diritto lavoro - dal punta
DESCRIPTION
Riassunti diritto del lavoroTRANSCRIPT
1
PARTE PRIMAPARTE PRIMAPARTE PRIMAPARTE PRIMA
TEMI GENERALI E FONTITEMI GENERALI E FONTITEMI GENERALI E FONTITEMI GENERALI E FONTI
CAPITOLO I
Il Diritto del Lavoro.
Definizione, Evoluzione storica e Tendenze attuali
1. Ambito e Definizione del Diritto del Lavoro Il diritto del lavoro ha origini, relativamente recenti (ultimi decenni dell’800), che risalgono
all'avvento dell' industrializzazione ed al conseguente impiego di masse di
lavoratori nelle fabbriche.
Le relative regole sono dunque nate a tutela della parte debole del rapporto di lavoro e,
più precisamente, a tutela del lavoratore dipendente.
È questo il motivo per il quale quando si paria di diritto del lavoro si fa riferimento a quel
complesso di regole riguardanti il lavoro dipendente e, innanzitutto, il lavoro dipendente
nell'industria (Lavoro Subordinato).
Per converso, il Diritto del Lavoro non riguarda il Lavoro autonomo. Col tempo, però, è accaduto che anche alcune figure di lavoratori autonomi, ritenute
deboli e meritevoli di protezione (come gli agenti di commercio), abbiano beneficiato
dell’applicazione mirata di alcune norme lavoristiche, o comunque a contenuto protettivo.
In sostanza, l’ambito soggettivo del diritto del lavoro, pur rimanendo concentrato sul
lavoro subordinato, ha comunque teso ad allargarsi, attraendo alcune categorie di
lavoratori non subordinati.
Tradizionalmente, dall’ambito della disciplina era escluso anche il Lavoro alle dipendenze delle P.A. e ciò perché si riteneva che alla natura pubblicistica del datore di
lavoro ed alla funzione del pubblico dipendente dovesse corrispondere una diversa fonte
normativa del rapporto di lavoro nonché una diversa competenza giurisdizionale,
devoluta al TAR, ossia devoluta allo stesso giudice chiamato a giudicare gli atti della P.A.
Ma, con il d.lgs. 29/1993, e con altri che sono seguiti, il dogma pubblicistico è stato
superato, e si è realizzata la contrattualizzazione (o privatizzazione) del lavoro
pubblico.
Oggi le norma attuative del Processo di Privatizzazione del Pubblico Impiego sono
contenute nel d.lgs. 165/2001, tuttora interessato da innumerevoli modifiche ed
integrazioni.
All’interno dei confini, pur nobili, il diritto del lavoro si ripartisce tradizionalmente fra un
Diritto del Lavoro in senso stretto (il diritto del rapporto individuale di lavoro
subordinato) e il Diritto Sindacale (il diritto dei rapporti collettivi, che regola i sindacati,
il contratto collettivo, lo sciopero, le rappresentanze dei lavoratori in azienda).
Risale ad epoca più recente un ulteriore ampliamento dell’ambito della materia,
acquisendo una crescente importanza, in seno ad essa, la normativa del mercato del lavoro, ossia di quello spazio ove si incontrano, o dovrebbero incontrarsi (in un mercato
ben funzionante), domanda e offerta di lavoro.
Siffatto allargamento dipende dalla maggiore attenzione riservata ai meccanismi di
funzionamento del mercato del lavoro, anche e soprattutto in vista di una più efficace
2
protezione dei cittadini disoccupati, nonché di coloro che neppure tentano di inserirsi nel
mercato del lavoro.
2. Le premesse stanche del diritto del lavoro: la Rivoluzione industriale. I principi di libertà affermati dalla Rivoluzione francese favorirono tra l'altro la libertà e
l'iniziativa imprenditoriale, la libera contrattazione e, con esse, lo sviluppo, progressivo e
rapido, della rivoluzione industriale.
Il diritto del lavoro ha preso avvio dagli sconvolgimenti economici prodotti dalla
Rivoluzione Industriale.
Quest’ultima fu promossa dalla Borghesia, la quale aveva vitale bisogno di libertà (Libertà
economica), per potersi affrancare dalle maglie ormai logore dell’Economia Feudale.
Libertà significava liberazione dai "lacci e laccioli" delle vecchie corporazioni, ma
anche astensione dello Stato da regolamentazioni dirigistiche dell'attività economica.
Ma dalle trasformazioni economiche scaturirono anche grandi sconvolgimenti sociali;
infatti, la produzione industriale, pur avvalendosi dei progressi tecnologia, era comunque
imprescindibile dall'impiego di una mano d'opera più o meno qualificata.
Le prospettive e le aspirazioni collegate all'impiego nell'industria provocarono un
massiccio esodo dalle campagne e la formazione di una nuova classe sociale, la cosiddetta
classe operaia, (contrapposta alla classe dirigente imprenditoriale) che solo attraverso
specifiche leggi avrebbe potuto ottenere un'adeguata protezione della sua posizione
contrattuale debole.
3. La nascita del sindacalismo. La nuova classe dirigente, cioè la parte datoriale del rapporto di lavoro composta da
imprenditori e capitalisti, non vedeva di buon occhio la formazione di organizzazioni
capaci dì tutelare interessi contrapposti ai propri e, quindi, di diminuire la loro posizione
predominante nella disciplina del contratto individuale di lavoro.
Tale posizione forte era determinata da una serie di fattori concorrenti quali:
a) l'assenza di una legislazione protettiva della parte contraente debole;
b) un'offerta di lavoro di gran lunga superiore alla domanda;
c) l'assenza di associazioni di categoria capaci di creare compattezza, e con essa, forza
nella parte contrattuale debole;
d) il basso livello culturale della classe lavoratrice dipendente.
Sul nascere, pertanto, il sindacalismo incontrò forti opposizioni, anche negli ambienti
politici, che m Francia si manifestarono addirittura con la repressione penale.
Il fenomeno, tuttavia, attesa la sua rilevanza sociale, non poteva lasciare indifferente il
legislatore ne poteva restare estraneo all'ambiente politico, infatti: in Inghilterra il
sindacalismo diede vita ad un partito politico, il Labour Party (partito dei lavoratori,
attuali laburisti), mentre in altri paesi, come l'Italia, le massime organizzazioni sindacali
avevano connotazioni ed orientamenti politici ben evidenti.
Il sindacalismo nasceva, comunque, con due principali finalità di tutela della classe
lavoratrice dipendente: quella della contrattazione collettiva e quella dell'organizzazione di
forme di assistenza a favore di lavoratori bisognosi.
L’associazionismo sindacale andò formandosi in vari modi: talvolta con riferimento alla
particolare professionalità o mestiere e talaltra con riferimento al settore di lavoro.
3
Il punto di forza del sindacato - il sistema, cioè, attraverso il quale il sindacato poteva
contrastare il potere della classe dirigente - era solo lo sciopero, ossia l'astensione dal
lavoro, causando in tal modo gravi danni economici all'imprenditore.
Inizialmente lo sciopero era penalmente perseguito e, in Italia, solo col codice Zanardelli
del 1889 tale forma di protesta dei lavoratori venne resa tollerabile e, tuttavia, senza
lasciare lo scioperante indenne da responsabilità civile per il danno causato con la sua
astensione dal lavoro.
4. Il back ground politico del diritto del lavoro. Quella che veniva in tutta evidenza con la nascita del sindacalismo era la cosiddetta
"questione sociale", che aveva, quale elemento fondamentale, il diritto al lavoro.
Con essa il diritto al lavoro andava ad aggiungersi ai principali diritti di libertà e di
proprietà sanciti dalla Rivoluzione francese.
Il diritto al lavoro era il diritto di soddisfare Ì bisogni e le esigenze di vita proprie e della
propria famiglia, producendo con il lavoro il reddito a tal fine necessario.
Sul piano ideologico, pertanto, diverse furono le direzioni e la relativa influenza sullo
sviluppo sociale. Da un lato, infatti, si andavano affermando le teorie marxiste, che pur
interessandosi dei diritti del lavoratore volevano, sostanzialmente, una riforma dello stato
rifondato sulle ceneri della borghesia e della proprietà industriale; dall’altro, invece,
prendevano piede altre teorie che intravedevano soluzioni più moderate di adattamento e
di progressiva riforma della società, senza alcun bisogno di un traumatico abbattimento
di un modello statuale per sostituirlo con un altro.
Si assisteva, in pratica, nei paesi europei, alla nascita del socialismo nelle sue varie
espressioni ed articolazioni, anche allontanandosi dal pensiero marxista il cui vero
obiettivo era la riforma dello stato e non l'affermazione dei diritti del lavoratore.
5. Il diritto del lavoro delle origini. II riconoscimento legale del sindacalismo e delle sue azioni non era sufficiente a risolvere
la situazione del lavoratore dipendente che in sede contrattuale restava assoggettato alla
posizione forte del datore di lavoro.
Quel ch'era necessario, in pratica, era il riequilibrio delle posizioni contrattuali tra
lavoratore e datore di lavoro e ciò sarebbe stato possibile soltanto intervenendo con norme
imperative ed inderogabili in materia di contratto individuale di lavoro, imponendo
determinati obblighi al datore di lavoro e, al tempo stesso, precludendo al lavoratore la
stipula di contratti individuali per esso peggiorativi rispetto alle nuove norme.
In tal modo, ossia con atti normativi specifici, il diritto del lavoro andava a formarsi con
carattere di specialità rispetto al diritto privato (essendo quest'ultimo governato dal
carattere dispositivo, ossia dalla facoltà delle parti di derogarvi concordemente), regolando
con proprie norme, inderogabili, quel particolare rapporto contrattuale che è il rapporto di
lavoro.
6. Il ventennio fascista. Con l'avvento del fascismo si ebbe un radicale cambiamento istituzionale nei confronti del
sindacato, la cui sopravvivenza era subordinata alla sua compatibilità col regime
corporativo.
Non di meno in tale periodo vi furono numerose innovazioni legislative che
sostanzialmente realizzavano gli obiettivi sindacali.
4
Sul fronte sindacale, in particolare, la Confìndustria, rappresentante la parte datoriale,
riconosceva alle organizzazioni sindacali fasciste il monopolio della rappresentanza
sindacale, così eliminando di fatto i preesistenti sindacati rossi (socialisti e comunisti) e
bianchi (moderati e cattolici) ed ottenendo, altresì, l'eliminazione delle "commissioni
sindacali interne", ossia delle rappresentanze sindacali aziendali
Il governo, dal canto suo, si riservò la facoltà di legittimare un solo sindacato - cosa che
fece - a condizione che questo fosse rappresentativo di almeno il 10% dei lavoratori della
categoria interessata e purché "compatibile" col regime corporativo, ossia col comune
intento di realizzare gli obiettivi di governo.
In tal modo veniva messo fuori gioco il primo grande sindacato costituitosi nel 1906 su
impulso del partito socialista: la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro).
La legittimazione di un unico sindacato di gradimento del governo portò, non di meno,
all'affermazione della contrattazione collettiva quale fonte normativa del rapporto di lavoro
dipendente, non derogabile se non a favore del lavoratore.
Le innovazioni normative del ventennio fascista videro l'abolizione dello sciopero e, con
esso, della serrata, il miglioramento delle norme a tutela del lavoro delle donne e dei
fanciulli e delle lavoratrici madri nonché in materia di assicurazione obbligatoria contro
gli infortuni sul lavoro ed in materia di assistenza previdenza (con l'istituzione dell’INPS).
La legislazione del ventennio fascista culminò col codice civile del 1942 nel quale fece la
comparsa la definizione di "lavoro subordinato", che andò a sostituire la preesistente ed
ormai inadeguate definizione di "locazione d'opera" di cui al primo codice del 1865.
Il grande merito della disciplina del contratto di lavoro, contenuta nel codice, fu altresì
quello di applicarsi indifferentemente, per la prima volta, a tutte le categorie di lavoratori
subordinati.
Si realizzò, in tal modo, una "storica" unificazione normativa del regime giuridico del
lavoro subordinato.
7. Il diritto del lavoro repubblicano: dalla Costituzione allo Statuto dei lavoratori. Dopo la seconda guerra mondiale, una volta abolite le strutture sindacali corporative, si
ricostituì il movimento sindacale riunitosi nella CGIL, unico grande sindacato
preesistente. Tale unità, però, durò poco ed alla spaccatura politica, tra forze socialiste e
comuniste e forze moderate e cattoliche, fece eco la spaccatura sindacale e dalla CGIL, di
ispirazione
social-comunista, si staccarono la CISL, di ispirazione cattolica, e la UIL, di ispirazione
repubblicano-socialista.
Sul piano normativo un nuovo impulso allo sviluppo di un diritto del lavoro venne dalla
Costituzione che, pur esaltando i diritti del lavoratore, non era di per se sufficiente a
disciplinare la materia, per cui tale compito tornava nelle mani del legislatore.
Le prime innovazioni si ebbero negli anni '50 del secolo scorso, ma fu negli anni '60 che,
con la partecipazione dei socialisti al governo, si ebbero significative riforme a tutela dei
lavoratori dipendenti.
Tra queste si ricordano:
• la legge n. 1369 del 1960, sul divieto di interposizione nell'impiego di mano d'opera,
finalizzata a contrastare il fenomeno del caporalato;
• la legge n. 230 del 1962, limitativa delle assunzioni a tempo determinato e perciò
introduttiva del principio della stabilità del rapporto di lavoro;
5
• la legge n. 604 del 1966, limitativa della facoltà di licenziamento.
Gli anni 70 hanno visto una sempre maggiore partecipazione sindacale, anche a livello
aziendale con la ricostituzione delle commissioni interne, risentendo favorevolmente di
fenomeni di forte contestazione politica e sociale.
Ed è in tale clima di contestazione, caratterizzata dalla nascita di forze extraparlamentari
di sinistra e da episodi di estremismo violento, che vide la luce la legge 20 maggio 1970,
n. 300, nota come Statuto dei diritti dei lavoratori (di seguito più semplicemente Statuto),
portatrice di significative riforme a tutela del sindacato e dei lavoratori, introduttiva, tra
l'altro, del procedimento giudiziario speciale di cui all’art. 28 sulla repressione della
condotta antisindacale.
Alla legge n. 300 del 1970 fecero seguito altri importanti provvedimenti legislativi tra i
quali vanno ricordati:
• la legge n. 1204 del 1971, sulla tutela delle lavoratrici madri;
• la legge n. 533 del 1973, sul procedimento processuale speciale in materia di
controversie di lavoro;
• la legge n. 903 del 1977, sull’uguaglianza nel lavoro tra l’uomo e la donna.
Altre particolari riforme riguardarono la protezione dei salari attraverso l’istituto
cosiddetto della scala mobile (ossia della contingenza per il settore privato, e
dell’indennità integrativa speciale, per il settore pubblico), consistente nell'automatico
adeguamento dei salari al crescere dell'inflazione.
Tale istituto, caratterizzante l'autonoma dei salari rispetto all'andamento dell'economia
del paese, sarebbe stato poi abolito a partire dal 1992.
8. Il diritto del lavoro della crisi: gli anni '80. Negli anni '70 s'era affermata l'indipendenza dei salari rispetto all'andamento
dell'economia del paese e la classe lavoratrice godeva dei relativi benefici, ossia della
dinamica salariale ottenuta in sede contrattuale ma a tutto discapito di un'economia che
avrebbe rette a tale situazione finché stabile.
Tale stato di grazia non era destinato a durare. Infatti la crisi petrolifera, conseguente al
conflitto tra arabi ed israeliani del 1973, ebbe forti ripercussioni sull'economia di tutti i
paesi industrializzati, i quali si trovarono obbligati a forti cambiamenti caratterizzati da
interventi statali a favore dell'occupazione ma con una pesante contropartita, e cioè con la
nascita di una sorta di neocorporativismo, o contraffazione trilaterale, consistente nella
partecipazione del governo alla politica del lavoro, con una sua forte ingerenza nelle scelte
che fino ad allora erano il frutto di relazioni sindacali indifferenti rispetto alla politica
economica di governo.
Le relative soluzioni, mirate a sostenere l'economia del paese, cominciarono a colpire gli
aspetti più garantisti del rapporto di lavoro dipendente, frutto di conquiste sindacali che,
però, consentivano eccessi non tollerabili in una fase congiunturale, ed il sindacato
dovette rassegnarsi a fare qualche passo indietro.
Si pensi alla materia delle retribuzioni e in particolare alla Scala Mobile; quest’ultima era
un sistema di adeguamento automatico delle retribuzioni al costo della vita, di tal che le
retribuzioni restavano in parte protette dalle ripercussioni economiche dei momenti
congiunturali.
Tale sistema è stato abolito nel 1992 al termine di un periodo sperimentale di modifica
iniziato nel 1986.
6
Tali soluzioni, frattanto, furono possibili solo con una cosciente partecipazione del
sindacato che in tal modo andò ad assumere un ruolo più politico che sindacale e per ciò
stesso non esente da conflitti interni e spaccature con la più intransigente CGIL,
faticosamente ricostruite, che rispecchiavano le diverse posizioni delle forze politiche. 9. La crisi del diritto del lavoro: gli anni '90. Alla crisi economica degli anni '80, che mise in crisi il diritto del lavoro in termini di
contenimento delle istanze sindacali, fece seguito la crisi dello stesso diritto del lavoro,
negli anni '90, che mise in discussione la sua stessa ragion d'essere.
Alcuni aspetti della globalizzazione ed i cambiamenti della politica interna e della politica
estera tesisi necessari nella prospettiva di entrare in Europa, hanno posto in secondo
piano il protezionismo che il diritto del lavoro intende garantire a favore del lavoratore
dipendente.
Le inversioni di tendenza imposte dall'apertura ai mercati internazionali, dall'ingresso in
Europa, dall'invasione di prodotti di importazione realizzati a costi inferiori grazie
all'impiego di mano d'opera priva della stessa protezione di cui gode il lavoratore
nazionale, si sono concretizzate in scelte legislative che privilegiano l'iniziativa
imprenditoriale e la massima flessibilità a discapito di soluzioni garantiste della stabilità
del posto di lavoro.
Le disposizioni di legge emanate in quel periodo presupponevano, dunque, una maggiore
flessibilità nella domanda, attraverso forme diversificate, ed una pari flessibilità
dell'offerta di lavoro, a discapito della stabilità del posto di lavoro.
Tale cambiamento, segnato da importati disposizioni di legge quali quella sui
licenziamenti collettivi e la mobilità (legge n. 223 del 1991) ha evidenziato l'esigenza di
una nuova regolamentazione del diritto del lavoro che, tuttavia, non doveva tradursi in
una deregolamentazione, ossia nella negazione dell'essenza stessa del diritto del lavoro
quale normativa speciale che tenesse distinto il rapporto di lavoro dagli altri rapporti
contrattuali contemplati dal diritto comune.
Pertanto alla maggiore flessibilità ed al maggior margine di manovra riconosciuto alle
imprese non corrisponde una pari diminuzione dei diritti del lavoratore dipendente bensì
una flessibilità delle prestazioni e dell'offerta di lavoro adeguate ai tempi ed all'andamento
del mercato secondo modelli non più compatibili con l'assetto protezionista e
collettivizzato degli anni '60.
I criteri di flessibilità caratterizzanti il radicale cambiamento del primi anni del nuovo
millennio hanno visto l'ingresso del privato nella gestione del mercato del lavoro
(intermediazione della mano d'opera), la nascita del lavoro interinale, lo sviluppo delle
collaborazioni coordinate e continuative (L'impiego di tali nuove forme di lavoro, prima
riservato al solo settore privato, è stato recentemente esteso al settore pubblico con la
legge n. 133 del 2008).
. 10. Il libro bianco e le politiche del lavoro del governo Berlusconi Con l'ingresso in Europa si è accentuata l'attenzione sul mercato del lavoro e sulle
politiche del lavoro e, quindi, sulla prospettiva di realizzare assetti normativi, in materia
di lavoro, coerenti con gli obiettivi comunitari e con gli impegni assunti in sede
comunitaria dagli stati membri.
In ambito europeo è stata ipotizzata una politica intesa a stimolare i mercati del lavoro,
con l'obiettivo di dare impulso alla produzione di reddito ed all'economia, e, tuttavia,
lasciando agli stati membri la concreta attuazione delle relative iniziative.
7
Pur nel comune intento di incrementare il tasso di occupazione, i programmi delle forze
politiche si sono ispirati a posizioni diverse e si sono diversamente indirizzati: il centro-
sinistra si è ispirato a posizioni più conservatrici delle conquiste sindacali (modello
renano) mentre il centro-destra si è ispirato a soluzioni più progressiste (modello
americano), essendo favorevole ad introdurre forti cambiamenti nel mercato del lavoro.
Tali innovazioni sono state realizzate col governo Berlusconi il cui programma venne
presentato, nel 2001, con il Libro bianco sul mercato del Lavoro.
Questo venne elaborato da Marco Biagi, giuslavorista che aveva collaborato col governo
D'Alema, nell'intento di trovare soluzioni alternative, in materia di mercato del lavoro, che
favorissero le ripresa economica del paese senza pregiudicare le conquiste sindacali degli
anni addietro.
Il Libro bianco ipotizzava profonde riforme in materia di mercato del lavoro sia strutturali,
consentendo l'ingresso del privato nella gestione del mercato del lavoro, sia contrattuali,
prevedendo forma di lavoro flessibile.
In particolare, con esso si sosteneva la necessita di spostare l’attenzione alla protezione
del mercato del lavoro, piuttosto che alla protezione del rapporto di lavoro, con
l’introduzione di norme meno protettive del rapporto di lavoro in termini di stabilità ma
offerenti maggiori prospettive di reimpiego del lavoratore rimasto disoccupato.
Il programma del Libro bianco è stato tradotto in numerosi provvedimenti legislativi
ispirati ai citati criteri di flessibilità e meno attenti al consenso sindacale, quali i decreti
legislativi:
• n. 368 del 2001, sul rapporto di lavoro a tempo determinato;
• n. 66 del 2003, sugli orari di lavoro;
• n. 276 del 2003, sul mercato del lavoro.
11. Le prospettive del modello sociale europeo. Se è innegabile la necessità di una revisione del diritto del lavoro in direzione di una
maggiore flessibilità, tale flessibilità non deve costituire l'obiettivo primario ne deve
risolversi nel sostanziale annullamento della ragion d'essere del diritto del lavoro, ossia
della sua funzione protettiva di determinati diritti e di determinati valori che
caratterizzano la cultura occidentale europea.
Ecco che gli attacchi alle conquiste sociali vengono anche dall'esterno, ossia da quei paesi
emergenti che non vedono di buon occhio la conquiste sociali che fanno parte della nostra
cultura e che costituiscono un serio pericolo per la loro economia.
8
CAPITOLO II
Diritto del Lavoro e Scienze Sociali 1. Introduzione. Il diritto è oggi considerato una scienza sodale, in quanto espressione della società per la
quale esso vige, del suo livello culturale e della sua evoluzione.
In fase di studio e principalmente in sede di interpretazione del diritto occorre, pertanto,
avere in considerazione l'evoluzione della società e, con essa, di quei fattori esterni
all'ordinamento giuridico che con esso interagiscono in maniera più o meno intensa.
Dunque, il diritto del lavoro, in quanto scienza sociale, è in stretta relazione con altre
scienze sociali che studiano le più significative espressioni della società: dall'economia
alla
sociologia alla filosofia.
2. L'economia. Una delle scienze che entra necessariamente in relazione col diritto del lavoro è senz'altro
quella economica.
I relativi rapporti, tuttavia, sono particolarmente delicati a causa dei diversi valori
fondamentali.
L'economia, infatti, ha quale valore fondamentale quello dell'allocazione ottimale delle
risorse in un determinato mercato, mentre il diritto del lavoro ha quale valore
fondamentale quello della tutela della parte debole del mercato del lavoro.
L'economia del lavoro è quella branca dell'economia che studia il mercato del lavoro ossia
il mercato nel quale la mercé scambiata è il lavoro umano.
Il mercato del lavoro, tuttavia, non può equipararsi ad un qualsiasi altro mercato nel
quale si raggiunge un equilibrio tra domanda e offerta, in quanto l'offerta non può tendere
al ribasso quando la domanda si ritrae; il diritto del lavoro è perciò definito
antieconomico, in quanto non rispetta la legge di mercato di tendenza all'equilibrio ed è,
anzi, caratterizzato da un'incidenza programmatica sui meccanismi di mercato, tesa allo
squilibrio, determinata dalla contrattazione collettiva e dalle leggi di tutela del rapporto di
lavoro.
Va perciò respinta la teoria che un mercato del lavoro lasciato a se stesso, ossia non
protetto, nel quale, cioè, non vi siano minimi salariali invalicabili, risolverebbe il problema
dell'occupazione (ovvero della disoccupazione) sol perché l'accettazione di minori
retribuzioni aumenterebbe la domanda.
Una tale ipotesi è stata smentita dai fatti.
Scienza economica e diritto del lavoro devono tuttavia convivere e non è detto che la
posizione conflittuale, determinata dai differenti valori di base, non possa invece
contribuire per uno sviluppo positivo di entrambe le scienze.
9
3. La sociologia. Un'altra disciplina che va ad intersecarsi col diritto del lavoro è la sociologia e, più
precisamente, la sociologia giuridica. La sociologia è la scienza che studia i fenomeni e le
manifestazioni tipiche della vita associata e ne trae le sue leggi generali.
Ebbene il diritto del lavoro è nato innanzitutto quale diritto sindacale ed è immaginabile
che questo, prima di raggiungere una qualsiasi forma di regolamentazione, è stato
caratterizzato da una forma spontanea di comportamento collettivo in un determinato
contesto sociale.
Diritto del lavoro e sociologia sono, dunque, in stretta correlazione e diverse branche della
sociologia vanno ad intersecarsi col diritto del lavoro, quali, ad esempio:
• la sociologia industriale, che studia i fenomeni legati all'industrializzazione e al suo
impatto con l’ambiente esterno;
• la sociologia dell'azienda, che studia la conformazione, l'organizzazione e le
relazioni interne dell'azienda;
• la sociologia dell'organizzazione che studia il funzionamento delle organizzazioni,
ivi comprese quelle d’impresa;
• la sociologia del lavoro che studia le variazioni del valore, dell’organizzazione e della
qualità del lavoro in differenti settori produttivi;
• la sociologia del mercato del lavoro, che studia le dinamiche della domanda e
dell'offerta di lavoro.
4. La filosofia. I principi di libertà e di eguaglianza, esaltati dall'illuminismo e dalla Rivoluzione francese,
hanno portato all'affermazione dei diritti dell'uomo e di quei valori che costituiscono il
fondamento della nostra cultura occidentale; i diritti di libertà e i diritti umani quali diritti
fondamentali dell'uomo libero.
Il diritto del lavoro è portatore degli stessi valori e concorre al progresso della nostra
società e, tuttavia, l'uomo ed i diritti che esso considera non sono quelli del cittadino
qualunque bensì quelli dell'uomo lavoratore i cui diritti vengono, talvolta, in
contrapposizione con la libertà altrui.
Nel diritto del lavoro è l'eguaglianza che ha preso il sopravvento sulla libertà e tale
eguaglianza, ove non sia realizzata spontaneamente, deve essere resa concreta
dall’intervento dell'uomo o delle istituzioni.
10
CAPITOLO III
La Costituzione
1. La Costituzione. La Costituzione repubblicana, in vigore dal primo Gennaio 1948, costituisce le
fondamenta del nostro ordinamento giuridico.
Essa è considerata la norma della concordia in quanto realizzata col concorso e col
consenso di tutte le forze politiche, le stesse che immediatamente dopo avrebbero dato
luogo ai conflitti tipici del nostro sistema politico (componenti Cattoliche, Laico-
Repubblicane e Socialcomuniste).
La Costituzione ha una sua importanza non solo giuridica, quale norma fondamentale
portatrice dei principi generali cui l'ordinamento deve costantemente ispirarsi, bensì
anche storica, in quanto essa ha accompagnato tutti i cambiamenti dello staro liberale in
stato di diritto e, quindi, in stato sociale.
Coerentemente con la Costituzione vanno perciò lette le norme che caratterizzano la
nostra evoluzione e l'evoluzione della società e del diritto, ed è dalla stessa Costituzione
che prendono vita diritti umani ulteriori rispetto a quelli di libertà: il diritto al lavoro, il
diritto alla previdenza, il diritto all'assistenza, il diritto ad una giusta retribuzione.
Il diritto del lavoro ha, quindi, un fondamento costituzionale e la collettivizzazione del
rapporto di lavoro ed il suo fine di tutela della posizione del lavoratore dipendente si
pongono a pieno titolo quali norme attuative della Costituzione.
I Principi Fondamentali posti dalla Costituzione in tema di lavoro sono i seguenti:
• Art. 1: L’Italia è una Repubblica Democratica, fondata sul lavoro
• Art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
• Art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sodale, che,
limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. → EGUAGLIANZA FORMALE.
• Art. 4: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le
condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere dì svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria
scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale
della società → DIRITTO DEL LAVORO. • Art. 35: La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare
e regolare i diritti del lavoro.
11
Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge
nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero → TUTELA DEL LAVORO • Art. 41: L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica
pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a firn sociali → LIBERTÀ DI INIZIATIVA ECONOMICA.
2. “Fondata sul lavoro” (Art. 1 e 4 Cost.) All'art. 1 la Costituzione precisa che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul
lavoroo.
Al successivo art. 4 la stessa Costituzione sancisce il riconoscimento del diritto al lavoro4,
il che enfatizza l'importanza del lavoro e senza alcuna distinzione, ma il riconoscimento
del diritto e l'impegno a far sì che tale diritto sia effettivo non significa che lo Stato si sia
assunto l’onere di assicurare ad ognuno un posto di lavoro.
E' significativa, invece, la precisazione di cui al secondo comma dell'art. 4, laddove è
statuito il dovere del cittadino di svolgere un'attività lavorativa, a sua scelta, al fine di
concorrere al progresso della società.
Una libera scelta, dunque, secondo le proprie capacità professionali ma anche un obbligo
finalizzato al progresso della società.
La norma costituzionale lascia in tal modo vedere un legame diretto tra lavoro e
progresso della società e finalizza il lavoro non solo al sostentamento del lavoratore e della
sua famiglia bensì al progresso materiale e spirituale della società.
Essa, quindi, individua nel lavoratore — così ricollegandosi all'art. 1 - il principale artefice
del progresso della società e pone altresì le basi per un diritto del lavoro, giacché
conferisce al legislatore ordinario il compito di attuare i principi ivi sanciti, di garantire le
condizioni per rendere effettivo l'esercizio del diritto al lavoro e di rimuovere ostacoli e
disparità in tal senso ostative.
3. I diritti inviolabili (Art.2 Cost.) L'art. 2 della Costituzione sancisce il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove egli svolge la sua
personalità5, e per formazioni sodali devono intendersi tutti i contesti tipici della nostra
società quali, anche, il mondo del lavoro.
Ciò significa che il cittadino è considerato titolare di diritti inviolabili non solo come
singolo ma anche come soggetto che assume una sua qualificazione in base alla posizione
sociale; quindi l’individuo è anche titolare di diritti correlati alla sua posizione di lavoro in
quanto nell'azienda, sia privata che pubblica, egli esplica la sua personalità.
Oltre a sancire diritti, l’art. 2 richiede l'adempimento "dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale".
Ciò si inserisce perfettamente nella logica sociale che pervade la Carta.
Al dovere di solidarietà possono essere ricondotti, infatti, lo stesso dovere
dell'imprenditore di occuparsi, a vari livelli, della condizione dei propri dipendenti, nonché
quello di finanziare, attraverso il pagamento dei contributi obbligatori, i trattamenti
previdenziali destinati ai lavoratori.
12
4. L'eguaglianza formale (Art. 3 I°co. Cost.) L'art. 3 della Costituzione, sulla scia dei principi di eguaglianza affermati dalle rivoluzioni
francese ed americana, con la statuizione secondo la quale “tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”, ha sancito lo stesso principio in termini di
parità di trattamento.
Tale principio, tuttavia, così come affermato dalla Corte costituzionale, presuppone un
divieto di disparità di trattamento di situazioni eguali ma un pari divieto di parità di
trattamento di situazioni disuguali.
Un tale principio, calato nel mondo del lavoro, si traduce in un obbligo di non
discriminazione del lavoratore a causa della sua diversità di sesso, condizione sociale,
convinzioni religiose o altro e altresì presuppone un diverso trattamento, in tal caso più
favorevole, nei confronti dei soggetti in posizione di diversità — e di sostanziale svantaggio
— rispetto ad altri, quali le donne e i disabili.
5. L'eguaglianza sostanziale (Art. 3 II°co. Cost.) Il secondo comma dell'alt. 3 della Costituzione va oltre la dichiarazione di principi di cui al
primo comma dello stesso articolo6 statuendo, in particolare, che la Repubblica ha il
compito di rimuovere quanto sia di ostacolo al pieno sviluppo della persona umana e,
quindi, quanto sia di ostacolo all'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale dello Stato.
Pertanto all'obbligo di solidarietà che l'art. 2 pone in capo al cittadino, corrisponde anche
l'obbligo dello Stato di rimuovere gli ostacoli che impediscono al cittadino "diverso" di
rendere effettiva, col lavoro, la sua solidarietà.
Il diritto del lavoro è perciò inteso come attuativo della norma costituzionale sia per
quanto attiene alla parità di trattamento di situazioni uguali (contrattazione collettiva), sia
per quanto attiene alla disparità di trattamento a favore di situazioni di svantaggio
personale (norme a favore della donna lavoratrice, dei disabili, della maternità, ecc.).
6. Il diritto del lavoro (Art. 4 Cost.) L'art. 4 la stessa Costituzione sancisce il riconoscimento del diritto al lavoro ed impone
allo Stato di garantire le condizioni a che tale diritto sia effettivo.
La norma, tuttavia, è di natura programmatica e non precettiva e, pertanto, non impone
allo Stato di assicurare un posto di lavoro a tutti ma solo di rimuovere gli ostacoli che
impediscano, anche solo a determinate categorie di cittadini, di svolgere un'attività
lavorativa secondo le capacità e nel rispetto della libertà di scelta.
7. La tutela del lavoro. L'ari 35 della Costituzione statuisce, al primo comma, che la Repubblica tuteli il lavoro in
tutte le sue forme ed applicazioni, in tal modo ricollegandosi all'art. 1, laddove afferma
che l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro, ed all’art. 4, dove si afferma il diritto al
lavoro, e, tuttavia, con riferimento al mondo del lavoro in tutte le sue espressioni e non
soltanto a quello subordinato.
13
8. La libertà di iniziativa economica. L'art. 41 della Costituzione sancisce, al primo comma, la libertà di impresa, nel senso che
ognuno è libero di svolgere un'attività economica, ma il secondo comma precisa che tale
libertà non può estrinsecarsi in attività che siano in contrasto con Futilità sociale ne
siano in danno della sicurezza, della libertà e della dignità umana.
La norma costituzionale riguarda, pertanto, pur sempre il lavoro ma è palesemente riferita
a quello di natura imprenditoriale che pone in posizione subordinata rispetto alle altre
espressioni del mondo del lavoro, in tal modo confermando l'orientamento del costituente
a favore del lavoro subordinato.
14
CAPITOLO IV
Diritto Sociale Comunitario
1. Genesi e sviluppo del diritto sociale comunitario. La competenza normativa della Comunità europea spazia in tutti i campi che in un modo
o in un altro hanno a che fare col progresso e lo sviluppo economico dei paesi membri e,
pertanto, il diritto del lavoro rientra a pieno titolo in tale competenza.
In ambito Comunitario il Diritto del Lavoro corrisponde a quella parte del Diritto che
prende il nome di Diritto Sociale Comunitario; tuttavia, la competenza di quest’ultimo
riguarda prevalentemente l'aspetto sociale e, quindi, quella parte del diritto del lavoro con
esso più attinente, quali l'occupazione, la formazione, il mercato del lavoro, la tutela della
sicurezza, ccc., mentre gli aspetti più direttamente inerenti al rapporto di lavoro, quali le
retribuzioni, l'esercizio del diritto di sciopero, ecc., restano di competenza esclusiva degli
stati membri.
La Comunità Europea, istituita col Trattato di Roma del 1957, nasce come organizzazione
internazionale inizialmente denominata Mercato comune europeo (MEC), poi Comunità economica europea (CEE) ed infine Comunità Europea (CE), a sua volta facente parte
dell’Unione Europea (UE), con la finalità di favorire il rilancio dell'economia, dei paesi
membri, gravemente compromessa dagli eventi bellici del XX secolo.
Il Trattato di Roma conteneva, tra le altre, due clausole fondamentali per il rilancio
dell'economia dei paesi europei innanzitutto sul piano commerciale:
a) la libera circolazione dei lavoratori;
b) la parità di trattamento retributivo tra uomini e donne sul lavoro.
In presenza di tali norme, l'incidenza del diritto comunitario sul diritto interno fu
inevitabile e la normativa comunitaria in ambito sociale è stata sempre più copiosa, al
punto che non v'è norma interna, in materia di lavoro, che non abbia alle spalle una
direttiva comunitaria.
L'originaria finalità della Comunità Europea sarebbe poi approdata al più ambizioso
obiettivo di realizzare una confederazione di stati sempre più allargata ma con un'ottica di
progressiva aggregazione ed avvicinamento degli ordinamenti interni degli stati mèmbri,
prospettiva dalla quale non resta escluso il mondo del diritto del lavoro.
2. I diritti sociali fondamentali. La Fonte Primaria del Diritto Sociale Comunitario è il Trattato Istitutivo della Comunità.
Quest’ultimo ha una fisionomia diversa da quella delle Costituzioni Nazionali; infatti, pur
essendo un atto di natura statutaria, al pari di una costituzione, disciplina i vari aspetti
dei rapporti interni e delle competenze degli organi comunitari ma non i principi
fondamentali comuni per gli stati membri che pertanto, per essi, sono rimasti quelli delle
singole costituzioni.
Una tale funzione normativa avrebbe dovuto svolgerla la Costituzione- europea la cui
entrata in vigore, dall’1.11.2006, è stata impedita dalla mancata ratifica da parte della
Francia e dell'Olanda.
La mancata approvazione della costituzione europea ha impedito la nascita di un atto
normativo vincolante per tutti gli stati mèmbri della Comunità europea nel quale fossero
15
sanciti i diritti fondamentali, benché tali diritti siano bene o male contemplati nelle
singole costituzioni.
A tale carenza per certi versi sopperisce la Carta dei diritti fondamentali di Nizza del
7.12.2000 che, pur essendo una semplice dichiarazione, è ritenuta vincolante dalla Corte
di giustizia europea.
La Carta proclama i diritti di uguaglianza e di tutela dei soggetti in posizione di svantaggio
ed è ritenuta vincolante per effetto del rinvio di cui all'art. 134 del Trattato CE; la norma
comunitaria, infatti, obbliga gli stati mèmbri ad attenersi ai principi inerenti ai diritti
sociali fondamentali, di tal che Ì dritti proclamati dalla Carta di Nizza vengono in tutti
rilievo pur essendo contenuti in una mera dichiarazione.
V'è, dunque, un rinvio che rende operativa la Carta di Nizza pur in assenza di una
costituzione che la faccia diventare norma a tutti gli effetti.
Dal canto suo la Costituzione europea, al di là della sua mancata approvazione, non è
stata esente da critiche anche da parte di quelli che l'avrebbero voluta.
E infatti taluni l'avrebbero voluta più incisiva, con ciò ignorando le diversità esistenti tra
gli stati e la conseguente necessità di attestarsi a livelli, più bassi, compatibili con tali
diversità; altri l'hanno invece vista come una caparbia conservazione di valori tutti
europei.
3. Il quadro istituzionale comunitario. L'art. 136 del Trattato CE è quello che introduce il capitolo sociale, ossia quella parte del
trattato dedicata al diritto sociale (del lavoro).
Esso indica, quali obiettivi comunitari in tale ambito:
• la promozione dell'occupazione;
• il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro;
• la parificazione del progresso;
• la protezione sociale;
• il dialogo sociale;
• lo sviluppo delle risorse;
• la lotta all’emarginazione.
Per la realizzazione di tali fini la Comunità e gli stati mèmbri devono mettere in atto
misure che tengano conto degli obiettivi programmati e che, tuttavia, non perdano di vista
l'obiettivo primario della competitività economica.
