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1 Rassegna Stampa N° 44 02/04/2010 Vorrei dire a coloro che ridevano quella notte che siamo arrabbiati ed indignati addolorati e massacrati ma nonostante ciò con le nostre teste alte continueremo la nostra lotta insieme... Emanuela Bruschi, terremotata abruzzese Acqua pubblica. Un referendum riaprira’ i rubinetti Falcone e Borsellino sono stati uccisi a Milano Stato-Mafia, ora si punta al IV livello La Polizia della Casta Editoria, nuovo colpo di mano: il Governo abroga le tariffe agevolate Errani e Formigoni a casa Silvio Berlusconi “cerca la protezione della mafia” L'asse padano dei soldi Documento Vito Ciancimino, Dell'Utri sarebbe stato condannato a Palermo “A Massimo Ciancimino l’ammazza lo Stato, non la mafia” Legittimo firmamento Intercettazioni: così il Fatto si opporrà al bavaglio Intercettazioni: così il Fatto si opporrà al bavaglio Intercettazioni: così il Fatto si opporrà al bavaglio Intercettazioni: così il Fatto si opporrà al bavaglio "Minzolini minaccia e oscura chi protesta"

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Rassegna Stampa N° 44

02/04/2010

Vorrei dire a coloro che ridevano quella notte che siamo arrabbiati ed indignati addolorati e massacrati ma nonostante ciò con le nostre teste alte continueremo la nostra lotta insieme... Emanuela Bruschi, terremotata abruzzese

Acqua pubblica. Un referendum riaprira’ i rubinetti Falcone e Borsellino sono stati uccisi a Milano

Stato-Mafia, ora si punta al IV livello La Polizia della Casta

Editoria, nuovo colpo di mano: il Governo abroga le tariffe agevolate

Errani e Formigoni a casa

Silvio Berlusconi “cerca la protezione della mafia”

L'asse padano dei soldi Documento Vito Ciancimino, Dell'Utri sarebbe stato condannato a Palermo

“A Massimo Ciancimino l’ammazza lo Stato, non la mafia” Legittimo firmamento

Intercettazioni: così il Fatto si opporrà al bavaglioIntercettazioni: così il Fatto si opporrà al bavaglioIntercettazioni: così il Fatto si opporrà al bavaglioIntercettazioni: così il Fatto si opporrà al bavaglio

"Minzolini minaccia e oscura chi protesta"

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Acqua pubblica. Un referendum riaprira’ i rubinetti di Alessandro Danese

Accelera il processo di privatizzazione ma continua a correre forte anche la volonta’ di chi si batte perche’ l’acqua non diventi una merce. Oggi il Comitato promotore del Referendum Acqua Pubblica, piu’ di un centinaio tra comitati, associazioni e sindacati, ha depositato tre quesiti referendari presso la Corte di Cassazione. I tre quesiti chiedono naturalmente l’abrogazione di tutte le norme che stanno rendendo possibile la privatizzazione dell’acqua potabile nel nostro paese. Come sappiamo il governo con l’approvazione del decreto Ronchi, lo scorso 19 novembre, ha puntato forte il piede sull’acceleratore. Si tratta della legge 25 settembre 2009, n 135: “ Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia delle comunita’ europee” che nell’articolo 15 privatizza in pratica i servizi pubblici locali. Cosi’ la societa’ civile, gli enti locali e i movimenti continuano la mobilitazione per ribadire “ il diritto all’acqua pubblica”. Dopo la manifestazione di Roma del 20 marzo e la Giornata Mondiale dell’Acqua, il 22 marzo, promossa dalle Nazioni Unite, oggi il percorso per la ripubblicizzazione dell’acqua ha preso la strada referendaria. Così Marco Bersani del Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua illustra i tre quesiti: “Il primo per l’abrogazione del decreto Ronchi, il secondo chiedera’ l’abrogazione dell’articolo 150 del decreto ambientale del 2006, che stabilisce che l’unica gestione per i servizi idrici siano le Spa e infine il terzo quesito per eliminare ulteriori profitti dall’acqua, nella bolletta infatti c’e’ un 7% di ricarico che serve a remunerare il capitale investito”. Ricordiamo che il Forum italiano dei Movimenti per l’acqua gia’ aveva presentato una legge di iniziativa popolare sottoscritta da 400mila persone per chiedere l’uscita dai servizi idrici delle Spa: legge che dal 2007 giace nei cassetti delle commissioni parlamentari.

Dunque l’acqua, il nuovo oro blu che tanto fa gola alle multinazionali anche da noi tra poco, entro il 2011, finira’ nei tentacoli dei privati, ma un referendum a questo punto potrebbe riaprire i rubinetti dell’acqua pubblica, servono piu’ di 500mila firme poi l’ultima parola spettera’ ai cittadini.

Per visionare i quesiti referendari www.acquabenecomune.org

http://www.articolo21.org/870/notizia/acqua-pubblica-un-referendum-riaprira-i.html

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www.beppegrillo.it 31 Marzo 2010

Falcone e Borsellino sono stati uccisi a Milano

Falcone e Borsellino sono stati uccisi a Milano. La mafia è stato il braccio, altri lo hanno armato. Il numero di testimonianze, di pentiti, di indizi che, regolarmente, indicano nella politica e nell'imprenditoria l'origine dei delitti di Capaci e di via D'Amelio potrebbero riempire intere enciclopedie. Cui prodest? Alla mafia non sembra. Da Riina, a Brusca, ai fratelli Graviano il delitto Borsellino è costato il carcere a vita. I giudici al cimitero e i mafiosi in carcere. E gli altri? I mandanti dove sono? Nessun politico, deputato, senatore, ministro è finito in galera per i due omicidi più eccellenti della Repubblica. Eppure i loro nomi emergono senza sosta, come l'acqua da un catino bucato, una verità che non si può fermare. Troppi ne sono a conoscenza e troppo pochi ne hanno goduto i benefici. Alfio Caruso spiega nel suo recente e inquietante libro: "Milano ordina: uccidete Borsellino" le connessioni tra imprenditori rispettati del Nord, capitali di sangue della mafia e la corsa contro il tempo di Borsellino.

Il gemellaggio Milano-Palermo (espandi | comprimi) Mi chiamo Alfio Caruso e ho scritto un libro che si intitola: “Milano ordina uccidete Borsellino” in cui si racconta come la strage di Via d’Amelio nella quale morirono il Procuratore aggiunto di Palermo e 5 poliziotti di scorta sia strettamente collegata alla strage di Capaci in cui furono sterminati Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti di scorta e tutte e due queste mattanze vennero preordinate e compiute per impedire a Falcone e a Borsellino di puntare a Milanoperché Falcone aveva capito e aveva quindi trasmesso a Borsellino questa sua idea, che la grande mafia siciliana faceva sì gli affari e i soldi in Sicilia e nel resto del mondo, ma poi investiva i propri capitali e li moltiplicava grazie a una rete di insospettabili soci e alleati che aveva a Milano. Falcone viene ucciso poche settimane dopo aver pronunciato una frase fatidica: “la mafia è entrata in Borsa” e non era la prima volta che Falcone lo affermava, l’aveva già detto nel 1984 quando si era accorto che uno dei principali boss mafiosi rinviati a giudizio nel maxiprocesso, Salvatore Buscemi, il capo mandamento di Passo di Rigano e dell’Uditore, per evitare che la propria società di calcestruzzi, che si chiamava Anonima Calcestruzzi Palermo fosse confiscata, aveva creato una vendita fittizia alla Ferruzzi Holding e quindi da quel momento incomincia una ragnatela di intensi rapporti tra il Buscemi e la Ferruzzi Holding che fa sì che da un lato la Ferruzzi abbia il monopolio del calcestruzzo in Sicilia, e dall’altro lato sia i Buscemi sia altre famiglie mafiose riescono a riciclare con le banche e le finanziarie nei paradisi fiscali miliardi su miliardi. Ma Falcone aveva anche ripetuto paradossalmente la frase: “la mafia è entrata in Borsa” in un convegno del 1991 a Castel Utveggio, di cui avrete sentito parlare e che forse oltre a ospitare una base clandestina del SIS (Servizio segreto civile), forse è stato il luogo da cui hanno azionato il telecomando per far esplodere il tritolo in Via

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d’Amelio. Falcone aveva deciso di puntare su Milano e di su tutte le connessioni che ormai lui conosceva e ovviamente è lecito pensare che avesse messo a parte di questo progetto l’amico del cuore, il fratello di tutte le sue battaglie, che era Paolo Borsellino, conseguentemente un minuto dopo la strage di Capaci l’altro obiettivo da colpire è Paolo Borsellino.

Paolo Borsellino e i legami tra imprese del Nord e la mafia (espandi | comprimi) Borsellino in quei 53 giorni che lo separano dalla sua sorte, si era dato molto da fare, aveva compiuto dei passi che avevano inquietato i suoi carnefici, perché Borsellino il 25 giugno incontra segretamente il colonnello dei Carabinieri Mori e il capitano De Donno, in una caserma a Palermo e chiede a loro notizie particolareggiate sul dossier che avevano da poco consegnato alla Procura di Palermo che si chiamava: “Mafia e appalti”e in questo dossier figuravano i rapporti che erano stati ricostruiti, ma chiede anche conto di un’altra inchiesta condotta dal Ros dei Carabinieri a Milano, quella che va sotto il nome di: “Duomo connection” e che aveva visto l’esordio, se vogliamo, sulle scene nel mitico Capitano Ultimo, l’allora Capitano De Sapio e era stata un’inchiesta condotta da Ilda Boccassini. Quest’ultima aveva anche parlato a Falcone perché tra i due c’era un grande rapporto professionale di stima e di affetto. Quindi Borsellino chiede ai Ros di entrare a conoscenza di ogni dettaglio, ma Borsellino aveva capito che la regia unica degli appalti italiani era Palermo e ce lo racconta Di Pietro, perché Borsellino, rivela a Di Pietro che è vero che Milano è tangentopoli, la città delle tangenti, ma gli dice anche che esiste una cabina unica di regia per tutti gli appalti in Italia e questa cabina unica di regia è in Sicilia. Il 29 giugno del 1992, il giorno di San Pietro e San Paolo, il giorno in cui Borsellino festeggiava l’onomastico, riceve a casa sua Fabio Salomone che è un giovane sostituto procuratore di Agrigento che ha molto collaborato sia con lui, sia con Falcone in parecchie indagini, si chiudono nello studio, addirittura Borsellino fa uscire il giovane Ingroia che era il suo pupillo, il suo allievo prediletto, con Ingroia era stato già a Marsala dove Borsellino aveva svolto le funzioni di Procuratore Capo. Si chiude nello studio con Salomone e parlano di tante cose, noi abbiamo soltanto ovviamente la versione di Salomone, crediamo a lui che dice che avevano parlato delle inchieste in corso, però Salomone è anche il fratello di Filippo Salomone che scopriremo essere il re degli appalti in Sicilia e grande amico di Pacini Battaglia, il re degli appalti in tutta Italia e uno dei grandi imputati di tangentopoli. Quindi Borsellino cominciava a diventare una presenza sempre più inquietante, per coloro che avevano impedito a Falcone di arrivare a Milano e adesso dovevano impedirlo a Borsellino. Quel giorno Borsellino dà anche un’intervista a Gianluca Di Feo, inviato de Il Corriere della Sera e spiega a Di Feo l’importanza di un arresto compiuto poche settimane prima a Milano, quello di Pino Lottusi, titolare di una finanziaria, che per 10 anni aveva riciclato il danaro sporco di tutte le congreghe

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malavitose del pianeta. Borsellino dice a Di Feo: Lottusi ha gestito il principale business interplanetario degli anni 80, facile immaginare quale possa essere stata la reazione di quanti, il 30 giugno, leggendo quell’intervista a Milano, avevano avuto un’ulteriore conferma sulla intelligenza da parte di Borsellino di quanto era in atto e di quanto era soprattutto avvenuto, perché poi scopriremo che le società di Lottusi erano molto collegate e in affari con una multinazionale, con una grande casa farmaceutica, con un famosissimo finanziere e anche con alcuni uomini politici.

