cingevano altissimi…» (PE 37).

II

La qualunque avventura1 La qualunque avventura: Riprende l’incipit della prima parte, Il limbo

(«L’avventura cominciò…») inserendovi una variazione che trova riscontro,nell’uso boiniano, in apertura della lettera a Prezzolini del 3 aprile 1913:«Semplici osservazioni sulle tue parole da uomo moderno. Dove ti confessoche m’irrita una certa maldecisa ambiguità tra il filosofico ed il pratico. Faidella qualunque filosofia a regger (così perché sia retta) una tua pur qualunquetendenza pratica» (corsivi nostri). (C I, 88), p. 77.

2 wagneriano amico: L’amico wagneriano è Giovanni Battista Parodi; sua èanche la soffitta, «come è confermato da un appunto per memoria segnato su unfoglietto unito al manoscritto, dove si legge appunto “l’abbaino di Battista”»(UNGARELLI).

3 chiazzuolo: slargo (termine ligure).4 un grande cespuglio di cacti: «In un foglietto allegato al manoscritto del Peccato

vi è questa annotazione: “i cacti dinnanzi alla chiesa”» (UNGARELLI).5 Ora…le lor cose: È possibile riscrivere il periodo ponendo in evidenza le

cesure ritmiche e il fondo di metricità tradizionale soggiacente, in un compo-sto amalgama di regolarità e disarmonia. L’intarsio dei settenari («ripigliava aparlare / al di là della piazza /») perfettamente equivalenti (isosillabismo e iso-cronia degli accenti di 3a e 6a) e la regolare distribuzione alternata di ottonari esenari («All’altezza della chiesa / si faceva muto»; «Ma una segreta vergogna /lo torceva dentro / per questa specie d’inganno») documentano le matrici ver-sali su cui si distende l’intelaiatura della prosa ritmica boiniana, evidentementememore della lezione del verso lungo whitmaniano. Tuttavia occorre segnala-re che Boine adotta una procedura di abbassamento dei valori timbrici che sirealizza mediante la frantumazione delle unità armoniche, alla quale concorro-no inoltre neoconiazioni e formazioni composte.

6 (la udiva…meccanico): “Meccanico” è termine altamente denotativo nell’i-pertesto boiniano, riferito al determinismo cieco della natura e alla sfacentesicarnalità del corpo. Si veda, nel contesto della malattia, la lettera al Casati daDavos del 13 dicembre 1912: «È un male vile. In fondo si tratta di una graffia-

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tura, nel polmone piuttosto che ad un dito. Cammini, ridi, ingrassi, fai l’affaretuo e hai una graffiatura nel polmone. Ecco tutto. Ma ecco qui una storia. Ungreco pochi giorni prima ch’io arrivassi doveva partirsene. Era guarito: il medi-co non sentiva più niente. Tondo, sano, uomo normale, guarito. Improvvisa-mente ha un’emotisi. Due giorni dopo partì diffatti definitivamente.

La è una irritante tragicommedia. Senti che sei appeso a un filo. Tutto èappeso ad un filo. Il mondo è appeso ad un filo. Proprio un filo, materiale, pal-pabile, di carne.

Che è la condizione di tutti, anche dei sani, e di tutte le cose sub sole. Manon a tutti è imposto, come in questo speciale caso, di pensarci. È l’imposi-zione meccanica, il rodere che senti di questi invisibili vermini, che ti irrita. Ilcomico meccanico nel tragico». (C III, 502), p. 745. In riferimento alla pole-mica Croce-Gentile, cfr. la lettera al Casati, Portomaurizio, 23 dicembre 1913:«Intanto è curioso l’atteggiamento di Croce. Io credo che un po’ incerto e sba-lestrato lo sia rimasto davvero. Si potrebbe pensare che Gentile che ora è il suoaccusatore sia stato un po’ sempre il suo Mefistofele. Gli ha fatto far lui i piùlunghi salti verso l’idealismo assoluto con l’estetica prima e poi con l’identifi-cazione di storia e filosofia. T’avevo detto già senza aver visto l’articolo delGentile che la Memoria Storia, Cronaca etc. par assentire all’attualismo. E vice-versa sulla Voce si chiede come dall’atto (storia passata) si possa passare al mec-canico (cronaca natura etc.). C’è in lui un ondeggiamento che corrisponde ad uncontraddirsi di elementi teorici non facilmente amalgamabili. E quando comeora difende le distinzioni nello spirito è, in fondo, quello ch’io ho chiamato undualismo sentimentale, che difende. Perciò io sto con lui per ora e mi com-piaccio di vedere dinnanzi all’attualismo sorgere in lui le stesse preoccupazio-ni mie dinnanzi al suo razionalismo. La spiegazione del male e dell’errore conuna mistura di economico nell’etico e nel teoretico mi par meccanica ed insuf-ficiente ma insomma eccoti lì anche in Croce la preoccupazione del male e diqualcosa che infine non superi». (C III), pp. 798-99. Uno sviluppo interno alPeccato, in linea con la generale rilettura della sfera pratica che interessa il pen-siero boiniano a questa altezza cronologica, si ha in (PE 49): «Tu parli di fari-sei e d’ipocriti; ed io ti dico che costoro son pigliati nella macchina torbida esporca della vita animale…».

