riassunto - diritto del lavoro

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RIASSUNTO DIRITTO DEL LAVORO di Valentino Longo

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Compendio del libro E.Clara - Diritto del lavoro

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RIASSUNTO DIRITTO DEL LAVOROdi Valentino Longo

PARTE PRIMAMercato e politiche di lavoro

- Diritto e mercato del lavoro

1. La a norma inderogabile nel diritto del lavoroIn ogni Paese europeo la rilevanza della “questione sociale” e la peculiarità del contratto di lavoro ha imposto il legislatore ad imporre misure rigide di tutela. Soprattutto nel caso italiano, per la mancanza di efficacia del contratto collettivo (per questioni politiche e sindacali), per cui, secondo gli art.1372 e 1322 c.c. un contratto ha forza di legge tra le parti solo se vi è un riconoscimento della volontà delle parti nel determinare il contenuto del contratto entro i limiti imposti dalla legge.

2. Crisi economica e tutela dei lavoratoriL'apparato normativo in materia, specialmente in Italia, è considerevole: prova della volontà del legislatore di garantire determinati diritti. Ma con le crisi economiche, in particolare a partire da quella degli anni '90, ha modificato fortemente le norme del diritto del lavoro, come anche le ideologie, i partiti e i sindacati e lo stesso concetto di subordinazione. Quindi sono entrate in gioco regole di carattere europeo per aumentare da un lato gli aspetti liberisti e a favore della concorrenza, dall'altro cercando di mantenere una serie di garanzie del lavoratore subordinato. Sono così nate una serie di numerose tipologie di contratto (flessibilità in entrata) che permettevano alle imprese una più agile scelta del personale (e una più semplice “rottura” del rapporto). D'altro canto le norme europee intendono comunque tutelare i diritti fondamentali del lavoratore, avendo la possibilità di scegliere tra un'ampia gamma di soluzioni. Per esempio, con l'utilizzo della “clausola sociale” nei trattati internazionali, con la quale gli Stati si impegnano a riconoscere i diritti sociali fondamentali, o attraverso il “marchio di qualità” sui prodotti, che è un mezzo di controllo sulle condizioni di lavoro, o ancora con la redazione e adozione da parte della singola azienda, di un “codice etico”.

3. Dialogo sociale e partecipazione dei lavoratoriUna terza strada intrapresa dall'Unione europea per la tutela del lavoro è il consolidamento della “contrattazione collettiva”, ancora in fase embrionale e lenta per via delle peculiarità dei sindacati e dei loro rapporti con la politica diversi da paese a paese. Le vie perseguite dall'Unione sono due: la prima è il “dialogo sociale”, che fa parte del c.d. “modello sociale europeo” e comprende discussioni, consultazioni e negoziazioni ed azioni congiunte intraprese dai rappresentati delle parti sociali. La seconda via è costituita dai diritti di informazione e consultazione, per rendere più partecipi i lavoratori ai processi aziendali. In particolare la direttiva n. 14 del 3003 introduce il “quadro generale relativo all'informazione e alla consultazione dei lavoratori nella Comunità europea”. È la legge di attuazione a tale direttiva (d.lgs. n.25/2007) che dà mandato ai contratti collettivi di stabilire le modalità di informazione e consultazione dei lavoratori, purché rendano efficace il sistema; indica le informazioni da fornire e le consultazioni da effettuare; predispone forti sanzioni amministrative per le violazioni e impone la riservatezza di quanto comunicato.

4. Libera concorrenza e diritti socialiElenco qui alcune cause di decadimento dei diritti sociali, nel perseguimento della competitività e della libera concorrenza:

1) Esternalizzazione e delocalizzazione: le imprese de localizzano la loro produzioni a sub-fornitori di PVS, i quali hanno un costo molto più basso.

2) Contratti flessibili: sono la causa di insicurezza del lavoro, pur dando “un po'” di

lavoro a più persone possibile.3) Dumping: i prodotti dei PVS sono a basso costo e venduti a prezzi estremamente

concorrenziali rischiano di minare il mercato delle imprese dei paesi avanzati; Dumping sociale: si verifica quando la tolleranza di standards meno rigidi, in materia di lavoro, da parte dei Paesi esportatori si trasforma in una sorta di sleale sovvenzione ai prodotti del Paese stesso: perché riversa i suoi effetti negativi sui lavoratori del Paese esportatore – che non hanno equi standards di protezione e retribuzione – e su quelli dei Pesi importatori – che soggiacciono alla concorrenza e perdono posti di lavoro.

4) Benchmarking: inteso come ottenimento di risultati di esperienze nazionali analizzati da una vasta gamma di campi di studio (economia, economia-politica, politica internazionale, scienze sociali) dai quali, però, non sempre emerge una nozione unica e condivisa.

5) Terziarizzazione: la sempre crescente utilità dei servizi aumenta il grado di flessibilità dei contratti di lavoro, infatti, somministrazione ed appalti modificano l'organizzazione e la gestione del lavoro, spesso comportando una diminuzione delle tutele.

5. Le strategie europee per l'occupazioneI modelli di organizzazione sono diversi in ogni Paese che deve rispondere alle esigenze di tutelare il lavoratore e ricercare la diminuzione dei costi, con il problema aggiunto di tutelare anche la nuova figura del lavoratore para-subordinato, cioè autonomo giuridicamente, ma economicamente dipendente dall'impresa. La risposta dell'UE risiede nel c.d. “Green Paper” (“La modernizzazione del lavoro di fronte alle sfide del 21° secolo”). Il rilievo che il diritto comunitario ha assunto nel diritto del lavoro è dovuto a tre passaggi-chiave: le competenze ampliate in materia sociale; il più vasto impiego delle deliberazioni a maggioranza qualificata, anziché all'unanimità; ed il riconoscimento della contrattazione collettiva come fonte. Si tratta inoltre di norme self-executing (a parte la libera circolazione dei lavoratori e la parità uomo-donna in materia di lavoro), volte ad una armonizzazione del tema nei diversi Stati parte. In realtà il Trattato europeo ha adottato queste caratteristiche per una fissazione di standards minimi, adattati alla situazione dei vari paesi, questo derivante dalla pressante richiesta dell'industria, di una maggiore flessibilità dei rapporti di lavoro per contrastare il fenomeno del dumping. In realtà questo problema sussiste anche con gli Stati che stanno pian piano entrando a far parte dell'UE stessa. Ci sono stati, però, alcune novità nella europeizzazione del lavoro: 1) il riconoscimento della normativa collettiva europea come fonte, 2) la sempre maggiore attenzione ai riferimenti alla soft law, cioè best practices e processo di benchmarking. Già il lavorista Marco Biagi aveva intuito questa necessità e l'aveva inserita nella legge che porta il suo nome (d.lgs. n° 276 del 2003) dal quale scaturiscono una serie di tipologie di contratto che vanno nella direzione delle richieste degli imprenditori, riprendendo anche il “pacchetto Treu” (legge n. 196/97) che istituiva il “lavoro temporaneo”. Resta il problema delle garanzie da attribuire ai vari contratti disciplinati: i tentativi di redarre uno “Statuto dei lavoratori”, infatti, sono andati delusi.

6. Il <<Green Paper>> del novembre 2006 e la flexicurityIl “Green Paper” è un'elencazione delle nuove tipologie dei contratti di lavoro, insieme ad un'analisi degli aspetti positivi (principalmente funzione di steps verso l'acquisizione di professionalità, formazione e conoscenza e la conseguente trasformazione in contratto a tempo indeterminato) e negativi (riduzione delle prospettive d lavoro a lungo-termine, e per i soggetti deboli, lavori di basso livello con una protezione sociale inadeguata). Il punto cardine che si deve perseguire è quello della c.d. flexicurity, cioè un equilibrio tra un sistema certo di tutele e una maggiore flessibilità del lavoro. Quindi per venire incontro ai

dubbi di flessibilità e sicurezza è stata istituita una commissione europea che sta cercando soluzioni univoche al dilemma.

PARTE SECONDAIl diritto sindacale

- Introduzione al diritto sindacale

1. Storia ed evoluzione sindacaleDiritto del lavoro e sindacale sono praticamente inscindibili. Non è possibile studiarne uno tralasciando l'altro. Il primo dei due a nascere è il contratto di lavoro, durante l'epoca liberista (in economia) e liberalista (in politica). Lo Stato non interviene nelle attività economiche private, finché non si sviluppa la c.d. “questione sociale”, cioè la mancanza di tutele e il libero accordo tra le parti. La povertà estrema e lo sfruttamento malpagato da parte degli imprenditori portò a forti ribellioni da parte della classe operaia che iniziò a riunirsi in sindacati di lavoratori, con i quali si opponevano alle decisioni imprenditoriali attraverso un utile strumento di ribellione: lo sciopero. I sindacati nascono con le “unions” inglesi e si diffondono rapidamente, con l'obiettivo di ottenere un salario minimo garantito (mercede): una richiesta destabilizzante per il sistema industriale che chiese ed ottenne misure drastiche per la penalizzazione dei sindacati. La forza del sindacato dei lavoratori sta nella sostituzione al contratto individuale sottomesso alle sole decisioni del “padrone”, con una contrattazione collettiva. La storia del sindacato è piena di periodi bui e di azioni molto spesso criminose ma col tempo iniziarono ad ottenere i primi risultati.

2. I collegi dei ProbiviriIl legislatore, in realtà, lasciò creare una normativa caso per caso ai giudici, ma non a giudici ordinari, ma ai collegi dei probiviri. I collegi dei probiviri erano organismi paritetici, che con giudizi in equità, attraverso un'opera di mediazione più che di interpretazione giudiziale, hanno creato le basi e gli istituti fondamentali del diritto del lavoro, pur agendo sui singoli casi. I primi casi di contratti collettivi scaturirono, infatti, proprio da qui, sotto il nome di concordati di tariffa. Il collegio svolge la sua attività fino all'arrivo del fascismo.

3. Magistratura del lavoro e legge sindacale fascistaIl periodo fascista dette molta attenzione al sistema sindacale, approvando la legge 563/1926, anche se attribuisce solo al sindacato ideologicamente prossimo al regime, il riconoscimento, con l'affidamento di pubbliche funzioni e la possibilità di penetranti controlli statali, e l'attribuzione di efficacia “erga omnes” ai contratti collettivi da esso stipulati. Viene anche istituita la “Magistratura del lavoro”, competente per controversie giuridiche ed economiche in campo lavorativo. Di conseguenza, ne derivava il divieto di esercizio di strumenti di autotutela , come lo sciopero e la serrata, considerati ora come crimini (art. 502 e ss. del c.p. del 1930). Altra conseguenza è la cessazione inevitabile dell'attività dei probiviri. Sempre nello stesso periodo il sistema sindacale sfociò in organizzazioni pubbliche (le Corporazioni) cui furono attribuiti compiti economici e poi anche politici: la “Camera dei fasci e delle corporazioni”.

4. I nuovi sindacati e gli accordi interconfederaliDopo la caduta del fascismo furono sciolte le corporazioni attraverso il decreto luogotenenziale 369/1944 e furono abrogate le relative norme, tranne, giustamente, le norme contenute nei contratti collettivi vigenti al momento (salvo le successive modifiche). I sindacati nati dopo il fascismo, appartenevano all'ideologia che aveva combattuto nelle battaglie partigiane. Inizialmente il sindacato era unitario, scaturito dal “Patto di Roma” (9

giugno 1944) e composto dalle tre maggiori potenze partitiche: comunista, socialista e cristiana. Ma quando il partito comunista andò all'opposizione (1948), anche la CGIL si staccò dall'unione sindacale e nel 1949, quando Saragat uscì da PCI, fondando il partito socialdemocratico, fu creata la UIL. Quindi, fino alla scomparsa dei relativi partiti, i sindacati hanno avuto una matrice politica. Le azioni più importanti del sindacato unico furono i tre patti interconfederali, dai quali è parzialmente scaturita la normativa vigente, gli accordi sulle commissioni interne (rappresentanze di lavoratori in azienda), sui licenziamenti collettivi e individuali. Negli ultimi anni della guerra, invece, con la Repubblica di Salò si diede vita a una serie di relazioni industriali che istituì i “Consigli di gestione”, una vera cogestione del potere aziendale. Ma durò solo un paio di anni, per l'intolleranza della CGIL a collaborare con la classe imprenditoriale. In assenza di riferimenti giuridici, i sindacati trovarono la loro legittimazione nell'art.39 della Costituzione del 1948 che prevede la libertà delle organizzazioni sindacali e la validità erga omnes dei contratti di lavoro. Ma i sindacati non vollero mai ottenere uno status giuridico, per non essere controllati dallo Stato e, di conseguenza, i contratti collettivi furono applicabili solo agli iscritti.

5. La legge Vigorelli, o erga omnes.Nel 1959 fu varata la c.d. legge Vigorelli con la quale, a dispetto del dettato dell'art.39 Cost. venivano estesi a tutti i lavoratori, i contratti collettivi allora vigenti. Ovviamente tale legge incontrò il parere contrario della Corte Costituzionale, che tuttavia dette alla legge un carattere transitorio (che durò 27 mesi), e l'impossibilità che un tale esempio si verifichi nuovamente. Fu, infatti, l'unica legge che dette ai contratti collettivi un'efficacia generale.

6. La contestazione operaia e lo “Statuto dei lavoratori”.Con il boom economico degli anni 60, si sentì forte la necessità di ricorrere alle protezioni sindacali e ai contratti collettivi. In questi anni i maggiori sindacati presero in mano le proteste operaie e divennero i principali interlocutori del governo. E nella fase della contestazione operaia del '68-'69, il governo approvò una legge di carattere quasi esclusivamente sindacale (lo “Statuto dei lavoratori”) che riprende la legge 300/1970, la quale per prima distingue i “sindacati maggiormente rappresentativi”, pur senza nominarli.

7. Concertazione e nuove forme sindacali.Negli anni '80, inizia la lunga fase dell'emergenza che porta a una serie di profondi cambiamenti nel diritto del lavoro e sindacale. La forte disoccupazione, la flessibilità del lavoro, hanno impoverito il potere dei forti sindacati e hanno dato vita a nuove forme di associazionismo sindacale autonomo, spesso animato da spirito corporativo e da scarsi obiettivi di politica generale. Il 1993 fu un anno in cui deficit e tasso di inflazione erano fra i peggiori e si cercò di porre rimedio con una rigida manovra finanziaria, nel quale prende posto centrale un atto di concertazione fra governo e parti sociali noto come “Protocollo d'intesa”, che ammette, nella struttura sindacale unitaria a composizione mista (r.s.u.) nelle unità produttive, la presenza di nuovi sindacati dei lavoratori. Con esso ha fine il meccanismo della scala mobile per la rivalutazione delle retribuzioni, sostituita da una revisione della situazione economica nei contratti collettivi ogni due anni; si fissa il contenimento della variazione dei salari, secondo il decorso dell'inflazione, e il nuovo parametro dell'efficienza aziendale; si pongono nuovi ammortizzatori sociali e metodi di promozione di nuova occupazione. Inoltre vengono poste le basi del modello della contrattazione collettiva nei suoi contenuti e livelli. Il contratto nazionale è di durata quadriennale, salvo la parte economica (biennale) ed è al vertice della scala gerarchica con i contratti minori, ai quali è lasciata la possibilità di 1) condizioni di miglior favore per i lavoratori rispetto alla contrattazione nazionale; 2) la c.d. “retribuzione variabile”, ovvero schemi retributivi incentivanti, calcolati in relazione alla redditività e produttività aziendale.

Negli ultimi 10 anni, la concertazione ha iniziato ad avere carattere locale (“patti territoriali”), soprattutto dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. Nel 2007 fu redatto un importante Patto, contenente impegni precisi di informazioni sulla gestione del mercato del lavoro locale e sulla riforma delle relazioni industriali milanesi; un Osservatorio ha i compiti di “monitoraggio” delle attività, del mercato del lavoro e dei fabbisogni professionali e di proposizione di modelli innovativi di relazioni industriali. Diversi sono gli accordi di concertazione regionale per lo sviluppo e l'occupazione, che sono l'emanazione certa, a livello locale, della concertazione nazionale. I patti territoriali, invece, si occupano specificamente di politiche del lavoro e sono caratterizzati da un'ampia partecipazione di soggetti diversi ai vari tavoli negoziali.

Capitolo 1 – Le fonti

1. Le convenzioni internazionali e le fonti comunitarieAnche se è molto scarso l'impatto dell'operato della Comunità europea in tema di lavoro, va comunque considerato l'impegno di voler intervenire in questo delicato campo. Va considerato che in Italia i trattati internazionali hanno validità uguale a quella delle leggi interne, per questo anche normative scaturite dai trattati dell'OIL ( Organizzazione Internazionale del Lavoro), come quelle sulla “libertà e protezione dei diritti sindacali” o anche sui “principi del diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva”. Importante, nel 1986 fu redatto, nell'Atto Unico, un articolo (art. 118B) che dava alla Commissione europea il compito di sviluppare il dialogo fra le parti sociali per condurlo a relazioni contrattuali. Successivamente, la direttiva 45/1994 ha istituito i comitati aziendali europei e procedure per il diritto all'informazione e alla consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie. Infine il capitolo sulla politica sociale di Maastricht è stato inserito nel Trattato di Amsterdam (1997) e nella Carta di Nizza (2000), recepita nel Trattato sulla Costituzione europea.

2. Gli artt. 39 e 40 della CostituzioneIl sistema delle fonti del diritto sindacale in Italia si basa esclusivamente sugli artt. 39 e 40 della Costituzione, dei quali solo il comma 1 dell'art. 39 è diretto ai cittadini (“L'organizzazione sindacale è libera”), mentre gli altri commi e l'art. 40 (sul diritto di sciopero) non sono mai entrati in vigore. Solo con le leggi 146/1990 e 83/2000 si regolamenta parzialmente il diritto di sciopero, e solo per i settori dei servizi pubblici essenziali. I tre commi successivi al primo dell'art. 39 prevedono regole non attuabili: la registrazione dei sindacati presso uffici locali o centrali; pongono come condizione per la registrazione che per statuto i sindacati abbiano un ordinamento interno a base democratica; prevedono la personalità giuridica per i sindacati registrati, ai quali, riuniti in collegio in proporzione ai loro iscritti, è concesso di stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia erga omnes.

3. Il mancato intervento del legislatoreIn realtà, il mancato intervento del legislatore deriva da una serie di fattori, principalmente la diffidenza dei sindacati stessi, che non volevano un controllo statale. Altri fattori furono l'allontanamento progressivo al corporativismo, che poneva come necessaria la personalità giuridica del sindacato e l'efficacia erga omnes; la rilevanza della contrattazione collettiva di diritto comune; il consolidamento del sindacalismo che, con la ripresa economica del Paese aveva raggiunto un grosso potere contrattuale.