Milano ordina: "Uccidete Borsellino" (espandi | comprimi) Borsellino è pronto per portare a compimento l’opera di Falcone, però Borsellino sa, come racconta lui stesso alla moglie e a un amico fidato in quei giorni, che è arrivato il tritolo per lui. Sa che la sua è una corsa contro la morte, spera soltanto di poter fare in fretta, ma non gli lasceranno questo tempo. Quello che oggi sappiamo stava già scritto da anni in anni in inchieste, in atti di tribunali, in sentenze di rinvio a giudizio, in testimonianze rese in Tribunale, mancavano soltanto dei tasselli utili per completare questo mosaicoe questi tasselli sono stati forniti dalle dichiarazioni di Spatuzza, quest’ultimo cosa si racconta? Ci racconta che lui ha rubato la 126 che poi fu imbottita di tritolo e l’ha consegnata al capo del suo mandamento che si chiamava Mangano, un omonimo di Vittorio Mangano, questo si chiama Nino Mangano e c’era con Mangano un estraneo e per di più poi Spatuzza ci dice che in 18 anni nessuno ha mai saputo dentro Cosa Nostra, chi azionò il telecomando della strage in Via d’Amelio e dove era situato l’uomo con il telecomando in mano. Spatuzza ci ha anche raccontato che era tutto pronto per uccidere Falcone a Roma, che lui aveva portato le armi, che la mafia, facendo la posta a Falcone, era andata a Roma, lo squadrone dei killer con Messina Danaro, Grigoli, lo stesso Spatuzza, avevano scoperto che Falcone andava da solo, disarmato ogni sera a cena in un ristorante di Campo dei Fiori, La Carbonaia e quindi sarebbe stato facilissimo coglierlo alla sprovvista, ma poi Riina aveva stabilito che bisognasse uccidere Falcone, come dice Provenzano, bisognava montare quel popò di spettacolino a Capaci. Riina sapeva benissimo che la mafia avrebbe avuto un contraccolpo micidiale dopo un attentato eversivo come quello di Capaci, però evidentemente convinto di poter riscuotere un incasso superiore ai guasti che ne sarebbero derivati. Lo stesso avviene per D’Amelio, è un’altra strage dal chiaro sapore eversivo, ma evidentemente viene compiuta perché i guadagni saranno superiori. Riina con la strage di via D’Amelio ha, come ha detto suo cognato Bagarella, lo stesso ruolo che ebbe Ponzio Pilato nella crocifissione del Cristo, non disse né sì né no, se ne lavò le mani, ha raccontato. Da quello che ci racconta Spatuzza possiamo immaginare che siano stati i Graviano a chiedere a Riina il permesso di compiere questa strage e i Graviano erano gli uomini legati a Milano, gli uomini della mafia che più avevano contatti e rapporti a Milano. Borsellino quindi non viene ucciso, come peraltro scrive benissimo la sentenza d’appello del Borsellino bis già nel 2002, perché salta la

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trattativa tra Vito Ciancimino e il Colonnello Mori perché i Carabinieri respingono inizialmente il papello proposto da Riina, quello è un falso obiettivo. Borsellino viene ucciso per impedirgli di arrivare a Milano e era lo stesso motivo per cui è stato ucciso Falcone e mi sembra che continuare a parlare del fallimento della trattativa sia soltanto l’ennesimo tentativo di nascondere i veri motivi delle due terrificanti stragi del 1992.

Postato da Beppe Grillo alle 15:00 in Informazione http://www.beppegrillo.it/2010/03/31/il_gemellaggio.html#p1_titol

Stato-Mafia, ora si punta al IV livello

Scritto da Fabrizio Colarieti e Antonino Monteleone Mercoledì 31 Marzo 2010 09:16

Fu Franco Restivo, ex ministro democristiano degli Interni e della Difesa, a far incontrare Don Vito Ciancimino e il misterioso personaggio legato ai Servizi segreti conosciuto col nome di “Signor Franco”. Evocato spesse volte da Massimo Ciancimino nelle aule di tribunale, nei processi dove viene ascoltato dai giudici in qualità di testimone o di imputato di reato connesso, ma non solo. Il figlio di Don Vito, quel “Signor Franco” (spesse volte Signor Carlo), lo fa giocare in un ruolo chiave nelle più intricate vicende palermitane. Dalla fine degli anni ‘70 a oggi, Franco/Carlo entra ed esce dalle storie di mafia così come coloro che erano certamente un gradino più sotto di lui, i manovali, le “facce da mostro”. Massimo Ciancimino nel corso dei suoi interrogatori ai pm siciliani, tra Palermo e Caltanissetta, che indagano su fronti diversificati, ma che tendono a intrecciarsi con una certa frequenza, racconta quanto “Franco” fosse vicino al padre in ogni momento e di come abbia seguito da vicino, dopo la scomparsa del sindaco mafioso di Palermo, passi importanti della sua stessa vita, fino al 2006. Massimo Ciancimino lo definisce un uomo che “tira i fili”, un puparo, l’unico in grado di intavolare una trattativa tra Stato e Cosa nostra perché, forse, aveva un piede su ognuna delle due sponde del fiume. Uno che con la stessa facilità entra ed esce dai palazzi più importanti del Paese. Che per comunicare passa tramite la “batteria” del Viminale, senza il timore di non essere ricevuto o ascoltato. Sembra l’immagine del famigerato “grande vecchio”, che sta dietro a ogni mistero italiano che si rispetti.

Così, mettendo assieme tutti quelli che il giornalista palermitano Salvo Palazzolo chiamerebbe “i pezzi mancanti”, sul mistero di “faccia da mostro” non è così difficile rendersi conto, a poco a poco, che il “mostro” ha fatto parte di una catena di comando molto complessa al vertice della quale c’era senz’altro il Signor Franco. Qualche gradino più in basso troviamo Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde finito in carcere e condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione

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mafiosa, e i suoi uomini più fidati, come il suo vice Lorenzo Narracci. Mentre “faccia da mostro” diviene, per usare un linguaggio caro agli esperti, una sorta di «riferimento territoriale di prossimità». Un soggetto che conosce bene il territorio e chi lo abita, uno che parla la “lingua” giusta, uno che quando occorre si sporca le mani e torna, in punta di piedi, nell’ombra. Persone, luoghi e fatti. Ma, verosimilmente, potrebbe non essere stato organico alla struttura di intelligence nostrana. Semplicemente reclutato di volta in volta, per fare il lavoro sporco, assumendosi il rischio conseguente, in caso di fallimento, dell’abbandono da parte della struttura dalla quale ha accettato l’incarico. Un cane sciolto a busta paga del Sisde, uno che poteva essere bruciato in qualunque momento ma anche messo lì, come uno specchietto per le allodole, per depistare, per mischiare le carte. Nei mesi scorsi le procure di Palermo e Caltanissetta hanno rivolto dal Dipartimento per le informazioni e la sicurezza, che oggi è guidato dall’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, un’istanza di accesso ai documenti ufficiali relativi alle attività svolte in Sicilia, in particolare a Palermo, dal Sisde e dal Sismi, nel periodo delle stragi. Compreso l’organico degli 007 impiegati nelle operazioni. Il Dis, a quanto risulta a Il Punto , ha prontamente risposto alle sollecitazioni congiunte delle due procure. «Ma - hanno spiegato gli investigatori - si tratta di una risposta completa da un punto di vista formale». Facile comprendere la diffidenza verso tanta efficienza burocratica. Se è vero, come è vero, che i Servizi di sicurezza hanno carta bianca nella scelta di collaboratori e consulenti individuati con modalità e tecniche “borderline”, il fatto che gli stessi non compaiano in alcun elenco previsto dalla legge, è una naturale conseguenza. Massimo Ciancimino ha riferito di una “faccia da mostro” che con il padre Vito si occupava di tenere saldo il controllo di alcuni settori strategici all’interno della burocrazia regionale. Ciancimino Jr. sostiene di avere riconosciuto, davanti ai magistrati di Caltanissetta, proprio quel funzionario del dipartimento regionale alla sanità, che - secondo più fonti - sarebbe passato a miglior vita. Ma c’è una pista che porta in Calabria. Il mostro a libro paga del Sisde non poteva più esporsi perché l’aspetto, considerata l’impressione generata in chi incrociava il suo sguardo, non gli consentiva più l’operatività che, con le sue capacità, gli aveva permesso fino a quel momento di essere un utile strumento. Così, bruciato il fronte siciliano, quel biondo col viso sfigurato avrebbe deciso di trascorrere gli anni della sua vecchiaia nel continente. In Calabria. In un paesino collinare della provincia di Catanzaro. Ma anche questo resta un sospetto. A Palermo, davanti al pm Nino Di Matteo, Ciancimino avrebbe recentemente fornito ulteriori elementi per risalire all’identità del “Signor Franco”, ma non lo avrebbe riconosciuto in nessuna delle foto che gli sono state mostrate. Tuttavia tra quelle foto Ciancimino Jr. pare abbia individuato solo alcuni collaboratori dello 007. In procura a Palermo, dove le bocche sono cucite, è difficile trovare qualcuno disposto a raccontare cosa è venuto fuori dai riscontri alle dichiarazioni che, lentamente, Massimo Ciancimino sta mettendo a verbale. Specialmente quando si parla di “barbefinte” . Concentrarsi solo sulle “facce da mostro”, dicono gli inquirenti