7 Ma qualcosa…freddamente: Il modulo dialogico marcato dal quantificatoreneutro e dal contrassegno della non-persona («Ma qualcosa pensava in lui…») èfrequentemente impiegato nel romanzo boiniano per conferire struttura attan-ziale ad una zona della coscienza sottratta al controllo dell’Io. Cfr. anche (PE 41)(corsivi nostri): «Di questo solo si ricordava (e di un’aridità meccanica dentro, chegli aveva detto…)». Si tratta di una suggestione che Boine trae dalle ricerche sullapsicologia del misticismo; infatti, nelle pagine della Religione d’oggi di Sorel silegge: «L’esperienza religiosa si attua quando il subliminale si introduce nellacoscienza». Cfr. G. SOREL, La religione d’oggi, cit., p. 56. Il modello letterario èinvece rappresentato dalla Vita di Teresa d’Avila, come denunciano sintomaticheconcordanze lessicali e semantiche per le quali si rinvia al saggio introduttivo.

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8 «Tu non credi…profani»: La rottura degli ordinamenti tradizionali presentaallo stesso tempo un aspetto negativo, interamente proiettato nella sfera irra-zionale del divenire, ed uno positivo, consistente nell’estenuato e interminabi-le processo di chiarificazione attraverso il quale l’oggetto torna nell’alveo dellasoggettività, diviene pensabile. «La saldezza, la compattezza, la compostezza delmondo, la inattingibile compiutezza del mondo dobbiamo attingere e compie-re (eroicamente, eternamente senza posare accingerci a compier ciò che nonpuò esser compiuto), trarre dal mistero pauroso la chiarezza del mondo, per-ché tale è nell’Essere, l’ampia, la totale legge». (ER 132).

9 «È qui signor B…?»: È questo l’unico luogo del romanzo in cui il prota-gonista viene nominato direttamente e con evidente riferimento all’autore.

10 Qui…passati?: Anche l’itinerario boiniano, che qui sembra parzialmenterispecchiarsi nella situazione esistenziale di Suor Maria, è segnato da un’analo-ga crisi religiosa: «Non eravamo religiosi, io dico. Non è una cosa da gioco lareligione per questi che credono; dico che non è una cosa bella per adornare,per parare a festa con rosso e con oro la vita. Dico che questi che credono, cre-dono duramente, credono corporalmente, credono seriamente. E dico che noinon possiamo credere così; che io non posso, non potrò mai credere così.Ohimé, io non potrò, non posso credere così! […] Ed io sono cristiano, sentod’esser cristiano, riconosco la verità del cristianesimo, e cristiano non possodirmi, non posso professarmi, come un figliolo scacciato, come un cittadino inesilio che ami la patria, che senta d’esser della patria intimamente e sia tuttaviain esiglio…» (PM 88-85)

11 anfanando: Respirando affannosamente.12 La donna: Suor Maria è ormai diventata “la donna” (il termine è fitta-

mente ripetuto nel brano che segue). Un analogo scarto lessicale si registranella descrizione della Monaca di Monza: «La grandezza ben formata della per-sona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigura-ta in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non cheper una monaca». Cfr. A. MANZONI, I Promessi Sposi, cit., vol. I, cap. IX, p. 271.

13 I muri…dormiente: La descrizione del convento delle Carmelitane riecheg-gia quella del palazzotto di don Rodrigo nell’VIII capitolo dei Promessi Sposi.«Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo,con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del pro-montorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagniad’addormentati, vegliasse meditando un delitto». Cfr. A. MANZONI, I PromessiSposi, cit., vol. I, cap. VIII, p. 263.