Capitolo 2 – Le associazioni sindacali e la loro presenza nei luoghi di lavoro

1. Strutture sindacaliI sindacati sono strutturati in Confederazioni, che sono all'apice di organizzazioni di settore ad ambito nazionale e territoriale. Dalla parte dei lavoratori, invece, i sindacati sono, giuridicamente, delle associazioni non riconosciute, cioè, la loro attività è ispirata ai principi del diritto privato ed è assente (o limitata) la regolamentazione legislativa. In effetti, secondo l'art. 39 Costi. sono considerati sindacati anche gruppi non organizzati in associazioni, che abbiano come scopo l'autotutela collettiva.

2. Il sindacalismo nel pubblico impiegoIl sindacalismo nel pubblico impiego ha avuto uno sviluppo autonomo, poiché è lo Stato ad occuparsi della disciplina. Con lo “Statuto dei lavoratori” (legge 300/1970), però, l'azione sindacale ha iniziato ad avere rilevanza e, ad iniziare con la legge 93/1983, e la c.d. “privatizzazione” del settore pubblico, la negoziazione del contratto collettivo è divenuta simile a quella per il settore privato. Inoltre è stato possibile istituire le r.s.a..Tuttavia il contratto collettivo del settore pubblico stenta ad avere la stessa incisività di quello del settore privato, sia per limiti soggettivi (non tutte le categorie dei pubblici dipendenti possono avere un contratto collettivo), sia oggettivi, per limiti posti dalla legge ai contenuti, valendo per taluni la sola competenza legislativa. Con le leggi 59/1997, 127/1997 e 191/1998 (c.d. leggi Bassanini), si sono sveltite le procedure per la contrattazione collettiva; mentre con i d.lgs. 386/1997, 80/1998 e 387/1998 le controversie del pubblico impiego, nonché i comportamenti antisindacali sono diventati di competenza del giudice ordinario. Il rappresentante legale della pubblica amministrazione, nelle contrattazioni collettive è l'ARAN (agenzia per la rappresentanza negoziale), che ha personalità giuridica di diritto pubblico, mentre per le associazioni sindacali agiscono le r.s.a. elette sulla base degli iscritti alle organizzazioni sindacali e dei voti ottenuti nel settore.

3. Le Commissioni interneIl primo organo rappresentativo dei lavoratori in ordine di tempo sono state le Commissioni interne; non emanazione sindacale, ma rappresentative dei lavoratori dell'impresa. Sono sempre state ostacolate dalle organizzazioni sindacali, soprattutto per l'impostazione, mediatica e di conciliazione verso il dirigente, che avevano. Anche se con lo Statuto dei lavoratori del 1970 si sono poi costituite le r.s.a., queste non sono venute a sostituirsi alle Commissioni interne.

4. Lo Statuto dei lavoratori: libertà e attività sindacaleCon la legge 300/1970 muta il sistema dei contenuti dell'attività sindacale e dei suoi valori di libertà, proselitismo, autotutela e contrattazione.Alla libertà e attività sindacale sono dedicati rispettivamente il titolo II (artt. 14-18) e III (artt. 19-27) dello Statuto. L'art.14 recita: “Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale è garantito a tutti i lavoratori all'interno dei luoghi di lavoro”. In questo modo si vuole legittimare qualunque forma di rappresentanza, anche diversa dalle r.s.a., anche se in seguito viene usata la formula di “sindacati maggiormente rappresentativi”. I successivi artt. 15 e 16 sono norme di carattere antidiscriminatorio, anche e soprattutto in senso sindacale; e l'art.17 vieta al datore di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti associazioni sindacali di lavoratori. Quest'ultima norma è stata ripresa dalla convenzione dell'OIL n.98/1949, ed ha precedenti in normative di altri Stati, come gli USA, la Francia, Svezia, Canada, Austria ed altre. Tale fenomeno è detto dei “sindacati di comodo”.

5.Le rappresentanze sindacali Le rappresentanze sindacali aziendali (r.s.a.)

e i sindacati maggiormente rappresentativiIl titolo III dello Statuto è dedicato all'attività sindacale vera e propria e all'art. 19 recitava (è stato modificato con referendum nel 1995): “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell'ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni non affiliate alle predette confederazioni che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva”. All'art.35 è definita unità produttiva “ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di 15 dipendenti”. Comunque, nell'art. 19 non si intende la rappresentanza come istituto civilistico, ma si vuole fare riferimento ad un sindacato idoneo a rappresentare non solo gli iscritti, ma tutta la categoria. Un'altra osservazione riguarda le norme e le modifiche che hanno portato ad una serie di conseguenze: una di queste è il proseguimento nel differenziare i sindacati “maggiormente rappresentativi”; secondariamente si è giunti all'istituzione delle r.s.u.; e infine il referendum del 1995 ha stravolto la portata dello Statuto.

6. Le rappresentanze sindacali unitarie (r.s.u.) e il referendum sull'art.19 dello StatutoAllo scopo di recuperare rappresentatività, i sindacati dei lavoratori raggiungono nel 1991 un'intesa quadro e codificano poi nel protocollo d'intesa del 1993 tra Governo e Sindacati un tentativo di attuazione di democrazia sindacale, con la previsione delle r.s.u, con composizione mista. In seguito con il referendum abrogativo del 1995 il testo dell'art.19 divenne: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell'ambito: a)delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali [non affiliate alle predette confederazioni], che siano firmatarie di contratti collettivi [nazionali o provinciali]di lavoro applicati nell'unità produttiva”. In questo modo si è deciso di eliminare l'intento protettivo della legge nei confronti delle maggiori confederazioni.

7. La tutela delle rappresentanze sindacali nello StatutoLe r.s.a e le r.s.u. Trovano nello Statuto 1) compiti, 2) privilegi, 3) protezione.I compiti sono: diritto di riunire assemblee dei lavoratori dell'unità produttiva; indire referendum su materie di interesse sindacale e del lavoro; affiggere comunicati ai lavoratori in spazi messi a disposizione dal datore di lavoro; ricevere i contributi sindacali direttamente trattenuti dall'imprenditore dalle retribuzioni dei lavoratori su richiesta di questi ultimi. Quest'ultimo punto è mutato con il referendum del 1995 lasciando più genericamente la possibilità di proselitismo e di raccolta di contributi ai lavoratori.I privilegi invece sono: il necessario nullaosta del sindacato di appartenenza per il trasferimento di dirigenti r.s.a. da parte dell'azienda; i membri delle r.s.a. hanno diritto a permessi retribuiti e non retribuiti per espletare il loro mandato; ottenere un locale all'interno del luogo di lavoro per l'esercizio delle proprie funzioni; i rappresentanti godono dell'eccezionale privilegio della possibilità di reintegrazione in ogni stato e grado del giudizio di merito, quando il giudice ritenga invalidi o insufficienti gli elementi di prova dati dal datore di lavoro.

8. La repressione della condotta antisindacaleLa repressione della condotta antisindacale (art.28 dello Statuto) è il più alto grado di protezione dei sindacati e dei loro rappresentanti. Con essa si attribuisce di fatto un diritto d'azione ad una associazione. Saranno infatti repressi i comportamenti posti in essere dal datore di lavoro diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività

sindacale, nonché del diritto di sciopero. La condotta è tale indipendentemente dall'esistenza dell'elemento soggettivo della colpa o del dolo. Da tale condotta scorretta sono tutelati non solo i diritti collettivi di libertà, ma anche quelli individuali.

Capitolo 3 - Il contratto collettivo

1. Evoluzione storica e tipologie contrattualiNell'ordinamento vigente abbiamo una tipologia differenziata di contratti collettivi: corporativi, che sono ormai una tipologia estinta; quelli previsti dall'art. 39 Cost., che però non hanno mai avuto attuazione; quelli recepiti in decreto, attraverso la legge “erga omnes”, che però rimane legata al suo tempo (1959-61) e non è riproducibile; e quelli di diritto comune, che a differenza degli altri, non ha efficacia erga omnes. Con la legge fascista 563/1926 si previde un sindacato unico per ogni categoria legalmente riconosciuto (persona giuridica di diritto pubblico), a due condizioni: che avesse tra gli aderenti il 10% degli appartenenti alla categoria e che perseguisse il fine nazionale. La prima condizione, effettivamente, non fu considerata, e i sindacati riconosciuti furono quelli fascisti. I contratti collettivi che stipularono avevano efficacia erga omnes ed erano inderogabili in peius (non modificabili in peggio) dai contratti individuali di lavoro. Questi contratti furono inseriti tra le fonti del diritto ed ottennero una specifica disciplina (artt. 2067-2077 c.c.). Con il decreto luogotenenziale 369/1944 le corporazioni furono abrogate, ma furono mantenuti i contratti collettivi in vigore.

2. Il tipo contrattuale previsto dalla CostituzioneCon l'art.39 della Costituzione si è voluto dare un nuovo meccanismo di riconoscimento sindacale e di contrattazione collettiva efficace per tutti. Nell'articolo si chiede ai sindacati di registrarsi presso uffici locali o centrali e di avere un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati avranno personalità giuridica di diritto privato (diversi da quelle di diritto pubblico del 1926) e possono stipulare, attraverso rappresentanze unitarie, contratti nazionali, obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria. Ancora oggi, però, l'art.39 Cost. non è ancora stato attivato.

3. I contratti collettivi recepiti in decreto (legge “erga omnes”)Con il nome “erga omnes” viene indicata la legge 741/1959. Fino ad allora non si era ancora attuato l'art. 39 Cost., ma esisteva una forte volontà di rinnovare l'efficacia dei contratti collettivi, che stavano diventando obsoleti. Per far ciò bisognava però aggirare i limiti costituzionali. Così fu dato mandato al governo ad emanare decreti legislativi per determinare le condizioni minime di lavoro (che rientrava nel quadro legittimo di una legislazione sui minimi normativi e salariali). Il governo, però, era vincolato ad uniformarsi “a tutte le clausole dei singoli accordi economici e contratti collettivi, anche intercategoriali, stipulati dalle associazioni sindacali”. Si raggiungeva, così, in via indiretta l'effetto estensivo dei contratti collettivi di diritto comune. Per timore di incostituzionalità, il legislatore diede la delega per un tempo determinato (un anno), in modo da attribuirle i caratteri dell'eccezionalità. In quell'anno si ebbero circa 1000 decreti legislativi conseguenti: emerse quindi la complessità della realtà della contrattazione collettiva post-corporativa. Di conseguenza, un anno non fu sufficiente e fu così emanata la legge 1027/1960 che dava una proroga di altri 15 mesi, e fu chiesto di prendere in considerazione anche i contratti collettivi che erano stati rinnovati nei 10 mesi successivi alla prima legge delega. Infatti tra il 1959 e gli inizi del 1960 si erano avuti molti rinnovi contrattuali, e se non se ne fosse tenuto cono la legge avrebbe recepito in decreto accordi ormai superati dalla dinamica contrattuale. La Corte Costituzionale fu chiamata a decidere della legittimità di entrambe le leggi delega, e decise con la sentenza 106/1962. La Corte riconosce l'incostituzionalità nei confronti dell'art. 39 Cost. ma rigetta l'eccezione,

trattandosi di legge “transitoria, provvisoria ed eccezionale rivolta a regolare una situazione passata e a tutelare l'interesse pubblico [...]”. Viene accolta, invece, l'eccezione di incostituzionalità in relazione alla proroga del 1960, poiché anche una sola reiterazione alla deroga toglie alla legge i caratteri della transitorietà ed eccezionalità. Quindi non acquisiscono efficacia erga omnes i contratti stipulati tra i 59 e il 60, come per la categoria dei metalmeccanici.

4. Il contratto collettivo di diritto comuneIl contratto collettivo di diritto comune è l'unico che abbia una dinamica permanente, ma non ha efficacia erga omnes. A differenza degli altri paesi europei, la diffidenza dei sindacati verso l'art.39 Cost. non ha permesso l'evoluzione dei contratti collettivi di diritto privato, lasciando solo quelli di diritto pubblico. Il contratto collettivo di diritto pubblico, sul modello tedesco, viene suddiviso in parte obbligatoria e parte normativa, a seconda dei contenuti e dei destinatari. La parte obbligatoria ha ad oggetto gli obblighi dei contraenti (datori di lavoro, rappresentanti dei lavoratori o sindacati dei lavoratori) e la gestione del contratto collettivo, mentre quella normativa ha per contenuto la predeterminazione del contratto e del rapporto individuale di lavoro ed ha come destinatari non i sindacati stipulanti, ma i singoli datori e prestatori di lavoro (è dedicata in buona parte alla retribuzione, ma anche per es. al patto di prova, alla malattia, alle ferie, ecc.). Anche se non sono facilmente distinguibili queste due parti, sono molto importanti per gli effetti giuridici che ne derivano. Un altro problema è il rapporto tra autonomia collettiva e individuale: cioè se quest'ultima possa derogare in peius rispetto al contratto collettivo o se invece abbia funzione di assicurare i minimi di trattamento per tutti, e perciò possa essere derogato solo in melius dai contratti individuali di lavoro. Quindi il dibattito verte su quattro punti: 1) la determinazione dell'efficacia soggettiva e della vincolatività verso i contratti individuali; 2) rapporti tra contratti collettivi di diverso livello; 3) rapporto tra il contratto collettivo e la legge; 4) le regole ermeneutiche da applicare.

5. L'efficacia soggettiva del contratto collettivoSi è molto discusso su come rafforzare l'inderogabilità in peius dei contratti collettivi da parte di quelli individuali. Sono scaturite due posizioni, l'uno, ampiamente maggioritario, che cerca la soluzione negli schemi civilistici del contratto; l'altro vuole che la posizione preminente nell'ordinamento giuridico del contratto collettivo è tale che i problemi ad esso connessi si risolvono solo riconoscendogli una natura giuridica di carattere normativo. La giurisprudenza, comunque, aveva risolto il problema del “trattamento economico” stabilendo il diritto di ogni lavoratore ad una retribuzione sufficiente, valutata nei singoli casi dal giudice. Inoltre, nella legge 533/1973 inserisce all'art. 2113 c.c. l'affermazione che non sono valide rinunce e modifiche sui diritti del lavoratore già confermati da disposizioni inderogabili dalla legge o da norme corporative. In sostanza il contratto collettivo prevale su quello individuale a meno che quest'ultimo non vi sia una “derogabilità in melius”. A volte, però, le modifiche sui contratti individuali non sono facilmente riscontrabili come favorevoli o sfavorevoli. Per questo si è sostenuto che la comparazione vada fatta fra i trattamenti complessivi di ciascuna fonte, quella collettiva e quella individuale (Teoria del conglobamento). Un'altra è la “Teoria del cumulo” che consiste nel confrontare le singole clausole e scegliere quelle favorevoli. Ulteriore dilemma riguarda il c.d. “superminimo”, cioè retribuzione superiore rispetto alla minima collettiva. Il problema si pone quando nel nuovo contratto collettivo la retribuzione minima supera il “superminimo” (es. vecchia retribuzione collettiva 1300€, retribuzione contratto individuale con superminimo di 150€ è 1450€, nuova retribuzione collettiva 1500€). Le possibili soluzioni sono due: mantenimento del superminimo anche con la retribuzione del nuovo contratto collettivo (nell'es. 1650€) oppure assorbimento col nuovo contratto collettivo (1500€). Evidentemente la scelta più utilizzata è la seconda.

6. I livelli contrattualiI contratti collettivi non sono sempre di carattere nazionale, anzi molto più spesso hanno una rilevanza territoriale limitata: si possono contare i contratti regionali o provinciali o molto più frequentemente i contratti aziendali.I contratti aziendali hanno avuto un grande incremento a cavallo degli anni '70, quando i lavoratori, in contrasto con i sindacati tradizionali, preferirono stipulare accordi con l'azienda che fossero concorrenti a quelli nazionali. Quindi vennero a formarsi una serie numerosa di contratti per cui non si riusciva ad evidenziare la prevalenza di un livello contrattuale sull'altro, assumendo i criteri ora cronologici, ora gerarchici, ora di specialità. Quest'ultimo criterio risultò il più seguito, attuando una prevalenza generale del contratto nazionale, con l'eccezione della parte normativa aziendale, più adatta ad accogliere le richieste particolari delle varie situazioni. Con la crisi economica e le nuove esigenze delle imprese, i sindacati abbandonarono in parte le lotte sulla retribuzione, cercando di salvaguardare l'occupazione e attuare la concertazione delle politiche del lavoro con i pubblici poteri. In questo modo si è data maggiore importanza ai contratti collettivi nazionali di settore i quali non solo conta nuove conquiste per i lavoratori, ma diviene strumento di gestione della crisi e dei licenziamenti collettivi (e pone dei limiti massimi alla contrattazione locale, che talora arriva a modificare in peius la disciplina del settore). Con la partecipazione alle funzioni gestionali aziendali dei rappresentanti sindacali, e con l'adozione di drastiche misure, i sindacati stanno perdendo il consenso dei lavoratori. Le rappresentanze sindacali aziendali agiscono in maniera unitaria (r.s.u.) e per la partizione delle competenze nella contrattazione ai diversi livelli provvedono col Protocollo d'Intesa del 23 luglio 1993, con il quale si cerca di comporre il contrasto possibile fra i contratti di diverso livello. Il Protocollo del 1993, innanzitutto, riduce la validità dei contratti collettivi nazionali da tre a due anni per la parte economica (per tener conto del tasso di inflazione) e a quattro anni per il resto della normativa. Quadriennali sono anche i contratti collettivi di minor livello, nei quali si possono stabilire autonomamente solo elementi retributivi correlati alla qualità, ai risultati e alla produttività che non siano già previsti nel contratto nazionale. Il Protocollo, inoltre, si occupa della procedura per il rinnovo di tutti i livelli di contratto collettivo, rinviando alla contrattazione nazionale per la procedura: presentazione di una “piattaforma” contrattuale, apertura delle trattative, obbligo di tregua (periodo di “raffreddamento”) in modo da compiere serenamente e senza strappi le trattative. Comunque restano molto variegati i contratti aziendali. Nei loro contenuti, inoltre, sta prendendo piede l'istituto delle stock options, cioè il diritto dei lavoratori a sottoscrivere azioni dell'impresa (quando l'azienda è quotata). Ultimamente, inoltre, la regola della subordinazione dei contratti aziendali a quelli nazionali, sta venendo meno, con modifiche in peius per salvaguardare posti di lavoro. Infine, con la legge 276/2003 (legge “Biagi”) i rinvii alla contrattazione decentrata sono molto aumentati, per varie tipologie di contratti flessibili. Il sistema delle relazioni fra contratti collettivi, come delineato dal Protocollo del 1993, è stato “destrutturato”, venendo meno a “quel criterio di unità e razionalità del sistema negoziale complessivo”, cui aveva dato il suo avallo la giurisprudenza.

