antonio anzilotti da marx a gioberti: parabola di uno storico «realistico»

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Roberto Pertici Antonio Anzilotti da Marx a Gioberti: parabola di uno storico «realistico» 1. UN ARCHIVISTA. – Nel luglio del 1914, nelle settimane in cui l’Europa stava precipitando verso la catastrofe, Benedetto Croce propose ad Antonio Anzilotti di scrivere per «La Critica» la storia della cultura toscana dopo il 1860. 1 I due si erano conosciuti nel 1910 a Napoli, dove il giovane studioso pisano, da poco entrato nell’amministrazione degli archivi di Stato, era stato mandato in missione per riordinare le carte Crispi. 2 A quella lusinghiera of- ferta Anzilotti rispondeva con una lunga lettera in cui chiariva la situazione dei suoi studi: si sentiva abbastanza preparato per trac- ciare un quadro della cultura toscana dal 1815 al 1860; «ma ho – aggiungeva – ben poca preparazione per il periodo successivo»: R. PERTICI è professore ordinario di storia contemporanea presso l’Università di Bergamo - [email protected] 1 Nella seconda serie della sua rivista – come si sa – Croce venne pubblicando una serie di ricerche sul declino e la fine delle culture regionali e il loro confluire nel- la più vasta cultura nazionale: per quella toscana, aveva pensato in un primo momento a Giuseppe Prezzolini, che – scriveva a Giovanni Gentile il 28 gennaio 1915 – «spe- ravo così di condurre a qualcosa di concreto, ma il Prezzolini non ne fece nulla, e mi consigliò l’Anzilotti, col quale presi alcuni accordi un paio di mesi fa» (B. CROCE, Let- tere a Giovanni Gentile (1896-1924), a cura di A. Croce, Milano, Mondadori, 1981, p. 489). Ma poi (anche questo è risaputo) l’incarico fu affidato proprio a Gentile (G. GENTILE, Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze, Vallecchi, 1922, comparso a puntate sulla «Critica» dal 1917 al 1920). 2 G. SOFRI, Ritratto di uno storico: Antonio Anzilotti, «Rivista storica italiana», LXXIII, 1961, pp. 699-738, 710. Per i dati biografici e bibliografici essenziali (e per l’Anzilotti cinquecentista), oltre che a questo saggio, si rinvia a W. MATURI, Anzilotti, Antonio, «Dizionario biografico degli italiani», III, 1962, pp. 595-599, poi ristampa- to in A. ANZILOTTI, Movimenti e contrasti per l’unità italiana, con aggiunti alcuni scrit- ti sparsi e una nota biografica di W. Maturi, a cura di A. Caracciolo, Milano, Giuf- frè, 1964, pp. XXIII-XXVIII.

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Roberto Pertici

Antonio Anzilotti da Marx a Gioberti:parabola di uno storico «realistico»

1. Un archivista. – Nel luglio del 1914, nelle settimane in cui l’Europa stava precipitando verso la catastrofe, Benedetto Croce propose ad Antonio Anzilotti di scrivere per «La Critica» la storia della cultura toscana dopo il 1860.1 I due si erano conosciuti nel 1910 a Napoli, dove il giovane studioso pisano, da poco entrato nell’amministrazione degli archivi di Stato, era stato mandato in missione per riordinare le carte Crispi.2 A quella lusinghiera of-ferta Anzilotti rispondeva con una lunga lettera in cui chiariva la situazione dei suoi studi: si sentiva abbastanza preparato per trac-ciare un quadro della cultura toscana dal 1815 al 1860; «ma ho – aggiungeva – ben poca preparazione per il periodo successivo»:

R. Pertici è professore ordinario di storia contemporanea presso l’Università di Bergamo - [email protected]

1 Nella seconda serie della sua rivista – come si sa – Croce venne pubblicando una serie di ricerche sul declino e la fine delle culture regionali e il loro confluire nel-la più vasta cultura nazionale: per quella toscana, aveva pensato in un primo momento a Giuseppe Prezzolini, che – scriveva a Giovanni Gentile il 28 gennaio 1915 – «spe-ravo così di condurre a qualcosa di concreto, ma il Prezzolini non ne fece nulla, e mi consigliò l’Anzilotti, col quale presi alcuni accordi un paio di mesi fa» (B. Croce, Let-tere a Giovanni Gentile (1896-1924), a cura di A. Croce, Milano, Mondadori, 1981, p. 489). Ma poi (anche questo è risaputo) l’incarico fu affidato proprio a Gentile (G. Gentile, Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze, Vallecchi, 1922, comparso a puntate sulla «Critica» dal 1917 al 1920).

2 G. sofri, Ritratto di uno storico: Antonio Anzilotti, «Rivista storica italiana», LXXIII, 1961, pp. 699-738, 710. Per i dati biografici e bibliografici essenziali (e per l’Anzilotti cinquecentista), oltre che a questo saggio, si rinvia a W. MatUri, Anzilotti, Antonio, «Dizionario biografico degli italiani», III, 1962, pp. 595-599, poi ristampa-to in a. anzilotti, Movimenti e contrasti per l’unità italiana, con aggiunti alcuni scrit-ti sparsi e una nota biografica di W. Maturi, a cura di A. Caracciolo, Milano, Giuf-frè, 1964, pp. xxiii-xxviii.

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Credo di aver compreso bene i caratteri del mondo intellettuale del granducato toscano specialmente dopo che mi sono dedicato a studiare il movimento riformista da Pietro Leopoldo a Leopoldo II. Nel 910 but-tai giù (è proprio la frase giusta!) un opuscolo sul decentramento ammi-nistrativo sotto P.L. Fu allora che presi a leggere gli economisti toscani e me ne interessai tanto che decisi di studiare le tre riforme fondamentali, che cambiarono la faccia alla Toscana: quella doganale, quella tributaria e l’amministrativa. Non mi limitai naturalmente al periodo leopoldino; anzi lessi gli scrittori posteriori e compresi per quale profondo rivolgimento la cultura toscana venne trasformandosi. Sono ormai due anni e mezzo che io lavoro attorno a quest’argomento. […] Per tutto questo ho dovuto conoscere gli scrittori della Ia metà dell’800 fino alla rivoluzione pacifica del ’59. Credo di non peccare di orgoglio se dico di vederli chiaramente spiccare sul fondo dell’«ambiente» della nuova Toscana, nata dalla cri-si del periodo riformista e rivoluzionario. […] Fino al ’65 si può parlare veramente di cultura toscana: e quante cose ci sarebbero ancora da dire! Penso, per esempio, al gruppo di Valdinievole, che fu un centro impor-tantissimo di cultura (bastino il Galeot ti e Francesco Forti!).3

Si trattava di un bilancio dell’attività fino ad allora svolta come storico del Settecento e – come vedremo – di un programma di lavoro. Ma chi era lo studioso a cui Croce aveva deciso di rivol-gersi? Anzilotti, nato nel 1885, non aveva ancora trent’anni: poco prima della laurea in storia medievale e moderna all’Istituto di studi superiori di Firenze, conseguita nel dicembre 1908, era en-trato nella carriera archivistica come alunno di seconda categoria e dal 1910 lavorava nell’archivio fiorentino. Aveva alle spalle un buon numero di pubblicazioni sulla storia della Firenze cinque-centesca e sulla Toscana settecentesca, e da anni svolgeva una vi-vace collaborazione alla «Voce» e ad altre riviste ‘militanti’. Ma al di là di questi dati puramente estrinseci, la sua biografia poli-tico-intellettuale – questo è ciò che conta – si inserisce in una vi-cenda generazionale più generale, di cui, per la sua importanza, bisogna dar conto.

3 A. Anzilotti a B. Croce, Firenze, 25 luglio 1914, in Archivio della Fondazione Bi-blioteca Benedetto Croce, Napoli, Serie Carteggi, fasc. Antonio Anzilotti. Tutte le lettere di Anzilotti a Croce citate in questo saggio hanno la medesima collocazione archivistica. L’«opuscolo» a cui si accenna nella lettera è a. anzilotti, Decentramento amministrati-vo e riforma municipale in Toscana sotto Pietro Leopoldo, Firenze, Lumachi, 1910.

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2. la «dissolUzione del socialisMo». – Il punto di partenza quasi obbligato negli intellettuali che si formano negli ultimi anni dell’Ottocento e nei primi del secolo nuovo è il socialismo giova-nile e la consuetudine con la cultura marxista. Così anche per An-zilotti: all’idea liberale – scriverà nel 1914 – egli era giunto «attra-verso una lunga esperienza di cultura in campi opposti» e l’accettò «quando ormai fedi diverse erano state accolte e rinnegate come impotenti a soddisfare più larghe aspirazioni».4 Molti di questi gio-vani erano stati attratti dal socialismo per la «splendida battaglia» che il partito aveva combattuto «per la difesa delle pubbliche li-bertà» ai tempi del governo Pelloux. Intorno al 1905, Anzilotti era ancora socialista e marxista: lettore attento della «Critica» di Croce, della Filosofia di Marx di Giovanni Gentile che nell’edizione pisa-na del 1899 pubblicava in appendice le marxiane Glosse a Feuer-bach, di Discorrendo di socialismo e filosofia di Antonio Labriola.5 Fu il ministerialismo del partito e la sua deriva riformistica («un compromesso … che ha reso impossibile e una politica consapevole di nazione e una politica larga e schietta di classe») che distacca-rono progressivamente lui e molti dei suoi coetanei dal socialismo ufficiale e più in generale dalla politica: determinarono, insomma, come si dice in queste circostanze, il loro ritorno agli studi.

In un primo momento continuarono a dirsi marxisti («Il mo-vimento socialista era stato qualche cosa di più di un movimento politico e sociale: era stata una filosofia, un orientamento nuovo, che aveva improntato di sé il mondo della cultura. Se gli uomini, che ne erano stati a capo, si perdevano nella nebbia e intristivano nella pratica quotidiana del com promesso e dell’accomodamento, la dottrina restava per noi qualche cosa di superiore, che interes-sava profondamente il nostro spirito»), ma iniziò presto una revi-sione anche della dottrina:

Questa revisione ci portò lontani dal punto di partenza: più che correzione, fu superamento. La stessa reazione contro il positivismo e il

4 id., I giovani di fronte al liberalismo, «L’Azione», I, 15, 16 agosto 1914, pp. 2-3, ora riportato in c. PaPa, Intellettuali in guerra. «L’Azione» 1914-1916, con un antolo-gia di scritti, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 196-200, 197, da cui provengono an-che le citazioni successive.

5 sofri, Ritratto di uno storico cit., pp. 700-702, che riporta alcune lettere ‘mar-xiste’ del 1905 inviate da Anzilotti all’amico Carlo Di Nola.

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determinismo meccanico e banale parve a molti un assalto alle premes-se socialiste; i valori dello spirito furono esaltati con tanto maggio re ar-dore quanto più erano stati depressi e misconosciuti. Fu vigilia di cul-tura: ci aiu tarono, per rifare noi stessi, tutti gli pseudo movimenti che nel primo decennio del nuovo secolo si delinearono in Italia. Ci aiutò il modernismo; c’insegnò molte cose lo stesso sindacalismo; la scienza economica, che ci parlava per bocca di Pareto, prese le sue rivincite su tutto l’armamentario dell’ortopedia sociale!

Insomma anche Anzilotti passò attraverso quella che chiame-rà la «dissoluzione del socialismo» 6 (nel 1911 Croce avrebbe par-lato di «morte del socialismo»). Fu un fenomeno che interessò la grande maggioranza degli intellettuali socialisti della sua genera-zione: ma quale ne furono gli esiti?

In un’operetta del 1912, lo storico toscano scandì le tappe di questo percorso, attento evidentemente alla propria esperienza: la critica idealistica del determinismo marxista aveva prodotto una rivalutazione del momento volontaristico ed etico, che – se let-to in chiave gradualista – avrebbe condotto al «riformismo» teo-rico à la Bissolati, ma sviluppato in senso rivoluzionario, sarebbe sboccato nel sindacalismo e nel sorellismo. Nel primo il sociali-smo finiva nell’ideale democratico, umanitario e statalista; nel se-condo nell’ideale eroico, ascetico ed elitista. Anzilotti diffidava di entrambi: a suo giudizio erano come fratelli-nemici, che presenta-vano (uguali e contrari) gli stessi limiti. Ben altro fascino presen-tò per molti dei suoi coetanei il nascente nazionalismo, che – non a caso – rappresentò l’approdo di molti intellettuali ex-socialisti, passati magari attraverso l’esperienza sindacalista: costoro erano

6 a. anzilotti, La crisi spirituale della democrazia italiana. Per una democrazia na-zionalista (con una bibliografia ragionata), Faenza, Novelli e Castellani, 1912, pp. 19-39. Più sotto faccio riferimento a falea di calcedonia., La morte del socialismo (Discor-rendo con Benedetto Croce), «La Voce», III, 6, 9 febbraio 1911, p. 501 (poi in B. cro-ce, Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza, 19553, pp. 150-159). Sulla diaspora degli intellettuali socialisti nel primo decennio del Novecento (fenomeno di importanza centrale nella cultura dell’epoca e denso di decisivi sviluppi) e sui suoi esi-ti, cfr. r. Pertici, Il «ritorno alla patria» nel sovversivismo del primo Novecento. Percorsi politico-culturali di una generazione di intellettuali italiani, «Ricerche di storia politica», XI, 2008, pp. 153-175 e, più diffusamente, id., Il «ritorno alla patria» nel sovversivi-smo primo novecentesco e l’incontro con Mazzini, in Mazzini e il Novecento, a cura di A. Bocchi e D. Menozzi, Pisa, Edizioni della Normale, 2010, pp. 65-107.

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andati alla ricerca di élites forti e intraprendenti, nel bisogno di una morale eroica che ponesse l’esigenza di «una subordinazione disinteressata del singolo individuo ai fini della personalità collet-tiva». Tale «personalità collettiva» sulle prime era stata la classe, ma poi divenne la patria. Avevano una concezione agonistica della vita e della storia e, come avevano rincorso per anni il mito del-lo sciopero generale: poterono poi sostituirlo – al momento della guerra libica – con quello della guerra vittoriosa.

Anche per lo storico toscano il nazionalismo costituì un pro-blema con cui confrontarsi, ma fin da subito espresse un netto ri-fiuto nei suoi confronti: fin dai tempi del «Regno», – scrive – le ideologie nazionalistiche risultavano «una contraffazione artificio-sa ed estetica del bisogno di una vera politica nazionale; [espres-sioni di] sentimenti, che s’ispirano al materialismo imperialista e a quello socialista, anche se li dissimulano». Insomma nel nazio-nalismo riscontrava «difetti, che sono molto simili a quelli delle tendenze politiche contro le quali reagisce» e anche Anzilotti ave-va reagito. Ma anche del nazionalismo successivo, quello svilup-patosi dopo il 1910, «certo più equilibrato e più conscio dei suoi fini», Anzilotti rifiutava i presupposti di fondo: la negazione del-la «necessaria dialettica delle classi», la «morale di eccezione» di cui si faceva portatore, l’«apoteosi della guerra»:

Il nazionalismo e il sindacalismo hanno da questo lato il medesi-mo difetto: presuppongono la possibilità duratura di una tensione del-lo spirito, che può raggiungersi soltanto nei momenti tragici della vita di un popolo e negli urti temporanei fra interessi fortemente coalizzati. Ed infatti nell’una e nell’altra dottrina è diffuso questo pathos tragico, che sembra ereditato dalle vecchie concezioni catastrofiche e dà l’illu-sione dell’originalità e della forza nel disdegno della vita mediocre. No: quest’etica, che pomposamente si dice nuova ed è vecchia quanto il di-ritto della forza bruta, non fa che nascondere una fiacchezza spirituale, che, incapace dei doveri normali, impotente a sostenere quella diuturna fatica, che lentamente crea e agisce effettualmente sulla realtà, si pasce di grandiose visioni coreografiche e si affloscia subito non appena la si costringa a concretarsi in opere.7

7 anzilotti, La crisi spirituale della democrazia italiana cit., pp. 67-69, 74-75.

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Soprattutto, per lui, l’ideologia nazionalista era merce d’im-portazione, estranea alla tradizione del pensiero italiano: fu anzi fra i primi che sviluppò questo motivo polemico, destinato poi a grande avvenire.8 Da qui il bisogno che sentì di approfondire la conoscenza del massimo teorico del nazionalismo francese, Char-les Maurras, e di confrontarsi da vicino col suo aspro pensiero.

Anzilotti comprendeva le ragioni del fascino che esso eserci-tava su una parte della gioventù intellettuale d’Oltralpe: di fron-te a un regime democratico fondato sull’onnipotenza del denaro e sulla continua mediazione politica fra il governo e le più dispa-rate richieste dei gruppi sociali, il pensiero nazionalista aveva ri-proposto la monarchia tradizionale come realizzatrice della pace pubblica; il valore della tradizione, dell’eredità morale e tecnica nell’esercizio dei servizi; la critica del parlamentarismo; il decen-tramento di contro all’accentramento rivoluzionario e napoleoni-co; il realismo come critica della falsa coscienza borghese. Ma il suo istinto di storico gli faceva percepire anche l’artificiosità di un richiamo alla monarchia di ancien régime, allora, all’alba del XX secolo:

Non si capisce … come oggi si potrebbe ricostituirla. Il monarca-to dovrebbe sorgere necessariamente in mezzo alle forze sociali, che ha portato seco l’avvento della borghesia: di questo dato di fatto il re non potrebbe non tener conto ed ecco allora la monarchia cacciata nel contrasto di classe, discesa dal cielo in terra e costretta a va lersi degli elementi che la storia le offre. I neo-monarchici rispetto alla profonda trasfor mazione apportata dal terzo stato vengono meno ad un canone fondamentale della loro dottrina. Essi, per combattere la rivoluzione dot-trinaria e le astrazioni democratiche, dicono di attenersi ad un realismo, ad un positivismo politico, per il quale le istituzioni non sono effetto

8 Ripreso poi, fra gli altri, da Benedetto Croce, già nel primo dopoguerra e poi nella Storia d’Italia del 1928: cfr. r. Pertici, Croce e il «vario nazionalismo» post-belli-co (1918-21), in Studi per Marcello Gigante, a cura di S. Palmieri, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 575-624. Viene discusso da f. Perfetti, Il nazionalismo italiano dalle origini alla fusione col fascismo, Bologna, Cappelli, 1977, pp. 29-33, che torna ad affermare il carattere autonomo e autoctono del nazionalismo italiano. Ma anche Anzilotti, in pre-cedenza, era stato meno tassativo: cfr. a. anzilotti, Dalle lotte di classe alla nazione, «La Voce», IV, 23, 6 giugno 1912, pp. 827-828, dove affermava di non voler «com-mettere l’errore de’ gazzettieri da dozzina di gabellare per imitazione francese il movi-mento nazionalista italiano, che in realtà ha fisionomia propria, se non ancora del tut-to ben decisa e netta» (p. 827).