Nel disciplinare la competenza comunitaria, dunque, il trattato pone in tutto rilievo i
diritti del lavoratore — presentandosi in tal senso come norma programmatica - ma non
mette in secondo piano l'aspetto economico, cosiddetto mercantilistico, che caratterizza
le origini del diritto comunitario.
La normativa comunitaria in materia di lavoro è altresì coerente col criterio della
sussidiartela, dallo stesso trattato previsto, secondo il quale la Comunità interviene
soltanto quando la sua azione possa essere più incisiva ed efficace di quella dei singoli
stati.
Dal canto loro le iniziative comunitarie, che si realizzano principalmente in forma di
direttiva, tanto sono più efficaci quanto più per la relativa adozione sia previsto il criterio
della maggioranza in luogo di quello dell'unanimità (che può avere effetti paralizzanti a
causa del voto contrario di un unico stato membro).
16
L’art. 137 del Trattato individua in tal modo la relativa competenza:
a) le materie per le quali possono essere adottate direttive assunte a maggioranza
qualificata sono: miglioramento dell'ambiente di lavoro ai fini della sicurezza e della
salute dei lavoratori; condizioni di lavoro; informazione e consultazione dei
lavoratori; integrazioni; parità tra uomo e donna;
b) le materie per le quali le direttive devono essere assunte all'unanimità sono:
sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori; protezione dei lavoratori nei casi
di risoluzione del rapporto di lavoro; rappresentanza collettiva degli interessi dei
lavoratori e dei datori di lavoro; condizioni di impiego dei lavoratori extracomunitari;
c) le materie di competenza esclusiva degli stati mèmbri sono: retribuzioni; diritto di
associazione; diritto di sciopero; diritto di serrata.
4. Le norme comunitarie La prima fonte comunitaria è Fatto costitutivo della stessa Comunità Europea, ossia il
Trattato di Roma del 1957.
Una volta ratificato il trattato, gli stati mèmbri sono immediatamente soggetti alle norme
ivi previste e, per l'effetto, sono altresì soggetti ai regolamenti comunitari che hanno
efficacia immediata rispetto al diritto interno, in quanto entrano immediatamente a far
parte dell'ordinamento interno degli stati mèmbri e prevalgono sulle leggi ordinarie degli
stessi.
Ciò non avviene per le direttive comunitarie, comunque vincolanti, cui, non di meno si
riconosce in taluni casi un'efficacia immediata, che richiedono uno specifico
provvedimento di attuazione, anche amministrativo, che inserisca la norma comunitaria
nel diritto interno.
La direttiva è l’atto più frequentemente adottato dal Consiglio europeo, a maggioranza
qualificata od anche all'unanimità, su proposta dalla Commissione e previa consultazione
del Parlamento.
Tale atto normativo non è immediatamente efficace ma e vincolante per gli stati mèmbri,
cui assegna i fini da conseguire con i provvedimenti attuativi di essa ed il termine entro il
quale tali provvedimento devono essere adottati.
Prima dell'adozione del provvedimento attuativo della direttiva ad essa è comunque
riconosciuta una immediata efficacia verticale, nel senso che il soggetto destinatario della
norma comunitaria può agire contro lo stato inadempiente pretendendo l’applicazione
della direttiva e con diritto anche al risarcimento del relativo danno, purché la direttiva
sia chiara e precisa nelle sue finalità, ossia purché essa abbia i requisiti della norma
internazionale di tipo self-executing.
Con l'Accordo di Maastricht sulla politica sociale è stata altresì istituzionalizzata la
partecipazione sindacale al processo di formazione delle direttive, a tal fine stabilendo che
il Consiglio, prima di adottare direttive inerenti a materie di diritto sociale comunitario,
deve consultare le associazioni sindacali al livello europeo con le quali può stipulare
accordi collettivi che, tuttavia, non sono vincolanti.
17
5. Le nuove frontiere dell'azione comunitaria. In epoca più o meno recente ci si è resi conto, in ambito europeo, della necessità di
migliorare il coordinamento delle politiche occupazionali e a tal fine è stato elaborato un
programma, detto "Strategia europea per l'occupazione", che prevede una relazione
annuale da parte di ciascuno stato sui risultati conseguiti in materia di occupazione, sì
da consentire agli altri stati di seguire le soluzioni di maggior successo.
Tale strategia si allontana dalla generica finalità di armonizzazione delle normative
interne, mirando, invece, ad un'azione di coordinamento che si fonda sull'indicazione di
criteri guida per l'azione comune.
La politica occupazionale europea è ora fondata sui seguenti obiettivi fondamentali:
a) promozione della occupabilità puntando sulla formazione, e, quindi, con l'impegno
ad investire sulla formazione di professionalità adeguate al progresso tecnologico;
b) adattabilità dell'offerta all'andamento del mercato attraverso forme di lavoro
flessibile;
c) incentivazione dell'imprenditoria;
d) pari opportunità e agevolazioni per soggetti e categorie in posizione di svantaggio.
18
CAPITOLO V
Fonti Nazionali
1. La concertazione. In un ordinamento di diritto' positivo la fonte primaria del diritto è pur sempre la legge,
ma ciò non significa che la sua formazione avvenga esclusivamente nelle aule
parlamentari.
Nella predisposizione dei testi di legge aventi una certa incidenza in ambito sociale, infatti,
si è affermata la prassi della concertazione, ossia della previa consultazione delle parti
sociali (cioè i sindacati) al fine di ottenere un consenso non necessario ma significativo
relativamente a decisioni aventi ripercussioni sociali.
Non di rado il governo ha fatto ricorso alla concertazione e in particolar modo nei casi in
cui i provvedimenti legislativi da adottare erano di tipo congiunturale e perciò
richiedevano sostanziali limitazioni, più o meno intense, a quelle che erano ritenute
conquiste sindacali irrinunciabili ma ormai incompatibili con gli obiettivi di ripresa
economica, quale, ad esempio, il meccanismo di adeguamento automatico delle
retribuzioni al rincaro del costo della vita (cosiddetta scala mobile).
La concertazione ha, tuttavia, pregi e difetti; essa, infatti, se da un lato registra il più
ampio consenso delle parti sociali, che in tal modo concorrono responsabilmente alle
scelte di governo - ovvero della parte datoriale - assicurandone la stabilità e l'accettazione
da parte dei lavoratori rappresentati, dall'altro, se spinta oltre, rischia di spostare il potere
legislativo dalla sede naturale a quella delle relazioni sindacali in quanto l'eccessivo peso
dato alla parte sindacale si trasforma in un'ingerenza della stessa nelle scelte di governo e
ad una sostanziale abdicazione dei poteri propri di quest'ultimo a favore della prima.
La concertazione, che dal canto suo si è talvolta conclusa col dissenso di alcune
componenti della parte sindacale, in nessun caso prevede la conclusione di un accordo ne
il governo, ove accordo ci sia, è vincolato. all'esito dello stesso.
La concertazione e una prassi e non una regola, salvo che per quella parte del diritto del
lavoro riguardante il pubblico impiego, per il quale è invece una regola ben definita
nell'ambito delle relazioni sindacali.
2. La legge statale. Non esiste alcuna differenza tra la procedura di formazione delle leggi "lavoristiche" e
quella valevole in via generale.
Esiste peraltro una forte tendenza all'impiego di strumenti alternativi alla legge, quali:
a) decreti legge: a causa delle risicate maggioranze parlamentari che imperavano nella
Prima repubblica, e della conseguente difficoltà dei governi di allora di far passare
leggi in materia economico-sociale, si instaurò la prassi di normare attraverso decreti
legge che, non essendo poi convertiti dal Parlamento, venivano continuamente
reiterati.
Tale prassi fu bocciata dalla Corte Costituzionale che sancì, in via di principio, il
divieto di reiterazione dei decreti legge;
b) decreti legislativi: a seguito dello stop ai decreti legge, la prassi si è evoluta nella
direzione di un rinnovato utilizzo dei decreti legislativi, facendosi approvare dal
Parlamento — da parte dei governi — leggi delega molto ampie, spesso ai limiti del
19
contrasto con l'art. 76 Cost., in quanto carenti di principi e criteri direttivi
sufficientemente specifici.
Tutte i principali provvedimenti in materia di lavoro degli ultimi dieci anni sono state
elaborate con questa tecnica (da ultimo, il d.lgs. n.66 del 2003, di riforma della
disciplina dell'orario di lavoro, e il d.lgs. n. 276 del 2003, di riforma del mercato del
lavoro).
Il grave rischio è che il baricentro del potere legislativo ne risulti squilibrato, e in
particolare che il governo si appropri. indebitamente, di prerogative spettanti al
Parlamento.
3. La competenza legislativa regionale. Prima della riforma del Titolo V della Costituzione, ad opera della legge n. 3 del 2001, non
vi era dubbio circa la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di lavoro.
Con la Riforma sono stati previsti 3 diversi ambiti di Competenza Legislativa:
a) Esclusiva dello Stato, es. la Politica Estera (Art.117 co.2 Cost.);
b) Concorrente tra Stato e Regioni, con competenza Statuale in ordine alla
delineazione dei Principi Fondamentali, e normativa di attuazione lasciata alle
Regioni (Art. 117 co.3 Cost.);
c) Residuale delle Regioni, in tutte le materie non ricomprese nelle categorie sub a) e
b) (Art.117 co.4 Cost.).
Dunque, dopo la Riforma, si era ritenuto che la competenza legislativa in materia di
lavoro potesse rientrare in quella residuale delle regioni; ciò in quanto l'art. 117, terzo
comma, della Costituzione, così come riformato dalla legge n. 3 del 2001, ad esse
attribuisce la competenza in materia di tutela e sicurezza del lavoro.
Un tale orientamento è stato smentito dalla Corte costituzionale che ha fatto leva, a tal
proposito, sulla previsione di cui allo stesso art. 117, secondo comma, lettere l) e m),
laddove si individua la competenza esclusiva dello Stato in materia, rispettivamente, di
ordinamento civile, del quale certamente fa parte il diritto del lavoro, e di
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, nei quali ultimi rientrano oltre al Diritto alla Salute e all’Istruzione, anche i Diritti
nei confronti di soggetti pubblici o privati che si legano alla condizione di lavoratore.
4. Il regolamento. Il peso dei regolamenti governativi in materia di diritto del lavoro è sempre statoassai
scarso.
Esso è cresciuto soltanto in epoca recente, in funzione di esecuzione e specificazione della
normativa legale: è accaduto, infatti, che le leggi abbiano spesso fatto rinvio a
regolamenti, la cui adozione è prevista, da parte o del governo nella sua collegialità
(d.P.R.), o del Presi- dente del Consiglio dei Ministri (d.P.C.M.), o di singoli ministri (d.m.).
Un recente esempio è rinvenibile, ancora una volta, nel d.lgs. n. 276 del 2003.
La crescente produzione regolamentare degli ultimi anni ha accentuato, pertanto, il già
rilevato (e denunciato) spostamento del baricentro normativo dal Parlamento al governo.
Non sempre, fra l'altro, i margini lasciati al regolamento riguardano aspetti di mero
dettaglio.
20
5. Le Autorità indipendenti. Trattasi di organismi istituiti nella legislazione recente, onde assolvere varie funzioni di
regolazione di aspetti delicati del mercato, ad es. Authority per le telecomunicazioni, o
quella per la privacy.
Quest'ultima, in particolare, ha una notevole importanza nel campo del diritto del lavoro,
in quanto i provvedimenti dell'Autorità garante concernono spesso problemi legati alla
tutela della privacy dei lavoratori subordinati.
Peraltro, tra le Autorità indipendenti merita una segnalazione particolare la
"Commissione di garanzia per l'attuazione della legge 12 giugno 1990 n. 146", istituita dalla legge
omonima, con l'attribuzione di un'importante serie di compiti afferenti alla disciplina ed
alla gestione degli scioperi nei servizi pubblici essenziali.
6. Il Contratto Collettivo Nel diritto italiano, il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) è il contratto stipulato
a livello nazionale con cui le organizzazioni rappresentative dei lavoratori e le associazioni
dei datori di lavoro (o un singolo datore) predeterminano congiuntamente la disciplina dei
rapporti individuali di lavoro (cosiddetta parte normativa) e alcuni aspetti dei loro
rapporti reciproci (cosiddetta parte obbligatoria).
Nel settore del pubblico impiego è stipulato tra le rappresentanze sindacali dei lavoratori e
l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), che
rappresenta per legge l'Amministrazione Pubblica nella contrattazione collettiva. La banca
dati ufficiale è tenuta dal Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (CNEL), che
gestisce tra l'altro un archivio elettronico di tutti i CCNL (correnti e passati) liberamente
scaricabili.
La Contrattazione Collettiva, pur non potendosi considerare fonte normativa, ha, non di
meno, un’essenziale funzione normativa in senso materiale e, pertanto, verrà trattata
separatamente nel Capitolo VIII.
21
PARTE SECONDAPARTE SECONDAPARTE SECONDAPARTE SECONDA
IL DIRITTO IL DIRITTO IL DIRITTO IL DIRITTO SINDACALESINDACALESINDACALESINDACALE
CAPITOLO VI
Organizzazione e Azione Sindacale
1. Il Diritto Sindacale Il diritto sindacale è quella parte del diritto del lavoro che si identifica con le norme che
vanno a disciplinare le relazioni sindacali, la contrattazione collettiva e lo sciopero.
2. I sindacati. Il sindacato nasce come associazione finalizzata a tutelare i lavoratori ad esso aderenti e
dei quali assume, pertanto, la rappresentatività in sede contrattuale.
La forma più antica di sindacalismo è il sindacalismo di mestiere, che è il frutto
dell'aggregazione di lavoratori accomunati dal fatto di svolgere un medesimo mestiere.
Il sindacato di mestiere è sorto nell'Ottocento in riferimento ai mestieri più importanti e
qualificati dell'epoca (le aristocrazie operaie), gli unici che potevano aspirare ad un peso
negoziale nei confronti degli imprenditori.
Tali sindacati sopravvivono, oggi, nei cosiddetti sindacati professionali, rappresentativi
di lavoratori appartenenti ad una determinata categoria professionale; questi ultimi
sorgono quando categorie di lavoratori (di tipo intellettuale, o comunque in possesso di
un'alta qualificazione professionale: macchinisti, insegnanti, controllori di volo, piloti,
medici ospedalieri, etc.), insoddisfatti del modo in cui sono considerati dal sindacalismo
generale, si associano in organizzazioni separate allo scopo di difendere meglio i propri
Interessi.
Con l’industrializzazione e la collettivizzazione del rapporto di lavoro si è invece affermato
il sindacato di industria, rappresentativo dei lavoratori appartenenti alla stessa azienda
(in tal caso di grandi dimensioni), ed il sindacato di categoria, rappresentativo di tutti i
lavoratori operanti in un determinato settore produttivo (es.: metalmeccanici) o dei servizi
(es.: dipendenti degli enti locali), a prescindere dall'azienda di appartenenza e
dal livello professionale.
Nell'esperienza italiana, il sindacato di categoria si interseca, senza entrarvi in contrasto
ma anzi essendo complementare ad esso, con il modello del sindacalismo confederale.
La confederazione (CGIL, CISL e UIL su tutte) è un'associazione che raggruppa i
lavoratori, accomunati da una medesima identità politico sindacale.
Essa si articola anche in diramazioni territoriali (nel caso della CGIL, ad es., le Camere del
lavoro).
Data l'origine "politica" del sindacalismo italiano, la confederazione è nata prima del
sindacalismo di categoria.
La confederazione, in virtù della generalità dell'ambito cui si riferisce, è il sindacato dotato
della maggiore caratterizzazione "politica", ed è, come tale, il protagonista della
concertazione.
22
Essa ha anche, ovviamente, una legittimazione negoziale, che si esplica negli accordi
interconfederali (o, in caso di concertazione, trilaterali), e proprie diramazioni a livello
territoriale.
In contrapposizione ai sindacati di categoria dei lavoratori si sono poi formati i sindacati
degli imprenditori che con i primi stipulano i contratti collettivi (es. Federmeccanica,
Confindustria ecc.).
3. L’Azione Sindacale Il Sindacato esercita la sua azione in rappresentanza del lavoratore e a tutela del rapporto
di lavoro dello stesso.
L'azione sindacale, ovvero la partecipazione del sindacato alla formazione delle norme in
materia di rapporto di lavoro si svolge secondo i modelli delle cosiddette relazioni
sindacali e, principalmente, attraverso la concertazione e la contrattazione.
La concertazione presuppone una partecipazione del sindacato alle scelte del governo o,
comunque, della parte datoriale, ed è finalizzata a raggiungere il più ampio consenso ma
non obbliga l'altra parte ad assecondare le eventuali istanze sindacali.
La contrattazione si svolge invece sulle materie ad essa demandate, con l'obiettivo di
raggiungere un accordo, ed ha nello sciopero l'unico mezzo di pressione.
Importante è poi la partecipazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti alla gestione
delle imprese, la quale può realizzarsi tramite una gamma di istituti, accomunati dal fatto
di comportare un coinvolgimento dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti in alcuni
processi decisionali delle imprese.
23
CAPITOLO VII
Sindacato e Ordinamento
1. Libertà o Regolazione? Un tema molto dibattuto per il diritto del lavoro è quello riguardante la disciplina del
diritto sindacale, e cioè se essa debba essere stabilita dalla
Legge (Regolazione) oppure se in tale ambito debba regnare la massima autonomia di
organizzazione e di regolamentazione (Libertà).
In linea di principio il diritto sindacale, per la sua stessa natura, dovrebbe essere lasciato
al dominio dell'autonomia collettiva e, tuttavia, in un ordinamento di diritto positivo,
come il nostro, il diritto sindacale non può non avere nella legge un qualche riferimento,
giacché la libertà assoluta non è una regola, ed anzi potrebbe comportare un’anomia del
Sistema.
Tuttavia nel nostro Ordinamento, l'organizzazione sindacale non ha una disciplina di
legge.
Al di la dell’art. 39 della Costituzione, che statuisce la libertà di costituire associazioni
sindacali, e al di là dello Statuto dei lavoratori, che statuisce le libertà sindacali, le
modalità formative e quindi organizzative delle associazioni sindacali è sostanzialmente
demandata agli statuti interni delle stesse associazioni.
2. La libertà sindacale. L'art. 39 della Costituzione sancisce, al primo comma, la libertà della organizzazione
sindacale, intendendosi, come tale, la libertà di costituirsi in forma associata per
l'esercizio di attività e per l'assunzione di iniziative dirette alla tutela di interessi connessi
all'attività lavorativa.
La libertà sindacale è, dunque, una libertà più ampia rispetto a quella di associazione cui
all'art. 18 della stessa Costituzione, giacché quest'ultima incontra i limiti posti dalla
stessa norma — consistenti nel divieto di costituire associazioni finalizzate ad attività
vietate dalla legge penale - mentre l'associazionismo sindacale, in quanto finalizzato alla
tutela del lavoratore, non incontra limiti.
Titolare della libertà sindacale è, ovviamente, il lavoratore dipendente, pur se tale libertà è
riconosciuta, in linea di principio, anche all’imprenditore il quale può a sua volta
costituirsi in associazioni sindacali.
La libertà sindacale sancita dall'ari 39 ha diversi aspetti.
Primo tra essi è quello della libertà da qualsiasi norma che autorizzi la formazione di
organizzazioni sindacali o che autorizzi l'esercizio della relativa attività, in tal modo
superando il corporativismo del previgente regime fascista secondo il quale era il governo
a decidere con quale sindacato intrattenere relazioni, delegittimando, in tal modo, i
sindacati non graditi.
Libertà sindacale intesa, dunque, come libertà di associarsi, per i fini propri del
sindacato, senza aver bisogno dal previo consenso da parte di chicchessia.
L'associazionismo sindacale, intanto, non è fine a se stesso: l'associazione sindacale si
forma, infatti, con una finalità attiva e cioè per il concreto esercizio, specie in sede
contrattuale, della sua rappresentatività.
24
Libertà sindacale significa, dunque, esercizio delle prerogative e delle funzioni sindacali.
Ma la libertà sindacale ha anche - con riferimento al singolo - aspetti per così dire
"negativi", nel senso che libertà sindacale è anche libertà dal sindacato, ossia libertà di
non aderire ad alcun sindacato od anche di dissociarsene.
3. Le norme legislative di tutela della libertà sindacale. Nella tutela delle libertà sindacali una pietra miliare è stata posta dalla legge 20 maggio
1970, n. 300 (Statuto dei diritti dei lavoratori), il cui art. 14 ha rafforzato il principio
costituzionale della libertà di associazione e di attività sindacale già previsto dall’Art.39
I°co. Cost., stabilendone l'esercizio anche nei luoghi di lavoro (così ripristinando le
commissioni sindacali interne abolite in epoca fascista).
Il successivo art. 15 pone il divieto di atti discriminatori sanzionando con la nullità ogni
atto che condizioni l'assunzione di un lavoratore o ne determini il mutamento di mansioni
o la modifica della posizione di lavoro od anche il licenziamento in relazione alla sua
affiliazione o meno ad un sindacato oppure alla sua partecipazione ad attività sindacali.
A tal fine l’art.28 dello stesso Statuto introduce un procedimento giudiziario speciale per
la repressione della condotta antisindacale, fermo l'onere della prova a carico dell'attore,
col quale viene annullato ogni atto o patto discriminatorio.
Gli atti discriminatori sanzionabili ai sensi dell'art. 15 non sono soltanto gli atti diretti a
colpire un soggetto, in relazione alla sua posizione sindacale, o intesi a precludere
l'esercizio delle libertà sindacali bensì anche quelli che conferiscono privilegi a favore di
quelli che non aderiscono ad associazioni sindacali o alle relative iniziative (Trattamenti
Economici Collettivi discriminatori).
A tale nonna è collegata la previsione dell'art. 17 che vieta la costituzione di sindacati di comodo, ossia di sindacati sostenuti o addirittura finanziati dalla parte datoriale e ad
essa più vicini al fine di concludere con essi trattative sostanzialmente unilaterali in tal
modo aggirando l'obbligo del confronto con i sindacati realmente rappresentativi.
4. L'art. 39, seconda parte, e la sua mancata attuazione. L'ari 39 della Costituzione sancisce, al primo comma, il diritto della libertà sindacale ma
subito dopo prevede - o, per lo meno, presuppone - la formazione di norme regolatrici
della formazione e del funzionamento delle associazioni sindacali che, sostanzialmente,
istituzionalizzano il sindacato legittimandolo alla contrattazione, ossia alla formazione di
quelle norme, valide erga omnes, aventi la forma del contratto ma l'anima della
legge (siccome previste da fonte primaria).
La seconda parte dell'art. 39 prevede, in particolare, che il sindacato debba registrarsi e
che debba dotarsi di un atto costitutivo, di natura statutaria, che ne regolamenti il
funzionamento interno.
Di fatto nessun sindacato ha accettato tali regole che, invero, sostituivano quelle
corporative del regime fascista riproponendole con una veste democratica.
Non di meno l'omessa registrazione, da un lato, e l'assenza di una regolamentazione di
legge sulla formazione e sul funzionamento del sindacato, dall'altro, non ne hanno
delegittimato l’esistenza ne il ruolo ne l'esercizio delle relative libertà, essendo a tal fine
sufficiente la prima parte dell'art. 39.
Intanto la registrazione, che era finalizzata ad evitare il ripetersi di situazioni analoghe a
quelle del regime fascista, venne letta esattamente al contrario, nel senso che nessuna
25
della maggiori associazioni sindacali — e specialmente la CISL — vide di buon occhio una
qualsiasi forma di controllo centrale.
Nel regime fascista, infatti, era legittimato ad agire un solo sindacato e solo quello
riconosciuto di suo gradimento da parte del governo.
La sola registrazione, ai sensi dell’art. 39, avrebbe invece consentito a qualsiasi sindacato
di essere presente e di operare, senza il previo consenso di chicchessia, e, tuttavia, essa
venne comunque vista come una sorta di limitazione della libertà sancita dal primo
comma.
Intanto la conservazione di una posizione di massima libertà sindacale, sulla base del solo
principio sancito dal primo comma dell'art. 39, ed il mancato assoggettamento alle regole
della seconda parte dello stesso art. 39 nonché l'assenza di una legislazione attuativa di
tale seconda parte hanno un rovescio della medaglia di tutto rilievo, in quanto, in
particolare, a causa della mancata attuazione della seconda parte dell'art. 39 il sindacato
non è legittimato a stipulare contratti collettivi validi erga omnes, ossia verso tutti gli
appartenenti alla categoria di riferimento e col carattere di unicità tipico degli atti
normativi.
5. La teoria dell'ordinamento intersindacale e il ricorso al diritto privato. La non attuazione della seconda parte dell'ari. 39 della Costituzione non ha impedito al
sindacato di esistere ne di operare, cosi dando vita alla cosiddetta costituzione materiale, suppletiva di quella parte rimasta inattuata, e ad un autonomo ordinamento sindacale, ossia a quel complesso di regole che ha guadagnato una sorta di giuridicità
per consuetudine, ossia per la ripetitività di comportamenti e procedure.
In mancanza di una istituzionalizzazione coerente col dettato costituzione ed in assenza di
regole attuative, il sindacato non ha acquisito quella personalità giuridica voluta dall'ari-.
39 e, conseguentemente, i suoi atti, ossia i contratti da esso sottoscritti, non ha la
vincolatività della legge, restando essi atti di diritto comune disciplinati dal codice civile.
6. La natura giuridica dell'associazione sindacale. La non attuazione della seconda parte dell'alt. 39 ha perciò privato il diritto del lavoro di
quella rilevante parte regolante — con norme statuali di cui il nostro ordinamento non
può fare a meno — la formazione e l'organizzazione interna delle associazioni sindacali,
obbligando, a tal fine, a far riferimento, in via suppletiva, al codice civile.
E il ricorso al codice civile è necessario fin da subito ai fini della qualificazione giuridica
del sindacato il quale, in mancanza di una sua registrazione e, con essa, della sua
istituzionalizzazione, deve essere ricondotto alla categoria delle associazioni non
riconosciute, in quanto non costituite con atto pubblico, cui il codice civile dedica gli
articoli dal 36 al 38.
Il ricorso all'art. 36 c.c. è per lo meno sufficiente a conferire al sindacato la soggettività
giuridica, pur in assenza di una personalità giuridica riservata alle associazioni
riconosciute.
Per effetto di tale soggettività giuridica, il sindacato può altresì stare in giudizio in persona
di coloro ai quali gli assodati abbiano conferito la rappresentanza legale e cioè in persona
di quelli che abbiano la presidenza o comunque la direzione dell'asso dazione.
Quale associazione non riconosciuta il sindacato ha altresì un fondo comune costituito
dai contributi degli associati e dai beni con essi acquistati, sul quale può rivalersi il terzo
26
creditore, mentre gli associati rispondono personalmente delle obbligazioni assunte in
nome e per conto dell'associazione.
CAPITOLO VIII
Il Contratto Collettivo
1. La Tipicità del Contratto Collettivo Il contratto collettivo è un contratto stipulato tra soggetti collettivi, ossia tra soggetti
rappresentativi di categorie contrapposte; il contratto collettivo di lavoro è il contratto
stipulato tra sindacati, rappresentanti dei lavoratori di quella determinata categoria o
azienda, e sindacati o altri organismi (come l'ARAN, l'Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle amministrazioni pubbliche) rappresentanti degli imprenditori o,
comunque, della parte datoriale.
Il contratto collettivo di lavoro può essere stipulato a livello nazionale od anche a livello di
azienda, ove ciò sia previsto.
Il Contratto Collettivo è un Contratto Nominato dall’Ordinamento Giuridico, ma privo di
una Tipicità Giuridica a livello di Disciplina.
Infatti, la legge non contiene una disciplina giuridica di tale contratto, atteso che gli
articoli da 2067 a 2081 del codice civile, che erano deputati a ciò, sono oggi ritenuti
decaduti o comunque inapplicabili, a motivo della loro genesi "corporativa".
In particolare, l’Art.2067 c.c. deve ritenersi abrogato per effetto della soppressione
dell'ordinamento corporativo, disposta con R.D.L. n. 72/1943, e della soppressione delle
organizzazioni sindacali fasciste, disposta con D.Lgs. Lgt. n. 369/1944.
Tuttavia, il contratto collettivo trae la sua tipicità dall'art. 1322 c.c., sull'autonomia
contrattuale, e dall'art. 39 della Costituzione.
La norma codicistica, in particolare, statuisce la libertà delle parti di determinare il
contenuto del contratto, nei limiti posti dalla legge, anche al di fuori di una specifica
disciplina, purché diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento
giuridico, ed è innegabile che gli interessi dei lavoratori siano meritevoli di tutela.
La norma costituzionale sancisce, invece, la Libertà Sindacale e, con essa, la libertà di
stipulare contratti collettivi.
2. Le Funzioni La Funzione generale del Contratto Collettivo è quella di tutelare gli interessi dei
lavoratori rappresentati; tale funzione si articola in alcune Funzioni più specifiche
(Funzione Normativa e Funzione Obbligatoria).
• Funzione Normativa: tale funzione fa riferimento al fatto che il contratto collettivo
ha l'obiettivo di dettare le "norme" che dovranno valere per una serie indeterminata
di contratti individuali di lavoro subordinato.
In questo modo, il contratto collettivo si inserisce dall'esterno, come fonte eteronoma
(al pari della legge), nel contenuto dei singoli contratti di lavoro rientranti nell'ambito
di efficacia del contratto collettivo.
Così, quando il contratto collettivo determina il regime dell'orario di lavoro,
l'ammontare dei riposi, la misura della retribuzione spettante ad un lavoratore
adibito a determinate mansioni ecc., il contenuto delle previsioni collettive in
questione, vale per le parti individuali.
27
• Funzione Obbligatoria: ad essa assolvono quelle previsioni del Contratto Collettivo
(Clausole Obbligatorie) che istituiscono diritti e obblighi valevoli per e tra gli stessi
soggetti collettivi.
Le Clausole Obbligatorie sorgono sia dal lato degli Imprenditori, sia da quello dei
Lavoratori.
Come esempio di Obblighi "imprenditoriali", vale menzionare le varie tipologie di
obblighi di informazione, in virtù dei quali i sindacati degli imprenditori, o le stesse
imprese, si impegnano ad informare i sindacati dei lavoratori circa una serie di
questioni concernenti le condizioni del mercato, le strategie d'impresa, le eventuali
ristrutturazioni in programma, etc.
Come es. di Obblighi dei Lavoratori sono evocabili le clausole di "pace sindacale",
grazie alle quali un sindacato si impegna a non proclamare scioperi in un
determinato periodo.
Il problema delle clausole obbligatorie è di come assicurarne l'effettiva osservanza.
In teoria, la parte lesa può intentare un'azione di responsabilità contrattuale dinanzi al
giudice ordinario onde richiedere il risarcimento dei danni derivanti dall'inadempimento
contrattuale (art. 1218 c.c.); ma trattasi di un rimedio quasi per nulla utilizzato, poiché ai
sindacati interessano, di massima, non i successi giudiziali o i ristori patrimoniali, ma i
risultati concreti sul terreno delle relazioni sindacali.
Più concreta è la possibilità di utilizzare lo speciale procedimento giudiziario di
repressione della condotta antisindacale, previsto dall'ari. 28 dello Statuto dei lavoratori.
Ma ad esso potrà farsi ricorso soltanto qualora la violazione della clausola obbligatoria sia
stata perpetrata dall'impresa, unica legittimata passiva nel procedimento in discorso, e
non dal sindacato degli imprenditori.
3. La disciplina. Il principale problema rimasto irrisolto, in conseguenza della non attuazione della
seconda parte dell'alt. 39 della Costituzione, è quello della disciplina del contratto
collettivo e, più precisamente, della determinazione della sua efficacia, tenuto conto
dell'assenza di regole.
Intanto, in presenza di una serie di elementi caratterizzanti la contrattazione collettiva
(soggetti abilitati, vincolatività per i contraenti, contenuto normativo, ecc.), è indubbio che
i contratti collettivi costituiscano fonte normativa di natura sostanziale, atipica,
sintomatica della tendenza astensionista del legislatore nel rispetto del principio di
libertà.
Una specifica disciplina è invece prevista dal d.lgs. n. 165 del 2001 per i contratti del
pubblico impiego.
3.1 I Soggetti In linea di principio non esiste una previa individuazione dei soggetti abilitati a stipulare i
contratti collettivi e, pertanto, a ciò è abilitata qualsiasi associazione sindacale; al
riguardo è emblematico il fatto che uno dei più importanti contratti collettivi, quello dei
metalmeccanici, non è stato sottoscritto dalla FIOM-CGIL che è il sindacato maggiormente
rappresentativo della categoria, ma soltanto da FIM e UILM.
Un'eccezione in tal senso venne introdotta col protocollo Ciampi del 23 luglio 1993,
relativamente alla contrattazione decentrata (aziendale, di secondo livello), che si svolge
sulle materia ed essa demandate dalla contrattazione nazionale (di primo livello); a tale
28
contrattazione sono abilitati esclusivamente gli organismi sindacali interni alle aziende, i
cui mèmbri sono individuati attraverso specifiche procedure di tipo elettorale, ed i
sindacati firmatari degli accordi nazionali.
Un'altra eccezione è costituita dai contratti cosiddetti di solidarietà, che producono effetti
solo se stipulati da determinati sindacati, con la conseguenza che i contratti di tale
natura stipulati da sindacati diversi da quelli previamente individuati non hanno
un'efficacia legale, e per questo essi saranno privi degli effetti (intervento, a sostegno del
reddito dei lavoratori coinvolti, della Cassa integrazione guadagni) discendenti,
esclusivamente,
dalla fattispecie legale.
3.2 L'ambito di applicazione. Salvo che per il pubblico impiego, per il quale sono stati istituiti appositi comparti di
contrattazione collettiva (ministeri, sanità, scuola, regioni ed enti locali, enti pubblici non
economici, ecc.), l'ambito di applicazione dei contratti collettivi è sostanzialmente libero,
nel senso che la sua definizione è demandata alle parti nell'ambito della loro autonomia
contrattuale.
L'ambito di applicazione di un contratto collettivo è a tal fine individuato nella prima parte
del contratto collettivo, laddove viene dalle parti precisato a quale categoria di lavoratori
esso si applica.
A titolo di esempio, nel contratto nazionale metalmeccanico si legge: "Il presente contratto
si applica agli stabilimenti appartenenti tradizionalmente al settore metalmeccanico,
destinati alla produzione, lavorazione dei metalli, alle costruzioni nelle quali il metallo ha la
prevalenza, fabbricazioni di manufatti con parti metalliche e agli stabilimenti affini".
Segue un'elencazione di settori e di industrie che vengono considerati dal contratto parte
del settore metalmeccanico, fra cui: l'industria siderurgica, l'industria automobilistica,
l'industria aeronautica, l'industria elettromeccanica e elettronica, l'industria meccanica
generale, le fonderie e il settore dei cantieri navali.
L'ampio margine di autonoma lasciato alla contrattazione collettiva non esclude la stipula
di accordi interconfederali, validi per tutte le categorie di lavoratori, ne esclude la
stipula di accordi con sindacati di mestiere che talvolta si sovrappongono a quelli di
categoria; in tale ultima ipotesi sorge l'ulteriore problema di dover individuare quale dei
due contratto sia quello prevalente: se quello del settore produttivo del quale fa parte
l'impresa o
quello della professione del lavoratore.
Tale dilemma non ricorre per i contratti aziendali il cui ambito di efficacia è circoscritto
alla singola azienda ed ai lavoratori da essa dipendenti.
3.3.1 L’Efficacia Soggettiva L'ambito di applicazione di un contratto collettivo riguarda l’efficacia astratta del contratto
stesso, ma il problema che si pone, immediatamente dopo, è quello dell'efficacia concreta,
ossia della individuazione dei soggetti che ne restano vincolati (Efficacia Soggettiva).
II contratto è stipulato da opposte rappresentante sindacali e, pertanto, ai fini della sua
efficacia soggettiva, fin dagli anni '50 del secolo scorso, il relativo principio è stato ricavato
dal codice civile sulla base dell'istituto della rappresentanza (art. 1387 e ss. cc.), in forza
del quale gli effetti giuridici di determinati atti posti in essere da un rappresentante sono
29
imputati direttamente ad un altro soggetto (rappresentato), nel cui nome e interesse essi
sono stati compiuti (art. 1388 c.c.).
Sta di fatto che se un'impresa, in linea di principio, può aderire ad un'associazione
sindacale del tutto estranea al suo ambito di attività, è altrettanto vero che il lavoratore
può non essere affiliato al sindacato di categoria o, addirittura, ad alcun sindacato.
Ne consegue che l'adesione dell'azienda ad un sindacato del tutto estraneo al suo settore
produttivo determinerebbe l'applicazione, ai suoi dipendenti, di un contratto pertinente a
tutt'altra categoria e, parimenti, il lavoratore potrebbe vedersi applicato un contratto che
il sindacato cui aderisce non ha stipulato.
La rappresentanza sindacale in sede contrattuale va perdo intesa come rappresentanza
della sintesi degli interessi dei lavoratori della categoria, a prescindere dall'adesione o
meno di essi al sindacato e senza determinare nei loro confronti alcun vincolo; a tal
proposito si tiene conto che la delega sindacale (sottoscritta quale adesione al sindacato) è
tutt'altra cosa rispetto al mandato ad agire in nome e per conto di cui all'ari 1387 c.c. con
efficacia vincolante per il rappresentato, ai sensi del successivo art 1388.
E' perdo essenziale che un'azienda abbia aderito al sindacato rappresentativo della
categoria imprenditoriale, affinchè ai suoi dipendenti si applichino i contratti collettivi da
esso stipulati, ed è altrettanto necessario che il lavoratore, se non iscritto al sindacato dei
lavoratori che ha stipulato il medesimo contratto, ne accetti l'applicazione.
3.3.2 L'estensione giurisprudenziale dcll’efficacia soggettiva. La problematica conseguente alla necessità di un legame di rappresentanza, ai fini
dell’efficacia soggettiva del contratto, non è di poco conto, in quanto sia l'impresa sia il
lavoratore possono non aderire ad alcun sindacato al fine si sottrarsi agli obblighi
derivanti dalla contrattazione collettiva.
In tale ipotesi la giurisprudenza ha elaborato diverse soluzioni a seconda dei casi.
In particolare:
• Al fine di stendere l’efficacia giuridica del Contratto Collettivo anche ai lavoratori non
iscritti ad alcun Sindacato, la giurisprudenza ha affermato il principio in basa al
quale “è sufficiente che sia iscritto il datore di lavoro, affinchè il Contratto valga anche
a favore del lavoratore non iscritto”.
Dunque, supponendo che la FIAT sia iscritta e l’operaio no, la giurisprudenza
afferma che se l’operaio, pur non affiliato, chiede che il contratto metalmeccanico gli
venga applicato dalla FIAT, ha diritto a tale applicazione.
Nel caso in cui l’azienda non abbia aderito ad alcun Sindacato, la giurisprudenza ha
dato rilievo al Principio dell’Applicazione Costante, in base al quale se un'azienda
non aderente ad alcun sindacato abbia di fatto applicato i-contratti collettivi di
categoria, essa non può esimersi dal continuare a farlo.
Nel caso di assoluta indipendenza del lavoratore rispetto al sindacato, la Corte di
cassazione, con espresso rinvio all’art. 36 della Costituzione, specie in materia
retributiva, ha ritenuto in ogni caso applicabile il contratto di categoria, così
riconoscendogli una sorta di efficacia erga omnes, sul presupposto che nessuno
meglio del sindacato può stabilire - sia pure in sede contrattuale - quali siano i
termini di tutela degli interessi dei lavoratori di quella categoria.
È stata questa la via italiana al "salario minimo", che ha consentito di predisporre
una soglia minima di tutela in favore di tutti i lavoratori, ivi compresi quelli di aree
30
ed imprese non sindacalizzate, e di consolidare, ad un tempo, il tasso di effettività
del contratto collettivo di categoria.
3.3.3 I contratti collettivi stipulati dai sindacati rappresentativi. Sempre in tema di efficacia soggettiva, occorre rivolgere uno sguardo finale a quella
tipologia di contratti collettivi stipulabili da sindacati fomiti di certi requisiti di
rappresentatività.