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palermitani, è fuorviante. È verso l’alto che la verità va ricercata, verso chi muoveva i fili e le pedine sullo scacchiere siciliano perché il rischio che le varie “facce da mostro” servono a sviare, a depistare, è altissimo. Secondo quanto è riuscito a ricostruire Il Punto (vedi n. 10/2010 su www.ilpuntontc.it) una delle due “facce da mostro” sarebbe stato un sottufficiale della polizia di Stato, di origini siciliane. Per anni, almeno così pare, in servizio presso l’Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno, alle dipendenze di Federico Umberto D’Amato (tessera P2 n. 554). Poi sarebbe transitato nella sezione “criminalità organizzata” del centro Sisde di Palermo, quella di via Notarbartolo (vedi sotto) diretta da Contrada e Narracci. “Faccia da mostro” sarebbe rimasto in servizio a Palermo fino al ‘96 e tutta la sua carriera si sarebbe svolta lì, poi la pensione e una collaborazione fino al ‘99. Scompare, a causa del tumore che nel frattempo gli ha aggredito il volto, nel 2004. Parla di lui Luigi Ilardo , il mafioso, vice capo mandamento a Caltanissetta, cugino del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ‘95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri del Ros, poi la copertura saltò e fu ucciso. Ilardo disse che a Palermo c’era un agente segreto con la faccia da mostro che frequentava strani ambienti, un uomo dello Stato che stava dalla parte sbagliata. Nell’89 parla di lui una donna che, poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti. Poi ci sono i delitti coperti dalla stessa ombra. L’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto ‘89 a Villagrazia di Carini. Agostino, segugio sulle tracce dei latitanti anche per conto dei Servizi, aveva saputo qualcosa che non doveva sull’Addaura. Il padre racconta che un giorno notò vicino l’abitazione del figlio due persone. Uno di questi era «biondo con la faccia butterata e per me era faccia di mostro». Una “faccia da mostro” c’è anche dietro l’omicidio dell’agente di polizia Emanuele Piazza, ucciso e sciolto nell’acido in uno scantinato di Capaci il 15 marzo ‘90. «La Dia, incaricata dalla procura, - scrive Salvo Palazzolo nel libro “I pezzi mancanti” (Editori Laterza, 2010) - individua un dipendente regionale, già interrogato dopo il delitto Piazza, perché il suo nome era contenuto nell’agendina della vittima. È affetto da “cisti lipomatosa” nella parte destra del viso, risulta deceduto nel 2002». E ancora, secondo Ilardo, “faccia da mostro” sarebbe coinvolto nell’omicidio dell’11enne Claudio Domino, ucciso a Palermo il 7 ottobre ‘86 mentre stava rientrando a casa. Secondo gli inquirenti il bambino vide l’amante di sua madre, che era legato a un clan mafioso, e per questo fu giustiziato. «Quel giorno, dove fu assassinato il piccolo Claudio, c’era anche “faccia da mostro”», disse la “gola profonda” del Ros. Un uomo del “signor Franco”. E’ il sospetto dei magistrati che indagano sul nuovo filone delle stragi e della presunta trattativa “Stato-mafia” di quegli anni. La caccia agli uomini che hanno “deviato” l’apparato di intelligence. Raccogliere le prove che possano inchiodare pupi e pupari di ogni grado. Un uomo dello Stato, con la potenza descritta da Ciancimino, non poteva di certo agire per conto proprio ed è forte il sospetto che a garantire “politicamente” certe operazioni non convenzionali non si muovesse solo

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un fronte interno, ma che a tirare il filo ci fosse una manina d’oltreoceano. A stelle e strisce. Del resto la storia racconta che quelli della “compagnia”, della Cia, erano in Sicilia già dal ‘43. Tommaso Buscetta non voleva parlare del “terzo livello”, negli interrogatori con Giovanni Falcone, e così anche Massimo Ciancimino si ferma un attimo prima, quel nome non lo fa, fa finta di non ricordare o, forse, neanche lo conosce, dice solo che non era uno qualunque. «Vedi Massimo "- gli disse Don Vito - Buscetta aveva paura di fare i nomi del “terzo livello”. Il Signor Franco rappresenta il quarto». Fabrizio Colarieti e Antonino Monteleone SPY STORY - Alessio e Svetonio, l’agente e il boss, a scuola di doppio gioco “Svetonio” e “Alessio”. C’era una spia dietro uno di questi due pseudonimi, ma c’era anche un mafioso, Matteo Messina Denaro, “Alessio”, il nuovo capo di Cosa nostra, il ricercato numero uno. Tra i due c’era un’intensa corrispondenza: decine di pizzini, finiti nelle mani della Dda di Palermo che nel 2007 si è trovata davanti anche a una inconsueta conferma da parte del Sisde: «Svetonio è un nostro uomo». E così la verità è venuta fuori: “Svetonio”, al secolo Antonino Vaccarino da Castelvetrano, insegnante di lettere, poi consigliere comunale per la Dc, assessore e sindaco, era un uomo del Servizio segreto civile. Ma, giusto per non smentirsi, faceva il doppio gioco: al Sisde prometteva informazioni per catturare Messina Denaro, al boss prometteva aiuti politici. Fabrizio Colarieti Le sedi “coperte” dei Servizi siciliani Misteri palermitani sotto copertura Palermo, via Emanuele Notarbartolo. Le sedi “coperte” dei Servizi sono più o meno tutte uguali. Centrali, nascoste tra mille altre attività e tra le mura di edifici anonimi, che di solito sorgono vicino a importanti sedi governative. Uffici facilmente accessibili, spesso protetti da un portiere che sa tutto e che fa finta di nulla. Solitamente si nascondono dietro le insegne di finte agenzie assicurative oppure di inesistenti centri studio, associazioni culturali, istituti di cooperazione o di import- export. Sul campanello c’è scritto semplicemente “agenzia”, “studio”, “istituto” o la sigla di una delle tante Srl che le “barbefinte” utilizzano per coprire l’attività di spionaggio. Non indossano divise, non hanno auto blu né armi, hanno delle segretarie, anch’esse arruolate nella “ditta”, e provano a non dare nell’occhio sembrando semplici impiegati che ogni giorno vanno in ufficio. Anche a Palermo è così. I Servizi negli anni delle stragi - e anche dopo - avevano il loro “centro operativo” in via Nortarbartolo, una delle strade principali del capoluogo siciliano,

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proprio sopra il “Bar Collica”, all’incrocio con via della Libertà e a due passi dalla sede palermitana della Corte dei Conti. L’esistenza di quell’ufficio è nota da anni: in particolare da quando finì in manette il numero tre del Sisde, Bruno Contrada. Era lì che l’alto funzionario del Servizio segreto civile - condannato definitivamente nel 2007 a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa - aveva il suo ufficio. Dal portone di quel palazzo, che si trova a pochi metri dal punto dove nell’82 fu ucciso con tre colpi di pistola l’agente della Mobile Calogero Zucchetto, sono entrati e usciti decine di 007 su cui ancora oggi le procure di Palermo e Caltanissetta indagano per capire che ruolo ebbero nelle stragi di mafia. A via Notarbartolo aveva la sua “agenzia” anche il Sismi. Lo hanno confermato due funzionari, per un periodo capicentro dei due Servizi a Palermo, durante il processo al maresciallo del Ros ed ex deputato regionale dell’Udc, Antonio Borzacchelli, indagato nell'inchiesta sulle talpe alla Dda palermitana e condannato in primo grado, nel 2008, a 10 anni per concussione, favoreggiamento aggravato e rivelazione di segreti d’indagine. Ciononostante quando finì in manette un’altra talpa, il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro, che al telefono si lasciò sfuggire «quelli di via Notarbartolo» alludendo pare al Sismi, gli allora vertici del Servizio militare si affrettarono a smentire l’esistenza di una sede coperta a Palermo. Anche le “facce da mostro” e il famigerato Signor Franco o Carlo, l’alto funzionario in contatto con Massimo Ciancimino fino al 2006, è assai probabile che frequentasse quella sede, ma anche quella precedente, in via Roma. Ma ancora: partirono sempre da via Notarbartolo, tra il 2001 e il 2002, le telefonate verso una delle venti sim in uso all’ex Governatore Salvatore Cuffaro, anch’egli condannato, in appello, a 7 anni per aver agevolato la mafia e rivelato segreti istruttori sempre nell’ambito dell’inchiesta sulle talpe alla Dda. Gli inquirenti, proprio analizzando il traffico in entrata di uno di quei cellulari, hanno scovato 54 chiamate partite, nell’arco di diciotto mesi, dall’utenza fissa in uso in quella sede del Sisde. Puntualmente, scavando tra fantasmi e telefoni coperti, alla ricerca di mafiosi e talpe, spunta regolarmente via Notarbartolo. È il crocevia di tanti misteri, un rompicapo su cui si cimentano da anni i magistrati palermitani e nisseni per dare un volto agli agenti segreti e ai loro collaboratori che per un ventennio hanno frequentato il capoluogo siciliano e il suo sottobosco criminale. Fabrizio Colarieti FONTE: Il Punto

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La Polizia della Casta Buongiorno a tutti. Non parliamo delle elezioni ovviamente perché non sappiamo ancora come sono andate, anche se forse più o meno lo si può prevedere come andranno a parte un paio di regioni in bilico.

Irruzione a Sky Parliamo invece di un tema che credo stia diventando importante, il ruolo delle forze dell’ordine nella nostra democrazia, sapete che ci sono continuamente, vengono fuori continuamente casi di persone che vengono malmenate dopo un fermo, un arresto, di alcune conosciamo i nomi il caso di Uva, di Aldrovandi , tanti altri casi che sono stati raccontati in questi anni, in questi ultimi mesi che indicano un pericoloso aumento delle violenze da parte di coloro che invece la violenza la dovrebbero reprimere, contenere o ne dovrebbero fare un uso istituzionale.

Abbiamo avuto recentemente il ribaltamento in appello delle sentenze in parte assolutorie che c’erano state in primo grado sulle torture e le violenze di Bolzaneto al G8 del 2001 con la condanna o a pene detentive oppure a risarcimenti di danni nel caso in cui i reati fossero ormai prescritti di alcune decine di agenti di Polizia e Polizia penitenziaria e abbiamo anche negli ultimi tempi delle segnalazioni di persone che vengono prelevate durante manifestazioni, soltanto perché esprimono il loro pensiero parlando, urlando, sventolando striscioni, cartelli e non si sa per quale motivo debbano essere identificate o addirittura portate via, ci sono persone che vengono addirittura convocate dalle forze dell’ordine in corrispondenza con manifestazioni del centro-destra in modo da essere sicuri che sono in Questura o sono in caserma e non vanno alle manifestazioni del centro-destra, non sono cose che si possono fare, anche se purtroppo vengono fatte ugualmente. Da questo punto di vista non è tanto preoccupante il fatto che avvengano, poi in ogni categoria ci sono le mele marce, personalmente parto sempre dal presupposto che la Polizia abbia ragione, i Carabinieri hanno ragione, i magistrati hanno ragione, tra le guardie e i ladri sto dalla parte delle guardie, fino a prova contraria, purtroppo negli ultimi tempi di prove contrarie ne arrivano e non soltanto in casi eclatanti come quello di Cucchi, ma anche in altri meno noti e meno raccontati. Per esempio mi è capitato ieri di raccontare una storia che mi è stata raccontata da alcuni testimoni oculari, che è avvenuta nel Palazzo di Sky sulla Via Salaria a Roma nella giornata di venerdì, quando Berlusconi è arrivato con il solito corteo armato fino ai denti e questo è giusto, la scorta al Presidente del Consiglio è un atto dovuto, si è recato nel Palazzo di Sky per un’intervista in diretta che poi i giornali hanno raccontato, pochi l’hanno vista in diretta anche se era stata molto reclamizzata, credo abbia avuto 50 mila telespettatori di share in media, una cosa miserrima, lo 0,3% dello share RAI per una notte, la trasmissione evento di giovedì sera al Paladozza messa in piedi da Michele Santoro ha fatto soltanto su Sky il 2,5%, Berlusconi lo 0,3%.