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di delibera zione, di capriccio umano, ma frutto di circostanze necessa-rie e ciò che ci tramanda lo sviluppo sto rico non può esser sottomesso alle elucubrazioni della ragione ragionante. Il fatto ha il supremo valo-re. Orbene, affermando tutto questo, non si può poi sostenere troppo semplicemente, che la ri voluzione fu opera di elementi estranei alla na-zione francese e quindi una calamità contraria a tutta la vita e alla tra-dizione della Francia. Essi così fanno con la Rivoluzione quello che essa fece rispetto al vecchio regime e si allontanano da quell’empirismo stori-co, che fa loro difendere la tradizione. […] il profondo antagonismo fra capitale e lavoro, che è la spina dorsale del mondo moderno, non può comportare un dualismo pacifico sotto le ali dell’assolutismo, come ac-cadde in regime manifatturiero. La monarchia dovrebbe anche qui sce-gliere, perché l’idilliaco equilibrio resta solo un pio desiderio. L’antico regime può, in questo, mal consigliare. E del resto tutta la nuova dot-trina [nazionalista] cerca di stringere la mobilissima società industria-le entro i quadri, dai quali era scoppiata fuori, quando ruppe l’involu-cro dei regime feudale. Essa non vuole riconoscere diritto di vivere alla democrazia – invero divenuta miserabil cosa –; mentre in realtà la stes-sa neces sità storica che creò la nobiltà feudale ci ha dato oggi l’incom-postezza democratica. Così ancora una volta appare alle stanche anime umane il luccicore del mito dei re.9

Tuttavia del pensiero di Maurras, Anzilotti tratteneva alcuni elementi: il richiamo alla tradizione e il realismo inteso come an-ti-ideologismo e ostilità a ogni forma di giacobinismo. Solo che sentiva l’esigenza di coniugarli con la storia d’Italia e, così facen-do, ne modificava decisamente il segno: qui non c’era alcun mo-narcato d’ancien régime da rinverdire o antica società organica da rivendicare. Fra l’altro a ogni operazione di questo genere si op-poneva il motivo nazionale, in quanto l’età dell’assolutismo mo-narchico aveva coinciso con l’emarginazione dell’Italia dalla sto-ria europea e alla sua frammentazione territoriale. Allora a quale tradizione rifarsi?

9 id., Monarchia storica e monarchia ideale, «La Voce», V, 24, 15 giugno 1911, pp. 590-591; ma anche id., La nostra tradizione e il Nazionalismo, ivi, V, 27, 4 luglio 1912, pp. 845-846. Nel confronto critico con Maurras, Anzilotti tenne presenti soprattutto i due volumi, «molto chiari e molto brillanti», di G. GUy-Grand, La Philosophie Na-tionaliste, Paris, Grasset, 1911 e Le procès de la démocratie, Paris, Colin, 1911: Guy-Grand si muoveva nella cerchia di Élie Halévy e della «Revue de Métaphysique et de Morale», quindi era un critico del nazionalismo.

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3. la «tradizione liBerale». – La risposta che Anzilotti dava a questa domanda scaturiva dai suoi studi sulla Toscana del ’700, la cui linea di ricerca era chiaramente delineata nella già ricorda-ta lettera a Croce del 25 luglio 1914. Non si tratta, come si po-trebbe pensare sulle prime, di una prospettiva in qualche modo limitata: come da altri studiosi del tempo (basti pensare alle in-dagini di Luigi Einaudi e di Giuseppe Prato sulla storia del Pie-monte settecentesco),10 la storia regionale fu da lui indagata come un microcosmo in cui analizzare processi più ampi e complessi-vi, che interagivano con la più generale storia italiana ed euro-pea.

Fra questi processi, il principale fu quello che in uno dei suoi ultimi saggi chiamò Il tramonto dello Stato cittadino: la fine, cioè, della «supremazia esclusiva» della Dominante sull’intero territorio del granducato e in generale delle città sulla campagna, e quin-di la nascita in Italia dello ‘Stato moderno’ e di un’economia più larga e vivace. Secondo Anzilotti, si trattava di una serie di pas-saggi che avrebbero poi avuto un’importanza decisiva nella solu-zione unitaria del problema italiano:

Ma il punto centrale di questa trasformazione, che le riforme ven-gono attuando, è, […], l’abbattimento della supremazia esclusiva della metropoli o in generale della città. È que sta la importante conquista sto-rica che si raggiunge attraverso al l’opera riformatrice. Il medioevo, in tal senso, muore solo ora definitivamente. L’equilibrio fra città e campagna avrà le più lontane conseguenze, in quanto viene preparando il passag-gio da queste economie di piccoli Stati a quelle più larghe che resulta-no dalla fusione di questi vecchi organismi, e che prepareranno il sor-gere di una economia nazionale unitaria. Lo sforzo rivolto a mettere in valore le risorse di tutto il territorio, la conquista al lavoro e alla pro-duzione di zone incolte, malsane o trascurate, l’impulso dato all’aumen-to del la popolazione con le migliorate condizioni economiche generali pongono le basi reali e concrete della nazione.11

10 Che fra l’altro sono continuamente presenti ad Anzilotti e da lui portati ad esempio: cfr. anzilotti, Movimenti e contrasti cit., pp. 14-15, 36-37, 313-314, 364-365 e passim.

11 id., Il tramonto dello Stato cittadino (1924), in id., Movimenti e contrasti cit., pp. 5-32, 17.

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Lo storico sottolineava il carattere autoctono di questo pro-cesso: la politica riformatrice dei sovrani illuminati era nata da una logica di sviluppo degli Stati di antico regime, più che da un orizzonte ideologico di ispirazione illuministica e quindi in qual-che modo ‘francese’. In questo contesto si era sviluppato il pen-siero realisticamente e audacemente innovatore di tanti scrittori toscani a cui aveva corrisposto l’attività riformatrice di una bor-ghesia illuminata (non illuministica).12 Di questa borghesia Anzi-lotti sottolineava l’appartenenza alla tradizione culturale italiana, pur nell’apertura a tutti i soffi del vasto mondo:

Chi voglia risalire alle scaturigini dell’idea liberale in Italia occorre che si rifaccia al grande movimento riformatore della seconda metà del secolo XVIII, che, quantunque subisse alcune influenze dottrinarie d’ol-tralpe, fu schietta mente italiano e rappresentò il primo ripiegamento su noi stessi per conoscerci e mi gliorarci e con pensiero nostro e con uo-mini nostri preparò la via alla futura borghesia nazionale. In quell’epoca da noi la società medievale – fondata sul particolarismo, sul vincolismo, sull’economia mercantilista, sul privilegio della città dominante, eredita-to dal Comune – subisce le prime trasformazioni sotto i colpi arditi delle riforme. Lo Stato paterno, il grande tiranno, che la città aveva espresso dal suo seno, comincia a cedere i suoi privilegi: si levano i primi inni alla bontà dell’iniziativa individuale, alla libertà economica, all’efficacia salutare della concorrenza. L’economia politica fa da maestra agli uomini di Stato e insegna che il miglioramento sociale è questione di maggiore produzio-ne e che nessun organo collettivo può fare ciò che compie l’inte resse in-dividuale. L’accentramento, creato per rendere possibile al dispotismo di re golare tutta la vita dello Stato a suo arbitrio, subisce gli strappi, che gli arrecano le ri forme decentratrici e le cure particolari estese alla provincia. Bastano questi pochi cenni per capire che fin da allora si trovano formu-lati quei principi, che il liberalismo andrà in seguito svolgendo.13

12 Il Settecento di Anzilotti ruota intorno al problema della trasformazione degli antichi Stati italiani e alle riforme, più che alla cultura illuministica: da qui il confron-to con la sua storiografia da parte di studiosi di generazioni successive che in vario modo si sono richiamati alla «storiografia realistica» del primo Novecento: cfr. fra tut-ti M. Mirri, Dalla storia dei «lumi» e delle «riforme» alla storia egli «antichi stati ita-liani» (primi appunti), in Pompeo Neri, atti del colloquio di studi di Castelfiorentino, 6-7 maggio 1988, a cura di A. Fratoianni e M. Verga, Castelfiorentino, Società storica della Valdelsa, 1992, pp. 401-540, specie pp. 463, 473-474 e passim.

13 a. anzilotti, La tradizione liberale, «L’Azione», I, 3, 24 maggio 1914, ora in PaPa, Intellettuali in guerra cit., pp. 164-167, 164.

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Era in questo ambiente, dunque, che era nata quella che An-zilotti chiamava la «tradizione liberale» italiana: il suo prologo era nel pensiero italiano del Settecento (di economisti, giuristi, uomi-ni di governo e giornalisti), non nel vario giacobinismo di fine se-colo. Di questa origine pratica, non ideologica, essa serbava alcu-ni tratti essenziali: il «realismo», l’antigiacobinismo, il liberismo in economia, il tema delle autonomie e l’ostilità all’accentramen-to, il nesso con la cultura storica, l’orizzonte agrario, una con-creta cultura economica e giuridica, un complesso rapporto con l’elemento religioso.14

Queste idee di fondo sono già abbozzate nell’ampio saggio comparso sulla «Voce» del 29 settembre 1910 su La Toscana del secondo Leopoldo, che ci dà molti elementi di quello che sarebbe stato il contributo alla rivista di Croce, se Anzilotti non avesse ri-nunziato a quell’incarico: storici, giuristi, economisti (specialmente agrari), studiosi di problemi pedagogici, archivisti ed eruditi, am-ministratori sarebbero stati al centro del quadro. Il giovane stu-dioso sottolineava «l’orientazione pratica dell’ingegno toscano», che rifuggiva dai colpi impulsivi, riduceva il sapere alla cognizio-ne esatta dei fatti e delle opinioni degli uomini, avvertiva la ne-

14 Se tale tradizione aveva origini settecentesche, essa poi aveva ripreso vigore dopo la fine dell’avventura napoleonica, nell’età della Restaurazione. Ecco perché era ridut-tivo un approccio puramente ottocentesco o politico-diplomatico alla storia del Risor-gimento italiano e perché non era né possibile né opportuno fare della storia del Ri-sorgimento una disciplina autonoma, anche nell’insegnamento universitario: «Io sono contrario – scriveva a Gentile il 7 settembre 1924 – a fare della «Storia del Risorgi-mento» una disciplina a parte, nella quale si possa prendere la libera docenza. La Sto-ria del Ris. è un episodio della storia moderna o contemporanea d’Europa e, se divi-sioni si debbano fare – per ragioni didattiche o pratiche – nel vastissimo campo, che va sotto il nome di storia moderna (476-1918!), queste, semmai, potrebbero essere: sto-ria medioevale, storia moderna e magari storia contemporanea. Che la Storia del Risor-gimento richieda speciale preparazione e speciali metodi d’indagine nessuno può so-stenerlo. E poi: da che periodo farla cominciare? Perché escludere il 700? E così via» (Fondazione Giovanni Gentile, Roma, Fondo Giovanni Gentile, serie 1, Corrisponden-za, sottoserie 2 Lettere inviate a Gentile, Corrispondenti: Anzilotti, Antonio: tutte le lettere di Anzilotti a Gentile citate in questo saggio hanno questa collocazione archivi-stica). L’ostilità di Anzilotti verso l’istituzione delle cattedre di storia del Risorgimento è confermata nel necrologio che gli dedicò n. ottokar, Antonio Anzilotti, «Leonar-do», I, 1925, pp. 12-13: «Aveva un odio speciale per l’astrazione del ‘Risorgimento’, e non volle partecipare qualche mese fa a una commissione di concorso per l’insegna-mento di tale ‘materia’, per non favorire quella che riteneva una concezione artificiosa ed antistorica, atta a traviare l’intima comprensione della complessa unità delle condi-zioni reali d’Italia negli ultimi secoli».

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cessità di una disciplina morale, per la quale la libertà fosse resa possibile senza pericoli per l’ordine (sono parole sue).15

Ma questa linea di pensiero «realistico» non comprendeva ov-viamente solo toscani: vi appartenevano Vincenzo Cuoco, che ave-va opposto «al razionalismo francese, all’individualismo rivoluzio-nario la storia e con la storia la Nazione»; 16 Alessandro Manzoni, che «richiamò gli uomini agli umili doveri di tutti i giorni, dette alla letteratura un nuovo contenuto cristiano, e opponendo il suo spiritualismo cattolico al sensismo inglese e francese non si per-se nelle fantasie vaporose del romanticismo, ma scelse a fonda-mento della sua arte un processo schiettamente realistico»; 17 Vin-cenzo Gioberti nella sua polemica contro l’ideologia mazziniana e il cosmopolitismo giacobino; Carlo Cattaneo, che ebbe «duran-te tutta la vita una percezione così netta dei problemi naziona-li che anche adesso, scorrendo a caso le sue molte opere, ci col-pisce la loro straordinaria vivezza ed attualità. […] la mente del Cattaneo ci appare sempre di eccezionale lucidità nella rilevazio-ne delle crisi che affaticano il paese, genialissima nel proporre e discutere i rimedii»; infine soprattutto Camillo Cavour e liberali lombardi, toscani, emiliani, napoletani che a lui e alla sua azione politica fecero riferimento.18

15 Queste idee le sviluppava in un continuo dialogo con Francesco Baldasseroni (1878-1923), suo collega all’Archivio di Stato di Firenze e autore di un libro su Il rin-novamento civile in Toscana, che Anzilotti lesse in manoscritto e di cui dava per im-minente l’uscita nel 1914, ma che poi rimase – vivo l’autore – sostanzialmente inedito. Ne uscirono in poche copie a stampa solo i primi tre capitoli (segnalati in a. anzilot-ti, Di alcune pubblicazioni sulla storia del Risorgimento (1914), ora in id., Movimenti e contrasti cit., pp. 307-330, 315-317, col titolo Per una storiografia del Risorgimento), che furono riproposti in volume nel 1931, un anno dopo la raccolta postuma degli scritti sette-ottocenteschi di Anzilotti: f. Baldasseroni, Il rinnovamento civile in Toscana, Fi-renze, Olschki, 1931, a cura della Deputazione toscana di storia patria.

16 anzilotti, La tradizione liberale cit., p. 165.17 r. PalMarocchi, La nostra tradizione, «Il Risorgimento», I, 1912, pp. 1-13, 9.

Si tratta dell’editoriale di apertura della rivista fondata da Anzilotti, con Giuseppe Do-nati, Guido Muñoz e Roberto Palmarocchi un altro suo collega all’Archivio fiorentino, dopo il loro clamoroso distacco da Salvemini e dalla sua neonata rivista «L’Unità» alla fine del 1911. Sulla vicenda, alcune informazioni generali e bibliografia in PaPa, Intel-lettuali in guerra cit., pp. 39-42. Sulla comunanza di problemi e impostazioni fra Pal-marocchi e Anzilotti (e anche per alcuni dissensi), cfr. r. PalMarocchi, La nostra crisi spirituale, «Il Risorgimento», I, 1912, pp. 305-313, rec. al libro di anzilotti, La crisi spirituale della democrazia italiana cit.

18 PalMarocchi, La nostra tradizione cit., pp. 11-13.

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Sullo sfondo lo studioso individuava negli italiani e nella loro storia quasi un tratto antropologico, che li predisponeva a un ap-proccio ‘realistico’ alla vita. In opposizione a tante analisi che del carattere degli italiani si erano fatte nell’Ottocento, da Sismon-di a De Sanctis, questo realismo istintivo gli sembrava derivare da una «conoscenza un po’ scettica della natura umana» di ma-trice cattolica. Il ‘sentire cattolico’ non era quindi una tara ori-ginaria dell’antropologia italiana, ma una sua peculiarità positiva, che non era naturaliter estranea al ‘liberalismo’ come lo intende-va Anzilotti:

Questo temperamento religioso delle più radicali tendenze socia-li e politiche è l’espressione del senso della limitatezza umana, opposto alle esigenze della pura ragione. E deve esser così: un popolo di lunga esperienza storica, in contatto con la Chiesa Romana, osservatore e cri-tico della sua vita tra scorsa e presente, creatore del giure, passato attra-verso ad una varietà sempre originale e spontanea di ordinamenti, edu-cato dal Rinascimento – che fu tutta una con quista piena della natura, del mondo, della storia e del l’uomo –; costretto a ripiegarsi su se stes-so per rialzarsi e quindi sempre in armonia con la realtà esteriore, non può risorgere che col senso equilibrato del proprio esse re, per modi-ficare il presente, con una rinnovata anima, per umanizzare le aspira-zioni più lontane della società. Non possiamo dunque aderire ai nuovi dettami della teoria e della morale nazionalista, in quanto sono un’al-tra moda ideologica, che si tenta di intro durre in Italia, che ripugna al nostro più schietto ca rattere e distrae dalla soluzione dei problemi ge-nerali del paese.19

Il problema della «tradizione liberale italiana» costituì dunque un punto di contatto fra le ricerche storiche di Anzilotti e la sua riflessione politica. Ma allora non era soltanto suo: intorno ad esso riflettevano negli stessi anni anche alcuni dei suoi principali inter-locutori. Nelle sue indagini sulla famiglia Poerio e sulla tradizio-ne liberale meridionale, Croce avrebbe impostato la questione in un modo parzialmente diverso: il liberalismo meridionale nasceva da un’autocritica sviluppatasi all’interno degli ambienti giacobini che avevano partecipato all’esperienza della Repubblica parteno-

19 anzilotti, La crisi spirituale della democrazia italiana cit., p. 83.

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pea. Il fallimento del ’99 li aveva spinti ad abbandonare le astrat-tezze della loro impostazione iniziale, a riconsiderare il ruolo delle tradizioni storiche e dell’elemento religioso, a cercare un qualche dialogo con la monarchia: da qui l’opzione liberale.20

Gentile restava invece all’interno di un orizzonte più propria-mente filosofico: la reazione anti-sensistica che si sviluppa in Ita-lia nell’età della Restaurazione e che trova in Rosmini e Gioberti i suoi due massimi rappresentanti è al centro del suo quadro. Si venne allora affermando un nuovo liberalismo «moderato», che prende atto della lezione della rivoluzione francese e del cesari-smo napoleonico, reagisce alla cultura illuministica e sensistica in nome di un nuovo spiritualismo; rifiuta l’antica tradizione let-teraria di tipo classicistico e aderisce al nascente movimento ro-mantico; riscopre la centralità del sentimento religioso contro le facili negazione del secolo precedente. Insomma, per Gentile, il liberalismo in Italia era l’aspetto più propriamente politico della «reazione naturale, spontanea, necessaria alle dottrine del secolo XVIII, ai principii dell’Illuminismo francese, che in Italia aveva avuto tanti seguaci ed esageratori», reazione che significava anche idealismo in filosofia e romanticismo in letteratura.21

Alla ricerca delle origini della «tradizione liberale italiana», Anzilotti arretra alla cultura settecentesca storico-economico-giu-ridica (non necessariamente illuministica), considera il ventennio francese una rottura momentanea di quella tradizione, che poi ri-prende faticosamente nel periodo della Restaurazione: anche per lui, dunque (torneremo sulla questione), la Restaurazione non è sinonimo di pura reazione. L’unico dei tre che era disposto a ri-conoscere una qualche positività al momento giacobino era Croce, sia pure essenzialmente per la palinodia a cui erano stati costretti molti dei suoi protagonisti. Se il primo Anzilotti restava estraneo alla prospettiva filosofica gentiliana, tendeva già ora – come il fi-

20 B. croce, Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Bari, Laterza, 1919: i vari capitoli erano comparsi sulla «Critica» fra il 1917 e il 1918.