In linea di principio non c'è limite ai contratti che le parti possono decidere di stipulare ne
c'è un limite ai sindacati che tali contratti possono stipulare ed eventuali conflitti tra
sindacati vengono risolti con la logica dei rapporti di forza.
Il legislatore per lo più è rimasto estraneo a tale situazione ma in alcuni casi, per evitare
le negative conseguenze di un tale ampio margine di autonomia, al criterio della
rappresentanza ha affiancato quella della rappresentatività, a tal fine stabilendo che gli
accordi sindacali su determinate materie dovessero essere stipulati dai sindacati
"maggiormente rappresentativi" ovvero "comparativamente più rappresentativi" e, tuttavia,
senza stabilire - salvo che per il pubblico impiego - i criteri o i parametri
per individuare la maggiore rappresentatività.
La stipulazione di accordi cui sarebbero abilitati i soli sindacati maggiormente
rappresentativi non risolve il problema dell'applicazione dell'accordo ad un lavoratore
iscritto ad un sindacato "non rappresentativo" che in linea di principio può opporsi
all'applicazione dell'accordo nei suoi confronti per difetto di rappresentanza.
3.4 Contratto Collettivo e Contratto Individuale Il contratto individuale di lavoro è il contratto stipulato tra il datore di lavoro ed il
lavoratore; esso disciplina quel particolare rapporto secondo la volontà delle parti.
Il contratto collettivo di lavoro e il contratto che disciplina il rapporto di lavoro di una
determinata collettività di lavoratori e, pertanto, dei lavoratori aventi una determinata
professionalità o appartenenti ad una determinata categoria od anche, per i contratti
decentrati, appartenenti ad una determinata azienda.
Il contratto collettivo pone regole generali, nel suo ambito di applicazione, cui devono
uniformarsi i contratti individuali, cosi fissando un limite al di sotto del quale ne
l’imprenditore ne il lavoratore possono fissare le condizioni di lavoro.
Sotto tale aspetto al contratto collettivo è riconosciuta una funzione di tipo pubblicistica,
al pari di qualsiasi disposizione di legge che dall'esterno si inserisce nei rapporti tra le
parti imponendo determinate regole.
31
3.5 I livelli e i contenuti. La contrattazione collettiva si svolge nell’ambito del sistema delle relazioni sindacali per il
quale, in buona sostanza, non esistono regole specifiche.
Nell'evoluzione del detto sistema si è passati da una contrattazione operante
esclusivamente a livello nazionale (anni '50) alla graduale affermazione del decentramento
della fase contrattuale (anni ‘90) con la previsione di un ambito di contrattazione di
secondo livello, grazie al protocollo Ciampi del 23 luglio 1993 col quale furono
introdotte regole concordate — ma non vincolanti — finalizzate a dare una sorta di
disciplina
alla contrattazione collettiva. In particolare il protocollo, tuttora valido:
• definisce le procedure e i tempi per la contrattazione, stabilendo la presentazione di
piattaforme dalle quali parte il negoziato e la disdetta degli accordi con un certo
termine di preavviso rispetto alla naturale scadenza; stabilisce la durata degli
accordi contrattuali in 4 anni per la parte normativa e 2 per la parte economica, di
tal che per ogni tornata contrattuale si ha un contratto quadriennale normativo e, al
suo interno, due contratti biennali economici;
• prevede l'erogazione di benefici economici predeterminati nella misura con
riferimento al tasso di inflazione programmato nel caso di ritardo nel rinnovo dei
contratti collettivi (indennità di vacanza contrattuale);
• prevede la sospensione di ogni iniziativa unilaterale a cavallo della scadenza dei
contratti di lavoro (clausola di raffreddamento dei conflitti) la cui violazione
determina sanzioni a carico della parte inadempiente;
• ridisciplina l'ambito della contrattazione decentrata, che resta subordinata alla
contrattazione nazionale e limitata alle materie cui essa demanda.
Il protocollo Ciampi, pur essendo finalizzato a disciplinare un ambito che necessita di
regole, non ha soddisfatto tale esigenza in quanto costitutivo di vincoli che si inquadrano
nelle relazioni sindacali ma non hanno natura giuridica e che, in quanto tali, sono stati
disattesi da ambo le parti.
32
CAPITOLO IX
Contratto Collettivo e Legge
1. Relazioni e Conflitti La Legge e il Contratto Collettivo sono le 2 grandi e principali fonti del Diritto del Lavoro.
In un ordinamento di diritto positivo, come il nostro, la legge, quale fonte normativa,
mantiene il primato, ma la contrattazione collettiva, protetta dall’art. 39 della
Costituzione, ha una valenza non inferiore alla legge.
Se esistesse una norma regolante i rapporti tra la legge e la contrattazione collettiva essa
sarebbe certamente una norma fondamentale in quanto risolutrice delle eventuali
situazioni di contrasto tra tali fonti normative.
Ma una norma del genere non esiste e, pertanto, non è cosa facile accertare, di volta in
volta, quale norma prevalga rispetto all'altra, tenuto altresì conto che entrambe le fonti,
siccome direttamente collegate all'evoluzione della società ed all’economica del paese,
sono in continua evoluzione.
Sul punto s'è pronunciata la Corte costituzionale — al cui controllo di legittimità sfuggono
gli atti normativi diversi dalla legge, come i contratti collettivi - affermando che il
legislatore non può invadere, espropriandola, la sfera di competenza esclusiva della
contrattazione collettiva.
2. Concorso di fonti. Allo stato, dunque, le diverse fonti del diritto del lavoro convivono e, al di là dei casi in cui
esse disciplinano autonomamente e separatamente fattispecie specifiche, spesso
concorrono a disciplinare la stessa materia ed anche lo stesso istituto mediante rinvio.
Sono, infatti, molteplici i casi in cui la legge delinea la fattispecie costitutiva di un diritto
demandando, attraverso clausole di rinvio, al contratto collettivo la definizione in dettaglio
dello stesso istituto (Funzione di Specificazione).
Con tale sistema ognuna delle fondi normative mantiene la sua autonomia dall'altra,
senza invadere l'altrui competenza, e, al tempo stesso, il legislatore da un lato ed il
sindacato dall'altro mantengono il controllo di una determinata materia, specie quando
essa vede le parti in posizioni contrapposte.
L'esempio classico è quello in cui la legge delinea la fattispecie costitutiva (l’an) di un certo
diritto, e lascia la fissazione del quantum al contratto collettivo.
È un modello ben presente al codice civile: l'art. 2110 co. 2, ad esempio, non determina il
periodo di tempo per il quale il lavoratore è autorizzato a rimanere assente da lavoro in
quanto affetto da malattia (periodo di comporto), ma delega tale determinazione ai
contratti collettivi, ovviamente diversi da categoria a categoria.
Oltra alla classica Funzione di Specificazione, importante risulta la Funzione Autorizzatoria svolta dal Contratto Collettivo.
33
Tale è stato il caso in cui il legislatore, nell'intaccare il modello standard del rapporto di
lavoro — che è quello a tempo indeterminato e perciò caratterizzato dalla stabilità —
introducendo forme di lavoro flessibile, ne ha demandato la disciplina di dettaglio alla
sede contrattuale, così recuperando la partecipazione attiva del sindacato su un
argomento che lo vedeva tradizionalmente di diverso avviso.
La contrattazione assume, in tal caso, una funzione autorizzatoria perché, una
volta posta la norma di legge, è il contratto che ne determina la concreta attuazione;
dunque, autorizzazione necessaria, visto che dal punto di vista della condizione giuridica,
le forme di Lavoro Flessibile sono meno favorevoli per i lavoratori.
3. Il conflitto fra legge e contratto collettivo: il modello rigido. Se la legge, da un lato, ed il contratto collettivo, dall'altro, disciplinano lo stesso istituto,
non è detto che le due fonti normative siano in posizione conflittuale.
Quando, invece, tale posizione di contrasto sussiste, occorre individuare la norma
prevalente.
Il criterio tradizionalmente utilizzato nel diritto del lavoro è quello Rigido, che riconosce il
carattere imperativo — e perciò inderogabile - alla norma di maggior favore ed il carattere
dispositivo — e perciò derogabile — alla norma che prevede obblighi a carico del
lavoratore dipendente.
Ne consegue che la norma applicabile non è sempre l'una o l’altra ne quella in ultimo
introdotta nell'ordinamento bensì quella che rispetto all'altra meglio realizza i fini di tutela
degli interessi del lavoratore.
La inderogabilità delle norme lavoristiche di maggior favore determina, ai sensi dell'ari
1418 c.c., la nullità delle clausole contrattuali da esse
difformi in peius.
Non è escluso, infatti, che la contrattazione collettiva, normalmente orientata in melius,
introduca clausole peggiorative magari in cambio di altre concessioni.
La nullità colpisce, ovviamente, le sole clausole difformi e non l'intero contratto.
4. Il conflitto fra legge e contratto collettivo: il modello flessibile. In contrapposizione al modello rigido, orientato alla prevalenza della lex favorabilis, si è
andato affermando un modello flessibile, secondo il quale sono ipotizzabili, nelle
situazioni conflittuali, soluzioni diverse o, comunque, non necessariamente in melius e
sempre più spesso il legislatore ha introdotto nonne accompagnate dalle precisazione che
esse non possono essere derogate dalla contrattazione collettiva.
Infatti il modello rigido impone al sindacato di puntare a tutti i costi ad obiettivi
migliorativi, pur se controproducenti sotto altri aspetti, così precludendogli una
valutazione circa quanto effettivamente sia meglio per il lavoratore, anche facendo
retromarcia su determinate posizioni.
34
CAPITOLO X
Lo Sciopero
1. Sciopero e Teorie Sociali Il prioritario fine dell'attività sindacale è il contratto, ossia la formazione, con atti di
natura pattizia, di regole a favore del lavoratore.
Agli interessi dei lavoratori si contrappongono gli interessi della parte datoriale la quale,
finché trovasi in posizione si supremazia, può anche decidere di non addivenire ad alcun
accordo approfittando della sua posizione contrattuale forte.
Lo sciopero è il mezzo utilizzato per raggiungere il fine.
L'interruzione, con lo sciopero, dell'attività produttiva, arreca all'imprenditore un danno
economico che aumenta con il prolungarsi dell'astensione dal lavoro, così esercitando nei
suoi confronti la pressione necessaria per costringerlo ad addivenire ad un accordo di
natura contrattuale.
Lo sciopero è, dunque, l'unico mezzo attraverso il quale il lavoratore consegue la pari
dignità, rispetto all'imprenditore, proclamata dall'art. 3 della Costituzione.
Ed è proprio con la Costituzione, all'art. 40, che l’istituto dello sciopero ha ottenuto il
massimo riconoscimento in termini di diritto da esercitarsi nei modi stabiliti dalla legge.
E' evidente che lo sciopero è sintomatico di una situazione conflittuale e, pertanto, esso
ha una rilevanza sociale laddove nell'ambito della società sussistano differenze di classe e
forme di governo che tali differenze consentano.
Questa forma di lotta sociale, infatti, non è pensabile in società primitive ne in regimi
comunisti.
Lo sciopero, nato come forma di lotta di classe, è però diventato strumento di pressione
anche politica e, quindi, quale mezzo per raggiungere fini diversi da quelli contrattuali e,
pur tuttavia, danneggiando l’incolpevole imprenditore e non la vera controparte della
protesta.
Con la maggiore partecipazione del sindacato alla vita politica, il ricorso alla sciopero si è
notevolmente ridotto, in quanto le parti hanno assunto comportamenti cooperativi
piuttosto che conflittuali, ed è proprio tale maggiore partecipazione che ha indotto ad
utilizzare lo sciopero per fini politici anziché contrattuali.
La rilevanza sociale dello sciopero è stata attestata dal riconoscimento dello stesso quale
diritto costituzionale; tale diritto è altresì riconosciuto al datore di lavoro, con la serrata,
ma con diverse conseguenze economiche in quanto in tale ipotesi il lavoratore non perde il
diritto alla retribuzione.
Il diritto di sciopero è espressione del costituzionalismo sociale, ossia della posizione
assunta dal costituente a favore della classe lavoratrice.
L'esercizio del diritto di sciopero talvolta si ripercuote principalmente in danno
dell'utenza: è il caso dello sciopero dei lavoratori del terziario, la cui astensione dal lavoro
35
comporta disagi agli utenti ed un danno del tutto relativo alla parte datoriale.
Pertanto, al fine di salvaguardare i diritti dell'utenza, non meno importanti di quelli dei
lavoratori, stante la previsione di cui all'art. 40 della Costituzione, che non esclude una
disciplina legale dello sciopero, sono state emanate leggi dispositive della garanzia dei
servizi pubblici essenziali in occasione degli scioperi, consistenti nel divieto di astensione
dal lavoro per un numero stabilito di addetti ai servizi pubblici dei quali deve assicurarsi
la continuità (legge n. 146 del 1990).
2. La disciplina giuridica dello sciopero. Nell'ordinamento giuridico italiano lo sciopero ha assunto connotazioni diverse, nel
tempo, passando da una posizione di illecito di rilievo penale a quella, diametralmente
opposta, di diritto costituzionalmente garantito.
In origine, in seno all'Unità d'Italia, vigendo il codice penale sardo, lo sciopero era
considerato reato ed erano punibili sia gli scioperanti sia gli stessi sindacati.
In presenza di un fatto di rilievo penale le conseguenze sotto il profilo civile erano
scontate.
Col codice Zanardelli del 1889 lo sciopero non fu più considerato un reato ma rimaneva
un illecito sotto il profilo civilistico in termini di inadempimento contrattuale dell'obbligo
di prestare attività lavorativa.
Durante il regime fascista lo sciopero, col codice Rocco, assunse nuovamente rilievo
penale; infatti l’art.502 prevedeva il reato di “sciopero (e di serrata) per fini contrattuali”,
cioè effettuato al fine di ottenere migliori condizioni di lavoro.
Dunque, nel corso degli anni, lo Sciopero è stato qualificato in 3 modi:
• Sciopero – Reato: lo sciopero era considerato un illecito punito sia penalmente che
civilmente.
Tale concezione si è avuta al tempo dell’Unità d’Italia col Codice Sardo, e si è poi
riproposta all’epoca del Fascismo col Codice Rocco.
• Sciopero – Libertà: lo Sciopero costituiva un comportamento consentito sul piano
generale e dunque veniva tollerato dall’Ordinamento Penale; tuttavia esso costituiva
un illecito civile in quanto era considerato come inadempimento in seno al rapporto
di lavoro.
Tale concezione fu introdotta dal Codice Zanardelli del 1889.
• Sciopero – Diritto: lo Sciopero costituiva un diritto nel rapporto di lavoro, quindi
non costituiva illecito ne penale e ne civile.
Tuttavia, in un dato Ordinamento, lo sciopero non riceve necessariamente un’unica
qualificazione giuridica; ciò accade anche in Italia, dove anche se la concezione
predominante è quella di Sciopero – Diritto, sopravvivono nicchie di Sciopero – Libertà e
persino di Sciopero – Reato.
3. Lo sciopero come diritto. La statuizione di cui all'art. 40 della Costituzione, secondo il quale “il diritto di sciopero si
esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano”, è di per sé sufficiente a qualificare lo
sciopero come un diritto anche in assenza di una disciplina di legge.
Lo Sciopero si pone come:
a) Diritto di Libertà nei confronti dello Stato, vietando a quest’ultimo di reprimerlo
penalmente con iniziative legislative (salvo casi eccezionali);
36
b) Diritto Soggettivo nei confronti del datore di lavoro, vietando a quest’ultimo ogni
azione risarcitoria per inadempimento contrattuale.
Altri orientamenti hanno qualificato il diritto allo sciopero come:
a) Diritto Soggettivo Potestativo avente ad oggetto la sospensione concertata della
prestazione di lavoro per la tutela di un interesse collettivo; al suo esercizio
corrisponde, come in ogni diritto potestativo (che comporta il potere di produrre un
effetto giuridico nella sfera giuridica di un altro soggetto) una posizione di soggezione
del datore di lavoro. b) Diritto Fondamentale della persona; infatti lo sciopero costituisce uno dei
principali strumenti di emancipazione dei lavoratori dallo stato di disuguaglianza
sociale in cui essi versano, e, conseguentemente, di sviluppo della loro personalità. 4. Titolarità L'indeterminatezza dell'art. 40 della Costituzione (dovuta dall’utilizzo dell’impersonale “si
esercita”) ha alimentato dubbi circa l'individuazione del soggetto titolare del diritto di
sciopero.
L'iniziale orientamento dava per scontato che titolare del diritto fosse il lavoratore
dipendente ma tale orientamento è stato smentito dalla Corte costituzionale con la
dichiarazione di illegittimità della norma penale (art. 506) che vieta la serrata alle piccole
industrie ed agli esercizi commerciali, di tal che il diritto di sciopero deve essere
riconosciuto a qualsiasi lavoratore.
In ordine alla titolarità del diritto di sciopero in capo all'associazione sindacale, si sono
sviluppate due diverse tesi. La prima vuole titolare del diritto l'associazione sindacale sul
presupposto che, essendo il sindacato preposto alla tutela degli interessi di lavoratori, ad
esso spetterebbe il diritto di azionare lo sciopero nell'esercizio delle sue funzioni.
E tuttavia, pur se lo sciopero è normalmente proclamato dall'asso dazione sindacale, è
pur
sempre il lavoratore che lo attua, anche non aderendo al sindacato che ha proclamato lo
sciopero e, in estrema ipotesi, anche contro la volontà del sindacato.
Ecco che ha poi prevalso la seconda ipotesi, che vede titolare del diritto il singolo
lavoratore il quale, tuttavia, non può esercitare tale diritto singolarmente, non essendo
ammissibile uno sciopero individuale.
Lo sciopero, pertanto, è stato configurato come diritto individuale ad esercizio collettivo e non si esclude che tale diritto sia esercitato anche contro il diverso avviso del
sindacato.
Lo sciopero, pertanto, sfugge a qualsiasi forma di governo e neanche le clausole
contrattuali con le quali il sindacato si impegna alla "pace sindacale" possono impedire ai
lavoratori di azionare il diritto di sciopero.
Un'eventuale violazione di tali clausole può quindi dare luogo soltanto a conseguenze sul
piano dell'ordinamento intersindacale (ad es. a sanzioni per gli iscritti che si siano
ribellati all'impegno assunto dal sindacato), o produrre, al massimo, una responsabilità
contrattuale dell'associazione dei lavoratori nei confronti della contrapposta associazione
imprenditoriale, o direttamente dell'imprenditore.
In entrambi i casi, sono sanzioni prive di qualsiasi forza deterrente, il che spiega perché
l'esperienza delle clausole di pace, e in generale del governo sindacale del conflitto, non
abbia sinora registrato successi significativi.
37
L'unica forma di governo dello sciopero è rappresentata dalla legge n. 146 del 1990, con la
quale, in presenza di interessi di terzi meritevoli di tutela, sono state introdotte norme di
regolamentazione dello sciopero, che impongono altresì, alle associazioni sindacali, la
stipula di accordi per l’individuazione dei servizi pubblici essenziali e per la
determinazione delle modalità di attuazione degli scioperi senza pregiudicare la continuità
di tali servizi.
5. Lo sciopero come fatto. Attesa l'autonomia con la quale il singolo lavoratore può esercitare il diritto di sciopero,
l'ulteriore problema riguarda l'individuazione del fatto giuridico che possa qualificarsi tale.
Tradizionalmente per sciopero si intende l'astensione collettiva dal lavoro e, tuttavia,
l'aspetto collettivo deve intendersi soddisfatto pur in presenza di due soli scioperanti.
Il concetto di “Astensione dal lavoro” comprende anche quei comportamenti positivi che
l'esperienza ha dimostrato essere strettamente collegati con l'effettiva possibilità di
esercizio del diritto (attività di propaganda e proselitismo, cortei interni, pubbliche
manifestazioni, picchettaggio), e a condizione che essi non travalichino in altri illeciti,
come è spesso accaduto, ad esempio, in relazione a episodi di "blocchi stradali".
Ne segue che le forme di agitazione sindacale che non assumano tale carattere.
sostanziandosi in una prestazione non regolare del lavoro, fuoriescono dall'ambito dello
sciopero e dalla copertura costituzionale: tornano, pertanto, a configurare inadempimenti.
Dunque, sulla base di tale orientamento non può qualificarsi sciopero qualsiasi altra
forma di protesta che si manifesti non con l’astensione dal lavoro bensì con una presenza
non collaborativa, quale la rinuncia a prestazioni accessorie, allo straordinario, alla
reperibilità, ecc.
Tradizionalmente, quindi, per sciopero si intende la sola astensione dal lavoro ma è
largamente accettata l'idea che sia sciopero tutto quanto la prassi sociale dimostra di
considerare tale.
6. Finalità. Per definizione la finalità dello sciopero è quella dell'autotutela di un interesse collettivo, il
che, pertanto, ne individuerebbe i limiti, nel senso che l'astensione dal lavoro di una
determinata categoria di lavoratori, che a tal fine sopportano un sacrificio economico in
quanto non vengono retribuiti (a differenza di quel che avviene con la serrata) è finalizzata
ad ottenere miglioramenti collettivi, e non individuali, o, quanto meno, a tutelare gli
interessi dei lavoratori appartenenti alla categoria.
Ma lo sciopero non è stato utilizzato per soli fini contrattuali bensì anche per solidarietà o
per fini, sostanzialmente politici e, ancora, per fare pressione sulla pubblica autorità
invadendone la sfera di autonomia.
Da tali circostanze discende l'esigenza di individuare i limiti interni del diritto di sciopero
e, quindi, i casi in cui, superando tali limiti, si incorre negli estremi dell'illecito o,
addirittura, del reato penale.
Una sorta di casistica di motivi leciti e non è contenuta nel codice penale Rocco che,
criminalizzando tutti i tipi di sciopero e di serrata, ha offerto alla Corte costituzionale
l'occasione per censurare le nonne illegittime e, al tempo stesso, di lasciare in vita quelle
riguardanti i casi in cui lo sciopero è punibile come reato.
38
La Corte costituzionale, in particolare, ha dichiarato incostituzionali tutte le norme penali
che criminalizzano lo sciopero, sostanzialmente ammettendo la legittimità di qualsiasi
forma e finalità dello sciopero, ivi compreso quello attuato per solidarietà o per fini
politici, ma ha lasciato fuori, confermandone la punibilità, le azioni di sciopero di tipo
sovversivo, ossia dirette ad impedire l'esercizio di "poteri legittimi nei quali si esprime la
sovranità popolare".
Pertanto, se talune forme di astensione dal lavoro non sono esenti da azioni di
responsabilità, altre non sono esenti dall'incriminazione per violazione di norme penali.
7. Modalità. Lo sciopero, quale astensione dal lavoro, può essere attuato in vari modi.
La forma classica è quella della semplice astensione collettiva dal lavoro, per un periodo
di tempo continuativo, da cui deriva pari danno per il lavoratore, che perde la
retribuzione, e per l'imprenditore, che perde la produzione.
Nell'esperienza italiana sono state invece organizzate forme di sciopero (Anomale) tali da
arrecare un maggior danno all'imprenditore e, quindi, tali da determinare un minor
sacrifìcio per il lavoratore, quali lo sciopero a singhiozzo o a scacchiera, determinanti
una sostanziale inattività dei lavoratori ancorché in servizio.
Tali forme di sciopero hanno riproposto il problema inerente ai limiti di liceità dello
sciopero oltre i quali esso si configura come danno ingiusto.
Negli anni '50 e '60 del secolo scorso, la giurisprudenza era unanime nel ritenere
illegittime le forme di sciopero in discorso, sulla base di una teoria — del "danno ingiusto"
— che presupponeva l'esistenza di "limiti intrinseci" del diritto di sciopero, e che invocava,
a sostegno, i principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto (artt. 1175 e
1375 c.c.).
In pratica, si riteneva che questi scioperi fossero illegittimi perché fonte di un danno
ulteriore e più grave (per disorganizzazione dell'azienda, spreco di energie e di materie
prime, corresponsione di retribuzioni per prestazioni non rese o scarsamente utilizzabili,
etc.) di quello necessariamente inerente ai mancati utili dovuti alla momentanea
sospensione dell'attività lavorativa dei suoi dipendenti, ed a sua volta compensato o
limitato dal mancato pagamento della retribuzione agli scioperanti.
Contro tale giurisprudenza si erano indirizzate, da tempo, le severe critiche della dottrina,
da sempre netta nel ribadire come, essendo lo sciopero rivolto a procurare il maggior
danno possibile alla controparte, dalla consistenza del danno arrecato all'impresa non si
potesse trarre alcuna implicazione di illegittimità dello scio- pero.
Ne si riteneva possibile invocare, in contrario, i principi di correttezza e buona fede, che
operano quando il contratto è operante, e non, invece, quando ne è legittimamente
sospesa l'attuazione.
Sul punto è intervenuta la Corte di cassazione che con la Sent. 711/1980 ha
sostanzialmente affermato la liceità di qualsiasi forma di sciopero ma, al tempo stesso, ha
introdotto il criterio nuovo della differenziazione tra interruzione della produzione ed
interruzione della produttività, stabilendo, in proposito, che non è illecito lo sciopero che
arreca un maggior danno alla produzione per effetto del modo in cui esso viene
organizzato ed attuato mentre è illecito lo sciopero che danneggia irreparabilmente
l'azienda nella sua capacità produttiva.
39
Dunque, sono del tutto leciti anche gli scioperi “anomali”, purchè non vadano a
danneggiare la capacità produttiva dell’azienda, e cioè la possibilità per l’imprenditore di
continuare a svolgere la sua iniziativa economica.
8. Effetti dello sciopero sul rapporto di lavoro. L'astensione dal lavoro per sciopero non da luogo ad inadempimento contrattuale da
parte del lavoratore, il quale, tuttavia, in relazione alla natura sinallagmatica del rapporto
di lavoro, con la mancata prestazione perde il diritto alla retribuzione commisurata alla
durata del periodo di astensione.
Se è pacifico che il lavoratore scioperante non ha diritto alla retribuzione, il problema si
pone nei casi in cui allo sciopero sia contrapposta la serrata, con la messa in libertà di
quelli che non hanno scioperato o che sono di servizio tra uno sciopero e l’altro.
In tale ipotesi il lavoratore ha comunque diritto alla retribuzione, in quanto egli è
disponibile ad effettuare la prestazione lavorativa che gli e impedita dall'azione dell'
imprenditore.
Cosa diversa è, invece, la disponibilità del lavoratore in fasi durante le quali la relativa
prestazione è impedita o resa soltanto inutile dallo sciopero effettuato da altri. In tal caso
il datore di lavoro è esonerato dal retribuire tali lavoratori, ancorché presenti.
9. Effettività del diritto di sciopero e reazioni del datore di lavoro. L’esistenza, costituzionalmente garantita, del diritto di sciopero, preclude non soltanto
allo Stato, ma anche al datore di lavoro, di impedirne in qualsiasi forma l’esercizio.
Il diritto di sciopero, sancito dall'ari 40 della Costituzione, è altresì protetto dallo Statuto,
laddove è sancita la repressione di ogni azione o attività antisindacale avvalendosi della
speciale procedura di cui all'art. 28 dello stesso Statuto.
L'imprenditore, quindi, non può vietare lo sciopero ne porre in essere alcuna attività
intesa a scoraggiarlo ne può penalizzare gli scioperanti e, viceversa, premiare Ì non
scioperanti senza incorrere negli estremi della discriminazione.
Il divieto di forme di reazione all'esercizio del diritto di sciopero è altresì sancito dalla
recente legislazione (d.Igs. n. 368 del 2001, d.igs. n. 276 del 2003) che vieta
all’imprenditore di avvalersi di forme di lavoro flessibile per sostituire i dipendenti
scioperanti. Prima di allora la giurisprudenza era già orientata a ritenere illegittimo il
reclutamento di lavoratori non scioperanti (crumiraggio esterno) e legittimo l'affidamento ai
non scioperanti delle mansioni degli scioperanti (crumiraggio interno) al fine di limitare i
danni dello sciopero.
10. Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. La disciplina. Lo sciopero attuato nell'ambito dei servici - e, in particolare, di servizi pubblici essenziali -
ha la caratteristica di arrecare danno all'utenza di tali servizi, più che all'amministrazione
o all'impresa esercente, cosi limitando diritti non meno importanti del diritto di sciopero.
La libertà di sciopero nell'ambito dei servici pubblici essenziali, esercitata con sempre
maggiore intensità a partire dagli anni '80 del secolo scorso, ha favorito la costituzione di
sindacati di mestiere la cui astensione dal lavoro era sufficiente a paralizzare attività
molto più ampie di quelle direttamente svolte dai lavoratori da essi rappresentati
(controllori di volo, casellanti delle ferrovie, primari ospedalieri) e così capaci di strappare
alla controparte accordi per essi sempre più vantaggiosi.
40
In tali casi l'esercizio del diritto di sciopero ha altresì comportato l’inaccettabile
limitazione di diritti altrui cui s'è dovuto porre inevitabilmente rimedio.
Un primo tentativo, risoltosi in modo sostanzialmente fallimentare, è stato effettuato con
la previsione di codici di autoregolamentazione adottati dai sindacati e da essi stessi
disattesi.
Pertanto quale unica alternativa non restò che il ricorso alla legge infine approvata il 12
giugno 1990, col n. 146, e con la prospettiva, non di meno, di mantenere un sostanziale
equilibrio tra diritto di sciopero ed altri diritti e di non realizzare una regolamentazione
tale da determinare una sostanziale negazione del diritto di sciopero.
Ai fini suddetti, la legge n. 146 del 1990 precisa che quel che va rispettato è il contenuto
essenziale dei diritti altrui e non quello genericamente inteso, atteso che in tale ipotesi
verrebbe a determinarsi un sostanziale soffocamento del diritto di sciopero a favore di altri
diritti.
Essa, pertanto, innanzitutto elenca — m via non esaustiva — i servizi ritenuti essenziali e
quindi stabilisce, in parte direttamente ed in parte mediante rinvio alla contrattazione
collettiva, le modalità con le quali i servizi essenziali devono essere garantiti.
L'individuazione dei servizi essenziali è effettuata con riferimento ai diritti, meritevoli di
tutela, cui i medesimi servici sono rivolti, quali il diritto alla vita, alla salute, all'ambiente,
all'istruzione, alla retribuzione, alla libera circolazione, ecc., pertanto tali servizi sono, per
esempio, la sanità, l'igiene, la protezione civile, la scuola, ecc.
La legge n. 146 procedimentalizza lo sciopero stabilendo un previo tentativo di soluzione
bonaria del conflitto, fallito il quale lo sciopero può essere proclamato col preavviso di
almeno 10 giorni, salvo non si tratti di azioni a difesa dell'ordine costituzionale o di azioni
di protesta per gravi eventi lesivi dell'incolumità e della salute dei lavoratori, ossia in
presenza di circostanze nelle quali l'efficacia della protesta è direttamente collegata
alla sua immediatezza.
La stessa legge impone, poi, un regime di rarefazione degli scioperi, stabilendo che lo
stesso sindacato non può proclamare uno sciopero prima di aver effettuato quello
proclamato precedentemente (rarefazione soggettiva) ne più sindacati possono proclamare
più scioperi nello stesso servizio se non a distanza di un certo lasso di tempo l'uno
dall'altro (rarefazione oggettiva).
La regolamentazione demandata alla contrattazione collettiva è quella riguardante
l'individuazione delle unità lavorative attraverso le quali assicurare i servizi essenziali.
11. La Commissione di garanzia. La Commissione di garanzia, istituita con la legge n. 146 del 1990, è un’autorità
autonoma, istituita a livello centrale, preposta alla vigilanza sulla corretta attuazione della
stessa legge n. 146.
Essa svolge importanti compiti di vigilanza, di coordinamento ed anche sostitutivi delle
parti inadempienti.
La Commissione, infatti, promuove l'adozione di codici di autoregolamentazione e di
regole contrattuali attuative delle disposizioni della stessa legge e nel caso di inerzia o
inadempienza delle parti, essa stessa prima propone e poi adotta direttamente un
provvedimento di regolamentazione dell'effettuazione degli scioperi in modo tale che siano
assicurati i servizi pubblici essenziali.
41
La Commissione promuove, inoltre, il componimento bonario delle situazioni conflittuali
per evitare, ove possibile, l'effettuazione degli scioperi e vigila sull'osservanza della relative
regole.
La Commissione, infine, comunica ai competenti organi amministrativi situazioni di
assenza della garanzia dei servizi pubblici essenziali affinchè questi, ove non lo facciano
di propria iniziativa, adottino provvedimenti impositivi dell'osservanza delle misure
necessario per la salvaguardia di diritti costituzionalmente garantiti, ivi compreso il
differimento o l’astensione dall’effettuazione degli scioperi.
12. Le sanzioni. L'inosservanza delle regole riguardanti la proclamazione degli scioperi, l'effettuazione degli
stessi e l'organizzazione della garanzia dei servizi pubblici essenziali da luogo a sanzioni
rispettivamente individuali, nei confronti dei lavoratori, collettive, nei confronti delle
associazioni sindacali, ed amministrative, nei confronti dei legali rappresentanti delle
amministrazioni e delle imprese.
Le sanzioni individuali sono adottate nei confronti dei lavoratori che si astengono dal
lavoro benché inseriti nei turni di lavoro attraverso i quali deve essere garantita la
continuità del servizio pubblico ritenuto essenziale.
La sanzione è di natura disciplinare (multa, sospensione dal servizio) e viene comminata
all'esito del relativo procedimento e in nessun caso può comportare il licenziamento.
Le sanzioni collettive sono comminate alle associazioni sindacali inadempienti; esse
consistono, in via graduale» nella sospensione dei permessi sindacali, nella sospensione
dell'erogazione dei contributi sindacali mediante prelievo dalle buste paga e nella
esclusione dalla trattative per un lasso di tempo non inferiore a due mesi.
Le sanzioni amministrative, di natura pecuniaria, sono comminate al legale
rappresentante dell'amministrazione o dell'impresa che non abbiano fatto il possibile per
garantire l’osservanza della legge.
L'apparato sanzionatorio è completato dalla cosiddetta precettazione, attuata col
provvedimento amministrativo adottato dal Presidente del consiglio dei ministri o dal
ministro, per le questioni di livello nazionale, ovvero dal Prefetto, per le questioni di
rilevanza territoriale, col quale l'autorità amministrativa, in presenza di un pregiudizio
grave ed imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati, ordina la non
astensione dal lavoro con gravi sanzioni nel caso di inosservanza. Il provvedimento di
precettazione può essere impugnato al TAR entro 7 giorni.
13. Lo Sciopero dei Lavoratori Autonomi Il diritto di astenersi dal lavoro è riconosciuto a tutti, anche ai lavoratori autonomi.
In ogni caso il diritto di sciopero dei lavoratori autonomi è implicitamente riconosciuto
dalla legge n. 83 del 2000 che ha esteso a tale categoria di lavoratori le norme delle legge
n. 146 del 1990.
In particolare, data la mancanza di sindacati e di contratti collettivi, la Commissione di
garanzia promuove l'adozione, da parte delle associazioni o degli organismi di
rappresentanza delle categorie interessate, di codici di autoregolamentazione, sottoposti
42
poi al giudizio di idoneità della stessa Commissione, e sostituiti, in caso di inattività delle
parti o di non idoneità dei codici medesimi, da regolamentazioni provvisorie sempre
adottate dalla Commissione.
I codici di autoregolamentazione debbono contenere un termine di preavviso non inferiore
a dieci giorni, l'indicazione della durata e delle motivazioni dell'astensione, ed assicurare
in ogni caso un livello di prestazioni compatibile con il soddisfacimento del contenuto
essenziale dei diritti della persona messi in pericolo dall'astensione.
In caso di violazione, le associazioni e gii organismi rappresentativi dei lavoratori
autonomi, professionisti e piccoli imprenditori sono soggetti a sanzione amministrativa.
Tali soggetti, infine, sono sottoposti, al pari dei lavoratori subordinati, alla disciplina in
tema di precettazione.
CAPITOLO XI
Rappresentanza Sindacale in Azienda
1. Le Rappresentanze dei lavoratori in azienda (profili strutturali) Il sindacato, ai fini della effettività della sua rappresentatività, ha sempre avuto tutto
l'interesse ad essere il più vicino possibile al lavoratore nel suo ambiente di lavoro.
E' per questo che il sindacato ha sperimentato la costituzione di forme di rappresentanza
sui posti di lavoro e, quindi, la formazione di organismi abilitati anche alla stipula di
contratti aziendali.
In Europa il problema che si è subito posto in ordine alla formazione delle rappresentanze
sindacali aziendali è stato quello del loro collegamento verso l'altro o verso il basso, ossia
della scelta tra un organismo che fosse rappresentativo del sindacato, come
promanandone dello stesso, ovvero del lavoratore, in quanto espressione di una scelta
democratica.
In tale ambito in Gran Bretagna si è affermato il sistema cosiddetto del canale unico, con
la previsione di una rappresentanza aziendale che fosse espressione del sindacato
nazionale (Shop Steward). In Francia e in Germania si e invece affermato il sistema
cosiddetto del canale doppio, secondo il quale le rappresentanze aziendali vengono elette
dai lavoratori di quella azienda i quali, pertanto, possono anche indirizzare le loro scelte
verso sindacati
diversi da quelli maggiormente rappresentativi o che abbiano il maggior peso politico a
livello nazionale, con la conseguenza che i contratti aziendali restano esenti da qualsiasi
forma di controllo o ingerenza dei sindacali nazionali.
Il sistema di rappresentanza sindacale adottato in Italia è stato, inizialmente, una via di
mezzo tra il canale unico (adottato in Gran Bretagna) ed il canale misto (adottato in
Germania e in Francia), in quanto prevedeva la formazione delle rappresentanze sindacali aziendali (RSA) elette dai lavoratori dell'azienda ma nell'ambito dei sindacati
rappresentativi.
Tuttavia, col tempo, il sistema delle RSA ha dimostrato le sue pecche, soprattutto sul
versante della mancata previsione di meccanismi di democrazia sindacale, capaci di
garantire che gli organismi in questione fossero effettivamente l'espressione della volontà
dei lavoratori rappresentati.
È per questo che tale regola è stata abrogata a seguito di apposito referendum, nel 1993,
ed essa fu sostituita da un accordo interconfederale istitutivo della rappresentanza
43
sindacale unitaria (RSU) composta per 2/3 da soggetti scelti dai lavoratori con sistemi
di tipo elettorale e per 1/3 da soggetti scelti dalle organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative (Sistema del Canale misto).
Nel Pubblico Impiego la RSU è nata nel 1998 ed è interamente eletta dai lavoratori.
2. La Rappresentanza Sindacale Aziendale (RSA) La formazione di organismi sindacali a livello aziendale è prevista dall'art. 19 dello
Statuto, il quale a tal proposito prevede un sistema misto rispetto a quello del canale
unico, sul modello inglese, e rispetto a quello del doppio canale, sul modello adottato da
altri paesi europei.
Il modello misto, infatti, prevede si l'iniziativa dal basso, come per il doppio canale,
ma con riferimento ai sindacati rappresentativi a livello nazionale, come per
il canale unico, così escludendo — fino all’accordo interconfederale del 1993 - una
rappresentanza aziendale di tipo elettivo e magari del tutto estranea ai maggiori sindacati.
Nella sua originaria formulazione l’art. 19 subordinava la formazione di rappresentanze
sindacali aziendali alla presenza, in alternativa, di due diversi requisiti: le RSA, infatti,
ancorché costituite su iniziativa dei lavoratori dell'azienda, dovevano essere espressione
dei sindacali confederali maggiormente rappresentativi oppure 'di sindacati ad essi
affiliati e comunque firmatari di contratti collettivi nazionali o provinciali, così escludendo
una rappresentatività che fosse espressione delle istanze aziendali ed altresì escludendo
qualsiasi rilevanza a quei sindacati che, pur avendo concluso contratti a livello aziendale,
non fossero in possesso dei predetti requisiti.
Dunque, la norma così formulata, escludeva dalla formazione delle RSA quei sindacati
diversi da quelli maggiormente rappresentativi, comportando così una violazione del
Principio di Libertà Sindacale.
Inoltre, un secondo problema, come già segnalato, riguardava la mancata previsione di
meccanismi di democrazia sindacale.