7. I rapporti fra autonomia collettiva e leggePer opinione comune fondata dall'art.39 Cost., l'autonomia collettiva non ha esclusività di normativa, ma ha piena libertà di trattare condizioni più favorevoli ai lavoratori rispetto alle garanzie minime che la legge stabilisca. Ne deriva che i contratti collettivi che prevedono norme peggiorative rispetto a quanto fissato dalla legge sono nulle, almeno per quanto riguarda le clausole “in peius” (art.1418 c.c.), ma anche “in toto”, se risulta che le parti non avrebbero stipulato il contratto senza di esse (art.1419 c.c.). A causa della crisi, però, le leggi (con l'obiettivo di contenere i costi del lavoro) hanno posto un tetto alle modifiche in melius, anzi dando la possibilità di modifiche in peius. Più spesso la legge rimanda alla

negoziazione collettiva (c.d. contratti collettivi ablativi), non solo per consentire l'applicazione ad ogni specifico settore dei principi da essa stabiliti, ma per dare all'autonomia collettiva compiti (e responsabilità) che incidono negativamente sui lavoratori o ne tutelano meno i diritti (e a partecipare sono anche i sindacati, soprattutto quelli “maggiormente rappresentativi”).

8. Interpretazione del contratto collettivoIl contratto collettivo di lavoro è sempre stato giudicato un atto di natura privata (in conformità con la natura delle associazioni stipulanti). Di conseguenza le regole da seguire sono quelle del contratto (art.1362 ss. c.c.) e non quelle della legge (art.12 disp. prel. c.c.). Sempre secondo l'art.1362 c.c. “nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”. Inoltre, poiché si tratta di una contrattazione privata, non vi è possibilità di ricorso per Cassazione per “violazione e falsa applicazione”. Cosa che invece può avvenire per i contratti collettivi nazionali del settore pubblico, poiché pur non essendo un contratto di diritto pubblico ha comunque efficacia erga omnes. Per il pubblico impiego la legge è intervenuta con il d.lgs.165/2001 nel quale: l'art.49 dispone che in caso di controversie sull'interpretazione del contratto, le parti possono definire consensualmente il significato della clausola controversa, anche retroattivamente; l'art.64 dispone che, per la definizione di una controversia il giudice deve sospendere il giudizio per dare modo alle parti di raggiungere l'accordo interpretativo.

Capitolo 4 – Lo sciopero

1. L'evoluzione della nozione giuridica dello scioperoLo sciopero è l'astensione collettiva dei lavoratori dall'attività lavorativa, per rivendicare interessi economici collettivi nei confronti del proprio datore di lavoro. La rivendicazione di interessi collettivi si ha allorquando si voglia chiedere una nuova diversa regolamentazione contrattuale; non si può usare lo sciopero per diritto contrattuali già esistenti, per i quali unico competente a dirimere la controversia è ovviamente il giudice. A volte, nella parte obbligatoria dei contratti collettivi, è inserita una clausola di “tregua sindacale” con la quale i sindacati si impegnano ad evitare azioni dirette per il periodo del contratto. In realtà i sindacati non possono disporre del diritto di sciopero, di cui sono titolari i lavoratori, né la formula impiegata è tale da impegnare i sindacati; inoltre i lavoratori sono esonerati da questa clausola poiché sono destinatari della parte normativa e non di quella obbligatoria. La prima regolamentazione in Italia in merito allo sciopero (e alla serrata) risale al 1930 ed era considerato un reato. Dopo la caduta dell'ordinamento fascista-corporativo (d.lgt.369/1944), pur se la norma rimase nell'ordinamento, i giudici la ritennero subito inapplicabile. Dopo la fine del conflitto mondiale i sindacati dei lavoratori e il potere dei partiti di sinistra imposero a livello costituzionale il riconoscimento del diritto di sciopero, che nella nostra Costituzione è enunciato (art.40 Cost.), ma curiosamente non definito e lasciando il compito alle successive legislature. Questo perché evidentemente le parti sociali volevano un ampio margine di manovra e flessibilità.

2. Lo sciopero secondo la norma costituzionaleLe più importanti cause della mancata promozione legislativa dell'art.40 furono 2. Innanzitutto con la vittoria alle prime elezioni della Repubblica italiana della DC, la CGIL (e anche CISL e UIL) si sentirono più libere di agire attraverso la lotta sindacale con tutti i mezzi. L'altro fattore fu la concessione del legislatore di un esercizio del diritto più ampio di quello del previsto. Infatti solo con la legge 146/1990 fu emanata la prima legge sullo

sciopero.

3. La natura del diritto di scioperoSulla natura del diritto di sciopero le tesi sono diverse. Dal punto di vista del rapporto individuale di lavoro si configura come diritto soggettivo potestativo del lavoratore nei confronti del datore di lavoro. In questo caso, essendo un diritto, non comporta un inadempimento contrattuale anzi, vi sono norme che vietano al datore di lavoro di reagire nei confronti del lavoratore scioperante (condotta antisindacale) ed è nullo il licenziamento a causa di uno sciopero. Dal punto di vista costituzionale lo sciopero viene inquadrato fra i diritti assoluti della persona, fra i diritti di libertà (contro interferenze del potere pubblico e privato), fra i diritti politici (intesi in senso ampio). Nello sciopero si distinguono due momenti: la “proclamazione”, atto collettivo da parte di un sindacato o di una coalizione momentanea di lavoratori; l'”esercizio” del diritto, la cui titolarità, invece, è individuale. La proclamazione è per il diritto un negozio giuridico collettivo unilaterale di autorizzazione; nel rapporto contrattuale, invece, l'esercizio del diritto di sciopero si configura come un caso di sospensione legale: il lavoratore si astiene dall'attività mantenendo il diritto di riprenderla dopo lo sciopero e il datore di lavoro sospende la corresponsione della retribuzione. Si tratta di sospensione delle sole obbligazioni principali, poiché non subiscono interruzioni l'anzianità di servizio, né alcuni obblighi del lavoratore come l'obbligo di fedeltà (art.2015 c.c.). Se durante uno sciopero si verifica un altro caso di sospensione del rapporto (ad es. una malattia), gli effetti di quest'ultimo prevalgono sullo sciopero, e il lavoratore avrà diritto all'indennità, invece non sarà considerato infortunio sul lavoro un evento lesivo accaduto durante lo sciopero. In teoria tutti i lavoratori subordinati possono scioperare, ma possono anche altre categorie (es. studenti, liberi professionisti), ma non godono delle tutele dell'art.40. I militari, al contrario non possono scioperare, anche se la Corte Costituzionale ha riconosciuto il diritto ad una “pacifica manifestazione collettiva di dissenso”. Non possono scioperare neanche le forze di polizia, a cui comunque è concessa la costituzione di un sindacato. Altri lavoratori, per le caratteristiche della loro attività, devono esercitare il diritto solo in momenti determinati con modalità specifiche (tutti i lavoratori dei servizi pubblici essenziali) e dovrebbe essere escluso dalla titolarità del diritto di sciopero chi svolge una funzione che esprime un potere dello Stato. In sostituzione dei lavoratori scioperanti il datore di lavoro ha la possibilità di spostare i lavoratori non in sciopero alle mansioni dei lavoratori assenti (c.d. “crumiraggio interno”). Il “crumiraggio esterno”, con l'assunzione di lavoratori per la sostituzione di scioperanti è solo ipotetico, essendo per prassi brevissima la durata dello sciopero, e inoltre impossibilitata da una serie di leggi.

4. La definizione del contenuto del diritto di scioperoLa giurisprudenza ha cercato di trovare una normativa già esistente per regolare il diritto di sciopero, che deficita di regolamentazione. Ci si è chiesti se questa sia desumibile dallo stesso art.40 Cost., per la necessità di contemperare lo sciopero con altri interessi generali preminenti (salute, vita, sicurezza), o anche dall'art.41 che sancendo la libertà di iniziativa economica indica che questa “non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Attraverso questa lettura si può quindi distinguere il “danno alla produzione” e il “danno alla produttività”. Nel primo caso uno sciopero che arrechi un grande danno all'imprenditore, non deve comunque pregiudicare il futuro della sua attività. In tal caso si parla di danno alla produttività, e cioè un danno alla collettività. Dalla questa lettura si desume un limite esterno al diritto di sciopero. Per questo la giurisprudenza ha considerato la legittimità del c.d. sciopero articolato che comprende: lo sciopero a scacchiera (sciopero di più reparti, ciascuno in momenti diversi) e lo sciopero a singhiozzo (sospensioni dell'attività ad intervalli). In questo modo si arreca danno all'imprenditore ma non un danno alla produttività, nonché

una minor perdita di stipendio per i lavoratori. Infine va valutato il danno a terzi provocato dallo sciopero, per es. ai fornitori e clienti. Il responsabile evidentemente è l'imprenditore, che però, può utilizzare alcuni metodi per esularsi dalle accuse. Potrebbe effettuare una polizza assicurativa per i danni subiti dagli scioperi, ma queste hanno un premio molto alto, per la frequenza degli scioperi, e la difficoltà di valutazione del rischio. Altrimenti può ricorrere a clausole di esonero nei contratti con terzi, in cui si esonera dalla responsabilità per danni causati dallo sciopero. Sarà poi il giudice a verificare l'attendibilità del caso concreto.

5. Lo sciopero politicoIn seguito ad alcune sentenze della Corte Costituzionale, oggi, è pienamente lecito, e tutelato dall'art.40 Costi., lo sciopero economico politico (pur restando fuori dalla tutela dell'art.40, configurando, quindi un inadempimento contrattuale), cioè in cui il destinatario dell'azione non è solo l'imprenditore, ma i poteri dello Stato. Solo due tipi estremi di sciopero sono vietati: quando lo sciopero sia diretto a sovvertire l'ordinamento costituzionale; quando sia diretto ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare.

6. I mezzi di lotta sindacale diversi dallo scioperoAltri mezzi di lotta sindacale diversi dallo sciopero sono:a) Lo “sciopero di solidarietà: effettuato da lavoratori di un'azienda diversa dagli scioperanti. Questa forma di protesta non è legittima se non per quei lavoratori che possono ottenere vantaggi trasversali con lo sciopero di solidarietà (es. lavoratori dello stesso settore produttivo o dello stesso territorio, a seconda della pretesa avanzata). Sarà il giudice, poi, a verificare la presenza di questi vantaggi.b) Il “picchettaggio”: cioè un cordone che di solito si effettua agli ingressi dell'azienda per persuadere i lavoratori che intendono lavorare, ad unirsi allo sciopero. Questa forma di protesta diventa illecita quando si concreta in minacce e violenze.c) L'“Occupazione d'azienda”: è un reato sancito nell'art.508 c.p.. Avviene nei periodi di grande tensione ed è dolosa poiché tende ad impedire o a turbare il normale andamento del lavoro. Più usata è l'occupazione della nave, consentita solo quando la nave è in porto.d) Il “sabotaggio”: consiste nel danneggiamento volontario delle attrezzature o degli strumenti di lavoro. È una forma specifica del reato di danneggiamento.e) Il “blocco delle merci”: consiste nell'impedire, in occasione di uno sciopero, l'uscita delle merci. È considerato anch'esso illegittimo e il datore di lavoro può esercitare le c.d. “azioni possessorie”, oltreché le sanzioni disciplinari e la richiesta di risarcimento danni.f) L'”Ostruzionismo”: detto anche “sciopero bianco”, è particolarmente diffuso nel pubblico impiego e consiste non in un'astensione dall'attività, ma nell'osservanza pedantesca delle direttive o dei regolamenti, allo sopo di rallentare la produzione o il servizio. Difficile, ma essenziale, sarà porre i limiti, caso per caso, a questa ambigua forma di lotta, perché in concreto la prestazione c'è, ed è secondo le direttive imprenditoriali.g) La “non collaborazione”: consiste in una numerosa serie di attività di protesta sleali, poiché non privano il lavoratore della retribuzione, ma causano un danno all'imprenditore. È una protesta civilmente illecita e viene meno ad una serie di norme come quelle riguardanti la “correttezza nelle obbligazioni” e l'”esecuzione del contratto secondo buona fede”.

7. La serrataUnico mezzo di lotta sindacale dell'imprenditore è la “serrata”, ovvero la chiusura dell'accesso ai luoghi di lavoro impedendo così la prestazione. Anche se non è sancito per legge, è comunque una forma di protesta lecita. Comunque, il rifiuto dell'imprenditore di ricevere la prestazione dei lavoratori comporta il pagamento della retribuzione come

risarcimento. Questo risarcimento può non avvenire se la serrata è usata in reazione ad un mezzo illecito di sciopero. In questo caso il diritto comune sancisce il principio “inadempienti non est adimplendum” e la serrata viene detta impropriamente “di ritorsione”.

8. La disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenzialiLo sciopero nei servizi pubblici è caratterizzato dal fatto che dall'azione di lotta non viene danneggiato lo Stato o l'ente pubblico/datore di lavoro, ma i cittadini utenti del servizio. Per questo per i servizi pubblici essenziali sono state emanate una serie di regolamentazioni per limitare la portata del loro diritto di sciopero. La legge che lo regola è la 146/1990, molto complessa, modificata in parte con la legge 83/2000. In questa legge innanzitutto vendono identificati i servizi essenziali che corrispondono ai diritti fondamentali protetti dalla Costituzione: vita salute, libertà sicurezza, libertà di circolazione, assistenza e previdenza sociale, istruzione, libertà di comunicazione. Per questi settori pubblici lo sciopero deve avere un preavviso di almeno 10 giorni indicando data, durata, modalità e motivazioni dello sciopero. Le prestazioni indispensabili per ciascun servizio sono contenute nei contratti collettivi, i quali devono anche predisporre procedure di raffreddamento e di conciliazione, nonché indicare intervalli minimi fra uno sciopero e un altro. Spetterà al datore di lavoro, invece, dare comunicazione agli utenti sia dello sciopero, sia della riattivazione del servizio; fornire le prestazioni indispensabili e garantire la rapida ripresa dell'attività, terminato lo sciopero. Risulta essere un comportamento sanzionabile la revoca spontanea dello sciopero immediatamente prima della sua esecuzione e dopo la comunicazione al pubblico. La legge 83/2000 ha inserito nella 146/1990 un articolo che ammette un'astensione collettiva di protesta da parte di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, che incida sulla funzionalità dei servizi pubblici essenziali. I lavoratori che debbono fornire le prestazioni indispensabili non possono astenersi dal lavoro e sono passibili di sanzioni disciplinari. In alcuni casi di violazione, anche i sindacati e i dirigenti responsabili delle amministrazioni pubbliche e legali rappresentanti di enti ed imprese sono sanzionabili da parte della Commissione di garanzia.

PARTE TERZAContratto e rapporto di lavoro

Capitolo 1 – Il contratto di lavoro

1. Origine contrattuale del rapportoLa costituzione del rapporto di lavoro ha natura contrattuale, nasce cioè dall'accordo fra le parti, ma in realtà nessuna norma del codice civile definisce il contratto di lavoro in sé. Tuttavia si tratta sempre di un contratto, pur circondato di cautele e di protezioni della parte debole, che può solo aderire o non aderire (si usa l'interpretazione “contra stipuatorem”, in senso opposto quindi all'interesse di chi ha predisposto il formulario, cioè contro il datore di lavoro). Infine, in materia di lavoro, il momento del rapporto prevale su quello del contratto ed è lasciato molto spazio all'autonomia contrattuale, come dall'art.1322 c.c.: “Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge”.

2. Il collocamento e il divieto di interposizioneGli elementi essenziali del contratto sono: i soggetti, l'oggetto, l'accordo di volontà, la causa, la forma. Innanzitutto, però, è importante parlare della scelta del contraente da parte del datore di lavoro, e cioè le norme sulla costituzione del “collocamento”. Il

collocamento è nato come sistema rigido di intermediazione pubblica (legge 264/49), col divieto di mediazione fra domanda e offerta di lavoro, in regime monopolistico. Il sistema era basato sulla “richiesta numerica” dei lavoratori chiesti dall'imprenditore, e l'avvio al lavoro veniva fatto uniformandosi alla graduatoria della “lista di collocamento”, compilata secondo l'ordine cronologico di domanda dei lavoratori nell'ambito delle qualifiche volute. La fine di questo metodo è stata sancita dalla legge 1369/1960, che vietava principalmente la “mera somministrazione di manodopera”, che fa venire meno il principio della necessaria coincidenza fra il datore di lavoro e il lavoratore. Era invece concesso un vero e proprio contratto d'appalto col quale si affidavano questi compiti a terzi. Con lo Statuto dei lavoratori del 1970 questo sistema accentrato e controllato delle assunzioni non cambia, prevedendo le sole eccezioni di richieste nominative “per componenti del nucleo familiare del datore di lavoro, per i lavoratori di concetto e per gli appartenenti a ristrette categorie di lavoratori altamente specializzati da stabilirsi con decreto del Ministero del lavoro”. Questo sistema, però, si è rivelato essere incompatibile con le necessità dei datori di lavoro, soprattutto con l'intensificarsi della crisi e della disoccupazione. Fu solo nel 1997, con la sentenza della Corte di Giustizia europea, nella sentenza “Job Center”, che fu abolito il sistema monopolistico del collocamento pubblico in Italia. In conseguenza, abbiamo avuto in questi ultimi anni un sistema misto di collocamento: che lasciava all'amministrazione statale l'informazione e il coordinamento dell'avviamento al lavoro; affidava alle Regioni i “servizi per l'impiego, cioè quasi tutta l'organizzazione dell'incontro fra domanda e offerta di lavoro; salvaguardava principi di protezione dei lavoratori di fasce deboli e di difficile inserimento; ma consentiva l'attività di agenzie private di collocamento (con il controllo pubblico). Nella legge 169/1997 (c.d. Pacchetto Treu) veniva poi riconosciuta come unica eccezione al divieto di interposizione, l'attività di agenzia di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo.