21 G. Gentile, Vincenzo Gioberti nel primo centenario della sua nascita (1901), in id., Albori della nuova Italia, II, Firenze, Sansoni, 19692, pp. 3-43, 22. Per il pro-blema rinvio a r. Pertici, Il Mazzini di Giovanni Gentile (1999), in id., Storici italia-ni del Novecento, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2000, pp. 105-158, 108-111.

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losofo siciliano – a sottolineare le potenzialità ‘liberali’ della cul-tura italiana dopo il 1815.

4. la crisi sPiritUale della deMocrazia. – Ma perché era ne-cessario allora, in Italia, all’inizio del secondo decennio del nuo-vo secolo, questo forte richiamo alla tradizione liberale? Perché la democrazia italiana mostrava chiari segni di crisi e si doveva evi-tare che il vuoto ideale da essa prodotto fosse in qualche modo riempito da ideologie (come il nazionalismo alla francese) che po-tevano risultare peggiori del male.

Il liberalismo è per Anzilotti soprattutto un ideale politico o, meglio ancora, un complesso approccio alla politica: è una «con-cezione realistica, tecnica e integrale dei problemi politici», un «riconoscimento delle esigenze della storia», che all’opposizione preferisce la responsabilità, all’utopia la realizzazione; è l’«idea e metodo di una classe dirigente consapevole». Anche qui lo storico toscano è fra i primi a enunciare tesi che avranno poi larga dif-fusione nel liberalismo italiano del Novecento: insiste infatti sul-la natura prepolitica del liberalismo e sull’impossibilità di farne il patrimonio esclusivo di un partito («L’opera sua di realizzazione, di fronte a punti di vista esclusivi e parziali delle altre tenden-ze politiche, è quella di integrare gli opposti nel momento stesso in cui attua ciò che vi si trova di conciliabile con le condizioni storiche. Perciò il liberalismo non si può restringere comprimere nell’ambito di un partito. Esso supera i partiti»).

La sua è una concezione agonistica della vita e della storia, per cui anche Anzilotti dichiara la bellezza della lotta: «La lotta è quindi una condizione di vita, è una necessità, è l’unico modo di miglioramento, di graduale rinnovazione in una società libera-le. Solo attraverso di essa gli elementi migliori possono perveni-re ad esercitare le funzioni statali. Perciò la lotta di classe invece di essere l’antitesi del regime liberale, ne è la necessità. Dalla sua dialettica scaturisce il progresso nazionale. Qui è tutta la morali-tà del liberalismo»).22 Lo Stato liberale è l’unico che può «rende-re largamente possibile la formazione e la sostituzione delle éli-

22 a. anzilotti, Liberalismo nuovo, «L’Azione», II, 18, 2 maggio 1915, ora in PaPa, Intellettuali in guerra cit., pp. 225-228, 225-226.

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tes. Queste possono dirsi tali quando il loro interesse economico coincide con quello generale e la loro capacità tecnica e il loro valore spirituale supera quello delle altre classi». Infine lo stori-co toscano distingue il liberalismo così inteso dal liberalismo ‘uf-ficiale’ e riconosce la possibilità che una funzione ‘liberale’ venga svolta anche da altri partiti: «La politica liberale, per somma iro-nia, emigrò certe volte presso i socialisti: anche recentemente ab-biamo visto questa inversione, che è poco edificante».23

La democrazia invece è il regime sociale, economico e politico emerso nell’Europa occidentale dalla rivoluzione industriale (An-zilotti non usa questa espressione ma da ex-marxista conosce il fenomeno) e da quella francese. Le due sue condizioni sono que-ste: «la sovranità popolare, da un lato come base; uno Stato, che corrisponda pienamente ai bisogni e alle aspirazioni della totali-tà degli interessati, dall’altro, come necessaria conseguenza della prima condizione».24 L’Italia di Giovanni Giolitti non traduceva certo in pratica questi principî: l’attività di governo si risolveva in un’interminabile mediazione fra interessi politici diversi e con-trapposti, mancava di unitarietà, di un indirizzo che potesse dirsi a tutti gli effetti «nazionale». Erano – com’è ben noto – critiche largamente diffuse nella varia cultura antigiolittiana dell’epoca, ma Anzilotti non ne fa una questione di moralità o non si concentra in una polemica ad hominem verso Giolitti e i suoi seguaci: guar-da piuttosto dall’alto al problema dei «governi di popolo» (come dice da studioso del medio evo) e alle loro difficoltà:

La democrazia si trova di fronte alla difficoltà di mettere d’accor-do interessi permanenti e generali che costituiscono, per dir così, l’eti-ca dello Stato, con quelli particolari, contingenti, effimeri; deve quindi

23 anzilotti, La tradizione liberale cit., p. 167. La tesi della «funzione liberale» at-tribuita al partito socialista circolava nell’ambiente vociano: cfr. l’art. anonimo Il com-pito del partito socialista, in «La Voce», VI, 7, 13 aprile 1914, pp. 55-56 («Così negli ultimi quindici anni il partito socialista è stato l’unico vero partito nazionale»), uscito un mese prima di questo intervento di Anzilotti. Com’è noto, essa sarà compiutamen-te teorizzata, nel dopoguerra, negli scritti di Mario Missiroli e avrà poi varia fortuna nella posteriore cultura politica italiana.

24 id., Democrazia di città e democrazia moderna, «Il Risorgimento», I, 1912, pp. 373-386, 374. Si tratta di una conferenza tenuta alla Biblioteca filosofica di Firenze il 12 gennaio 1913, che sottolinea le novità della democrazia contemporanea rispetto alle esperienze precedenti di «governo di popolo».

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salvare l’unità contro la disorganizzazione dei gruppi e degli individui; deve soddisfare le esigenze delle varie ca tegorie di interessati, delle qua-li è l’espressione e nello stesso tempo sente la necessità di trascenderli e di ne garli; è costretta ad esprimere il più fedelmente possibile la vo-lontà dei consociati e la conoscenza di questa volontà di masse e di ele-menti eterogenei è sempre sfigurata ed alterata e non trova ancora il modo della sua completa e genuina manifestazione; deve essere forte e libera ed è legata da un’infinità di vincoli e quindi debole e fluttuan-te; deve attuare l’ordine e nasce dal disordine; presuppone l’eguaglian-za ed omogeneità e deve sempre fare i conti con le disuguaglianze sto-riche e naturali.25

Dopo la distruzione dei corpi intermedi, la nuova forma or-ganizzativa delle masse sono i partiti politici: ma Anzilotti, che ha letto Michels e Ostrogorski, ne sottolinea il carattere vertici-stico e oligarchico, tanto che «la decantata partecipazione della volontà popolare all’indirizzo politico deve nella pratica essere ri-dotta a ben modesti confini».26 Tuttavia la sua critica della demo-crazia non si converte in un suo rifiuto, ma nella necessità di un suo sviluppo: la soluzione non è quella indicata dai «sognatori», che mirano alla ricostituzione dell’assolutismo (i nazionalisti à la Maurras). Esso è «il modo più spiccio e più semplice per risolve-re questa enorme difficoltà di attuare uno Stato, che sia l’espres-sione vera di interessi comuni e rappresenti il popolo, che s’im-pone certe norme di giustizia; poiché essa è l’abdicazione degli interessati ad ogni responsabilità; mentre la democrazia si risol-ve nello sforzo progressivo di dare coscienza e quindi valore spi-rituale alle maggioranze».

Anzilotti ritiene che solo il diffondersi di una nuova cultura, di un nuovo atteggiamento verso la cosa pubblica possa dare alle

25 id., La crisi spirituale della democrazia italiana cit., pp. 43-44.26 Ivi, p. 46. Su La critica dei partiti e il rinvio alla «classica» opera di M. ostro-

Gorski, La démocratie et les partis politiques (1903), uscita nel 1912 in nuova edizio-ne («sebbene si riferisca alle democrazie anglo-sassoni, pure le conclusioni del libro riguardano la democrazia in generale»), cfr. anzilotti, La crisi spirituale della demo-crazia italiana cit., p. 88. Per la fortuna di Ostrogorski negli ambienti dell’«Unità» di Salvemini, cfr. G. QUaGliariello, Gaetano Salvemini, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 40-41, 52-57, ma la sua fortuna italiana (Einaudi, De Ruggiero, Borgatta, Emery, etc.) meriterebbe una ricerca specifica.

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maggioranze il necessario «valore spirituale». Nel regime demo-cratico è più che mai necessaria una coscienza etica, altrimenti la democrazia diventa lo scontro di mille particolarismi. Nell’asciutto Anzilotti ritroviamo così il coetaneo di Giovanni Amendola, degli uomini del «Rinnovamento» e di molti vociani: anche per lui il problema di fondo della democrazia è di carattere sostanzialmen-te ‘religioso’. Si tratta di una generazione – scrive nel 1912 – in cui era gradualmente rinata la religiosità, dopo la crisi del socia-lismo giovanile: era stato così possibile per loro «raggiungere un equilibrio, che avevamo perduto da quando la fede scientifica era crollata rapidamente». E aggiungeva: «È stato un bisogno di dare ad ogni opera nostra, al nostro lavoro, ai nostri sforzi, all’adempi-mento dei più piccoli doveri un valore di assolutezza, ed in questo bisogno di assoluto l’anima si è quetata ed ha saputo rigettare da sé gli elementi egoistici, che fin’allora l’avevano dominata».

Per il momento Anzilotti non sembra riferirsi a una religione rivelata, ma a quell’etica dell’idealismo, che era un po’ il retro-terra morale dei più seri e impegnati fra i vociani. Ma era pro-prio da una battaglia culturale intesa a diffondere questo nuovo approccio alla vita che la democrazia poteva uscire dalla sua cri-si. Insomma questa rinascita religiosa doveva avere una ricaduta sociale. Qui lo storico si rifaceva esplicitamente ad alcune notis-sime pagine di Tocqueville:

A questo proposito De Tocqueville ci può insegnare molte cose: esso ha pienamente penetrato l’intimo contrasto della società democra-tica, che non può sanare i suoi difetti e quindi non può essere sé stes-sa, se non è pervasa da uno spirito etico e religioso, che alimenti in ogni unità individuale il senso della sua responsabilità e dia valore assoluto ad ogni personalità umana. Diciamo tutto questo e ci insistiamo, poiché mai come oggi, dinanzi alla profonda corruzione degli istituti democra-tici e alle stomachevoli farse dei partiti, abbiamo sentito che democra-zia equivale a dominio dello spirito e che quindi quel regime, che per gli attuali critici si riduce sempre ad essere una volgare supremazia di mediocri e di intriganti, deve tendere ad essere nella sua completa ed ultima attuazione regime di piena consapevolezza collettiva.[…] Si son ripetute quindi le parole del Tocqueville: «se l’uomo vuol essere libero deve credere» e si è riconosciuto francamente che soltanto il senso reli-gioso della vita, identificando l’attuazione del bene comune con lo svi-

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luppo della parte migliore della nostra personalità può dar valore asso-luto ad ogni atto individuale o col lettivo.27

Si comprende perché il giovane storico fu tra i primi a rispon-dere all’appello della «Voce»: non era trascorsa che qualche setti-mana dalla fondazione del settimanale, che Prezzolini si vide re-capitare una lettera in cui un ignoto corrispondente offriva la sua collaborazione: «Egregio Direttore, se il suo giornale La Voce fos-se uno dei soliti fogli, rispecchianti la cultura ufficiale ed acca-demica, sentirei il dovere di presentarmi munito d’un biglietto di raccomandazione del professore di università o del giornalista di voga. Con Lei questo sarebbe ridicolo».28

Il «realismo» che intanto andava teorizzando poté trovare nel «concretismo» salveminiano, nella sua critica dei partiti ideologi-ci non poche corrispondenze: «L’opera sua [di Salvemini] ci ap-pare come […] il più serio tentativo di trascinare la democrazia sul terreno dei fatti dal mondo delle astrazioni e degli affarucci, ove l’hanno cacciata i politicanti di ogni risma. Il Salvemini pro-pugna una democrazia fattiva, tecnica, preparata con l’ampio esa-me e l’esauriente dibattito intorno ai problemi concreti del pae-

27 Ivi, pp. 47-50. Non sono pochi i punti di contatto fra la riflessione politica dell’Amendola dell’anteguerra (per cui rinvio a r. Pertici, Alle origini della «filosofia politica» di Giovanni Amendola (1908-1912), «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», VI, 1979-80, Napoli 1983, pp. 241-298) e quella di Anzilotti, come anche pa-rallela è la loro parabola: dal socialismo giovanile all’esperienza vociana, al nazionalismo liberale de «L’Azione» (PaPa, Intellettuali in guerra cit., pp. 38-41, 66-73 e passim). Nel pamphlet del 1912 su La crisi spirituale della democrazia italiana, Anzilotti si richiama alla riflessione amendoliana sul problema della volontà (p. 75) e al suo noto articolo Il convegno nazionalista, «La Voce», II, 51, 1° dicembre 1910 (pp. 77-78), che segnava le distanze fra il settimanale fiorentino e il nascente movimento nazionalista.

28 A. Anzilotti a G. Prezzolini, Firenze, 8 gennaio 1909, in G. Prezzolini, Il tem-po della Voce, Milano-Firenze, Longanesi, 1960, p. 187. Anzilotti costituisce un esem-pio fra i maggiori di quello che Gobetti avrebbe chiamato il Giornalismo negli ideali-sti: «È difficile che questa filosofia si possa predicare da una cattedra: scolasticamente si irrigidisce nel gentilianesimo. Bisogna farla coincidere colla realtà, bisogna farla vi-vere di tutte le esperienze. Ecco perché l’idealismo ha dato vita a una nuova forma di letteratura che gli eruditi si ostinano a disprezzare come giornalistica, e i dilettanti sen-tono come un peso e un rimprovero alla loro farfallesca leggerezza. Il Giornalismo ne-gli idealisti è un tema da meditare e da chiarire (Croce, Prezzolini, Tilgher, Missiroli, De Ruggiero, Anzilotti, Russo, ecc.)»: cfr. il critico, Uomini e idee, «La Rivoluzione liberale», I, 13, 14 maggio 1922, p. 50, poi in P. GoBetti, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 19692, pp. 351-352, dove per «idealismo», più che una filo-sofia in senso stretto, si deve intendere un atteggiamento culturale complessivo.

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se».29 Tuttavia il fondatore dell’«Unità» restava all’interno del suo mondo di origine e il suo approccio appariva ad Anzilotti «l’ulti-ma conseguenza logicamente e moralmente coerente del vecchio riformismo socialista» più che qualcosa di qualitativamente nuovo. Era possibile creare una «democrazia maggiorenne» solo costrin-gendola (come cercava di fare Salvemini) «a considerare le gran-di questioni, che investono gli interessi dei lavoratori e del pae-se»? O era necessario un radicale rinnovamento culturale di cui l’empirismo salveminiano non sembrava capace?

Questa prospettiva nuova, Anzilotti la chiamò in un primo momento «democrazia nazionalista», quando ancora – intorno al 1912 – il termine «nazionalismo» era polisemantico nel lessico po-litico italiano e indicava prospettive assai diverse. Quando invece quella precisazione fu operata (al congresso di Roma dell’aprile 1914, come è ben noto), allora lo storico toscano preferì parlare di «liberalismo»: 30 approdo – come s’è visto – di un lungo peri-plo ideologico.

5. la storioGrafia realistica. – Ma Anzilotti era soprattutto uno studioso di storia. Questo lungo e accidentato percorso ideo-logico-politico si sviluppò parallelamente a una decantazione an-che delle sue posizioni storiografiche: alla ricerca di una «storio-grafia realistica», venne gradualmente comprendendo che anche quella ‘economico-giuridica’ a cui per alcuni anni aveva guardato con interesse, manteneva una serie di schematismi che ingabbia-vano il divenire storico e venne recependo in modo originale al-cune delle prospettive emergenti dalle prime riflessioni crociane sulla teoria e sulla pratica storiografica.

29 anzilotti, La crisi spirituale della democrazia italiana cit., pp. 55-56. E aggiun-geva: «Ed in questo sembra far sua la tesi, sostenuta dall’Ostrogorski di salvare la pra-tica democratica dalla inevitabile bancarotta, favorendo distinzioni politiche, fondate sul modo diverso di concepire e di risolvere problemi particolari e non già secondo le differenze teoriche ed astratte dei partiti. È un ritorno alla sincerità, all’onestà, alla chiarezza dei dibattiti politici contro le mene dei politicanti, che tengono schiava la volontà degli elettori, adattando i programmi agli aggruppamenti artificiosi delle orga-nizzazione politiche, invece di aggruppare gli interessati attorno alle questioni, che vo-gliono risolvere» (p. 56).

30 Sul contributo di Anzilotti al gruppo dei nazionalisti liberali che diede vita nel maggio 1914 alla rivista milanese «L’Azione», cfr. ora PaPa, Intellettuali in guerra cit., pp. 40-42, 47-54, 63-65, 85-87, 107-109, 119-121 e passim.

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La vicenda di Anzilotti ventenne, marxista e socialista, con-ferma la nota diagnosi crociana, secondo cui fu grazie al materia-lismo storico, «nella forma in cui [quella dottrina] fu elaborata o torturata dal Labriola e da altri pensatori italiani, [che] venne per la prima volta sorpassata davvero la inanime storiografia pura, che da oltre trent’anni occupava il posto della storiografia vera e pro-pria, della storiografia vivente: sorpassata, ma rispettandone e ac-cogliendone il frutto, che era il disciplinato metodo filologico».31 Iscrittosi alla fine del 1903 alla facoltà di Lettere dell’università di Pisa, passato nel 1905 all’Istituto di studi superiori di Firen-ze, dal giugno del 1906 inizia a confrontarsi per lettera con Car-lo Cipolla, chiamato alla cattedra fiorentina di Pasquale Villari, di cui prenderà possesso nell’autunno successivo. Cipolla è uno dei maggiori esponenti della scuola del ‘metodo storico’ (per Croce, la storiografia pura): con lui il giovane laureando usa molte pru-denze nell’esporre le sue intenzioni, che tuttavia – tra le righe – emergono chiaramente. Vuole studiare «le successive trasforma-zioni della costituzione della repubblica fiorentina, da quando, col ritorno di Cosimo il Vecchio dall’esilio la famiglia Medici mette le basi della sua supremazia», ma in modo nuovo:

Ho timore però che uno studio simile resti monco, se non è accom-pagnato dalla conoscenza delle condizioni reali della società del 500 fio-rentino, dalle quali poi rampollano queste istituzioni politiche. Per cui – mi sem bra – non potrei fare a meno di conoscere le teorie politiche che in quell’età si formarono ed ebbero grandi e profondi interpreti nei più noti uomini politici e scrittori. […] Mi son fatto la domanda: qua-le utilità porterebbe un lavo ro che mostri quali sono gli uffici, gli inca-richi, il funzionamento insomma, del le varie magistrature politiche del principato, se queste vengono isolate come corpi astratti, senza metterli in relazione con tutto lo svolgimento della società fiorentina del 500? E dall’altra parte potrò io fare un lavoro di ricostruzione, che parta dalle fondamenta e s’innalzi a guardare tutto l’edificio?