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Berlusconi è entrato con il suo corteo, con la sua scorta e con tutto l’apparato e intanto succedeva nel Palazzo una cosa, che per dirla con il Direttore generale della RAI Masi, neanche nello Zimbabwe! Due uomini della sicurezza interna dell’edificio, scoprivano che nel dipartimento dei grafici, su una grande vetrata di circa 4 metri per 4, era stato affisso un foglietto formato A4 bianco, con stampata una frase, la frase è la seguente “Odiare i mascalzoni è cosa nobile” questa è una frase di Marco Fabio Quintiliano , un intellettuale nato nel 35 d.C. a Calagurris in Spagna e poi trasferitosi a Roma, è diventato il famosissimo Quintiliano, ha scritto questa frase, perché è stata stampata su quel foglio e appiccicata alla vetrata del reparto grafici di Sky, perché proprio giovedì sera, la sera prima, Daniele Luttazzi dal Paladozza nel suo monologo aveva ricordato, demolendo con una sola frase di Quintiliano mesi e mesi di cazzate sul partito dell’odio, dell’amore, quelli che incitano all’odio etc., etc., ha detto quello che personalmente penso e avevo detto anche io a suo tempo dopo il lancio del souvenir sul volto del Presidente del Consiglio, che intanto quello è un matto e non c’entra niente con l’odio, ma in ogni caso se anche uno vuole odiare da casa sua è liberissimo di odiare chi gli pare, l’importante è che l’odio non si trasformi in atti di violenza. Quindi due ragazzi del reparto grafici dell’edificio di Sky avevano trovato condivisibile quella frase e l’hanno appiccicata. Gli uomini della sicurezza dell’edificio, la sicurezza interna, hanno notato quella scritta e hanno segnalato la cosa alla guardia presidenziale, alla scorta del Presidente del Consiglio e a quel punto è successo qualcosa che per una democrazia è ai limiti dell’incredibile, anzi è oltre, due agenti ben tarchiati della Digos, due montagne umane sono piombate nel piano dove c’è questa vetrata, hanno constatato che era effettivamente stato affisso quel foglietto con quella scritta, hanno chiuso tutte le finestre per evitare che si vedesse da fuori quello che stavano facendo, evidentemente rendendosi conto che stavano facendo qualcosa di grosso, dopodiché uno dei due dopo aver sequestrato il corpo del reato, il foglietto, ha fatto irruzione dentro l’ufficio dei grafici, si è diretto verso il computer principale, si è messo ad armeggiare alla tastiera, ha cercato di aprire gli ultimi file aperti per cercare di incastrare, di individuare colui che aveva scritto e stampato quella scritta, ma purtroppo per lui i grafici non usano il mouse, usano la tavoletta grafica e questo agente non la sapeva usare, per cui ha chiesto a una persona lì presente, a una ragazza di aiutarlo a aprire gli ultimi file, nel tentativo di smascherare gli autori dell’orrendo misfatto, senza sapere che peraltro i due ragazzi erano già stati portati sotto, all’ingresso, interrogati da un’altra coppia di agenti della Digos e avevano immediatamente dichiarato, dato che non avevano niente da nascondere, di avere stampato e affisso loro quella scritta. A quel punto sono stati identificati e da quello che risulta stavano per essere portati in Questura, non so se sia un provvedimento di fermo, cosa volessero fare a questi due ragazzi, soprattutto quale reato avessero commesso, affissione di messaggi di Quintiliano, citazioni latine proibite, porto abusivo di cultura latina, non si sa quale sia il reato che avevano individuato questi somari che avevano ritenuto delittuoso un

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comportamento assolutamente legittimo e secondo me anche doveroso, sta di fatto che poi interviene un componente dell’ufficio legale della società che riesce a scongiurare almeno che questi vengano portati via dalla Polizia. Quintiliano invece non l’hanno ancora trovato, ma lo stanno cercando con unità cinofile, con posti di blocco e quindi non si dispera di bloccare anche il capocellula di questo covo di terroristi che si annida nell’ufficio grafici del Palazzo di Sky. Capite che se si arriva a questi estremi, a punire le idee, a punire la cultura, soltanto perché qualcuno con un eccesso di zelo degno di migliore causa, appena legge “odiare i mascalzoni è cosa nobile” pensa immediatamente a Berlusconi, perché non c’era scritto “odiare Berlusconi” c’era scritto “odiare i mascalzoni” bisognerebbe interrogare i poliziotti privati e della Digos e dire loro: com’è che vi è subito venuto in mente Berlusconi appena avete letto il messaggio, visto che Quintiliano difficilmente nel primo secolo dopo Cristo si riferiva a Berlusconi quando scriveva “odiare i mascalzoni è cosa nobile”? Se si passa sopra queste cose, se non ci sarà qualcuno che si prenderà la responsabilità di quello che è successo, se questa notizia resterà confinata su Il Fatto quotidiano o sui nostri blog, se non si comincerà a chiedere molto civilmente conto alla Questura di Roma del comportamento di questi agenti e se la Magistratura romana non prenderà dei provvedimenti nei confronti di questi signori e se i loro stessi colleghi non cominceranno a dire: noi non c’entriamo con certi comportamenti, vorrà dire che abbiamo fatto un altro passo in avanti verso il regime, venerdì pomeriggio alle 14,30 quando si è verificato questo fatto incredibile e un poliziotto che entra nel personal computer di un lavoratore per cercare di capire chi ha appeso a un muro un messaggio di un autore latino. A furia di lasciar passare queste cose ci abituiamo e l’assuefazione fa entrare un altro pezzo di regime dentro le nostre teste e quindi ci rende sempre più tolleranti verso nuovi abusi di potere, perché questo è chiaramente un abuso di potere, grosso come una casa ai danni di due cittadini che non avevano fatto assolutamente niente di male, avevano esercitato un diritto costituzionale previsto dall’Art. 21 della Costituzione. Tra l’altro esponendo un pensiero che non era neanche loro, ma era di Quintiliano, che quando saranno finite le ricerche, forse quegli agenti della Digos, scopriranno essere anche ampiamente morto. Altro fatto che segnala un preoccupante scivolamento verso il regime del nostro paese in controtendenza tra l’altro rispetto invece a momenti in cui le forze dell’ordine anche ai massimi livelli sanno tenere la schiena dritta, non più tardi di due sabati fa la Questura di Roma ha tenuto botta davanti agli insulti, minacce e addirittura alle calunnie, infamie che alcuni cialtroni del centro-destra hanno lanciato contro la Polizia romana soltanto perché i responsabili della polizia hanno calcolato, secondo me anche esagerando, in 150 mila i partecipanti alla misera manifestazione di Piazza San Giovanni con Berlusconi con lo scolapasta in testa, erano probabilmente 60/70 mila i partecipanti a quella manifestazione, in Questura generosamente glieli hanno portati a 150 mila, ma loro avevano detto che erano un milione e quindi anche i 150 mila generosamente concessi dalla Questura, sono sembrati un attentato all’immagine del Presidente del

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Consiglio. Quello è stato un segnale che ci ha fatto piacere perché ci ha fatto vedere che esiste ancora un’autonomia da parte delle forze dell’ ordine rispetto non al governo, perché poi li ha difesi anche Maroni i poliziotti, ma rispetto agli esaltati, ai fanatici dell’entourage berlusconiano.

Le punizioni a Gioacchino Genchi Purtroppo in controtendenza con questo evento, negli stessi giorni succedeva una cosa, Gioacchino Genchi, è un vicequestore di Polizia, è in servizio da 23 anni, ha lavorato con Giovanni Falcone e poi ha lavorato per cercare di scoprire, in mezzo a depistaggi di ogni genere, chi aveva ucciso Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino.E' uno delle memorie storiche delle indagini tecnologiche, telefoniche e telematiche per trovare non solo gli esecutori e i mandanti diretti del primo cerchio, ma anche i mandanti occulti delle stragi e di tutto quello che c’è intorno la fine della prima Repubblica e l’inizio della seconda, per queste ragioni è diventato un pericolo pubblico, per i cattivi, per i malfattori, per queste ragioni dovrebbe essere protetto dalla polizia. Per anni ha lavorato in aspettativa sindacale privatamente, adesso l’anno scorso è rientrato nei ranghi della Polizia, ma subito dopo è bastato un avviso di garanzia e una perquisizione realizzata dagli uomini del Ros e disposta dal Procuratore Achille Toro di Roma, Procuratore aggiunto, ora dimissionario perché beccato a combinarne di cotte e di crude nello scandalo della protezione civile, per quell’inchiesta nel mentre di quell’inchiesta Genchi è stato sospeso dal servizio, gli hanno ritirato il tesserino, la pistola, il distintivo, ha subìto poi un’altra sospensione e le sospensioni dal servizio finivano il 23 marzo, meno di una settimana fa, a quel punto avrebbe dovuto rientrare in servizio, invece proprio il 22 marzo, alla vigilia del suo rientro in servizio, gli è arrivato un altro provvedimento di sospensione, firmato il Capo della Polizia, Antonio Manganelli. “Visto il Dpr, la legge, il Decreto Legislativo, i decreti… con cui sono stati aggiunti al vicequestore aggiunto della Polizia di Stato Genchi due sanzioni disciplinari della sospensione del servizio ognuna per la durata di 6 mesi, che cumulano i loro effetti fino al 23 marzo 2010, considerato che gli accennati provvedimenti disciplinari sono stati adottati a carico del funzionario per avere lo stesso rilasciato dichiarazioni gravemente lesive del prestigio di istituzioni dello Stato, poi riportate su organi di stampa nazionali e nonostante specifiche e puntuali iniziative poste in essere dall’amministrazione volte a richiamare il Dott. Genchi a attenersi alle disposizioni dipartimentali sui rapporti con gli organi di formazione, viste le dichiarazioni rese dal Dott. Genchi nel corso di un convegno svoltosi a Cervignano nel Friuli il 6 dicembre 2009, e nel corso del congresso dell’Italia dei valori del 6 febbraio 2010 a Roma, alle quali è stata data ampia diffusione sui mass media a livello nazionale. Considerato che il contenuto delle dichiarazioni rese dal funzionario anche in questa circostanza pericolosamente lesivo per il prestigio delle istituzioni dello Stato, sembrerebbe potenzialmente idoneo a concretizzare un comportamento fortemente scorretto sotto il profilo deontologico da parte di un funzionario della Polizia di Stato, proprio in relazione