3. Le nuove regole sul mercato del lavoro e le agenzie per il lavoroCon la legge 276/2003 (legge “Biagi”) si è dato il via a un'ampia fase di liberalizzazione nel settore. Secondo l'art.2 Stato e Regioni concorrono nelle funzioni di regolazione del mercato del lavoro: per cui si distinguono le “autorizzazioni” (provvedimenti statali che abilitano operatori pubblici o privati, detti “agenzie per il lavoro”, a svolgere attività di somministrazione di lavoro, intermediazione, ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale) dagli “accreditamenti” (provvedimenti regionali che riconoscono ad operatori pubblici o privati, che eventualmente già autorizzati dallo Stato, l'idoneità ad erogare i servizi indicati nell'ambito regionale, anche con risorse pubbliche, e a fornire servizio di incontro fra domanda e offerta di lavoro), sempre nel rispetto di determinati criteri dettati per legge. Le agenzie per il lavoro devono sottostare a rigide regole di comportamento, soprattutto nei confronti di chi cerca lavoro, tutelandone la privacy, non indagando sulle sue opinioni, né utilizzare un trattamento discriminatorio, ma attenendosi esclusivamente alla scelta per competenza. Unica eccezione è fatta per i lavoratori svantaggiati, per i quali possono essere forniti servizi o azioni mirate per la ricerca di un'occupazione, oltre altre agevolazioni. Il compito di portare all'incontro domanda e offerta di lavoro entra nel sistema della “borsa continua del lavoro”, che abilita nel suo ambito tutti i soggetti ad incontrarsi in assoluta trasparenza e ad usare i servizi ivi offerti. Le agenzie per il lavoro sono registrate in un albo unico presso il Ministero del lavoro, suddiviso in 5 sezioni: 1) tutte le agenzie abilitate a tutte le forme di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (detto staff leasing) e determinato; 2) le agenzie abilitate a somministrare attività specialistiche a tempo indeterminato; 3) le agenzie di intermediazione; 4) le agenzie di ricerca e selezione del personale; 5) le agenzie di supporto alla ricollocazione professionale.

4. La somministrazione di lavoro

Il nuovo d.lgs.276/2003 ha abrogato le disposizione degli art.1-11 del “pacchetto Treu” del 1997, cioè tutta la normativa sul lavoro temporaneo, e prevede un contratto di somministrazione di lavoro tra il datore di lavoro e il somministratore, per il quale il lavoratore è dipendente del somministratore, lavorando presso l'utilizzatore (datore di lavoro). Il contratto di somministrazione può essere a “termine finale” o a “tempo indeterminato” (per quest'ultima ipotesi vi è un espresso elenco dettato dalla legge). Quando i lavoratori sono assunti dal somministratore con contratto a tempo indeterminato restano a disposizione del datore di lavoro quando non prestano attività presso un utilizzatore. I contratto di somministrazione è vietato nelle unità produttive in cui vi siano stati licenziamenti collettivi, sospensioni del rapporto e riduzione dell'orario don diritto alla integrazione dei lavoratori che svolgevano le stesse mansioni richieste nel contratto di somministrazione; ed è vietato alle imprese che non avviano effettuato la valutazione dei rischi sull'obbligo di sicurezza nei luoghi di lavoro. La forma del contratto deve essere esplicitamente scritta: in mancanza del contratto scritto o di alcune clausole (come l'autorizzazione del somministratore, il numero dei lavoratori, ecc.) il lavoratore si ritiene alle dipendenze dell'utilizzatore. Nell'indicare i vari elementi scritti nel contratto si dovrà attenersi alle indicazioni contenute nei contratti collettivi. Nel caso di contratti a tempo indeterminato tra somministratore e lavoratore, la disciplina del rapporto sarà quella generale del lavoro subordinato; al contrario, nel caso di contratti a tempo determinato, il rapporto è disciplinato dal d.lgs. 368/2001 sui contratti a termine. Sempre la legge 276/2003 fissa i principi di tutela del lavoratore, come il trattamento uguale a quello dei lavoratori di pari livello dipendenti dell'utilizzatore, l'obbligazione solidale per retribuzione e contributi, attribuzione di diritti sindacali e il diritto di informazione e formazione sui rischi per la sicurezza e la salute. Infine non ci possono essere limiti per l'utilizzatore di assumere il lavoratore, al termine del contratto di somministrazione a tempo determinato (come un periodo di prova).

5. Appalto e distaccoSecondo la legge 1369/1960 il contratto d'appalto è lecito e differisce dal contratto di somministrazione da: 1) l'organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore che può risultare anche dal semplice esercizio del potere organizzativo e direttivo; 2) la professionalità specifica dell'appaltatore o dei lavoratori utilizzati; 3) l'assunzione del rischio d'impresa da parte dell'appaltatore. Il distacco, invece, riconosciuto nel d.lgs.276/2003, riguarda la possibilità per il datore di lavoro che, per soddisfare un proprio interesse, mette temporaneamente a disposizione di un altro soggetto uno o più lavoratori per eseguire una determinata attività. Il distaccante, datore di lavoro, è responsabile del trattamento economico e normativo dei lavoratori e qualora il distacco comporti mutamento delle mansioni dei lavoratori, c'è bisogno del consenso di questi ultimi.

6. Il collocamento dei disabiliLo Stato, ha da molto tempo considerato la necessità di agevolare il collocamento di soggetti particolarmente deboli fisicamente, psicologicamente o socialmente, tramite l'obbligatorietà, per i datori di lavoro di assunzione di essi, in proporzione al numero dei lavoratori già inseriti. Questa norma è inserita nella legge 68/1999, dedicata al collocamento dei disabili. L'obbligo di assunzione (c.d. “quota di riserva”) è: a) del 7% degli occupati per le imprese con più di 50 dipendenti (con richiesta nominativa al 60%); b) di due disabili per le imprese con lavoratori fra 36 e 50 (con richiesta nominativa di uno dei due); c) di un disabile per le imprese con un numero di dipendenti fra 15 e 35 (con richiesta nominativa). Inoltre la tutela dei disabili mediante il diritto alla conservazione del posto si applica anche a chi, assunto normalmente, abbia successivamente subito la disabilità per infortunio sul lavoro o malattia professionale. Esistono, poi una serie di possibili convenzioni fra datore di lavoro ed uffici competenti per agevolare l'inserimento

dei soggetti disabili, con la previsione di tempi e modalità di assunzioni, che il datore di lavoro si impegna a fare, ricevendone agevolazioni. Sono esonerati dall'assunzione di lavoratori disabili le imprese svolgenti attività non compatibili con la menomazione del soggetto; ed è possibile ottenere l'esonero parziale dalle assunzioni, pagando contributi stabiliti da versare al Fondo regionale per l'occupazione dei disabili.

7. I soggetti del contratto di lavoroI soggetti del contratto di lavoro hanno requisiti e tutele differenziate. Il soggetto “datore di lavoro” deve ovviamente avere la capacità di agire e quando si tratta di un imprenditore valgono le regole di “spersonalizzazione dell'impresa”. Il lavoratore è tutelato sia in caso di morte o incapacità sopravvenuta dell'imprenditore anche prima della conclusione del contratto (con esclusione dei piccoli imprenditori), nel senso che non perde il posto di lavoro, sia anche in caso di trasferimento dell'azienda, che non costituisce motivo di licenziamento. Il soggetto “lavoratore” deve avere la capacità giuridica di prestare l'attività, fissata generalmente a 15 anni, a parte alcune eccezioni a seconda del tipo di lavoro. Il soggetto che ha la capacità giuridica di lavorare, ma non ha ancora la capacità giuridica di agire (18 anni), deve essere rappresentato nel contratto dai genitori (per bambino la legge intende un minore di 15 anni, per adolescente il minore fra i 15 e i 18 anni).

8. La donna lavoratriceL'art.37.1 Cost. tutela anche la figura femminile, bilanciando la sua funzione lavorativa e familiare: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Vi sono anche una serie di normative (forse troppe) che tutelano maggiormente le donne lavoratrici, come la legge 7/1963, che dichiara nullo il licenziamento a causa di matrimonio (prima il datore di lavoro utilizzava la “clausola di nubilato” con cui si riservava il diritto di licenziare la donna che si sposava), o la legge 66/1963 che ammette le donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura. È seguita poi la legge 903/1977 sulla parità di trattamento fra uomo e donna in materia di lavoro in tutti i campi.

9. La causa del contratto di lavoroLa “causa” del contratto di lavoro non è espressa dalla legge come di norma nei contratti tipici: ma è certamente implicita nella definizione che l'art.2094 c.c. dà del lavoratore subordinato: “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o materiale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore”. Quindi la causa del contratto di lavoro è che si tratta di un “contratto sinallagmatico” (sinallagma, dal greco, significa scambio), con “sinallagma genetico”, ovvero vincolo di corrispettività fra le obbligazioni e “sinallagma funzionale”, ovvero vincolo di corrispettività fra le prestazioni. Schematicamente non è difficile separare il concetto causale del lavoro subordinato da quello del contratto di lavoro autonomo; nel quale la causa è pur sempre sinallagmatica, ma lo scambio si ha fra un risultato (non una prestazione) e un corrispettivo (non la retribuzione). Infatti l'art.2222 c.c. dice che il contratto d'opera si ha quando “una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”:

10. Lavoro subordinato, autonomo, parasubordinatoQuindi non sembra esservi alcuna confusione possibile fra i due contratti (subordinato e autonomo): sono diverse la causa e l'oggetto; la prestazione contro retribuzione l'uno, opera e servizio contro corrispettivo l'altro; diverso il soggetto che sopporta il rischio per il

compimento del lavoro: l'imprenditore nel lavoro subordinato, il lavoratore nel lavoro autonomo; diverso soprattutto, il vincolo della subordinazione, sempre presente nell'uno, sempre mancante nell'altro, che si definisce appunto autonomo. Proprio la presenza o assenza di subordinazione ammette o vieta l'applicazione di un vastissimo sistema legislativo di tutela del soggetto che, in quanto subordinato, è sottoposto alla etero-direzione dell'attività, deve cioè stare alle dipendenze e sotto la direzione del datore. Un altro tipo di lavoro è quello parasubordinato, definito come “collaborazione coordinata e continuativa, senza vincolo di subordinazione: attività che il soggetto deve svolgere prevalentemente in proprio, in modo continuativo e coordinato con l'attività d'impresa, ma senza che il coordinamento comporti la direzione dell'attività da parte dell'imprenditore, poiché ciò è assimilabile alla vera subordinazione. Oltre che dal contratto, il lavoro parasubordinato si può desumere (da parte del giudice), anche dal tipo di rapporto tra il lavoratore autonomo e l'imprenditore, e dar modo al lavoratore di avere più garanzie di quelle del lavoratore autonomo.

11. Criteri giurisprudenziali di differenziazione e certificazione dei contrattiAnche se non sembrerebbe, è difficile trovare, da parte del giudice, il tipo contrattuale caso per caso. Infatti è sia difficile valutare la etero-direzione in lavori quali ad es. quelli altamente qualificati, sia è diffusa l'usanza del datore di lavoro di avvalersi di contratti che diminuiscano le sue responsabilità sui lavoratori e diminuisca le loro tutele (lavoro autonomo), ma che continuino a mantenere uno rapporto di subordinazione. Quindi si sono escogitati alcuni criteri giurisprudenziali per valutare le tipologie di lavoro nei casi concreti, come la retribuzione (se fissa e ripetuta dimostra un rapporto subordinato), la sussistenza di un orario di lavoro, o il soggetto su cui incombe l'organizzazione del lavoro. In alcuni casi, però, è la stessa legislazione che fissa le regole per lavori che intrecciano i caratteri sia autonomi, sia di subordinazione (contratti a progetto, di lavoro intermittente, prestazioni occasionali, ecc.). In particolare la legge “Biagi” ha tentato di consentire una scelta di lavori atipici, che possa essere controllata ex-ante, tramite la “certificazione” del contratto di lavoro, attuata da particolari organismi, come strumento di riduzione del contenzioso giudiziario proprio nel campo della dicotomia subordinazione-autonomia. Gli organi abilitati alla certificazione sono: 1) gli enti bilaterali costituiti su base territoriale o nazionale; 2)le Direzioni provinciali del lavoro in seguito a decreto ministeriale e le province; 3) le Università e le Fondazioni universitarie, iscritte in un albo presso il ministero del lavoro.

12. Rilevanza del motivo nel contratto di lavoroInsieme alla causa, tra gli elementi fondamentali del contratto c'è anche il “motivo”, che è costituito dagli scopi ulteriori, personali dei contraenti. In realtà secondo l'art.1345 c.c. l'unico caso di rilevanza del motivo si ha allorquando esso sia illecito e cioè contrario alle norme imperative, all'ordine pubblico o la buon costume.

13. Forma del contratto di lavoroAltro elemento essenziale del contratto di lavoro è la forma. In realtà è sufficiente che vi sia consenso perché vi sorgano delle obbligazioni dalle parti, ma giustamente, la forma più utilizzata è quella scritta. La legge impone una forma specifica solo per alcuni contratti di lavoro: il codice della navigazione precede la forma solenne per atto pubblico per il contratto d'arruolamento; la forma scritta “ad susbstantiam” (cioè per la validità del contratto) per il contratto degli addetti alla navigazione interna; la forma scritta “ad probationem tantum” (solo per prova dell'avvenuto contratto) per il personale di volo. La forma scritta è stata pian piano prevista per altre categorie di contratti di lavoro considerati meno garantisti del tipico contratto di lavoro a tempo indeterminato nell'impresa.

14. L'oggetto del contratto di lavoroL'oggetto del contratto di lavoro è duplice, vista la corrispettività delle obbligazioni, e consiste nello scambio fra la prestazione di lavoro e retribuzione. Esso deve avere i caratteri della liceità, possibilità, determinatezza o determinabilità.

15. La volontà e i viziIl contratto di lavoro si perfeziona con l'accordo tra le parti: la volontà deve essere immune dai vizi, che comportano l'annullabilità del contratto. Occorre però far menzione dell'istituto civilistico della “simulazione” che si ha quando viene stipulato un contratto cui le parti non intendono dare effetti; si chiama “simulazione assoluta” quando le parti non vogliono in realtà alcun contratto; si chiama “simulazione relativa” quando le parti hanno voluto concludere un contratto (contratto dissimulato), ma diverso da quello apparente (contratto simulato). Esiste quindi un contratto (dissimulato) che corrisponde alla effettiva volontà delle parti e che ha effetto fra esse purché abbia i requisiti di forma e sostanza necessari

16. CondizioneGli elementi accidentali del contratto di lavoro sono, come per il contratto generale, la “condizione” e il “termine”, nonché il “patto di prova”, che in realtà è la combinazione dei due. La “condizione” spiega i suoi effetti sul contratto di lavoro, e si applica la regola dell'art.1353 c.c.: “Le parti possono subordinare l'efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto a un avvenimento futuro o incerto”.

17. TermineIl termine differisce dalla condizione perché subordina l'efficacia del contratto ad un avvenimento futuro ma certo. Il contratto di lavoro a tempo determinato è oggi regolamentato dalla legge 230/1962 che pone rigidi limiti per il suo impiego da parte del datore di lavoro: 1) previsione della forma scritta ad substantiam per la clausola contenente il termine; 2)necessità di ipotesi tassativamente previste per la legittimità di apposizione del termine; 3) proroga del contratto a termine concessa una sola volta, per una durata non superiore alla prima; 4) proroga tacita non ammessa. Successivamente questa legge fu abrogata e sostituita con il d.lgs. 368/2001, in adeguamento alla direttiva UE 70/1999, che media fra flessibilità e tutela del lavoratore lasciando più possibilità all'imprenditore di contratti flessibili e meno sicurezza al lavoratore di trovare un posto fisso, ma in conseguenza riducendo il “lavoro nero”. Il d.lgs. 368/2001 conserva tutele ritenute imprescindibili e principi di parità di trattamento. Ulteriore normativa che interviene in materia è il d.lgs.276/2003. Quindi le regole per il termine del contratto sono varie. È sempre ammessa la proroga per una sola volta, per la stessa attività lavorativa e per una durata non superiore a quella iniziale, purché essa sia richiesta per esigenze contingenti e imprevedibili e purché la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. È consentita l'assunzione a termine dei dirigenti per un massimo di 5 anni, con la possibilità di dimissioni del dirigente dopo il triennio, senza alcun vincolo.

18. Patto di provaIl patto di prova è l'elemento accidentale tipico del contratto di lavoro; è disciplinato dall'art.2096 c.c. che dice che il patto di prova deve risultare da atto scritto, pena nullità del patto; il 2° comma parla dell'oggetto del patto, e cioè l'”esperimento” e dice che datore e lavoratore hanno l'obbligo e il diritto di effettuare l'esperimento; il 3° comma, ancora, dà la possibilità ad entrambe i contraenti di recidere il patto in qualunque momento, a meno che la prova è stabilita per un tempo minimo necessario. L'art. 2096 non stabilisce la durata del patto di prova, che invece dovrebbe essere stabilito nella contrattazione collettiva o individuale, e comunque non superiore a 6 mesi. L'ultimo comma dell'art. Dice che se una

delle due parti non rescinde il patto al suo termine, il lavoratore si ritiene assunto e il periodo di prova entra nel computo dell'anzianità.

19. Invalidità del contratto di lavoroI casi di nullità e annullabilità del contratto di lavoro seguono, ma non totalmente, la disciplina generale. Esso è nullo quando manca la forma prevista ad substantiam; quando il motivo è illecito; quando l'oggetto non sia lecito, possibile, determinato o determinabile; quando il soggetto lavoratore non abbia la capacità giuridica di lavorare. Invece è annullabile quando non vi sia la capacità d'agire dei soggetti e in caso di vizio del consenso. Questa disciplina è inserita nell'art.2126 c.c.

Capitolo 2 – Il rapporto di lavoro

1. La prestazione di lavoroDal contratto di lavoro deriva un complesso di poteri, per il datore di lavoro, che, connessi con la prestazione in condizioni di subordinazione, debbono ovviamente essere limitati dalla legge. L'oggetto del contratto è la prestazione da svolgersi alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro, i criteri per vagliare l'adempimento del lavoro subordinato sono gli artt.2104-2105 c.c., ovvero gli obblighi di diligenza, di obbedienza e di fedeltà. La prestazione deve essere svolta personalmente dal lavoratore; egli non può avvalersi di ausiliari senza il consenso del datore di lavoro, né può farsi sostituire, né può cedere ad altri il proprio contratto.

2. DiligenzaPer l'art.2104 c.c. 1° comma, il lavoratore “deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale”(che spiega già tutto).

3. Obbligo di obbedienza e potere direttivoPer l'art.2104 c.c. 2° comma, il lavoratore “deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”, che equivale all'obbligo di obbedienza (contrapposto al “potere direttivo”, di cui è titolare l'imprenditore). Il potere direttivo riguarda l'esecuzione del lavoro e la disciplina del lavoro.

4. Obbligo di fedeltàL'obbligo di fedeltà è sancito dall'art.2105 c.c.: “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Ovviamente tutti questi obblighi e divieti finiscono allo scadere del contratto di lavoro. Dunque il divieto di concorrenza ha una durata determinata dalla durata del rapporto: è per questo che il codice civile ha cercato di allungare il periodo di divieto di concorrenza anche dopo la fine del rapporto. Infatti, secondo l'art.2596 c.c. è possibile stipulare un accordo scritto, il “patto di non concorrenza” che ha validità di 5 anni e solo se circoscritto ad una determinata zona o attività.