Si giunse così ad una riforma del sistema; riforma che è proceduta in 2 direzioni:
a) Autoriforma, che si concreta nel passaggio dalle RSA alle RSU (vedi paragrafo
successivo);
b) Modifica dell’art.19 con referendum popolare (abrogativo) del 1995, che comportò
la facilitazione dell’accesso alla costituzione di RSA.
In particolare, requisito essenziale non era più quello della “maggiore rappresentatività”, ma l’avvenuta sottoscrizione dei contratti collettivi applicabili all’azienda stessa.
Quindi, la formazione di RSA venne consentita, pur sempre su iniziativa dei
lavoratori dell'azienda, nell'ambito delle associazioni sindacali che avessero
sottoscritto i contratti collettivi li applicabili.
A tal proposito la giurisprudenza ha precisato, per evitare la formazione di sindacati
di comodo, che per sottoscrizione di contratti collettivi si intende non la semplice
firma per adesione bensì la partecipazione effettiva alle fasi negoziali che hanno dato
luogo al contratto collettivo.
Tuttavia, pur scaturendo da tale modifica, un ampliamento delle condizioni richieste
per costituire una RSA, di fatto, però, lo sconvolgimento non è stato drammatico, in
quanto quasi sempre i sindacati firmatari sono, di fatto, i sindacati maggiormente
rappresentativi.
44
3. La rappresentanza sindacale unitaria (RSU). Col protocollo Ciampi del 23 luglio 1993 era altresì prevista la contrattazione di secondo
livello, ossia a livello aziendale, perciò demandata ad organismi sindacali istituiti a livello
di singola azienda.
Nel dicembre dello stesso anno 1993, le maggiori confederazioni sindacali ed i sindacati
degli imprenditori stipularono un accordo interconfederale col quale stabilirono la
formazione di un nuovo organismo di rappresentanza sindacale a livello aziendale: la RSU
(rappresentanza sindacale unitaria).
I mèmbri di tale organismo sono per 2/3 eletti dai lavoratori dell'azienda e per 1/3
designati dalle associazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi nazionali di
categoria (Sindacati esterni); le elezioni si svolgono a scrutinio segreto, con procedure
molto simili alle normali elezioni degli organi politici, sulla base di liste elettorali
presentate dai sindacati firmatari dei contratti collettivi e i seggi vengono assegnati col
sistema proporzionale.
La RSU non determina l'abrogazione dell'art. 19 St.lav.
Poiché, tuttavia, non avrebbe senso che vi fossero contemporaneamente, in una
certa unità produttiva, RSA e RSU, le associazioni sindacali firmatarie dell'accordo del
1993 hanno concordato che. nel momento in cui "entra" nel sistema della RSU,
partecipando alla relativa competizione elettorale tramite la presentazione di liste,
un'associazione sindacale "rinuncia" a costituire una RSA.
Una volta costituita, la RSU "eredita" tutti i diritti sindacali e di partecipazione dei quali
era terminale la RSA.
La possibilità di costituire RSA permane, tuttavia, in capo ad associazioni sindacali che
non abbiano preso parte alla RSU, purché siano dotate del requisito di rappresentatività
previsto dall’art. 19 St.lav.
In tale caso, in un'unità produttiva potrebbe aversi la contemporanea presenza dì una o
più RSA e della RSU.
Non v'è dubbio che tale meccanismo è più democratico di quello precedente, ma la
presenza della riserva "del terzo" consente ovviamente di condizionare con una certa
facilità il gioco delle maggioranze.
Per quanto riguarda il Pubblico Impiego, la RSU è nata nel 1998 a seguito di accordi
quadro tra le associazioni sindacali rappresentative e l’ARAN.
4. Le rappresentanze dei lavoratori in azienda. Profili funzionali. La previsione di un organismo sindacale di azienda costituisce il presupposto per
l'esercizio di una serie di diritti e prerogative sindacali nonché di determinate funzioni
sindacali presso la singola azienda.
In particolare:
a) I diritti sindacali. Il Titolo III dello Statuto è dedicato all'attività sindacale ed ai diritti dei rappresentanti
sindacali, aziendali e non, nonché dei singoli lavoratori ma con riferimento ad attività
tipicamente sindacali. In particolare:
• L’art. 19 prevede la costituzione delle RSA;
• l’art. 20 prevede il diritto di assemblea, ossia la libertà di riunirsi per discutere su
materie di interesse sindacale o, comunque, inerenti al rapporto di lavoro; il diritto di
assemblea è illimitato se esercitato al di fuori dell'orario di servizio; se esercitato
45
durante l'orano di servizio, è limitato a 10 ore annue retribuite, mentre non sono
retribuite le ore eccedenti tale limite;
• l’art. 21 prevede la facoltà di indire referendum su materie inerenti all'attività
sindacale;
• l’art. 22 prevede una sorta di protezione a favore dei rappresentanti sindacali (RSA)
stabilendo, in particolare, che essi non possono essere trasferiti se non col previo
consenso dell'associazione sindacale di appartenenza; si tratta di una garanzia
aggiuntiva a quella prevista in generale, per il trasferimento dei lavoratori, dall'art.
2103 c.c., e che mira ad evitare che possano esservi trasferimenti discriminatori o
ritorsivi a danno dei dirigenti in discorso.
• L’art.23 prevede permessi sindacali retribuiti dei quali possono fruire i sindacalisti
interni per svolgere attività sindacale; diritto al permesso ha natura di diritto
potestativo, da esercitarsi tramite una "comunicazione" da inviarsi per iscritto al
datore di lavoro, di regola 24 ore prima, tramite la RSA.
• L’art.24 prevede permessi sindacali non retribuiti dei quali possono fruire i
sindacalisti interni per partecipare a contrattazioni, convegni e congressi sindacali;
anche in questo caso il diritto è potestativo, e la comunicazione scritta deve essere
inviati! al datore di lavoro, di regola, 3 giorni prima, tramite la RSA
• L’art. 30 prevede permessi retribuiti dei quali possono fruire i dirigenti sindacali e,
quindi, quei lavoratori che abbiano una tale qualifica nell'ambito del sindacato cui
appartengono, a prescindere dalla posizione da essi rivestita in azienda;
• L’art.25 prevede il diritto di affissione, ossia il diritto di pubblicizzare, in appositi
spazi, notizie e comunicati di interesse sindacale;
• L’art.26 prevede la raccolta di contributi sindacali;
• L’art.27 impone al datore di lavoro di rendere disponibile un locale per le riunioni
degli organismi sindacali ogni qualvolta ne venga fatta richiesta; nelle aziende con
più di 200 dipendente, invece, tale locale deve essere reso disponibile in modo
permanente.
Tutti Ì diritti sindacali sono di natura potestativa e, pertanto, il relativo esercizio è
subordinato alla semplice comunicazione, col preavviso di volta in volta stabilito, e non ad
una previa autorizzazione.
b) La contrattazione aziendale. Le RSA e le RSU sono soggetti sindacali a rutti gli effetti e, pertanto, possono stipulare
contratti collettivi sulle materie demandate a tale livello di contrattazione, la cui efficacia è
limitata alla singola azienda.
La contrattazione nazionale stabilisce ambiti, modalità e limiti della contrattazione
aziendale.
c) La partecipazione alla gestione delle imprese. Oltre alla funzione contrattuale, H sindacato è altresì chiamato a partecipare alla gestione
dell'azienda secondo i vari modelli di relazioni sindacali.
I modelli prevalenti in Italia e dunque i Diritti spettanti ai lavoratori sono:
• Diritto di Informazione: secondo il quale il datore di lavoro ha l'obbligo di informare
il sindacato sulle iniziative riguardanti determinate materie;
• Diritto di Consultazione: secondo la quale il datore di lavoro ha l'obbligo di sentire
il sindacato prima di adottare determinate iniziative.
46
Ulteriori Modelli (Diritti) di Relazioni Sindacali, non diffusisi in Italia, e comportanti una
partecipazione più diretta dei lavoratori, sono:
• diritti di codecisione: comportanti l'attribuzione agli organismi di rappresentanza
e/o ai sindacati di un vero e proprio diritto di veto su certe materie, definibili
soltanto attraverso un accordo;
• diritti di cogestione: in base ai quali rappresentanti dei lavoratori sono presenti
negli organi di gestione delle imprese, come il consiglio di amministrazione o quelli dì
vigilanza, cosi da poter esercitare (pur non avendo la maggioranza) una funzione di
controllo ad alto livello.
Complessivamente, quindi, sono prevalenti nel nostro ordina- mento i diritti "deboli" di
partecipazione, non comportanti la necessità — ma, al massimo, prospettanti
l'opportunità — di accordi con l'interlocutore sindacale.
Ciò non toglie che essi siano stati, e siano, di grande utilità nel favorire la maturazione
delle relazioni sindacali in senso cooperativo, ivi comprese le relazioni di natura
contrattuale.
5. Il procedimento per la repressione della condotta antisindacale. Il complesso dei diritti sindacali è tutelato dall'alt. 28 dello Statuto, il quale prevede uno
speciale procedimento per la repressione di quel comportamento illegittimo qualificato
come "condotta antisindacale". La nozione di condotta antisindacale non è di natura tipologica bensì teleologica; non vi è,
infatti, una descrizione specifica della condotta che possa qualificarsi antisindacale
mentre si intende tale qualsiasi azione posta in essere dal datore di lavoro per ostacolare
o impedire l'esercizio di diritti sindacali nonché ogni azione discriminatoria od anche
persecutoria intesa a colpire un lavoratore in relazione alla sua posizione sindacale.
La condotta antisindacale è, dunque, un comportamento illegittimo specifico per cui la
sua repressione avviene attraverso un procedimento specifico davanti al giudice del
lavoro.
In particolare, qualora ritenga che si sia verificato un comportamento antisindacale,
l'organismo locale dell'associazione sindacale “nazionale”
che vi abbia interesse, può ricorrere al giudice del lavoro del luogo ove il comportamento è
stato posto in essere.
Questi, entro 2 giorni dalla proposizione della domanda, convocate le pani e assunte
sommarie informazioni, se ritenga sussistente fa violazione, ordina al datore di lavoro, con
decreto motivato immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e
la rimozione degli effetti da esso provocati.
Il decreto ha, come si vede, un contenuto tipico rivolto all'effettivo ripristino dello status
quo ante, anche se non sempre questa finalità ha modo di dispiegarsi effettivamente, tutte
le volte in cui gli effetti della condotta si siano ormai esauriti (in tali casi il decreto ha,
nella sostanza, un contenuto di "accertamento", a valere come dissuasione da future
analoghe violazioni).
L'inosservanza del decreto integra gli estremi penali di cui all'art. 650 del c.p. quale
inosservanza dei provvedimenti dell'autorità.
È inoltre prevista la Pubblicazione della relativa Sentenza Penale di Condanna.
47
PARTE TERZAPARTE TERZAPARTE TERZAPARTE TERZA
IL MERCATO DEL LAVOROIL MERCATO DEL LAVOROIL MERCATO DEL LAVOROIL MERCATO DEL LAVORO
CAPITOLO XII
I Servizi per l’Impiego
1. La tutela del lavoratore nel Mercato del Lavoro. Il diritto del lavoro non riguarda solo le vicende del rapporto di lavoro bensì anche la
delicata fase della costituzione del detto rapporto.
Esso riguarda, in pratica, anche il cosiddetto mercato del lavoro e la sua recente
profonda trasformazione.
La delicatezza del problema e la diffidenza nei confronti di intermediari privati (il cui
compito è quello di favorire l’assunzione), diffidenza giustificata da pratiche di
sfruttamento della mano d'opera, hanno indotto il legislatore ad orientarsi per un
monopolio pubblico del mercato del lavoro.
Tale monopolio ha avuto attuazione attraverso gli uffici di collocamento preposti alla
gestione dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Di tale sistema, tuttavia, s'è dovuto rilevare il sostanziale fallimento ancor più intollerabile
in un'epoca in cui il paese non può permettersi, per motivi economici, una politica di
conservazione di strutture inefficienti nonché protezionista del rapporto di lavoro.
La politica del lavoro si è perciò orientata più verso la protezione del mercato del lavoro,
con l'introduzione di forme flessibili, così puntando alla professionalizzazione piuttosto
che alla stabilità del posto di lavoro.
2. Il collocamento ordinario. Declino e caduta del monopolio pubblico. Dopo la prima guerra mondiale, in Italia, per esprimere gli abusi dei mediatori, le
associazioni sindacali cercarono in vario modo di assumere il controllo del collocamento
della manodopera.
La nascita del monopolio pubblico nel mercato del lavoro è dovuta alla legge n. 264 del
1949, istitutiva di un enorme struttura pubblica articolata in quelli che vennero
48
denominati uffici di collocamento; con al stessa legge veniva altresì vietata - e
penalmente sanzionata - l'intermediazione privata tra domanda e offerta di lavoro. Gli uffici di collocamento tenevano liste, distinte per professionalità, nelle quali dovevano
iscriversi i lavoratori in cerca di occupazione.
L'azienda che avesse voluto reclutare dei lavoratori, doveva rivolgersi all'ufficio di
collocamento il quale avviava al lavoro quelli che si trovavano nelle liste della
professionalità richiesta, in ordine di graduatoria (chiamata numerica) e solo in rare
eccezioni, come per gli impiegati, era possibile un avviamento al lavoro del lavoratore
scelto dall'imprenditore senza tener conto dell'ordine di graduatoria (chiamata
nominativa); in tal modo le aziende si vedevano assegnati dei lavoratori iscritti nelle liste
delle diverse
professionalità sulla sola base delle loro dichiarazioni e, pertanto, senza che nessuno ne
avesse accertato la reale professionalità ne il livello della stessa.
Il sistema, benché inteso a distribuire equamente prospettive di lavoro, aveva non pochi
difetti e, ciò nonostante, è stato mantenuto in piedi pur in presenta di una facile e
diffusissima elusione delle relative regole.
In particolare, v’era una possibilità di eludere legalmente il meccanismo, attraverso il
passaggio diretto da azienda ad azienda: difatti un lavoratore, invece di dimettersi o di
essere licenziato e di riscriversi nelle liste di collocamento, attendendo che arrivasse il suo
turno, poteva transitare da un'azienda ad un'altra, sulla base di contatti diretti fra le
stesse, previa la mera concessione di un nulla-osta da parte dell'ufficio di collocamento.
È pur vero che erano previste sanzioni, anche penali, per chi violasse la normativa, ma,
col tempo, esse erano divenute sempre più lettera morta.
Cominciò cosi la serie delle modifiche legislative.
In un primo tempo, ci si è limitati ad ampliare il numero dei casi nei quali si poteva
proporre una richiesta nominativa, piuttosto che numerica.
Ciò per venire incontro alla pressante richiesta delle imprese di non dover procedere ad
assunzioni “al buio”, visto che, fra l’altro, l’ufficio non controllava l’effettiva esistenza dei
requisiti professionali dichiarati dal lavoratore in cerca di lavoro.
Ma un primo vero tentativo di riforma venne attuato con la legge n. 56 del 1987,
attraverso il decentramento delle funzioni e la creazione di apparati regionali
(Commissioni Regionali per l’Impiego).
Il risultato, pero, m per niente soddisfacente.
Una prima svolta decisiva la si ebbe con la legge n. 608 del 1996, con la quale venne
abolita la richiesta numerica - e, sostanzialmente, anche quella nominativa, ove
consentita — prevedendo la sola comunicazione dell'assunzione, una volta avvenuta,
all'ufficio di collocamento, il quale in tal modo assumeva, nel mercato del lavoro, il ruolo
di semplice spettatore.
Gli uffici di collocamento restarono, quindi, organismi tenuti alla sola registrazione dei
dati e senza alcuna possibilità di gestire il mercato del lavoro, e l'inutilità di tale funzione
fu il pretesto per decretarne l'abolizione.
Determinante in tal senso fu una sentenza della Corte di giustizia europea del 1997 che,
su ricorso di un'azienda italiana, la Job Centre, sentenziò l'incompatibilità del monopolio
pubblico italiano del mercato del lavoro col Trattato di Roma istitutivo della Comunità
europea per violazione della libertà di concorrenza.
49
All'azienda italiana in questione era stata negata l'iscrizione dal Tribunale di Milano in
quanto il suo statuto prevedeva l'esercizio di un'attività di intermediazione, ossia
un'attività ancora vietata dalla legge n. 264 del 1949.
La sentenza della Corte diede in tal modo una spinta decisiva in direzione del
superamento del monopolio pubblico del mercato dal lavoro con l'apertura ai privati del
medesimo mercato, tenuto anche conto della fallimentare esperienza della sistema
pubblico.
3, La concorrenza pubblico-privato: dal d.lgs. n. 469 del 1997 al d.lgs. n. 276 del 2003. La sentenza della Corte di giustizia europea Job Centre del 1997 decretava
l’incompatibilità del monopolio statale in materia di mercato del lavoro in quanto
contrario alle norme sulla libera concorrenza. Da essa ha preso vita il processo di riforma iniziato col d.lgs. n. 469 del 1997 introduttivo
di due fondamentali innovazioni, e cioè:
a) il trasferimento delle funzioni degli uffici di collocamento dallo Stato alle Regioni che
a loro volta l'avrebbero decentrato alle Province dopo la riforma costituzionale del
2001;
b) la legalizzazione dell'intermediazione privata il cui esercizio era subordinato al
rilascio di un'autorizzazione amministrativa.
Circa il punto sub a): Con la riforma del Titolo V della Costituzione con L.3/2001, lo
Stato manteneva solo una funzione di indirizzo e di coordinamento della politica del
lavoro, mentre la relativa competenza legislativa veniva decentrata alle Regioni.
Queste ultime avrebbero poi attuato un ulteriore decentramento a livello provinciale, con
l'istituzione dei Centri per l'impiego in sostituzione degli uffici di collocamento e con
l'obiettivo di fornire varie forme di assistenza a favore di chi fosse in cerca di
un'occupazione,
la Regione coordina tali Centri dall’alto, attraverso una Commissione Tripartita
composta da rappresentanti pubblici e delle parti sociali.
Circa il punto sub b): Sul piano dell'apertura ai privati, tuttavia, la legge non ebbe buoni
risultati in quanto non permetteva di svolgere contemporaneamente attività
di intermediazione e di somministrazione di lavoro.
Ma il processo di riforma è continuato.
50
Con riguardo al collocamento pubblico, è da segnalare il d.lgs. 21 aprile 2000 n. 181,
modificato dai d.lgs. 19 dicembre 2002 n. 297.
Esso ha dettato i principi fondamentali di indirizzo per l'esercizio della potestà legislativa
in materia da parte delle Regioni.
Tale Riforma ha determinato: l'abolizione delle liste di collocamento e, con esse, della
chiamata numerica; la previsione di nuove modalità di accertamento dello stato di
disoccupazione; l'introduzione dell'obbligo di denuncia contestuale dell'assunzione anche
per i rapporti di lavoro non subordinato (bensì parasubordinato) quali le collaborazioni
coordinate e continuative ed i lavori a progetto.
Si è giunti, infine, ad un'ulteriore riforma del regime del collocamento privato, tramite il
più volte evocato d.lgs. n. 276 del 2003, come ritoccato dal d.lgs. 11 ottobre 2004 n. 251,
una delle cui linee di intervento è stata quella dell'ulteriore rivisitazione della disciplina
che prevede i presupposti e le condizioni di svolgimento dell'attività di collocamento da
parte dei privati.
In particolare tale Riforma ha previsto: l’abolizione del vincolo di oggetto sociale esclusivo
per le agenzie di lavoro somministrato, di tal che le stesse avrebbero potuto esercitare
anche altre attività, ivi compresa quella di intermediazione, inerenti al mercato del lavoro.
A tale ultimo scopo è stato istituito un albo, presso il Ministero del lavoro, diviso in 5
sezioni, cui devono iscriversi le agenzie che intendono esercitare attività di
somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale e supporto alla
ricollocazione professionale, prevedendo un regime unico di autorizzazione, nel senso che
le agenzie del lavoro possono svolgere una o più delle dette attività.
Le agenzie possono operare anche sulla base di un'autorizzazione provvisoria, ottenuta
per silenzio-assenso col decorso di 60 giorni dalla domanda di iscrizione all'albo, che
diventa definitiva dopo due anni.
Le dette agenzie sono soggette a tutte le norme in materia di tutela della riservatezza dei
dati personali e, con esse, a quelle che vietano discriminazioni nell'avviamento al lavoro;
ad esse, in particolare, è fatto divieto di assumere informazioni sulla posizione personale
dei lavoratori in materia di credo religioso, sesso, politica, origini etniche e nazionali, ecc.
Un'ultima importante innovazione, connessa al progresso tecnologico, è la sostituzione del
fallimentare SIL (Sistema Informativo del Lavoro) con una Borsa continua nazionale del lavoro, ossia con una banca dati telematica attraverso la quale ognuno può acquisire
informazioni tali da agevolare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro.
4. Il collocamento obbligatorio dei disabili. Per particolari categorie esistono forme di collocamento, diverse da quelle ordinarie e
tuttora gestite in regime di monopolio pubblico, che tengono conto della particolare
condizione del soggetto da introdurre nel mondo del lavoro.
L'ordinamento, in particolare, prevede forme di collocamento obbligatorio, o mirato, a
favore dei disabili al fine di consentirne l'inserimento nel mondo del lavoro in attività
compatibili col proprio stato.
La normativa speciale in materia è ispirata ai principi costituzionali di uguaglianza (art. 3)
e di diritto dei disabili all'avviamento professionale (art. 38).
Coerentemente con tali principi la legislazione in materia impone l'obbligo, a carico dei
datori di lavoro pubblici e privati di collocare al lavoro i soggetti appartenenti a
51
determinate categorie ed iscritti in apposite liste tenute dai centri per l'impiego.
La previgente normativa, recata dalla legge n. 482 del 1968, è stata sostituita dalla legge
n. 68 del 1999 che ha introdotto le seguenti innovazioni:
a) i soggetti aventi diritto al collocamento obbligatorio sono individuati nelle seguenti
categorie:
•••• disabili con un grado di inabilità superiore al 45%;
•••• invalidi per lavoro con un grado di inabilità superiore al 33%;
•••• orfani e coniugi superstiti di deceduti per causa di lavoro, guerra o servizio o in
conseguenza dell'invalidità riportata per tali cause e soggetti assimilati, quali, in
ultimo, anche le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata;
b) l'obbligo di avere in servizio un determinato numero di disabili e di appartenenti alle
categorie protette, assumendo di volta in volta le unità necessarie a garantire la
cosiddetta "quota di riserva", è stato così ridimensionato:
• nessuna unità per le imprese occupanti fino a 15 dipendenti;
• una unità per le imprese occupanti da 16 a 35 dipendenti;
• due unità per le imprese occupanti da 36 a 50 dipendenti;
• il 7% dell'organico in servizio per le imprese occupanti più di 50 dipendenti;
c) la scelta dei soggetti da avviare al lavoro avviene per chiamata numerica, sulla base
di apposite liste, tenuto conto dell'idoneità del soggetto alle mansioni da svolgere; in
alcuni casi è previsto ravviamento nominativo o la stipula di convenzioni per una
diversa modalità o tempistica di avviamento al lavoro;
d) la procedura di avviamento avviene sulla base di apposita denuncia che il datore di
lavoro deve obbligatoriamente inoltrare al Centro per l'impiego con cadenza annuale
(entro il 31 gennaio di ciascun anno), affinchè questo possa verificare i mutamenti
d'organico e l'osservanza dei relativi obblighi inerenti al collocamento obbligatorio; a
tal fine è prevista l'obbligatorietà della denuncia annuale, cui è attribuita una
funzione di contestuale richiesta di avviamento al lavoro di disabili a copertura del
contingente dovuto; l'omessa denuncia da luogo a pesanti sanzioni ma non consente
al Centro per l'impiego di procedere all'avviamento al lavoro d'ufficio.
Le norme sul collocamento obbligatorio non incontrano il maggior favore da parte delle
imprese, giacché esse si vedono assegnare unità lavorative di accertata minore capacità
lavorativa.
Se, da un lato, la condizione di disabile e di minore capacità lavorativa non è presupposto
di minore capacità produttiva, perché un disabile può essere utilizzato in modo ottimale
in mansioni che non risentono della sua condizione, per altro verso non sono escluse,
successivamente all'assunzione, verifiche intese ad accertare il grado di effettiva
utilizzazione del disabile; all'esito di tali accertamenti, laddove sussistano condizioni di
incompatibilità, temporanea o permanente, il disabile può essere temporaneamente
sospeso dal servizio, con privazione della retribuzione, od anche licenziato per giusta
causa.
5. La libertà di circolazione dei lavoratori in ambito comunitario. L'appartenenza alla Comunità Europea ha determinato l’accettazione del principio della libera circolazione, cui consegue il diritto dei cittadini comunitari di rispondere alle
offerte di lavoro in qualsiasi stato membro, di tal che, a tal fine, i cittadini degli stati
52
membri sono a tutti gli effetti equiparati ai cittadini italiani.
Tale diritto è altresì protetto dal divieto, così confermato, di ogni discriminazione,
nell'avviamento al lavoro, fondata sulla nazionalità di origine.
Ciò potrebbe implicare la non spettanza di un’analoga libertà in assenza di occasioni di
lavoro effettive, ma la Corte di giustizia europea ha interpretato in modo estensivo tale
diritto facendovi derivare l'ulteriore diritto di stabilirsi in un paese membro ancor prima di
aver trovato un'occupazione e, in particolare, per tutto il periodo necessario a cercarne
una.
6. L'accesso al lavoro dei cittadini extracomunitari. Sul piano normativo, anche a livello costituzionale, non esiste alcuna particolare
disciplina circa l'impiego di lavoratori extracomunitari a favore dei quali esiste, invece, il
generalizzato divieto di discriminazione.
L'assunzione di lavoratori extracomunitari va perdo considerata sotto altro aspetto e cioè
in relazione alla regolarità della loro presenza sul territorio nazionale, essendo essa
presupposto indispensabile per la costituzione di un rapporto di lavoro.
La presenza sul territorio nazionale di extracomunitari in cerca di un'occupazione è stata
inizialmente considerata in termini di ordine pubblico e con scarso rilievo dell'aspetto
lavoristico.
Il d.igs. n. 268 del 1998 ha confermato il riconoscimento, in favore dello straniero, di tutti
Ì
diritti fondamentali della persona umana estendendo a suo favore il riconoscimento dei
diritti civili riconosciuti al cittadino italiano, purché regolarmente soggiornante.
L'utilizzazione dello straniero mediante un regolare rapporto di lavoro è perciò
subordinata alla regolarità del soggiorno.
A tal fine è necessario il rilascio di apposito permesso cui provvede, oggi, lo Sportello unico per l’immigrazione istituito (con la legge Bossi-Fini} presso le Prefetture, a
riconferma dell'esigenza di un controllo centrale sui flussi di immigrazione.
Il permesso di soggiorno viene rilasciato ove sussistano, tra l'altro, determinate
condizioni, e cioè:
a) innanzitutto è necessaria l'esistenza di un contratto di lavoro; a tal fine la richiesta è
avanza dal datore di lavoro col quale il contratto è stipulato; l'efficacia del contratto è
immediata;
b) va poi dimostrata l'esistenza di un alloggio presso il quale l'extracomunitario
abitualmente dimori;
c) il datore di lavoro, infine, deve impegnarsi al pagamento delle spese per il rientro in
patria dell'extracomunitario.
53
Il permesso è concesso per la durata del contratto ii quale, dal canto suo, non può
eccedere la durata massima del permesso che, per i rapporti di lavoro a tempo
indeterminato, è di due anni.
Qualora il rapporto di lavoro si interrompa prima della scadenza del permesso di
soggiorno, l'extracomunitario resta iscritto, fino a tale data, in apposite liste formate
presso i Centri per l'impiego.
La normativa attuale in materia è quella di cui alla legge n. 189 del 2002 (detta Bossi-
Fini) che tra l'altro prevede il contingentamento dei flussi di immigrazione per mantenerne
il controllo; in tal modo è il governo che periodicamente stabilisce quanti permessi di
soggiorno per lavoro possano essere concessi ad extracomunitari, così limitandone,
correlativamente, l'immissione sul mercato del lavoro.
PARTE QUARTAPARTE QUARTAPARTE QUARTAPARTE QUARTA
I CONTRATTI DI LAVOROI CONTRATTI DI LAVOROI CONTRATTI DI LAVOROI CONTRATTI DI LAVORO
CAPITOLO XIII
Il Lavoro Subordinato
1. La tutela del lavoratore nel Mercato del Lavoro. Il diritto del lavoro tratta, per tradizione, il solo lavoro subordinato, essendo esso nato per
tutelare quella parte del rapporto contrattuale economicamente più debole ed in posizione
di svantaggio rispetto all'imprenditore, proprietario delle risorse produttive.
Al rapporto di lavoro dipendente si riferisce, pertanto, quasi tutta la legislazione
giuslavoristica, mentre le altre forme di rapporto di lavoro hanno la loro disciplina nelle
disposizioni di legge che le prevedono.
Il rapporto di lavoro è innanzitutto un contratto le cui parti sono,
secondo la previsione di cui all'ari. 2094 c.c.:
• il lavoratore, da un lato, che offre la sua prestazione lavorativa, manuale o
intellettuale;
• l'imprenditore, dall'altro, che è tenuto a remunerare la prestazione in misura pari
alla qualità e quantità della stessa e nei modi e termini stabiliti dalla contrattazione
collettiva e dalle altre norme in materia.
Il contratto è di natura sinallagmatica, a prestazioni corrispettive, per cui mancando l'una
viene meno l'obbligo dell'altra.
La figura dell'imprenditore, quale parte del rapporto contrattuale, è da intendersi riferita a
qualsiasi datore di lavoro e non, in via esclusiva, all'imprenditore; ne consegue che il
54
rapporto di lavoro subordinato non è esclusivamente quello instaurato con un
imprenditore bensì con qualsiasi altro datore dì lavoro, sia privato che pubblico.
Al fine di equiparare all'imprenditore qualsiasi altro datore di lavoro, è sufficiente il
generico rinvio di cui all’art. 2239 c.c..
Per quanto attiene al rapporto di pubblico impiego, invece, il rinvio è addirittura espresso,
ad opera dell'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001.
La figura del lavoratore dipendente e gli elementi identificativi di un rapporto di lavoro
dipendente sono rinvenibili nell'art. 2094 c.c. secondo il quale “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore”.
Pertanto solo le situazioni di lavoro che presentano tali caratteristiche possono
qualificarsi come rapporto di lavoro dipendente; negli altri casi si avranno, invece, le varie
forme di lavoro autonomo e non subordinato.
Gli elementi identificati del rapporto di lavoro subordinato sono, dunque:
a) l'obbligo di collaborare "nell'impresa"; esso presuppone che il lavoratore partecipi alla
realizzazione degli scopi dell'impresa e non di quelli propri o di soggetti diversi
dall'impresa nella quale lavora;
b) la prestazione di lavoro "alle dipendenze" dell'imprenditore; il che è indicativo della
posizione del lavoratore che, in tal caso, non è autonoma ne è esposta ai rischi
dell'impresa che ricadono, invece, tutti sull'imprenditore;
c) l'assoggettamento della prestazione alla “direzione dell'imprenditore"; a conferma
della posizione non autonoma del lavoratore bensì sottoposta alle direttive altrui ed
anche alle regole di organizzazione interna dell'impresa.
Invero le altre forme di rapporto di lavoro hanno diversi tratti comuni col rapporto di
lavoro subordinato.
Infatti una forma di collaborazione sussiste sempre tra prestatore d'opera ed
imprenditore, ma il lavoratore autonomo non è inserito nell'organizzazione dell'impresa e,
in ogni caso,
non è vincolato alle direttive dell'imprenditore nei confronti del quale ha solo obblighi di
risultato.
L'altro elemento comune è la remunerazione della prestazione che, al di là della
diversa forma, in ogni caso è dovuta salvo non si tratti di lavoro gratuito o familiare. 2. L'indagine giudiziale della subordinazione. La maggiore tutela che l'ordinamento prevede a favore del lavoro subordinato è il motivo
per il quale le parti dal rapporto contrattuale hanno opposti interessi in ordine al
riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
Un rapporto di lavoro subordinato presuppone, infatti, maggiori obblighi a carico del
datore di lavoro e, correlativamente, maggiori tutele a favore del prestatore d'opera.
L'indagine in tal senso, non semplice, parte dalla volontà contrattuale e dal nomen iuris
dalle parti attribuito al contratto e prosegue, poi, con riferimento al contenuto formale del
contratto stesso e, quindi, al contenuto effettivo della prestazione lavorativa che resta in
ogni caso quello prevalente.
La volontà delle parti è certamente significativa purché espressa nell'ambito della legge e
non al d fuori di essa.
55
Le norme in materia di rapporto di lavoro sono, infatti, di tipo imperativo e non
dispositivo, sicché le parti non possono di comune accordo derogare a tali norme
stabilendo che un rapporto di lavoro - che di fatto o di tipo subordinato - sia regolato
da norme diverse da quelle per esso previste dall’ordinamento.
È perciò innanzitutto irrilevante il nomen iuris dalle parti dato al contratto quando il
contenuto dello stesso sia con esso non coerente, nel senso che pur qualificando il
rapporto contrattuale in modo diverso da quello del lavoro subordinato, le relative
clausole sono invece indicative del rapporto di subordinazione.
Se così non fosse, la parti potrebbero facilmente mascherare un contratto di lavoro
dipendente - eludendo tutte le nonne regolatrici di tale tipo di rapporto — semplicemente
attribuendo al detto rapporto un nomen diverso da quello del rapporto di lavoro
subordinato, ancorché le relative clausole siano quelle tipiche di tale tipo di rapporto.
Per altro verso un contratto di lavoro può ben essere provvisto dei requisiti della coerenza
formale - tra denominazione e contenuto — per poi risultare difforme dalla reale
situazione di fatto.
Per tale motivo l'accertamento dell'esistenza o meno di un rapporto di lavoro subordinato
e esperito con prioritario riferimento alle situazione di fatto e, più in particolare,
all'accertamento delle presenza degli elementi in tal senso fondamentali della
subordinazione, della remunerazione periodica e della organizzazione eteronoma della
prestazione lavorativa, tutti sintomatici del rapporto di lavoro subordinato.
3. La certificazione. Il contratto di lavoro è un contratto per il quale è prevista la forma scritta.
Il contratto di lavoro subordinato è quello maggiormente protetto dall'ordinamento e,
quindi, maggiormente oneroso per l'imprenditore.
Dalla qualificazione del contratto o dal suo contenuto potrebbe risultare che il rapporto di
lavoro non sia di tipo subordinato ma solo sul piano formale mentre la prestazione di fatto
è caratterizzata da tutti gli elementi di cui all’art. 2094 c.c. e perciò sufficienti a
qualificare il rapporto di lavoro come rapporto di lavoro di tipo subordinato.
Al fine di ridurre il contenzioso inerente all’accertamento del contratto di lavoro
subordinato, l'art. 76 d.lgs. n. 276 del 2003 prevede una procedura di certificazione,
secondo la quale le parti congiuntamente possono chiedere a determinati organismi dalla
stessa norma individuati (enti bilaterali, università, direzioni provinciali del lavoro) la
certificazione o, meglio, la dichiarazione circa la qualificazione del suo rapporto di lavoro.
La certificazione ha validità giuridica verso terzi, relativamente alla qualificazione del
contratto, fino a quando non sia diversamente stabilito dall'autorità giudiziaria.
Infatti avverso la certificazione, che si qualifica atto amministrativo, è ammesso il ricorso
al TAR, per eccesso di potere, od anche al giudice ordinario, per difformità della
prestazione di fatto rispetto a quanto pattuito col contratto e coerentemente con esso
certificato dal competente organo.
56
CAPITOLO XIV
I Lavori non Subordinati
1. Il difficile equilibrio delle Tutele e la prospettiva dello Statuto dei lavori La previsione di tutta una serie di tutele riservate, tuttavia, esclusivamente al lavoratore
dipendente, ha fatto sorgere il problema circa l'estensione delle stesse tutele al lavoratore
autonomo, vieppiù in presenza della maggiore diffusione delle forme di lavoro flessibile,
atteso che il lavoratore autonomo, pur in assenza di una dipendenza funzionale
dall'imprenditore, trovasi spesso in una posizione di "dipendenza economica" dallo stesso,
allorquando trae tutto il suo reddito da quell'unico rapporto di lavoro per di più precario.
Sul punto sono stati formulati diversi progetti sostanzialmente riconducibili alle seguenti
3 ipotesi:
a) estensione al lavoratore autonomo di tutte le tutele previste per il lavoratore
subordinato;
b) estensione al lavoratore autonomo soltanto dei principali diritti previsti per il
lavoratore subordinato;
c) avvicinamento della condizione dei lavoratori autonomi a quella dei lavoratori
subordinati prevedendo l'estensione a favore dei primi di un nucleo fondamentale di
diritti già riconosciuti ai lavoratori subordinati, bilanciandone il costo con la
riduzione di alcune tutele a favore di questi ultimi.
In tale ultima direzione si è mosso il d.lgs. n. 276 del 2003.
2. Il lavoro autonomo.
57
La figura del lavoratore autonomo si differenzia da quella del lavoratore subordinato in
quanto la sua prestazione è autonomamente organizzata, cioè organizza autonomamente
il suo lavoro ed ha nei confronti del committente solo un obbligo di risultato.
L'art. 2222 c.c. definisce lavoratore autonomo quella persona che "si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servigio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente". Le parti del rapporto contrattuale sono, quindi, il lavoratore autonomo, da un lato, ed il
committente dell'opera o del servizio, dall'altro.
La disciplina del rapporto, essendo esclusivamente codicistica, è di natura dispositiva ed
è, pertanto, lasciata alla libera scelta delle parti, a differenza del rapporto di lavoro
subordinato soggetto a norme di natura imperativa e perciò inderogabili.
3. Le collaborazioni coordinate e continuative. Una particolare forma di lavoro autonomo è quella della collaborazione coordinata e
continuativa (co.co.co), la cui caratteristica è quella di avere molti aspetti in comune col
rapporto di lavoro subordinato, tanto da farla qualificare non proprio come lavoratore
autonomo bensì come lavoro "parasubordinato".
La sostanziale differenza tra il lavoratore subordinato ed il collaboratore coordinato e
continuativo sta nel fatto che la prestazione di quest'ultimo è svolta sotto il
"coordinamento" del committente, anziché sotto la direzione dell'imprenditore, che
costituisce, tutto sommato, una forma più blanda di direzione.
Nel resto il rapporto di lavoro è molto simile a quello del lavoro subordinato cui
l'evoluzione normativa lo ha gradatamente avvicinato.
La collaborazione coordinata e continuativa ha fatto la sua apparizione con la legge n. 533
del 1973 il cui ari. 1, modificando l'art. 409 del codice di procedura civile, istituiva lo
speciale rito processuale per le controversie di lavoro riservato, tra l'altro, "ai rapporti di agenda, di rappresentane commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una presta'none di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato". La figura tipica del collaboratore coordinato e continuativo è quella dell'agente di
commercio per il quale, oltre alla contrattazione collettiva, sono previste forme di tutela
minime ma tipiche del rapporto di lavoro subordinato, come la contribuzione
previdenziale presso la speciale cassa ENASARCO.
Con la riforma del sistema previdenziale attuata con la legge n. 335 del 1995, l'obbligo
contributivo all'INPS è stato esteso a tutte le altre forme di collaborazione coordinata e
continuativa e peraltro ponendo il relativo onere per i 2/3 a carico del committente e per
la restante parte a carico del collaboratore.
Più di recente, sono stati previsti l'obbligo di iscrivere i collaboratori all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, nonché le stesse modalità di
corresponsione della retribuzione (busta paga), e soprattutto di prelievo dell'imposta sul
reddito tramite ritenuta alla fonte, già in atto per i lavoratori dipendenti.
Malgrado il progressivo aggravio dei costi sopportati per la loro utilizzazione, il numero dei
collaboratori coordinati continuativi è andato crescendo nel periodo recente, e ciò perché
la collaborazione coordinata e continuativa presenta molteplici aspetti vantaggiosi per il
committente – datore di lavoro.
In particolare:
58
• il collaboratore non ha diritto a ferie, ad assistenza per malattia ne a trattamento di
fine rapporto;
• non vi è contrattazione collettiva regolante il rapporto la cui disciplina, pertanto, è
lasciata alla libera scelta delle partirla.