Non basta, insomma, una diligente ricerca sulle competenze e sulle attribuzioni delle varie magistrature, se non si ricostruisce il

31 B. croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, II, Bari, La-terza, 19644, pp. 137-138.

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loro nesso con la società e la dialettica delle classi. Il professore lo mette in guardia da ricostruzioni troppo ampie e non sempre aderenti alla documentazione d’archivio, ma Anzilotti, pur ammet-tendo la fondatezza di quei rilievi, indica con chiarezza qual è il suo retroterra storiografico, chi sono i suoi maestri:

mi sembrò che lo studio delle magistrature politiche del principato me-diceo non avesse un grande interesse, se non cercando di porre queste istituzioni nel posto che occupano nell’evoluzione storica della società fiorentina [...]. I miei maestri di studi fin’ora sono stati: il prof. Rodo-lico, il prof. Volpe e il prof. Villari, e da questi mi venne il desiderio di considerare il fatto storico in relazione alle condizioni sociali, perché non rimanga isolato e perché possa ap parire nella sua vera luce. Ho det-to «mi venne il desiderio», perché ho sem pre sentito il bisogno di chie-dermi il perché dei vari fatti, sui quali si è ferma ta la mia attenzione, ma ho sempre visto tutte le difficoltà del metodo, gli errori in cui fa-cilmente si può cadere e l’esagerazioni che snaturano la verità storica e sono più di detrimento che di aiuto. Così per le origini del Comune stu-diai i lavori del prof. Volpe e del Salvemini e, giovane come sono, non mi son potuto sottrarre al fascino di quelle geniali ricostruzioni. Nelle conferenze di magistero che ci faceva fare il prof. Volpe, come incarica-to, fui spaventato dalla grande diversità di spiegazione, d’interpretazio-ne dei fatti storici, quale sentivo dal mio professore, e le narrazioni che noi potevamo trovare o nelle opere generali di storia o in singole mo-nografie. […] L’anno passato fu per me pieno di incertezze, perché da un lato sentivo che il metodo che io ora dirò del prof. Volpe rispondeva a certe esigenze della mia mente più d’ogni altro mostrandomi la genesi d’un fatto storico dalle condizioni reali della società e i legami che uni-scono i vari fenomeni sociali ad un unico fondamento; dall’altra parte, comprendendo tutte le difficoltà di questo metodo, mi trovavo imbro-gliato, inceppato nei miei studi, non sapendo a che via attenermi. Cre-do che per questa via siano passati molti giovani della mia età. Certo non Le dissimulo che ebbi in certi momenti il desiderio di abbracciare anch’io teorie, che a me sembravano allargare le idee, illuminare il caos dei fatti, essere la guida per orientarmi. Per questo cercai con deside-rio – mi perdoni se Le confesso tutto – libri che trattassero delle que-stioni riguardanti la storia.32

32 Si tratta di una serie di lettere scritte dal 13 giugno al 24 settembre 1906, am-piamente citate (e acutamente commentate) in M. Moretti, Carlo Cipolla, Pasquale Vil-lari e l’Istituto di studi superiori di Firenze, in Carlo Cipolla e la storiografia italiana fra

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Dal bisogno di «considerare il fatto storico in relazione alle condizioni sociali» nasce il fascino dell’impostazione seguita da Salvemini e Volpe nei loro studi sull’origine e lo svolgimento dei comuni italiani. Il dubbio che un’applicazione troppo meccanica del sociologismo storico porti ad «esagerazioni che snaturano la verità storica» non attenua l’esigenza di teorie capaci di «allarga-re le idee, illuminare il caos dei fatti, essere la guida per orien-tarsi». Il giovane non accennava qui agli studi marxisti di Croce, Gentile e Labriola, di cui invece scriveva diffusamente solo qual-che mese prima all’amico Di Nola, ma sono questi i «libri che trattavano delle questioni riguardanti la storia», che aveva avver-tito il bisogno di leggere.

Se le convenienze accademiche potevano consigliargli pruden-za nei rapporti col docente con cui doveva poi laurearsi, furono le pagine della «Voce» che gli consentirono di esprimere schietta-mente il suo pensiero, una volta uscito dall’Istituto: anzi, in piena sintonia con Prezzolini, volle fare della nuova rivista uno strumen-to per diffondere metodi e acquisizioni della «storiografia realisti-ca da Salvemini a Caggese», avvertita come la grande novità ne-gli studi storici italiani:

anche in Italia la storia, lasciando il mondo povero d’idee, ristretto e freddo degli eruditi, dei retori, dei letterati puri, si è fatta più uma-na, col senso nuovo del concreto e della realtà, ha attinto nuova vita da campi intellettuali diversi, che, divisi dalla specializzazione accade-mica, sono stati avvicinati da chi ha avuto coscienza del l’armonica uni-tà delle manifestazioni dello spirito, ha sorpassato lo stadio di un avvi-cinamento esteriore e letterario dei dati, ha cer cato di scoprire la forza, che stringe i vari elementi di un fatto so ciale nel passato e nel presente, combattendo il vecchio metodo che li isolava. Noi non possiamo [che] apprezzare questa rinascita in tellettuale, che ha cercato di avvicinare la storiografia alla realtà che ha dimostrato di avere una più larga coscien-za della comples sità dei fatti umani e che ha reagito contro l’unilatera-lità del puro metodo storico, andatosi stemperando nella ricerca minu-ziosa, nella discussione bizantina, nell’aneddoto, nella curiosità, e che si era imposto una vera rinunzia, quasi uno stato d’impotenza, tenendosi stretto gelosamente alle sole attestazioni formali delle fonti.

Otto e Novecento, atti del convegno di studio, Verona 23-24 novembre 1991, Verona, Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere, 1994, pp. 33-81, 76-79.

499Antonio Anzilotti da Marx a Gioberti

Da questa «rinascita intellettuale» è nata una nuova figura di storico, non più meramente accademico, ma mescolato alle lotte del presente, ‘militante’, si potrebbe dire:

Lo storico si era troppo spesso racchiuso entro la sua nicchia di ri-cercatore paziente; non aveva vissuto intellettualmente in mezzo alla vita reale, per acquistare la rapida intuizione e la valutazione retta dei movi-menti ultimi ed inconsci degli avvenimenti umani; era stato troppe vol-te asceta di ciò che solo è strumento primo e valido di una ricostruzio-ne, la critica delle fonti; nel suo gabinetto non erano entrati mai l’aria, la luce, la realtà vissuta. […] I nuovi storiografi […] non restano isola-ti, assorti tutti nell’indagine del passato, gelosi della perfetta calma del lavoro di tavolino, ma si mescolano spesso alle lotte del presente, rivol-gono per lo meno la loro attenzione alle multiformi manifestazioni del-la vita moderna, acquistando quel senso realistico, che solo aiuta lo sto-rico a penetrare veramente nell’anima del passato

L’origine di questo vasto movimento era nella diffusione nell’ul-timo decennio dell’Ottocento del materialismo storico, nelle sue varie e tutt’altro che univoche accezioni:

A tutto questo movimento nuovo dettero impulso la concezione ma-terialistica della storia, i dibattiti nel campo speculativo sul va lore e la natura di essa e il largo sussidio delle indagini, giuridiche ed economi-che. Si è sentito allora forte il bisogno di trovare nel complesso degli av-venimenti delle società presenti e passate la loro spiegazione intrinseca, di discendere dalle astrazioni, dalle interpretazioni artificiali alle consi-derazioni delle forze positive operanti nella società; si è voluto giunge-re ad un lavoro di unificazione e di riannodamento. E come i principi del materialismo storico sono stati il riflesso nel campo speculativo dei movimenti economici e dell’evoluzione delle classi odierne, così la nuo-va scuola della storiografia realistica si è volta con passione, quasi con nostalgia, alla ri costruzione di quei fatti nei quali il presente sembra ri-flettersi nel pas sato e nei quali sembra quasi allargarsi e rivivere la co-scienza dell’uo mo moderno.33

33 a. anzilotti, La storiografia realistica, «La Voce», I, 15, 25 marzo 1909, ora in id., Movimenti e contrasti cit., pp. 335-339, 335-336: gli storici presentati in quest’ar-ticolo (oltre e Volpe e a Salvemini) erano Ettore Ciccotti, Gino Arias, Romolo Cagge-se e Niccolò Rodolico. La «storiografia realistica» come argomento della sua collabo-razione alla «Voce» fu suggerita ad Anzilotti dallo stesso Prezzolini: cfr. e. di rienzo, La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, Firenze, Le Lettere, 2008, p. 115,

500 Roberto Pertici

In questi primi saggi, Anzilotti si dimostra ancora all’inter-no di una concezione materialistica della storia, sia pure fuori da ogni rigidità: gli istituti del diritto si plasmano sui rapporti di pro-duzione, il mondo superiore della cultura è il «riflesso indiretto» delle condizioni varie delle classi e degli antagonismi sociali, le varie manifestazioni dell’attività umana sono «tutte quanti ram-pollanti dalla struttura economica, ma poi differenziate, intrec-ciate, sottraen tisi spesso al freno di una valutazione obiettiva e di una sistemazione». Nella ‘storiografia realistica’, egli mostra di ap-prezzare soprattutto l’opera di Volpe, che – nei suoi celebri inter-venti apparsi su «La Critica» fra il 1906 e il 1908 – si era dimo-strato «nemico delle gerarchie nello studio dei fenomeni sociali, delle formule, care ad economisti e a sociologi» e aveva «messo in guardia contro le affrettate deduzioni dei semplicisti, sostenen-do che far opera di storico non è costringere i fatti entro caselle teoriche».34 L’opera dello storico abruzzese attestava «quanto fe-conda di nuovi ed ottimi resultati sia l’unione giudiziosa dell’in-dagine più propriamente storica, dell’accurato studio delle fonti con la cultura economica e giuridica; ci attesta come sia necessa-rio a un lavoro di ricostruzione non il solo spirito di erudizione; ma anche e in particolar modo l’attitudine a penetrare il viluppo delle forze sociali».35

6. oltre Gli scheMi. – Ma già intorno al 1911 si avverte una diffidenza crescente verso un approccio alla storia che parta da «ve-rità, che han preso sistema, immobilizzate ed isolate» e che quin-di rischiano di nascondere la «complessità misteriosa» della real-tà. Nella critica viene coinvolto anche il materialismo storico:

che sottolinea opportunamente come la rivista intraprese «una sistematica campagna di stampa per valorizzarne [di Volpe] il ruolo di principale modernizzatore della storio-grafia italiana» (p. 114): ma il discorso riguarda l’intera storiografia ‘economico-giuridi-ca’. Ad essa Anzilotti annetteva anche Guglielmo Ferrero, verso il quale non nutrì mai l’avversione di Croce e degli ambienti accademici italiani: cfr. a. anzilotti, Le nuove esigenze dell’analisi storica (1911), in Movimenti e contrasti cit., pp. 343-351, 346-348 e soprattutto Una visita a Guglielmo Ferrero, «Il Risorgimento», I, 1912, pp. 18-23.

34 id., La storiografia realistica cit., p. 338. Anzilotti alludeva alle critiche di Vol-pe ad Arias e a Caggese nei saggi poi ripubblicati in G. volPe, Medio Evo italiano, Firenze, Vallecchi, 19282, pp. 99-194.

35 a. anzilotti, Uno storico dell’Italia medioevale: Gioacchino Volpe, «La Voce», I, 34, 5 agosto 1909, p. 138.

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Anche la concezione materialistica della storia – che pure aprì tutto un nuovo campo allo studio dei fatti sociali e rivelò il fonda mento rea-listico di appariscenti impalcature giuridiche, politiche e morali – non fu esente dai difetti della sistematizzazione, del sem plicismo, che ripete ed afferma più che rifare e spiegare. Si andò cioè dalle idee alle cose e non si colsero queste nella loro realtà effettuale per risalire alle idee. Le categorie economiche soffocano la vita storica, come prima avevan fat-to i preconcetti ideologici. […] Ma la via era tracciata: al lume di quel canone d’interpretazione, si studiò il progressivo processo di differen-ziazione sociale da quella che potremmo dire primitiva nebulosa delle passate concezioni; si intuì la dialettica delle trasformazioni sociali, si com prese che certi aspetti totalmente esteriori, quasi direi ufficiali de-gli avvenimenti, sono creazioni riflesse, sotto le quali operano necessità cieche e bisogni spontanei.

Si trattava di andare oltre il materialismo storico, non di rin-negarlo, perché «il senso della vita – nella filosofia e nella storia – si conquista gradualmente: ogni nuova esperienza non nega as-solutamente la precedente, ma la integra, l’arricchisce, la perfe-ziona». Anzilotti è giunto a una fase nuova del suo pensiero, che potremmo definire di «intuizionismo storico» e che ha nell’opera storica di Georges Sorel il suo modello prossimo:

Giorgio Sorel è per l’interpretazione del passato quello che è il Berg-son per la rappresentazione della vita dello spirito: le analisi della psico-logia delle classi sono in certo senso un’affermazione della ten denza anti-intellettualistica nel campo della storia. […] Il Sorel, scrivendo di storia, segue il suo intuito, il senso fine del la realtà, e più che tutto è guida-to dall’interesse del presente, che si riflette nel passato e che da questo trae esperienza per l’oggi. Così dal problema sindacale risalì alle origini del cristianesimo e fece la disamina dell’idea del progresso quale ideolo-gia della democrazia e dei politicanti. L’unica oggettività consiste nel co-gliere intuitiva mente la realtà, e ciò non è possibile, senza le esperienze della vita moderna, senza le analogie psicologiche, sociali, storiche, che aiutano la rievocazione del passato. La politica è maestra di storia più che questa lo sia della vita: è quasi impossibile distinguere il lavoro di ricostruzione del passa to dal ripiegamento cosciente dello spirito sugli avvenimenti odier ni, per comprenderne le cause e il valore.

Lo storico, sulla base della sua esperienza esistenziale e soprat-tutto della percezione della vita politica del suo tempo, diventa ca-

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pace di cogliere in profondità le situazioni del passato, di illumi-nare «sempre nuovi lati dei fenomeni sociali presi in esame»:

Soltanto così lo spirito rifà la storia: è un’assimilazione simpatica di materiali rozzi e di sgregati, che assumono coesione e significato quan-do la facoltà in tuitiva si vale degli elementi logici per vederli, per pene-trarli ed espri merli. Per questo il Sorel è frammentario, ama la digres-sione, si sofferma tratto tratto su certe particolarità, si vale di analogie storiche, avvicinando fatti lontani nel tempo e nello spazio. Anche nella forma egli riflette il lavorio che fa chi rievoca il passato e lo inter preta, valendosi dei suoi ricordi, delle esperienze presenti, e quasi di un fiu-to speciale, che: non ha nulla a fare con le esposizioni siste matiche e coi disegni compiuti. In quel disordine è la coerenza del pensiero, che cerca irrequieto di cogliere il significato di fenomeni e di avvenimenti. Questi sarebbero dati di relativo interesse, quasi estranei a noi, se non acquistassero valore spirituale a contatto con la vita.36

Come si vede, lo storico toscano era ormai al di là di ogni «oggettivismo storico»: l’obiettività della ricerca non era più ga-rantita dall’adesione alle regole del metodo (come per gli storici “puri” di fine Ottocento) o dal ricondurre i fenomeni storici al

36 id., Le nuove esigenze della ricerca storica cit., pp. 343-345. Meriterebbe una ricerca il percorso, nella storiografia italiana del Novecento, dell’aforisma secondo cui non è la historia magistra vitae, ma la vita magistra historiae, che qui Anzilotti traduce, affermando che «la politica è maestra di storia più che questa lo sia della vita». A par-tire dal 1904, per esempio, Gaetano De Sanctis lo venne ripetendo più volte: il luogo più noto è la Prefazione datata Torino, febbraio 1916, al terzo volume della sua Storia dei Romani, pubblicato nello stesso anno: «Maestra della vita può dirsi, certo, la sto-ria; ma non nel senso grettamente utilitario che si dà per solito a questa sentenza. È vero d’altra parte, interamente e senza eccezioni vero, che la vita è maestra della sto-ria. Sola, co’ suoi bagliori e le sue tenebre, gli amori e i dolori, le ansie e le speranze, la vita ci permette di portare nel cemetero del passato il soffio animatore che radu-ni e rimpolpi le ossa e dia loro di nuovo spirito e moto. E in questo senso ogni ope-ra storica non può non essere eminentemente personale e moderna; anche se lo sto-rico vuol riuscire obiettivo, o per dir meglio tanto più quanto egli vuol riuscire tale. Perché la vita non può riprodursi nella sua realtà se non rivivendola col nostro spiri-to quale appunto si è foggiato vivendo il presente. In ciò come sta il valore (se ha va-lore) della nostra opera di storici, così stanno i suoi limiti, che è doveroso riconoscere e confessare. E fuori di ciò non si ha storia oggettiva, anzi non si ha storia in nessun modo. Si ha solo quel che s’è detto, una raccolta di detriti del passato». Come Anzi-lotti, anche De Sanctis si stava confrontando da circa un decennio con le riflessioni crociane sulla storia e col superamento dell’ ‘oggettivismo’ che esse introducevano nel-la cultura italiana: cfr. ora l. Polverini, «Vita magistra historiae». La concezione stori-ca di Gaetano De Sanctis nella «Storia dei Romani», in Scritti di storia per Mario Pani, a cura di S. Cagnazzi et al., Bari, Edipuglia, 2011, pp. 395-405.

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loro substrato economico (come nei seguaci del materialismo sto-rico), ma da un’operazione epistemologica in cui la soggettività del ricercatore acquistava un ruolo preminente: era lui che «va-lendosi dei suoi ricordi, delle esperienze presenti, e quasi di un fiuto speciale» assimilava i materiali rozzi e disgregati che si tro-vava di fronte nelle indagini sul passato e dava loro coesione e significato. In questa complessa operazione si valeva di una «fa-coltà intuitiva», affinata dalla vastità dei propri interessi culturali e dall’esperienza del mondo.

Fu in questa fase di autocritica («il lavoro dello storico non cessa mai: ogni nuovo interesse spirituale genera un modo nuovo di intendere e di concepire la storia», scriverà nel 1914) che av-venne il suo incontro con le memorie crociane sulla storiografia, pubblicate dal filosofo a partire dal 1912.37 Come Renato Serra, Adolfo Omodeo, Gaetano De Sanctis, Widar Cesarini Sforza,38 anche Anzilotti avvertì l’esigenza di un confronto ravvicinato: vi ritrovò – precisati con ben altro rigore concettuale e inquadrati in un sistema che poteva ancora restargli estraneo – una serie di motivi a cui era pervenuto negli anni precedenti:

Le ultime memorie del Croce sulla storiografia dovrebbero fare del bene anche a quegli storici, che non si vogliono occupare di filosofia. Quegli scritti, anche considerati fuori del sistema di pen siero al quale sono strettamente legati, potrebbero almeno fare sen tire loro la povertà della nostra letteratura storica. Quali siano le condizioni di questa cre-do che a tutti sia noto. Siamo ancora in gran parte allo stadio più gret-

37 Alludo a B. croce, Storia, cronaca e false storie (1912), Genesi e dissoluzione ideale della filosofia della storia (1912), Questioni storiografiche (1913), poi confluite in id., Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza, 1917, ma fu soprattutto la prima che suscitò critiche e reazioni..

38 r. serra, Per la partenza di un gruppo di soldati per la Libia (inedito fino al 1927), ora in id., Scritti letterari, morali e politici, a cura di M. Isnenghi, Torino, Ei-naudi, 1974, pp. 278-288; a. oModeo, ‘Res gestae’ e ‘historia rerum’ (1913), poi in id., Scritti storici, politici e civili. Una diuturna polemica, a cura di M. Rascaglia, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 277-291; le lettere di Gaetano De Sanctis a Cipolla dell’11 e del 16 gennaio 1910, con significativi giudizi sulle teorie storiografiche di Croce, pubbli-cate in Moretti, Carlo Cipolla, Pasquale Villari e l’Istituto di studi superiori di Firenze cit., p. 70; la rilevante lettera di Croce a De Sanctis del 2 dicembre 1912 pubblicata in s. accaMe, Critica storia e modernismo nel pensiero di Gaetano De Sanctis, «Rivi-sta di storia della Chiesa in Italia», XXV, 1971, pp. 444-486, 468; W. cesarini sfor-za, Intorno alla storia e alla storiografia, «Archivio storico italiano», LXXII, 1914, vol. I, 2, pp. 255-274.

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tamente positivista ed agnostico; l’obiettività consiste ancora per molti in un bando rigoroso del pensiero. […]. Bisognerebbe incominciare a far capire ai nostri scrittori che storia vera è soltanto quella pensata e che quindi essa si fa mag giormente profonda e vasta, quanto più lo studioso ha allargato la sua esperienza spirituale e si è arricchito di idee. Andare a cercare la spiegazione della storia fuori di noi, fuori del nostro pensie-ro, nella congerie dei documenti, come se questi, aumentando sempre di numero, possano alfine darci la luce, è un assurdo. La fonte vale in quan-to sprigiona scintille di verità al contatto col nostro spirito. Se questo è povero, se è rimasto isolato dalla vita, appartato dai movimenti del pen-siero presente e passato, se non ha avuto contatto perenne con gli uo-mini, tutte le fonti di questo mondo non sareb bero capaci di fargli capi-re né la storia di mille anni fa né quella di ieri. Chi non ha entro di sé il concetto, non lo coglie neppure fuori di sé. Invece moltissimi ancora persistono nel mettere a destra i fatti, a sinistra le idee, da una parte gli avvenimenti, da quell’altra la loro spiegazione. Ed ecco allora l’assurdo: pretendere cioè di narrare i fatti lasciando ad altri e in altra sede di ca-pirli! […] L’erudito ha creduto di essere obiettivo ed invece ha ridotto l’umanità passata a se stesso: il rea lismo storico, come noi lo intendia-mo, è stato ucciso. Prendete in mano le storie, che narrano di lotte civili cittadine, di urti fra guelfi e ghibellini, di guerre fra Comune e Comune, e quando siete in fondo vi domandate: ma questa gente per che cosa si batte e si affatica? Le spiegazioni proposte vi sembrano ridicole. Eppure è stato detto mille volte che nella storia ricompaiono sempre, con le ne-cessarie differenze, i problemi che oggi ci interessano e ci tormentano e che il lavorio umano di oggi ha le sue lontane scaturigini proprio in quei secoli, che lo storico letterato rimpiccolisce a sua immagine! 39

Qui e altrove Anzilotti dava una sua lettura della crociana ‘con-temporaneità della storia’, ma restava estraneo al concetto post-hegeliano di ‘svolgimento’ che emergeva dalle pagine del filosofo o alla correlazione dialettica fra res gestae e historia rerum gesta-rum che invece appassionarono, in modo speculare, Serra e Omo-deo. Per cui – come molti degli storici delle generazioni successi-ve – anch’egli accolse alcuni aspetti dell’insegnamento di Croce, quelli più direttamente legati al suo concreto lavoro di storico, penetrando solo molto lentamente nei difficili meandri del suo si-

39 a. anzilotti, Storia e storiografia d’Italia, «La Voce», VI, 22, 28 novembre 1914, pp. 18-20, ora in id., Movimenti e contrasti cit., pp. 355-367, 355-356.

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stema e senza comprenderne fino in fondo anche le pratiche im-plicazioni.

7. esaMe di coscienza di Uno storico. – Dal settembre del 1915 al marzo del 1918 vi fu un lungo silenzio fra loro, dovuto in gran parte alle scelte diverse che avevano compiute sul problema dell’intervento italiano. Ma alcuni mesi dopo Caporetto, lo storico toscano si rifaceva vivo, manifestando tutto il suo apprezzamento per le postille con cui il filosofo aveva polemizzato contro gli op-posti ideologismi della ‘guerra democratica’ e del nazionalismo:

Io sono stato fra coloro che hanno stimato necessario l’interven-to dell’Italia, ma anche fra quelli, che si son sentiti molto a disagio in compagnia dei fautori della cosiddetta guerra democratica. Per ciò ho seguito il suo pensiero con vivo interesse e son contento di confessare che questo mi ha fatto molto bene. Il mio giudizio – ben lo so – poco vale; ma mi permetto, senatore, di dirLe che, a differenza dell’opinione di certuni, che pure si dissero suoi seguaci, ho considerato e stimato il suo atteggiamento di fronte alla guerra e ai suoi problemi ideali come la logica, coerente e necessaria conseguenza del suo pensiero e del suo insegnamento. Anche in questa occasione Ella mi è apparsa quello che è stato sempre per noi giovani: maestro di disciplina, di coerenza di pen-siero e di probità intellettuale. Purtroppo molti di noi – io per il primo – sentiamo di non aver seguito quell’insegnamento come avremmo do-vuto fare. Ci è mancato soprattutto il fondamento saldo e sicuro di un pensiero filosofico acquistato con le proprie fatiche, coi propri sforzi. Di qui incoerenze, digressioni, perditempi, incertezze.40

Anzilotti intuiva come le prese di posizioni sulla guerra e sul ruolo della cultura in quel delicatissimo frangente scaturissero in Croce da un compatto impianto sistematico che si fondava sulla ‘distinzione’ e che una tale compattezza mancava a lui e a molti dei suoi coetanei, che pure si erano avvicinati con interesse al pensie-ro crociano. Se non aveva raggiunto «il fondamento saldo e sicuro di un pensiero filosofico acquistato con le proprie fatiche», tutta-via un proprio percorso lo aveva compiuto: lo ricostruiva in alcu-

40 A. Anzilotti a B. Croce, Roma, 13 marzo 1918. Le postille crociane del perio-do della guerra sono raccolte in B. croce, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guer-ra, Bari 19654.

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ni brevi scritti del 1915 e il 1916, veri e propri esami di coscienza generazionali e personali di fronte alla tragedia della guerra.

Troppi libri, troppe astrazioni, troppe teorie nella sua giovi-nezza! Troppo intellettualismo e poca ‘vita’!

La vita ha avuto soltanto un interesse intellettuale. In quest’opera rivolta ad accendere fiammelle di pensiero da per tutto, si è esau rita la nostra attività. Ci siamo abituati a respirare aria rarefatta. Abbiamo cer-cato la natura come un eccitante d’idee. L’emozioni son partite dal cer-vello. Anche le cose semplici ed istintive abbiamo cercato come un di-versivo e dopo un processo intellettuale. […] Le medesime pretenzioni si sono avute, quando ci siamo rivolti a studiare e a rifare la vita de-gli altri, la storia. Non siamo stati contenti finché non l’abbiamo teo-rizzata. L’ab biamo adattata, più o meno consciamente, al nostro modo di consi derare la vita. Il realismo è stato spesso un’astrazione. Una leg-ge economica ha preteso di spiegare un movimento, resultante da pic-cole e da grandi forze, che si sono influenzate, mescolate, adattate a vi-cenda. Si è creduto che gli uomini siano preveggenti e predispon gano la loro azione ad un piano preconcetto. La logica sembra che tutto ac-comodi e sistemi. Ed è certo così; soltanto sostituiamo la nostra logica a quella delle cose stesse. Il nostro senno di storici ha pretese immense: pone un’idea ed esige che gli avvenimenti, le contingenze, i piccoli fat-ti, che generano le grandi azioni, i mutevoli atteggiamenti degli spiriti, le combinazioni varie ed impreviste degli interessi vi abbiano obbedito come a legge superiore. L’illusione della nostra vita individuale, creduta governata da un principio astratto e ideale, diventa illusione di studio-so. Diventiamo i pedagoghi della storia, gli ortopedici del passato, l’er-rata-corrige della faticosa e do lorosa opera umana.

La sua generazione era stata viziata da «un individualismo ec-cessivo, una cultura egoistica, un desiderio di esasperare la propria sensibilità con una vita spirituale sempre più raffinata, una inca-pacità di credere con trasporto e con volontà di sacrificio, un’abi-tudine logorante alla critica, una nostalgia di vita sanamente vis-suta». Per uscire da tale solipsismo era necessario calare quella esasperata soggettività nella «realtà» e nella «tradizione» (due con-cetti centrali in Anzilotti, come abbiamo visto) secondo un’allure tipica dello «spirito italiano»:

Quando [noi italiani] abbiamo abbrac ciato una fede, quando abbia-mo aderito ad una teoria, lo abbiamo fatto per piantarci in mezzo alla

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realtà vissuta saldamente e bravamente e ci siamo sentiti più sicuri fra i piccoli fatti e fra gli uomini, che do vevamo maneggiare e foggiare, piut-tosto che fra le astrazioni. […] Da noi le idealità non possono dunque vivere che nelle cose, nei fatti stessi. Non si sovrappongono alla realtà; ma ne rampollano. Si affermano, anzi, in mezzo ai compromessi, agli ac-comodamenti, alle combinazioni, alle abilità che il momento offre ed im-pone. Non sono sistemi, ma impulsi vivi. Si alimentano della conoscenza degli uomini e si affi nano e si purificano vivendoci in mezzo, partecipan-do alle loro spe ranze, ai loro dolori e alle loro vigliaccherie.

Solo da questa esperienza secolare poteva scaturire una «fede» non cervellotica e artificiosa, ma concreta e fondata sulla realtà:

E la fede è proprio così. Noi, che siamo andati a cercarla ai quat tro venti e per i libri; che abbiamo avuto l’orgoglio e la stupidità di crearci una concezione nostra della vita, non abbiamo inteso che ben poco c’è da innovare e da creare. Accettiamo l’esperienza dei morti e dei padri. Le nostre teorie non son capaci di intaccarla. Sono piccoli capricci di-nanzi agli sforzi e al lavoro dei secoli.

E in Italia tale «esperienza dei morti e dei padri» ha un’in-confondibile impronta cattolica:

Per ciò siamo stati cattolici. Nessuna religione è frutto di maggior coscienza della relatività umana e di esperienza della vita del cattolici-smo. In esso s’è incarnato tutto l’equilibrio di cui è capace il nostro spi-rito. Ha saputo ritrarsi dal pericolo di perdersi nelle profondità dell’ana-lisi interiore. Ha saputo incardinarsi sul dolore e sugli affetti umani. Ha concepito l’ideale, ma non ha ignorato gli ostacoli e le manchevo lezze che s’interpongono per raggiungerlo. È lo sforzo per trarre una scintil-la dalla nostra creta. È l’eccitamento più efficace delle crea ture deboli e refrattarie a far qualche cosa di bene entro i limiti della loro natura. Per ciò in Italia l’idea religiosa si è mescolata sempre alla vita pratica e vi si è trovata a suo agio, ne è stata una forza ed un lievito. Invece di alimentare il disordine degli animi che cercano l’assoluto, ha temperato il nostro individualismo. Invece di diminuire la sua efficacia con una di-sciplina impossibile o con esigenze eroiche, ha collaborato strettamente col nostro senso comune e con la nostra repugnanza istintiva alle con-cezioni eccezionali della vita.41

41 a. anzilotti, Soliloquio, «La Voce», VII, 14, 15 agosto 1915, pp. 870-875. È difficile dire quanto il ‘cattolicesimo’ a cui approda Anzilotti sia un’esigenza intellettua-

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Per Anzilotti il cattolicesimo romano ha segnato in modo in-delebile il carattere degli italiani in senso (avrebbe detto Maurras) anti-romantico: coscienza della relatività umana, equilibrio, accet-tazione del limite di contro a una continua e distruttiva analisi in-teriore, al disordine morale, alle pose eroiche, alle concezioni su-peromistiche. Dopo la dissipazione intellettuale della giovinezza vociana, dopo un periplo ideologico attraverso i vari ismi contem-poranei, affiora un bisogno di ordine e di disciplina. Ma la «di-sciplina» di cui lo storico va in cerca non è quella dei seguaci del

le e una posizione storica piuttosto che una fede realmente vissuta; fino a che punto, cioè, lo storico si appaghi di una religiosità di tipo filosofico o aderisca alla religione rivelata. La redazione di «Bilychnis», proponendo nell’ottobre 1916 il suo scritto Vo-lontà di credere e di sperare (V, 10, p. 268-272), lo presentava come uno dei tanti «do-cumenti di coscienze religiose in formazione» che la rivista aveva spesso pubblicati. Il saggio era preceduto da un brano di lettera, forse dello stesso Anzilotti, che afferma-va: «… Fin’ora il problema religioso mi aveva interessato più che altro intellettualmen-te; oggi al bisogno intellettuale si è aggiunto quello morale. Ne è provenuto uno stato d’animo doloroso ed incerto, attraverso al quale io credo stiano passando molti giova-ni, che fin’ora non ebbero fede determinata, ma che pure ne sentirono l’intima esigen-za e che oggi sono posti dinanzi a questo problema con maggiore insistenza dal grande fatto della guerra. Aggiunga che molti sentono la stanchezza dell’immanentismo ideali-sta e stanno adagio adagio rivolgendosi verso la trascendenza con animo desideroso di pace …». Come scriveva ancora la rivista, lo scritto presentava indubbiamente «incer-tezze» e «oscurità», ma era netto nella presa di distanza da ogni atteggiamento pani-co à la D’Annunzio («Se usciamo dalla pineta, dove, nella solitudine, abbiamo parteci-pato alla gioia inconscia di migliaia di vite effimere, dischiusesi ad un tratto nel caldo del me riggio, l’ombra del crepuscolo dà al bosco un’apparenza di tempio. […]. Colla malinconia il nostro io riprende i suoi diritti. Sentiamo di essere più dentro al mondo, di soffrire, con maggior pro fondità della scontentezza di ogni esistenza limitata messa al contatto coll’eterno»), dichiarando nel contempo utile illusione, ma pur sempre «il-lusione», la pretesa storicistica che «noi facciamo il mondo e che lo possiamo ridurre a noi stessi, […] che lo spirito nostro estrae continuamente dal suo seno il vero». Al-trettanto critico era verso il funambolismo intellettuale di chi «sta tra la fede e l’ironia, fra il sublime e la volgarità. Giovanni Papini ce ne ha rappresentata magistralmente l’intima tragedia». La società contemporanea ha per Anzilotti dei presupposti taciti: la storia sarebbe poco più che una «cieca dialettica di interessi», le esperienze spirituali soltanto forme retoriche, la politica diventa «l’attività principe», la vita interiore inte-ressa soltanto i filosofi di professione, alcune leggi ferree dominano la storia e la natu-ra. «Chi invece non è capace di irridere al mondo e di restar digiuno di fedi [Anzilotti si sentiva uno di questi, N.d.A.], riprende la via che mena a Dio colla malinconia del pittore cristiano, che nelle cattedrali gotiche esprimeva nei volti di madonne il senso di mistero del dolore»: «L’intellettualismo – aggiungeva – […] ci ha trasportato in un freddo e mutevole mondo artificiale, dove cessa ogni certezza e dove tutto ha un sen-so relativo e di convenzione». E in una lettera a una persona amica, scriveva: «Se Dio vuol bene agli assetati d’ideale; se Dio aiuta chi ha voglia di fede, io sono fra quelli ed attendo la mia ora» (l. rUsso, Prefazione all’edizione Laterza 1930, in anzilotti, Mo-vimenti e contrasti cit., pp. xxix-xxxiii, xxxii).

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nazionalista francese, non è «l’ordine degli spiriti, che hanno sra-dicato ormai le inquietudini e le impazienze delle fedi»:

L’equilibrio non è il resultato di un atto di compressione, di violen-za su noi stessi, di deformazione delle nostre tendenze spontanee. Esso è anzi frutto di libertà e di spontaneità. Nasce da un libero giuoco di forze; è poggiato sull’armonia delle tendenze naturali; è natura, non ar-tificio; è originalità, non costrizione. Il disordine nasce soprattutto dal persistere di un antagonismo inconciliabile, dal volere essere più cose diverse nello stesso tempo, dal sovrapporre una personalità artificiosa a quella schietta, dallo scrupolo di abbandonarsi del tutto a sé stessi, dal bisogno di complicazione e di critica e dall’eccesso di analisi e di logica. In un simile stato la disciplina non è una creazione spontanea; se esiste non può venir che dal di fuori […] Ma l’ordine italiano, l’ordine nella nostra storia e nella nostra tradizione spirituale, è tutt’altra cosa. Esso non è negazione di libertà, ma è la libertà stessa che trova il suo equi-librio spontaneamente. Esso nasce non quando certe facoltà sono sta-te compresse, ma anzi quando hanno avuto tutte completa attuazione. Non è segno di impotenza ad uscire da un perpetuo dualismo; ma anzi è pienezza e completezza interiore. Non è lotta corpo a corpo, con la natura e con la realtà; ma è anzi abbandono sano e sicuro alle tenden-ze naturali. Non è ec cessivo predominio di una di queste tendenze sul-le altre, ma contem peramento, armonia, fusione. Noi abbiamo la virtù dell’adattamento; noi sappiamo assorbire l’altrui e arricchirlo del nostro; lasciamo a noi stessi l’iniziativa della disciplina. Essa deve essere voluta, compresa, accettata con libertà, spontanea ed immediata.42

Insomma il suo è un tradizionalismo «liberale» e «cattolico»: l’incontro con Gioberti ha in queste riflessioni il suo retroterra.

42 id., Disciplina, «La Voce», VII, 13, 15 luglio 1915, pp. 787-795, 792. Sarebbe utile porre a confronto l’esame di coscienza di Anzilotti con altri più o meno celebri (primo fra tutti, ovviamente, quello di Renato Serra) che allora – fra l’inquieto dopo-guerra libico e lo scoppio della grande guerra – non mancarono, in pubblico come nei carteggi privati. In essi, spesso, un’analoga stanchezza per un’esistenza tutta calata nel dibattito ideologico-politico si convertiva o in un bisogno di vita elementare e d’azione (come, in definitiva, in Serra), o in trasalimenti religiosi, o in un’aspirazione all’equilibrio e all’ordine. Per un primo inquadramento non si può ancora prescindere (per chi sappia leggerlo) da a. oModeo, Memorie della vita di guerra (dai diari e dalle lettere dei cadu-ti), Bari, Laterza, 1934, specie pp. 208-246, dove è ben delineato il percorso dei miglio-ri vociani di fronte alla guerra, dall’egotismo e dal ribellismo all’accettazione dei «limi-ti semplici e pure ardui della vita quotidiana»: anche Omodeo aveva vissuto un’analoga autocritica fra il 1912 e il 1914, come ho cercato di dimostrare in r. Pertici, Preistoria di Adolfo Omodeo, in id., Storici italiani del Novecento cit., pp. 57-104, 89-96.

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8. l’aPProdo a GioBerti. – Perché poi il lavoro di maggior respiro di questo storico delle istituzioni e della cultura toscana del Sette-Ottocento fu proprio una grossa monografia dedicata a Gioberti e pubblicata nel 1922: un pensatore e un uomo politico che sembrerebbe – almeno per l’immagine corrente nella cultura italiana di oggi – assai lontano dalla cultura pragmatica e concre-ta che tanto piaceva ad Anzilotti. E invece fu intorno a Giober-ti e alla tradizione giobertiana che questo storico ‘realista’ lavorò negli ultimi anni della sua breve vita, dal 1915 al 1924. Come e perché avvenne questo passaggio?

Il primo approccio si ebbe sul terreno – per lui centrale – del ‘realismo’ politico. Nel 1913 fu pubblicato il libro postumo di Ed-mondo Solmi su Mazzini e Gioberti, in cui il fratello del già ce-lebre Arrigo, aveva per primo indagato le carte giobertiane con-servate alla Biblioteca Civica di Torino.43 Anzilotti ne trattava in un’importante rassegna di studi risorgimentali del 1914:

I contatti e le divergenze fra questi due pensatori hanno più che un valore personale un significato generale, che ci spiega il diverso at-teggiamento degli spiriti durante gli anni più agitati del Risorgimento. Mazzini impersona magnificamente l’ideale democratico con tutte le sue debolezze e tutte le sue virtù. Egli applica alla politica un’etica supe-riore, sogna una repubblica più mistica che umana, una democrazia di giusti, raggiunta con una scuola di costanza e di abnegazione. […] An-che il Gio berti, quando si mette in relazione con Mazzini e legge con entu siasmo i fascicoli della «Giovine Italia», concepisce un’opera politi-ca ispirata dalla religiosità, per «stampare nei cuori l’idea di giustizia ed apparecchiare il regno di Dio»; ma poi, come passa dal puro ateismo al cristianesimo, così aderisce ad una politica di concordia, di temperan-za e di realizzazione, che lo mette contro la dottrina e la pratica maz-ziniana. […] nel Gioberti si fa sempre più chiaro il di segno di valersi delle forze vive d’Italia – il papato prima, la monarchia piemontese poi – come di strumenti per la rigenerazione della patria, e le sue straordi-narie facoltà sempre più si sanno ac comodare ai fatti. […] Questo spi-rito d’equilibrio e di temperanza, che è proprio di tut ta la scuola mode-rata dei Balbo, dei Mamiani, dei Farini, degli Spa venta e dei d’Azeglio,

43 e. solMi, Mazzini e Gioberti, Roma, Albrighi e Segati, 1913. Importante la re-censione che ne scrisse Gentile nella «Critica», ora in Gentile, Albori della nuova Ita-lia, I cit. pp. 257-261.

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e che contrasta così fortemente con l’orga smo e con l’appassionata ir-ruenza dell’apostolato mazziniano, si ri vela col Primato nel riconosci-mento dell’unica grande tradizione spi rituale ed unitaria d’Italia: il cat-tolicismo romano. Poiché il progresso procede a gradi, non rinnega la storia, non distrugge le tradizioni, ma anzi se ne vale per nuove conqui-ste, legare il risorgi mento della patria all’istituto schiettamente italiano del Papato ap parisce come una logica conseguenza.44

Come si vede, lessico e concetti sono i medesimi che si ritro-vano negli scritti politici o nelle riflessioni sulla storia che abbia-mo appena analizzati: Anzilotti rinveniva nel realismo giobertiano (che era gradualismo, senso delle tradizioni, ostilità agli atteggia-menti messianici) molti elementi di quello che per lui era il «li-beralismo». Ma questo fu soltanto un primo passo.

Nel corso del 1915, lo storico toscano ritenne più o meno con-clusi i suoi studi sulla Toscana di Pietro Leopoldo, che – come s’è visto – costituivano il primo passo per poi affrontare la Tosca-na del secondo Leopoldo. Allora riprese il progetto, già ventilato nell’articolo vociano del settembre 1910, di occuparsi del grup-po di giuristi, storici ed economisti di Valdinievole (come li chia-mava). In particolare di Leopoldo Galeotti e del suo libro Del-la sovranità e del governo temporale dei papi, pubblicato – come è noto – nel 1846.

L’idea di fondo di quel testo era sulla stessa linea del Prima-to giobertiano uscito tre anni prima: il papa poteva mantenere il suo potere temporale e conseguire una primazia fra i sovrani ita-liani, ma solo riformando profondamente gli assetti amministrativi del suo Stato e soprattutto procedendo a una radicale laicizzazio-ne delle sue strutture politiche. In tal modo Galeotti conciliava la causa nazionale e le aspirazioni del laicato ad influire nell’ammini-strazione degli Stati ecclesiastici con il mantenimento dell’autorità politica del pontefice. Ma, per trattare adeguatamente il proble-ma-Galeotti, Anzilotti avvertì il bisogno di allargare la sua pro-spettiva e di inserire quel volume nel più generale sfondo degli anni Quaranta e della loro cultura.

44 anzilotti, Di alcune pubblicazioni sulla storia del Risorgimento cit., pp. 323-324.

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Doveva affrontare la storia culturale di quegli anni e si sentiva – per molti versi – inadeguato. Fu allora che scrisse a Giovanni Gentile, da un anno – non lo dimentichi – tornato in Toscana, a Pisa, e allora dedito alla ricerca in un primo tempo assegnata ad Anzilotti: la cultura toscana del Risorgimento e del secondo Otto-cento. La sua prima lettera al filosofo è del 13 dicembre 1915:

Il libro del Galeotti – scriveva – mi ha condotto a studiare un poco le idee neoguelfe rispetto ad una possibile riforma del governo papa-le. Non conosco, però, opere che illustrino quel movimento intellettua-le, politico e religioso. Si tratterebbe specialmente di vedere l’influenza in Italia di De Maistre, Bonald, Lamennais e di considerare il neoguel-fismo in relazione con la tendenza neocattolica in generale. A nessuna persona meglio che a Lei mi posso rivolgere per avere qualche consi-glio in proposito.

Gentile inviò le indicazioni bibliografiche richieste e il suo cor-rispondente ringraziava il successivo 18 dicembre:

Conosco il suo libro su Rosmini e Gioberti, che mi è stato utilissimo per orientarmi in mezzo alla filosofia del nostro Risorgimento. Attendo con grande interesse la nuova edizione e le aggiunte storiche. [Genti-le avrebbe preparato la seconda edizione alla fine del 1943, ma fu uc-ciso prima di poterla inviare in tipografia. Fu pubblicata postuma solo nel 1955, N.d’A.] […] Ella si meraviglierà, forse, della franchezza con la quale Le faccio queste domande. Le mie incertezze provengono dal fatto che mi sono occupato di storia economica e giuridica ed è la pri-ma volta che prendo a studiare un argomento, che ha strette relazioni con la filosofia. Perciò mi mancano quelle informazioni, che sono uti-lissime per trovare, subito da principio, la propria strada.

L’argomento lo dovette tanto appassionare, che nei due anni successivi portò a termine un ampio saggio, pubblicato in due pun-tate nel 1917 sulla prima annata della «Nuova rivista storica», di cui fu uno dei promotori (anche se poi si ritirò prestissimo dall’im-presa). Già il titolo è in qualche modo programmatico: Dal neo-guelfismo all’idea liberale. Vi voleva tracciare il cammino attraver-so cui un’intera generazione aveva vissuto l’esperienza neoguelfa degli anni Quaranta come un momento di passaggio verso un più compiuto liberalismo (quindi all’accettazione della soluzione mo-

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narchico-unitaria del problema italiano). L’essere una fase transi-toria non ne attenuava – a giudizio di Anzilotti – il grande valo-re: non si era trattato di uno sbandamento momentaneo, dovuto a particolari circostanze, destinato a svaporare a contatto con la realtà della rivoluzione quarantottesca. Il neo-guelfismo non pote-va essere interpretato come un gigantesco equivoco, o una gran-de illusione, o una macchina da guerra messa insieme dall’abate piemontese per traghettare il vasto mondo cattolico e moderato verso posizioni nazionali.

Esso fu il frutto maturo di una grande trasformazione cultu-rale, la rinascita cattolica dell’età della Restaurazione, che a sua volta non poteva essere ridotta a una mera giustificazione del ri-torno dell’assolutismo e della reazione:

Troppo spesso per restaurazione intendiamo soltanto il tentativo di rimettere in vigore quei privilegi politici ed economici, contro i quali era insorto il terzo stato e la confondiamo collo spirito conser vatore gretto e cieco di principi spodestati ritornati sul trono con volontà di vendetta e di classi gelose avide di riacquistare le posi zioni perdute. Questa inter-pretazione, che pure ha un valore innega bile di verità, è soltanto par-ziale. […] Ma ben altro valore acquista la Restaurazione, se la conside-riamo negli spiriti migliori come il resultato della stanchezza, provocata da un lungo periodo di arditezze e di innovazioni nel campo politico e morale. Insieme, cioè, con la restaurazione di istituti e di classi politi-che, che si eran viste crollare sotto le fondamenta, si compie quella di valori spirituali ai quali ritornano disillusi dalle esagerazioni dottrinarie e dal disordine nella vita pubblica e privata.

Di questo vasto movimento, ad Anzilotti non interessano tan-to gli esponenti ultra, di cui pure mostra di intendere la statura, ma coloro che avevano mirato a «conciliare le conquiste della Ri-voluzione con i rinati principi religiosi e morali, che il razionali-smo non era riuscito a sostituire e col più prudente rispetto del-la realtà storica e delle limitate risorse della natura umana. Gli spiriti, che non si affrettano a negare in blocco, con esagerazio-ni settarie, tutto ciò che aveva portato il movimento rivoluziona-rio, in quel tramonto di immense speranze, fanno un serio esame di coscienza, che è il principio di una rinascita religiosa» (com’è evidente, lo storico misura gli approdi della generazione post-ri-

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voluzionaria di un secolo prima sulla base del proprio percorso dopo la «dissoluzione del socialismo»).

Quindi bisogna distinguere «la rinascita cattolica in Italia nel-la prima metà del sec. XIX […] dalla reazione politico-religiosa, che seguì alla caduta di Napoleone»:

Ben altra cosa è il neocattolicismo. Qui non si ha una semplice e meccanica ripresa della tradizione cattolica; ma questa è ripensata e vi-vificata da spiriti superiori, che ne fanno il lievito, il nucleo, il fo colaio centrale di un vasto movimento di cultura, di rinnovazione mo rale e po-litica, d’arte e di filosofia. Il laicato concilia con le sue aspira zioni libe-rali e con le sue nuove esigenze di pensiero la fede cattolica. Come tut-ti i grandi movimenti anche questo investe ogni mani festazione di vita. Abbiamo innanzi tutto un problema speculativo, che concerne i modi e il fondamento del conoscere. C’è poi un problema morale, che riguar-da la condotta dell’individuo abbandonato a se stesso, guidato solo dalla ragione, in contrasto con gli interessi degli altri, senza una norma fissa e sicura di agire. A questo s’aggiunge un problema politico, che riflet-te la partecipazione degli interessati alla cosa pubblica in tutti gli Sta-ti e quindi anche in quello pontificio e riguarda il papato come centro di collegamento nazionale e come istituto rappre sentante da solo una grande tradizione indigena. Si pone poi un problema ecclesiastico, che investe la disciplina del clero e la riforma della Chiesa, al quale si con-nette strettamente quello giuridico delle relazioni fra lo Stato e il pote-re religioso. C’è finalmente una questione di cultura, che abbraccia la storia del papato e della nazione italiana. Tutti questi problemi, che si ricollegano a quello principe e generale dei rapporti fra civiltà e cattoli-cismo, fra filosofia e religione, fra fede ed intelletto, sono talmente con-nessi fra loro, che l’uno pre suppone l’altro, tanto da apparire come la irradiazione di un’unica fiamma. Quest’unità logica e pratica obbliga i pensatori, che li con siderarono, a trattarli un po’ tutti per non incorrere nel difetto di isolarli e di ridurli ad astrazione. Perciò in questo periodo i filosofi vivono veramente le loro speculazioni e la filosofia si mescola alla politica in modo che è impossibile separarle. Se si pensa infatti ad Antonio Rosmini e a Vincenzo Gioberti tale intima colleganza ci appa-re chiarissima. Dal problema gnoseologico si passa a quello religioso, da questo all’ecclesiastico e quindi al po litico. Le stesse relazioni fra Stato e Chiesa, che possono essere anche considerate dal punto di vista pu-ramente storico e giuridico, sono in diverso modo considerate a secon-da del concetto che si ha della funzione della religione nella vita dello spirito.

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In breve il percorso tracciato da Anzilotti era più o meno questo:

abbiamo una reazione al disordine intellettuale e morale dell’epoca rivo-luzionaria, che conduce a restaurare il valore dei principi religiosi; poi questa restaurazione, compiuta attraverso all’analisi del problemi della conoscenza e di quello etico, porta al riconoscimento della libertà del-lo spirito, che trova il suo complemento e la sua regola nella religio-ne: questa finalmente diventa una cosa stessa con la civiltà in genere e con quella nazionale in ispecie, tanto che ogni rinascita morale e poli-tica della nazione non si può concepire come possibile senza un rifiori-mento della fede tradizionali. Tale sviluppo non avviene solo nei pen-siero del Gioberti: ma è un po’ comune a tutti i neoguelfi, che, partiti dalla concezione civile del cattolicismo, giunsero gradatamente ad accet-tare lo stato costituzionale e la monarchia del Piemonte.

Il movimento neoguelfo aveva cercato di costituire un giu-sto mezzo fra due estremi opposti: in filosofia, fra il soggettivi-smo post-cartesiano e l’oggettivismo della scolastica; in morale, fra l’edonismo della tradizione sensistica e la precettistica gesuiti-ca; in politica, fra le teorie rivoluzionarie della sovranità popola-re e il ritorno alla monarchia assoluta; nell’approccio alla natura umana, fra l’ottimismo dell’illuminismo settecentesco e il dispera-to pessimismo antropologico della tradizione controrivoluzionaria. Dopo la svolta del 1848-1849, questa difficile posizione spirituale restava acquisita: ma non guardava più al papato, ma al Piemon-te sabaudo. Il moto neoguelfo sfocia in quello liberale moderato, che propugna riforme amministrative e costituzionali, leghe do-ganali, diffusione di cultura, strade ferrate, casse di risparmio, li-bertà commerciale.45

Scrivendo a Gentile il 29 aprile 1918, lo storico annunziava di avere intenzione di «integrare, svolgere e correggere il lavoret-to già pubblicato sul neoguelfismo» e si riservava di parlargliene a voce alla prima occasione. Il 22 giugno era più preciso:

Vorrei sviluppare e rimpolpare quello schema di lavoro, sia studiando meglio le idee e l’atteggiamento politico di Rosmini e Gioberti, sia rin-

45 id., Dal neoguelfismo all’idea liberale, «Nuova rivista storica», I, 1917, pp. 227-256, 385-422: specie pp. 229, 238, 401, 408-409, 413.

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tracciando le origini del movimento religioso-politico che si svolse in Ita-lia dal ’30 al ’55. Per far questo mi son occupato con maggiore impegno della questione filosofica, che sta al centro del problema ed ho allargato le mie letture alle opere speculative del R[osmini] e del G[ioberti].

Analoghe intenzioni erano enunciate nelle lettere a Croce de-gli stessi mesi. Fu da questo sforzo di approfondimento che nac-que il volume su Gioberti, uscito nei primi giorni del 1922.

9. il confronto con Gentile. – Come credo che risulti evi-dente, quel volume non costituì una specie di deviazione fortuita dai suoi solidi interessi economico-giuridici o un cedimento alla curiosità bibliografica, o – come anche si è detto – all’incontro fol-gorante con Giovanni Gentile. Certamente il dialogo col filosofo siciliano, sviluppatosi dopo il ’15, quando invece si interrompeva temporaneamente quello con Croce, ebbe un grande significato per l’Anzilotti degli anni di guerra e del primo dopoguerra, an-che se non mancarono rilevanti dissensi di natura politica: il più significativo, quello sulla questione adriatica e i rapporti fra italia-ni e slavi in Istria e Dalmazia.46 Ma anche il confronto con Gen-tile – come già si è detto a proposito di quello con Croce – non

46 Anzilotti partecipò alla campagna dell’ambiente vociano e salveminiano a favore di un’intesa fra italiani e slavi in Venezia Giulia, della rinunzia alla Dalmazia e quindi contro la politica del ministro degli esteri Sonnino: la sue posizioni “slavofile” (come si diceva allora) emergono nel contributo Austria e Slavia nel nostro Risorgimento in-serito nel volume collettaneo Italia e Dalmazia (Firenze, Libreria della Voce, 1918) poi sviluppato in a. anzilotti, Italiani e Jugoslavi nel Risorgimento (Roma, La Voce, 1920). Sul volume del 1918, cfr. a. franGioni, Salvemini e la Grande guerra. Interventismo democratico, wilsonismo, politica delle nazionalità, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2011, pp. 176-178. Del saggio di Anzilotti in esso pubblicato scrisse una critica incisi-va, ma rispettosa, G. Gentile, Il problema adriatico da Tommaseo a Cavour, «Il Resto del Carlino», 27 agosto 1918, poi in id., Guerra e fede, Roma, De Alberti, 19272, pp. 281-288, su cui cfr. Pertici, Il Mazzini di Giovanni Gentile cit., pp. 121-122. Sull’atti-vità di Anzilotti durante la guerra, notizie in di rienzo, La storia e l’azione. Vita po-litica di Gioacchino Volpe cit., pp. 201 (per la sua attività all’Ufficio storiografico del-la mobilitazione), 268-269, dove si pubblica una lettera di Anzilotti a Prezzolini del 2 novembre 1918, scritta «sotto l’impressione della nostra grande vittoria. Abbiamo – se Dio vuole – vinto da soli (questo forse dispiacerà a qualcuno). Siamo non un piccolo popolo, ma un grande popolo e questa fede vale più, mio caro, di tutte le formulette massoniche, che si stanno riverniciando. Ormai ci siamo guadagnati non solo l’Adria-tico, ma anche il Mediterraneo orientale. Si deve andare in Asia minore non per noi, ma per i nostri figli! W l’Italia». Come si vede, anche il sobrio Anzilotti si lasciò ine-briare nei giorni della vittoria.

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si risolse in un adeguamento passivo: Anzilotti si incontrò quasi naturalmente con alcuni temi della storiografia gentiliana, quel-li che fornivano una risposta a esigenze maturate in autonomia o delineavano uno sfondo complessivo, in cui situare una serie di analisi già elaborate.

Come abbiamo visto, lo studioso toscano fece da subito i con-ti (ed è stato uno dei pochi storici italiani del Novecento ad aver-li fatti) col fondamentale primo capitolo (Del pensiero italiano dal 1815 al 1830) della tesi di laurea di Gentile dedicata a Rosmini e Gioberti e pubblicata nel 1898: 47 in esso (lo abbiamo già accen-nato) il giovane normalista forniva il quadro inedito del pensie-ro italiano della Restaurazione come spontanea reazione al sensi-smo, al razionalismo ateo e all’eudemonismo settecenteschi e, per questo, premessa dello slancio morale che avrebbe spinto alle lot-te risorgimentali: «per fare l’Italia – avrebbe scritto efficacemente più di vent’anni dopo – ci volevano uomini; ma per fare l’uomo ci voleva prima Dio. E però occorreva innanzi tutto snidare dai cer-velli la semifilosofia che vi s’era insinuata, e combattere senza tre-gua e senza quartiere ogni idea di provenienza francese».48 Don-de il carattere religioso e spesso e in forme diverse ‘neo-cattolico’ che quel pensiero aveva assunto: ne derivava che il Risorgimento non era da collegarsi alla rivoluzione francese e alle sue idee, ma alla reazione contro di essa, quale si era sviluppata in certa cul-tura della Restaurazione, quella che aveva variamente cercato di collegare tradizione e progresso, autorità e libertà.

Fin dalle sue prime analisi della Toscana settecentesca, Anzi-lotti aveva sottolineato la natura autoctona del movimento rifor-matore e vi aveva individuato i germi del successivo liberalismo, giudicando come una deviazione dal pratico pensiero politico ita-liano le idee francesi importate in Italia dal giacobinismo nostra-no. Aveva anche scorto un nesso fra il pensiero riformatore to-

47 G. Gentile, Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risor-gimento, Firenze, Sansoni, 19583, pp. 3-42. Sull’importanza di questo capitolo come uno degli incunaboli dell’attualismo e dell’idea gentiliana di Risorgimento, cfr. a. del noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 49-53, 82-92, 124-143.

48 G. Gentile, La personalità del Gioberti e il suo misogallismo (1921), in id., L’ere-dità di Vittorio Alfieri, Firenze, Sansoni, 19642, pp. 109-129, 127.

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scano del Settecento e le posizioni successive di un Capponi, di un Lambruschini e del prediletto Galeotti. Eppure in costoro av-vertiva anche qualcosa di nuovo e ciò era proprio lo sfondo reli-gioso del loro pensiero, che si intrecciava in modo originale col tratto realistico della loro mentalità. Ma su quale sfondo situare queste inedite sensibilità? Il Rosmini e Gioberti di Gentile (un li-bro che non ebbe molti lettori in quegli anni) gli trasmise una vi-sione complessiva dell’età della Restaurazione, restituendogli pro-prio la «tendenza generale del tempo»:

La necessità, cioè, di fare appello ad una fede, e ad un sentimento uni-versale, ad una credenza unificatrice e stimolatrice, per creare un moto collettivo. Occorre parlare alle coscienze e non vi è mezzo migliore di quello di usare il linguaggio della reli gione con un popolo come il no-stro, che era stato da se coli assente dalla vita politica del paese. Questo ci spiega come mai il verbo di nuove fedi, che ben poco avrebbero cor-risposto alle esigenze di una fredda logica, si viene con facilità diffon-dendo in mezzo ai ceti che più sentivano il peso del regime politico in-staurato dalla Santa Alleanza. Si pensi che il mazzinianismo non of friva in sostanza una nuova religione determinata, con creta; ma più che altro ne formulava eloquentemente le esigenze. Ciò nonostante l’idea nazionale per suo mezzo giunse a coscienze, alle quali forse sotto altre forme non sarebbe pervenuta. E questo ci spiega anche perché certi libri ebbero fra noi una notevolissima diffusione, in quanto sostenevano che democra-zia e libertà politica non possono essere discompagnate da un vivo sen-timento religioso. […] Punto fondamentale, sul quale le varie tendenze po litico-religiose cui abbiamo accennato, s’accordano, è dun que questo: ogni conquista di maggior libertà implica ne cessariamente un maggior grado di coscienza morale. Oc corre perciò cominciare dal costruire l’av-venire nel pro fondo degli animi; preparare uomini più consapevoli delle proprie responsabilità, più sensibili ai propri doveri. È questa l’esigenza, che, di fronte all’impreparazione del paese, si sente maggiormente.49

Questa fede, per quei liberali di varie gradazioni, non poteva essere una pseudo-religione elaborata a tavolino, ma solo quella

49 a. anzilotti, Gioberti, Firenze, Vallecchi, 1922, pp. 70-71. Come già in prece-denza, Anzilotti ricorreva, a fondamento della sua tesi, all’autorità di Tocqueville: «Fra l’altro l’opera famosa di Alessio di Tocqueville, De la démocratie en Amerique, che soste-neva appunto questa tesi, cara a moderati e a democratici, era studiata e citata e brani di essa, quando fu concessa la libertà di stampa, ap parvero sui nostri fogli politici».

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che era strettamente legata alla storia d’Italia, la cattolica: per cui Gioberti concepisce la necessità di «attuare il rinnovamento spi-rituale della patria per mezzo di una filosofia che sia d’accordo con il cattolicismo» 50 e questo spiega perché l’opinione pubblica italiana accolse trionfalmente un libro come il Primato.

Il saggio con cui Gentile presentò all’opinione pubblica italia-na del dopoguerra Gioberti come uno dei due «profeti del Risor-gimento italiano» era intitolato Il realismo politico di Gioberti: 51 certamente questo del «realismo politico» è un altro dei motivi più ricorrenti del volume di Anzilotti, che insiste continuamente sulla sua capacità di valersi delle forze realmente presenti nella so-cietà italiana e sulla natura «dialettica» di un pensiero che rifug-ge gli estremismi reazionari come quelli rivoluzionari:

La politica vagheggiata dal Gioberti […] tende a questo scopo: usu-fruire di tutto quanto possono dare le «forze del passato» alla causa del-la nazione e alle aspirazioni liberali. Questo per lui è il miglior sistema di progredire, perché non ha pretesa di annullare tutto il passato; ma svolge «germi preesistenti», «potenze anteriori». Anche per lui è neces-sario, come volevano i democratici, formare il popolo, farlo muovere con principî ideali, dargli una coscienza, creare il costume politico. […] Le classi umili, che ancora non pensano, dovranno […] gradatamente par-tecipare al pensiero, alla coltura, per spontanea maturazione. Ma per-ché questo avvenga è necessario che il popolo italiano da sé stesso svol-ga la sua mentalità, che si educhi di sua iniziativa, che proceda nella sua ascensione secondo le in frangibili esigenze delle sue speciali condizio-ni di esisten za. Egli quindi non può rinnegare senz’altro la tradizione. Essa anzi dovrà essere il veicolo per attuare il rinnova mento intellettua-le e civile. Perciò l’esperimento di mettere alla prova le forze tradizio-nali, gli elementi già maturati della società italiana, sui quali si poteva in qualche modo appoggiarsi, era in realtà necessario.

Ma anche questo del «realismo politico», intimamente connes-so alla polemica contro le «astrattezze» della democrazia, era un altro dei temi originari del pensiero di Anzilotti, come abbiamo abbondantemente dimostrato. In Gioberti egli individuava l’ulti-

50 Ivi, p. 43.51 Il saggio comparve sulla rivista nazionalista «Politica», poi fu ristampato in G.

Gentile, I profeti del Risorgimento italiano, Firenze, Vallecchi, 1923, pp. 83-154.

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mo grande pensatore realista della tradizione italiana: «egli ha il vivo senso dello sviluppo delle idee per mezzo e attraverso i fatti particolari e perciò egli sa adattarsi mirabilmente ai tempi e alle situazioni. Il Gioberti in questo è veramente cattolico e italiano. A ragione egli si richiama a Machiavelli e a Vico. Ed è quindi an-che un grande conoscitore della natura umana».52 Semmai Gen-tile poteva spiegargli le profonde radici filosofiche di tale «reali-smo», come tutta la filosofia giobertiana (e la sua celebre «formu-la ideale») «impernia sull’esistente tutta la mentalità come essenza più riposta del reale». Nel giobertismo, proprio perché promana dall’Ente e ad esso immancabilmente tende a tornare, l’Esistente acquista una dignità nuova, diventa «il centro del tutto: il centro, intorno al quale stanno in bilico l’Ente e la mente; l’uno per crea-re, l’altra per ricreare». Ecco perché l’uomo non può staccarsi dal-la realtà di fatto, «perché essa è la stessa realtà dell’Idea, dell’Ente creante, ed è il principio immediato della mente, che, superando la propria immediatezza, è mente e parla di esistente».53

Infine, in una serie di saggi che Anzilotti giudicò da subi-to «magistrali»,54 pubblicati sulla «Critica» fra il 1921 e il 1922,

52 anzilotti, Gioberti cit., pp. 375-376, 433-434. Questo del «realismo» fu uno dei temi in cui più insistente sarebbe stata poi la demolizione della figura di Gioberti opera-ta da a. oModeo, Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica (1941), in id., Difesa del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1951, pp. 86-155, dove non manca una rispettosa pole-mica contro le tesi di Anzilotti (p. 93). Ma quel libro di Omodeo, frutto di un indomito spirito polemico, risulta in gran parte «ingiusto storicamente» (W. MatUri, Interpretazio-ni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino, Einaudi, 1962, p. 531). Su questo punto restano importanti alcune osservazioni di Del Noce: «Circa vent’anni dopo [il 1922] usci il breve, fortunato saggio di un allievo diretto di Gentile, Adolfo Omodeo (Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica, Torino, Einaudi, 1941), destinato a rettifi-care, in realtà a rovesciare completamente, i risultati del libro del suo antico amico An-zilotti. Le date sono simboliche: nel 1922 l’Anzilotti, che ai suoi inizi aveva subito for-temente l’influenza di Salvemini, si accostava a Gentile in nome del liberalismo; nel ‘41 l’allievo di Gentile Omodeo, ancora in nome del liberalismo, rompeva defi nitivamente con questo scritto, e con l’interpretazione del Risorgimento che implicava, il rapporto col maestro. Però se il libro dell’Anzilotti conserva un notevole valore storico (a parte le speranze liberali del suo autore, perché la continuazione ultima del giobertismo, che egli auspi cava, non fu in questo senso) il saggio dell’Omodeo, successivo al tra monto di queste speranze, si esaurisce totalmente nelle circostanze che l’hanno motivato. Anche se mantiene intatto il suo significato, come documento del distacco da Gentile di quel-la “gioventù mazziniana” che negli ultimi anni di guerra e nell’immediato dopoguerra si era ricono sciuta nel suo pensiero» (del noce, Giovanni Gentile cit., p. 257).

53 Gentile, I profeti del Risorgimento italiano cit., pp. 110-111.54 anzilotti, Gioberti cit., p. 431 nota 2.

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Gentile tratteggiò la cultura piemontese della prima metà dell’Ot-tocento, da Alfieri a Gioberti, mostrando come progressivamen-te si fossero in essa affermati i motivi di «italianità» (che spesso si traducevano anche in un ricorrente «misogallismo») e si elabo-rasse il tema della missione italiana del Piemonte, col conseguen-te superamento dell’orizzonte subalpino e delle sue tradizioni.55 Questo è il tema di fondo dell’ultima parte del volume di Anzi-lotti su Gioberti, che costituisce una novità rispetto allo schema abbozzato nell’ampio saggio del 1917. Anzi ad esso dedicherà la prolusione letta all’università di Pavia il 29 gennaio 1923, quan-do finalmente, dopo una lunga carriera negli archivi di Stato, po-trà salire a una cattedra universitaria,56 prolusione che sarà ap-punto dedicata alla «funzione storica del giobertismo». Secondo Anzilotti, Gioberti «più che il teorico del federalismo, com’è giu-dicato comune mente, si può dire l’assertore della supremazia pie-montese come mezzo, come strumento per creare l’organismo coe-rente e saldo di uno Stato italiano. Il suo pensiero, quindi, lungi dall’essere una costruzione artificiale e solitaria di un abate pas-sato dalla teologia alla specu lazione filosofica, esprime invece la consapevolezza della missione storica del Piemonte e la necessi-tà di dare a questa un contenuto ed un valore universali. In que-sto senso, non solo, come fu da altri dimostrato [Gentile, N.d.A.], egli si ricon nette alla tradizione alfieriana; ma rappresenta il mo-mento in cui attinge piena coscienza il lungo sforzo, attraverso al quale il regno subalpino – sia pure senza disegno preordinato –

55 I saggi furono poi raccolti nel 1926 in Gentile, L’eredità di Vittorio Alfie-ri cit.

56 Nel 1916 Anzilotti aveva conseguito la libera docenza in storia moderna pres-so l’Istituto di studi superiori di Firenze, docenza che esercitò nell’anno accademico 1919-1920. Dal 1920 al 1922 ebbe l’incarico di storia al magistero femminile presso lo stesso Istituto. Nell’ottobre 1922 riuscì primo, contemporaneamente, nel concorso alla cattedra di storia antica e moderna nell’Istituto superiore di Magistero femminile di Roma e nel concorso alla cattedra di storia moderna nell’università di Catania. No-minato professore straordinario di storia moderna nell’università di Pavia (1° gennaio 1923), l’anno accademico successivo (1923-1924) passò a insegnare nella stessa cattedra dell’università di Pisa. L’insegnamento fu preso interrotto dalla morte precoce, avvenu-ta a Firenze il 9 dicembre 1924 (MatUri, Anzilotti, Antonio cit., p. xxiii). Nella breve esperienza pavese, ebbe come allievo Carlo Morandi (c. Morandi, Antonio Anzilotti, «Civiltà moderna», II, 1930, pp. 940-949), in quella pisana Delio Cantimori (sofri, Ri-tratto di uno storico: Antonio Anzilotti cit., pp. 736-737, nota 119).

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andò trasformandosi in regno italiano». A questa luce «lo stesso Primato … è meno utopistico di quello che possano credere i let-tori superficiali, che lo hanno scambiato per un fantastico proget-to, in cui il papato abbia politi camente il primo posto»; e nella sua azione di ministro e nelle dure polemiche contro i cosiddet-ti Municipali la sua opera «è veramente precorritrice, proprio in quanto tende – sia pure attraverso ad im mancabili errori – a fare del Piemonte, il capo e il rego latore d’Italia».

Il richiamo a Gentile era trasparente, ma Anzilotti aggiungeva qui la sua sensibilità di storico degli antichi Stati italiani: il Risor-gimento per lui era anche la conclusione di dinamiche secolari, in particolare di quella tradizione politica piemontese, che aveva ela-borato da almeno due secoli un progetto di Regno dell’Alta Ita-lia e quindi puntato all’egemonia nella penisola: «Spesse volte si dimentica – scrive – che le basi positive e storiche, sulle quali si svolge il nostro moto di riscossa nazionale, non sono molto di-verse da quelle sulle quali poggiò, dal secolo XVI in poi, la po-litica degli Stati italiani di fronte alle grandi monarchie straniere e nei loro rapporti reciproci. Il contenuto naturalmente è recen-te (dico la chiara coscienza di una colleganza e di una solidarietà nazionale); ma le forme, i mezzi – come l’egemonia piemontese, la lega dei principi italiani, la stessa idea di conferire al Pontefice la presidenza della federazione italiana – sono quelli tradiziona-li. Si può in sostanza affermare che le forze politiche, sviluppate-si nei tre secoli precedenti al predominio napoleonico e al Risor-gimento, trovano nel moto nazionale la condizione propizia per affermarsi».

Per cogliere questi nessi, era necessario un approccio storico disincantato, che andasse al di là degli involucri ideologici:

È appunto questo il compito pre cipuo dello storico: arrivare, cioè, a comprendere l’essen ziale attraverso e al di là delle apparenze; attraverso e al di là degli intenti e dei propositi palesi degli uomini, dietro gli ar-gomenti d’ogni specie coi quali essi giusti ficano il loro modo d’opera-re e i loro più profondi bisogni. Compito questo oltremodo arduo non soltanto perché occorre distinguere ciò che gli attori degli avvenimenti hanno creduto di fare dal resultato ultimo e non preor dinato dei loro sforzi; ma anche perché bisogna smontare e dissociare i luoghi comu-ni, le formule, gli schemi, il giuoco ingannevole di astratti rapporti cau-

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sali, coi quali si cerca di renderci conto di fatti di gran lunga com-plessi.57

Sembra quasi di leggere Antonio Labriola quando propone-va «una nuova critica delle fonti storiche» basata sulla «dottrina» marxista.58 E infatti si trattava senz’altro di echi di lontane lettu-re, ma Anzilotti aggiungeva subito che «lo stesso materialismo sto-rico, che ha espresso in Italia indubbiamente la sincera esigenza di una comprensione più interiore, più concreta, più realistica e quindi più viva della storia, ha sostituito altri miti, ha creato altre astrazioni in luogo di quelle che giustamente eliminava».59

10. «corrisPondenze sPiritUali tra naPoli e firenze». – An-zilotti riuscì dunque a rielaborare in modo personale alcune sug-gestioni provenienti da Gentile, che – si potrebbe dire – egli ‘ma-terializzò’, calandole nella storia politica e sociale dell’Italia della prima metà dell’Ottocento. Così che non aveva torto lo stesso Gentile quando, nella entusiastica recensione che dedicò al libro, avvertì che l’autore aveva mostrato «come la storia d’un uomo possa essere la storia di un periodo della vita d’un popolo, senza che né il pensiero e l’azione dell’uomo si risolva nel giuoco delle forze generali e universali del suo tempo, né d’altra parte il com-plesso di queste forze apparisca massa inerte e plasmabile libera-mente ad arbitrio dell’uomo superiore».60

57 a. anzilotti, La funzione storica del giobertismo, con appendice di documenti inediti, Firenze, Vallecchi, 1923, pp. 5, 7, 12-13, 25. Pieno consenso esprimeva Gen-tile nella recensione dedicata al volumetto nel 1924, ora in Gentile, Albori della nuo-va Italia, II cit., pp. 79-81.

58 a. laBriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare (1895), a cura di V. Gerratana, Roma, Editori Riuniti, 19702, pp. 49-50.

59 anzilotti, La funzione storica del giobertismo cit., pp. 25-26. A proposito di queste considerazioni, Anzilotti scriveva a Croce, da Pavia, il 19 marzo 1923: «Sono da qualche mese a Pavia, ove insegno storia moderna a questa Università. Spero che Ella vorrà gradire la mia prolusione, che Le invierò non appena sarà stampata. In essa, come vedrà, mi riattacco a quanto Ella ha scritto negli ultimi capitoli e nella conclu-sione della sua Storia della storiografia italiana del sec. XIX. Mi sembra – se non erro – di essermi avvicinato assai al suo pensiero per quanto riguarda il concetto della sto-ria e del compito dello storico. Ho voluto così riaffermare tale orientamento proprio in un’aula universitaria, e in mezzo al mondo accademico, che fa vista di ignorare cer-te cose o le ignora addirittura».

60 Gentile, Albori della nuova Italia, II cit., pp. 74-75.

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È così piuttosto originale (rispetto agli studi di cui disponeva) il tentativo compiuto da Anzilotti di individuare la composizio-ne sociale del movimento neo-guelfo e più in generale delle varie correnti politiche che si fronteggiano negli anni Quaranta.61 Ana-lizza cultura e mentalità dell’«aristocrazia liberale», «un gruppo di uomini, appartenenti a parti diverse d’Italia, che sentono il bi-sogno di avvicinarsi per l’affinità di temperamento moderato, di studi liberali e di condizione sociale distinta»: il suo tratto mu-nicipale, per cui «si adopra innanzi tutto a migliorare gli istituti amministrativi e gli ordinamenti economici di ciascuno Stato di cui essa fa parte», la fedeltà alle dinastie restaurate, la sua pro-pensione per ordinamenti soltanto consultivi e il tardivo accede-re al regime costituzionale, come nuovo modo per garantire gli equilibri sociali preesistenti (da qui l’avversione al suffragio uni-versale). Come anche del «gruppo a tendenze popolari e demo-cratiche, che

reclutava i suoi aderenti fra la media e piccola borghesia, godeva le sim-patie, nella popolazione urbana, di esercenti, bottegai, commercianti, e di quegli artigiani, che, come gestori di piccole imprese con proprio pe-culio, quasi si confondevano col ceto medio. […] Avvocati, alcuni pro-fessori di università, medici e studenti, specialmente quando il fallimen-to della guerra federale esaspererà le impazienze e getterà il discredito sul programma della buona intesa con le dinastie riformatrici, lanciato nel ’47, si metteranno a capo di questo movimento a basi più larghe e chiederanno costituenti e suffragio universale.

Infine, fra il ’48 e il ’49, Anzilotti segnala l’emergere di un movimento con contenuti sociali più espliciti:

Idee precise di comunismo, come noi oggi lo intendiamo, sono rare. Con l’aumento del costo della vita, di cui abbiamo sovente eco nei fo-gli politici, si manifesta piuttosto una coscienza non ancora ben defi-nita delle differenze e quindi dei contrasti delle classi e si chiede dai democratici che il governo pensi ad assicurare i diritti e il benessere della massa dei cittadini. Cominciano i «circoli del popolo» a propu-

61 Lo aveva già notato W. MatUri, Les États italiens (1959), in id., Storia e sto-riografia, a cura di M. L. Salvadori e N. Tranfaglia, Torino, Aragno, 2004, pp. 335-403, 380.

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gnare tassa progressiva, lavori concessi dallo Stato ai disoccupati, di-stribuzione in lotti dei latifondi ecclesiastici e laici. Le medesime asso-ciazioni contrappongono alla guerra di strategia la guerra d’insurrezione. Nelle campagne toscane il movimento rivoluzionario trova le sue reclu-te fra i cosiddetti «pigionali», cioè fra quella gente senza mestiere fis-so che vive nelle borgate e non ha alcun interesse solidale coi conta-dini.

Qui si avverte ancora l’allievo di Volpe e di Salvemini e il coe-taneo di Raffaele Ciasca, più che il lettore di Gentile, rispetto al quale Anzilotti mostrava un’altra peculiarità: l’assenza di ogni in-transigenza speculativa. Il suo confronto col pensiero di Giober-ti e Rosmini, Capponi e Lambruschini, Mazzini e Catteneo de-rivava dall’esigenza di segnare il cammino delle forze storiche, non dal bisogno (assolutamente legittimo in un filosofo) di trac-ciare il pedigree della propria filosofia. Per cui, certo, avverte la dif ferenza fra la speculazione e la religione giobertiane da una parte, e quella «che illuminò interiormente uomini come il Ri-casoli, il Lambruschini, il Capponi», per i quali «il problema re-ligioso è un problema prevalentemente etico. La fede non è il risultato di un processo logico; ma è un bisogno di coerenza mo-rale, di un orientamento sicuro per la vita; è una fonte intima, da cui il carattere trae la sua energia». Suggerisce (come d’altron-de aveva fatto Gentile nei suoi celebri saggi sulla cultura tosca-na ottocentesca) che queste tendenze anti-intellettualistiche possa-no essere considerate «come precorritrici del recente movimento modernista»,62 ma non ne ricava una loro sottovalutazione rispet-to al «razionalismo» giobertiano, come invece aveva fatto il filo-sofo.

Così anche sottolinea (sulle tracce di Bertrando Spaventa) che dalla filosofia giobertiana possa scaturire una tendenza immanen-tistica, che superi il dualismo scolastico ed elimini i tratti neopla-tonici (il giobertismo senza ontologia e senza platonismo di Gen-tile), ma ammette anche che se ne possa ricavare un sistema di pensiero che resti perfettamente ortodosso. E rievoca con simpa-tia coloro che se ne erano fatti custodi in tempi ormai avversi,

62 anzilotti, Gioberti cit., pp. 51-53, 200, 271-272, 432-433.

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i neo guelfi napoletani dei primi decenni dopo l’Unità (Federico Persico, Enrico Cenni, Roberto e Giacomo Savarese):

Convinti perciò di conciliare fede e filosofia, riprendono motivi svol-ti da Gioberti e sono neoguelfi in ritardo, sperando che l’Italia, median-te l’alleanza col Papato e con la Chiesa, ritorni a mettersi a capo della civiltà cattolica. E agli uomini insigni della scuola neoguelfa si posso-no rassomigliare per il vivo e vigile senso storico, per la scarsa fiducia nell’arbitraria smania riformatrice dei democratici e degli innovatori, per l’amore agli istituti tradizionali, per l’avversione alle mode politiche e fi-losofiche d’oltralpe.

Questo retroterra li rendeva critici aspri dei modi in cui era avvenuta l’unificazione italiana, dell’accentramento ‘piemontese’ e soprattutto della politica di rottura con la Santa Sede che il nuo-vo Stato stava conducendo. Ad essa opponevano un ‘conciliato-rismo’ che rinviava a una peculiare concezione dello Stato, tutta diversa, anzi opposta allo Stato etico degli hegeliani napoletani, loro implacabili avversari:

Per costoro la filosofia tedesca era una vera e propria aberrazio ne dalla quale scaturivano i presunti errori moderni delle dottrine rivolu-zionarie del contratto sociale e della sovranità popolare e il concetto del-lo Stato ateo. Date queste premesse, era naturale che riguardo ai rap-porti fra lo Stato e la Chiesa costoro partissero dalla pregiudiziale che solo quest’ultima sia fonte di vita morale e depositaria dei principi del-la vera civiltà e che quindi lo Stato non possa restarne separato, ma at-tinga da essa la sua moralità.

Anzilotti si affrettava a ribadire che era con i gli Spaventa e con Angelo Camillo De Meis che «il liberalismo aveva raggiunto una maturità di coscienza, che dopo non ha più avuta»,63 ma sot-tolineava anche le affinità fra questi cattolici liberali napoletani e i moderati di Toscana (si trattava di un accostamento che impli-cava, per lui, una positività): educazione popolare, asili, colonie agricole, istituzioni di beneficienza, interesse per i problemi mo-rali, identificazione della civiltà col Cristianesimo e del Papato

63 id., Neoguelfi ed autonomisti a Napoli dopo il Sessanta (1920), ora in id., Mo-vimenti e contrasti cit., pp. 257-276, 258-259, 276.

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come la più grande gloria italiana. Ma soprattutto li accomunava la difesa delle autonomie municipali, la critica dell’accentramento amministrativo, dell’uniformità legislativa, dell’ingerenza indebita dei partiti e del parlamento nell’amministrazione.64 Qui di nuovo si avvertiva l’Anzilotti storico degli antichi Stati italiani e del fe-deralismo giobertiano: tracciava la parabola di un liberalismo di minoranza ostile all’accentramento ‘giacobino’ del nuovo Stato e alla sua politica ecclesiastica. Ancora una volta ne additava come esempio toscano il pensiero di Leopoldo Galeotti, un po’ il ca-postipite di quella frazione di liberali che aveva sostenuto l’esi-genza di un «atteggiamento conciliativo … di fronte alla questione romana».65 Ed era un filone liberale che Croce e Gentile avevano sempre sostanzialmente sottostimato.

11. liBeralisMo conservatore e fascisMo. – Nei primi mesi del 1919, accanto a Gioberti, Gentile additava un altro «profeta del Risorgimento italiano» nella figura di Giuseppe Mazzini: si trattava di un revirement rispetto al giudizio fortemente limitativo formu-lato all’inizio del secolo e poi ribadito per anni. Se Gioberti era il realista politico, il teorico dell’«Esistente», Mazzini gli appari-va ora come il suscitatore di energie religiose, il portatore di una morale attivistica e rivoluzionaria («il nostro destino è nelle nostre mani, […] noi abbiamo natura di non soggiacere al mezzo, ma di trasformarlo con l’energia del nostro volere […] la nostra realtà insomma è un prodotto della nostra libertà»).66 Potremmo dire – con un’estrema schematizzazione – che Gioberti era l’antico mo-mento liberalconservatore della politica gentiliana, Mazzini costi-tuiva il nuovo elemento attivistico e rivoluzionario: credo che si possa affermare che nella sua scelta fascista del 1922-1923 abbia svolto un ruolo determinante più il secondo che il primo.67

64 Cfr. soprattutto id., Corrispondenze spirituali tra Firenze e Napoli. Un amico napoletano di G. P. Vieusseux: Giacomo Savarese (1921), ivi, pp. 279-303, che ripor-ta un’interessante appendice su La «conquista» piemontese del Regno di Napoli in una lettera di Roberto Savarese al Vieusseux (pp. 299-303).

65 id., La cultura politica nella Toscana del Risorgimento e Leopoldo Galeotti (1921), ivi, pp. 227-254, 254.

66 Gentile, I profeti del Risorgimento italiano cit., pp. 56-59.67 Pertici, Il Mazzini di Giovanni Gentile cit., pp. 124-130.

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Il Risorgimento di Anzilotti resta, invece, sempre e soltanto giobertiano: come aveva letto nel libro di Edmondo Solmi e come ribadiva poi nel suo volume del ‘22, Mazzini e Gioberti gli sem-brarono sempre due mentalità incomponibili:

Per ciò fra il Mazzini e il Gioberti possiamo fin d’ora notare quel-le differenze, per le quali si distingue il liberalismo dalla democrazia, in quanto il primo parte dal riconoscimento delle condizioni storiche e, con-sentendo ai vari elementi che esse offrono un libero sviluppo, li concilia dialetticamente per attuare graduali trasformazioni; la seconda si attiene invece ad un sistema d’idee, ad un modello ideale di progresso, secondo le cui direttive, per opera di propaganda e per sforzo di volontà associa-te e solidali, le condizioni di fatto devono essere modificate.68

E costantemente negativo restò il suo giudizio sulla varia de-mocrazia italiana ed europea, da Ferrari a Lamennais, a Monta-nelli: poco più che la riproposizione di quello polemico dello stes-so Gioberti.

C’è da chiedersi quanto proprio questo retroterra liberalcon-servatore abbia contribuito a renderlo precocemente estraneo al fascismo al potere, avvertito (potrebbe dirsi) come un fenome-no di ‘democrazia’ autoritaria. Si è spesso citato, per affermare il contrario, il fatto che Anzilotti figuri fra i «collaboratori fon-datori» (con Gentile, Croce, Volpe, Giuseppe Lombardo Radice) della rivista «La Nuova politica liberale», che iniziò a pubblicar-si ai primi del 1923 per opera del gruppo romano degli allievi di Gentile (Carmelo Licitra, Ugo Spirito, Arnaldo Volpicelli), quel-lo più militante e propenso a un incontro fra attualismo e fasci-smo.69 A quella rivista, tuttavia, Anzilotti non offrì mai un artico-lo, anzi – ora si può aggiungere – condivise la polemica che da subito Benedetto Croce iniziò contro quei giovani gentiliani. Po-lemica che non può dirsi tout court antifascista, ma che certo col-piva la pretesa di dare dignità culturale al nuovo regime e di con-

68 anzilotti, Gioberti cit., pp. 19-20, ma cfr. anche pp. 46-49 (Lamennais), 375-376 (Ferrari), 312-314 e passim (Montanelli).

69 MatUri, Interpretazioni del Risorgimento cit., p. 479. Sembra sicuro che pro-gramma e nome della rivista fossero stati decisi già prima della marcia su Roma (G. tUri, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, Giunti, 1995, p. 313).

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cepirlo come una svolta epocale che imponesse un nuovo rappor-to fra politica e cultura.70

«La Stampa» di Torino, allora diretta da Luigi Salvatorelli, anticipò il secondo di codesti interventi (sarebbe apparso sulla «Critica» pochi giorni dopo), in cui la neonata rivista romana non veniva citata, ma il riferimento polemico alla sua linea poli-tica e culturale risultava evidente.71 Il 19 marzo Anzilotti scrive-va al filosofo:

Questa mia è stata suggerita anche dalla lettura che ho fatta l’altro giorno sulla Stampa di una sua giustissima e brillante nota: «Troppa fi-losofia politica»! Avevo pensato, prima di leggere quella nota che taglia la testa al toro, d’inviare alla «Nuova politica liberale» un articolo con-tro il vezzo invalso di ammannire come scritti di politica arbitrarie e spesso artificiose ed astratte generalizzazioni filosofiche e storiche, che veramente con la politica vera hanno ben poco a fare. Non può quin-di credere con quanto piacere e con quanto cordiale consenso io ab-bia letto la sua efficacissima e lucida pagina. Mi dispiace proprio che il buon Licitra, in ottima fede, con quella sua rivista, faccia un cattivo servizio alla causa che vuole difendere. Anche questa smania dei «ritor-ni» – come si dice oggi – a Cavour, a Gioberti, al liberalismo schiet-to, alla tradizione del Risorgimento e via di seguito mi sembra quanto mai antistorica e quindi poco … politica. Per lo meno dalla politica sia-mo tanto distanti quanto lo può essere un giovane che scambia la vita con la sua biblioteca.

70 a. Garosci, Il 1924, «Rivista di studi crociani», III, 1966, pp. 137-50. La pole-mica si era aperta nel fascicolo di gennaio con la postilla Troppa filosofia, «La Critica», XXI, 1923, pp. 61-64, poi in croce, Cultura e vita morale cit., pp. 238-243.

71 «Donde mai nasce codesto nuovo vezzo, che si è preso, di vantare l’idealismo filosofico come il fondamento o l’esponente della politica salutare all’Italia, della po-litica che l’ha condotta alla guerra, ed alla vittoria e che si sforza ora di restaurare lo Stato, della vera politica liberale, conforme alle tradizioni del Risorgimento o per esse alla filosofia del Gioberti? Non so se questa gonfiatura della filosofia a politica e della politica a filosofia possa riuscire gradita a qualcuno: a me certamente non piace, non tanto per il pericolo che c’è nel legare lo sorti dei filosofemi alle vicende dei partiti o delle imprese politiche, quanto, e sopratutto, perche, l’eventuale accrescimento di au-torità che una dottrina filosofica possa ricevere dalla fortuna della politica a cui è sta-ta legata, porta, con un guadagno estrinseco, una perdita intrinseca, intorbida la purez-za della conoscenza e, per la smania di dare inopportuno vigore al vero, lo ammazza» (B. croce, Troppa filosofia politica, «La Stampa», 15 marzo 1923, p. 3). La postilla col titolo Contro la troppa filosofia politica, fu pubblicata in «La Critica», XXI, 1923, pp. 126-128; ora è in id., Cultura e vita morale cit., pp. 244-247.

530 Roberto Pertici

Come si vede, Anzilotti difendeva l’autonomia della politica, mentre Croce piuttosto quella della filosofia, ma l’accordo resta-va significativo: negli anni precedenti lo storico toscano era stato certamente più vicino a Gentile e a lui doveva in buona parte la sua sistemazione accademica. Sapeva bene che il direttore della «Critica» non nutriva una grande considerazione per Gioberti, né come filosofo né come politico, e che quindi presso di lui il suo giobertismo trovava poca udienza. Eppure aveva voluto scrivergli una lettera di solidarietà, nel momento in cui iniziava una polemica impegnativa contro i giovani seguaci del neo-ministro della pub-blica istruzione: perché – anche questo è significativo – Anzilotti aveva capito benissimo qual era il bersaglio di quella nota. Sullo sfondo della polemica di entrambi vi era forse lo stesso Gentile, che aveva appena ripubblicato i suoi saggi del 1919 su Gioberti e Mazzini dedicandoli «A / Benito Mussolini / italiano di razza / degno di ascoltare / la voce dei profeti / della nuova Italia»: l’ac-cenno a «questa smania dei “ritorni” – come si dice oggi – a Ca-vour, a Gioberti, al liberalismo schietto, alla tradizione del Risor-gimento e via di seguito» potrebbe riferirsi proprio a lui.

Non conosciamo la risposta del filosofo, ma nella replica An-zilotti si permetteva di essere più esplicito a proposito dei fasci-sti che aveva dintorno:

Le invio in plico a parte la mia prolusione e mi permetto di unire a questa mia il ritaglio di una parte dell’esilarante discorso del Sindaco Antonio Garbasso alla riapertura del Palazzo della Parte Guelfa in Fi-renze. Guardi come questo aspirante al laticlavio e al portafoglio del-la P. Istruzione tratti la storia e la filosofia. Anche recentemente, nella commemorazione di Marradi, Michelangiolo Zimolo – capo del fascismo fiorentino – contrapponeva, fra l’approvazione dell’uditorio, Isidoro Del Lungo … a Lei! Questo Le scrivo per darLe un’idea dell’opinione pub-blica fiorentina in questi momenti (Firenze, 5 aprile 1923).72

72 M. ziMolo, Giovanni Marradi, Commemorazione tenuta a Firenze il 25 feb-braio 1923 nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, Firenze, Vallecchi, 1923. Il fisico Antonio Garbasso era diventato sindaco di Firenze alla fine del 1920 con la vittoria del Blocco nazionale alle elezioni amministrative: mantenne questa carica fino al 1927 e fu poi podestà fino al 1928. Nel 1923 si iscrisse al partito fascista, diven-tando quindi il primo sindaco fascista della città. Nel settembre del 1924, fu nomina-to senatore del Regno. Croce aveva polemizzato con un suo discorso sui rapporti fra la scienza e la filosofia in una breve recensione del gennaio 1923 («La Critica», XXI,

531Antonio Anzilotti da Marx a Gioberti

Nella stessa lettera, Anzilotti esprimeva un desiderio: «sarei, cioè, felice, se potessi avere il volume delle sue Pagine sparse, che contiene le postille sulla guerra, con un suo autografo. Lo gradi-rei moltissimo per suo ricordo». Si rammenterà che, dopo un lun-go periodo di silenzio, aveva ripreso i contatti con Croce proprio per esprimergli la sua ammirazione per le postille degli anni di guerra: era il marzo del 1918. Ad anni di distanza, evidentemen-te le giudicava (come in effetti erano) il prologo delle nuove po-lemiche che il filosofo aveva riprese in quel 1923.73

1923, p. 50) e sarebbe tornato polemicamente sull’ambiente fiorentino nel fascicolo di maggio (ivi, pp. 182-183), in cui si parlava ancora di Garbasso e anche del segretario dei «fasci» (appunto il dalmata Zimolo): sotto accusa da parte di costoro era la prete-sa ostilità crociana contro l’Accademia della Crusca.

73 L’atteggiamento politico di Anzilotti dal 1919 al 1922 è ancora in gran parte da studiare: come prima cosa sarà necessario rintracciare i numerosi articoli che pubbli-cò in quegli anni su quotidiani e riviste politiche. Sulle sue posizioni dal 1922 al 1924, Gianni Sofri pubblicò un interessante brano di una sua lettera al fratello Eugenio del-la seconda metà del 1924 e qualche testimonianza familiare, da prendere con le dovute cautele: l’insieme, tuttavia, conferma un atteggiamento di estraneità al regime nascente (sofri, Ritratto di uno storico: Antonio Anzilotti cit., pp. 736-737).