5. Invenzioni del lavoratoreAl tema della concorrenza fra datore di lavoro e lavoratore può essere connesso quello delle invenzioni industriali attuate da quest'ultimo. L'invenzione industriale (art.2584 ss. c.c.) cioè oggetto di brevetto e quindi di applicazioni industriale, può essere fatta anche da

un prestatore di lavoro subordinato. A lui spetta il c.d. “diritto morale d'autore”, il diritto inalienabile ad essere riconosciuto autore dell'invenzione, pur fatta durante il rapporto di lavoro. La legge “Biagi” ha esteso questa disciplina anche al lavoratore a progetto. Per quanto attiene allo sfruttamento economico dell'invenzione il riferimento è ancora il regio decreto sui “Brevetti per invenzioni industriali” n.1127/1939 modificato dal d.lgs30/2005 “Codice della proprietà industriale”. Quest'ultimo elenca 3 diverse ipotesi: 1) invenzioni di lavoro o di servizio, nel caso in cui l'oggetto del contratto di lavoro sia lo svolgimento di un'attività inventiva. In questo caso il diritto d'autore è del lavoratore, ma il diritto patrimoniale e di sfruttamento dell'invenzione sono del datore di lavoro, come da contratto; 2) invenzioni in azienda: nel caso in cui l'oggetto del contratto di lavoro non è un'attività inventiva. Il datore di lavoro avrà comunque i diritti sull'invenzione, ma dovrà un “equo premio” all'inventore; 3) l'invenzione occasionale, presuppone un rapporto di lavoro subordinato e può avvenire anche dopo la cessazione del rapporto, ma rientra in questa disciplina solo se il brevetto sia richiesto entro un anno dalla cessazione del rapporto stesso. In questo caso al lavoratore spettano sia il diritto morale, sia patrimoniale. Se però l'invenzione attiene al campo dell'attività produttiva svolta dal datore di lavoro, questi ha un diritto di opzione per l'uso esclusivo o non esclusivo dell'invenzione, o per l'acquisto del brevetto, entro 3 mesi dalla comunicazione di deposito della domanda del brevetto.

6. Potere disciplinare e sanzioniI poteri del datore di lavoro hanno subito una riduzione che passa per la via della “procedimentallizzazione”: i poter sono cioè rimasti all'imprenditore, ma circondati da tutele e garanzie che sono costituite da controlli, informazione, possibilità d'intervento, gradi decisionali tali da rendere la persona del lavoratore (non la sua prestazione) dal vincolo della subordinazione passiva a quei poteri. Il primo atto normativo in merito a ciò è l'art.2106 c.c., intitolato “Sanzioni disciplinari” che dà il permesso al datore di lavoro di intraprendere sanzioni disciplinari per violazioni dei due articoli precedenti. Le sanzioni, una volta fissate unilateralmente dall'imprenditore nel “Regolamento aziendale”, sono poi divenute tipico oggetto della contrattazione collettiva (i c.d. “codici disciplinari”). Questo articolo ha subito qualche modifica con l'art.7 dello Statuto dei lavoratori, composto di 8 commi. Il 1° comma stabilisce un principio garantistico di conoscenza: non possono essere irrogate sanzioni se il datore di lavoro non abbia provveduto alla pubblicizzazione delle norme disciplinari comprendenti infrazioni, relative sanzioni e procedure di contestazione, portandole a conoscenza dei lavoratori “mediante affissione in luogo di lavoro accessibile a tutti”. L 2° e 3° comma spiegano il procedimento di contestazione: il lavoratore, prima del provvedimento disciplinare, deve ricevere la contestazione per iscritto dell'addebito e deve essere sentito in sua difesa; il lavoratore può farsi assistere dal suo rappresentante sindacale o, se non iscritto ad alcun sindacato, da uno cui conferisca il suo mandato. Evidentemente i primi 3 commi riguardano la “formazione del provvedimento disciplinare”. Il 5° comma indica che i “provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima di 5 giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa”. Dopo che la contestazione è stata inflitta, il 6° comma dice che l'impugnazione può essere fatta davanti al giudice o un collegio di conciliazione e arbitrato e le parti devono provvedere a nominare dei propri rappresentanti. Se, come dice il comma 7, il datore di lavoro non provvede entro 10 giorni a nominarlo, la sanzione disciplinare non ha effetto. Infine l'ultimo comma interviene sulla c.d. “recidiva” la quale comporta un aumento della sanzione solo se la ripetizione dell'infrazione avviene nell'arco di due anni.

7. Il licenziamento come sanzioneIl 4° comma dell'art.7 dello Statuto dei lavoratori cita: “Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n.604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che

comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni”. La prima parte del comma ha creato dei dubbi, poiché vi può essere una doppia lettura: il licenziamento comporta un mutamento definitivo del rapporto, quindi non è una sanzione e non ricade nell'art.7; oppure, al contrario, confrontando la legge 604/1966 che prevede il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, questo è l'unico caso di mutamento definitivo ammesso dall'art.7. La Corte Costituzionale, con sentenza 204/1982 ha esteso ai licenziamenti “ontologicamente” disciplinare (cioè per colpa del lavoratore), i commi 2 e 3 dell'art.7, non parendole congruo che queste garanzie valessero per sanzioni molto meno rilevanti e non per la più grave. Non è invece indispensabile l'applicazione del criterio della pubblicità per affissione, poiché le infrazioni che generano il licenziamento possono essere molte e non sempre prevedibili nel “codice disciplinare”.

8. Le categorie dei lavoratori. I dirigentiNell'ambito del lavoro subordinato, il c.c. all'art.2095 distingue 4 categorie: dirigenti, quadri, impiegati ed operai, rinviando ala legge ed alla contrattazione collettiva la determinazione dei requisiti di appartenenza a ciascuna di esse. I dirigenti sono qualificati dal loro potere di iniziativa e coordinamento, dagli obiettivi di impresa e dalle funzioni direttive che svolgono, oltreché dalla posizione gerarchica nell'impresa, superiore a tutte le altre categorie. I contratti collettivi dei dirigenti sono evidentemente molto differenti rispetto alle altre categorie. Essi, infatti, godono di una serie di vantaggi, non solo di ordine economico (mancanza di soggezione alla disciplina dell'orario di lavoro e la richiesta nominativa nelle assunzioni), ma conduce anche ad una situazione di inapplicabilità di leggi garantistiche (come le norme protettive in materia di licenziamento, a parte l'obbligo di licenziamento in forma scritta, il divieto di licenziamento discriminatorio e l'obbligo del datore di lavoro alla corresponsione del TFR). Particolarità italiana è il CIDA (Confederazione Italiana dei Dirigenti d'Azienda), unica associazione sindacale di mestiere e non di settore, la quale stipula i contratti collettivi per i dirigenti di qualsiasi settore. Di conseguenza chi ha un contratto di dirigente può iscriversi all'INPDAI, Istituto nazionale di previdenza dei dirigenti di aziende industriali.

9. Le categorie dei lavoratori. I quadriI “quadri” hanno avuto il primo riconoscimento con la legge 190/1985. Hanno funzioni simili a quelle dirigenziali, ma di livello minore o più ristretto e i requisiti di appartenenza sono, per legge demandati ai contratti collettivi. Riguarda principalmente quegli addetti che svolgono attività cui è riconosciuta molta autonomia di gestione del lavoro e che, spesso, è finalizzata a conseguire parziali risultati, piuttosto che un'attività di mera esecuzione. Ai fini delle applicazioni delle leggi i quadri sono considerati come gli impiegati.

10. Le categorie dei lavoratori. Impiegati ed operaiGli “impiegati” sono la prima categoria ad essere stata disciplinata dalla legge (r.d.l. 1825/1924) che definisce l'impiegato colui che svolge un'attività professionale “con funzioni di collaborazione tanto di concetto che di ordine, eccettuata, pertanto, ogni prestazione che sia semplicemente di mano d'opera”. La distinzione con l'operai sta nel fatto che: la manualità (“mano d'opera”) appartiene al lavoro operaio, mentre l'attività intellettuale, appartiene agli impiegati. In realtà non sono pochi i casi in cui il lavoro di un operaio specializzato può essere ben più creato intellettualmente di quello di un impiegato d'ordine, meramente esecutivo. Un altro criterio fa riferimento alla professionalità: ma questo è un attributo che può essere relativo sia di un lavoratore impiegato, sia di un operaio. Ancora, l'impiegato collabora all'organizzazione dell'impresa, l'operaio collabora semplicemente nell'impresa: questa tesi è stata quella più seguita. In concreto il problema

è risolto dai contratti collettivi che contengono le “declaratorie” delle mansioni divise per categorie. In realtà anche i sindacati hanno fatto fatica a distinguere le due categorie, introducendone una terza: gli “intermedi”. Con l'evolvere della struttura dell'impresa, però, i contratti collettivi hanno adottato una classificazione nuova dei lavoratori, detta “inquadramento unico”, in cui non è più palese la distinzione fra le tre categorie, anche se la gerarchia dei livelli è indubbiamente impiegati-intermedi-operai.

11. Qualifiche e ius variandiNell'ambito delle categorie si distinguono le qualifiche, cioè l'insieme dei compiti e di attività attribuite al lavoratore dall'imprenditore nell'ambito del suo potere organizzativo, cui corrisponde nei contratti collettivi una determinata retribuzione. Il lavoratore può mutare mansioni, ma anche il datore di lavoro può modificare le mansioni del lavoratore, almeno temporaneamente, come previsto dall'art.2103 c.c. (c.d. ius variandi dell'imprenditore), inserito dall'art.13 dello Statuto dei lavoratori: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo.”

Capitolo 3 – Luogo della prestazione

1. Lavoro a domicilioIl luogo della prestazione è stabilito nel contratto di lavoro; se non è previsto, si intenderà come luogo di lavoro l'impresa o l'unità produttiva di essa. Esistono però degli speciali contratti che: escludono lo svolgimento del lavoro in azienda (il lavoro a domicilio o telelavoro); consentono che esso avvenga in un luogo di pertinenza sì del datore di lavoro ma che non è l'impresa (il lavoro domestico); o in un luogo che è impresa, ma non del datore di lavoro (somministrazione di lavoro, appalto e distacco). Inoltre è nel potere direttivo ed organizzativo dell'imprenditore la trasferta e, con limiti, il trasferimento del lavoratore. Come dice la legge 877/1973 “è lavoratore a domicilio chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia la disponibilità … lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori”. Il lavoratore a domicilio può essere un lavoratore autonomo se lavora per i consumatori e in tal caso può farsi aiutare da dipendenti o apprendisti; ma nel caso lavori subordinatamente a imprenditori non può avere dipendenti, al massimo l'aiuto di familiari. Vista la mancanza del controllo diretto dell'imprenditore la retribuzione del lavoratore a domicilio è a “cottimo pieno”, cioè per il numero dei risultati parziali, non potendosi evidentemente retribuire a tempo un lavoratore il quale non è sottoposto ad u orario di lavoro controllabile; mentre gli spettano comunque tutte le tutele previdenziali. Sempre per via della distanza dalla “fabbrica”, il lavoratore a domicilio non è sindacalizzato, pena una serie di tutele mancanti, come la tutela sul licenziamento (è vietato il licenziamento della lavoratrice a domicilio nel periodo di astensione per maternità, nel quale le è corrisposta l'indennità), né è possibile garantire le norme sulla sicurezza del lavoro. Proprio per queste difficoltà del lavoratore a domicilio (e vantaggi per l'imprenditore) la legge ha posto molto limiti all'impiego di questa forma di lavoro e particolari tutele. Queste sono date principalmente da un complesso sistema di controllo mediante registri di iscrizione (“registro di committenti” presso Uffici provinciali del lavoro, “registro dei lavoratori a domicilio” presso ciascuna sezione comunale degli uffici

per l'impiego), e Commissioni a livello centrale, regionale e provinciale, col compito di vegliare sulla retta applicazione della legge.

2. TelelavoroIl telelavoro non gode ancora di una completa tutela giuridica: può essere considerato come il lavoro a domicilio, ma è diverso l'oggetto del contratto: si tratta di una prestazione per via informatica o telematica a distanza, le cui fonti di disciplina stanno in accordi collettivi e nel d.p.r.70/1999 riferito al telelavoro nelle pubbliche amministrazioni, il quale ha lo scopo di realizzare economie di gestione sfruttando il lavoro lontano dal luogo dell'impresa e immediatamente riscontrabile tramite mezzi informatici.

3. Lavoro domesticoIl lavoro domestico ha la particolarità di svolgersi nell'ambito di una casa privata o di una comunità, con una prestazione che comprende i servizi relativi all'organizzazione e al funzionamento della vita familiare. Le leggi che si occupano di questo tipo di lavoro sono la legge 339/1958 (lavoratore alle dipendenze dello stesso datore di lavoro per almeno quattro ore giornaliere) e gli artt. 2240 ss. c.c. (alle dipendenze dello stesso datore di lavoro per meno di quattro ore giornaliere). Le differenze nei confronti delle norme sul contratto di lavoro in generale sono: 1) assunzione diretta, con successiva denuncia all'INPS; 2) il patto di prova si presume per i primi otto giorni; 3) a causa dell'intenso legame di fiducia che la convivenza comporta fra datore di lavoro e lavoratore domestico, il recesso senza giustificazione è ammesso (non il licenziamento discriminatorio); 4) è diversa la disciplina dell'orario di lavoro. Per il resto si applicano le norme relative al rapporto di lavoro generale.

4. Trasferta e trasferimentoLa trasferta del lavoratore, cioè il cambiamento temporaneo del luogo di lavoro, rientra nel potere organizzativo e direttivo dell'imprenditore. È prevista, per questa, una “indennità di trasferta” che copre il disagio dello spostamento e in parte il rimborso spese. Diverso è il trasferimento del lavoratore, cioè uno spostamento definitivo del luogo di lavoro. Del trasferimento parla l'art.2103 c.c..

Capitolo 4 – Tempo della prestazione

1. Orario di lavoroL'orario di lavoro è definito dal d.lgs 66/2003 come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. Nella storia si è passati dalle ore 12 ore di lavoro giornaliere alle 8 ore giornaliere o 48 settimanali (decreto 692/1923). I contratti collettivi hanno portato l'orario settimanale a 40 ore già da molti anni, finché con la legge 196/1997 (pacchetto “Treu”) ha stabilito l'orario massimo legale di 40 ore settimanali, che può essere maggiorato fino a 12 ore di lavoro straordinario. Per attenersi, però, alle direttive europee, la legge 66/2003 (di attuazione delle direttive europee) stabilisce la durata media settimanale in 48 ore comprensive dello straordinario, ma dà anche una serie di definizioni: periodo di riposo (“qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro”), lavoro straordinario, periodo notturno, lavoratore notturno, lavoro a turni, lavoratore a turni, lavoratore mobile e lavoro offshore. Le disposizioni sull'orario di lavoro non si applicano ai lavoratori che non hanno l'obbligo di orario, essendo questo da essi stessi determinato. A partire dalla legge 196/1997, poi, è consentita la “rimodulazione” degli orari di lavoro non necessariamente sulla settimana, ma fino all'anno, ammettendo un'ampia variazione per periodi dell'orario, seguendo le necessità del mercato e dei momenti di maggiore o minore richiesta dei

prodotti o dei servizi. È inoltre di impiego corrente il c.d. “orario flessibile” che consente un certo lasso di tempo (di solito 30') per ogni entrata e uscita giornaliere dal luogo di lavoro. Per quanto riguarda il riposo (dettato dal d.lgs.66/2003), questo viene stabilito in minimo 11 ore consecutive, salvo il frazionamento nella giornata dell'attività; in ogni caso il lavoratore ha diritto a un intervallo di pausa dopo 6 ore di lavoro. È demandato alla contrattazione collettiva stabilire modalità e durata delle pause; in mancanza è concessa al lavoratore una pausa minima di 10 minuti, anche sul posto di lavoro.

2. Riposo settimanaleLe pause nel lavoro, oltre che giornaliere sono anche settimanali e annuali. La pausa settimanale è prevista dall'art.36 Cost., che dice che “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale” e ne sancisce la irrinunciabilità. Anche l'art.2109 c.c., dà al lavoratore il diritto al riposo settimanale “di regola in coincidenza con la domenica”. Infine la normativa europea impone un riposo ininterrotto di 24 ore in ogni periodo lavorativo di 7 giorni. Tutto ciò è ribadito nel d.lgs.66/2003 all'art.9 che prevede una serie di eccezioni come per il lavoro a turni, le attività con periodi di lavoro frazionati nella giornata e tutte le attività discontinue e dei trasporti ferroviari. Va comunque sottolineata l'esistenza comunque di un riposo obbligato per il lavoratore di 24 ore ogni 6 giorni lavorativi. Qualora il giorno di riposo non coincidesse con la domenica il lavoratore ha diritto ad un compenso ulteriore, indicato nel contratto collettivo, anche di natura non monetaria. Altre festività “infrasettimanali”, civili o religiose concedono al lavoratore il diritto ad astenersi dal lavoro, venendo comunque retribuito; se presta lavoro avrà diritto alla maggiorazione per lavoro festivo.

3. FerieIl periodo di riposo annuale prende il nome di “ferie”, anch'esse previste all'art.36 Cost., che definisce le ferie annuali come retribuite ed irrinunciabili, come anche l'art.2109 c.c.. È all'imprenditore che spetta fissare il periodo di godimento delle ferie, dandone comunicazione preventiva ai lavoratori, nei limiti fissati dalla legge. Altri giorni sono lasciati alla scelta del prestatore di lavoro, compatibilmente, si intende, con le esigenze dell'impresa. La durata minima delle ferie deve essere di 4 settimane, salvo condizioni più favorevoli inserite nei contratti collettivi. La novità legislativa è il divieto di sostituzione delle ferie (almeno nel loro minimo legale) con l'indennità di ferie non godute. Per le ferie non godute vige la regola dell'art.2126 c.c. per cui “se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione”. Occorre ricordare che la “malattia” (documentata) interrompe le ferie, per cui al lavoratore rimane la disponibilità delle giornate così perdute (se è una indisposizione lieve che consente comunque il riposo psico-fisico non interromperà le ferie).

4. Lavoro notturnoIl lavoro notturno è disciplinato dall'art.2108 c.c. il quale impone per esso una maggiorazione retributiva quando l'orario notturno non sia compreso in regolari turni periodici (nelle imprese con ciclo di lavorazione continua). Il lavoro notturno è definito come “l'attività svolta nel corso del periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l'intervallo fra la mezzanotte e le cinque del mattino”; la legge definisce anche il lavoratore notturno, cioè chi svolga almeno tre ore del suo lavoro giornaliero in detto periodo, oppure chi svolga in via eccezionale parte del suo orario nel periodo notturno. Secondo il d.lgs.532/1999 non possono essere adibiti al lavoro notturno i minori, anche apprendisti, nonché le donne per il periodo della gravidanza e fino ad un anno d'età del bambino, o ancora nei casi di inidoneità per motivi di salute o altri casi stabiliti nei contratti collettivi. Non sono obbligati a prestare lavoro notturno la madre o il padre lavoratore che convivano con un figlio minore di 3 anni, così pure il genitore unico affidatario di un figlio minore di 12

anni e il lavoratore (o lavoratrice), che abbiano a carico un soggetto disabile. Vi è un ampio affidamento ai contratti collettivi per la definizione della durata del lavoro notturno e della maggiorazione economica. Inoltre sono previsti controlli preventivi e periodici per la tutela della salute del lavoratore notturno e il datore di lavoro ha l'obbligo di garantire mezzi di prevenzione e di protezione adeguati, particolarmente nei settori di lavorazioni rischiose.