4. Il lavoro a progetto o a programma. La fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa è stata disciplinata col d.lgs,
n. 276 del 2003, il cui art. 61 ne ha previsto la riqualificazione in "lavoro a progetto o a programma". La disposizione di legge prevede, espressamente, che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all'art.409, n. 3, del codice di procedura civile devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore”.
La nuova disciplina, intesa a contenere il dilagante fenomeno delle collaborazioni fasulle,
dietro le quali si nascondono rapporti di lavoro subordinato di fatto, ha perciò previsto
che la disattenzione dell'obbligo di indicare, nel contratto, lo specifico progetto o
programma che il collaboratore si impegna a realizzare, determina la qualificazione del
rapporto quale rapporto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato con effetto dalla
sua costituzione.
Sono esenti da tali disposizioni alcune particolari figure di collaboratori nonché i
collaboratori occasionali la cui prestazione non supera i 30 giorni all'anno e,
comunque, non produce reddito per più di 5.000 euro.
La nuova disciplina introduce, altresì, ulteriori forme di tutela per il collaboratore, quali:
• il requisito della forma scritta del contratto e l'obbligatorietà di alcune clausole;
• il diritto ad una retribuzione commisurata alla qualità e quantità del lavoro svolto;
• il diritto ad un periodo di sospensione del rapporto, ancorché non retribuita, per
malattia o infortunio od anche per maternità, senza che il committente possa
risolvere il rapporto;
• il diritto alla proroga del contratto per 180 giorni nel caso di maternità;
• il diritto alla tutela della salute e della sicurezza a norma del d.lgs. n. 626 del 1994
(ora d.lgs. 81 del 2008).
Dal punto di vista della durata, il contratto deve essere obbligatoriamente contrassegnato
da un termine finale, anche derivato per relationem dalla realizzazione del progetto o
dall'esecuzione del programma.
Le vecchie collaborazioni coordinate e continuative a tempo indeterminato (le più flessibili
di tutte, essendo sempre possibile il recesso del committente, al massimo dietro il rispetto
di un termine di preavviso) non sono, quindi, più legittime.
In quanto a termine, il contratto si risolve automaticamente al momento della
realizzazione del progetto o del programma.
Ve, comunque, anche la possibilità di un recesso del committente prima della scadenza
del termine; ciò, anzitutto, in caso di giusta causa, e con il mero rispetto di un termine di
preavviso.
5. Il lavoro associato.
59
Il lavoro associato è quella particolare forma di rapporto di lavoro secondo la quale da
un lato c'è il committente (datore di lavoro) e dall'altra c'è l'associazione i cui componenti
sono i prestatori d'opera a favore del committente ma sono al tempo stesso datori di
lavoro di se stessi.
Dunque, la prestazione lavorativa diversa da quella di tipo subordinato può essere svolta
anche all'interno di contratti di tipo associativo e perciò "orizzontali".
L'esempio tipico e quella della cooperativa di produzione e lavoro nell'ambito della
quale il lavoratore è anche socio, ossia imprenditore in quota parte.
A favore di questa categoria di lavoratori già da tempo sono state estese alcune tutele
tipiche del rapporto di lavoro subordinato (tutela della maternità, contribuzione
previdenziale obbligatoria, ecc.).
Dei contratti associativi fa altresì parte il contratto di associamone in partecipazione,
previsto e disciplinato dall'art. 2549 e seguenti c.c.
L’associazione in partecipazione è quella particolare forma di lavoro associato secondo la
quale l'associazione è costituita dal datore di lavoro e dal prestatore di lavoro che col
primo si associa.
In tal caso il prestatore di lavoro non viene remunerato come lavoratore subordinate bensì
partecipando agli utili dell'impresa in misura proporzionale al suo apporto lavorativo.
La partecipazione alle perdite, viceversa, è eventuale, in quanto può essere esclusa dalle
parti con un apposito accordo.
CAPITOLO XV
Il Lavoro Esterno
1. Le Esternalizzazioni L'impresa può realizzare la propria produzione con l'impiego della prestazione lavorativa
di:
a) lavoratori dipendenti;
b) lavoratori autonomi;
c) lavoratori di altre imprese cui abbia appaltato la realizzazione di beni o servizi.
Questa terza ipotesi è quella della cosiddetta esternalizzazione di un servizio o di un
segmento produttivo che viene dato in appalto ad un'altra impresa la quale vi provvede
con i propri dipendenti, così escludendo ogni rapporto tra l'imprenditore principale ed il
lavoratore che, tutto sommato, lavora per quest'ultimo pur dipendendo da altri.
L'impresa, infatti, per realizzare la sua produzione dispone di due diverse soluzioni:
• vi provvede in proprio in tutto e per tutto, secondo il modello fordiano;
• o mantiene solo la produzione cosiddetta strategica, ossia quella della parte
principale del prodotto, appaltando ad altri la produzione di beni accessori, secondo
il modello post-fordiano.
Nella prima ipotesi l’unico aspetto positivo è quello di avere sotto controllo l’intero ciclo
produttivo, limitando il ricorso all’esterno solo per l'approvvigionamento di materie prime.
Ciò significa che l'impresa deve munirsi di tutte le professionalità necessarie, con scarsa
possibilità di specializzare una moltitudine di fasi produttive diverse.
60
Nell'altra ipotesi l’impresa mantiene la produzione della parte strategica del prodotto
principale appaltando ad altre imprese la produzione di parti accessorie del bene
principale od anche la realizzazione di servizi collaterali; in tal modo l'impresa principale
non avrà tutte le problematiche inerenti alla gestione di personale che lavora alla sua
produzione ma dipende da altri, ossia da imprese satelliti, sulle quali ricadranno, per
esempio, anche i cali produttivi derivanti da una contrazione della domanda e le
ripercussioni sull'occupazione.
Questa seconda ipotesi presenta poi l'aspetto produttivo della maggiore specializzazione
che l'impresa può conseguire se concentrata sulla realizzazione di un'unica parte del
prodotto.
2. Il trasferimento di azienda. L’esternalizzazione di una parte dell'attività produttiva può avvenire in diversi modi; uno
di questi è l'appalto di un servizio o della produzione di un bene, nel senso che
l'azienda, anziché provvedervi m proprio, da il relativo incarico ad un'altra impresa; un
altro modo e quello che comporta la cessione di una parte della propria azienda ad
un'altra, ossia il trasferimento di un segmento della propria attività produttiva e, con essa, anche delle
risorse ad esso dedicate, ivi compreso il personale dipendente.
La fattispecie è regolata dall'art. 2112 c.c., come modificato dall'art. 32 del d.lgs. n. 276
del 2003, che agevola i processi di esternalizzazione ed introduce nuove norme a tutela
dei lavoratori coinvolti in tali processi.
La norma prevede, innanzitutto, che le relative regole si applicano sia al trasferimento in
toto dell'azienda sia al trasferimento di parte (ramo) di essa (co.5). In proposito va precisato che il trasferimento di azienda o di impresa è da considerarsi
tale se resta di fatto inalterata la finalità produttiva della stessa, per cui non sfuggono
all'applicazione delle relative regole quei trasferimenti organizzati proprio per eluderle e
per determinare condizioni di minor favore per il personale.
Nel caso di trasferimento di una parte soltanto dell'azienda — peraltro con la prospettiva
di riacquistare dal cessionario il prodotto prima realizzato in proprio — tale parte deve
essere funzionalmente autonoma.
Tuttavia, mentre in passato tale autonomia doveva essere "preesistente al trasferimento",
ossia avere un riscontro reale nell'organizzazione aziendale anteriore a detto
trasferimento, la novella del 2003 ha soppresso il requisito della "preesistenza", ritenendo
sufficiente che il ramo d'azienda sia identificato come tale, dal cedente e dal cessionario,
al momento del trasferimento.
Si tratta di una previsione mirante a favorire le Esternalizzazioni.
A protezione della posizione del lavoratore, che viene trasferito unitamente all’attività
produttiva, la norma prevede, innanzitutto, che detto trasferimento non può essere motivo
di licenziamento, nel senso che il trasferimento dell'azienda non può avvenire
correlativamente alla riduzione dell'organico che dovrebbe essere con essa trasferito ne a
condizione che ciò avvenga, di tal che il cessionario è obbligato ad acquisire l'intero
personale già destinato dal cedente all'attività produttiva ceduta (art.2112 co.4).
Il lavoratore, inoltre, mantiene i diritti acquisiti ed i crediti vantati all'atto del
trasferimento (co.1), che può rivendicare verso il cessionario, il quale è obbligato in solido
col cedente (co.2), e mantiene il diritto a vedersi applicare i contratti collettivi vigenti
61
all'atto del trasferimento, salvo che nell'azienda cessionaria non trovino applicazione
contratti collettivi diversi (co.3).
Il linea teorica, pertanto, il trasferimento può dar luogo a reformatio in peius, nel senso
che il lavoratore può vedersi applicare fin da subito un contratto peggiorativo rispetto a
quello applicategli nella posizione di provenienza; ove una tale ipotesi possa realmente
verificarsi, è col contratto aziendale che, in genere, viene scongiurata o comunque
graduata una reformatio in peius.
La tutela a favore del lavoratore consiste, altresì, nell'inserimento dell'eventuale
trasferimento dell'azienda tra le materie oggetto di relazioni sindacali, prevedendo
l'obbligo della previa informazione e consultazione dei soggetti sindacali competenti; la
disattenzione di tali norme può costituire presupposto per un ricorso per condotta
antisindacale, ai sensi dell'art. 28 dello Statuto, ma non può impedire che il trasferimento
sia effettuato.
3. Gli appalti. Se quella del trasferimento di un ramo d’azienda rappresenta la prima fase del processo di
esternalizzazione, la seconda fase ha come obiettivo quelli di riacquisire all'azienda il
prodotto dell'attività oggetto di decentramento.
Ciò avviene, in genere, tramite la stipulazione di contratti di appalto fra l'impresa già
titolare dell'attività e quella che ha acquisito la gestione della stessa: in virtù di tale
contratto, l'appaltatore si obbliga a fornire, "con organizzazione dei mezzi necessari e
gestione a proprio rischio" (art. 1655 c.c.), l'opera o il servizio già prodotti all'interno.
Quando si parla di lavoratore in appalto si fa riferimento alle due diverse ipotesi di
impiego di un lavoratore che dipende da un'azienda appaltatrice di un servizio per
conto di un altro, e cioè all'ipotesi in cui il lavoratore, dipendente della ditta appaltatrice,
lavori presso di essa ovvero presso l'appaltante.
Nel primo caso non v'e alcuna differenza con qualsiasi altro rapporto di lavoro.
Invece nella seconda ipotesi, cioè nel caso in cui l'azienda appaltatrice svolga il suo
servizio utilizzando i propri lavoratori presso l'azienda appaltante, il lavoratore ha diritto
allo stesso trattamento, se più favorevole, riservato ai lavoratori dell'azienda appaltante
(L.1369/1960).
La previsione in tal senso è finalizzata ad evitare appalti di comodo fatti per applicare
condizioni di minor favore attraverso l'affidamento ad altri di una lavorazione che fatta
in proprio costerebbe di più.
Al fine di eliminare il disincentivo normativo alle operazioni di esternalizzazione, tale
norma è stata abrogata dal d.lgs. n. 276 del 2003 il quale, a tutela del lavoratore
dell'impresa appaltatrice ha previsto un regime di solidarietà secondo il quale nel caso di
sua inadempienza nei confronti dei medesimi lavoratori essi possono rivalersi nei
confronti della ditta appaltante.
4. Il divieto di interposizione. L'appalto è contraddistinto dal fatto che l'appaltatore, ai sensi dell'art. 1655 c.c., deve
essere provvisto di mezzi propri per lo svolgimento in piena autonomia di un determinato
servizio.
Laddove tali condizioni non esistono, l'appalto è solo finalizzato a mascherare un rapporto
di lavoro dipendente.
62
L'appalto di un servizio per conto di un'impresa può talvolta mascherare un appalto di
manodopera, nel senso che l'impresa appaltatrice è del tutto fittizia e svolge una mera
funzione di interposizione tra l'imprenditore appaltante ed il lavoratore, ricavandone un
utile.
Si consideri l'esempio di un'impresa che faccia ricorso ad un servizio di facchinaggio
interno, e stipuli a tal fine un contratto di appalto: se gli addetti a tale servizio rispondono
alla loro datrice di lavoro, che ne organizza effettivamente le prestazioni, siamo di fronte
ad un appalto autentico, e si applica la disciplina analizzata nel paragrafo 3.
Qualora, invece, tali addetti, pur facendo il loro mestiere di facchini, vengano diretti da un
capo-reparto dell'impresa appaltante, o se, addirittura, vengano utilizzati anche per
integrare l'organico di tale impresa, e pertanto in modo fungibile rispetto ai dipendenti
interni, non si è di fronte ad un appalto ex art. 1655 c.c., bensì ad mera una fornitura o
somministrazione di manodopera (si parla spesso, in modo atecnico, di un appalto di
manodapera), e quindi ad un'interposizione del datore dì lavoro puramente formale
(l'appaltatore fasullo di opera o servizio) in un rapporto che, di fatto, intercorre fra i
lavoratori e il datore di lavoro reale (l'appaltante).
Per porre fine a siffatte forme di caporalato, l'art. 1 della legge n. 1369 del 1960,
introdusse l'assoluto divieto di appalto di mano d'opera e di intermediazione
nell’assunzione di mano d'opera fornendo, altresì, gli elementi individuativi della illiceità
di tali situazioni nella parte in cui stabiliva che "E' considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fomite dall’appaltante, quand'anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante". La violazione di tale norma, siccome imperativa, determinava la nullità dei contratti
d'appalto e dei contratti di lavoro stipulati con la ditta appaltatrice ed i lavoratori da essa
dipendenti erano considerati a tutti gli effetti dipendenti dell’utilizzatore.
A tal fine, tuttavia, occorreva dimostrare la sostanziale inesistenza dell'impresa
appaltatrice e resistenza di una subordinazione di fatto rispetto all'imprenditore
appaltante.
A tal fine, in particolare, occorreva dimostrare che l'impresa appaltatrice era priva degli
elementi di cui all'art.1655 c.c. caratterizzanti l'appalto, e cioè: propri mezzi, capitali,
attrezzature ed organizzazione.
Allo stesso fine era altresì decisiva la presenta di una subordinazione di fatto del
lavoratore alle direttive dell'imprenditore appaltante nonché il suo impiego in mansioni
uguali a quelle del personale da esso dipendente.
La direziono del prestatore d'opera da parte dell'imprenditore, se da un Iato dimostrava
l'inesistenza del rapporto di lavoro subordinato tra questo e l'appaltatore o l'intermediario,
per altro verso dimostrava l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato di fatto con
l'utilizzatore.
Il d.lgs. n. 276 del 2003, nell’abrogare la legge n. 1369 del 1960, ha sostanzialmente
confermato, all’art. 29, l'illiceità dell'appalto di prestazioni di lavoro quando l'impresa
appaltatrice sia priva degli clementi. identificativi dell'appalto ai sensi dell'art. 1655 c.c.,
ed ha istituito, all'art. 20, quella forma di intermediazione legale denominata "contratto di somministrazione".
63
CAPITOLO XVI
Il Lavoro Somministrato
1. Dalla fornitura di lavoro temporaneo alla Somministrazione di lavoro Il divieto di appaltare manodopera, sancito dall'art.1 della legge n. 1369 del 1960,
rispondeva al principio storico secondo il quale "il lavoro non è una merce".
La disposizione di legge rendeva illecita qualsiasi forma di appalto di manodopera
attraverso la quale venivano sostanzialmente eluse tutte le tutele tipiche previste per il
lavoratore dipendente.
La convinzione che una modifica del mercato del lavoro con l'introduzione dell'appalto di
manodopera avrebbe avuto riflessi positivi sull'economia, diede luogo alla legge n. 196 del
1997 (Legge Treu), istitutiva del lavoro interinale e, sostanzialmente, di una forma legale
di appalto di manodopera caratterizzato dall'esistenza di un duplice rapporto
contrattuale; uno tra
l'utilizzatore e l'appaltatore, l'altro tra l'appaltatore ed il prestatore di lavoro.
Quest' ultimo, in particolare, pur prestando servizio sotto la direzione dell’utilizzatore,
costituisce un rapporto di lavoro subordinato con l'appaltatore e in tal modo acquisisce il
diritto alle tutele di legge in materia di rapporto di lavoro subordinato ed il diritto a
vedersi applicare le norme stabilite dalla contrattazione collettiva.
Il costo contrattuale dell’appalto è determinato dal costo contrattuale del lavoratore con
l'aggiunta di un utile per l'impresa appaltatrice.
Gli aspetti positivi del lavoro interinale — che ha determinato l'ingresso del privato nel
mercato del lavoro, ponendo fine al monopolio Statale, stanno nel fatto che l’utilizzatore
64
risparmia tempi e costi per una selezione, ha la garanzia della continuità delle
prestazione, in quanto l'appaltatore si impegna a sostituire le unità assenti, risparmia,
infine il periodo di prova ed alla fine del rapporto può anche assumere presso di sé, a
tempo indeterminato, il lavoratore la cui professionalità è stata verificata sul campo.
Il d.lgs. n. 276 del 2003 ha definitivamente rimosso ogni ostacolo all'appalto di
manodopera, abrogando la legge n. 1369 del I960, ribattezzando il lavoro interinale in
"contratto di somministrazione di lavoro" ed introducendo 3 fondamentali innovazioni:
a) la riscrittura della normativa che regola le agenzie di somministrazione, inserita nel
più ampio alveo di quella sulle agenzie del lavoro;
b) la ridefinizione dei presupposti di accesso all'istituto;
c) la legalizzazione della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato.
2. Il contratto di somministrazione di lavoro. Il contratto di somministrazione di lavoro è il contratto stipulato tra l’utilizzatore ed il
somministratore, in forza del quale i lavoratori somministrati, dipendenti del
somministratore, svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione ed il
controllo dell’utilizzatore.
In buona sostanza il contratto di somministrazione è quella forma di utilizzazione del
prestatore di lavoro che in altri tempi avrebbe determinato la costituzione di un rapporto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato direttamente con l'utilizzatore.
Il d.lgs. n. 276 del 2003 non esclude l'appalto di servizi, disciplinato dall'art.29,
caratterizzato dall'esistenza di un'impresa che utilizzi mezzi e capitali propri ed abbia una
sua organizzazione, e tuttavia esso legalizza le varie forme di intermediazione da un lato
disciplinando le attività delle agenzie per il lavoro e, dall'altro, stabilendo in quali casi
possa farsi ricorso al lavoro somministrato.
Le agenzie del lavoro sono innanzitutto sottoposte ad un regime di previa autorizzazione
amministrativa.
A tal proposito il d.lgs. n. 276 del 2003 ha istituito un apposito albo, presso il Ministero
del lavoro, eliminando i vincoli di oggetto sociale esclusivo per le agenzie di
somministrazione, nel senso che le agenzie del lavoro possono ora svolgere
indistintamente una o più delle attività di: somministrazione, intermediazione, ricerca
e selezione di personale, supporto alla ricollocazione professionale.
L'albo è articolato in 5 sezioni alle quali si iscrivono, rispettivamente:
a) le agenzie abilitate a svolgere tutte le attività di cui all'art. 20, comma 3, del d.lgs. n.
276 del 2003;
b) le agenzie abilitate a svolgere una soltanto delle attività di cui all'art.20, comma 3,
del d.lgs. n. 276 del 2003;
c) le agenzie di intermediazione;
d) le agenzie di ricerca e selezione del personale;
e) le agenzie di supporto per la ricollocazione professionale.
Il ricorso ai contratti di somministrazione di lavoro sono dalla legge limitati a situazioni
a carattere temporaneo o eccezionale, al pari delle altre causali di impiego di forme di
lavoro flessibile.
La durata del contratto di somministrazione, pertanto, è esclusivamente a termine,
essendo stata espressamente abolita (con la legge finanziaria del 2008 n°247/2007)
l'ipotesi del contratto di somministrazione a tempo indeterminato.
65
Il rapporto contrattuale del lavoratore (prestatore) con l’azienda somministratrice (agenzia)
può essere sia a termine che a tempo indeterminato.
Normalmente il lavoratore da somministrare viene assunto dell'azienda somministratrice
in occasione e per la durata del contratto di somministrazione; nel caso in cui questi
abbia con l’azienda somministratrice un contratto di più lunga durata (indeterminato),
resta a cario della stessa per tutto il periodo durante il quale non venga impiegato presso
un utilizzatore, con diritto ad una indennità di disponibilità pari al 20% della normale
retribuzione.
Le agenzie che si iscrivono all'albo devono essere in possesso dei determinati requisiti.
L'iscrizione avviene prima in via provvisoria e poi, dopo 2 anni, in via definitiva.
La somministrazione di lavoro a tempo indeterminato è ammessa per le attività elencate
all'art. 20, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003.
La somministrazione di lavoro a tempo determinato, comunque esclusa per la sostituzione
di lavoratori in sciopero, è ammessa "a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attività dell'utilizzatoere". Tale precisazione, riportata al successivo comma 4, porta a
concludere che per attività ordinarie diverse da quelle elencare al comma 3 - ferma
l'apertura finale a tutti i casi previsti dalla contrattazione collettiva - non è ammessa la
somministrazione di lavoro a tempo indeterminato.
I requisiti di forma del contratto di somministrazione (tanto a tempo indeterminato
quanto a tempo determinato) sono dettati dall'art. 21, il cui primo comma stabilisce che
esso sia stipulato in forma scritta, e debba contenere una serie di elementi ivi specificati
(fra le quali è compresa quella del "numero" dei lavoratori da somministrare, ma non
anche quella dei "nomi".
3. Il rapporto di lavoro somministrato. Il rapporto tra il prestatore ed il somministratore è un rapporto di lavoro subordinato a
tutti gli effetti.
Il contratto di lavoro è in genere stipulato in occasione di un contratto di
somministrazione e, tuttavia, non necessariamente ne segue la durata.
Nel contratto di somministrazione, infatti, non vanno indicati i nominativi dei lavoratori
impiegati ma solo le unità.
Nulla impedisce, pertanto, che più lavoratori siano impiegati, in periodi distinti e
consecutivi, a copertura di un contratto di somministrazione di più ampia durata rispetto
al periodo di utilizzazione individuale.
Viceversa nulla impedisce che il lavoratore stipuli con l'agenzia un contratto di lavoro a
tempo indeterminato per essere poi impiegato in somministrazioni a tempo determinato,
restando a disposizione dell'agenzia per i restanti periodi durante i quali ha diritto ad una
indennità di disponibilità di misura non inferiore al 20% della retribuzione base.
Le norme a tutela del lavoratore, ancorché non dipendente dall’utilizzatore, rimangono
sostanzialmente invariate in forza di un contratto di lavoro dipendente comunque
esistente.
Il lavoratore, in particolare, ha diritto al trattamento economico non inferiore a quello
66
spettante ai dipendenti dell’utilizzatore che svolgano uguali mansioni.
Il rapporto diretto tra utilizzatore e lavoratore sta nelle modalità di impiego di quest'
ultimo, che avviene secondo le direttive del primo, e per quanto attiene alle norme sulla
sicurezza che l'utilizzatore è tenuto ad applicare, in tal caso, anche nei confronti di
dipendenti non suoi.
Nel resto il rapporto di lavoro è gestito in tutto e per tutto dal somministratore, anche per
quanto attiene agli aspetti disciplinari.
Al termine della somministrazione, l’utilizzatore può assumere alle sue dirette dipendenze
il lavoratore somministrato; al tal proposito, infatti, la norma dispone la nullità di tutte le
clausole che impediscano una tale ipotesi, salvo che il somministratore non si sia
riservata l'esclusività del rapporto con il lavoratore pattuendo una adeguata indennità.
Come negli appalti, è prevista la responsabilità solidale tra utilizzatore e somministratore
nel caso di inadempienze m materia retributiva e contributiva.
Il lavoratore può dunque rivalersi sull’utilizzatore per suoi crediti retributivi e contributivi.
In tale ipotesi, intanto, l'utilizzatore non fa altro che pagare direttamente al lavoratore e
per il lavoratore le stesse somme altrimenti dovute al somministratore nell'ambito del
canone contrattuale.
4. Le sanzioni. La violazione delle norme regolanti la somministrazione di lavoro da luogo a sanzioni,
anche penali, e determina la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato
tra utilizzatore e prestatore.
Per il contratto di somministrazione, in particolare, è prevista la forma scritta, mancando
la quale il lavoratore è considerato a tutti gli effetti dipendente dell’utilizzatore.
In tutti gli altri casi di irregolarità, ad es. quando la somministrazione è stata effettuata
da impresa non regolarmente autorizzata; ha riguardato un numero di lavoratori
eccedente quello indicato in contratto; è stata effettuata con violazione dell'obbligo di
valutazione dei rischi inerenti alla salute ed alla sicurezza dei lavoratori, e di adozione
delle consequenziali misure di prevenzione; è stata effettuata al di fuori dei termini
temporali previsti nel contratto ecc., il lavoratore può chiedere al giudice la costituzione
del rapporto di lavoro a tempo determinato, ferme restando le sanzioni amministrative, di
natura pecuniaria, a carico sia del somministratore che dell’utilizzatore.
Inoltre sono previste sanzioni di natura penale, sia a carico dell'utilizzatore che a carico
del somministratore, quando essi siano abusivi o irregolari, nel caso di sfruttamento di
minori e quando la somministrazione sia stata posta in essere per eludere norme di legge
inderogabili o norme contrattuali.
Per qualunque altro vizio, tanto genetico quanto funzionale (ad es. per inadempimenti
commessi dal somministratore o dall'utilizzatore, relativamente ai loro rispettivi obblighi
contrattuali), non è prevista una specifica sanzione civile, fatti però salvi, ovviamente,
67
l'ordinario rimedio dell'azione di responsabilità contrattuale.
PARTE QUINTAPARTE QUINTAPARTE QUINTAPARTE QUINTA
I RAPPORTI DI LAVORO SUBORDINATOI RAPPORTI DI LAVORO SUBORDINATOI RAPPORTI DI LAVORO SUBORDINATOI RAPPORTI DI LAVORO SUBORDINATO
CAPITOLO XVII
Contratti di Lavoro e Autonomia Individuale
1. L’Integrazione Eteronoma del Contratto di Lavoro Il contratto individuale di lavoro, pur rientrando nel novero degli atti bilaterali che
normalmente sono espressione della volontà delle parti, lascia invece ai contraenti uno
scarso margine di autonomia in quanto è regolato da norme estranee al rapporto o
comunque superiori ad esso.
Il contratto di lavoro è, pertanto, un contratto ad integrazione eteronoma che deve
sottostare, ai sensi dell'art. 1374 c.c., alle leggi regolanti il rapporto di lavoro nonché alle
norme della contrattazione collettiva.
Tali norme si inseriscono nel rapporto tra le parti, a protezione della parte contraente
debole, ossia del lavoratore, formando quel complesso di regole cui devono
obbligatoriamente uniformarsi i contratti individuali.
Lo stato di soggezione del contratto individuale alla legislazione del lavoro ed alla
contrattazione collettiva è tale che, ove tali norme mutino nel tempo, il contratto di lavoro,
ancorché antecedente al mutamento, è automaticamente adeguato a tali norme. In altre
parole non sussistono, in tale ipotesi, i cosiddetti diritti quesiti per cui, quand' anche le
nuove norme prevedano modificazioni in peius, il rapporto di lavoro non resta esente dai
68
relativi effetti.
2. Imperatività e inderogabilità delle norme legali e collettive. L'integrazione eteronoma del contratto individuale non opera solo nel senso di colmare i
vuoti, ai sensi dell'ari 1374 c.c., ed inserendo nel rapporto quelle clausole derivanti
direttamente da fonti superiori inderogabili, bensì anche nel senso di precludere clausole
contrattuali, ancorché definite di comune accordo tra le parti, che siano difformi dalla
normativa soprastante al rapporto.
La prevalenza della legge rispetto alle clausole contrattuali è assolutamente indiscutibile.
Tale prevalenza è prevista dall'ari 1418 c.c. , il cui primo comma sancisce la nullità di
ogni clausola contrattuale contraria a norme imperative, quali sono, appunto, quelle in
materia di lavoro.
In tale ipotesi, ai sensi del secondo comma dell'art. 1419 c.c., le clausole difformi alla
legge
sono automaticamente sostituite da quelle legali.
Da ciò consegue la derogabilità delle norme imperative in materia di lavoro solo se a
favore del lavoratore.
Tali norme, infatti, stabiliscono la misura minima delle garanzie e delle tutele a favore dei
lavoratori, misure minime al di sotto delle quali non possono andare ne i datori di lavoro
ne gli stessi lavoratori, e, pertanto, non precludono la pattuizione di clausole migliorative
rispetto alle dette misure minime.
La norma codicistica, in particolare, vieta le deroghe peggiorative per il lavoratore ma non
anche quelle migliorative.
A ciò consegue l'inderogabilità dei diritti del lavoratore e, viceversa, la derogabilità dei suoi
doveri, ossia dei diritti del datore di lavoro.
La stessa cosa avviene nel rapporto tra contratto individuale e contrattazione collettiva, in
forza dell'art. 2077 c.c., secondo il quale le clausole dei contratti individuali difformi dalle
clausole della contrattazione nazionale sono da esse sostituite di diritto, salvo che non
siano di maggior favore per il lavoratore.
Anche in tale ipotesi, la deroga è ammessa in senso migliorativo ed è esclusa in senso
peggiorativo, anche se il contratto individuale è stato stipulato prima dei contratti
collettivi con i quali contrastano.
La norma codicistica, tuttavia, è di natura corporativa, improntata cioè ad una concezione
pubblicistica del contratto collettivo, sicché taluni hanno messo in dubbio la sua
applicabilità ai contratti collettivi post-costituzionali che restano di diritto comune in
conseguenza della non attuazione della seconda parte dell'art. 39 della Costituzione e, per
altro verso, si discute anche dell'eccessiva limitazione dell' autonomia individuale.
3. Rinunce e transazioni su diritti del lavoratore. In presenza di norme imperative e di norme contrattuali anch'esse non derogabili, le
eventuali clausole del contratto individuale di lavoro da esse difformi sono nulle ed
improduttive di effetti.
La rigidità del sistema priverebbe le parti di una benché minima autonomia e se il
lavoratore riceve da tale sistema una protezione ad ampio raggio, non resta esclusa
69
l'ipotesi che egli possa rinunciare ad alcuni suoi diritti e non perché costrettovi dalla
controparte bensì nell'esercizio dell'autonomia che in tal senso il medesimo sistema
consente.
L'art. 2113 c.c. sancisce infatti l'invalidità (annullabilità), ma non la nullità, di rinunce e
transazioni che abbiano ad oggetto diritti del lavoratore.
La norma codicistica, al di là della funzione protezionista della normativa di settore, non
esclude che il lavoratore possa rinunciare o transigere su alcuni suoi diritti e non esclude
che tali rinunce o transazioni conservino l'effetto voluto, giacché prevede che tale
invalidità non ricorre quando rinunce e transazioni avvengano in sede di conciliazione o di
componimento bonario di controversie di lavoro.
A tal proposito, intanto, lo stesso art. 2113 c.c. prevede che l’azione tesa ad ottenere
l'invalidità di rinunce e transazioni debba essere intentata, con un qualsiasi atto idoneo a
manifestare la volontà in tal senso del lavoratore e non necessariamente con un ricorso al
giudice, nei 6 mesi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro ovvero, se la rinuncia
o la transazione risalgono ad una data successiva alla cessazione, entro 6 mesi da tale
data.
Il termine di 6 mesi ivi previsto è di natura decandenziale, nel senso che se l'azione non
viene avviata prima della scadenza, il lavoratore perde ogni diritto ad agire.
Esso è comunque fissato al di fuori del rapporto di lavoro, sul presupposto che in
costanza di rapporto di lavoro il lavoratore trovasi in una posizione di soggezione, anche
psicologica, nei confronti della più forte parte datoriale, e non esclude che il lavoratore
decida di non avvalersene.
In tale ultima ipotesi la rinuncia o la transazione sui propri diritti da parte del lavoratore
conserva la sua efficacia e le relative clausole non sono più invalidabili.
Non di meno eventuali rinunce e transazioni possono dispiegare una certa efficacia anche
quando l'azione sia stata avviata nei termini e prosegua normalmente. Se, infatti, la
questione è portata alla cognizione del giudice, è ben ipotizzabile una sentenza di
condanna, ma se la questione si esaurisce in sede conciliativa, le rinunce possono anche
restare in parte operanti.
Lo stesso art. 2113 c.c., infatti, con espresso rinvio agli articoli 185, 410 e 411 c.p.c.,
stabilisce che non sussiste invalidità per quelle rinunce o transazioni accettate in fase di
conciliazione di una controversia di lavoro.
L'invalidità, in particolare, non ha luogo quando le rinunce o le transazioni siano
stipulate:
a) con l'assistenza di associazioni sindacali;
b) davanti alla Commissione provinciale di conciliazione;
c) davanti al giudice;
d) davanti alle Commissioni di certificazione di cui all’art. 76 del d.lgs. n.276 del 2003,
ai sensi dell’art. 82 dello stesso decreto legislativo.
70
CAPITOLO XVIII
Rapporti di Lavoro:
Modello Tipico e Figure Speciali
1. La frammentazione della disciplina standard Per anni s'è ritenuto che il modello tipico del rapporto di lavoro fosse esclusivamente
quello instaurato tra un imprenditore privato ed un lavoratore maschio adulto, impiegato
o operaio, occupato a tempo pieno ed assunto a tempo indeterminato.
Conseguentemente s'è visto un carattere di specialità nella altre forme di rapporto di
lavoro, anche in relazione al fatto che esse erano sovente accompagnate da una specifica
disciplina.
2. Le figure della specialità. In relazione alla figura standard storica del rapporto di lavoro, il carattere di specialità è
rinvenibile in tutti i casi in cui non ricorrano, congiuntamente, tutti gli elementi ritenuti
tipici del rapporto di lavoro; in particolare:
a) rispetto al datore di lavoro si ravvisa carattere di spedalità in quelle norme che
operano una differenziazione in relazione alla dimensione dell'impresa, quali quelle
riguardanti l'assunzione obbligatoria dei disabili, o alla qualità del datore di lavoro,
quali quelle regolanti il rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche.
Per quanto riguarda quest’ultimo, numerose sono le eccezioni ad un'integrale
applicazione al lavoro pubblico delle leggi lavoristiche; numerose sono, insomma, le
71
sacche di perdurante specialità.
All'origine di tale specialità, v'è l'ovvio dato che mentre un imprenditore privato è
libero nella sua azione, pur dovendo rispettare i diritti dei lavoratori, e più in
generale i limiti esterni della libertà, sicurezza e dignità umana, la pubblica
amministrazione non è libera nei fini, bensì è vincolata dai fini di volta in volta posti
dalle leggi che regolano i vari campi della sua azione, e in via generale dal principio
di buon andamento e di imparzialità dell'azione amministrativa.
Le conseguenze di tale fondamentale diversità si manifestano a vari livelli della
disciplina: ad es. nell'obbligo di assumere mediante concorsi, o nel regime delle
mansioni, che esclude meccanismi di promozione dei lavoratori a seguito
dell'esercizio di fatto di mansioni superiori, ostandovi il rispetto della dotazione
organica predisposta da leggi o regolamenti.
b) rispetto al lavoratore rivestono carattere di specialità, ad esempio, quelle norme
applicabili soltanto ad alcune categorie, quale quella dei dirigenti, o riguardanti
specifiche categorie professionali, quali i ferrotranvieri, ma i caratteri della specialità
possono intravedersi anche in quelle norme che tutelano particolari categorie di
lavoratori (donne, minori, giovani) o particolari posizioni di lavoro (maternità,
inabilità);
c) rispetto al tempo della prestazione hanno carattere di specialità i rapporti di
lavoro non a tempo pieno e, pertanto, i rapporti di lavoro a tempo parziale nonché
intermittente e ripartito, previsti dal d.lgs. n. 276 del 2003;
d) rispetto alla durata del rapporto hanno carattere di specialità i rapporti di lavoro a
tempo determinato ora disciplinati dal d.lgs.368/2001.
Ma ve ne sono anche altre, come il contratto di lavoro somministrato, quando è
stipulato a termine (il cui regime presenta, infatti, alcune particolarità), il contratto
di inserimento e il contratto di apprendistato.
72
CAPITOLO XIX
La Costituzione del Rapporto
1. Contratto di lavoro e Capacità Il contratto di lavoro è quell’atto tra privati nel quale si incontra, come in tutti i contratti,
la volontà delle parti.
Per la stipula del contratto di lavoro è richiesta oltre all’ordinaria Capacità di Agire, anche
una capacità giuridica speciale che si acquista al compimento del 15° anno d'età.
Una maggiore età è prescritta per i lavori faticosi e per l'accesso al pubblico impiego (18
anni).
La normativa speciale (L.977/1967) stabilisce particolari protezioni per l’impiego al
lavoro di bambini (minori di 15 anni) e adolescenti (in età compresa tra i 15 ed i 18 anni).
2. Nullità e annullabilità del contratto di lavoro. Il contratto di lavoro, una volta stipulato, è soggetto all'ordinaria sanzione della nullità,
ove sia stato stipulato in violazione di norme imperative, ed è altresì annullabile per
incapacità naturale o per vizi della volontà (errore, violenza o dolo) di uno dei contraenti.
Gli effetti della nullità e dell'annullabilità sono disciplinati, tuttavia, in modo divergente
rispetto al diritto civile comune, per finalità di protezione del lavoratore coinvolto in detti
contratti.
La nullità e l'annullabilità del contratto di lavoro retroagiscono alla data di stipulazione
lasciando tuttavia indenni taluni diritti fino a quel momento maturati.
Ai sensi dell'art. 2126 c.c., infatti, il prestatore di lavoro ha comunque diritto alla
retribuzione per il lavoro fino a quel momento svolto, in quanto la norma prevede che
73
la nullità e l'annullabilità del contratto "non producono effetti per il periodo in cui il
rapporto ha avuto esecuzione".
L'effetto non retroattivo della nullità o dell'annullamento del contratto patisce però
un'eccezione: essa si ha, sempre a norma del primo comma, quando la nullità del
contratto "derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa" (ad es., un contratto di lavoro
stipulato per lo svolgimento di una attività criminale).
Il secondo comma dell'ari. 2126 contiene, infine, un'eccezione all'eccezione.
Se l'illiceità dell'oggetto o delta causa scaturisce dalla violazione di norme poste a tutela
del prestatore di lavoro, questi ha, in ogni caso, diritto alla retribuzione.
Così, nell'esempio di un contratto "criminale", è ovvio che la nullità nasce dal divieto
generale di commettere crimini; ma se alla base v'è stata violazione di norme finalizzate a
tutelare l'interesse del lavoratore, onde evitare che egli rimanga doppiamente leso, gli si
garantisce, quantomeno, il diritto alla retribuzione.
3. Il patto di prova, La costituzione di un rapporto di lavoro è normalmente subordinata ad un periodo di
prova la cui previsione, ai sensi dell'art. 2096 c.c., deve risultare da atto scritto.
In mancanza di tale clausola, il rapporto di lavoro si intende costituito in via definitiva fin
da subito.
Il periodo di prova consente all'imprenditore di valutare la professionalità del lavoratore e,
a quest'ultimo, di valutare l'accettabilità delle condizioni di lavoro.
Il periodo di prova, la cui durata è normalmente stabilita in sei mesi, salvo quanto
stabilito dalla contrattazione collettiva, ha un regime tutto particolare, in quanto fino alla
sua scadenza le parti possono recedere dal contratto senza preavviso o indennità, salvo
che non sia stabilito un tempo minimo prima del quale la facoltà di recesso non può
essere esercitata.
Superato il periodo di prova, intanto previsto anche per la costituzione dei rapporti di
lavoro a termine, l'assunzione diventa definitiva.
74
CAPITOLO XX
Il Rapporto di Lavoro: Diritti, Poteri, Obblighi
1. Libertà imprenditoriale e Contratto di lavoro Il rapporto di lavoro è caratterizzato dal fatto che una della parti contraenti è un
imprenditore (ma ad esso è equiparato qualsiasi datore di lavoro pubblico o privato), ossia
il titolare di un'attività organizzata che egli può avviare, gestire, cedere o cessare in tutto o
in parte in piena libertà.
La libertà d'impresa, che è sancita dall'art.41 della Costituzione, trova limite solo nel fatto
che essa, oltre che lecita, non deve arrecare danni ad altri, di qualsiasi natura.
Ciò significa che l'imprenditore ha la più ampia libertà nell’assumere decisioni che in
taluni casi hanno sicure ripercussioni sulla posizione del lavoratore da esso dipendente.
Pertanto il rapporto obbligatorio del contratto di lavoro non si esaurisce, come nella
generalità dei contratti a prestazioni corrispettive, nella predefinizione di diritti e
corrispettivi doveri, bensì risente, in modo dinamico, del potere datoriale di modificare
la posizione del lavoratore.
E se il lavoratore è protetto dalle norme lavoristiche e da quelle della contrattazione
collettiva, l'esercizio del potere datoriale e, correlativamente, gli obblighi del lavoratore
trovano specifico riferimento negli articoli 2104 e 2105 c.c.
Tali obblighi consistono nell'osservare e nell'eseguire con diligenza le disposizioni del
datore di lavoro e dei suoi collaboratori, gerarchicamente sovraordinati al lavoratore,
nonché nell’astenersi da attività dannose per l'impresa.
L'inosservanza di tali obblighi da luogo alle sanzioni di disciplinari di cui al successivo
art. 2106.
75
2. L'obbligo di diligenza. A norma dell’art.2094 c.c., il primo obbligo del lavoratore è quello di prestare la sua
attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.
L’art.2104 I°co. c.c. precisa che tale attività deve essere prestata con diligenza,
nell'interesse dell'impresa nonché di quello superiore della produzione nazionale.
A tal proposito si considerano i 3 diversi aspetti del’obbligazione, e cioè:
a) il primo è quello della normale diligenza, che caratterizza qualsiasi rapporto
obbligatorio, e che, tuttavia, in tal caso è richiesta in relazione alla specializzazione o
alla particolarità della prestazione, di tal che la media diligenza non è quella
semplicisticamente richiesta al buon padre di famiglia bensì quella "media" rispetto
alla specifica professionalità e posizione di lavoro;
b) l'altro è quello riguardante l'interesse a favore del quale il prestatore di lavoro deve
usare la sua diligenza; tale interesse è quello dell'impresa, ossia dell’imprenditore, e
non potrebbe essere altrimenti atteso che quest'ultimo ha reclutato il lavoratore in
funzione degli obiettivi che con la sua impresa intende perseguire;,
c) l'ultimo aspetto è quello riguardante il superiore interesse della produzione nazionale a favore del quale il prestatore deve usare la medesima diligenza.
E' evidente che la normale e media diligenza, intesa nel senso più ampio, ricomprende
tutte e 3 gli aspetti sopra elencati, in quanto il prestatore di lavoro diligente non può non
operare nell'interesse dell'impresa dalla quale dipendente e quest'ultima, a sua volta, non
può non esercitare la sua attività nell'interesse della produzione nazionale.
3. Il potere direttivo e il dovere di obbedienza. L'obbligo del prestatore di lavoro non si esaurisce nell'esecuzione del lavoro con la
normale diligenza.
Il secondo comma dell'ari 2104 ex. prevede, infatti, che egli debba altresì "osservare le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende". Tale previsione è in stretta correlazione con l'art. 2094 c.c., laddove è definita la figura del
lavoratore subordinato, ed è confermativa della posizione preminente del datore di lavoro,
dell'inserimento del lavoratore in un contesto produttivo organizzato e, quindi, del suo
obbligo di eseguire non solo le direttive inerenti alle modalità di svolgimento del lavoro ma
anche di rispettare le regole interne di organizzazione, la cui disattenzione arrecherebbe
pregiudizio al buon andamento dell'impresa.
Tale obbligo è sinteticamente definito e conosciuto come "dovere di obbedienza". La posizione preminente dell'imprenditore e, correlativamente, di soggezione del lavoratore
emerge, altresì, dal potere datoriale di determinare le mansioni cui adibire il lavoratore, in
quanto se l'imprenditore non specifica le mansioni che il lavoratore deve svolgere,
nell'ambito della sua competenza professionale, non può aversi una quadro
preciso delle modalità con le quali egli deve adempiere alle direttive datoriali (Potere
Direttivo).
La disattenzione dell'obbligo di obbedienza integra gli estremi della cosiddetta
"insubordinazione" sanzionabile in sede disciplinare. I
4. L’obbligo di fedeltà. L'art. 2105 c.c. sancisce, poi, l'ulteriore obbligo della fedeltà riferibile
76
soltanto ai due aspetti precisati dalla stessa norma, e cioè:
• Obbligo di non concorrenza: il divieto di trattare affari per conto proprio o per
conto di terzi nello stesso ambito di attività dell'impresa avvalendosi di notizie
riguardanti la medesima impresa e delle quali è in possesso in relazione alla sua
posizione lavorativa, così favorendo la concorrenza sleale in danno dell'impresa dalla
quale dipende;
• Rivelazione di degreti industriali: il divieto di divulgare notizie riguardanti le
modalità organizzative e produttive dell'impresa o, comunque, di farne uso in modo
da arrecare ad essa pregiudizio.
La violazione di tali obblighi può dar luogo alle ipotesi di concorrenza sleale e di
spionaggio industriale, con conseguenze anche penali.
5. Il patto di non concorrenza. L'obbligo di fedeltà, che impone di non favorire la concorrenza nei confronti del datore di
lavoro, può estendersi anche a periodi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro.
La fattispecie è disciplinata dall'art. 2125 c.c. che prevede, appunto, il "patto di non concorrenza", ossia quella clausola contrattuale in base alla quale il prestatore di lavoro,
in
cambio di un adeguato compenso, si impegna a non prestare attività lavorativa per un
determinato lasso di tempo dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Il patto deve essere obbligatoriamente in forma scritta, essendo altrimenti nullo, e non
può prevedere periodi di inattività superiori a 5 anni per i dirigenti ed a 3 anni per gli altri
dipendenti.
Ove il patto preveda un periodo di inattività più lungo di quello stabilito, esso si intende
automaticamente ridotto a quello stabilito dallo stesso art. 2125.
Il periodo di inattività deve essere adeguatamente compensato, non potendosi
diversamente ammettere una limitazione al diritto costituzionale di avere un' occupazione
lavorativa.
Nel caso di violazione del patto, il lavoratore deve risarcire il danno arrecato all’impresa,
salvo che il patto non preveda già da sé una clausola penale.
77
CAPITOLO XXI
Inquadramento, Mansioni, Trasferimento
1. L’Inquadramento dei lavoratori: Classificazione per Categorie e Classificazione per Qualifiche Il contenuto della prestazione di lavoro consiste in una serie di compiti che sono in linea
di massima descritti nel contratto individuale di lavoro e vengono in dettaglio definiti dal
datore di lavoro attraverso le sue direttive.
Una prima individuazione delle mansioni avviene sulla base delle categorie di cui all’art.
2095 c.c. e quindi, più in dettaglio, delle qualifiche (o figure professionali). L'individuazione della categoria e della qualifica cui corrisponde la prestazione
professionale del lavoratore determina il suo "inquadramento" secondo l'ordinamento
professionale e nell'organizzazione dell'azienda.
All'inquadramento e correlato il trattamento economico.
Classificazione per Categorie: Una prima classificazione delle categorie cui sono
ascrivibili le mansioni dei lavoratori subordinati e contenuta nell'art. 2095 c.c., secondo il
quale tali lavoratori sono suddivisi in: dirigenti, quadri, impiegati ed operai.
La norma rinvia poi alle leggi ed alle norme corporative — e, quindi, ai contratti collettivi
di lavoro — la determinazione dei requisiti di appartenenza alle diverse categorie.
• La categoria dei dirigenti è quella di più elevato livello professionale cui corrisponde
anche il più elevato livello retributivo.
Il dirigente è quello investito di competenze e responsabilità decisionali nei confronti
dell’azienda o di un ramo autonomo di essa, e per questo è la figura di lavoratore
78
dipendente più vicina all'imprenditore e spesso rappresenta la controparte del
sindacato dei lavoratori dipendenti.
I dirigenti, infatti, hanno propri sindacati ed hanno contratti collettivi distinti da
quelli degli altri lavoratori dipendenti.
Il rapporto di lavoro e prevalentemente su base fiduciaria e per questo e per lo più a
tempo determinato e non esclude la facoltà di recesso unilaterale, da ambo le parti,
senza condizioni o conseguenze particolari.
• I quadri costituiscono la categoria immediatamente inferiore a quella di dirigenti e
rappresentano il più alto livello dei lavoratori non dirigenti.
La categoria dei quadri venne istituita con la legge n. 190 del 1985 e rappresenta
quella classe di lavoratori aventi un maggior grado di professionalità, tale, cioè, da
distinguersi da impiegali ed operai, spesso aventi competenze simili a quelle della
dirigenza ma senza poteri decisionali.
I quadri hanno tentato di ottenere una propria autonomia contrattuale, al pari dei
dirigenti, ma senza riuscirvi.
Dunque, i Quadri hanno ottenuto il solo riconoscimento legale ad opera della già
citata L.190/1995, anche se tale riconoscimento è stato solo simbolico, visto che ad
esso non è seguita la delineazione di uno speciale Statuto Giuridico di Categoria.
Ciò è dimostrato dal fatto che al Quadro, salvo diversa disposizione, si applicano le
norme riguardanti la categoria degli Impiegati.
A tale omogeneità di condizione fanno eccezione alcune marginali ipotesi; l'obbligo
del datore di lavoro di assicurare il quadro (come già il dirigente) contro il rischio di
responsabilità civile verso terzi, conseguente a colpa nello svolgimento delle proprie
mansioni contrattuali, ed un regime particolare per l'ipotesi di assegnazione di
mansioni superiori.
• Gli impiegati costituiscono, insieme agli operai, la gran massa dei lavoratori
subordinati; essi, i cosiddetti "colletti bianchi", si contraddistinguono dagli operai
in quanto impiegati con mansioni di tipo intellettuale, richiedenti un certo grado di
cultura, e certamente non manuali.
• Gli operai costituiscono l'altra classe storica dei lavoratori subordinati, i cosiddetti
"colletti blu", che si contraddistinguono per la manualità delle loro competenze di
lavoro.
Inizialmenti gli Impegati e gli Operai costituivano 2 categorie distinte, ma col tempo si è
avuto un riassorbimento di tale separazione; a ciò ha contribuito la legge che ha
eliminato quasi tutte le differenze di trattamento esistenti tra le 2 categorie, e la
contrattazione collettiva che negli anni ’70 ha optato per l’Inquadramento unico.
Classificazione per Qualifiche: Alla classificazione per categorie si aggiunge una
classificazione per qualifiche, cui provvede la contrattazione collettiva attraverso la descrizione delle mansioni specifiche (declaratorie di qualifica).
Categorie e qualifiche costituiscono una griglia sulla base della quale viene effettuato
l'inquadramento del lavoratore, ossia la sua collocazione funzionale nell'azienda in base
alla coincidenza delle mansioni con le qualifiche previste nell'ambito delle categorie.
79
I contratti collettivi definiscono, infine, i livelli retributivi, in genere in numero di setto
o otto, in base ai quali è determinato il trattamento economico delle singole posizioni di
lavoro.
Ai livelli retributivi più elevati si trovano le qualifiche appartenenti alla categoria dei
quadri ed a quelli più bassi, ma senza un eccessivo divario, le qualifiche appartenenti
alla categoria degli operai.
2. I Limiti allo ius variandi del datore di lavoro Lo ius variandi è il diritto del datore di lavoro di impiegare diversamente il lavoratore.
Questo potere, tuttavia, non può essere esercitato in modo indiscriminato.
In assenza di categorie, qualifiche e livelli retributivi ed in assenza di norme a garanzia
della posizione di lavoro, il datore di lavoro avrebbe potuto utilizzare il lavoratore a suo
piacimento in qualsiasi mansione.
Prima del 1970 lo ius variandi non conosceva limiti, per cui il datore di lavoro era libero di
declassare professionalmente il lavoratore.
L’art.13 dello Statuto ha modificato tale situazione, apportando delle modifiche
all’art.2103 c.c.
Quest’ultimo sancisce il diritto del lavoratore ad essere adibito:
• alle mansioni per le quali e stato assunto, ovvero,
• a quelle della categoria superiore successivamente acquisita, ovvero,
• a quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
In ordine alle mansioni la norma prevede, in buona sostanza, una sorta di stabilità e
continuità nelle modalità di impiego del lavoratore ma non esclude un margine di
esercizio dello ius variandi, con ogni garanzia in termini di trattamento economico.
Il datore di lavoro, infatti, può variare l'impiego del lavoratore purché nell'ambito di
mansioni equivalenti e per tali si intendono non semplicemente quelle di pari livello
retributivo bensì quelle che siano compatibili con la professionalità del lavoratore,
ancorché acquisita in azienda.
A tal proposito la giurisprudenza ha elaborato una sorta di "diritto del lavoratore a lavorare", ossia di esprimere la sua professionalità, di tal che si considera
demansionamento anche l'assegnazione a mansioni che non tengano conto di tale
professionalità.
L'esercizio dello ius varìandi è perciò vietato in senso peggiorativo, e come tale è da
intendersi anche il caso in cui sia mortificata la professionalità del lavoratore allorquando
l'equivalenza sia ricercata soltanto sulla base di parametri economici.
Viceversa, l’esercizio dello ius variandi è ammesso in senso migliorativo; infatti, è
ammesso l’impiego del lavoratore in mansioni superiori, con diritto non solo alla maggiore
retribuzione ma anche all’inquadramento nella superiore qualifica o categoria, quando tali
mansioni si protraggono per un periodo di 3 mesi o comunque per il periodo stabilito
dalla contrattazione collettiva.
Quindi il periodo di 3 mesi è stabilito dalla stessa legge (art.2103 c.c.), ma tale termine
potrebbe essere derogato dalla contrattazione collettiva, la quale potrebbe prevedere un
termine minore o superiore per poter accedere alla qualifica superiore.
80
Un es. è dato dall’art.6 della L.190/1985 che per l’accesso alla categoria dei Quadri e dei
Dirigenti consente la previsione (per contratto collettivo) di un termine eccedente quello
legale, sul presupposto che per accedere a tali più elevate categorie sia giusto richiedere
un periodo più lungo di training.
Trascorso il periodo come sopra determinato, il lavoratore acquisisce in via definitiva il
livello contrattuale superiore e non può più essere retrocesso.
L'unica eccezione a tale regola si da nel caso in cui l'assegnazione alla mansione superiore
sia avvenuta per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto
(ad esempio, in malattia): in tale ipotesi il limite dei 3 mesi non opera e l'assegnazione può
durare anche più a lungo, senza che maturi il diritto all'inquadramento definitivo nel
livello superiore.
Non costituisce demansionamento l'impiego in mansioni di livello inferiore del lavoratore
divenuto inabile alle proprie mansioni — tenuto altresì conto che in tale ipotesi non si ha
riduzione del trattamento economico — nonché l'accettazione di mansioni di livello
inferiore per evitare licenziamenti collettivi.
3. Il trasferimento. L'assunzione del lavoratore presuppone la sua collocazione in una determinata sede di
lavoro.
Può, tuttavia, presentarsi l'esigenza di modificare tale collocazione e, quindi, di assegnare
il lavoratore ad una diversa sede, ossia di trasferirlo ad un'altra unità produttiva della
stessa azienda.
In tal caso lo ius variandi viene esercitato in termini di mutamento della collocazione e
non delle mansioni di lavoro; la fattispecie è regolata dallo stesso art. 2103 c.c. il quale
prescrive che il trasferimento del lavoratore può essere disposto solo in presenza di
comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Ne consegue che il trasferimento può essere sindacato solo quando manchino tali ragioni
o quando manchi il nesso di causalità con esse e, pur tuttavia, senza giudicare le scelte di
merito a monte che abbiano determinato tali ragioni, rientrando esse nell'autonomia
dell'imprenditore protetta dall'art.41 della Costituzione.
81
CAPITOLO XXII
Orario e Riposi
1. Profili generali e Fonti La durata della prestazione lavorativa giornaliera e settimanale è uno degli elementi
caratterizzanti il rapporto di lavoro subordinato.
La previsione di limiti a tale durata e, correlativamente, di periodi di riposo dall'attività
lavorativa, rispondono all'esigenza di tutelare l'integrità fisica del lavoratore e di
consentirgli la partecipazione alla vita sociale e familiare.
Le conquiste sociali hanno determinato una graduale riduzione dell'orario di lavoro, anche
nella prospettiva di aumentare l'occupazione sul presupposto di "lavorare meno per
lavorare tutti", ma l’unico effetto concreto di tale riduzione è stata la diminuzione della
capacità produttiva; è per questo che recentemente è stata sostenuta la tesi opposta,
secondo la quale gli orari italiani ed europei sono troppo ridotti, e questo sarebbe uno dei
fattori della scarsa crescita delle economie europee.
Dalla Costituzione (art. 36 co. 2) si ricava, anzitutto, la necessità di stabilire, per legge, un
limite alla durata massima della giornata lavorativa.
Le prime disposizioni di legge in materia di orario di lavoro risalgono al r.d.l. n. 692 del
1923, che fissava in 48 ore settimanali ed in 8 ore giornaliere i relativi limiti.
L'art.2107 c.c. ha semplicemente stabilito che la durata della prestazione lavorativa, sia
settimanale che giornaliera, non può eccedere i limiti stabiliti dalla legge speciale o dalle
82
norme corporative. La norma codicistica confermava, in tal modo, la competenza della
legge alla fissazione di un limite massimo alla durata della prestazione lavorativa, facendo
salva la contrattazione collettiva che avrebbe potuto stabilire durate inferiori ma non
superiori a quelle legali.
Per decenni, il quadro legislativo è rimasto ancorato alla legge del 1923, rimettendosi in
movimento soltanto quando, nel 1993, è stata adottata la direttiva CE n. 104 del
Consiglio dell'Unione Europea, concernente "taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario
di lavoro", che ha suggerito la necessità di una riforma organica della disciplina, ma il cui
processo traspositivo è stato faticoso.
Una prima revisione si è avuta con l'art. 13 della legge n. 196/1997, che ha introdotto un
orario normale settimanale di 40 ore.
Ma, in seguito, per ragioni politico-sindacali, il processo di riforma si è arenato,
rimettendosi in moto soltanto nella scorsa legislatura, ed approdando al d.lgs. 8 aprile
2003 n. 66, che ha accorpato in un unico testo, per la prima volta, la disciplina dell'orario
di lavoro e quella dei riposi; con abrogazione di tutte le disposizioni precedenti, ivi
compreso l'art. 2107 c.c.
Il decreto ha rispettato, altresì, il ruolo tradizionalmente assegnato alla contrattazione
collettiva come fonte della disciplina del- l'orario, al punto di devolvere ad essa anche
numerose facoltà di deroga "in peius" agli orari legali.
2. L’Orario Normale e Massimo settimanale L'orario normale di lavoro rappresenta la misura dell'estensione temporale ordinaria
della prestazione lavorativa, e quindi, di conseguenza, il limite temporale oltre il quale le
prestazioni cessano di essere "ordinarie" e divengono "straordinarie”.
Quindi, l’orario normale di lavoro è quello non comprensivo delle ore di Straordinario.
Quest’ultimo, invece, è l’orario massimo settimanale.
La prima legge in materia di orario di lavoro, il r.d.1. n. 692, risale al 1923; essa limitava
a 48 ore settimanali e ad 8 ore giornaliere la durata massima della prestazione lavorativa.
La norma limitava anche il lavoro straordinario a 12 ore settimanali, di tal che l'orario
lavorativo massimo complessivo settimanale non poteva eccedere le, 60 ore.
L'orario di lavoro era ovviamente stabilito nella sua misura massima, in quanto la
contrattazione collettiva, da sempre abilitata a derogare alla legge in senso
migliorativo, poteva stabilire limiti inferiori.
Solo nel 1997 c'è stata una riduzione a 40 ore dell'orario di lavoro settimanale, ad opera
della legge n. 196.
Dunque, con la riduzione a 40 ore dell’orario ordinario (normale), la prestazione lavorativa
massima (orario massimo) è stata ridotta a 52 ore settimanali (40+12).
La stessa legge 196/1997 introdusse il criterio della media su base annua (Flessibilità),
nel senso di consentire che la durata dell'orario di lavoro ordinario settimanale possa
essere ridotta o aumentata purché in media non ecceda le 40 ore o la diversa durata
stabilita dalla contrattazione collettiva.
83
Attualmente, la norma vigente in materia è il d.lgs n.66/2003, il quale ha confermato le
disposizioni della L.196/1997.
In particolare, la normativa vigente:
a) ha confermato il limite delle 40 ore settimanali (Orario Normale);
b) ha fissato il limite massimo, comprensivo dello straordinario, in 48 ore, anzichè in
52;
c) ha confermato il Criterio della Flessibilità nella determinazione dell’orario di
lavoro; in particolare tale norma consente il superamento del limite massimo delle 48
ore, purchè esso sia rispettato in termini di media riferita ad un arco temporale di 4
mesi che la Contrattazione Collettiva può elevare a 6 o anche a 12 a fronte di ragioni
obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro.
Dunque, un’impresa può tranquillamente praticare, per alcune settimane, un orario
di 60 ore, purchè rispetti la media di 48 su una base di 4 mesi.
Infine, c’è da dire che in base all’art.17 co.5 del d.lgs.66/2003 la disciplina in tema di
orario normale e massimo non si applica a quei lavoratori "la cui durata dell'orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell'attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi", fra i quali:
a) dirigenti, personale direttivo delle aziende o di altre persone aventi potere di
decisione autonomo:
b) manodapera familiare;
c) lavoratori nel settore liturgico delle chiese e delle comunità religiose:
d) prestazioni rese nell'ambito di rapporti di lavoro a domicilio e di telelavoro.
Nei confronti di questi lavoratori, deve comunque essere garantito il "rispetto dei principi
generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori".
3. La Giornata Lavorativa: Orario e Riposo Anche la durata della prestazione lavorativa giornaliera è oggetto di specifica disciplina e,
anzi, è questo l'unico aspetto considerato dalla Costituzione il cui art. 36 devolve alla
legge la definizione della relativa durata.
La normativa di riferimento è l'art. 7 del d.lgs. n. 66 del 2003 che ne lascia individuare un
limite massimo di 13 ore laddove stabilisce che il lavoratore ha diritto, ogni 24 ore, ad 11
ore di riposo.
Si può affermare che un vero e proprio limite non esiste in quanto, ai sensi dell'art.2, lo
stesso provvedimento di legge consente alla contrattazione collettiva di derogare alle
regole ivi stabilite.
4. Il lavoro straordinario. Ai sensi dell'art.1, comma 2, e dell'art.3, comma 1, del d.lgs, n. 66 del 2003, si considera
lavoro straordinario quella durata della prestazione lavorativa che eccede la normale
durata settimanale dell'orario di lavoro ivi stabilita in 40 ore.
In linea teorica, pertanto, dovrebbe qualificarsi lavoro straordinario solo la prestazione
eccedente le 40 ore settimanali e non anche quella eccedente la minor durata dell'orano
normale settimanale stabilita dalla contrattazione collettiva. La derogabilità al limite delle 40 ore, da parte della contrattazione collettiva, porta invece
a qualificare lavoro straordinario quello che eccede la durata settimanale dell'orario di
lavoro contrattuale, di tal che, nel caso di orario di lavoro settimanale di 36 ore, come nel
84
pubblico impiego, e di una prestazione settimanale di 42 ore, le ore di lavoro straordinario
saranno 6 (ossia la parte eccedente le 36 ore) e non 2 (quale parte eccedente le 40 ore)
giacché non possono qualificarsi ordinarie (cioè non straordinarie) le ore eccedenti le 36 e
fino alle 40.
La disciplina della materia è, in ogni caso, tutta demandata alla contrattazione collettiva,
anche per quanto attiene alle modalità con le quali viene remunerato il lavoro
straordinario, non escluso l’equivalente riposo compensativo col consenso del lavoratore.
Alcuni contratti di lavoro hanno anzi istituito la cosiddetta banca delle ore, ossia un
sistema di accumulo programmato delle ore di lavoro straordinario da compensare in
termini di equivalente riposo.
5. Il riposo settimanale e domenicale. La durata della prestazione lavorativa, sia giornaliera che settimanale, deve essere
interrotta da periodi di riposo che consentano il recupero psico-fisico del lavoratore.
L'art.36 della costituzione, commi secondo e terzo, costituisce in tal senso la fonte di
grado più elevato laddove stabilisce che il legislatore debba stabilire la durata massima
della prestazione lavorativa giornaliera, cui segue il riposo o, comunque, un'astensione
dal
lavoro, nonché, al terzo comma, laddove stabilisce che il lavoratore ha diritto ad un giorno
di riposo settimanale ed a ferie annue retribuite.
Fino a prima della recente modifica ad opera della legge n. 133/2008, l'art. 2109 c.c.
stabiliva che il lavoratore aveva diritto ad un giorno di riposo settimanale normalmente
coincidente con la domenica; in tal senso disponeva anche l'art. 9 del d.lgs. n. 66 del
2003, nella parte in cui precisava che il riposo spettava ogni sette giorni, che tale riposo
deve
essere di 24 ore consecutive e che queste devono di regola coincidere con la domenica.
La legge n. 133 del 2008 ha modificato l'art. 9 del d.lgs. n. 66 ampliando l'arco temporale
entro il quale deve essere fruito il riposo settimanale, riducendolo a valore medio, nel
senso che il dipendente non deve necessariamente fruire del riposo ogni sette giorni bensì,
in media, deve usufruire di una giornata di riposo ogni sette giorni e che tale riposo medio
va fruito nell’arco temporale di 14 giorni.
Dunque, è ben possibile che il lavoratore fruisca del riposo settimanale in un giorno non
coincidente con la Domenica.
È importante, quindi, stabilire in questo caso quale deve essere il trattamento retributivo da riservare al lavoratore; l’art.9 non dispone in tal senso, quindi si fa
riferimento all’orientamento giurisprudenziale che afferma il diritto di colui che lavori dì
domenica, e pur con spettanza del riposo settimanale in altro giorno della settimana, ad
una maggiorazione retributiva, a meno che nel suo trattamento economico non esistano,
per contratto collettivo o individuale, compensazioni di altro genere.
Infine, c’è da dire che in caso di lesione del diritto al riposo, il lavoratore è abilitato a
richiedere il risarcimento dei danni (biologico, esistenziale) subiti, che i giudici peraltro
liquidano, in genere, in via equitativa.
6. Le Ferie Il diritto alle ferie è sancito dall’art.36 Cost. quale diritto irrinunciabile del lavoratore a
fruire di un periodo di ferie annue retribuite; tale art. però non ne fissa la durata.
85
La norma costituzionale conferma la prescrizione di cui all'art. 2109 c.c. che a tal
proposito aggiunge che:
a) la durata delle ferie è stabilita dalla legge;
b) il periodo di ferie deve essere possibilmente continuativo;
c) il periodo durante il quale le ferie possono essere fruite è disposto dal datore di
lavoro tenendo conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore;
d) il datore di lavoro deve previamente comunicare al lavoratore il periodo durante il
quale potrà fruire delle ferie.
La normativa vigente in materia è quella di cui al d.lgs. n. 66 del 2003 che a tal proposito
fissa in almeno 4 settimane il periodo di ferie annue delle quali almeno 2 il lavoratore che
ne faccia richiesta deve fruirle nel corso dell'anno di maturazione mentre la restante parte
può essere differita ad un arco temporale non eccedente i 18 mesi successivi all’anno di
maturazione.
Importante risulta la Sentenza della Cort. Cost. n.616/1987 la quale ha stabilito -
dichiarando parzialmente illegittimo l'art. 2109 c.c. - il principio che la malattia sopravvenuta durante le ferie ne sospende il decorso, per cui il lavoratore è abilitato a
recuperare successivamente i giorni di ferie "perduti".
Ma occorre, perché si produca l'effetto sospensivo, che si sia trattato di una malattia tale
da impedire in modo apprezzabile la fruizione delle ferie; è considerata tale, dalla maggior
parte dei contratti collettivi, una malattia di almeno 3 giorni.
Infine, c’è da dire che il d.lgs. 66/2003 ha altresì abolito la possibilità di monetizzare le
ferie in alternativa all’effettiva fruizione, sicché tale ipotesi è rimasta valida solo nel caso
di sopravvenuta cessazione dal servizio, ossia quando in nessun caso le ferie possono
essere effettivamente godute (Risoluzione del rapporto di lavoro).
È per questo che la norma sanziona il datore di lavoro che non consente al lavoratore di
fruire delle ferie o che non lo collochi in ferie d’ufficio nel caso in cui egli non ne faccia
richiesta.
86
CAPITOLO XXIII
Contratto di Lavoro a Tempo Parziale, Intermittente,
Ripartito
1. Il Contratto di Lavoro a Tempo Parziale Col Contratto di Lavoro a Tempo Pieno la durata della prestazione lavorativa, giornaliera e
settimanale, è stabilita dalla Contrattazione Collettiva.
Un’utilizzazione (ed una retribuzione) ridotta del lavoratore è giuridicamente possibile solamente
nell'ambito di una particolare tipologia contrattuale, che è caratterizzata proprio da un orario
inferiore a quello normale; e cioè il Rapporto di Lavoro a Tempo Parziale (Part Time).
La fattispecie ha avuto origine negli anni ’80; infatti, contemplato per la prima volta
dalla legge n. 863 del 1984, è stato poi riformato dal d.lgs. 61/2000, il quale, a sua volta, è stato
notevolmente modificato dall’art.46 del d.lgs. n. 276 del 2003.
Esistono 3 tipologie di lavoro a tempo parziale:
a) il part-time orizzontale si ha quando il dipendente presta la sua attività per un tempo ridotto
rispetto all'orario normale giornaliero (ad es., 4 ore tutti i giorni);
b) part-time verticale prevede un orario di lavoro normale, ma con una prestazione collocata
soltanto in periodi predeterminati della settimana, del mese o dell'anno (ad es-, contratti
week-end, o stagionati);
87
c) part-time misto, frutto di una combinazione fra le due tipologie principali (ad es. contratti
stagionali con un orario dì 4 ore giornaliere).
La disciplina dell’Istituto prevede la presenza di 3 requisiti fondamentali:
a) la forma scritta ad probationem del contratto;
b) l’indicazione nello stesso della durata della prestazione lavorativa;
c) l’indicazione della collocazione della prestazione lavorativa nella giornata, nella settimana,
nel mese o nell’anno.
Infatti, non è possibile pattuire un impegno per generiche “2 ore al giorno, a seconda delle
esigenze dell’impresa”; e ciò a protezione dell’interesse del lavoratore alla Programmabilità
del proprio tempo di lavoro.
La mancanza di uno dei suddetti requisiti da luogo, previo ricorso al giudice ed a seguito di relativa
sentenza, al riconoscimento del rapporto di lavoro a tempo pieno fin dal suo inizio.
La costituzione di un Rapporto di lavoro a tempo parziale non è caratterizzata dalla rigidità, nel
senso che il lavoratore può essere impiegato col suo consenso, in prestazioni eccedenti il suo orario
ridotto. In particolare, esistono 2 modalità per esigere dal lavoratore estensioni o modificazioni
dell’impegno orario:
a) Lavoro Supplementare: è quella durata della maggiore prestazione lavorativa che eccede il
tempo parziale fino a concorrenza delle 40 ore costituenti il massimo orario settimanale
normale; oltre le 40 ore anche la prestazione del lavoratore a tempo parziale si qualifica lavoro
straordinario.
b) Clausola di Elasticità: essa deve essere inserita previamente nel contratto di lavoro a tempo
parziale, e conferisce al datore di lavoro il potere di pretendere una prestazione lavorativa di
maggior durata; ciò vale, ovviamente, per i soli rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo
verticale e misto, in quanto nel caso di tempo parziale orizzontale la maggiore prestazione
può esser chiesta di volta in volta in termini di lavoro supplementare.
La clausola di elasticità va formulata in conformità con le regole stabilite dalla contrattazione
collettiva ma se tali regole non esistono, essa può essere liberamente stabilita dalle parti.
Il Trattamento del lavoratore part-time deve essere identico a quello del lavoratore a tempo pieno,
naturalmente con commisurazione dei principali trattamenti (a cominciare da quello retributivo) al
minore impegno orario.
•••• Ai fini dell'eventuale passaggio dal tempo pieno al part-time, occorre il consenso del
lavoratore, la cui dichiarazione di volontà deve però essere convalidata presso la Direzione
provinciale del lavoro.
Occorre anche il consenso del datore di lavoro.
•••• Quanto al percorso inverso (dal part-time al tempo pieno), era prevista la spettanza al
lavoratore a tempo parziale di un diritto di prelazione in caso di assunzioni a tempo pieno,
relative alle medesime mansioni già svolte.
Ma esso è stato eliminato dalla novella del 2003, per cui l'unica possibilità di prevederlo è
attraverso una pattuizione individuale ad hoc.
2. Il contratto di lavoro Intermittente (Job on call).
88
Il contratto di lavoro intermittente, introdotto nell'ordinamento dall'art. 33 del d.lgs. n. 276 del
2003, è quel contratto di lavoro, anche a tempo determinato, col quale il lavoratore si obbliga ad
effettuare la sua prestazione lavorativa ogni qual volta venga chiamato dal datore di lavoro.
La retribuzione del lavoratore intermittente è proporzionale alla durata della prestazione ma per i
periodi di inattività al lavoratore spetta una indennità di disponibilità non inferiore al 20% della
retribuzione intera.
Il lavoratore intermittente che non risponde alla chiamata può essere licenziato per inadempimento
contrattuale salvo che tale circostanza non sia stata determinata da malattia o altro impedimento
previamente comunicato al datore di lavoro; in quest’ultimo caso egli comunque perderà il diritto
all’indennità.
Il ricorso al lavoro intermittente non è del tutto liberalizzato, nel senso che la norma demanda alla
contrattazione collettiva la definizione delle esigenze cui possa farsi fronte con l'impiego di tale
forma di rapporto di lavoro, ma con alcune eccezioni: si prescinde, infatti, dalla contrattazione
collettiva quando il lavoro intermittente sia utilizzato per periodi predeterminati dall'anno (per lo
più caratterizzati dalla prolungata assenza
del personale stabile: fine settimana, ferie, periodi natalizio e pasquale) e si prescinde, altresì,
quando col lavoro intermittente siano utilizzati lavoratori di età inferiore a 25 anni o superiore a 45,
ancorché pensionati.
Il lavoro intermittente non può essere in nessun caso utilizzato per sostituire lavoratori in sciopero
ne quando per le corrispondenti professionalità si sia proceduto a licenziamenti collettivi ne,
ancora, presso le imprese che non abbiano adempiuto alle norme sulla sicurezza sul lavoro.
Il contratto di lavoro intermittente può essere anche in forma non scritta, essendo tale forma
necessaria solo ad probationem.
Il trattamento del lavoratore intermittente deve essere identico a quello di un normale lavoratore
fatto salvo il "riproporzionamento" in relazione alla ridotta prestazione lavorativa.
3. Il contratto di lavoro ripartito. Il contratto di lavoro ripartito, introdotto nell'ordinamento dall'art. 41 del d.lgs. n. 276 del 2003, è
quel contratto col quale due lavoratori si obbligano, in solido, ad un'unica ed identica prestazione
lavorativa che effettuano sulla base di turni da essi autonomamente organizzati.
In pratica la prestazione lavorativa viene effettuata di volta in volta da una sola unità ma di essa
sono responsabili entrambi i lavoratori, di tal che in mancanza di uno (es. per malattia) deve
intervenire l’altro.
Le dimissioni o il licenziamento di uno dei due coobbligati comportano l'estinzione del vincolo
contrattuale con riguardo ad entrambi, salvo che il datore sia disponibile a mantenere in vita il
rapporto con l'altro lavoratore, trasformandolo così in un rapporto
normale, a tempo parziale o pieno.
Nella stipula di tale contratto è prevista la forma scritta ad probationem.
89
CAPITOLO XXIV
Controlli e Privacy
1. Il Potere di Controllo Il Potere di Controllo è tipico del datore di lavoro, essendo esso implicito nel Potere
Direttivo.
Esso è finalizzato a garantire la corretta e tempestiva esecuzione degli obblighi lavorativi,
nonché l’osservanza delle regole che disciplinano la condotta del lavoratore dentro
l’impresa.
Tuttavia, tale potere trova un limite nel rispetto della dignità e della libertà del lavoratore
il quale è innanzitutto un cittadino.
Della materia se ne occupa lo Statuto ponendo limiti alle forme di controllo e prevedendo
sanzioni nel caso di violazione delle norme ivi contenute.
2. Le guardie giurate. Il datore di lavoro può far ricorso all'impiego di guardie giurate la cui funzione, tuttavia, in
nessun caso può dar luogo a controlli nei confronti dei lavoratori.
90
Le guardie giurate, in particolare, possono essere utilizzate esclusivamente per attività di
vigilanza sul patrimonio aziendale e non anche sui lavoratori.
Le guardie giurate, infatti, possono accedere nei luoghi dove si svolge l'attività lavorativa
soltanto nell'esercizio del controllo ad esse demandato ed il comportamento del lavoratore
resta esente da ogni forma di controllo salvo che questo non dia luogo ad un illecito
penale.
Pertanto le guardie giurate non possono raccogliere ed utilizzare informazioni riguardanti
un comportamento negligente del lavoratore se non nel caso in cui esso si realizzi
unitamente ad un illecito penale (es. furto).
La violazione di tale divieto di controllo da luogo a gravi sanzioni a carico della guardia
giurata (sospensione dal servizio, revoca della licenza) nonché all'applicazione nei
confronti della stessa e del datore di lavoro delle sanzioni penali di cui all'art.38 dello
Statuto.
3. Il Personale di vigilanza L’art.3 St. Lav. È dedicato al Personale di Vigilanza e afferma che “I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza debbono essere comunicati ai lavoratori interessati”.
Dunque, lo scopo principale di tale norma è quello di prevenire i “Controlli Occulti”,
ossia l’inserimento, tra i lavoratori, di personale addetto a rilevarne il comportamento, e
ciò in quanto tali controlli non solo sono sleali in sé, ma sono anche lesivi della dignità del
lavoratore.
A fronte di tale esigenza, v'è però quella dell'azienda a prevenire e/o verificare la
commissione di illeciti, specialmente in quelle attività che danno adito a furti e irregolarità
di vario genere da parte dei dipendenti.
La limitazione posta dall’art.3, se interpretata in modo rigido, avrebbe sostanzialmente
impedito all'imprenditore qualsiasi forma di controllo, anche ai soli fini di tutela del
patrimonio aziendale; la giurisprudenza si è, pertanto, orientata nel senso di ritenere
legittimo il controllo occulto allorché esso sia "difensivo", ovvero rivolto, non già a
controllare il corretto svolgimento del lavoro, bensì a prevenire e/o verificare la
commissione di illeciti, in specie penali.
4. Gli impianti audiovisivi e le visite personali di controllo. L'art. 4 dello Statuto vieta l'installazione e l'uso di impianti audiovisivi sul posto di
lavoro e, tuttavia, pur sempre in quanto finalizzati a controllare il comportamento in
servizio dei lavoratori.
Lo stesso articolo reca, infatti, una significativa eccezione laddove non vieta l'installazione
di tali tipi di impianti quando ciò sia dettato da esigenze organizzative o produttive od
anche da motivi di sicurezza (ad es. per sorvegliare fasi di lavorazione particolarmente
delicate).
L'installazione degli impianti audiovisivi è subordinata al previo accordo con le
rappresentanze sindacali( RSA/RSU) e, in mancanza, alL’autorizzazione
dell'Ispettorato del lavoro, Sezione Ispettiva.
Resta comunque esclusa la possibilità di utilizzare le informazioni acquisite attraverso tali
impianti che non riguardino direttamente i motivi per i quali essi sono stati installati o
che, comunque, riguardino lo svolgimento dell'attività lavorativa.
91
Il successivo art.6 vieta le visite personali di controllo, ossia le perquisizioni, ma anche
in tale caso sono previste eccezioni, giacché l'imprenditore, dal canto suo, non può restare
privo di una qualsiasi forma di tutela del suo patrimonio aziendale ne può restare limitato
nella prevenzione di furti di materie prime, prodotti e attrezzature.