III

Il tormento1 Il tormento: Il lemma compare nel Limbo come necessario antecedente e in

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una condizione di negatività destinata a rovesciarsi nella simmetria specularedel romanzo che si compie in questa terza parte. Nel sistema lessicale boinia-no il termine designa la coscienza dell’imperfezione, la contraddizione chetarla internamente la sfera del fare: «Voleva la perfezione che vogliono i gio-vani: idealità (anche fuor degli imbrogli della piccola vita del paese suo picco-lo) presa fatta e come artificialmente aggiunta sulla iniziale coscienza moraleloro. Non ci son giunti vivendo, togliendo, aggiungendo, vivendo… E c’ècome un salto tra l’effettivo germine di aspirazioni buone in loro e la moralegià quadra, già sistemata che si impongono, che vorrebbero imporre. Ci son lefondamenta ed il tetto, mancano i piani di mezzo. Manca la prova, il tormento, lavita; manca il costrurre lento, la fatica durata, la difficoltà superata, manca di nuovo, l’a-vere vissuto» (PE 6) (corsivi nostri). La continuità tematica e filosofica tra lameditazione consegnata all’Esperienza religiosa e il Peccato è inoltre documentatadalla caratterizzazione semantica degli elementi paratestuali (i titoli delle sin-gole sezioni del romanzo) la cui occorrenza all’interno del discorso boinianoviene a determinarsi in un fascio di relazioni paradigmatiche. Così il tormentorinvia all’insorgere della contingenza, del caos germinale che precede la cri-stallizzazione del concetto e dell’idea hegeliana: è «rigurgito perenne», «matri-ce mai stanca di ogni sentimento e di ogni netta espressione». L’autoperce-zione del sentimento religioso è posta infatti in intima correlazione con l’e-mersione disordinata e vitale della contingenza: «Sì, ciò che chiamiamo senti-mento è per lo più un indeterminato, un confuso muoversi dentro il mio mepsichico, dentro il mio me quasi carnale: un mugolamento, un tormento ciecoche s’appaga, e s’arresta quand’io l’abbia compiutamente espresso. È l’affannod’una ricerca, l’interna aspirazione ad una forma, è come la doglia prenatale diun pensiero chiaro e di un’immagine netta. Ho studiato me medesimo: nondocumento: è così in infiniti casi; (è sempre così? Ahi, ahi, e ciò ch’io nonposso, che con nessuno sforzo posso strappare da me? E ciò ch’io sento perquel che, senza rimedio, è stato, per quel che, senza rimedio, è –). E le migliaiadegli indeterminati non determinati e gli infiniti riflessi di ciò che è espressoma che la memoria riproduce come non espresso, s’intrecciano, s’ammassano,tumultuano dentro di me, formano il confuso e pieno di echi e di nebbie caosgerminale del mio sentimento. (Formano qualcosa che riguarda soltanto la miaempirica psiche). Ma vi è alla radice di questo caos, (di questo mondo diembrioni e di larve), come una fonte, come un rigurgito perenne, vi è la matri-ce mai stanca di ogni sentimento e di ogni netta espressione. Al di sotto e perentro tutti gli altri germinali tormenti vi è un più vasto tormento, il tormentofondamentale, che è chiamato sentimento religioso. Coscienza immediata dell’es-sere universale posto come oggetto: poverissima coscienza, dice Hegel, dellapiù generica determinazione del reale. L’immediatezza dell’esperienza religio-sa che par così piena e compiuta, è povera e vuota: ora su di essa presa per baseil pensiero ricostruirà per intero il conchiuso circolo della definita realtà». (ER120). Inoltre, nelle sue occorrenze all’interno dell’ipertesto boiniano il termi-ne è riferito costantemente al mondo della vita, di cui designa i ciechi rivolgi-

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menti e la dolorosa tensione verso la trasparenza del pensiero. Cfr. la lettera aPrezzolini, Portomaurizio, 3 aprile 1913: «La complessità evidente e l’intricodel reale in cui vivo, si specchia o fuori giù sgorga dal complesso intrico delreale che penso. – La vita ha un diritto a rimaner rotta e divisa ed in variegatotormento anche se su nel pensiero essa si riassume armoniosa e unitaria. Maforse essa è in tormento, essa è in improba battaglia perché anche il pensierovi si torce, per sua essenza, cercando». (C I, 88), p. 90.