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ai doveri connessi alle funzioni rivestite e alle responsabilità sottese alla qualifica coperta e quindi valutabili disciplinarmente, considerato, infatti, che è ancorché sospeso dal servizio e non tenuto quindi a attenersi agli obblighi strettamente connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa, il Dott. Genchi come ogni appartenente all’amministrazione della pubblica sicurezza deve comunque rispettare tutti quei doveri generali che siano compatibili con il suo attuale status giuridico, tra cui il dovere di fedeltà e correttezza nella condotta. Considerato che in relazione al comportamento in questione in quanto apparentemente suscettibile di integrare fattispecie di inflazioni disciplinari, punibili con una sanzione più grave della deplorazione, in data odierna è stata disposta nei confronti del funzionario un’inchiesta disciplinare ai sensi dell’Art. 19 etc., ritenuto inoltre che dalla lettura delle dichiarazioni concesse appare che il funzionario nonostante i provvedimenti adottati nei suoi confronti stia perseverando in una gravissima condotta assolutamente in contrasto con i propri doveri, oltre che pregiudizievole per l’immagine e il decoro delle istituzioni di appartenenza e gli altri organismi dello Stato, ritenuto che per quanto sopraesposto sussistano gravi motivi previsti dall’Art. 92 per l’adozione nei confronti del Dott. Genchi della sospensione cautelare dal servizio per motivi disciplinari, visto il secondo comma etc., così come modificato decreta per i motivi indicati in premessa il Vicequestore aggiunto della Polizia di Stato Dott. Gioacchino Genchi e sospeso cautelarmente dal servizio ai sensi del combinato disposto etc., a decorrere dal giorno successivo della data di notifica", quindi del 23 marzo, esattamente dal giorno in cui dopo un anno di sospensione in seguito a due provvedimenti successivi di 6 mesi, lui avrebbe dovuto rientrare in servizio. "Al predetto funzionario" , è citato un funzionario che deve citare l’inchiesta a Genchi, "compete un assegno alimentare nella misura stabilita dalle vigenti disposizioni di legge", non lo lasciano senza mangiare, "il Direttore centrale per le risorse umane incaricato dell’esecuzione del presente decreto attraverso il quale ha ammesso presentare ricorso giurisdizionale al Tar etc., Direttore generale della pubblica sicurezza Manganelli.”

Genchi fuori, macellai dentro Come vi ho detto c’è un’inchiesta disciplinare aperta, perché? Questo è il provvedimento cautelare di sospensione per altri 6 mesi, terzo, dopo il quale c’è la radiazione, perché hanno fatto il provvedimento di indagine? L’inchiesta interna disciplinare? Perché Genchi, come avete sentito, ha fatto un convegno a Cervignano del Friuli dicendo delle cose e poi ha accettato di intervenire non al congresso dei ladri, dei mafiosi, degli stupratori, al congresso di un partito che si chiama Italia dei valori che a alcuni può piacere a qualcun altro può non piacere, ma ha esercitato il suo diritto di poliziotto, tra l’altro sospeso, quindi non è neanche in questo momento in servizio e perché ha parlato, ha parlato perché ha voluto rispondere a alcune contestazioni, ha detto alcune cose condivisibili, altre non condivisibili, come è legittimo che ogni cittadino faccia, ha leso gravemente le

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istituzioni, beh più di quanto non le ledano coloro che le rappresentano, credo sia difficile, perché era stato sospeso l’altra volta? Era stato sospeso perché aveva dato un’intervista a un settimanale in cui spiegava il suo ruolo di consulente tecnico, visto che nessuno capiva quale era il suo ruolo e i giornali continuavano a scrivere che lui intercettava milioni di persone, mentre lui non ha mai fatto intercettazioni. Poi aveva risposto su Facebook a Gianluigi Nuzzi che lo aveva accusato di cose molto gravi e lui gli aveva risposto su Facebook, non ho idea se un poliziotto possa rispondere su Facebook, può darsi che non possa, può darsi che non possa neanche dare un’intervista, vedo continuamente interviste di uomini delle forze dell’ordine, vedo dichiarazioni, può essere che Genchi non possa e gli altri possono, mi interessa fino a un certo punto. Quello che mi domando è: dato che siamo praticamente alla sicura radiazione di Genchi dopo la terza sospensione dal servizio, a meno che il Tar non annulli questi provvedimenti, la domanda è: è proporzionato quello che ha fatto Genchi o è accusato di avere fatto, parlato, espresso opinioni pubblicamente con la sanzione che gli si vuole comminare rispetto anche a un signore che per 25 anni ha servito fedelmente lo Stato aiutando tribunali, pubblici Ministeri, corti di assise, d’appello etc., a far condannare centinaia e centinaia di assassini, stragisti, sequestratori, trafficanti di droga? Soprattutto la Polizia di Stato è così inflessibile con i suoi membri? Con i suoi uomini in organico quando violano altre norme? Ammesso e non concesso che Genchi abbia volato delle norme? Se ha violato delle norme ha violato delle norme interne, non certo degli articoli del Codice Penale perché rispondere a un giornalista su Facebook non è reato, dare un’intervista non è reato, se ci fossero dei reati sarebbe stato condannato per diffamazione, calunnie etc., cosa che non è, è indagato dalla Procura di Roma per iniziativa di quel famoso Achille Toro di cui abbiamo visto recentemente le gesta. Al di là di quello, poi uno è indagato, poi si vedrà se viene condannato oppure no, per il momento non c’è neanche da quello che so, la richiesta di rinvio a giudizio, allora? Allora può essere che ci siano dei regolamenti interni, delle cose, noi siamo di fronte veramente a un comportamento curioso da parte dei vertici della Polizia, per esempio per le violenze e le torture alla Scuola Diaz e alla Caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova sono state condannate decine e decine di persone, molte delle quali agenti o funzionari o dirigenti di polizia, vogliamo fare qualche esempio? Vincenzo Canterini è stato condannato a 4 anni in primo grado per le violenze alla Diaz e è stato promosso Questore e ufficiale di collegamento dell'Interpol all’Ambasciata di Bucarest italiana. Michelangelo Fournier, quello che parlò di una macelleria messicana, vergognandosi di quello che era successo, condannato a 2 anni in primo grado è ai vertici della direzione centrale antidroga della Polizia di Stato. Alessandro Perugini, famoso per avere preso a calci in faccia un ragazzo di 15 anni è stato condannato in primo grado a due anni e 4 mesi per le sevizie di Bolzaneto e a due anni e 3 mesi per altri arresti illegali, è diventato capo del personale alla Questura di Genova e poi dirigente della Questura di Alessandria. Sapete chi è l’unico che è stato sospeso dal servizio dopo la condanna in primo

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grado per i fatti di Genova? E’ un dirigente di Polizia Municipale che aveva strappato la mano a un manifestante, ma non l’hanno sospeso perché aveva strappato la mano a un manifestante, per quello sarebbe ancora in servizio, l’hanno sospeso perché hanno scoperto che aveva stuprato anche delle prostitute che erano in stato di fermo in un ufficio di Polizia, per lo stupro delle prostitute, non per lo squarciamento della mano, l’hanno cautelarmene sospeso, quindi è nelle stesse condizioni di Genchi, uno che a scritto una risposta su Facebook e uno che ha squarciato una mano a un manifestante minorenne e ha violentato delle prostitute in stato di fermo, sullo stesso piano, gli altri due anni e mezzo, due anni e 4 mesi e 8 mesi etc., tutti in servizio, oppure promossi! Allora la domanda è, dato che vi ho letto prima quella giaculatoria: “ha leso gravemente il prestigio e l’onore delle istituzioni, la sua presenza in servizio è nociva per l’immagine della Polizia”, a proposito di Genchi, la domanda è: pestare a sangue e torturare manifestanti che non hanno fatto niente in una scuola o in una caserma, è per caso lesivo per il prestigio delle istituzioni? E la permanenza in servizio di chi ha fatto queste cose è per caso nociva per l’immagine della Polizia? Fino a quando a pagare sarà soltanto Genchi che ha fatto un’intervista e un intervento al congresso dell'IdV e una risposta a Facebook e non gli autori di violenze etc., etc., saremo autorizzati a pensare molto male e io di questo mi dispiaccio perché sono sempre stato un difensore della Polizia e delle forze dell’ordine. Mi piacerebbe che i vertici della Polizia ci aiutassero a avere fiducia in loro e a solidarizzare con loro, passate parola! Marco Travaglio (29 marzo 2010)

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Editoria, nuovo colpo di mano: il Governo abroga le tariffe agevolate

di redazione

"Dal primo aprile, e non e' uno scherzo, saranno abrogate tutte le tariffe agevolate a favore della editoria con particolare riferimento alla spedizione degli abbonamenti" . A evidenziare questo nuovo colpo inflitto al comparto editoriale, Giuseppe Giulietti e Vincenzo Vita. "Tutti gli editori italiani- aggiungono- dai piu' grandi ai piu' piccoli riceveranno una vera e propria pugnalata alle spalle che in alcuni casi potra' portare all'immediata chiusura delle testate... La decisione, non preceduta da alcuna consultazione in sede parlamentare e' stata assunta dal ministro Tremonti facendosi beffa di tutti gli impegni assunti in sede parlamentare che andavano nella direzione di un progressivo reintegro dei fondi per l'editoria e della contestuale approvazione di una riforma organica del settore". Per l'ennesima volta, affermano Giulietti e Vita, "si e' scelta la strada opposta dando

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cosi' al provvedimento uno spiacevole sapore vendicativo nei confronti di un settore che questo governo non ha mai amato. Non ci e' chiaro quale sia stato e quale sia, su questa vicenda il parere del sottosegretario Bonaiuti, che ha la delega per il settore e che a questo punto potra' serenamente procedere a buttare nel piu' vicino cestino la proposta di riforma dell'editoria dal momento che, con questo colpo di mano e' stata gia' realizzata. "Per quanto ci riguarda- affermano i due deputati- questa vicenda non e' meno grave della chiusura dei programmi o dell'alterazione permanente della para condicio o delle rappresaglie nei confronti dei singoli giornalisti perche' colpisce in modo ancora piu' subdolo il pluralismo nel settore editoriale e condanna a morte sicura decine di testate e centinaia di posti di lavoro con il rischio di ridurre anche nel settore della carta stampata un pluralismo che nel settore dei media e' gia' ai minimi termini". Articolo21, concludono Giulietti e Vita, "chiedera' nelle prossime ore una riunione a tutte associazioni di settore per valutare le opportune iniziative".

http://www.articolo21.org/882/notizia/editoria-nuovo-colpo-di-mano-il-governo-abroga.html

Errani e Formigoni a casa

Un tempo c'era Roma imperiale. Augusto, Vespasiano, Marco Aurelio, imperatori per diritto divino che regnavano fino alla morte. Poi vennero i secoli bui, il medio evo, la Rivoluzione francese, quella russa. il ventennio mussoliniano e la democrazia parlamentare. Oggi, dopo un paio di millenni di storia e di evoluzione della politica, siamo arrivati ai Governatori a vita per diritto partitico. Si tratta di individui che per motivi ignoti ai cittadini, ma noti alle segreterie di partito, gestiscono una Regione per 15/20 anni nonostante la legge italiana lo vieti. La legge dello Stato 165/2004 articolo 2 impedisce di candidarsi a Presidente di Regione dopo due mandati consecutivi: "previsione della non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto, sulla base della normativa regionale adottata in materia". Il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida lo ha ribadito in un'intervista. Lo spirito della legge è semplice: chi si accomoda su una poltrona troppo a lungo la gestisce come centro di potere. Da qui un necessario ricambio. Formigoni si avvia a regnare per vent'anni, Errani per quindici. Un accordo bipartisan tra Bersani (il portavoce di D'Alema) e Berlusconi. Una regione a me, una a te. I candidati proposti da Pdl e Pdmenoelle come avversari ai Governatori Eterni sono sparring partner, messi in lista per onor di firma. Penati in Lombardia e nonsochi (giuro che non mi ricordo neppure il nome) in Emilia Romagna erano vuoti a perdere. Lombardia e Emilia Romagna sono state usate come merce di scambio tra Pdl e Pdmenoelle infischiandosene della legge e del rispetto verso i cittadini. Il tutto

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nella più totale omertà pre elettorale: "Io rimango in silenzio su un governatore scaduto se tu rimani in silenzio sul mio". Prima delle elezioni ho scritto che avrei fatto ricorso in caso di elezione del duo erraniformigoni. Farò il ricorso al più presto per vincerlo. Errani e Formigoni vanno mandati a casa. La legge è uguale per tutti, tranne che per Pdl e Pdmenoelle. Uniti nell'inciucio.

http://www.beppegrillo.it/2010/04/un_tempo_cera_r/index.html

Silvio Berlusconi “cerca la protezione della mafia”

Articolo di Giustizia, pubblicato domenica 14 marzo 2010 in Gran Bretagna.

[The Times] Silvio Berlusconi, il miliardario Presidente del Consiglio italiano, si incontrò una volta con un capomafia per chiedergli protezione, secondo le testimonianze raccolte negli anni dagli investigatori. Secondo alcuni pentiti, l’incontro avvenne a Milano nel 1974, quando Berlusconi era già un ricco imprenditore a capo della sua azienda edile. Sempre secondo gli informatori, Berlusconi incontrò Stefano Bontade, all’epoca tra i boss mafiosi più influenti, poiché temeva per l’incolumità della sua famiglia, in un periodo in cui l’Italia era subissata da rapimenti di alto-profilo. Tra gli scagnozzi di Bontade, Francesco Di Carlo, ora in prigione, ha riferito agli inquirenti di essere stato presente all’incontro. L’uomo sostiene che Berlusconi chiese aiuto per assicurarsi che né lui né i suoi figli venissero rapiti dalla Mafia. Secondo la testimonianza del tirapiedi, Bontade diede la sua parola che avrebbe personalmente garantito l’incolumità di Berlusconi. In cambio, Berlusconi assicurò al boss di essere “a sua disposizione, per qualsiasi cosa”. Il pool antimafia sostiene che l’incontro venne organizzato da Marcello Dell’Utri, amico intimo e socio d’affari di Berlusconi. Dell’Utri giocò poi un ruolo decisivo nel finanziare il primo partito politico del magnate, Forza Italia, che vinse le elezioni del 1994 portando Berlusconi al potere. Dell’Utri, ora senatore, è stato condannato nel 2004 a nove anni di prigione per associazione mafiosa. L’uomo nega le accuse, è ricorso in appello ed è tuttora a piede libero, protetto dal sistema giuridico italiano. Sia lui sia Berlusconi negano di aver incontrato Bontade. Ma i magistrati credono alla versione di Di Carlo, che è stata anche confermata da un altro boss, ora pentito. “A nostro avviso Dell’Utri era in stretti rapporti con la mafia. Fungeva da ambasciatore mafioso, rappresentandone gli interessi tra i ricchi imprenditori italiani” ha dichiarato Domenico Gozzo, membro chiave del team investigativo nel processo a Dell’Utri. “Invece di rivolgersi alla polizia, Berlusconi si rivolse a Dell’Utri quando si allarmò per la sua sicurezza. Chiese all’amico di trovare una soluzione e così fece Dell’Utri

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durante un incontro con un capomafia, Stefano Bontade, a cui partecipò anche Berlusconi. Bontade promise che avrebbe inviato una persona a proteggere Berlusconi e la sua famiglia. Perché? Perché Berlusconi divenne un interesse di Cosa Nostra, come imprenditore prima e come politico, poi”. Poco tempo dopo il presunto incontro con Bontade, che nel 1981 venne assassinato per mano della stessa mafia, Berlusconi assunse Vittorio Mangano, un mafioso. Ufficialmente, Mangano aveva il compito di gestire la lussuosa tenuta del magnate ad Arcore, fuori Milano. Visse per due anni nella villa da 145 stanze, portando i figli di Berlusconi a scuola. Gli investigatori sospettano che Mangano fosse l’uomo inviato da Bontade per proteggere il magnate e la sua famiglia, così da segnalare agli altri clan mafiosi che Berlusconi era sotto la protezione della mafia. Berlusconi e Dell’Utri hanno dichiarato di non sapere che Mangano fosse un criminale. Tuttavia, l’uomo fu arrestato per due volte mentre lavorava per Berlusconi. “Mangano era già un criminale quando Berlusconi lo assunse” sostiene Gozzo. Nel 2000, Mangano, che era sotto inchiesta con l’accusa di traffico di droga, venne accusato di duplice omicidio. Morì prima che venisse letta la sentenza di appello. Berlusconi e Dell’Utri l’hanno sempre definito un eroe perché rifiutò di muovere nei loro confronti false accuse. “Mangano si comportò molto bene con noi” dichiarò Berlusconi nel 2008. “Successivamente ebbe alcuni problemi con la legge, ma non mi risulta sia stato mai condannato definitivamente”, aggiunse, riferendosi al fatto che non si è arrivati mai alla sentenza di appello. Il Presidente del Consiglio non è mai stato accusato di associazione mafiosa. Gozzo e gli altri magistrati hanno tentato di interrogarlo su Dell’Utri, i suoi presunti legami con la mafia e alcuni fondi investiti nei suoi affari, ma Berlusconi non si è mai espresso, appellandosi al diritto concessogli dalla legge italiana. Anche il partito di Forza Italia ha ricevuto accuse di associazione mafiosa da parte di alcuni pentiti. La dichiarazione è stata rilasciata lo scorso dicembre da Gaspare Spatuzza, un mafioso, ora in carcere, che in passato ha assassinato 40 persone, sciogliendolo nell’acido un nemico. L’uomo ha riferito agli investigatori che Berlusconi e Dell’Utri ebbero contatti con i fratelli Graviano, due boss mafiosi. Berlusconi, 73enne, ha rabbiosamente smentito ogni accusa di associazione mafiosa, ribadendo di essere vittima di una cospirazione ordita da magistrati di centro-sinistra. Ha dichiarato recentemente che nessun capo del governo italiano ha mai lottato contro la mafia quanto lui. “Nel momento esatto in cui introdusse Mangano, Dell’Utri mise Berlusconi nelle mani della mafia” ha commentato Marco Travaglio, uno dei principali giornalisti investigativi italiani. “Cosa Nostra non è un taxi su cui si sale, si paga la corsa e si scende, salutando. Una

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volta che ci sei dentro non ne esci più e Berlusconi ha il terrore di essere incastrato dal suo passato”. [Articolo originale "Silvio Berlusconi in ‘protecti on deal with mafia’" di Mark Franchetti] http://italiadallestero.info/archives/9268

L'asse padano dei soldi

Gianni Barbacetto

Dal salvataggio della banca padana al mistero dei 70 miliardi. Così Berlusconi si è garantito la fedeltà di Bossi "Io sono uno dei pochi che non ha mai chiesto né una lira né un aiuto a Berlusconi". Le parole dette il 20 marzo da Umberto Bossi, sul palco della "festa dell’amore" in piazza San Giovanni a Roma, risaltano di più oggi, dopo che la Lega è diventata l’azionista più forte del centrodestra: il Carroccio è ormai il 31 per cento dell’alleanza, un terzo dello schieramento. Adesso alza il prezzo, sa che può chiedere di più. È iniziata "la battaglia più insidiosa", come la chiama Ignazio La Russa: quella interna al centrodestra. Ma fino a che punto Bossi può tirare la corda? Il patto tra Umberto e Silvio è destinato a durare? E che tipo di patto è?

IL PATTO . Nasce nei primi mesi del 2000. Prima, la Padania, il quotidiano della Lega, chiamava Berlusconi "il mafioso di Arcore". E pubblicava con grande evidenza (era l’agosto 1998) dieci domande sull’odore dei soldi e sulle imbarazzanti relazioni siciliane del fondatore di Forza Italia. Con il nuovo millennio, il clima cambia. Bossi e Berlusconi siglano un patto di ferro che li porterà al trionfo elettorale del 2001. "L’accordo potrebbe essere raggiunto in tempi brevi. Si può dire che è stato raggiunto, in parte è già scritto", dichiara Bossi a Repubblica già il 27 gennaio 2000. "Ma lo avete depositato del notaio, come scrive qualcuno?", gli chiede l’intervistatore. Il leader della Lega nega: "A che cosa serve il notaio in politica? Sono cose da matti, invenzioni fantasiose". Eppure la notizia dell’esistenza di un patto scritto, depositato da un notaio, circola da subito. E arriva dall’interno della Lega. Qualcuno favoleggia di un accordo con una parte anche finanziaria: debiti appianati, bilanci risanati. "Cose da matti, invenzioni fantasiose", come dice Bossi. Qualche anno dopo, si saprà che all’esistenza di quel patto scritto credeva anche la security Telecom guidata da Giuliano Tavaroli , che lo ha cercato a lungo. Quando nel 2007 arrestano un collaboratore di Tavaroli, il giornalista di Famiglia cristiana Guglielmo Sasinini, tra i documenti che gli sequestrano ci sono anche appunti sul presunto patto Berlusconi-Bossi: "In quel periodo pignorata per debiti la

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casa di Bossi". E poi: "70 miliardi dati da Berlusconi a Bossi in cambio della totale fedeltà". "Debiti già ripianati con 70 mld". E ancora: "Notaio milanese?". Segue anche il nome “Tremonti”, senza però alcun dettaglio né legame con il presunto accordo. Bossi non si scompone: "Figurarsi! Una balla spaziale. Berlusconi è uno che non tira fuori un soldo nemmeno per pagare i manifesti elettorali...figurarsi se tira fuori dei soldi per la Lega!".