5. Lavoro straordinarioIl lavoro straordinario è il lavoro compiuto al di là dell'orario normale; l'art.2108 c.c. prevede per esso una maggiorazione della retribuzione. Secondo la legge 66/2003 viene affidato alla contrattazione collettiva stabilire le regole per le modalità di esecuzione dello straordinario; in mancanza si fa riferimento alla legge 409/1998 (fino ad un massimo di 250 ore annuale). Per quanto riguarda il lato economico lo straordinario deve essere computato a parte e compensato con le maggiorazioni previste dal contratto collettivo (che può prevedere anche compensi non monetari). Sempre nel rispetto di diversità del contratto collettivo, la legge ammette direttamente il ricorso al lavoro straordinario: 1) per eccezionali esigenze tecnico-produttive, se non è possibile farlo con nuove assunzioni; 2) nei casi di forza maggiore e quando il mancato ricorso ad esso possa comportare un pericolo grave e immediato o un danno alle persone o alla produzione; 3) in eventi particolari connessi all'attività produttiva, previa comunicazione in tempo utile agli uffici competenti e alle r.s.a.. Il lavoro straordinario prestato al di là dei limiti massimi contrattuali o legali, o al di fuori delle ipotesi ammesse comporta per l'imprenditore sanzioni amministrative, che sono dallo Stato riassegnate al Fondo per le prestazioni temporanee presso l'INPS.

6. Contratti a orario ridotto, modulato o flessibilea) Lavoro intermittente. Un primo contratto ad orario ridotto, modulato o flessibile è il lavoro intermittente, nuova tipologia di lavoro subordinato che prevede che un lavoratore si metta a disposizione di un datore di lavoro che ne utilizza la prestazione in modo discontinuo o intermittente, entro limiti fissati dalla stessa legge. Le esigenze obiettive del lavoro intermittente sono stabilite nei contratti collettivi. Una “indennità mensile di disponibilità” è dovuta al lavoratore che si sia obbligato contrattualmente a rispondere alla chiamata nei periodi di attesa di utilizzazione a disposizione del datore di lavoro. La misura dell'indennità è determinata nel minimo, periodicamente aggiornato, da un decreto ministeriale, derogabile in melius dalla contrattazione collettiva. Per agevolare l'uso di questo contratto da parte degli imprenditori, i contributi da versare sono relativi all'effettivo ammontare dell'indennità e l'intera indennità è esclusa dal computo di ogni istituto legale o contrattuale. In caso di malattia o di altra temporanea impossibilità, il lavoratore non ha diritto all'indennità di disponibilità ed è tenuto ad informare il datore di lavoro con tempestività (pena la perdita del diritto all'indennità per 15 giorni). Il ricorso al lavoro intermittente è vietato: 1) per sostituire lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; 2) nelle unità produttive in cui, nei 6 mesi precedenti, vi siano stati licenziamenti collettivi o sospensioni o riduzioni di orario; 3) alle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi. Il lavoro intermittente può svolgersi anche nei giorni di fine settimana, nel periodo delle ferie estive e delle vacanze natalizie e pasquali. A tutela del lavoratore, per il principio di non discriminazione, deve essere previsto un trattamento economico e normativo pari a quello dei lavoratori a tempo indeterminato, per l'attività effettivamente prestata; mentre nel periodo di disponibilità non gli è riconosciuto alcun diritto di lavoratore subordinato, né alcuna corresponsione, tranne l'indennità di disponibilità.b) Job sharing (o lavoro ripartito). Il contratto di job sharing è caratterizzato dalla presenza di due lavoratori che coprono, secondo orari divisi fra loro e a loro scelta, una unica obbligazione lavorativa assumendosene in solido la responsabilità dell'adempimento. Nel

caso di impossibilità di entrambi, è ammessa una sostituzione con terzi solo previo consenso del datore di lavoro. Poiché l'obbligazione assunta nel contratto di lavoro ripartito è ad una prestazione completa, la legge stabilisce che le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori porta all'estinzione dell'intero contratto. Il principio di non discriminazione impone un trattamento economico impone un trattamento economico e normativo almeno pari a quello del lavoratore di uguale livello, a parità di mansioni svolte; altri istituti come la retribuzione o le ferie, sono riproporzionati alla durata della prestazione svolta da ciascuno dei 2 lavoratori. Il trattamento previdenziale è assimilato a quello dei lavoratori a tempo parziale.c) Lavoro a tempo parziale. Il lavoro part-time si caratterizza per l'orario di lavoro inferiore a quello normale stabilito nel contratto collettivo. La legge 863/1984 distingueva il part-time orizzontale, quando l'attività quotidiana ha orario ridotto, e part-time verticale, quando l'attività quotidiana ha orario uguale a quello normale, ma il lavoro non si svolge tutti i giorni, bensì in periodi ridotti della settimana, del mese o dell'anno. La legge 61/2000, poi, prevede il part-time misto, combinazione dei due tipi. Si è spinto molto affinché questa nuova modalità di contratto fosse più utilizzata. Non sono previsti limiti alle assunzioni part-time in proporzione al numero dei dipendenti a tempo pieno; è sufficiente per la conclusione del contratto la forma ad probationem tantum; è possibile un part-time anche nel contratto di lavoro a tempo determinato. Alla contrattazione collettiva vengono demandate le modalità del part-time, compresa la previsione per accordo anche di lavoro supplementare. Per i part-time verticale e misto sono previsti gli straordinari. Il rifiuto del lavoratore al passaggio dal tempo pieno a quello parziale (o viceversa) non consente il licenziamento per giustificato motivo; inoltre viene data precedenza ai lavoratori part-time nel caso di assunzioni a tempo pieno nelle stesse mansioni. La disciplina attuale che contiene tutta la nuova normativa sul lavoro a tempo parziale è contenuta nel d.lgs.276/2003 all'art.46, che però non si applica al pubblico impiego.d) Lavoro occasionale. Il d.lgs.276/2003 introduce, agli artt.70-74 il concetto e la normativa delle prestazioni occasionali di tipo accessorio. Sono definite dalla legge come “attività lavorative di natura meramente occasionale resa da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne”. Queste attività possono avere anche più beneficiari e non devono superare in totale la durata complessiva di 30 giorni nell'anno solare e, nello stesso periodo, non devono date diritto a compensi superiori a 3000 euro. Le attivitià occasionali hanno 4 ambiti di applicazione: 1) nei piccoli lavori domestici, compresa l'assistenza domiciliare a bambini, anziani, ammalati, o disabili, 2)dell'insegnamento privato supplementare; 3) dei piccoli lavori di giardinaggio e della pulizia e manutenzione di edifici e monumenti; 4) della collaborazione con enti e associazioni di volontariato per lavori di emergenza o di solidarietà. I soggetti che possono svolgere l'attività occasionale sono: 1) disoccupati da più di un anno; 2) casalinghe, studenti e pensionati; 3) disabili e soggetti in comunità di recupero; 4) lavoratori extra-comunitari, residenti in Italia nei 6 mesi successivi alla perdita del posto di lavoro. La retribuzione avviene tramite “carnet di buoni”.

7. Contratto di solidarietàIl contratto di solidarietà è disciplinato dalla legge 863/1984 e prevede l'accordo collettivo aziendale per una riduzione d0orario di lavoro giornaliero, settimanale o mensile, e corrispondentemente una riduzione della retribuzione al fine di riuscire, in caso di crisi o di ristrutturazione aziendale, ad evitare o ritardare possibili licenziamenti per riduzione di personale, distribuendo l'attività produttiva ancora disponibile fra tutti i lavoratori, con parziale loro sacrificio. Tale contratto costituisce per legge il presupposto per la richiesta di concessione di un trattamento di Cassa integrazione straordinaria, che copre l'80% della retribuzione perduta con il contratto di solidarietà. L'imprenditore, dal canto suo, gode di agevolazioni contributive per un arco di due anni.

Capitolo 5 – La retribuzione

1. Fonti: l'art.36 della Costituzione ed il contratto collettivoLa retribuzione è la parte più rilevante di un contratto di lavoro. La Costituzione se ne occupa all'art.36 comma 1: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. Nel nostro paese manca una legge sui minimi retributivi e valutando la sola natura giuridica dell'istituto, le disposizioni al riguardo contenute nei contratti collettivi attuali, cioè di diritto comune, valgono solo per gli iscritti ai sindacati stipulanti. Però il giudice ha interpretato la norma dell'art.36 Cost. come immediatamente precettiva, perciò la valutazione giudiziale della retribuzione secondo i canoni costituzionali, è fatta dal giudice ed è perciò vincolante anche per il lavoratore e il datore di lavoro non iscritti alle associazioni che hanno stipulato il contratto collettivo.

2. Elementi della retribuzioneLa retribuzione è un istituto complesso, che comprende una pluralità di elementi. Si distingue la “retribuzione minima”, stabilita dal contratto collettivo in relazione alla quantità (orario, unità a cottimo) e alla qualità (a seconda delle categorie, qualifiche e livelli) del lavoro. Fanno parte della retribuzione: “maggiorazioni” per lavoro straordinario, festivo, notturno; “mensilità aggiuntive” (la tredicesima è dovuta per legge; ma per contratto collettivo possono essere previste mensilità ulteriori); “indennità legali” (ad es. per il mancato utilizzo delle ferie); e una varietà di indennità, o di gratifiche contrattuali, normalmente a livello di contrattazione aziendale. Interessante è stata negli anni '80 “l'indennità di contingenza”, finalizzata alla conservazione automatica del potere d'acquisto delle retribuzioni, tramite valutazioni statistiche sulla variazione dei prezzi di determinati prodotti di uso comune (“paniere”). A causa della forte inflazione, l'indennità di contingenza comportò allora picchi di aumenti e quindi di costo della vita, e ridusse fortemente le differenze salariali fra le varie categorie (“appiattimento”). Quindi nel 1992 fu soppressa l'indennità, che è stata fatta confluire nella retribuzione, la quale viene contrattata ogni due anni, in base al Protocollo d'intesa del 23 luglio 1993. Particolare attenzione meritano i superminimi (v. supra).

3. Natura retributivaQuando una somma di denaro corrisposta dal datore di lavoro al lavoratore ha natura contributiva? L'ammontare della retribuzione determina conseguenze economiche di vario genere. I caratteri giuridici necessari per individuare la retribuzione sono, oltre quelli costituzionali di proporzionalità e sufficienza, la obbligatorietà (non si tratta di atti di liberalità) , la corrispettività, la determinatezza o determinabilità.

4. Tipi di retribuzioneI tipi di retribuzione sono indicati dall'art.2099 c.c.: sono a tempo, a cottimo, con partecipazione agli utili e ai prodotti, a provvigione, con prestazioni in natura. La “retribuzione a tempo”, commisurata di norma alla mensilità, è ampiamente prevalente ed entra anche come base allorquando la retribuzione avvenga secondo altri criteri. Questo perché è il tipo di retribuzione che meglio garantisce l'applicazione del principio costituzionale di sufficienza. Il “cottimo” è una forma di retribuzione che è commisurato al risultato, o meglio ai risultati parziali dell'attività. Si fissa nel contratto collettivo la retribuzione per “unità di cottimo”, e il lavoratore riceve quanto gli spetta per le unità di cottimo prodotte in un certo tempo. Poiché si tratta di una retribuzione aleatoria, al cottimo integrale si preferisce il sistema del cottimo misto, con una retribuzione base calcolata sul

tempo, ed eventuali maggiorazioni di cottimo, se si produca al di sopra di un rendimento medio. La “provvigione” è tipica di alcune attività che, pur subordinate, consistono nella trattazione d'affari ed è una percentuale sul valore degli affari conclusi o anche soltanto promossi dal lavoratore. È normalmente una maggiorazione su una paga base a tempo. Il codice ricorda anche la “partecipazione agli utili”, una possibile utilizzazione del c.d. azionariato dei dipendenti (“partecipazione finanziaria dei lavoratori”). Infine la “retribuzione in natura” è a volte imposta dal tipo di attività: nel lavoro domestico, per es. può essere dovuto il vitto o anche l'alloggio. È da ricordare che questi sono aspetti della retribuzione, e come tali vanno monetarizzati e calcolati nell'istituto che fanno riferimento alla retribuzione globale.

Capitolo 6 – L'obbligo di sicurezza

1. L'obbligo di sicurezzaLa copiosa normativa dell'ordinamento italiano in tema di sicurezza del lavoro ha come fondamento i principi costituzionali contenuti negli artt. 2, 32, 35, 38 e 41. Fra tutti rilevano l'art.32 Cost., che riconosce la tutela della salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e l'art.41 comma 2 Cost., il quale “pone l'utilità sociale, la sicurezza, la libertà, e la dignità umana” quali limiti al libero svolgimento dell'attività economica privata. Come summa dei principi essenziali della materia e come norma di chiusura del sistema si colloca, invece, l'art.2087 c.c. secondo cui “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Con esso il legislatore del 1942 ha introdotto il c.d. “obbligo della massima sicurezza tecnologica fattibile”, per cui il datore di lavoro deve sempre tenere presente, nell'esercizio dell'impresa, tre parametri fondamentali: 1) la particolarità del lavoro, in base alla quale devono essere individuati i rischi e le nocività specifiche; 2) l'esperienza, grazie alla quale devono essere previste le conseguenze dannose, sulla scorta di eventi già verificatisi e di periodi già valutati in precedenza; 3) la tecnica.

2. Le regole procedurali per l'inadempimento del datore di lavoroIl d.lgs. 626/1994 è finalizzato ad una diversa impostazione del modo di affrontare le problematiche della sicurezza sul lavoro: le innovazioni, infatti, tendono ad istituire nell'azienda un sistema di gestione permanente ed organico che sia diretto all'individuazione, valutazione, riduzione e controllo costante dei fattori di rischio, mediante aspetti di particolare rilievo, come la programmazione delle attività di prevenzione, la proceduralizzazione dell'obbligo di sicurezza, l'informazione, formazione e consultazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, la predisposizione di un modello di gestione concertata attraverso la c.d. “ripartizione intersoggettiva” dell'obbligo di sicurezza fra una pluralità di soggetti. Il d.lgs.626/1994 si applica a tutti i settori di attività privati o pubblici, con alcune eccezioni espressamente indicate nell'art.1 comma 2.

3. Il contenuto dell'obbligo di sicurezza e il soggetto obbligatoPer le piccole e medie imprese è stata prevista l'emanazione di alcuni decreti interministeriali per un'applicazione semplificata della normativa. L'art.3 del d.lgs.626/1994 stabilisce un lungo elenco di misure generali di tutela, che il datore di lavoro è tenuto ad osservare nei confronti dei lavoratori. Il datore di lavoro deve:a) designare preventivamente i lavoratori incaricati dell'attuazione delle misure di prevenzione incendi e di lotta antincendio, di evacuazione dei lavoratori in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di pronto soccorso e, comunque, di gestione dell'emergenza;b) aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi

che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza del lavoro, ovvero in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione;c) nell'affidare i compiti ai lavoratori tenere conto delle capacità e condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza;d) fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione;e) prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori hanno ricevuto adeguate istruzioni accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico;f) richiedere l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione;g)richiedere l'osservanza da parte del medico competente degli obblighi previsti dal decreto, informandolo sui processi e sui rischi connessi all'attività produttiva; h) adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e impartire istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa;i) informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;l) astenersi, salvo eccezioni debitamente motivate, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave e immediato;m) permettere ai lavoratori di verificare, mediante il rappresentante per la sicurezza, l'applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute e consentire al rappresentante per la sicurezza di accedere alle informazioni ed alla documentazione aziendale;n) prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno.

4. Soggetti del sistema di sicurezzaFra i nuovi soggetti previsti dal decreto è importante la figura del “responsabile del servizio di prevenzione e protezione”, che può essere l'imprenditore stesso o un suo delegato, che deve essere comunicato all'ispettorato del lavoro e alle ASL locali. Inoltre in ogni azienda o unità produttiva deve essere eletto o designato il rappresentante per la sicurezza il quale ha vari compiti di carattere consultivo e propositivo. Anche i lavoratori subordinati hanno alcuni obblighi prevenzionistici: “ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle istruzione e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. La formazione dei lavoratori è un obbligo di legge, oltre che un diritto e deve avvenire durante l'orario di lavoro e non può comportare oneri economici a carico dei lavoratori. Infine c'è la figura del “medico competente” che deve avere una serie di caratteristiche: 1) specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia ed igiene del lavoro o in clinica del lavoro, ecc.; 2) docenza o libera docenza in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia ed igiene del lavoro; 3) autorizzazione di cui all'art.55 del d.lgs.277/1991.

5. Gli organi di vigilanzaLa vigilanza sull'applicazione della legislazione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro è svolta dall'ASL locale e, per quanto di specifica competenza, dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché, per il settore minerario, dal Ministero dell'industria. Per le attività lavorative comportanti rischi particolarmente elevati è stato emanato il

decreto 412/1997 il quale specifica che per alcune attività specifiche, alla competenza di carattere generale riconosciuta alla ASL si affianca quella del Servizio ispezione del lavoro facente capo alla Direzione regionale o provinciale del lavoro: si tratta delle attività del settore delle costruzioni, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione e risanamento delle opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura e in cemento armato, opere stradali, ferroviarie, idrauliche, scavi, montaggio e smontaggio di elementi prefabbricati; i lavori in sotterraneo e gallerie, anche comportanti l'impiego di esplosivi, i lavoro mediante cassoni in area compressa e i lavori subacquei. Sono previste una serie di casi di responsabilità contravvenzionale per il datore di lavoro, il dirigente preposto del lavoratore e del medico competente e per tutti vi è l'alternativa tra la pena detentiva dell'arresto e la pena pecuniaria di un'ammenda.

6. L'obbligo di sicurezza nel d.lgs. n. 276 del 2003

7. Il “Testo Unico” del 2007Con la legge delega 229/2003 al Governo è stato dato il compito di riassetto e semplificazione delle disposizioni vigenti in un Testo Unico, che incrementi la informazione e prevenzione riguardo ai rischi connessi all'attività dell'impresa; che promuova codici di condotta, e buone prassi in materia; in generale, che armonizzi le norme sulla sicurezza con quelle comunitarie e con le Convenzioni internazionali. Questo Testo Unico prevede un inasprimento delle sanzioni, contro una scarsa attuazione di politica premiale, che sarebbe molto più incentivante.