Sono perciò consentite visite di controllo ma a condizione che queste siano effettuate al
di fuori dei luoghi di lavoro e con sistemi di selezione automatica e, in ogni caso,
salvaguardando la dignità e la riservatezza del lavoratore.
Anche per tali forme di controllo è previsto il previo accordo sindacale e, in mancanza,
l'intervento dell'Ispettorato del lavoro.
L’inosservanza degli artt.4 e 6 da parte del datore di lavoro è sanzionata penalmente
dall’art.38 dello Statuto.
5. Il controllo sulla sfera privata del lavoratore. Lo Statuto non si è occupato solo delle forme di controllo sull'attività del lavoratore ma
anche di ogni forma di indagine sulla sua sfera privata.
L'art.8, in particolare, vieta ogni indagine intesa a conoscere opinioni (politiche, religiose e
sindacali), tendenze ed altri aspetti della vita privata del lavoratore, sia prima (ai fini della
sua assunzione) che in costanza di rapporto di lavoro quando tali notizie non siano
rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale.
La giurisprudenza considera invece legittime le indagini (anche a mezzo di investigatori
professionisti) sul comportamento di un lavoratore malato o in permesso, al fine di
verificare la commissione di eventuali abusi.
L'inosservanza dell'art. 8 è sanzionata penalmente ex art. 38 St.lav.
6. La tutela della privacy del lavoratore. La sfera privata del lavoratore è altresì tutelata dalle norme sulla tutela della riservatezza
dei dati personali recate dal d.lgs, n. 196 del 2003.
E infatti è inevitabile che molteplici dati relativi alla sfera privata del lavoratore debbano
essere acquisiti e trattati in azienda.
Il principio generale, a tale riguardo, è che il trattamento dei dati personali è condizionato
al consenso individuale della persona cui essi si riferiscono, sancendosi altrimenti
l’inutilizzabilità dei dati medesimi.
Tuttavia, quando il trattamento dei dati deriva da esecuzione di obblighi inerenti al
rapporto di lavoro, il consenso non è necessario.
In tale modo, il lavoratore è liberato dall'onere di sottoscrivere la mole di documenti, che
altrimenti dovrebbe essergli periodicamente sottoposta onde far procedere le normali
incombenze del rapporto di lavoro.
Fanno eccezione a questo regime i dati sensibili, ossia i dati personali rivolti a rivelare
l'origine razziale, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, l'adesione a
partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, politico o sindacale,
nonché lo stato di salute e la vita sessuate.
Tali dati possono essere oggetto di trattamento soltanto con il consenso scritto
dell'interessato, previa autorizzazione del Garante per la privacy.
92
È possibile prescindere dal consenso, anche in questo caso, allorché il trattamento dei
dati sia necessario per l'adempimento di obblighi contrattuali; ma non si può mai
prescindere dall'autorizzazione del Garante (concessa, una volta per tutte, con un
provvedimento generale autorizzatorio, emesso di solito con cadenza annuale).
CAPITOLO XXV
Il Potere Disciplinare
1. Il Potere Disciplinare La violazione di regole contrattuali darebbe luogo, anche nel rapporto contrattuale di
lavoro, ad un'azione per inadempimento contrattuale, ai sensi dell'ari 1218 c.c., ma
un'azione legale per ottenere l'adempimento o il risarcimento del danno sarebbe
spropositata rispetto al particolare tipo di rapporto contrattuale, tenuto conto che esso è
continuativo e, quindi, l'azione verrebbe esperita mentre il rapporto è in atto e con grave
deterioramento delle condizioni di "convivenza".
Dunque, a fianco della classica via della responsabilità contrattuale, il
codice civile ha previsto la responsabilità disciplinare, cui corrisponde la titolarità di
uno specifico potere in capo al datore di lavoro.
In altre parole, la legge consente che il lavoratore inadempiente possa essere perseguito
non soltanto essendo chiamato in giudizio a risarcire il danno, ma anche con
l’irrogazione diretta di sanzioni da parte del datore di lavoro.
Il fondamento normativo del Potere Disciplinare risiede nell’art.2106 c.c., il quale prevede
il particolare fenomeno delle "pene private" che il datore di lavoro può infliggere al
lavoratore, all'esito di uno speciale procedimento, per inosservanza di regole di tipo
93
organizzativo e comportamentale cui lo stesso deve assoggettarsi ai sensi degli articoli
2104 (diligenza) e 2105 (fedeltà).
La norma codicistica rinvia alla contrattazione collettiva la definizione delle infrazioni e
delle sanzioni disciplinari che il datore di lavoro può infliggere al lavoratore, stabilendo il
criterio della proporzionalità della sanzione rispetto all'infrazione; l’ingerenza dei Contratti
Collettivi è servita a rendere meno arbitrario tale esercizio.
La normativa applicabile è arricchita dall’art.7 dello Statuto, che disciplina il
Procedimento Disciplinare e le modalità di impugnativa della Sanzione.
2. La Normativa Procedurale La Normativa Procedurale è contenuta nell’art.7 dello Statuto, il quale, quindi, definisce le
modalità del Procedimento Disciplinare e le modalità di Impugnativa della Sanzione.
Come prima cosa tale art. opera un rinvio, stabilendo che la definizione delle infrazioni e
delle sanzioni disciplinari spetta alla Contrattazione Collettiva.
Ne deriva che il datore di lavoro non può più prevedere infrazioni e sanzioni a suo
piacimento, ma deve applicare obbligatoriamente le norme dei contratti collettivi che
prevedono, di solito a livello di contratto nazionale di categoria, il "codice disciplinare".
Ciò non esclude che, circa le infrazioni, il datore di lavoro possa specificare le previsioni
generali previste dal contratto collettivo, in relazione alle esigenze del particolare contesto
organizzativo.
In ordine alle sanzioni, l'art. 7 sembrerebbe limitarsi a quelle che vanno dalla multa alla
sospensione dal lavoro e dalla retribuzione fino a 3 gg., ma i contratti collettivi, ne
prevedono una più ampia gamma e cioè, in ordine di gravità: il rimprovero verbale ed il
rimprovero scritto; la multa, pari a 4 ore di retribuzione; la sospensione dal servizio e
dalla retribuzione fino a 10 gg. il licenziamento con e senza preavviso.
Per quanto riguarda il rapporto tra infrazioni e sanzioni, il Principio generale è quello della
Proporzionalità dalla sanzione all’infrazione commessa.
Quasi tutti i contratti collettivi prevedono, a tale riguardo, la recidiva, che opera come
fattore di aggravamento della responsabilità disciplinare.
In altri termini, ad una certa infrazione può conseguire una sanzione più grave di quella
ordinariamente prevista, poiché il lavoratore è già incorso in una precedente sanzione per
una condotta simile (recidiva specifica, più grave) o in altre sanzioni disciplinari (recidiva
generica, di solito meno grave).
L'ultimo comma dell'art. 7 St.lav. prescrive, peraltro, che ai fini della recidiva non possono
rilevare sanzioni applicate più di due anni prima.
Infine, l'art. 7 co. 1 si preoccupa di garantire che ai lavoratori venga data un'informazione
adeguata in ordine al codice disciplinare, e dispone che esso venga affisso in luogo
accessibile a tutti.
Il Procedimento Disciplinare consta di 4 fasi:
a) Contestazione di addebito. Il datore di lavoro, una volta accertato un
comportamento disciplinarmente rilevante, deve contestare al lavoratore la
commissione di tale fatto, indicandone, con la maggiore precisione possibile le
circostanze materiali, di luogo e di tempo.
94
b) Difesa del lavoratore. Fra la ricezione della contestazione da parte del lavoratore, e
l'eventuale adozione della sanzione, deve intercorrere un termine dilatorio di almeno
5 giorni, che può essere utilizzato dal lavoratore per esercitare il diritto di presentare
le proprie difese in ordine all'addebito contestato eventualmente con l'assistenza di
un rappresentante dell'associazione sindacale cui egli aderisce o conferisce mandato
ad hoc.
c) Irrorazione della sanzione. Una volta trascorso il termine a difesa, il datore di
lavoro può eventualmente applicare la sanzione, qualora rimanga convinto della
responsabilità del dipendente. d) Impugnazione. Una volta ricevuta la sanzione, il lavoratore può impugnarla dinanzi
al Giudice del lavoro, oppure dinanzi al collegio arbitrale costituito presso la
Direzione provinciale del lavoro.
La legge cerca di promuovere la via arbitrale, onde sgravare gli uffici giudiziari dal
carico di impugnative, prevedendo che se viene adito il collegio, invece del Giudice,
"la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio" arbitrale,
ossia sino all'emissione del lodo da parte del collegio.
La sanzione disciplinare potrà essere impugnata (ossia, ne potrà essere richiesta la
declaratoria di nullità) per motivi tanto sostanziali (insussistenza del fatto
addebitato, sproporzione della sanzione, etc.), quanto procedurali (genericità o
mancata affissione del codice disciplinare, genericità o assenza della contestazione,
mancato ri- spetto del termine a difesa, etc.).
3. Il licenziamento disciplinare. L'art. 7 dello Statuto sembrava escludere che le norme ivi stabilite per il procedimento
disciplinare si applicassero anche nel caso della più grave sanzione del licenziamento
disciplinare, così precludendo al lavoratore la possibilità di avvalersi di una norma
sostanzialmente prevista a sua tutela e contro eventuali abusi.
Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale che con sentenza n. 204 del 1982 ha
dichiarato l'illegittimità dell'alt. 7 nella parte in cui non prevede l'applicabilità del
procedimento disciplinare anche nel caso di licenziamento disciplinare previsto, quale
sanzione, dalla contrattazione collettiva.
La Corte di cassazione e poi andata oltre affermando l'applicabilità delle norme sul
procedimento disciplinare in ogni caso.
95
CAPITOLO XXVI
La Retribuzione
1. Retribuzione e Corrispettività Il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive (sinallagmatico), in quanto
il lavoratore si obbliga ad effettuare una determinata prestazione ed il datore di lavoro si
obbliga a remunerare tale prestazione dopo che essa sia stata eseguita.
È questo il Principio di Corrispettività, in base al quale la Retribuzione è il corrispettivo
del lavoro.
A tale regola dovrebbe corrispondere la perdita della retribuzione – in costanza di rapporto
di lavoro — in assenza di prestazione e, tuttavia, ciò non è sempre vero, nel senso che in
alcuni casi le assenze dal servizio vengono ugualmente retribuite (ferie, malattia entro
certi limiti, maternità, ecc.).
In tale ipotesi la retribuzione non ha una funzione corrispettiva bensì una funzione sociale, in quanto finalizzata al sostegno del reddito del lavoratore in situazioni di
particolare bisogno.
2. L'art. 36 della Costituzione.
96
La norma fondamentale in materia di retribuzione del lavoratore dipendente è nell’art, 36
della Costituzione che sancisce il diritto del lavoratore dipendente ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e, in ogni caso, sufficiente ad
assicurargli, unitamente alla sua famiglia, "un'esistenza libera e dignitosa".
La competenza a determinare una retribuzione "sufficiente" è demandata alla
contrattazione collettiva che in tale ambito va a definire la cosiddetta "paga sindacale",
ossia i minimi retributivi al di sotto dei quali il datore di lavoro non può fissare la paga dei
propri dipendenti, pur non aderendo all'associazione sindacale che ha sottoscritto il
contratto collettivo.
La previsione di livelli retributivi minimi lascia spazio alla contrattazione aziendale di
stabilire tutt'altri livelli retributivi, il che si verifica, pur in presenza di una contrattazione
collettiva nazionale, specialmente per pareggiare il diverso costo della vita nelle diverse
zone del paese.
3. Fonti e struttura della retribuzione. L'art. 36 della Costituzione statuisce che al prestatore di lavoro sia corrisposta una
retribuzione commisurata alla quantità e qualità del lavoro svolto e che sia comunque
sufficiente ad assicurargli un’esistenza libera e dignitosa.
L’art. 2099 c.c. demanda alle norme corporative la determinazione del trattamento
economico, stabilendo, altresì, che il lavoratore può essere retribuito anche partecipando
agli utili dell'impresa o in natura.
Con l'abolizione delle corporazioni la competenza in materia di retribuzioni è passata alla
contrattazione collettiva nazionale.
In seguito, col Protocollo Ciampi del 1993, buona parte della contrattazione è stata
devoluta alla sede decentrata e cioè alla Contrattazione Aziendale.
Pertanto i contratti collettivi nazionali stabiliscono, soltanto il trattamento economico
cosiddetto tabellare (o base o iniziale) ed alcune voci retributive accessorie di tipo fisso e
continuativo; la contrattazione integrativa aziendale definisce, invece, le altre voci
retributive accessorie, anche fisse e continuative, nonché quelle occasionali.
Inoltre, la contrattazione aziendale interviene spesso ad introdurre voci retributive
aggiuntive rispetto a quelle previste dalla contrattazione nazionale per compensare il
diverso costo della vita nella varie zone del paese.
Da ciò si evince che la Retribuzione è composta da una serie di voci di diversa
provenienza in quanto alla Fonte (Legge, Contratto Nazionale, Contratto Aziendale ecc.);
ecco che noi distinguiamo tra:
• trattamento economico tabellare, fisso e continuativo, stabilito dalla
contrattazione nazionale e perciò uguale su tutto il territorio nazionale; esso è
attribuito in misura uguale a rutti i lavoratori appartenenti alla stessa categoria e
qualifica;
• trattamento accessorio fisso e continuativo stabilito dalla contrattazione
nazionale, correlato a particolari situazioni di lavoro e, quindi, attribuito a tutti i
lavoratori che siano in possesso dei relativi requisiti professionali o che si trovino
nella particolare posizione di lavoro;
• trattamento accessorio fisso e continuativo, stabilito dalla contrattazione
aziendale (di secondo livello) per quanto attiene a modalità, condizioni e misura;
• trattamento accessorio occasionale e, pertanto, ne fisso ne continuativo, stabilito
dalla contrattazione nazionale o aziendale, correlato a determinate situazioni di
97
lavoro o alla produttività, diversificato non solo per categorie ma anche
individualmente.
La contrattazione collettiva è, pertanto, la fonte normativa esclusiva in materia di
trattamento economico e nei casi in cui è la legge a stabilirne la misura (come, per
esempio, nel caso della maternità) la contrattazione collettiva può stabilire trattamenti
migliori ma non viceversa, incontrando il limite del divieto di reformatio in peius.
4. Le Forme della Retribuzione L’art.2099 c.c. contiene un’enunciazione generale delle Forme della Retribuzione, la quale
può essere “a tempo”, “a cottimo”, oppure consistere nella distribuzione di Titoli Azionari.
• La forma classica è la Retribuzione a Tempo, ossia la retribuzione correlata alla
durata della prestazione.
• L’altra forma storica è la Retribuzione a Cottimo; essa tiene conto, nella
determinazione della retribuzione, non soltanto del tempo impiegato ma anche del
risultato, ossia della quantità della produzione (es. numero di scarpe prodotto).
È ormai praticata solo in modo combinato con la retribuzione a tempo, nel senso che
a questa si aggiungono voci retributive commisurate alla quantità e qualità del lavoro
svolto in forma di compensi di produttività.
• Infine, è possibile che la retribuzione consista nella distribuzione di titoli azionari ai dipendenti della società.
Il fenomeno è diffuso, in particolare, nei confronti dei dirigenti, anche se più nei
paesi angloassoni che in un sistema come quello italiano.
Ai dirigenti sono distribuite azioni, o più spesso opzioni per l'acquisto di azioni;
peraltro con possibili risvolti negativi (come il rischio che l'azione del manager sia
orientata dall'interessata ricerca di miglioramenti finanziari di breve periodo, che
massimizzino anche i proventi del dirigente).
Più rara, e per altri versi delicata, è la distribuzione di azioni ai "semplici" dipendenti
di una società, orientata in genere dal proposito di rinsaldare il senso di
appartenenza dei lavoratori all'azienda.
Tale prospettiva è guardata con dichiarato timore dai sindacati, nella misura in cui,
attraverso l'azionariato, il lavoratore rischia di confondersi con il "capitalista"; tenuto
anche conto che quasi maiiÌ lavoratori giungono ad avere una posizione di
maggioranza, pur potendo essere coinvolti, attraverso la loro partecipazione,
all'assemblea della società (ad es. a mezzo di comitati di azionisti), nelle scelte
decisionali dell'impresa.
5. Il trattamento di fine rapporto (TFR). Alla cessazione dal servizio al lavoratore spetta un trattamento di fine rapporto
diversamente denominato (indennità di anzianità prima e trattamento di fine rapporto poi,
per il settore privato; buonuscita, indennità premio di servizio, per il settore pubblico).
Il trattamento di fine rapporto (TFR) venne istituito con la legge n. 297 del 1982 in luogo
dell'indennità di anzianità di cui all'alt. 2120 c.c., così modificando la norma codicistica.
Esso è considerato alla stregua di una retribuzione differita in quanto è determinato
accantonando, di anno in anno, una somma pari alla retribuzione percepita nell'anno
diviso 13,5; questa somma viene di anno in anno rivalutata in base alla variazione del
98
costo della vita e quindi corrisposta al lavoratore, nel suo ammontare complessivo, all'atto
della cessazione dal servizio presso quell'azienda; pertanto, nel caso di più rapporti di
lavoro successivi, al lavoratore spetteranno altrettanti TFR.
In attività di servizio il lavoratore può chiedere un'anticipazione del TFR, per determinati
motivi (spese sanitarie straordinarie, acquisto della prima casa per se o per i figli ecc.) e,
in ogni caso, in misura non superiore al 70% di quanto a tale titolo maturato fino a quel
momento.
Col sistema del TFR il lavoratore percepisce circa una mensilità di stipendio per ogni anno
di servizio ma con riferimento allo stipendio effettivamente percepito di anno in anno; il
previgente sistema dell'indennità di anzianità prevedeva, invece, la moltiplicazione
dell'ultima retribuzione per gli anni di servizio, così favorendo il fenomeno delle
liquidazioni gonfiate, essendo a tal fine sufficiente aumentare artificiosamente l’ultima
retribuzione.
Con la riforma del TFR (esteso anche al settore pubblico), ad opera del d.lgs. n. 252 del
2005, una parte del trattamento di fine rapporto può essere facoltativamente devoluta a
fondi di previdenza complementare.
In sostanza, i lavoratori che accetteranno tale devoluzione non beneficeranno più
dell’intero T.F.R. alla cessazione del rapporto, ma lo vedremo trasformato, pro tempore, in
un trattamento pensionistico.
6. La tutela del credito retributivo. Il credito da lavoro gode di una particolare tutela da parte dell'ordinamento; infatti:
• allorquando il credito da lavoro è accertato dal giudice, alla sua misura originaria si
aggiunge automaticamente la rivalutazione monetaria, finalizzata ad attualizzare il
credito, e gli interessi legali, aventi natura risarcitoria;
• il credito da lavoro è privilegiato rispetto ad altri crediti, di tal che il lavoratore è
preferito ed ha maggiori garanzie di soddisfazione rispetto ad altri creditori;
• il credito da lavoro si prescrive/in 5 anni dalla maturazione del relativo diritto (ai
sensi dell'art.2948 c.c. Prescrizione breve) allorquando il rapporto è assoggettato ad
un regime di tutela contro il licenziamento, ai sensi dell'art. 18 dello Statuto; negli
atri casi esso si prescrive in 5 anni dalla cessazione del rapporto.
CAPITOLO XXVII
La Tutela della Persona
1. L’Obbligo di Sicurezza Il concetto di Tutela della Persona del Lavoratore si è andato arricchendo.
Difatti, al di là della protezione spettante ai lavoratori che si ammalano o si infortunano
per fattori esterni, i numerosi fattori di rischio inerenti al lavoro rendono altamente
possibile che una malattia o un infortunio trovino causa, o concausa, nell'ambiente di
lavoro.
Ancor prima della tutela successiva al verificarsi dell'evento lesivo, l'esigenza prima è,
pertanto, quella di prevenire tale evento, evitando che lo svolgimento dell'attività
lavorativa determini pericoli per la salute e la sicurezza del lavoratore.
A tale finalità è rivolto l'art. 2087: "Il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure
che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessario a tutelare
l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
È ivi sancito il cosiddetto Obbligo di Sicurezza.
99
In assenza di una precisa indicazione dei rischi rispetto ai quali il datore di lavoro è
tenuto ad adottare misure di prevenzione ed in assenza di una precisa indicazione delle
dette misure, deve concludersi che la norma codicistica pone a carico del datore di lavoro
un obbligo indefinito che va oltre la normale diligenza.
Infatti,
La giurisprudenza ha interpretato l'obbligo alla luce del criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, che significa che l'imprenditore non può ritenersi
adempiente a tale obbligo semplicemente osservando le prescrizioni tecniche dettate per
una certa attività o lavorazione; infatti, qualora esse siano superate o insufficienti, in virtù
del progresso tecnico, l'art. 2087 impone all'imprenditore di fare uno sforzo "in più", senza
attendere passivamente l'aggiornamento della normativa.
L'obbligo di sicurezza ha, quindi, un contenuto aperto, espressione di una grande
attenzione dell'ordinamento per la vita e la salute dei lavoratori.
Nondimeno, proprio tale apertura è fonte di una certa indeterminatezza, che causa alle
imprese pericolose incertezze sulle misure di prevenzione da adottare.
L'incertezza è aggravata dal fatto che la maggior parte delle prescrizioni in questione è
rafforzata dalla presenza di sanzioni penali. Non che non sia giustificato, nella materia, il
ricorso alla tutela penale; ma l'indeterminatezza delle relative fattispecie di illecito crea
oggettivi problemi, al cospetto del principio di legalità.
2. Il d.lgs. n. 626 del 1994. La genericità dell’art. 2094 c.c. è stata in parte delimitata da regolamenti governativi
adottati nel 1955 e nel 1956, successivamente aggiornati, e tuttavia insufficienti a definire
una esaustiva mappa dei rischi e delle misure di prevenzione e altrettanto insufficienti a
mettere in un posizione di tranquillità il datore di lavoro che si fosse limitato alla mera
esecuzione di quanto ivi stabilito, giacché a quest'ultimo, ai fini della sicurezza, è richiesta
la massima diligenza che va ben oltre la mera esecuzione di regole peraltro
anacronistiche.
Una decisiva svolta in materia di sicurezza l'ha data il d.lgs. n. 626 del 1994, attuativo di
una direttiva comunitaria del 1989 (Direttiva Comunitaria sulla Tutela dell’Ambiente di
Lavoro) ora abrogato dal d.lgs. n. 81 del 2008 e da esso sostituito, i cui punti
fondamentali sono quelli riguardanti:
a) l'obbligo della formazione, in azienda, di un servizio di prevenzione e protezione dai
rischi, con un responsabile della sicurezza preposto alla gestione dell'
organizzazione della sicurezza sul lavoro;
100
b) l’obbligo di predisporre, periodicamente, una valutazione dei rischi, ossia una
mappa dei rischi connessi alle diverse attività lavorative aziendali, consultabile dagli
Organi Ispettivi delle ASL e dalle Sezioni Ispettive delle Direzioni Provinciali del
Lavoro;
c) l'istituzione di un medico competente, preposto agli accertamenti medici periodi cui
vengono sottoposti i lavoratori in base alla personale situazione di salute e posizione
di lavoro;
d) l'istituzione del rappresentante sindacale per la sicurezza, punto di riferimento dei
lavoratori, che può farsi promotore di iniziative inerenti alla sicurezza e che deve
essere consultato in occasione dell’adozione di esse, nonché in occasione
dell’elaborazione della “Relazione di Valutazione dei Rischi”;
e) l'obbligo della informazione e formazione del lavoratore, al fine di renderlo
partecipe alla tutela della sua salute ma anche più responsabile rispetto alle misure
di sicurezza, così rendendolo passibile di sanzioni disciplinari nel caso di
disattenzione delle relative prescrizioni.
3. Responsabilità e danno. La presenza di misure di prevenzione in materia sicurezza non esclude che il lavoratore si
infortuni sul lavoro o subisca menomazioni derivanti da causa di servizio.
Per altro verso l'esistenza di una normativa in materia, che pone obblighi a carico del
datore di lavoro, non presuppone che la responsabilità di eventuali infortuni o malattie
professionali sia addebitabile esclusivamente ed in ogni caso al datore di lavoro, giacché
anche il lavoratore, per quanto addestrato ad avere cura della sua salute, può essere
responsabile di danni da lui stesso subiti e che il datore di lavoro non è riuscito ad
evitare.
Alla responsabilità della lesione o menomazione subita dal lavoratore, consegue l'obbligo
del risarcimento del danno.
Laddove tale responsabilità sia addebitabile al datore di lavoro, il lavoratore può agire per
inadempimento contrattuale, ai sensi dell'art. 1218 c.c., essendo egli creditore di un
obbligazione - quella inerente all'adozione delle misure di prevenzione - che l'ordinamento
pone in capo al datore di lavoro; al lavoratore, pertanto, sarà sufficiente dimostrare
l'inadempimento contrattuale in ordine al suo diritto alla sicurezza per far valere
l'ulteriore diritto al risarcimento.
La previsione di una tutela di natura contrattuale non esclude che il lavoratore possa far
valere il suo diritto al risarcimento al di fuori del relativo rapporto contrattuale, ai sensi
dell'alt. 2043 c.c., ossia per responsabilità extracontrattuale-
Le imprese sono comunque obbligate a stipulare un'assicurazione con l’INAIL (Istituto
nazionale per gli infortuni su lavoro) che risarcisce il lavoratore per le lesioni e le
menomazioni subite e che nel caso di riduzione della capacità lavorativa liquida al
lavoratore una rendita vitalizia commisurata a tale menomazione.
Peraltro, come ogni assicurazione, l’INAIL garantisce al lavoratore un indennizzo anche
quando l’infortunio non si è verificato per una responsabilità dell’impresa.
4. Il mobbing. L'art. 2087 c.c. pone in capo al datore di lavoro l'obbligo di tutela non solo dell'integrità
fisica del lavoratore bensì anche della sua personalità morale.
In relazione a tale ultima fattispecie, l'inadempimento contrattuale da luogo a
101
responsabilità per danno di natura non patrimoniale comunque risarcibile, ai sensi
dell'art. 2059 c.c., essendovi, per esso, un preciso riferimento normativo.
Dunque, viene alla luce la distinzione tra:
• Danno Biologico: danno di natura patrimoniale che concerne la salute e dunque
lesivo dell’integrità fisica del lavoratore.
• Danno Esistenziale (Morale): danno di natura non patrimoniale lesivo della dignità
(Integrità morale) del lavoratore.
Il lavoratore subisce un danno morale, ovvero un danno alla sua personalità, quando
vengono posti in essere, nei suoi confronti, una serie di comportamenti, ancorché
legittimi, sintomatici di un'attività persecutoria o comunque di emarginazione rispetto
all'ambiente di lavoro, oggi classificati col termine di mobbing (o comportamenti
mobbizzanti), nonché quei comportamenti riconducibili alle molestie sessuali.
Il mobbing, in particolare, è quel comportamento posto in essere dai colleghi di lavoro (in
tal caso si parla di mobbing orizzontale} o dai superiori gerarchici (in tal caso di parla di
mobbing verticale), con sistematicità o reiterazione per un certo periodo di tempo
(almeno 6 mesi), determina una condizione di sostanziale disagio e di emarginazione in
conseguenza della quale il lavoratore si sente non gradito dall' ambiente di lavoro.
Del mobbing è in ogni caso responsabile il datore di lavoro: direttamente, nel caso di
mobbing verticale; indirettamente, per omessa vigilanza, nel caso di mobbing orizzontale.
5. Le molestie sessuali sul lavoro. Nell'ambito dei comportamenti lesivi della personalità del lavoratore rientrano, altresì, le
molestie sessuali qualificate, dal d.lgs. n. 145 del 2005, come "quei comportamenti indesiderati a connotarono sessuale ... aventi lo scopo di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore... ". Invero la norma pone le molestie sessuali nell'ambito dei comportamenti discriminatori
ma tali devono considerarsi non le molestie in sé, di per se sanzionabili, bensì le azioni
discriminatorie che siano connesse o conseguenti alle dette molestie.
Il lavoratore, infatti, può agire sia per il risarcimento del danno morale connesso alle
molestie sessuali in sé, sia per il risarcimento del danno derivante da atti discriminatori
aventi una connessione con le dette molestie, sia, ancora, per l'eventuale danno biologico
derivante dalle stesse, quando le molestie sessuali abbiano avuto ripercussioni
sull'integrità della persona.
Anche le molestie sessuali possono essere del tipo verticale (se poste in essere dai
superiori) e orizzontale (se poste in essere dai colleghi di lavoro), ed anche per esse
102
sussiste in ogni caso la responsabilità del datore di lavoro, diretta, nel primo caso, ed
indiretta, per omessa vigilanza, nell'altro caso.
Ovviamente, onde individuare il tipo di vigilanza cui il datore di lavoro è tenuto, si deve
tenere conto che egli non ha il diritto di ingerirsi paternalisticamente nella sfera delle
relazioni private dei dipendenti (che possono aver luogo anche sul luogo di lavoro).
Ciò che il datore deve fare è intervenire con decisione nei casi in cui si profilino situazioni
moleste, e se possibile operare per sensibilizzare i dipendenti (ad es. con un codice di
condotta) a comportamenti corretti.
Un tentativo interessante e altresì quello di istituire figure di "consigliere di fiducia", cui
le persone vittime di molestie possono rivolgersi, anche con rispetto della riservatezza, per
avere consigli e aiuti su come affrontare al meglio la sgradevole situazione.
CAPITOLO XXVIII
Eguaglianza e Discriminazioni
1. Il Principio di Eguaglianza nel Diritto del Lavoro. Il principio di eguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione, trova, nel diritto del
lavoro, diversi riferimenti.
La normativa in materia di lavoro, ivi compresa quella contrattuale, si è spesso ispirata a
tale principio che, in ogni caso, non presuppone un egualitarismo di tipo reddituale, in
quanto l'eguaglianza, in ambito di lavoro, è intesa come divieto di disparità di trattamento
in situazioni uguali e come offerta di pari opportunità e non come generico appiattimento
e parità di trattamento sulla base della sola appartenenza ad una determinata categoria o
professionalità.
2. Divieti di discriminazione e parità di trattamento.
103
Il principio costituzionale di eguaglianza, di cui all’art. 3. in ambito lavoristico si traduce,
principalmente, in un divieto di discriminazione, non essendo ipotizzabile che tutti i
lavoratori debbano avere lo stesso trattamento a prescindere dalla qualifica e dalle
capacità professionali individuali.
Se così fosse, la stessa contrattazione collettiva, protetta dall'art. 39 della Costituzione,
non potrebbe stabilire, in modo differenziato, il trattamento delle diverse categorie e delle
diverse professionalità, ne dal canto suo il datore di lavoro potrebbe esercitare un benché
minimo potere gestionale applicando un diverso trattamento sulla base di clementi
discriminatori che non ledono la pari dignità e libertà e che, se del caso, sono collegati al
rendimento e ad altre caratteristiche individuali.
La parità di trattamento consiste, pertanto, nell’offrire ai lavoratori uguali opportunità a
prescindere dal sesso, dalle origini emiche, dalla nazionalità, dalle opinioni, dalla
religione, dall'aderenza ad associazioni, ecc., e nel divieto di effettuare della scelte,
preferenziali o negative, sulla base degli stessi elementi, sia in fase di costituzione del
rapporto di lavoro sia durante il suo svolgimento.
In altre parole, è possibile differenziare il trattamento di Tizio da quello di Caio perché è
più bravo, ha più esperienza etc.; ma non è possibile fare lo stesso se la ragione della
differenziazione è il sesso di Caio, o la sua razza, etc.
La contravvenzione del divieto di discriminazione, peraltro sancito dall'art. 15 dello
Statuto, determina la nullità dei relativi atti e da luogo a sanzioni penali.
Inoltre, potendo la discriminazione essere perpetrata attraverso comportamenti lesivi della
Dignità (Integrità Morale) del lavoratore, è stato riconosciuto alla vittima della
discriminazione anche il diritto al risarcimento dei danni.
3. La discriminazione per sesso. Le fonti normative inerenti al divieto di discriminazione per l’accesso al lavoro o,
comunque, sul lavoro, sono sparse un po' dappertutto.
Storicamente il primo elemento di discriminazione è stato il sesso, tant'è che lo stesso
costituente si è sentito in obbligo di statuire, all'art. 37 della Costituzione, la parità dei
diritti tra l'uomo e la donna a parità di lavoro.
A tale principio si sono ispirate le norme che hanno poi dettagliatamente sancito la parità
tra uomini e donne e, correlativamente, la nullità degli atti, dei fatti e dei comportamenti
discriminatori in base al sesso, quali, al di là dell'art 15 dello Statuto:
• la legge n. 903 del 1977, sulla parità tra l'uomo e la donna sul lavoro;
• la legge n. 125 del 1991, sulle azioni positive per la realizzazione delle pari
opportunità tra uomo e donna, abrogata e sostituita dal d.lgs. n. 198 del 2006
recante il "codice delle pari opportunità";
104
• il d.lgs. n. 145 del 2005, attuativo di una direttiva CE in materia di parità tra uomo e
donna sul lavoro, integrativo delle norme già vigenti in materia.
E' dunque vietato ogni atto, fatto o comportamento che produca un effetto meno
favorevole nei confronti di un lavoratore o di una lavoratrice rispetto ad un altro o ad
un'altra in situazioni analoghe; ciò varrebbe anche per quanto attiene alle opportunità di
carriera nei livelli più elevati, ma in tal caso il divieto di discriminazione cede di fronte alla
discrezionalità riconosciuta al datore di lavoro di scegliere i suoi più diretti collaboratori,
laddove tali scelte restano insindacabili in quanto avvengono sulla base di elementi
prevalentemente fiduciari.
Costituisce altresì deroga al suddetto principio il caso in cui il sesso sia un requisito
essenziale per la particolare prestazione lavorativa nonché nel caso di lavori gravosi.
In ambito di discriminazione si usa distinguere tra discriminazione diretta e
discriminazione indiretta, laddove la prima è immediatamente rilevabile nell'azione,
atto o comportamento discriminatorio, mentre l'altra, meno evidente, per lo più è desunta
da dati statistici dimostrativi del fatto che atti apparentemente neutri pongono, invece, in
situazione di svantaggio determinate categorie di lavoratori.
In ambito processuale, nel caso di Discriminazione Diretta l’onere della prova spetta allo
stesso lavoratore discriminato; invece, nel caso di Discriminazione Indiretta l’onere della
prova della non discriminazione si rovescia sull’imprenditore, cui incombe di discolparsi
dall’accusa di discriminazione.
Una volta accertata la discriminazione, il giudice potrà stabilire nella sentenza un
"piano di rimozione" delle discriminazioni.
È un rimedio processualmente innovativo (anche se, sinora, poco utilizzato), che è stato
previsto per cercare di conferire più mordente alla normativa.
4. Gli altri divieti di discriminazione. Il generale divieto di discriminazione, sancito dall'art. 15 dello Statuto, è arricchito dalle
norme antidiscriminatorie contenute in varie disposizioni di legge ad hoc facenti specifico
riferimento alla discriminazione:
• in base alla razza ed alle origini etniche (d.lgs. n. 215 del 2003);
• in base alla religione, alle convinzioni personali, alla situazione di handicap, all'età,
alle abitudini sessuali (d.lgs. n. 216 del 2003).
Tali decreti definiscono il concetto di non discriminazione, tanto diretta quanto indiretta,
in relazione ai suddetti fattori, includendo in esso anche la nozione di "molestia ambientale" assimilabile ai comportamenti mobbizzanti, e prevedono particolari
strumenti di tutela giurisdizionale in caso di acclarata discriminazione.
5. Le azioni positive.
105
Alle nonne negative della discriminazione si accompagnano quelle inerenti alle azioni positive, che contemplano, cioè, non divieti bensì forme di tutela a favore di particolari
categorie ritenute in posizione di svantaggio, quali i disabili e le lavoratrici, nonché
iniziative per la realizzazione concreta delle pari opportunità.
E se per i disabili vi è tutta una normativa protezionista, che addirittura riserva loro una
quota di posti di lavoro (legge n. 68 del 1999), per la lavoratrice la legge n. 125 del 1991
prevede solo che siano adottate le misure necessario a rimuovere gli ostacoli che di fatto
impediscano la realizzazione concreta delle pari opportunità.
In ambito europeo non mancano casi di eccessivo protezionismo che si sono tradotti in
disparità di trattamento all'inverso e cioè troppo a favore delle donne ed in danno degli
uomini.
Si prendi come es. una legge di un Land tedesco, la quale prevedeva che a parità di
punteggio in un concorso, si assumesse obbligatoriamente la donna; l'uomo
conseguentemente svantaggiato, il sig. Kalanke, introdusse un ricorso, poi pervenuto alla
Corte di Giustizia, volto a far dichiarare l'illegittimità della norma, a causa della
discriminazione "a rovescio" che essa concretava.
La Corte dette ragione, in quel caso, al ricorrente, censurando in particolare
l'automatismo del privilegio stabilito dalla legge oggetto del giudizio.
Sentenze successive hanno ribadito il concetto, ma attenuandolo: ad es., nella sentenza
Marshall è stata ribadita l'illegittimità di quote automatiche, ma si è anche aggiunto che
se una certa legge prevede, invece, un meccanismo non così "cieco", ma che preveda la
possibilità, per il datore di lavoro, di motivare perché o stata preferita una donna, tale
preferenza deve ritenersi legittima.
CAPITOLO XXIX
Malattia e Congedi Parentali
1. La Sospensione della Prestazione di Lavoro. Pur in presenza di un rapporto di natura sinallagmatica, a prestazioni corrispettive, qual
è il rapporto di lavoro, in alcuni casi o in relazione ad alcuni stati particolari il lavoratore
ha diritto alla retribuzione nonostante non esegua alcuna prestazione lavorativa.
Tali casi e stati personali sono ritenuti così meritevoli di tutela che il relativo onere, ossia
la spesa da sostenere in assenza di una controprestazione, è posta a carico del datore di
lavoro o di istituti di previdenza.
La fonte normativa primaria in tal senso è l’art. 2110 c.c., che pur individuando una
casistica delle interruzioni della prestazione lavorativa che mantengono in vita il rapporto
di lavoro, quali l'assenza per malattia o infortunio nonché per gravidanza o puerperio,
106
demanda alla legge ed alla contrattazione collettiva la relativa disciplina ma anche
l'individuazione di eventuali atri tipi di permessi o, comunque, di interruzioni dell'attività
lavorativa, retribuite e non, che non danno luogo all'interruzione del rapporto di lavoro.
La norma codicistica, sostanzialmente derogativa del principio della corrispettività, opera,
tuttavia, in una duplice direzione; essa, infatti, nel prevedere forme di interruzione della
prestazione lavorativa stabilendo, per l'effetto, il divieto di risoluzione del rapporto di
lavoro quando l'assenza determinata dai motivi stabiliti dalla legge (es. Maternità) e dalla
contrattazione collettiva (es. la Malattia) e nei limiti stabiliti dalle stesse fonti, al tempo
stesso conferisce legittimità alla risoluzione del rapporto di lavoro quando l'assenza si sia
protratta oltre il limiti stabiliti.
2. Malattia. Il motivo di assenza più frequente e quello dello stato di malattia, laddove come tale si
intende non la malattia in senso cimice bensì quello stato patologico impeditivo della
prestazione lavorativa.
Relativamente allo stato di malattia vi sono, tuttavia, determinati obblighi in capo al
lavoratore ed altrettanti diritti a favore del datore di lavoro.
Il lavoratore, in particolare, deve dare tempestiva comunicazione dello stato di infermità,
deve produrre la relativa certificazione medica entro un certo termine (in genere 3 giorni) e
deve rendersi reperibile nelle fasce orarie durante le quali sono esperibili controlli medici;
il lavoratore, inoltre, deve astenersi da attività che rallentino la guarigione.
Dal canto suo il datore di lavoro ha diritto di far eseguire controlli medici dello stato di
malattia del lavoratore, a tal fine avvalendosi solo di medici delle strutture pubbliche
(ASL, INPS), ha il diritto di irrogare sanzioni disciplinari quando il lavoratore abbia
disatteso i suoi obblighi, ha il diritto di risolvere il rapporto di lavoro quando l'assenza per
malattia si sia protratta oltre i limiti.