2 (Quello…male): La voce narrativa posta tra parentesi si incarica di colma-re le lacune, i vuoti, le incertezze del narratore di primo livello, la cui prospet-tiva tende a collimare con il sapere (il ricordo cosciente) del protagonista.Questo secondo narratore, posto idealmente ad una maggiore distanza dai fattinarrati, gode perciò del privilegio di una prospettiva più ampia, in grado diarricchirne la descrizione. Le integrazioni diegetiche non riguardano soltantoelementi circostanziali relativi all’ambiente, al tempo dell’azione, o alla psico-logia del personaggio, al fluire semicosciente del suo pensiero, ma giungono adincludere intere sequenze del racconto (il colloquio con il sacrista), anche dis-locate su piani temporali non omogenei, e tuttavia utili alla chiarificazione dialcuni aspetti della vicenda. Analoga funzione integrativa svolge la strutturaparentetica più oltre (PE 49): «“Almeno le apparenze salvare!” gli aveva fattodire sua madre (se n’era andata una mattina per tempo senza avvisarlo, s’eralevata di letto forse malconcia ancora e s’era, come fuggendolo, e fuggendo lavergogna, fatta portare ad un paese in collina in casa d’un vecchio parente…)».Cfr. anche Parte III, nota 8.

3 riservato: Un peccato che non può essere rimesso da un qualunque con-fessore.

4 come un razzo: Nella stampa sulla «Riviera ligure» il testo reca «d’improv-viso». La variante d’autore (UNGARELLI) è stata introdotta nell’edizione involume del 1914 e nelle ristampe successive.

5 toccarle: Toccargli. L’uso della particella pronominale maschile in luogo delfemminile è caso assai frequente nel Peccato.

6 Carrú l’avvocato: In questo personaggio farsesco, dai tratti di marcata ecomica animalità, si è voluto riconoscere l’avvocato Andrea Rambaldy (1875-1954). L’antipatia di Boine, che in questo ed in altri successivi episodi delromanzo sembra consumare una personale vendetta (UNGARELLI), derivereb-be dalle attenzioni che Rambaldy avrebbe dedicato a Maria Gorlero, a cuiBoine era legato fin dal 1911. Ad un personaggio realmente operante nellaPorto Maurizio del poeta rimanda anche la figura del «caporione di parte» (siveda PE 46), che ha i tratti dell’avvocato Pietro Giribaldi (1854-1936).

7 Bukunine: Michail Aleksandrovic Bakunin (1814-1876), uomo politicorusso e teorico dell’anarchismo, riprese da Feuerbach il tema dell’alienazionereligiosa, che si prolunga e si realizza nello stato, come negazione fondamen-tale della libertà umana. Bakunine (o Bakounine) è grafia francese.

8 (ma questo…commenti): La narrazione svolta tra le parentesi assolve in que-sta circostanza ad una funzione metalinguistica, di precisazione formale e

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commento alla lettera del testo narrativo, innescati dal procedimento retoricodella correctio: «la voluttà…d’ogni pettegolezzo nuovo in provincia (ma questosì, era nuovo davvero…)». Per un uso analogo si veda più oltre (PE 54): «Tornònon più pallido, non più a dire che avrebbe fatto quando si volesse, il suo dove-re (dovere sì, ma non più come rifacimento…)».

9 La Legge: Lo spessore filosofico ed esistenziale del concetto di “legge”,recante l’indice isotopico della “tradizione” e dell’“ordine”, viene definito inrilievo nelle pagine dell’Esperienza religiosa. (ER 131): «La mia angoscia in que-sto, appunto consiste (in questo, appunto, sta il suo inesausto sgorgare) ch’ionon ho il nome, ch’io non so nominare. Mugghia dentro di me, attraverso di meun vastissimo caos ch’io debbo informare e non so: in tutto me stesso tetani-camente sussulta lo sforzo della definizione concreta. Con ogni mio sforzo iovorrei definire e vorrei sistemare perché il sistematico, perché il definito (lasantità di ciò che gli uomini hanno fatto) hanno per me, infinito più pregio ditutto il torbido oceano delle cose non fatte, sentite. (E mi faccio ricco delleperle che ho, non delle troppe che il mare racchiude.) Sono uomo, sono saldoper tutto ciò che è saldo, che è sicuro e chiaro in me ed è la legge che mi fasaldo e sicuro, non la paurosa, la continuamente movente oscurità senzalegge». Sul nesso legge-nome, si veda inoltre Parte III, note 12 e 13.