L’AMICO FIORANI . Ma i soldi per la Lega qualcuno li ha tirati fuori. E ne è restata traccia. È Gianpiero Fiorani, il banchiere della Popolare di Lodi che nel 2005 guida gli assalti dei furbetti del quartierino. È lui che salva la Lega arrivata a un passo dalla bancarotta. Mai stati gran finanzieri, quelli del Carroccio. Nel 1998 una decina di leghisti di spicco, tra cui il tesoriere Maurizio Balocchi e l’ex sottosegretario Stefano Stefani, investono in un villaggio turistico in Croazia che si rivela un flop e finiscono diritti dentro un’inchiesta per bancarotta fraudolenta. Fanno peggio quando cercano di diventare banchieri. S’inventano la Credieuronord, un piccolo istituto di credito messo su nel 2000. Primo nome: Credinord. "Ci hanno fatto cambiare nome, pazienza se ci è toccato mettere di mezzo l’euro, l’importante è che sarà una grande banca", dichiara un Bossi pieno di speranza. Poi comincia una struggente campagna di proselitismo, che chiede ai militanti leghisti di mettere mano al portafoglio per contribuire al successo della nuova "banca padana". Vengono aperti un paio di sportelli a Milano e uno a Treviso, ma dura poco. Fidi importanti vengono concessi, senza troppe garanzie, a pochi clienti eccellenti, tra cui la moglie dell’ex calciatore Franco Baresi. Finanziamenti facili sono concessi alla Bingo.net del tesoriere della Lega Maurizio Balocchi. In breve: Credieuronord collassa. E conquista il record di essere l’unica banca al mondo che in soli tre anni riesce a perdere quasi per intero il capitale sociale. Le azioni pagate 25 euro l’una alla fine dell’avventura crollano a 2,16 euro. Bruciati oltre 10 milioni. I capi leghisti rischiano, con la bancarotta, di rimetterci la faccia e magari anche i patrimoni. Ma arriva il salvatore: Gianpiero Fiorani. Dieci anni prima era stata la sua Banca popolare di Lodi a concedere alla Lega il mutuo che aveva permesso al partito di comprare la sede di via Bellerio a Milano. Nel 2004, con la regia del governatore di Bankitalia Antonio Fazio, compra Credieuronord e annega i debiti della banchetta leghista nell’accogliente pancia della Popolare di Lodi. Erano clienti di Credieuronord, nonché leghisti convinti e sostenitori di Bossi, anche i fratelli Angelino e Caterino Borra, grandi collezionisti di armi, ritrovate in enormi e misteriosi capannoni in provincia di Pavia. I Borra sono i proprietari della storica Radio 101, l’ex Radio Milano International, one-o-one: la loro emittente precipita nel buco nero di un crac. Aggravato dal fatto che, per tentare di far quadrare i conti, Caterino Borra e la sua compagna Carmen Gocini, curatrice fallimentare per il Tribunale di Milano, sottraggono 35 milioni di euro alle aziende affidate dal Tribunale a Gocini e li riciclano in parte proprio attraverso la banca della Lega.

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Brutte storie, le storie di soldi delle Lega. Del Carroccio sappiamo quasi tutto, storia, politica, ideologia, passioni, intemperanze... Le sue finanze restano però un oggetto in gran parte misterioso. Su questo sfondo opaco, non è dunque così strano che possano attecchire le leggende di patti segreti che legano per la vita il Silvio e l’Umberto. "Cose da matti, invenzioni fantasiose": parola di Bossi.

Da il Fatto Quotidiano dell'1 aprile

Pubblicato il 1/4/2010 alle 14.30 nella rubrica Primo Piano. Permalink: http://antefatto.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=2465169

Documento Vito Ciancimino, Dell'Utri sarebbe stato condannato a Palermo

Scritto da Adnkronos Giovedì 01 Aprile 2010 09:44

Palermo, 31 mar. - (Adnkronos) - La grafia e' a tratti incerta, ma il contenuto e' pesante. Il foglio di carta e' formato A4 e per scrivere don Vito Ciancimino , l'ex sindaco di Palermo, condannato per mafia e morto nel novembre del 2002, uso' una matita. E' solo uno degli ultimi documenti consegnati dal figlio Massimo Ciancimino, che da mesi racconta i particolari della presunta 'trattativa' tra Stato e Cosa nostra dopo le stragi del '92, ai magistrati di Palermo, che adesso l'hanno depositato al processo a carico del generale Mario Mori. Don Vito, nel manoscritto, si riferisce a un vecchio procedimento penale a carico del senatore Marcello Dell'Utri che si celebro' a Milano negli anni Ottanta e in cui il politico venne assolto. "Se il processo lo avesse fatto Falcone e lo avesse celebrato il giudice Ingargiola (lo stesso che assolse in primo grado Giulio Andreotti per associazione mafiosa ndr), sarebbe stato condannato". L'ex sindaco lamenta un trattamento diverso, invece, a suo carico. Per questo scrisse il foglio a matita che adesso e' agli atti del processo Mori , accusato di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nell'85. Fonte Libero-news.it http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=2715:documento-vito-ciancimino-dellutri-sarebbe-stato-condannato-a-palermo&catid=20:altri-documenti&Itemid=43

“A Massimo Ciancimino l’ammazza lo Stato, non la mafia”

Scritto da Andrea Cottone Giovedì 01 Aprile 2010 09:00

C’è un’intercettazione captata dai carabinieri degli avvocati Gianni Lapis e Giovanna Livreri che parlano al telefono il 17 gennaio 2009 entrata agli atti del

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processo al generale Mori in cui si sente la donna dire, a proposito di Massimo Ciancimino, che “mica lo fa fuori la mafia, là lo fa fuori lo Stato”. Gianni Lapis è stato condannato in appello a 5 anni con Ciancimino jr per intestazione fittizia di beni. Il 15 gennaio 2009 Massimo Ciancimino sarebbe dovuto essere sentito nel processo a Gianni Lapis per favoreggiamento proprio della Livreri per la produzione di un documento ritenuto falso agli atti. Nell’intercettazione i due parlano di Massimo Ciancimino e della sua deposizione a un processo che slitta per la sua assenza da Palermo. Nasce una questione sicurezza in merito a Ciancimino jr. “Se poi veramente gli fanno… gli sparano… gli fanno l’attentato chi si assume la responsabilità” dice Lapis. “Eh, ma mi pare ovvio – risponde la sua collega – d’altro canto è un rischio troppo grosso questo…”. “Secondo me… siccome il rischio è effettivo e loro (i magistrati, ndr) l’hanno visto…” chiude Lapis. A questo punto la Livreri dice: “questo ragazzo (Massimo Ciancimino, ndr) può… può anche sapere meno di quello che altri immaginano che sappia perché sai… visto che comincia a parlare ci possono essere tante persone in giro che pensano che questo sappia tante cose…”. Lapis intercala: “ma lui ha… ma lui ha il papello del padre se lo… porta veramente… qua succede che fa saltare tutti”. “Ma infatti, infatti – risponde la Livreri – la c’è tutto cioè là ci sono pure le connivenze con lo Stato quindi è chiaro che lo possano…”. “Ma si parla di mafiosi…” dice Lapis e la sua collega ribatte: “ma là mica lo fa fuori la mafia, là lo fa fuori lo Stato”. Andrea Cottone (Fonte LiveSicilia.it)

http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=2714:a-massimo-ciancimino-lammazza-lo-stato-non-la-mafia&catid=20:altri-documenti&Itemid=43

Legittimo firmamento Marco Travaglio

Le leggi vergogna si dividono in due categorie: quelle che servono a B. e le altre. Riconoscerle è facilissimo: quelle che servono a B., cioè le più incostituzionali, Napolitano le firma all’istante; le altre, quelle un po’ meno incostituzionali, no. Così B. vince sempre e gl’italiani mai. Un anno fa il presidente anticipò addirittura al Consiglio dei ministri riunito d’urgenza che non avrebbe firmato il decreto contro Eluana, raro caso di legge vergogna che non riguardava B. Così il premier fece bella figura col Vaticano, il Quirinale fece bella figura con gli italiani, e la bottega di Arcore non subì danno alcuno. Ieri il capo dello Stato, a quattro anni dalla sua elezione, ha rispedito al mittente la sua prima legge: il ddl sul lavoro (Repubblica l’aveva anticipato il 15 marzo, subendo una furibonda e incredibile smentita del Quirinale). E non perché lo ritenga "palesemente incostituzionale", come i corazzieri della penna sono soliti interpretare l’art. 74 della Costituzione per dar sempre ragione al presidente firmaiolo. Ma semplicemente perché non gli piace: parla di

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"estrema eterogeneità, complessità e problematicità di alcune disposizioni". Dunque, come abbiamo sempre sostenuto, il Colle può respingere alle Camere le leggi che non condivide. E, se non l’ha mai fatto fino a ieri, vuol dire che condivideva delizie come il mega-indulto esteso ai colletti bianchi (2006), il decreto Mastella per bruciare i dossier Telecom (2007), le leggi razziali del pacchetto sicurezza e il lodo Alfano (2008), lo scudo fiscale (2009) e il decreto salva-liste (2010). O almeno non le riteneva viziate da "problematicità" alcuna. Il che è curioso, ma perfettamente legittimo. Purché non ci venga a raccontare che era obbligato a promulgarle perché "non manifestamente incostituzionali" o perché "se non le firmo la prima volta me le rimandano uguali e devo firmarle la seconda". Ieri infatti il governo ha annunciato che "modificherà il ddl sul lavoro tenendo conto delle osservazioni del Quirinale": prima di arrivare allo scontro frontale con Napolitano riscrivendo tale e quale una legge appena respinta, B. ci pensa due volte. Forse, se il presidente avesse respinto pure il lodo e/o lo scudo, oggi non avremmo un premier corruttore impunito né uno Stato che ricicla denaro sporco. A pensar male si fa peccato ma spesso ci s’azzecca: non vorremmo che il capo dello Stato avesse dato un contentino ai critici respingendo una legge che non riguarda B., e ora si preparasse a promulgare tranquillamente quella molto più indecente che salva B. dai processi: il "legittimo impedimento" varato a metà marzo e ancora appeso al Quirinale causa elezioni. Perché questa non è solo una legge che può piacere o meno per motivi di eterogeneità, complessità e problematicità. E’ certamente e palesemente incostituzionale. Lo dicono presidenti emeriti della Consulta come Valerio Onida. Lo ammette l’onorevole difensore del premier Pietro Longo: "Il legittimo impedimento finisce alla Corte". E l’ha già detto in due sentenze la Consulta. Nel 2001, pronunciandosi sugli impedimenti di Previti , affermò che “l’esigenza di celebrare i processi in tempi ragionevoli e quella di assicurare un corretto assolvimento dei compiti istituzionali hanno pari rango costituzionale” e spetta al giudice, non certo all’imputato, assicurare un giusto bilanciamento fra le due istanze. Nel 2008, fulminando il lodo, definì "irragionevole e sproporzionata" la "presunzione legale assoluta di legittimo impedimento" dovuta esclusivamente dalla carica ricoperta: gli impedimenti per le alte cariche valgono "solo per lo stretto necessario", "senza alcun meccanismo automatico e generale"; e cassò la norma immunitaria fatta con legge ordinaria. Ora, il legittimo impedimento per il premier e i ministri è automatico per ben 18 mesi ed è stato imposto con legge ordinaria. Quindi ora Napolitano smentirà i malpensanti e, dopo la legge sul lavoro, boccerà a maggior ragione anche quello. O no? Da il Fatto Quotidiano dell'1 marzo Pubblicato il 1/4/2010 alle 17.42 nella rubrica Giustizia&Impunità. Permalink: http://antefatto.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=2465278