8. Danno biologico e “mobbing”Per danno biologico si intende un danno alla salute o una lesione psicofisica del lavoratore, che non riguarda solo la capacità di lavorare, ma anche la condizione di vita del soggetto; esso è risarcito in base a tabelle percentuali di invalidità dovuta ad infortunio. Il diritto al risarcimento è stato poi esteso ad altri beni fondamentali della persona: il danno all'immagine, alla professionalità, alla vita sociale e di relazione (danni esistenziali).Il mobbing non ha un disciplina legislativa ad hoc: secondo il concetto traslato da ordinamenti stranieri consiste in una persecuzione psicologica del lavoratore sul luogo di lavoro, ad opera del datore di lavoro, di un superiore, o di compagni di lavoro.

Capitolo 7 – Sospensione del rapporto, ammortizzatori sociali e formazione

1. I casi di sospensione legale del rapportoPer una serie di cause legali, il rapporto di lavoro può essere totalmente o parzialmente sospeso. Ciò significa che esso esiste pur sempre ma ha un ridotto contenuto: comporta il solo diritto alla conservazione del posto o anche una indennità; permane comunque per legge il diritto del lavoratore al decorso della sua anzianità di servizio. L'art.2110 c.c. dice: “In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio” è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o una indennità nella misura e per il tempo determinati dalla legge, dagli usi o secondo equità. A questi casi l'art.2111 c.c. Aggiunge il richiamo alle armi e, per una sentenza della Corte Costituzionale, il servizio militare di leva. Per l'art.53 Cost. ha questo diritto chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive e, per l'art.31 dello Statuto dei lavoratori, chi è chiamato a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali; per l'art.40 Cost. hanno diritto alla conservazione del posto coloro che legittimamente esercitano il diritto di sciopero; chi partecipa ai seggi elettorali; per i genitori per assistere il bambino; per i tossicodipendenti per la terapia; per coloro che debbono effettuare cure termali, per le patologie previste dalla legge. Il periodo, fissato dal giudice, in cui il lavoratore ha diritto a conservare il posto di lavoro nei suddetti casi è detto di “comporto”, finito il quale il

datore di lavoro può decidere anche di rescindere il contratto. È evidente che il lavoratore deve certificare la malattia (entro due giorni) sia al datore di lavoro (la prognosi), sia all'INPS (la diagnosi). L'imprenditore ha il divieto di far lavorare la donna incinta nei 2 mesi prima e 3 mesi dopo il parto. Vi sono inoltre una serie di congedi, parentali, familiari, per la formazione, per i donatori di sangue, anche per i carcerati preventivi.

2. Cassa integrazione guadagni ordinariaConseguenza di intensa sospensione del rapporto di lavoro per cause riguardanti l'organizzazione produttiva è la “Cassa integrazione guadagni”, che è detta ordinaria nel caso in cui la sospensione dell'attività sia temporanea e dovuta ad eventi non imputabili all'imprenditore o ad una transitoria situazione del mercato. La Cassa integrazione guadagni ha lo scopo di sostenere economicamente i lavoratori fino alla ripresa dell'attività. Tale trattamento può avere durata massima di tre mesi ed ammonta all'80% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per il tempo non lavorato.

3. Cassa integrazione guadagni straordinariaLa cassa integrazione guadagni straordinaria non richiede la temporaneità della sospensione né la certezza della ripresa produttiva. Trova quindi impiego nei casi in cui la possibilità di ripresa è incerta, per non dire impossibile. La legge 223/1991 ammette l'utilizzo di questo istituto solo in tre casi: ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione aziendale; crisi aziendale; procedure concorsuali. Non è indispensabile prima della riduzione del personale con licenziamento collettivo e può essere sostituto con l'indennità di mobilità. La durata dell'intervento è di massimo 48 mesi con la possibilità di qualche proroga.

4. Contratti formativi. TirocinioL'apprendistato, o tirocinio è un istituto di origine medievale: è disciplinato dagli artt.2130 ss. c.c. Il contratto di tirocinio ha una particolarità, che consiste non solo, rispetto agli ordinari contratti di lavoro, in una causa mista (allo scambio tra prestazione e retribuzione la legge aggiunge l'obbligo per l'imprenditore di impartire l'insegnamento per diventare lavoratore qualificato o per acquisire una professionalità), ma l'insegnamento e la formazione professionale sono considerate la parte più rilevante della causa che lo scambio fra prestazione e retribuzione. Il d.lgs.276/2003 il legislatore tenta una suddivisione fra formazione vera e propria e formazione con finalità occupazionali e di carriera. L'apprendistato è suddiviso in tre tipologie contrattuali: 1) per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione (la finalità è il conseguimento di una qualifica professionale, che si acquisisce sia con l'esecuzione della prestazione con la presenza di un tutor aziendale, sia all'esterno dell'impresa, nell'ambito di un monte-ore previsto nel contratto); 2) professionalizzante per il conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e un apprendistato tecnico-professionale; 3) per l'acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione. Per le tre tipologie di contratto è sempre necessaria la forma scritta. Spetta ai contratti collettivi stabilire la durata del contratto, secondo la qualificazione da raggiungere. La regolamentazione del contratto è demandato alle Regioni ma è richiesta comunque la forma scritta.

5. Contratto di inserimentoIl contratto di inserimento è un contratto di lavoro vero e proprio, caratterizzato da forma scritta contenente un progetto individuale che garantisca l'adeguamento delle competenze professionali del lavoratore al contesto lavorativo, accentuando il fattore occupazionale e ridimensionando lo scopo formativo. È indirizzato a 6 categorie di soggetti:fra i 18 e 29 anni; disoccupati di lunga durata fino a 32 anni, i disoccupati o prossimi alla disoccupazione con più di 45 anni; disoccupati da un biennio, senza limiti di età; le donne

in qualsiasi età quando la zona in cui esse risiedono abbia un tasso di occupazione femminile inferiore al 20% a quello maschile o in cui il tasso di occupazione delle donne superi del 10% quello degli uomini; le persone affette da un riconosciuto grave handicap fisico, mentale o psichico. Il contratto di inserimento ha molti fattori di incentivazione. Ha durata minima di di 9 mesi e massima di 18 mesi (36 per il lavoro femminile); è prorogabile per una durata pari alla precedente; non è fissata alcuna percentuale massima di lavoratori così occupati rispetto ai lavoratori con contratto a tempo indeterminato; il compenso è proporzionato alla quantità e qualità di lavoro eseguito e deve tener conto del corrispettivo dovuto normalmente ad un lavoratore autonomo che offra analoghe prestazioni. L'estinzione del rapporto si ha al raggiungimento del progetto proposto nel contratto e può essere esercitato anche durante il rapporto, non solo per giusta causa, ma anche secondo le diverse causali stabilite dalle parti nel contratto di lavoro individuale. L'eventuale formazione effettuata durante l'esecuzione del rapporto dovrà essere registrata in un “libretto formativo”.

6. Lavoro a progettoLa legge 276/2003 disciplina il lavoro a progetto, rientrante tra le categorie del lavoro parasubordinato (art.409 c.p.c.). L'art.61 della 276/2003 indica che i rapporti di cui all'art.409 c.p.c. “devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestite autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione dell'attività lavorativa”. Continuando dice che “ sono escluse le prestazioni occasionali, intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a 30 giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivo per lo svolgimento della prestazione sia superiore a 5000 euro, nel qual caso trovano applicazione le disposizioni contenute nel presente capo”, intendendosi con quest'ultima norma che il valore della prestazione riconduce la seconda ipotesi contrattuale alla prima, quanto meno nella disciplina. Altre esclusioni dalla normativa riguardano: 1) le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi; 2) le attività di collaborazione coordinata e continuativa date ad associazioni e società sportive dilettantistiche; 3) i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società; 4) coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia; 5) gli agenti e i rappresentanti di commercio; 6) la diversa regolamentazione in melius stabilita nel contratto individuale o collettivo; 7) tutto il settore del pubblico impiego. Come per altri contratti di lavoro flessibile, è data al lavoratore la garanzia della forma scritta ad probationem, in cui devono essere indicate la durata della prestazione, il contenuto caratterizzante del progetto di lavoro; il corrispettivo e i criteri di determinazione, i tempi, le modalità di pagamento e la disciplina del rimborso-spese; i coordinamento sulla esecuzione con il committente; le misure per la tutela della salute e sicurezza del lavoratore a progetto; le norme di tutela contro gli infortuni e le malattie professionali. Il compenso deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, tenendo conto di quanto viene corrisposto ad altre analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto. È dubbia invece la norma che garantisce al lavoratore a progetto di svolgere attività per più committenti, ma che vieta di svolgere attività in concorrenza con i committenti. Infine vi sono una serie di tutele simili a quelle del lavoratore subordinato (sicurezza e igiene del lavoro, infortuni sul lavoro, maternità e paternità, sospensione legale del rapporto in caso di malattia) e altre differenti. La cessazione del rapporto arriva al momento in cui si realizza il progetto. Prima di questo non è possibile rescindere il contratto se non per giusto motivo.

Capitolo 8 – Speciali rapporti di lavoro

1. Contratto di arruolamentoOccorre distinguere i contratti certamente di lavoro subordinato, con particolarità ambientali: fra questi il contratto d'arruolamento, il contratto di lavoro sportivo e il lavoro all'estero, rispetto ai rapporti associativi, con rilievo particolare del lavoro in cooperativa, dai rapporti di volontariato e dal lavoro gratuito. Il contratto di arruolamento è il contratto di lavoro della gente di mare e trova prima applicazione nel “codice della navigazione” e la tutela legale dei lavoratori nel settore della navigazione non è coincidente con quella dei lavoratori nell'impresa. Nel tempo questa rigida separazione delle fonti è andata attenuandosi, instaurandosi un precario equilibrio tra specialità del lavoro marittimo e parità di trattamento dei lavoratori. Bisogna dire, poi, che lo Statuto dei lavoratori dice che “i contratti collettivi di lavoro provvedono ad applicare i principi di cui alla presente legge alle imprese di navigazione per il personale navigante”. I contratti collettivi successivi si trovarono perciò nella difficoltà di coordinare un rapporto che prevede un recesso libero con preavviso, ma che normalmente era a termine. Con varie sentenze, però, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della norma che sancisce l'inapplicabilità al personale marittimo della legge sui licenziamenti individuali (604/1966), sia la norma che prevede la non applicabilità ai marittimi dell'art.18 dello Statuto, ovvero la reintegrazione nel posto di lavoro (art.35 comma 3 Statuto dei lavoratori). Altri avvicinamenti alla disciplina comune derivano da direttive comunitarie: in materia di sicurezza e salute dei lavoratori marittimi; di orario di lavoro; collocamento della gente di mare. Vi sono, però, alcune peculiarità del lavoro marittimo, come “l'ingaggio” che viene prima dell'arruolamento ed è irrevocabile, impegnando perciò l'arruolamento; o come “l'equipaggio” che non necessariamente comprende tutto il personale a bordo. Il comandante rappresenta l'armatore nei rapporti con l'equipaggio in relazione al rapporto di lavoro; ma ha anche una veste di diritto pubblico, come capo della comunità viaggiante. Altri istituti caratteristici di questo rapporto sono la “comandata” (prestazioni svolte per la manutenzione e riparazione della nave); il “divieto di paccottiglia” per l'arruolato (divieto di caricare a bordo merce nel suo esclusivo interesse).

2. Lavoro sportivoIl contratto di lavoro sportivo ha il carattere della specialità ed è disciplinato dalla legge 91/1981 che presuppone che “la prestazione a titolo oneroso dell'atleta” sia lavoro subordinato; per considerarlo lavoro autonomo occorre che si tratti di attività nell'ambito di obblighi contrattuali di frequenza degli allenamenti; oppure che la prestazione non superi otto ore in una settimana o cinque giorni in un mese o trenta giorni in un anno. Il contratto richiede la forma scritta ad substantiam: si tratta di un contratto-tipo predisposto dalla federazione sportiva nazionale, che non può essere derogato in peius.

3. Lavoro all'esteroIl lavoro svolto all'estero ha due diverse discipline, a seconda che esso sia nell'ambito dell'UE o al di fuori di essa. Nel primo caso, il diritto di circolazione sancito nel Trattato istitutivo della Comunità consente ai cittadini di lavorare in qualsiasi degli Stati membro e garantisce le stesse condizioni di impiego e di lavoro dei cittadini dello Stato del lavoro. Non si pone il problema per la tutela previdenziale, poiché è consentito il cumulo dei vari periodi di contribuzione. Per il lavoro nei paesi extra-comunitari, l'art.6 della Convenzione di Roma del 1980 stabilisce che, in deroga al principio (art.3 Convenzione) della libertà di scelta dei contraenti sulla legge da applicare al contratto, nei contratti di lavoro tale scelta non può privare il lavoratore della protezione che gli assicurano le norme imperative della legge che regolerebbe il contratto in caso di mancanza di scelta, e cioè: 1) la legge del paese in cui il lavoratore presta abitualmente il suo lavoro; 2) la legge del paese in cui il lavoratore è stato assunto, se non ha un abituale luogo di lavoro. Infine, ove non esistano accordi in materia fra l'Italia e il Paese in cui si svolge l'attività, il lavoratore ha diritto alla

tutela previdenziale italiana.

4. Lavoratori extracomunitariIn materia di lavoratori extracomunitari la normativa di maggior rilievo è oggi il T.U. Emesso con d.lgs.286/1998 che consente il lavoro in Italia a quote annuali di lavoratori extracomunitari detti “flussi d'ingresso”, sottoposte ad una non facile, né breve procedura amministrativa, ma garantisce loro parità di trattamento ai lavoratori italiani. Le assunzioni a richiesta nominativa e numerica, possono essere fatte dal datore di lavoro, rivolgendosi alla Direzione provinciale del lavoro.

5. Contratto di società. Lavoro in cooperativaVi sono dei rapporti che non hanno un elemento di subordinazione, bensì associativo, di interesse comune allo svolgimento di una attività economica per il conseguimento di utili. Il problema dell'interprete sarà quindi quello di valutare la predominanza dell'elemento del rapporto associativo su quello subordinato. Il socio differisce dal lavoratore subordinato per la sua partecipazione al rischio di impresa. Ne consegue che non tutta la disciplina lavoristica può essere applicata al socio lavoratore, anche se c'è una tendenza ad espandere istituti propri del lavoro subordinato al lavoro associato, come la retribuzione con partecipazione agli utili e l'azionariato dei dipendenti. Il più importante caso di possibile cumulo con la figura di lavoratore subordinato si ha nel lavoro in cooperativa, in cui i soci apportano il loro lavoro, con scopo mutualistico. La normativa in materia è racchiusa nella legge 142/2001, in cui di definisce socio colui che, insieme alla sua adesione o durante il rapporto associativo, deve instaurare un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma. Ne consegue che i soci lavoratori subordinati godono del trattamento economico “proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato” e comunque non inferiore ai minimi della contrattazione collettiva per i lavoratori subordinati del settore o della categoria affine; hanno un simile trattamento previdenziale; si applica loro lo Statuto dei lavoratori, escluso l'art.18, quando cessi, insieme al rapporto di lavoro, anche il rapporto associativo; tutte le norme sulla sicurezza e igiene del lavoro, sulle ferie e sul TFR. Ai soci non lavoratori subordinati sono applicate minori tutele: solo poche norme generali dello Statuto dei lavoratori, le disposizioni sulla sicurezza sul lavoro e compensi pari a quelli medi dei lavoratori autonomi per prestazioni analoghe. Normativa particolare hanno le “cooperative di solidarietà sociale”, fra i cui fini rientra l'inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Queste devono essere almeno il 30% dei lavoratori della cooperativa, che gode di sgravi contributivi, facilitazione di convenzioni con gli enti pubblici e non paga la contribuzione per l'assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale delle persone svantaggiate.

6. Lavoro gratuitoIl lavoro gratuito è un istituto assai raro ed ammissibile solo ove vi siano vincoli tali di solidarietà, di ideologia o di comunanza di via e di interessi da creare una prestazione, speciale, ma pur sempre di lavoro. Più diffuso è il “lavoro familiare”, di cui si presume la gratuità in base a vincoli affettivi che determinano l'attività, salvo che non ci sia prova certa dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Fa parte di questa categoria, inoltre, l'attività di volontariato, per cui si prevede il solo rimborso-spese effettivamente sostenute nell'attività. Vale anche per i volontari l'obbligo di assicurazione INAIL e per la responsabilità civile.

7. Il lavoro nelle pubbliche amministrazioniIl rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici va distinto a seconda dell'ente: se questo svolge attività economica, le regole sono quelle del diritto del lavoro privato. Al contrario, enti pubblici non economici e Stato hanno sempre avuto una normativa peculiare, ma col

tempo si è avvicinata a quella privata, in particolare dopo le seguenti leggi: d.lgs.29/1993 modificato dalla legge 59/1997, il d.lgs.396/1997 e i dd.llgs.80 e 387/1998. Con questa azione normativa molti principi nuovi sono stati posti: dal rilievo e responsabilità “privatistica” data ai dirigenti pubblici, all'applicazione alle pubbliche amministrazioni dello Statuto dei lavoratori, all'importante devoluzione al giudice ordinario delle controversie (prima era il giudice amministrativo). Infine la legge delega 340/2000 dava incarico al Governo di emanare un T.U. di riordinamento della normativa. Ne è derivato il d.lgs.165/2001 che resta, dopo un periodo transitorio, e con le modifiche apportate, l'unica legge, al di fuori della normativa privatistica, a disciplinare il pubblico impiego. Esso estende la sua applicazione a tutti i dipendenti pubblici con poche esclusioni (magistrati, procuratori e avvocati dello Stato, personale militare e delle forze di polizia di Stato, personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia, i docenti universitari, in attesa di specifica disciplina in conformità ai principi della autonomia universitaria). Quindi per le pubbliche amministrazioni, oltreché contratti a tempo indeterminato possono stipulare contratti a termine; è ammesso il contratto part-time ed anche il passaggio dal tempo pieno ad esso. Inoltre possono assumere mediante le forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, se disciplinate dai contratti collettivi nazionali. Gli istituti che differiscono da quelli privatistici, invece, sono: l'orario di lavoro, che deve tener conto del servizio da rendere ai cittadini; il mutamento di mansioni che è più limitato nel passaggio alle mansioni superiori e non ammette promozione automatica; e le sanzioni disciplinari. Il trattamento economico è definito dalla contrattazione collettiva (con efficacia erga omnes) o dai contratti individuali di lavoro; è previsto anche un trattamento connesso alla produttività (inapplicato e inapplicabile).