10 Il peccato…inattivamente non vuoi: La definizione del peccato depositata inqueste pagine rappresenta il nucleo filosofico del romanzo boiniano. Il testoappare di non facile decifrazione poiché in esso sembra depositarsi un nucleoresistente ad ogni ulteriore rischiaramento. Il messaggio, non privo di ambigi-tà e circonvoluzioni, viene come filtrato attraverso una cifra esoterica intessu-ta di rimandi e di citazioni in chiave che stipulano con il testo segreto una fittatrama di corrispondenze. L’esperienza del peccato insiste tra due antinomicheposizioni: essa è, da un lato, rottura della legalità tradizionale, arbitrio, azioneindividualizzante («Ma ecco che se tu operi muti…»); dall’altro, inazione, oblio,lacuna della volontà («…se tu non vedi e se tu per un tratto, inattivo ti scordi,non vuoi…»; «Certo che se tu vuoi ecco che più non pecchi»). Per un lato, quel-lo della vigile conservazione del passato, esso è in rapporto con la Legge e conla morte: «Ma pensò che la vita di nessuno è libera al mondo, che ciò che stadietro di noi ci comanda e la nostra azione s’intreccia con le mille azioni deglialtri, dei vivi e dei morti». Dall’altro, quello dell’azione, esso è in relazione conil mutamento e la vita. Una traccia lessicale iterata, “inattivo”, “inattivamente”,rimanda, per un’analoga attestazione in un contesto più dichiaratamente filo-sofico, alla lettera a Prezzolini del 3 aprile 1913 contro l’idealismo militante, incui è posto in discussione il nesso dialettico immanenza-trascendenza:«L’ideale processo del pensiero da trascendenza a immanenza, la storia mille-naria della filosofia, è storia d’ogni istante in ciascuno di noi pensante. Nonsolo ha camminato dall’oggetto al soggetto (dalla fede alla ragione) la mentenostra negli anni, ma in ogni attimo di attività esso rifà l’immane travaglio.Riempie le formule, rifà vive le formule, riconquista l’oggetto, riarmonizza,riconcreta lo spirito. E poi ricade inattivo, ridiventa meccanico, si appoggia, si nutre di

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affermazioni e di ombre, rientra nel determinismo incosciente». (C I, 88), p. 85 (corsivinostri). Secondo la proposta ermeneutica qui avanzata, il senso del peccatodovrà essere decifrato come ricaduta “inattiva” e “meccanica” nel «determini-smo incosciente». Il paradossale idealismo di Boine appare allora quale espe-rienza squisitamente mistica, in cui la terminologia filosofica è adibita a mate-riale costruttivo, significante, e piegata a rappresentare la teatralità di un discor-so esoterico che assume ad oggetto un’esperienza ineffabile, sottratta statuta-riamente alla parola. E tuttavia, nel gioco dei rilievi intertestuali, la dialetticaboiniana di legge e peccato costituisce una riscrittura, privata di ogni media-zione cristologica, della lezione paolina («Mediante la Legge… si conosce ilpeccato») contenuta nella Lettera ai Romani: «Noi sappiamo che quanto dice laLegge, è detto per chi sta sotto la Legge, affinché si chiuda ogni bocca e tuttoil mondo sia soggetto al giudizio di Dio: poiché dalle opere della Legge nessu-na carne sarà giustificata davanti a Lui. Mediante la Legge infatti si conosce il pec-cato» (Rom. 3, 20).

Il testo di Boine esibisce una parodia esegetica del dettato paolino, che nealtera i lineamenti. Anche la recisa negazione del nesso volontà-peccato(«Certo che se tu vuoi ecco che più non pecchi») è richiamo ed eco di Rom. 7,15-17 («Ciò che compio non lo comprendo: non ciò che voglio faccio, ma ciòche detesto, questo faccio, e nel fare ciò che non voglio riconosco la bontàdella Legge»), dove è da riconoscere inoltre la matrice del peccato come “inat-tivo non-volere”: «Ecco che tu pecchi se per un istante non vuoi; ecco che lecose ti conducono esse con terribile, con invincibile forza, non volente edinsciente al peccato». Cfr. Rom. 7, 14-25: «Sappiamo infatti che la Legge è spi-rito, ed io sono carne, venduto e soggetto al peccato. Ciò che compio non locomprendo: non ciò che voglio faccio, ma ciò che detesto, questo faccio, e nelfare ciò che non voglio riconosco la bontà della Legge. Allora non sono più ioa compiere il mio atto, ma il peccato che abita in me. So infatti che non abitain me, ossia nella mia carne, il bene, poiché mi è vicina la volontà ma non ilcompimento del bene. Io non faccio il bene che voglio, ma ciò che non voglio,il male, ecco io faccio. E se ciò che non voglio io faccio, non sono più io acompierlo, ma il peccato che risiede in me. Trovo dunque questa legge: che ame, desideroso di fare il bene, è vicino il male. Mi compiaccio infatti della leggedivina nell’intimo del mio esser uomo, ma vedo nelle mie membra un’altralegge, che fa guerra alla legge del mio intelletto e mi rende prigioniero dellalegge del peccato esistente nelle mie membra. Uomo sventurato son io. Chi milibererà da questo corpo di morte?». L’esperienza religiosa descritta da Boinedeve pertanto essere interpretata come rilettura non ortodossa della lezionepaolina, come esegesi fantastica, non priva di infiltrazioni gnostiche (peraltroesplicitamente attestate nell’Agonia), del «corpo di morte» e della legge del«peccato che abita in me», del «peccato esistente nelle mie membra».

11 Tu devi…non muti: Per un’interpretazione complessiva di questo passo sirimanda alla nota precedente. La partizione del ritmo veglia-sonno è coesten-siva, sul piano del vissuto individuale, a quella coscienza-inconscio.

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12 Tu scorderai la tua legge: Cfr. Frammenti, 23: «Ho scordato il mio nome: hoperduti i miei passaporti in paese nemico».

13 Tu fa…senza rimedio: Cfr. Frammenti, 25: «Il mio nome è oggi, e la mia viasi chiama smarrita. Non ci sono insegne ai bivi dell’andare e non so s’io abbiaimboccato a man dritta»

14 «O Lola…la camisa»: Da Cavalleria rusticana (1890) di Pietro Mascagni(1863-1945), opera lirica in un atto su libretto di G. Targioni-Tozzetti e G.Menasci, tratta dall’omonima novella di Verga.

15 È una faccenda di Barrili: Anton Giulio Barrili (Savona 1836 – Carcare,Savona 1908), memorialista garibaldino e romanziere, fu direttore del quoti-diano genovese «Movimento» e della sommarughiana «Domenica letteraria».Nel 1903 divenne rettore magnifico dell’Università di Genova. Tra le sueopere, il libro di memorie Con Garibaldi alle porte di Roma (Milano 1895) la rac-colta di novelle Uomini e bestie, il romanzo I misteri di Genova (5 voll., Genova1867-1870), ricalcato sul fortunato modello messo in voga da Eugène Sue.

16 gli fa: Su questo uso anomalo della particella pronominale si veda anchela nota 5 della Parte III.

17 sólo…pena: L’intero brano, nel quale Teresa confessa le sue sofferenzefisiche e spirituali, suona così: «Mi dimenticavo allora di tutte le grazie che ilSignore mi aveva fatto; me ne restava solo un ricordo come di cosa sognata,che serviva a darmi pena; l’intelligenza mi si offuscava tanto da farmi sorgeremille dubbi e sospetti: mi sembrava di non aver saputo comprendere quantomi era accaduto, che forse era frutto della mia fantasia». Cfr. TERESA D’AVILA,Libro della mia Vita, cit., cap. XXX, p. 264. È da rimarcare la risemantizzazio-ne parodica, in linea con l’intera esegesi del Peccato, cui è soggetto il passo dellaVida, che Maria piega a indicare desideri e nostalgie concretamente terrene,rigettando il periodo trascorso in convento come un ricordo penoso di «cosasognata».

18 Pensò…Puccini: In realtà la Bohème (libretto di G. Giacosa e L. Illica) furappresentata per la prima volta a Torino l’1 febbraio 1896, undici anni dopola morte di Hugo. A meno di non ipotizzare una clamorosa svista di Boine, sideve interpretare l’intero paragrafo, con il successivo, ironico richiamo al libroCuore del conterraneo Edmondo De Amicis, come un pastiche immaginativofunzionale alla rappresentazione del comico: in luogo di tessere l’elegia della“calda vita”, Boine ne denuda la fermentante sentimentalità. Jules-Émile-Frédéric Massenet (1842-1912) dominò la scena del teatro melodrammaticofrancese nell’ultimo ventennio del secolo XIX. La prima rappresentazionedella Manon risale al 1884.

19 Scrisse…cugino di Genova: Sono esattamente rovesciati i termini dell’episo-dio descritto nella Parte I (PE 8-9). Si tratta di una delle simmetrie speculariche incorniciano la narrazione e conferiscono al ritmo ternario della sua strut-tura, Limbo-Avventura-Tormento, il senso di una progressione immobileverso la piena identificazione di vita e pensiero.

20 Ad un vecchio…amico: In questa ultima sezione del romanzo il personag-

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gio di Suor Maria tende a trascolorare in quello più carnale e vitalistico diMaria Gorlero, a cui Boine fu legato da un’intensa e travagliata passione fin dal1911. Nella figura del «vecchio, venerato amico» è da riconoscere AlessandroCasati (1881-1955), al quale il poeta ligure scrive da Davos (23 febbraio 1913)una lettera di giustificazione, in risposta alle obiezioni morali dell’amico ebenefattore. Così Boine: «Caro Casati, mi fido allora dell’“indulgente obiettività”del tuo informatore.

In termini di mondo io avrei, io ho una donna: ho, dicono, una “relazio-ne” con una donna. La quale non è Madama di Staël né la signora diCondorcet: non è né ricca, né istruita, né, come costoro, felice. Ma l’umanitàfonda e viva, è fuori quasi sempre di queste tre categorie.

So bene che la mia vita non era né “d’oggi né libera”. Non mi tolgo lecolpe che ho. Da un anno (un anno e mesi) a questa parte me le son messeinnanzi spesso. Le conosco bene, le ho enumerate ad una ad una. Ma è curio-so che sian disposte in modo ch’io non potevo che commetterle tutte.

E forse dunque la mia colpa unica è d’aver mescolato pian piano senzaaccorgermene, dell’affetto a cose che potevan, per se stesse, passare comeindifferenti od anche come oneste o più che oneste. Mi son del resto persua-so che non v’è pressoché cosa che si faccia che non sia per certi lati una colpa.E commessa che l’hai non c’è rimedio e ti tocca viver con quella. È vero, inconclusione, ch’io non ero libero allora; ma ora (sebbene non ci sia nessuno apigliarmi pel collo non abbia nessun apparente obligo, ed anzi ci sian moltiapplausi pronti s’io cessassi o a poco a poco o d’un tratto d’essere quello chevoglio), ora mi sento anche meno libero di prima.

Questa è la mia giustificazione chiara. Vale per me. Vedo bene che ci sonmolte altre considerazioni da fare. Io capisco ottimamente mia mamma, e capi-sco te ancora più: capisco come tu dici ch’io aumenti i miei “oblighi, senza averaumentate le mie forze”. (Mi dico tuttavia che non l’ho così terribilmenteaumentati, – che sono più che materialmente pesanti, morali, – e che non sonoinfine annegato). Ciascuno tranne gli sciocchi ed i vili, che son molti, ha la suaparte di ragione contro di me: a volta a volta l’han fatta valere colpendomi; esebbene io mi sia difeso, ho riconosciuto dentro di me ch’era giusto. So beneche certe composte apparenze sociali, la quietudine e l’andazzo “onorato”della famiglia etc., che per qualcosa ci sono ed han la loro legittima storia, nonè possibile offenderle senza rimanere impunito». (C III, 514), pp. 767-68.

21 sul mare giallastro bavoso: Nella lettera al Casati da Porto Maurizio del 25febbraio 1911 (C III, 395), pp. 579-81, e in partic. pp. 580-81, l’immagine delmare ligure, «mare enorme, senza anima», appare coestensiva al dominio dellavita, al suo procedere e affiorare da un fondo germinativo oscuro, di cui l’e-sperienza religiosa replica il “tremore”, “l’intimo spavento”, la “misteriosità”.«L’altra sera, parlavo seduto, nell’oscuro con Battistino di cose nostre.Nell’oscuro con molto silenzio intorno, all’aperto, nel paese vecchio. Sentivome stesso, vivo. Parlavo e poi ripigliavo, man mano che il pensiero si faceva inme e s’allargava e saliva e posava. Sentivo me stesso e sentivo l’amico, il pen-