I limiti di durata della malattia, superati i quali interviene la legittima risoluzione del
rapporto di lavoro, sono stabiliti dalla contrattazione collettiva.
La durata massima della malattia è detta periodo di comporto ed è normalmente di 6
mesi (nel pubblico impiego è di 18 mesi).
Il periodo di comporto può essere continuativo o per sommatoria: nel primo caso la
risoluzione del rapporto interviene solo quando il periodo di assenza sia continuativo, di
tal che un giorno di presenza azzera il conteggio del periodo di comporto e esso ricomincia
daccapo; nell'altro caso alla formazione del periodo di comporto concorrono tutte le
assenze per malattia verificatesi in un determinato lasso di tempo (in genere 3 anni).
Salvo nel caso di rapporto di lavoro a termine, durante il periodo di assenza per malattia il
lavoratore non può essere licenziato per giustificato motivo ma può esserlo per giusta
causa, ossia per fatto a lui imputabile.
Per il periodo di assenza di malattia il lavoratore ha diritto alla retribuzione nella misura
prevista ancora una volta dai contratti collettivi: non è detto che questa retribuzione sia
pari al 100% per tutto il periodo del comporto, potendo essere anche essere prevista
in misura più ridotta.
3. Maternità e paternità. La maternità è la seconda principale causa di assenza dal servizio che gode di una
particolare tutela.
Le massime fonti normative in proposito sono l’art. 37 della Costituzione e l’art. 2110 c.c..
107
Una più dettagliata disciplina della maternità e della tutela della lavoratrice madre è stata
introdotta dalla legge n. 1204 del 1971, poi integrata dalla legge n. 903 del 1997,
estensiva delle relative norme a favore del padre, e infine dalla legge n. 53 del 2000,
istitutiva dei cosiddetti congedi parentali.
Il complesso delle disposizioni in materia o ora raccolto nel d.lgs. n. 151 del 2001.
La normativa in argomento è ispirata a fini di tutela non solo della madre lavoratrice ma
anche del figlio ed è in tale ottica che essa prevede particolari forme di tutela per il
periodo di gravidanza, per un periodo a cavallo del parto, per un periodo durante il quale
il minore deve essere assistito e non solo da parte della madre lavoratrice bensì anche da
parte del padre.
In particolare, le astensioni dal lavoro per maternità sono:
• il congedo per maternità, spettante a cavallo della data del parto per complessivi 5
mesi; 2 mesi prima della data presunta del parto e 3 mesi dopo la data effettiva dello
stesso, od anche, rispettivamente, un mese prima e 4 mesi dopo; nel caso di
gravidanza a rischio, certificata dall'Ispettorato del lavoro, l'astensione dal lavoro
prima della data presunta del parto può essere notevolmente anticipata; il congedo
per maternità per il periodo dopo il parto spetta anche al padre qualora la madre
lavoratrice non ne fruisca o sia assente (per decesso o abbandono) ed il minore sia a
lui affidato; durante il periodo di congedo per maternità la retribuzione è corrisposta
per intero, pur se a carico sia del datore di lavoro che di istituti di previdenza;
• il congedo parentale per assistere il figlio minore di 8 anni, del quale possono fruire,
alternativamente, sia la madre che il padre, per 6 mesi ognuno ma a concorrenza del
periodo massimo cumulato di 10 mesi; qualora il padre fruisca di tale congedo per
un periodo di almeno 3 mesi, la sua dotazione ed il periodo complessivo massimo
sono rispettivamente aumentati a 7 e 11 mesi; durante tale periodo di congedo al
genitore che ne fruisce spetta un'indennità pari al 30% della retribuzione, a carico
dell’INPS; se uno dei due genitori non lavora, l'altro può fruire di tale tipo di congedo
soltanto per la sua quota individuale di 6 mesi, ma se il genitore è solo (per decesso o
abbandono dell'altro) o è il solo ad assistere il minore (per incapacità dell'altro) ha
diritto a fruire del congedo parentale per l'intero periodo massimo complessivo di 10
mesi;
• i riposi giornalieri, consistenti in due ore di riposo (in genere "per allattamento") dei
quali può fruire il genitore fino ad un anno di vita del bambino; può fruire di tali
riposi anche il padre quando la, madre lavoratrice vi rinunci, quando non sta
lavoratrice dipendente, quando la madre sia deceduta o gravemente inferma o
quando abbia abbandonato la famiglia; questi periodi di riposo sono interamente
indennizzati dall’INPS;
• i congedi per malattia del figlio minore di 8 anni, spettanti alternativamente alla
madre o al padre e per tutta la durata dell'evento, fino al terzo anno d'età del minore,
e nel limite di 5 giorni all'anno, per il minore di età compresa fra i 3 e gli 8 anni; tali
congedi non sono retribuiti.
La normativa tutela non solo in termini positivi bensì anche in termini negativi, ossia di
divieto di licenziamento in occasione della maternità e, tuttavia, con alcune eccezioni: tale
divieto non sussiste, infatti, nel caso di licenziamento per giusta causa (ossia per motivi
108
imputabili a responsabilità del lavoratore), nel caso di cessazione dell'attività dell'azienda,
per scadenza naturale del rapporto di lavoro a termine e per mandato superamento del
periodo di prova.
CAPITOLO XXX
Il Contratto a Tempo Determinato
1. Premesse generali. Il contratto di lavoro a termine è quel contratto di lavoro, ora ammesso dall’ordinamento,
derogativo del generale principio della stabilità del rapporto di lavoro.
In una disciplina del rapporto di lavoro e della sua formazione non poteva non tenersi
conto che le esigenze di forza lavoro da parte delle imprese sono in taluni casi
caratterizzate da estrema flessibilità, a causa di forti aumenti o diminuzioni della
produzione in determinati periodi dell'anno od anche in relazione alle commesse che
impegnano l'impresa per un determinato periodo di tempo, di tal che un rapporto di
lavoro costituito a tempo indeterminato si trova a dover affrontare ipotesi di licenziamento
conseguenti alla ridotta produttività dell'impresa.
109
Il rapporto di lavoro a termine soddisfa le maggiori esigenze occasionali o stagionali o a
termine dell'impresa ma forma, per altro verso, quel precariato che porta con sé tutta una
serie di implicazioni di ordine sociale.
2. La legge n. 230 del 1962 e il processo di riforma. La prima disposizione di legge in materia di Rapporto di Lavoro a Termine è stata la L. n.
230/1962.
Questa legge partiva dal concetto che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato fosse la
regola, e il Contratto a termine l’eccezione.
Essa individuava tassativamente le ipotesi (Causali) in presenza delle quali era possibile
assumere a termine un lavoratore; esse sono:
a) la sostituzione di un lavoratore assente (per malattia o maternità) con diritto alla
conservazione del posto;
b) l’eccezionalità ed occasionalità di esigenze di una maggiore forza lavoro per un
periodo di tempo determinato.
Col tempo, altre causali sono state aggiunte, come quando una legge del 1978, e poi
definitivamente del 1983, aggiunse la causale delle "punte stagionali" di attività (che è
cosa diversa dal concetto di attività stagionale: quest'ultima è un'attività che si svolge
soltanto in una certa stagione, mentre parlando di punte stagionali si allude ai casi di
intensificazione dell'attività in certe stagioni dell'anno).
Un'ulteriore flessibilizzazione fu apportata dall'art. 23 della legge 28 febbraio 1987 n. 56,
il quale stabilì che, attraverso contratti collettivi stipulati dalle associazioni aderenti alle
confederazioni maggiormente rappresentative, si potessero introdurre nuove causali che
rendessero lecito il ricorso ai contratti a termine.
Peraltro, anche se le causali, sia di fonte legale che contrattuale, aumentavano, e con esse
la possibilità di far ricorso a contratti a termine, i! sistema era sempre basato sulla regola
del contratto a tempo indeterminato.
Questo significava che se un lavoratore veniva assunto a termine in virtù di una causale
non prevista, il lavoratore aveva diritto a veder "convertito" il suo rapporto in rapporto a
tempo indeterminato.
Nel frattempo, la Comunità Europea ha emanato la direttiva n. 70 del 1999. che ha
cercato di stabilire alcune regole minime per il contratto a tonnine, che gli Stati mèmbri
avrebbero dovuto applicare.
Tale Direttiva è stata attuata col d.lgs. 368/2001, che ha contestualmente abrogato la
Legge 230/1962.
3. Il d.lgs. n. 368 del 2001. Il rapporto di lavoro a termine è ora disciplinato dal d.lgs. n. 368 del 2001 che, peraltro,
sta risentendo del diverso orientamento politico dei governi che si sono alternati in questo
inizio di secolo.
La nuova disciplina rende più agevole il ricorso a tale forma di rapporto di lavoro
subordinato prevedendo una condizione generale molto elastica; essa, infatti, a differenza
della legge n. 230 del 1962, che prevedeva rigide causali per la costituzione di rapporti di
lavoro a termine, stabilisce invece molto genericamente, all’art. 1, che ad un contratto di
lavoro possa apporsi un termine "a fronte di ragioni di carattere tecnico, organizzativo,
produttivo o sostitutivo", la cui dimostrazione è abbastanza semplice.
110
E tuttavia non per questo la nuova normativa si presta ad eludere con altrettanta facilità
il principio generale della stabilità del rapporto di lavoro.
Il ricorso alla costituzione dì rapporti di lavoro a termine è intanto ammesso per le
suddette "ragioni" e, al tempo stesso, è assolutamente escluso per la sostituzione di
lavoratori in sciopero o quando si siano avuti licenziamenti collettivi di pari qualifica
nonché nel caso in cui l’imprenditore non abbia effettuato la valutazione dei rischi di cui
alle norme in materia di sicurezza sul lavoro (d.lgs. n. 626 del 1994).
Il contratto di lavoro a termine deve essere stipulato in forma scritta ad substantiam e il
datore di lavoro è tenuto a darne copia al lavoratore.
Esso, inoltre, non può avere durata complessiva superiore a 3 anni, nel senso che
eventuali proroghe devono restare contenute entro tale limite.
Il trattamento giuridico ed economico del lavoratore a tempo determinato è disciplinato
dalla contrattazione collettiva che, peraltro, stabilisce anche le modalità di risoluzione del
rapporto prima della sua naturale scadenza.
Qualora il rapporto di lavoro prosegua di fatto, il lavoratore ha diritto ad una retribuzione
maggiorata del 20% per i primi 10 giorni successivi alla scadenza del contratto e del 40%
per l'ulteriore periodo e, comunque, non oltre il 30° giorno.
Pertanto: l'assenza di ragioni giustificatrici della costituzione di rapporti di lavoro a
termine, la mancata formalizzazione del contratto di lavoro ovvero la mancata indicazione
del termine, la proroga oltre i 3 anni, la permanenza in servizio oltre il 20° od oltre il 30°
giorno dalla scadenza (per i contratti a termine di durata, rispettivamente, inferiore o
superiore a 6 mesi) nonché il rinnovo del contratto prima che sia trascorso un
determinato lasso di tempo dalla scadenza di quello precedente, sono tutte valide causali
per convertire il rapporto di lavoro a termine in un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato.
CAPITOLO XXXI
I Contratti di Apprendistato e di Inserimento
1. Il Mercato del Lavoro in entrata. Insieme ai normali contratti di lavoro l'ordinamento prevede tipi di contratti nei quali il
datore di lavoro, a fronte di agevolazioni statali, ha l'ulteriore obbligo di formare il
lavoratore facendo così fruttare la sua esperienza lavorativa in termini di maggiore
professionalizzazione e, quindi, di agevolazione nella ricerca di un posto di lavoro.
Sono, questi, i contratti di apprendistato ed i contratti di formazione e lavoro, ora
sostituiti dai contratti di inserimento, i quali, al di là dell'obbligo formativo e di alcune
specialità, nel resto sono soggetti alla stessa disciplina applicabile per i normali contratti
di lavoro subordinato.
111
Tali contratti, pensati per favorire l’occupabilità e normalmente riservati ai giovani di età
compresa tra i 18 ed i 29 anni, consentono altresì all'imprenditore di fruire di una serie di
benefici di natura contributiva, retributiva e normativa e tale allettante prospettiva ha
alimentato abusi infine censurati dalla Commissione europea in termini di violazione delle
regole sulla concorrenza, in quanto le imprese facevano ricorso a tali forme di contratto al
solo scopo di fruire delle relative agevolazioni e senza dare in cambio la prevista
formazione.
Il d.lgs. n. 276 del 2003 ha ridisciplinato i contratti di apprendistato ed ha decretato la
fine dei contratti di formazione e lavoro (tranne che nel settore pubblico) sostituendo
questi ultimi con i contratti di inserimento rivolti alle categorie di "lavoratori svantaggiati"
sì come individuati dalla stessa normativa e non soltanto ai giovani.
2. I contratti di apprendistato. Il contratto di apprendistato, destinato a chi, abbandonati gli studi, intende acquisire una
formazione sul campo, ha fatto la sua comparsa nell'ordinamento con la legge n. 25 del
1955.
Tale contratto offriva prospettive di lavoro all'apprendista, il quale al termine del periodo
di apprendistato poteva essere confermato con un contratto di lavoro a tempo
indeterminato, ed assicurava all'imprenditore tutta una serie di agevolazioni, quali: la
riduzione degli oneri contributivi all'INPS per tutto il periodo dell'apprendistato e fino ad
un anno dalla scadenza nel caso di conferma del lavoratore; l'inquadramento
dell'apprendista fino a due livelli inferiori rispetto a quello della corrispondente qualifica;
la non computabilità del lavoratore nell'organico dell'impresa ai fini delle norme
applicabili in base, appunto, al numero dei dipendenti.
La stipula di contratti di apprendistato era subordinata all'autorizzazione della Direzione
provinciale del lavoro ed il suo svolgimento era assoggettato ad una forma di controllo di
verifica della effettività della formazione e della legittimità dell'erogazione dei previsti
benefici.
La riforma dell'istituto è avvenuta col d.lgs. n. 276 del 2003 che ha abolito la previa
autorizzazione ma nel resto è da ritenersi norma di indirizzo per le Regioni cui è
demandata la relativa attuazione. Il decreto prevede 3 diverse tipologie di contratti di
apprendistato:
a) il contratto di apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, di durata non superiore a 3 anni, riservato ai giovani di età non
inferiore ai 15 anni, finalizzato a consentire al lavoratore di completare il corso di
studi obbligatorio; b) il contratto di apprendistato professionalizzante, riservato ai giovani di età
compresa tra i 18 ed i 29 anni, finalizzato al conseguimento di una preparazione
professionale specifica, di durata non inferiore a 2 e non superiore a 6 anni; c) il contratto di apprendistato per l'acquisirono di un diploma o per percorsi di
alta formazione, la cui disciplina è demandata alla contrattazione collettiva.
112
Il contratto di apprendistato è, dunque, una sorta di contratto a termine che può
trasformarsi, alla scadenza, in un contratto a tempo indeterminato.
Il suo svolgimento resta regolato dalle stesse norme valevoli per il contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato; alla sua scadenza il datore di lavoro può confermare
l'apprendista convertendo il suo contratto in un contratto di lavoro a tempo
indeterminato.
Per il contratto di apprendistato è prevista la forma scritta e la violazione delle norme che
disciplinano l'istituto espone l'imprenditore a sanzioni di tutto rilievo: infatti, al di là delle
rivendicazioni del lavoratore, che può chiedere ed ottenere - con sentenza – il
riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, l'INPS può
agire per il recupero delle contribuzioni non versate.
3. Il contratto di inserimento. Il contratto di inserimento, di cui all'art. 54 e seguenti del d.lgs. n. 276 del 2003, ha
sostituito il contratto di formazione e lavoro con un'importante novità: esso, infatti, non è
più riservato esclusivamente ai giovani di età compresa tra i 18 ed i 29 anni bensì anche
ad altri soggetti che lo stesso art. 54 qualifica, insieme ai primi, "lavoratori disagiati", e
cioè:
• i disoccupati di lunga durata;
• gli ultracinquantenni privi del posto di lavoro;
• le donne residenti in aree geografiche nelle quali il tasso di occupazione femminile è
inferiore di almeno il 20% rispetto a quello maschile ovvero il tasso di disoccupazione
femminile è superiore a quello maschile di almeno il 10%;
• le persone riconosciute affette da grave handicap.
Ai sensi dell'art. 54 del decreto, il contratto di inserimento è "un contratto di lavoro diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, l'inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro" delle categorie di
lavoratori svantaggiati ivi individuate.
La durata del contratto di inserimento, per il quale è prevista la forma scritta, è non
inferiore a 9 e non superiore a 18 mesi.
Esso prevede, quindi, un piano di adattamento individuale o, meglio, di adattamento delle
potenzialità professionali del lavoratore a quel determinato contesto lavorativo, sì da
consentirne un recupero attivo, e alla scadenza può essere convertito in contratto di
lavoro a tempo indeterminato.
Col contratto di inserimento l'imprenditore fruisce, per lo più, delle stesse agevolazioni
contributive (sgravi), retributive (sottoinquadramento del lavoratore) e normative (con
computabilità del lavoratore nell'organico dell'impresa) previste per i contratti di
apprendistato.
113
CAPITOLO XXXII
Il Licenziamento Individuale
1. Premessa. Il licenziamento del lavoratore consiste, in pratica, nella risoluzione del rapporto
contrattuale.
Ciò nonostante il relativo istituto ha una disciplina specifica e non ricade in quello
generale di risoluzione dei rapporti contrattuali, in quanto il rapporto di lavoro è
caratterizzato da una serie di diritti del lavoratore in relazione ai quali lo stesso gode di
una particolare tutela che non può essere annullata, con un colpo solo, attraverso il
licenziamento.
2. Dal recesso ad nutum al principio del giustificato motivo.
114
La risolvibilità del rapporto di lavoro, alla stregua di un qualsiasi rapporto contrattuale, è
prevista dall'ari. 2118 c.c. che, allo stato, trova residuale applicazione solo nel caso delle
dimissioni, ossia di risoluzione del rapporto di lavoro per decisione del prestatore di
lavoro.
La norma codicistica, rimasta valida fino all'entrata in vigore della legge n. 604 del 1966,
poneva il datore di lavoro ed il lavoratore sostanzialmente sullo stesso piano, al pari di un
qualsiasi altro rapporto contrattuale, di tal che il datore di lavoro poteva risolvere il
rapporto - ma ciò poteva farlo anche il lavoratore - senza dover dare alcuna giustificazione
della sua decisione in tal senso; il recedente, indistintamente, aveva solo l'obbligo di
comunicare la sua decisione con un certo preavviso rispetto alla decorrenza della
risoluzione del rapporto e, in mancanza, di corrispondere all'altro l’ammontare della
retribuzione corrispondente a tale periodo.
I termini di preavviso trovarono una definizione nella regola cosiddetta degli "8 giorni", ossia di una settimana, che dovevano servire al lavoratore per trovare un'altra
occupazione e, dall'altro lato, al datore di lavoro per provvedere alla sostituzione del
lavoratore dimissionario.
Tali termini sono stati dilatati dalla contrattazione collettiva che, peraltro, prevede una
maggior durata del preavviso a carico del datore di lavoro.
L'art. 2119 c.c. prevede ancora, invece, la risoluzione del rapporto di lavoro senza
preavviso in presenza di una giusta causa, e cioè in di una circostanza talmente grave da
non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro.
La disciplina in materia è stata rivoluzionata dalla legge n. 604 del 1966, introduttiva del
principio della obbligatorietà di un "giustificato motivo" a sostegno del licenziamento,
in mancanza del quale esso è nullo ed il lavoratore ha diritto ad essere reintegrato nel
posto di lavoro; quest'ultima normativa è stata integrata dall'art. 18 dello Statuto, che ha
disciplinato le modalità di esercizio del diritto alla reintegra o, in mancanza, al
risarcimento.
A seguito della nuova disciplina il licenziamento è legittimo solo in presenza di un
giustificato motivo riconducibile a ragioni soggettive, riconducibili ad inadempienze del
lavoratore tali da determinare azioni disciplinari (giustificato motivo soggettivo), e non solo
in presenza di fatti o comportamenti di gravita tale da non consentire la prosecuzione del
rapporto di lavoro (cosiddetto licenziamento "in tronco") e da esonerare altresì dall’obbligo
del preavviso.
3. La forma del licenziamento. Il giustificato motivo, costituente presupposto necessario per il licenziamento, porta con
s'è la forma per esso richiesta che, ai fini della verifica della esistenza o meno di tali
motivi, deve essere scritta.
Normalmente i motivi del licenziamento vengono comunicati insieme ad esso e, tuttavia,
ciò non è obbligatorio, salvo che il licenziamento non costituisca la fase finale del
procedimento disciplinare il quale, iniziando con la contestazione scritta, già rende nota
l'inadempienza contrattuale causa del successivo licenziamento.
Quando i morivi del licenziamento - non disciplinare - non vengono comunicati, il
lavoratore può fame richiesta entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento ed il
datore di lavoro deve dargliene notizia nei 7 giorni successivi.
In mancanza il licenziamento è inefficace e il lavoratore ha diritto alla reintegra nel posto
di lavoro.
115
Si distinguono 2 tipi di Licenziamento: “Per Ragioni Soggettive” e “Per Ragioni Oggettive”.
Entrambi sono disciplinati dalla L.604/1966.
4. Licenziamento per Ragioni Soggettive Il Licenziamento per Ragioni Soggettive è quello che fa riferimento alla condotta del
lavoratore.
Esso è detto anche Licenziamento Disciplinare, visto che per irrogarlo occorre rispettare
la procedura per le sanzioni disciplinari prevista all'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, per
cui occorre prima contestare l'addebito, garantire al lavoratore il diritto di difendersi entro
cinque giorni, e poi arrivare, se è il caso, all'irrogazione del licenziamento.
Ne distinguiamo 2 tipi:
a) Licenziamenti per Giustificato Motivo Soggettivo: trovano il loro fondamento e
cioè il loro “giustificato motivo”, nell’inadempimento contrattuale da parte del
lavoratore.
L’inadempimento che da luogo al licenziamento deve essere "notevole", ossia di
gravità tale da determinare tale forma di risoluzione del rapporto di lavoro.
Se la violazione non è notevole, evidentemente, si tratterà pur sempre di un
inadempimento, ma il lavoratore che l'ha commessa sarà al massimo passibile di
una sanzione disciplinare minore (es. la sospensione).
La gravità del comportamento e la relativa sanzione è definita dalla contrattazione
collettiva, atteso che a tale fonte normativa è demandata la definizione del codice
disciplinare.
b) Licenziamenti per Giusta Causa: la Giusta Causa costituisce un’aggravante del
Giustificato Motivo Soggettivo; infatti in questo caso l’inadempimento deve essere
“notevolissimo” visto che comprende comportamenti di assoluta, totale e
irrecuperabile gravità, tali da comportare l'estromissione immediata del lavoratore
dall'azienda, fermo il rispetto della procedura ex art. 7 dello Statuto dei lavoratori.
La giurisprudenza, lavorando sul concetto di giusta causa, ha aggiunto che possano
configurare giusta causa anche fatti molto gravi che non costituiscono
inadempimento contrattuale, ma che, per le caratteristiche oggettive che hanno in
termini di gravita e per il particolare grado di colpevolezza soggettiva, rappresentano
una lesione definitiva di quell'elemento di fiducia che è la base del rapporto di lavoro.
Questo significa che nel concetto di giusta causa possono rientrare, oltre agli
inadempimenti gravissimi, anche fatti formalmente estranei al concetto di
inadempimento (e quindi estranei agli obblighi contrattuali) e come tali attinenti alla
vita privata del lavoratore, che però, per la loro gravita, hanno una ricaduta negativa
sul rapporto (ad es. la commissione di gravi reati da parte del lavoratore).
I casi più frequenti (in giurisprudenza) concernono settori come quello bancario,
dove l'attività ha certe caratteristiche di affidamento verso il pubblico: è chiaro che se
un cassiere o un vicedirettore di filiale viene condannato per spaccio di sostanze
stupefacenti, o addirittura per reati attinenti al patrimonio (anche se non relativi alla
banca), la base fiduciaria del rapporto può considerarsi irrimediabilmente lesa.
Ai sensi dell'alt. 5 della legge n. 604 del 1966, la prova dell'inadempimento è a carico del
datore di lavoro.
5. Licenziamento per Ragioni Oggettive.
116
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo prescinde dalla Condotta riprovevole del
lavoratore essendo invece collegato a situazioni o scelte aziendali.
La legge n. 604 del 1966 individua infatti quale giustificato motivo oggettivo del
licenziamento quello sorretto da “ragioni inerenti all'attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare svolgimento di essa". In pratica ogni mutamento organizzativo stabilito dall'imprenditore nell'ambito della sua
autonomia organizzativa può costituire giustificato motivo di licenziamento: dalla
chiusura di un reparto dell'azienda alla diversa organizzazione tecnologica di una
determinata lavorazione nonché la sopravvenuta non idoneità del lavoratore ad una
determinata mansione.
In buona sostanza è un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ogni situazione di
non utilizzabilità del lavoratore.
Ovviamente il giudice non può sindacare le decisioni dell'imprenditore dalle quali deriva il
licenziamento; se ciò fosse possibile, il giudice finirebbe per sovrapporsi all'imprenditore,
invadendo la sua sfera di libertà, che è garantita anche costituzionalmente dall'art.47
comma 1 (libertà di iniziativa economica).
Il compromesso che la giurisprudenza ha trovato, è il seguente;
a) il giudice potrà e dovrà verificare, in primo luogo, la veridicità della ragione addotta. Se dico che ho chiuso un ufficio e poi magari questo non è vero, ma ho solo
tolto qualche scrivania oppure ne ho chiuso solo una parte, è evidente che la
valutazione del giudice sarà negativa;
b) il giudice potrà e dovrà verificare, in secondo luogo, se da quella ragione è dipeso il
licenziamento di quel lavoratore, cioè se esiste un nesso di causalità tra la premessa
e la conseguenza.
Se affermo di aver chiuso un ufficio, e poi licenzio una persona che non lavorava in
questo ufficio, è evidente che il nesso di causalità manca; così come potrà mancare
anche se quella persona era stata strumentalmente inserita in quell'ufficio il giorno
prima della sua chiusura;
c) il giudice potrà e dovrà verificare, infine, che il datore di lavoro abbia provato
l'impossibilità di utilizzare il lavoratore in un'altra mansione: ciò significa che il
licenziamento deve rappresentare l'extrema ratio.
6. Il regime sanzionatorio: la tutela obbligatoria e la tutela reale. Il licenziamento attuato in assenza di un giustificato motivo determina l'illegittimità dello
stesso ed impone la conseguente riparazione a favore del lavoratore che, in tal caso, gode
in un particolare regime di tutela.
All'illegittimità del licenziamento segue la sanzionabilità dello stesso in termini obbligatori
od anche in termini reali.
Dunque, occorre distinguere 2 tipi di tutela:
a) Tutela Obbligatoria: tale regime sanzionatorio è disciplinato dall’art.8 della
L.604/1966 (modificato dalla L.108/1990).
Si applica alle Imprese da 1 a max 15 dipendenti, nonché alle cosiddette
Organizzazioni di Tendenza, quali quelle politiche, nell'ambito delle quali un
atteggiamento del lavoratore contrario alla tendenza dell'organizzazione è di per sé
sintomatico di una situazione di incompatibilità che non consente la prosecuzione
117
del rapporto di lavoro e deve perdo escludere l'ipotesi di reintegra del lavoratore.
In questo caso, la riassunzione in servizio può essere sostituita, a scelta
dell'imprenditore, dal pagamento di una penale risarcitoria pari ad un numero di
mensilità di stipendio da 2,5 fino a 6, a seconda dei casi; nel caso di riassunzione in
servizio il lavoratore non ha diritto ad emolumenti arretrati e il rapporto di lavoro
viene costituito ex novo, senza alcun collegamento con quello a suo tempo interrotto
col licenziamento.
Pertanto, in sostanza, il datore di lavoro, pagando un importo a titolo di penale
risarcitoria, fa sì che il licenziamento, pur non giustificato, sia comunque produttivo
di effetti.
Ottiene, cioè, quello che era il suo vero scopo: risolvere il rapporto con il lavoratore.
Tanto più che la scelta tra le due opzioni sanzionatorie spetta interamente al
medesimo datore.
Si parla di tutela obbligatoria, infatti, proprio perché si limita a determinare un
"obbligo", alternativo, per il datore di lavoro: nuova assunzione o risarcimento.
Il lavoratore non può condizionare in alcun modo tale decisione.
Si tratta di un regime abbastanza debole, nel senso che le cifre che vengono in gioco
sono abbastanza modeste; d'altra parte si tratta di piccole imprese.
b) Tutela Reale: tale regime sanzionatorio è disciplinato dall’art.18 dello Statuto
(anch’esso modificato dalla L.108/1990).
Si applica alle imprese che hanno più di 15 dipendenti nell'ambito del territorio
comunale o, comunque, più di 60 dipendenti a livello nazionale.
Prevede il ripristino del rapporto di lavoro a suo tempo interrotto ed il pagamento
delle mensilità perdute nel frattempo e, in ogni caso, non meno di 5; il lavoratore,
inoltre, può rinunciare alla reintegra nel posto di lavoro verso il pagamento di 15
mensilità della retribuzione globale di fatto; per l’effetto, l'imprenditore che di fatto
non reintegri il lavoratore che intende ritornare in servizio è tenuto comunque a
corrispondergli lo stipendio.
Dunque, questa è una tutela “Reale” in quanto comporta la riattribuzione, al
lavoratore illegittimamente licenziato, del proprio posto di lavoro.
Inoltre è una tutela più forte rispetto a quella Obbligatoria, proprio perché comporta
la reviviscenza del rapporto di lavoro, attraverso l’annullamento del licenziamento.
7. Il licenziamento discriminatorio. Il licenziamento discriminatorio è quell’atto di risoluzione del rapporto di lavoro, dovuto
alla attività e alle idee del dipendente espresse dentro o al di fuori dell'ambiente di lavoro.
Dunque, è quello derivante dalle situazioni contemplate dai decreti legislativi n. 215 e n.
216 del 2003 (Motivi di Discriminazione) e prescinde dall'esistenza o, meno di un
giustificato motivo.
Infatti, affermare che un licenziamento è discriminatorio è più che ritenerlo
semplicemente "non giustificato": un licenziamento può essere non giustificato, ma non
per questo essere discriminatorio,
Pertanto, la natura discriminatoria del licenziamento dovrà essere provata in positivo, e
questa volta da parte del lavoratore, di solito attraverso indizi e presunzioni; fatto salvo il
ricorrere delle condizioni per la parziale inversione dell'onere della prova prevista dalla
normativa anti-discriminatoria nei casi di discriminazione indiretta.
118
8. Le ipotesi di recesso ad nutum del datore di lavoro. L'art. 2118 c.c. non è stato del tutto sostituito dalla speciale normativa protettiva del
licenziamento e trova residuale applicazione nei confronti dei lavoratori appartenenti alle
seguenti 4 categorie:
a) dirigenti, per i quali è prevista una tutela economica, in caso di licenziamento non
giustificato, da parte dei contratti collettivi di categoria, che garantisce agli stessi
un'adeguata protezione, pur non consentendo loro di ottenere la reintegrazione nel
posto di lavoro;
b) lavoratori domestici; c) lavoratori ultrasessantenni aventi diritto a pensione;
d) lavoratori che non hanno superato il periodo di prova; questi possono impugnare
il licenziamento — per "abuso" del diritto di recesso — asserendo che il datore di
lavoro non li ha messi in condizione di effettuare la prova nelle mansioni per le quali
erano stati assunti, o per un tempo sufficiente.
Ma, anche ove tale impugnazione sia vittoriosa in giudizio, il lavoratore non può
comunque richiedere l'applicazione dell'art. 8 legge n.604/1966, e, soprattutto,
dell'art. 18, bensì soltanto domandare il risarcimento del danno, in una misura da
stabilire.
Queste quattro categorie sono comunque protette nel caso di licenziamento
discriminatorio.
CAPITOLO XXXIII
Crisi dell’Impresa ed Eccedenze di Personale
1. La crisi dell’Impresa. Quando un'azienda entra in crisi, subendo un calo dei profitti, difficilmente i rimedi
dell'imprenditore lasciano indenne il personale.
Allo stato di crisi corrisponde, infatti, un calo della produzione e, correlativamente, un
esubero di personale del quale l’imprenditore cerca di liberarsi per non sostenere la
relativa spesa.
In tale ipotesi sono 3 le soluzioni cui può farsi ricorso, due estreme ed una intermedia che
richiede l'intervento dello Stato, e cioè:
a) il riassorbimento degli esuberi mediante reimpiego in altre attività;
119
b) la sospensione assistita del rapporto di lavoro o la sua risoluzione incentivata;
c) i licenziamenti collettivi.
Il sindacato, chiamato a partecipare alle relative decisioni in fase consultiva, propende per
la prima soluzione mentre l’imprenditore propende per la terza.
Lo Stato invece interviene in relazione alla ripercussione sociale della crisi aziendale.
2. La cassa integrazione guadagni e i contratti di solidarietà difensivi. Il sistema di riassorbimento delle eccedenze di personale maggiormente diffuso è quello
della cassa integrazione guadagni ordinaria (GIGO) e speciale (CIGS), attraverso il quale
l’imprenditore sospende il rapporto di lavoro (cassa integrazione a zero ore) o ne riduce
la durata per un determinato periodo; la cassa integrazione a zero ore è, in genere,
l’anticamera del licenziamento collettivo che interviene al termine del relativo periodo se la
situazione aziendale non torma ai livelli precedenti.
La cassa integrazione, ossia il collocamento in cassa integrazione di tutti i lavoratori o
parte di essi, deve essere previamente autorizzata.
Quando la cassa integrazione riguarda una parte soltanto dei lavoratori dell'azienda, la
norma prevede l'attuazione di meccanismi secondo i quali ciò avvenga a rotazione e cioè
senza penalizzare soltanto una parte dei i lavoratori; ove ciò non sia possibile,
l’imprenditore deve darne conto in sede di consultazione con le organizzazioni sindacali.
La cassa integrazione ordinaria è concessa dall’INPS alle piccole imprese ed è di breve
durata, essendo essa riferita a periodi di crisi di lieve entità;
quella straordinaria è invece autorizzata dal Ministero del lavoro ad imprese con più di
15 dipendenti, nei casi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale o in presenza di
gravi periodi di crisi e la sua durata può protrarsi fino a 3 anni.
Il regime di cassa integrazione consente il mantenimento in vita del rapporto di lavoro pur
in assenza di pressione lavorativa e di corrispondente retribuzione.
Il lavoratore che viene collocato in cassa integrazione percepisce, per tutta la sua durata,
un'indennità - a carico dell'INPS - non superiore all’80% dell'ultima retribuzione.
La cassa integrazione dovrebbe essere concessa in presenza di situazioni di crisi
reversibili ma spessa si trasforma in un intervento di tipo assistenziale in quanto la
situazione di crisi e destinata a concludersi con il licenziamento collettivo.
Una forma particolare di cassa integrazione sono i cosiddetti contratti di solidarietà
stipulati a livello aziendale, che normalmente presuppongono una generalizzata riduzione
dell'orario di lavoro, con pari riduzione della retribuzione, tale da evitare il collocamento in
cassa integrazione di una parte dei lavoratori.
La metà delle retribuzioni non corrisposte per effetto della riduzione dell'orario di lavoro
viene poi restituita ai lavoratori in forma di indennità erogata dall'INPS previa
autorizzazione dal Ministero del lavoro.
3. Gli strumenti di risoluzione indolore dei rapporti di lavoro. Gli strumenti più utilizzati per risolvere in modo indolore le eccedenze di personale, ossia
in modo consensuale, sono sostanzialmente due:
120
• le dimissioni incentivate, che danno luogo alla corresponsione di un incentivo a
favore di chi risolva volontariamente il rapporto di lavoro; l'incentivo è di volta in
volta contrattato e l'onere è a carico dell'imprenditore;
• il prepensionamento, raramente stabilito con legge, che consente l'accesso a
pensione con requisiti minori rispetto a quelli normalmente richiesti; il relativo onere
cade a carico dello Stato.
4. I licenziamenti collettivi e la mobilità. I licenziamenti collettivi rappresentano le soluzioni estreme e talvolta conflittuali per
risolvere le eccedenze di personale.
Dal punto di vista pratico il licenziamento collettivo non è altro che una pluralità di
licenziamenti individuali per ragioni oggettive, essendo esso ammesso in presenza delle
stesse circostanze; ciò nonostante il relativo procedimento, attese le sue ripercussioni
sociali, è ora oggetto di una specifica disciplina tardivamente adottata in attuazione di
una direttiva comunitaria del 1975.
La legge regolante i licenziamenti collettivi è la n. 223 del 1991 che ha previsto qualcosa
in più rispetto a quanto stabilito dalla direttiva comunitaria; essa, infatti, oltre a
disciplinare l'istituto del licenziamento collettivo, sostanzialmente per quanto attiene agli
aspetti procedurali, ha altresì istituito le liste di mobilità che danno al lavoratore una
tutela ulteriore caratterizzata dall’attribuzione di un'indennità e dalla precedenza
nell'accesso ad una nuova occupazione per tutto il periodo di permanenza in tali liste.
Il lavoratore interessato da un licenziamento collettivo, in altre parole, pur risolvendo
immediatamente il rapporto di lavoro non resta immediatamente del tutto privo di forme
di sostegno economico e inoltre gode di maggiori prospettive di occupazione rispetto ad un
normale disoccupato.
La procedura di legge si applica, innanzitutto, soltanto alle aziende con più di 15
dipendenti che abbiano effettuato o programmato il licenziamento di almeno 5 unità in un
arco temporale di 120 giorni.
La relativa procedura prevede la previa comunicazione alle associazioni ed alle
rappresentanze sindacali di tutti gli elementi riguardanti l'operazione, e cioè:
• i motivi determinanti la situazione di eccedenza di personale;
• l'impossibilità di ricollocare i lavoratori in esubero;
• il numero ed i profili professionali dei lavoratori da licenziare.
Avuta l'informazione, i sindacati possono avviare la fase della consultazione, in tal modo
partecipando alle decisioni dell'imprenditore ma verificando innanzitutto la presenza delle
condizioni richieste.
La fase della consultazione è altresì finalizzata ad un accordo attraverso il quale sia
scongiurata o quanto meno limitata la soluzione estrema del licenziamento collettivo,
anche attraverso il ricorso alla cassa integrazione o ai contratti di solidarietà.
L'eventuale accordo deve concludersi nei successivi 45 giorni, in sede, od anche
nell'ulteriore periodo di 30 giorni ma in tal caso davanti alla Direziono provinciale del
lavoro.
121
In occasione dei licenziamenti collettivi l'imprenditore deve corrispondere ai lavoratori
licenziati l'equivalente di 9 mensilità che si riducono a 6 quando il licenziamento avviene
al termine del periodo di cassa integrazione.
Quando invece si raggiunge un accordo sindacale per effetto del quale il programma di
licenziamento viene modificato, le mensilità che l'imprenditore deve corrispondere ai
lavoratori licenziati si riducono a 3.
In mancanza di validi criteri previamente stabiliti dall'imprenditore, la scelta dei lavoratori
da licenziare (ponendoli nelle liste di mobilità) è effettuata secondo i criteri di legge, e cioè:
a) in base alle esigenze tecniche, organizzative e produttive;
b) in base all'anzianità di servizio, a discapito del più giovane;
c) in base al carico di famiglia, a discapito del soggetto col minor carico familiare.
Il lavoratore posto in mobilità è di fatto licenziato, in quanto da quel momento il rapporto
di lavoro è risolto a tutti gli effetti; la permanenza nelle liste di mobilità dura fino a
quando il lavoratore non abbia trovato una nuova occupazione e, comunque, per il
periodo massimo di 3 anni.
Durante tale periodo egli non resta del tutto privo di protezione, in quanto:
a) le imprese che intendono effettuare nuove assunzioni devono innanzitutto attingere
dalle liste di mobilità, sicché il lavoratore licenziato fruisce di una sorta di
precedenza rispetto al un normale disoccupato;
b) per tutto il periodo di permanenza nelle liste di mobilità il lavoratore gode di
un'indennità pari all'80% della cassa integrazione (a sua volta già pari all’80%
dell'ultima retribuzione) che viene erogata dall’INPS.