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Intercettazioni: così il Fatto si opporrà al bavaglio Peter Gomez "Zitti tutti" nel Paese della corruzione record Dunque ci siamo. Il grande bavaglio alla stampa è pronto. Tra due settimane, dopo le formalità di rito, il Senato licenzierà il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni telefoniche. Da un giorno all’altro sui giornali, sulle tv e sul web, non sarà più possibile raccontare le malefatte delle classi dirigenti di un Paese in cui la corruzione, secondo la Banca Mondiale e la Corte dei Conti, costa ai contribuenti più di 50 miliardi di euro l’anno. Nel giugno scorso, forse per evitare che anche in Italia venisse creata la categoria dei desparecidos, la maggioranza ha modificato il testo originale e ha consentito che almeno il riassunto delle ordinanze di custodia cautelare e degli atti non più coperti da segreto possa essere dato alle stampe. In questo modo, per lo meno, si potrà scrivere che chi non c’è più non è vittima di un sequestro o di una lupara bianca, ma che è finito in galera perché accusato di qualche reato. Ma se il cronista dovesse citare qualche frase tratta testualmente da quei documenti, o peggio ancora, le trascrizioni delle intercettazioni, sarà punito. E la punizione, durissima, scatterà persino se in pagina dovessero finire i semplici riassunti dei colloqui telefonici. Infatti di quello che gli indagati si dicono tra loro, Silvio Berlusconi e i suoi (ma una norma analoga era stata votata già dal centrosinistra nel 2007) non vogliono che si sappia nulla. La legge sul punto è categorica. Anche se le intercettazioni fossero riportate, come accade nel 90%, in ordinanze di custodia o di sequestro, il giornalista deve far finta che non esistano. Senza scomodare casi celebri come quello dei Furbetti del Quartierino - in cui gli italiani scoprirono che l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio non era un arbitro imparziale proprio leggendo le intercettazioni - basta pensare che cosa accadrà nelle indagini per droga. Una microspia capta due mafiosi mentre trattano una partita di 100 chili di eroina. I due sono molto abili. La polizia non riesce a documentare lo scambio, ma li sente parlare delle consegne già effettuate e dei soldi da pagare. Scatta l’arresto. I giornali scrivono che sono finiti in prigione, che rispondono di traffico di stupefacenti, ma non possono dire quali prove l’accusa ritiene di avere. Riflettete allora su un caso concreto di corruzione del Terzo millennio. La storia dell’ex braccio destro di Guido Bertolaso, Angelo Balducci. Tutta l’inchiesta si basa su intercettazioni che, per i pm, dimostrano come l’alto funzionario favorisse alcune imprese legate a doppio filo alla politica. Non c’è un solo testimone. Non c’è una sola gola profonda. Quindi non c’è niente che possa essere riassunto e raccontato. Quando Balducci viene arrestato i suoi sponsor e quelli del suo ex capo Bertolaso (il premier Berlusconi) si mettono così a urlare. Dicono che siamo di fronte a un complotto delle toghe. Nessuno, carte alla mano, avrà modo di sostenere il contrario. Se poi l’indagine dovesse riguardare uno stretto collaboratore del presidente del Consiglio (per esempio Marcello Dell’Utri che si accorda per

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telefono per incontrare due presunti 'ndranghetisti) allora il fuoco di fila, amplificato dalle tv, sarà davvero impressionante. Col risultato che tutti, a partire dagli investigatori, di fronte a episodi del genere faranno semplicemente finta che non esistono. Certo, chi scrive, a suo tempo si è già impegnato con molti altri colleghi a disobbedire a queste norme. La notizia, se è tale, viene prima di tutto. La prospettiva di pagare forti sanzioni pecuniarie (vedi box sotto) per raccontare che, subito dopo il terremoto de L’Aquila, due imprenditori già ridevano pensando agli affari futuri, non ci spaventa. Faremo una colletta. E non ci spaventa nemmeno il rischio di finire in carcere. Chi infatti pubblica intercettazioni non trascritte perché considerate non penalmente rilevanti (ma importanti politicamente o moralmente) verrà punito con la reclusione fino a tre anni. Insomma bastano tre articoli per finire in carcere. Il problema è che i nostri parlamentari - tra i quali, è bene ricordarlo, siedono una novantina tra indagati, condannati o salvati da prescrizione e amnistia - questa volta l’hanno pensata bene. Da una parte l’autore dello scoop dovrà finire davanti all’ordine dei giornalisti. Dall’altra a pagare (fino a circa mezzo milione di euro) sarà il suo editore. Conseguenza: se "Il Giornale" si ritrova in mano, come è accaduto nel 2006, l’intercettazione non trascritta in cui Piero Fassino dice a Giovanni Consorte "allora siamo padroni di una banca" la pubblicherà (giustamente) sempre. Anche perché Fassino è un avversario della ricchissima famiglia Berlusconi, disposta a pagare qualsiasi cifra, visto che le elezioni sono alle porte. E lo stesso potrebbe fare "Libero" di proprietà dei facoltosi Angelucci o, a parti invertite, "Repubblica". Insomma chi se lo può permettere farà scrivere, quando conviene, articoli solo contro i “nemici” politici o economici e considererà la multa come una investimento. Il giornalismo si trasformerà così definitivamente in una guerra per bande in cui il contenuti dei giornali non vengono decisi dai direttori, ma dagli editori. Cosa farà allora "Il Fatto Quotidiano"? Semplice: quando avremo una notizia importante sarà disubbidienza civile. Di fronte alla censura violeremo la legge e lo diremo. Per poi ricorrere alla Corte Costituzionale e alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel 2007 Strasburgo ha infatti condannato la Francia per violazione della libertà di espressione. A Parigi due giornalisti erano stati puniti per aver scritto un libro in cui si raccontava il sistema di intercettazioni illegali messo in piedi dall’ex presidente Mitterand. Per la corte avevano sì violato il segreto istruttorio, ma vista la portata della notizia l’interesse dei cittadini a sapere era da considerare preminente. E qualcosa di analogo accade nel 1971 negli Usa. Due giornali pubblicarono documenti coperti da segreto di Stato che dimostravano come il celebre incidente del Tonchino in seguito al quale, di fatto, comiciò la guerra del Vietnam fosse un falso. Allora la Corte Suprema disse che avevano tutto il diritto di farlo. Perché, spiegò l’ottuagenario giudice Hugo Black, “la stampa (dal punto di vista dei Padri fondatori) deve servire ai governati non ai governanti. Il potere del governo di censurare la stampa è stato abolito perché la stampa rimanesse per sempre libera di censurare il governo”. Così oggi, in Italia, attendiamo anche noi un Hugo Black che spieghi a tutti come stanno le cose.

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Da il Fatto Quotidiano dell'1 aprile Pubblicato il 1/4/2010 alle 10.14 nella rubrica Media&Regime.

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"Minzolini minaccia e oscura chi protesta"

Loris Mazzetti, dirigente di RaiTre appena sospeso dal suo incarico a causa di articoli critici verso la sua azienda scritti sul Fatto, ha le idee chiare sui motivi per cui Augusto Minzolini ha allontanato dal video alcuni dei conduttori storici del Tg1: "Sono epurazioni". Mazzetti, il direttore Minzolini parla di esigenze di "ricambio generazionale". Non è affatto vero. Infatti sono stati cacciati i giornalisti che non hanno firmato la lettera di sostegno al direttore e che hanno fatto resistenza al suo modo di gestire il giornale. Il primo a ricevere il benservito, dopo 18 anni al Tg1, è stato il caporedattore

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centrale al coordinamento Massimo De Strobel. E poi è toccato a Paolo Di Giannantonio, Piero Damosso e Tiziana Ferrario . E’ la conseguenza del risultato elettorale, che ha rafforzato i vertici aziendali e i suoi derivati, affermando il potere di Minzolini. Cosa può fare un conduttore, a parte appellarsi al comitato di redazione, per manifestare il proprio dissenso rispetto alla linea del direttore? Una sola cosa: rifiutarsi di andare in onda, come fece Lilli Gruber ai tempi di Clemente Mimun. Oggi non è più il conduttore a scrivere i propri testi, si limita a leggerli. Quindi, se vuole protestare, questa è la strada. Però, come si è visto, chi protesta perde il posto. C’è di più: so per certo, perché mi è stato raccontato dai diretti interessati, che Minzolini ha minacciato personalmente i giornalisti che esitavano nel firmare la lettera di sostegno alla sua direzione. Intervistato dal Fatto su questo punto, però, Minzolini ha negato. A me è stato riferito di frasi gravi dette dal direttore, ad esempio: "Se non firmi con me non farai più un cazzo". E visto quello che sta accadendo... Quindi l’unica alternativa all’epurazione, per un conduttore, è farsi da parte spontaneamente? Anche se non è giusto, è l’unica strada: è così che si crea un movimento di protesta e che si arriva alla consapevolezza del problema. Ma non rientra nei diritti di Minzolini scegliersi i conduttori che preferisce? I cambiamenti devono andare di pari passo con le scelte editoriali. Non possono essere giustificati con motivazioni estetiche. In più i tg sono forse gli unici spazi in cui l’anzianità del conduttore ha un suo valore, perché implica esperienza. E credibilità, o almeno familiarità per lo spettatore. Certo. La stessa notizia, data da Enzo Biagi o da un giornalista praticante, ha un impatto diverso sul pubblico. Basta guardare i grandi tg americani: i conduttori sono autorevoli, conosciuti dal pubblico, volti noti la cui professionalità non è mai stata messa in discussione. Quali sono le conseguenze di lungo periodo? La cosa grave è che parliamo del più importante tg del servizio pubblico: i giornalisti dovrebbero essere indipendenti. Invece così si crea una corte silenziosa e accondiscendente. Chi protesta, se ne va. Mazzetti, l’ultima volta che l’abbiamo vista (a Raiperunanotte, ndr), era dietro un filo spinato. Come vanno le cose ora? Ci sono ancora. E ci rimarrò finché un giudice non deciderà se sono io a danneggiare la Rai oppure è il direttore generale Mauro Masi. Ho già scontato 4 giornate di sospensione, me ne mancano altre 6. Da il Fatto Quoridiano dell'1 aprile

Pubblicato il 1/4/2010 alle 11.20 nella rubrica Media&Regime. Permalink: http://antefatto.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=2465057