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siero suo, calmo in ritmo col mio. Ora nelle pause ecco che s’intromise la vocegrande, decisa, alterna del mare agitato: noi tacevamo ed essa riempiva tutto,monotona uguale, indifferente. Eravamo, io, Battistino ed il mare: il mare enor-me, senza anima. S’io fossi mancato improvvisamente, esso sarebbe rimastocolla sua enormità, colla sua monotonia. Esso è senza di me. Io sono diffe-rentemente da esso. Esso è enorme: ed ha le sue leggi come quelle d’una mac-china: io non sono esso, sono come più debole di esso, sono più finito di esso.Ed ho avuto un momento d’angoscia e poi il senso che l’uomo è, solo con-trapponendosi all’obbiettività; è svincolandosi dalla obbiettività, creando ilproprio individuo, creandolo a gran sforzo perché tutt’intorno la pesantezza, ilnon individuo preme e soffoca. C’è veramente qualcosa che non è io: l’idealismonon è necessariamente monismo. Il mondo è la mia rappresentazione: va bene,ma in questa rappresentazione vi è la molteplicità e la diversità. Vorrà dire chel’io non è tutto d’un pezzo, che è fatto di frammenti. Ma è certo che vi è deldiverso da me: questo diverso da me io lo sento come avverso, come obbietti-vità uguagliatrice. Ed è contro di essa ch’io debbo affermarmi se non vogliomorire, è ricercando la mia individuale, la mia intima e nuda natura e svilup-pandola, ch’io vivrò e resterò».

Al di sotto del limpido dominio delle forme sta, come sua matrice, il “caosgerminale”, che è “fonte” e “rigurgito perenne”. L’intelligenza del sacro è nelfluttuare stesso della vita dal nulla «come nella cava immensità un mare notturno»: «Iltremore, l’intimo spavento dell’uomo religioso ha qui la sua radice; l’aspetta-zione del miracolo, la misteriosità, lo stupore, la complicatezza segreta, ilmisterioso miracolo di ogni cosa (nota od ignota che sia) nasce per l’uomo reli-gioso di qui. Di qui, dalla parte della vita par sgorgare l’inesausta fontana dellainfinita creazione; di qui nella vita più che di là nel concetto, pare albergare,pare aver la sua natura iddio. Iddio è strapotenza senza legge, è fuor di ognipiccola legge osservata con occhio mortale. Iddio è sbigottimento, iddio èabissale, inacquetabile sgomento prima d’essere ordine e bontà, prima d’esserpersona e tutte quelle altre cose, tutti questi altri logici attributi della tradizio-nale teologia scolastica. È sgomento, è spavento, è sbigottimento per questoprodigioso senza posa fluttuare di vita (da dove?) dal nulla, come nella cavaimmensità un mare notturno». (ER 130) (corsivi nostri).

A questa matrice figurale si collega il topos della malattia, interpretabile suun piano di svolgimento teologico come «ingranaggio cieco», «funebre iddio»(AG 202). Se l’esperienza della malattia divenne in Boine esercizio privilegiatodi conoscenza («…fu condotto dall’esperienza del male all’esteriorità dell’og-getto», AG 205), e terreno di verifica delle lacunose incertezza della ragioneverso il vivente, essa dovette però preventivamente adagiarsi entro forme sim-boliche precostituite, germogliate dalla dissoluzione della filosofia dello spiri-to. Per «dominare la morte», si legge nelle pagine dell’Agonia, è necessario«comprendere, vedere la vita, il cantuccio luminoso dell’essere dal fluttuantemareggiar del non essere» (AG 207). L’immagine del mare percorre intera-mente e vivifica la trama del racconto, intessuto sulle variazioni e modulazio-

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ni di un definito e costante motivo metaforico: «Ma come se di questa indeci-sione, di questo sfinimento malato (di nuovo gli reggevan male le membra:viveva cogli occhi!) riuscisse ancora incosciente a comporre liricamente il siste-ma, e dallo stesso suo strazio fuori traesse un’ultima gioia, ecco che quasi alfine gli parve di vagare indeciso sullo spumoso limite del nulla, come nel granfrangersi ondoso del nulla sull’essere, sul germinale bianchissimo spruzzo d’unsenza fine mare alla spiaggia a perdita d’occhio diritta. Ecco che veramente egliera nell’iridato frangersi, sull’andare e tornare canoro, nel cullarsi vaporosospumoso dell’onda alla riva d’un mare. Ecco ch’egli si faceva e sfaceva, collecose nasceva e moriva, pigliava l’abbrivio nell’aria e cadeva, era reale e irreale,era aereato di nulla e di vita. Egli era tra la morte e la vita (s’esaltava) risospin-to dalla morte alla vita, abbandonato (soffio animato) tra la verità della notte ela luce» (AG 211).

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indice

Abbreviazioni e sigle

L’anello del ritorno: parodia colpa ed espiazione di Ugo Perolino

Nota biografica

Bibliografia

Nota al testo

Il peccato

Parte I

Parte II

Parte III

Annotazioni e commento

indice

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