PARTE QUARTAL'estinzione del rapporto

Capitolo 1 – Il recesso: dimissioni e licenziamento

1. Estinzione e risoluzione. Impossibilità sopravvenutaSi parla di “estinzione e non di “risoluzione” del rapporto, dal momento che la risoluzione presuppone che la causa del contratto non sia realizzata. Fra i casi di estinzione sono certo i più importanti quelli causati dalla volontà delle parti (risoluzione consensuale, recesso); ma anche l'impossibilità sopravvenuta, che però non è facilmente valutabile. Altro caso di estinzione del rapporto, al di fuori della volontà delle parti, è la morte: sempre quella del lavoratore, solo talvolta quella del datore di lavoro (imprese individuali). Il diritto di recesso prende il nome di “licenziamento” se è esercitato dal datore di lavoro, di “dimissioni” se è da parte del prestatore di lavoro. Il recesso è un negozio giuridico unilaterale, che consiste in una dichiarazione recettizia, fatta per iscritto, per imposizione legale, se è licenziamento e in forma libera, se si tratta di dimissioni.

2. Recesso volontarioL'art.2118 c.c. dà, nel contratto in generale, parità di potere di recesso ai contraenti. Questa norma prevede che ciascuno dei contraenti possa recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il “preavviso” (ipotesi esclusa nel contratto con termine finale). L'art.2109 c.c. vieta che sia computato nelle ferie il periodo di preavviso. L'art.2118, inoltre, prevede “l'indennità di mancato preavviso”: “In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l'altra parte a un'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso”.

3. Recesso per giusta causaIl recesso di una parte richiede sempre il preavviso, con un'unica eccezione: il recesso per giusta causa (o “in tronco”, art.2119 c.c.), cioè qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. È vietato il licenziamento a causa di matrimonio, cioè se il licenziamento avviene dalla data delle pubblicazioni all'anno dall'avvenuto matrimonio è nullo; e così pure il divieto vale per le lavoratrici gestanti e puerpere, fino all'anno di età del bambino e per il lavoratore in congedo di paternità. La giurisprudenza ha dovuto interpretare la volontà del legislatore, ove i contratti collettivi non abbiano determinato i comportamenti, valutando la “gravità” del fatto che, senza rendere impossibile la prestazione, comporti la mancanza di fiducia di una parte nell'esattezza dei futuri adempimenti: ciò non fa del contratto di lavoro un contratto fiduciario, ma dà rilievo all'affidamento della parte sulla corretta esecuzione del rapporto, che è importante in tutti i contratti di durata, e particolarmente nel contratto di lavoro, in cui è la stessa persona del lavoratore implicata nel rapporto. La “grave mancanza” che può comportare al licenziamento per giusta causa deve essere comunque inerente al rapporto di lavoro ma, indirettamente può anche riguardare la vita privata del soggetto. I casi di dimissioni per giusta causa sono meno numerosi e riguardano gli obblighi del datore di lavoro (mancanza prolungata della retribuzione, casi di mobbing, dequalificazione del lavoratore, ecc.). Solo in questo caso l'art.2119 prevede sia corrisposta al lavoratore una indennità pari a quella sostitutiva del preavviso.

4. Limiti al licenziamento. Legge n. 604 del 1966Gli artt. 2118 e 2119 c.c. costituiscono il sistema codicistico di estinzione del rapporto di lavoro per recesso. L'autonomia collettiva aveva provveduto, mediante accordi interconfederali a distinguere il licenziamento individuale dal licenziamento collettivo, prevedendo, nell'accordo relativo ai licenziamenti individuali, la possibilità di impugnare il licenziamento davanti ad un collegio di conciliazione e arbitrato, on onere della prova a carico del datore di lavoro; se il collegio riteneva ingiustificato il licenziamento, il lavoratore doveva essere riassunto o avere una penale risarcitoria. Quest'accordo interconfederale fu mantenuto dal 1947 fino al 1965, quando la Corte Costituzionale invitava il legislatore a “temperare” il licenziamento volontario. Ne conseguì la legge 604/1966 sui licenziamenti individuali, che riprese in toto l'accordo interconfederale con alcune modifiche: per il licenziamento individuale nel contratto a tempo indeterminato occorre una motivazione di giusta causa o di giustificato motivo con preavviso. Quest'ultimo è determinato da n notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Le due ipotesi sono chiamate “giustificato motivo soggettivo”, costituito da un inadempimento “notevole”, dunque inferiore al “grave” inadempimento che comporta la giusta causa; e “giustificato motivo oggettivo”, costituita da un'oggettiva esigenza dell'impresa. Il licenziamento deve essere comunicato per iscritto. È nullo il licenziamento discriminatorio.

5. La reintegrazione dell'art.18 Statuto dei lavoratoriL'art.18 dello Statuto dei lavoratori introduce la reintegrazione nel posto di lavoro (“la tutela reale”): quando il giudice dichiara nullo o inefficace o annulla il licenziamento, egli ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro; e lo condanna inoltre al risarcimento del danno subito per un minimo di 5 mensilità. Il lavoratore ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in alternativa alla reintegrazione, la corresponsione di una indennità pari a 15 mensilità di retribuzione, oltre a quanto dovuto a titolo di risarcimento. Se il lavoratore dopo 30 giorni dall'invito del datore di lavoro non riprende servizio, il rapporto si intende risolto. Inoltre dall'art.18 si deduce la possibilità di un tentativo di conciliazione (che nella legge 108/1990 diviene obbligatorio), nonché il suo “campo

d'azione”, riferito alle unità produttive delle imprese industriali e commerciali con più di 15 dipendenti.

6. La legge n. 108 del 1990La legge 108/1990 è dedicata ai licenziamenti individuali. Impone la reintegrazione del lavoratore nei casi di licenziamento nullo, annullato o inefficace (“tutela reale”) a tutti i datori di lavoro che abbiano unità produttive con più di 15 dipendenti, o che comunque abbia alle sue dipendenze più di 60 lavoratori (art.1). All'art.2 la “tutela obbligatoria”, cioè la riassunzione in alternativa al risarcimento del danno, è imposta a tutti i datori di lavoro che occupano fino a 15 dipendenti e ai datori di lavoro che occupino fino a 60 dipendenti, se non sia applicabile la tutela dell'art.18 dello Statuto dei lavoratori. Rimangono, però, casi di libera recedibilità, come per i lavoratori domestici, i lavoratori in prova, i lavoratori sportivi, quelli oltre i 65 anni che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto e per l'intera categoria dei dirigenti. Per questi ultimi una tutela più ridotta è prevista nel loro contratto collettivo, con un collegio di conciliazione ed arbitrato, che giudica della giustificatezza del licenziamento. Inoltre è nullo il risarcimento discriminatorio, che comporta la reintegrazione nel posto di lavoro: questa norma vale per tutti. L'art.5 impone il tentativo di conciliazione, obbligatorio a pena di improcedibilità dell'azione. Infine vale per tutti i licenziamenti la forma scritta. Con un referendum del 2003 si è negato l'ampliamento della norma del reintegro nel posto di lavoro anche alle imprese con meno di 15 dipendenti.

7. I licenziamenti collettivi per riduzione del personaleLa nozione di licenziamento collettivo nasce con l'accordo interconfederale per escludere dall'accordo coevo, sui licenziamenti individuali, quelli motivati da necessità di trasformazione o riduzione dell'attività produttiva (decisione prettamente imprenditoriale). L'accordo interconfederale prevedeva una procedura conciliativa e, in caso di fallimento di questa, il datore di lavoro poteva procedere ai licenziamenti, secondo i criteri di scelta indicati dall'accordo e da usare in concorso fra loro; le esigenze tecniche e produttive, l'anzianità di servizio dei lavoratori, i carichi di famiglia. Era previsto un diritto dei licenziati alla riassunzione se l'impresa, nell'anno seguente, avesse stabilito nuove assunzioni nelle loro qualifiche. Nel 1975 l'UE ha emanato una direttiva sul riavvicinamento delle legislazioni dei Paesi membri sui licenziamenti collettivi. La direttiva distingue i licenziamenti collettivi da quelli individuali per i criteri della quantità (la proporzione fra licenziati e occupati nell'impresa) e della qualità (licenziamenti intimati per motivi non inerenti alla persona del lavoratore). Impone una procedura di consultazione sindacale e di intervento dell'autorità pubblica. Solo con la legge 223/1991 “Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro”, queste vengono recepite. Il campo di applicazione della legge è riferito agli imprenditori con più di 15 dipendenti: per l'art.24 i criteri per configurare un licenziamento collettivo sono “qualitativi”, cioè collegati ad esigenze di “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”, e “quantitativi in un arco temporale”, dovendo comprendere almeno 5 dipendenti entro 120 giorni. L'iter per giungere ai licenziamenti, spesso preceduto da un periodo di Casa integrazione guadagni straordinaria, comprende un periodo di 45 giorni in cui va esperito un obbligo di consultazione con le r.s.a., le organizzazioni di categoria e i rappresentanti pubblici su tutto il programma che l'imprenditore intende attuare ed i motivi che lo determinano, con dettagliato riferimento che sul piano sociale egli intende realizzare per fronteggiare le conseguenze della sua azione. Segue una fase di esame congiunto con le r.s.a. e le associazioni sindacali, per individuare ogni forma possibile di soluzione che possa contenere i licenziamenti collettivi (riduzione di orario con contratti part-time, contratti di solidarietà, o incentivi all'esodo volontario); se la riduzione dei licenziamenti

non risulta così possibile si ha una seconda fase di consultazione, convocata dalla Direzione provinciale del lavoro. Compiuta questa prima parte della procedura (entro 45 giorni), l'imprenditore può licenziare i lavoratori. Per quanto riguarda i criteri di individuazione dei lavoratori da licenziare, se ne occupa l'art.5 della legge 223/1991. Questo subordina l'individuazione dei lavoratori da “collocare in mobilità” alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale; ed enuncia i criteri da considerare, in concorso fra loro: 1) carichi di famiglia; 2) anzianità; 3) esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Nella scelta, non si potranno mettere in mobilità donne in percentuale superiore a quella occupata nelle stesse mansioni. I lavoratori licenziati vengono così messi in “mobilità”: questo stato, pur corrispondente al licenziamento, è tipico della legge: solo così i lavoratori ottengono una situazione giuridica ed economica, che non li abbandona alla disoccupazione, ma tenta di dare loro sia una tutela economica (indennità di mobilità commisurata alla Cassa integrazione guadagni); sia una tutela occupazionale (il diritto di precedenza nelle riassunzioni). Oltre al controllo sindacale ed il controllo pubblico, il licenziamento collettivo è sottoposto anche al controllo giurisdizionale: in particolare, esso potrà essere impugnare per carenze nella complessa procedura dettata dalla legge.

Capitolo 2 – Le indennità dovute per la cessazione del rapporto

1. Indennità sostitutiva del preavvisoAlla cessazione del rapporto di lavoro il lavoratore riceve “l'indennità sostitutiva del preavviso” nei casi di licenziamento volontario e di licenziamento per giustificato motivo.

2. Indennità in caso di morte“L'indennità in caso di morte” considera l'ipotesi della morte del lavoratore durante il rapporto di lavoro. In questo caso, il datore di lavoro deve un'indennità corrispondente alla somme dell'indennità di mancato preavviso e del TFR al coniuge del lavoratore, ai figli e, solo nel caso in cui vivessero a carico del prestatore, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado.

3. Indennità di anzianitàL'indennità che veniva chiamata “di anzianità”, è ora sostituita dall'istituto del “Trattamento di fine rapporto”. L'indennità di anzianità era riconosciuta agli impiegati per legge e per gli operai per contratto collettivo (poi inserita negli artt.2120 e 2121 c.c.), ove si prevedeva che ai lavoratori, alla cessazione del rapporto a tempo indeterminato, fosse dovuta una somma commisurata all'ultima retribuzione percepita e in relazione alla categoria di appartenenza, per ogni anno di servizio prestato presso lo stesso imprenditore. Tale indennità, con il nome di “premio di fine lavoro” era prevista anche per i contratti a termine. Erano esclusi solo il licenziamento per colpa del lavoratore e le dimissioni volontarie (successivamente ammesse). La legge 604/1966, poi, eliminò ogni eccezione: “L'indennità di anzianità è dovuta al prestatore di lavoro in ogni caso di risoluzione del rapporto di lavoro”.

4. Trattamento di fine rapportoIl trattamento di fine rapporto è inserito nella legge 297/1982 e va a sostituirsi in buona parte alla legislazione precedente. Tale legge novella gli artt. 2120 e 2121 c.c. Il calcolo è interamente nuovo: consiste in un accantonamento alla fine di ogni anno solare di una quota della retribuzione globale di quell'anno divisa per un divisore fisso che è 13, 5. La retribuzione usata nel calcolo deve comprendere ogni indennità ed elemento, con l'unica esclusione delle somme date a titolo occasionale e per rimborso spese. Non è ammessa

modifica in melius né per contratto collettivo, né individuale, della base di calcolo. È facilmente comprensibile che la somma già accantonata non terrà conto degli aumenti successivi della retribuzione, e risulterà essere in totale, dopo un certo numero di anni, di molto inferiore alla indennità d'anzianità, il cui calcolo era fatto sull'ultima retribuzione percepita. Calcolato nel metodo attuale, il TFR è riconoscibile (è certa la sua entità) e sono quindi possibili le anticipazioni previste dall'art.2120, previste per 1) spese sanitarie straordinarie per terapie e interventi riconosciuti dalle strutture pubbliche; 2) acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli; si può ottenere fino ad un massimo del 70% della somma accantonata). Infine, un nuovo istituto è il “fondo di garanzia”, finanziato dai datori di lavoro con contributo pari allo 0,03% delle retribuzioni, con gestione autonoma dell'INPS, da erogarsi su richiesta del lavoratore del proprio TFR, nelle ipotesi di insolvenza del datore di lavoro o di suo mancato pagamento. Il fondo di garanzia è tenuto a garantire al lavoratore il pagamento di crediti di lavoro diversi dal TFR, relativi al periodo finale del rapporto di lavoro.

Capitolo 3 – Le garanzie dei diritti dei lavoratori

1. Rivalutazione monetaria. PrivilegiParticolari tutele gode il diritto alla retribuzione: così la sua rivalutazione monetaria, in caso di inadempimento del datore di lavoro e gli interessi determinati dal giudice, oltre l'eventuale maggior danno, d'ufficio, senza che occorra la domanda, ma particolarmente la garanzia dei crediti del lavoratore è data dal privilegio generale sui beni mobili del datore di lavoro.

2. Gruppi di imprese e trasferimento d'aziendaIl legislatore riconosce i gruppi di imprese e la modifica soggettiva più rilevante nel rapporto di lavoro è il caso del “trasferimento d'azienda” (art.2112 c.c.). Nel caso di trasferimento d'azienda continua il rapporto di lavoro con il concessionario ed è imposta la “responsabilità solidale” fra cedente e cessionario in relazione ai crediti del lavoratore al momento del trasferimento, salvo che il lavoratore liberi il cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro con la conciliazione. Il cessionario è tenuto ad applicare il trattamento economico e normativo previsto dal contratto collettivo in vigore al momento del trasferimento fino alla sua scadenza. Resta ferma la possibilità di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, anche se di per sé il trasferimento d'azienda non è motivo di licenziamento. Ai fini lavoristici “si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità” (d.lgs.276/2003). È da notare che la legge consente l'esternalizzazione di singole unità produttive tramite il semplice accordo fra cedente e cessionario, con un netto indebolimento della funzione sindacale, in un contesto di insicurezza e precarietà del lavoro. Il nuovo art.2112 c.c., infine, al comma 6, impone la responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore quando l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto d'appalto connesso ad una cessione di ramo d'azienda. Questa garanzia per i lavoratori è forse da intendersi come equilibratrice per il venir meno del requisito della autonomia funzionale preesistente al trasferimento.

3. Rinunzie e transazioni del lavoratoreUna forte tutela dei diritti del lavoratore è fornita dall'art.2113 c.c., intitolato “rinunzie e transazioni”: esso sancisce l'invalidità delle rinunzie e delle transazioni effettuate dal lavoratore su suoi diritti derivantigli da norme inderogabili di legge o dal contratto collettivo (e tale invalidità è causa di annullabilità). L'impugnazione della rinunzia o della transazione può essere fatta con qualunque atto scritto, anche extra-giudiziale, purché tale da rendere

nota la sua volontà. Questa norma ammette tre eccezioni, in cui si verifichi la presenza di un terzo che possa tutelare il lavoratore affinché non giunga ad una rinunzia o a una transazione per mera soggezione del proprio datore di lavoro: si tratta delle conciliazioni raggiunte in sede giudiziale; di fronte ad una apposita Commissione paritetica istituita presso ogni Direzione provinciale del lavoro; e in sede sindacale.

4. Prescrizione estintiva e presuntivaSecondo le regole generali del diritto civile, ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge. La prescrizione, che con la “decadenza” concorre a dare certezza al diritto, è estintiva e presuntiva. La “prescrizione estintiva” è di regola decennale. L'inattività del soggetto titolare per il protrarsi di quel tempo fa estinguere il diritto. La regola generale della prescrizione decennale vale, in materia di lavoro, solo per alcuni diritti. Poi vi è la “prescrizione estintiva quinquennale” (art.2948 c.c.) sottoposto a questo termine di prescrizione “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi, e le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”. La prescrizione quinquennale estintiva della retribuzione concorre con la prescrizione presuntiva: questa non estingue il diritto, ma presume come avvenuto un pagamento dovuto a termini previ. In conseguenza, la retribuzione corrisposta a periodi non superiori al mese è sottoposta alla prescrizione presuntiva di un anno; la retribuzione corrisposta a periodi superiori al mese è sottoposta alla prescrizione presuntiva di tre anni.

5. DecadenzaLa decadenza è un istituto posto per la certezza del diritto; determinata per il fatto oggettivo del mancato esercizio entro un termine perentorio. La decadenza è legale e anche convenzionale. Non è possibile stabilire termini di decadenza convenzionali nel contratto individuale; esistono invece nei contratti collettivi, ma possono solo riguardare diritti attribuiti dallo stesso contratto collettivo.

6. Certificazione del contrattoLa procedura “volontaria” di certificazione è una speciale procedura attraverso la quale si attesta che il programma negoziale sottoscritto dalle parti presenta i requisiti di forma e contenuto del contratto prescelto. Lo scopo del legislatore è di ridurre il contenzioso sulla qualificazione delle diverse forme contrattuali. L'istanza scritta dovrà essere comune alle parti contrattuali e la procedura di certificazione avverrà nel rispetto dei “codici di buone pratiche”, che dovrebbero essere definiti con decreto ministeriale, sulla base degli accordi interconfederali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative.