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1 Il diritto di Privatizzazione della guerra nel diritto internazionale e comunitario di Mauro Romani La grande crescita del settore militare privato si è verificata nel momento in cui, al vuoto di sicurezza creatosi negli anni Novanta, si è combinata l’estensione del mercato e dei suoi meccanismi a tutti i campi della vita sociale. Funzioni storicamente gestite dal settore pubblico sono state privatizzate in blocco, mentre le logiche dell’organizzazione aziendale gerarchica e della “multinazionalizzazione” hanno stravolto e soppiantato le vecchie strutture impresariali. Attualmente, qualsiasi grande azienda che aspiri a essere competitiva in qualunque settore, deve necessariamente avere una certa consistenza finanziaria (ovvero deve essere quotata in borsa), una struttura gerarchica complessa ma allo stesso tempo dinamica, agire in un’ottica globale piuttosto che nazionale per sfruttare i vantaggi offerti dall’apertura dei mercati internazionali. Ai fini del nostro discorso, è molto interessante notare come tutti questi elementi contraddistinguano opinioni e valori della vita. Di fatto, la new economy globale è stata decisiva nel forgiare l’aspetto dell’industria militare privata. Innanzitutto, va sottolineato come, negli ultimi anni, il tasso di crescita delle Private Mimitary Companies (PMC) quotate in borsa abbia raggiunto livelli impressionanti. Si stima che le compagnie quotate sul mercato pubblico abbiano sperimentato, negli anni Novanta, un ritmo di crescita doppio rispetto al tasso medio del Down Jones. La Cubic Corporation, ad esempio, ha visto incrementare di tre volte il suo valore in Borsa tra il 2002 e il 2003. Si tratta di un dato che non stupisce più di tanto, per il semplice fatto che gli operatori finanziari non potevano ignorare il grande sviluppo che ha accompagnato il settore della sicurezza privata in questi anni. D’altro canto, il boom finanziario, quindi virtuale, è stato accompagnato dalla crescita esponenziale dei profitti reali delle PMC; tanto per

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Il diritto di Privatizzazione della guerra nel diritto internazionale e comunitario

di Mauro Romani

La grande crescita del settore militare privato si è verificata nel momento in cui, al

vuoto di sicurezza creatosi negli anni Novanta, si è combinata l’estensione del

mercato e dei suoi meccanismi a tutti i campi della vita sociale. Funzioni

storicamente gestite dal settore pubblico sono state privatizzate in blocco, mentre le

logiche dell’organizzazione aziendale gerarchica e della “multinazionalizzazione”

hanno stravolto e soppiantato le vecchie strutture impresariali. Attualmente, qualsiasi

grande azienda che aspiri a essere competitiva in qualunque settore, deve

necessariamente avere una certa consistenza finanziaria (ovvero deve essere quotata

in borsa), una struttura gerarchica complessa ma allo stesso tempo dinamica, agire in

un’ottica globale piuttosto che nazionale per sfruttare i vantaggi offerti dall’apertura

dei mercati internazionali. Ai fini del nostro discorso, è molto interessante notare

come tutti questi elementi contraddistinguano opinioni e valori della vita.

Di fatto, la new economy globale è stata decisiva nel forgiare l’aspetto dell’industria

militare privata. Innanzitutto, va sottolineato come, negli ultimi anni, il tasso di

crescita delle Private Mimitary Companies (PMC) quotate in borsa abbia raggiunto

livelli impressionanti. Si stima che le compagnie quotate sul mercato pubblico

abbiano sperimentato, negli anni Novanta, un ritmo di crescita doppio rispetto al

tasso medio del Down Jones. La Cubic Corporation, ad esempio, ha visto

incrementare di tre volte il suo valore in Borsa tra il 2002 e il 2003. Si tratta di un

dato che non stupisce più di tanto, per il semplice fatto che gli operatori finanziari

non potevano ignorare il grande sviluppo che ha accompagnato il settore della

sicurezza privata in questi anni. D’altro canto, il boom finanziario, quindi virtuale, è

stato accompagnato dalla crescita esponenziale dei profitti reali delle PMC; tanto per

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fare un esempio, la DynCorp ha visto aumentare le proprie entrate del 18% nel solo

2002, prima, cioè, che gli Stati Uniti invadessero l’Iraq, e l’industria militare privata

nel suo complesso potrebbe quadruplicare gli introiti nei prossimi vent’anni.

Parallelamente, si è andata sempre più materializzando la tendenza alla fusione

finanziaria, la quale fa si che nascano agglomerati centrali attorno ai quali ruotano

vere e proprie galassie di aziende specializzate. Le acquisizioni non riguardano solo

le grandi multinazionali che decidono di acquisire PMC. Come conseguenza di ciò,

possiamo dire che, attualmente, il settore si configura come un oligopolio, con un

numero relativamente piccolo di grandi imprese-rete che, anche grazie ai legami

politici che intrattengono, soddisfano gran parte della domanda di servizi militari,

controllando, in pratica, la totalità del mercato azionario.

Un altro aspetto che oggi caratterizza l’industria militare privata, è costituito dal fatto

che molte aziende, per lo meno le più importanti, operano come compagnie virtuali.

Al pari di ciò che avviene in altri settori, in cui esistono imprese che procurano lavoro

temporaneo, le aziende mirano ad avere la struttura più leggera e dinamica possibile,

limitando al minimo necessario il numero di dipendenti permanenti. Di solito, le

compagnie creano un database di personale qualificato e sub-fornitori da reperire a

seconda del tipo di intervento da svolgere e del contesto geografico in cui si

interviene. Il vantaggio di contratti del genere è chiaro, in quanto permettono alle

compagnie di abbassare considerevolmente i costi fissi, di rispondere in modo

estremamente rapido alle richieste e di ampliare il proprio raggio d’azione. Lo stesso

discorso vale per le armi di cui vengono dotati i dipendenti: solitamente queste non

vengono acquistate dall’impresa, bensì reperite e affittate nel mercato internazionale.

Anche da questo punto di vista, dunque, l’industria militare privata si avvicina molto

alle tendenze generali dell’economia mondiale, basata sempre più su un capitale

“volatile” e caratterizzata da un processo produttivo dinamico e flessibile, ispirato al

modello giapponese del just in time.

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Infine, un’ultima considerazione va fatta riguardo alla configurazione dell’industria

nel suo complesso. Rispetto ad altri, quello militare privato non è un settore ad alta

intensità di capitale. La dotazione necessaria per avviare e far funzionare una

compagnia medio-piccola è tutt’altro che inarrivabile: c’è bisogno di un investimento

economico modico e di un capitale intellettuale di buon livello, cosa non difficile da

ottenere, visto che, come si è detto, non ci vuole molto a convincere militari o ex

militari a lavorare per una PMC. Di conseguenza, le barriere all’entrata sono

relativamente basse, il che favorisce la crescita di questo comparto. In conclusione, è

difficile dire con precisione quante siano le PMC attive in questo momento.

Come può succedere questo?

Proprio perché le barriere all’entrata sono basse e specialmente nell'ambito

comunitario senza barriere, in questo settore più che in altri, è fondamentale la

reputazione che la singola impresa riesce a guadagnarsi. Ci sono vari modi attraverso

i quali le compagnie cercano di raggiungere quest’obiettivo. Prima di tutto, il fatto di

poter contare su personale proveniente in larga misura da eserciti contribuisce

implicitamente allo scopo, visto che fa aumentare la credibilità delle PMC, e di

conseguenza la fiducia nelle loro azioni. In secondo luogo, bisogna ricordare che

diverse PMC, soprattutto quelle che offrono servizi di supporto, sono nate come

compagnie civili, per cui, nel momento in cui si sono inserite nell’ambito militare,

potevano già contare sul sostegno dei governi e delle istituzioni pubbliche dei quali

erano stati fornitori.

Tuttavia, in un mercato dominato dalla logica dei grandi marchi, l’unica strada

percorribile per le PMC, al fine di essere percepite come legittime dall’opinione

pubblica, consiste nel mettere in atto strategie di comunicazione e pubblicità, al pari

di qualsiasi altra impresa. Nel farlo, la grande maggioranza delle PMC cerca,

comprensibilmente, di prendere il più possibile le distanze dal campo militare per

avvicinarsi a quello civile. Questo spiega perché, molto spesso, le aziende si

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autodefiniscano private security companies e tendano a pubblicizzare soltanto le loro

attività più trasparenti. Lo fanno attraverso gli strumenti tipici del marketing:

stampando volantini informativi e brochure e comprando spazi pubblicitari sui mezzi

di comunicazione. Al loro interno, difficilmente vedremo pubblicizzati interventi che

non siano svolti per conto di clienti “legittimi”, come OIG e ONG, istituzioni

pubbliche e governi occidentali. Lo stesso discorso vale per gli annunci di lavoro, che

non somigliano per nulla a un arruolamento di soldati, quanto piuttosto alla richiesta

di impiegati qualsiasi. Comunque sia, lo strumento comunicativo cui le PMC affidano

gran parte dei loro sforzi per darsi un’immagine normale e legittimarsi è Internet.

Questo mezzo appare spesso una sorta di biglietto da visita delle aziende. Può essere

utile e interessante, dunque, analizzare in breve le pagine on-line di alcune PMC.

La prima è Booz Allen Hamilton (BAH), una compagnia americana fondata nel 1914.

Si tratta di una delle maggiori PMC nell’ambito delle consulenze militari. Ci sono

due elementi che colpiscono in modo particolare quando si accede alla sua pagina

web (www.boozallen.com). Innanzitutto, la vastità delle informazioni e dei

collegamenti che vengono messi a disposizione: fanno invidia alle più grandi

multinazionali! In secondo luogo, l’immagine che viene fornita si avvicina molto a

quella di una qualsiasi azienda del comparto civile. Né è un esempio lampante

l’iconografia scelta per la home-page, che cerca di lanciare un’immagine legata al

business, ma allo stesso tempo rassicurante. In primo piano, si vedono degli uomini

in riunione, presumibilmente dirigenti, sovrastati dal viso di una donna che parla al

telefono. In sovrimpressione, uno slogan che suona più o meno così: “Strategie e

tecnologie di consulenza che forniscono risultati durevoli”. Tutti i vari link servono a

mettere in mostra i grandi risultati conseguiti dalla compagnia nei suoi quasi 100 anni

di storia e a far risaltare i vantaggi nel ricorrere a consulenze esterne, il cosiddetto

“outsourcing”. Alla voce “clients”, ad esempio, c’è scritto testualmente: “i clienti di

BAH sono le più grandi corporations del mondo, le compagnie emergenti, le agenzie

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governative e le istituzioni che aspirano a migliorare le loro organizzazioni e a

rendere il mondo migliore”. Quanto al raggio d’azione, poi, la compagnia cerca di

trasmettere tutta la sua globalità, dimostrando di non avere limiti: attualmente conta

circa 9.700 dipendenti che lavorano in circa 100 sedi in Europa, Asia, Africa,

Australia e America del Nord e del Sud. Anche in questo caso lo slogan è molto

rassicurante: “l’uomo giusto al posto giusto”.

Per quanto riguarda le attività che l’azienda svolge, c’è un’ampia sezione in cui

queste vengono descritte dettagliatamente: strategia, organizzazione e leadership,

operazioni, tecnologia informativa e gestione di tecnologie avanzate. Ciò che non

viene detto da nessuna parte è il contesto in cui queste attività vengono svolte. È

paradigmatico, poi, il fatto che ci siano molti riferimenti all’integrità morale, senso di

responsabilità sociale, disponibilità e fiducia verso il cliente: l’intero sito, d’altronde,

è infarcito di enfasi a proposito di un presunto senso etico dell’azienda e di tutti suoi

dipendenti. Come prova, alla voce “Community relations”, viene stilato un fitto

elenco delle collaborazioni che l’azienda intrattiene con organizzazioni a fini

benefici, dalla Società contro la leucemia e il linfoma all’America’s Charities, un ente

che riunisce diverse associazioni caritatevoli.

Il secondo caso riguarda la PMC CACI, già citata nel secondo capitolo in merito agli

scandali di Abu Ghraib. Il suo sito internet (www.caci.com) è più modesto quanto a

portata e contenuti, ma non per questo la sua analisi è meno interessante. A partire

dalla home-page, l’intento dell’azienda è quello di legare la propria immagine a due

concetti chiave: sicurezza e difesa. Questo compito è affidato a slogan come “CACI,

sempre vigili”, o frasi ad effetto del tipo: “Per CACI il sostegno alla sicurezza

nazionale americana, è molto più che semplici parole, è il nostro business”. Una

frase, quest’ultima, apparentemente banale ma che può aiutare ad approfondire la

caratteristica principale dell’azienda: questa PMC si connota in chiave fortemente

americana, il che vuol dire che i suoi clienti di riferimento sono le agenzie

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governative USA. Effettivamente, tra i principali clienti citati ci sono: U.S. Navy

Office of Naval Research, U.S. Naval Sea Systems Command, U.S. Navy Space and

Naval Warfare Systems Command, U.S. Air Force, U.S. Army Communications-

Electronics Command. Del resto, anche la scelta delle immagini va in questo senso,

visto che vi spiccano sempre una bandiera a stelle e strisce e un’aquila.

Il campo delle competenze svolte dall’impresa è vastissimo: guerra elettronica,

intelligence, sistemi di ingegneria, test e valutazioni, allenamento alla gestione delle

tecnologie, supporto logistico. Anche in questo caso, le attività svolte vengono

descritte nei minimi particolari, slegandole però dai campi d’azione. Di fatto, solo in

un punto si parla di servizi che vengono offerti in contesti militari. Esiste, inoltre, la

possibilità di accedere a un motore di ricerca interno al sito; se nel campo apposito

inseriamo le parole “Abu Ghraib”, la ricerca si rivela del tutto inutile. È una riprova

ulteriore del fatto che le pagine web delle PMC sono funzionali a creare una facciata

ordinaria e rassicurante agli occhi dei cittadini, per cui viene dato conto solo ed

esclusivamente delle attività accettabili secondo il senso comune.

È particolarmente importante segnalare il sito dell’ International Peace Operation

Association (www.ipoaonline.org), un’ associazione di categoria, una sorta di

confederazione industriale creata da alcune PMC. Il fatto che il nome scelto ruoti

attorno alla parola pace, colpisce e turba particolarmente, perché significa che queste

aziende non si preoccupano di nascondere le proprie attività, come nei casi

precedenti, ma al contrario le pubblicizzano. In pratica, è come se dicessero: le nostre

azioni sono perfettamente legittime perché siamo gli unici in grado di portare pace e

stabilità nel mondo. Il sito dedica molto spazio all’idea di elaborare un codice etico

per auto-regolamentare la propria condotta, dimostrando in questo modo la buona

volontà delle PMC. In realtà, si tratta di un elenco di parole che, pronunciate in

questo contesto, suonano vuote e superficiali: diritti umani, responsabilità, controllo,

sono principi impossibili da attuare senza volontà e strumenti politici adeguati.

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Vediamo, dunque, come l’unità di intenti delle PMC non si manifesti solo attraverso

forme di collaborazione sul campo, ma anche tramite la condivisione delle medesime

strategie comunicative. L’intenzione delle PMC, seppur velata, è abbastanza chiara:

una volta ottenuto, nella pratica, il consenso dell’emisfero politico che conta, quello

occidentale, si tratta ora di abbattere l’ultima barriera che impedisce loro di agire

indisturbate, quella dell’opinione pubblica.

Diverso, infine, è il caso del sito www.dangerzonejobs.com. Contrariamente a quelle

commentate in precedenza, questa pagina web non fa riferimento a nessuna PMC in

particolare; piuttosto, funziona come una sorta di “bacheca virtuale” che raccoglie

offerte e domande di lavoro per tutto il settore militare privato. È realmente

impressionante il numero altissimo di proposte di lavoro presenti, e soprattutto la

velocità con cui queste vengono aggiornate, di solito settimanalmente, a

testimonianza della continua necessità di ricambio che c’è in questo settore. Gli

impieghi riguardano tutte le attività militari descritte finora, potenzialmente in ogni

angolo del pianeta. Logicamente, sono i paesi più caldi, quelli ad alta conflittualità

interna, ad andare per la maggiore. Inutile dire che il contesto con maggiore bisogno

di “manodopera” attualmente è l’Iraq; seguono Afghanistan, Kuwait, Arabia Saudita,

Qatar ecc.

Le implicazioni

Per tracciare un bilancio conclusivo di questo fenomeno, dobbiamo necessariamente

tornare alle sue radici, ovvero alla distinzione tra settore pubblico e privato. Bisogna

chiedersi, cioè, per quale motivo, dalla nascita dello stato moderno in poi, l’area

militare sia sempre stata a dominio esclusivo degli stati. Riprendere e schematizzare i

principali problemi legati all’utilizzo di servizi privati, ci può certamente aiutare a

capire. Alla luce di quanto detto finora, possiamo individuare tre ordini di problemi:

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contrattuali, relativi, cioè, alle condizioni economiche degli accordi che vengono

stipulati, politici ed etico-morali.

Problemi contrattuali

La prima questione riguarda una situazione che si verifica ogni qualvolta si affida ad

estranei la gestione di qualcosa di importante per il committente. In qualsiasi tipo di

contratto, un cliente commissiona ad un agente un servizio in cambio di una

remunerazione, sperando, in questo modo, di ottenere il miglior servizio e il minor

costo possibili. Che queste aspettative vengano soddisfatte dipende da un serie di

variabili: professionalità dell’agente, contesto d’azione, fattori causali e

congiunturali. Esistono, però, due tipi di problemi che si manifestano sempre, a

prescindere dai casi, in quanto legati alla natura stessa dell’accordo.

Innanzitutto, così facendo, il cliente perde il controllo della situazione. In secondo

luogo, gli interessi delle due parti non possono mai coincidere esattamente, in quanto

queste sono guidate da fini e obiettivi diversi. Nel settore militare, questi rischi sono

molto elevati e le conseguenze possono essere particolarmente gravi, considerato che

le funzioni che vengono esternalizzate non sono solo importanti, bensì cruciali.

Vediamo, dunque di approfondire questi temi.

Come sappiamo, qualsiasi transazione all’interno del mercato di beni e servizi,

avviene in un contesto di informazione incompleta o inesistente, il che molte volte

può mettere a rischio le operazioni stesse. Questo è vero a maggior ragione in

presenza di privatizzazioni, quando il rischio che il cliente non disponga di tutte le

informazioni utili per valutare e sorvegliare le attività dell’agente è tutt’altro che

remoto. Per ovviare a questo problema, in quest’ambito più che in altri, è

indispensabile che esistano dei meccanismi di monitoraggio delle operazioni

dell’agente, che funzionino come garanzia e protezione nei confronti del cliente. In

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realtà i contratti con l’industria militare privata non soddisfano mai questa

condizione. I motivi sono diversi.

Innanzitutto, il modo in cui l’industria è strutturata. Come abbiamo detto prima, è un

settore in cui la competizione tra le imprese è molto limitata, per cui manca il

controllo tipico del libero mercato. Può succedere, quindi, che alcuni contratti

vengano assegnati in maniera assolutamente predeterminata, senza nessuna gara

d’appalto, logicamente a favore delle PMC connesse politicamente. Tutto questo a

scapito dell’efficienza, che tende a ridursi drasticamente: non è un mistero, infatti,

che il ricorso ai privati incrementa l’efficacia solo in un contesto di alta concorrenza.

In secondo luogo, i termini stessi dei contratti sono quasi sempre generici, in quanto

non prevedono misure che garantiscano l’efficacia del lavoro che le PMC sono tenute

a svolgere: di solito, sono le stesse compagnie a tenere informato il cliente riguardo

gli sviluppi della situazione.

In terzo luogo, esiste il problema ulteriore che coloro che si affidano alle PMC,

quindi i governi, le OIG, le OING, le multinazionali e le istituzioni pubbliche, non

dispongono di personale con le competenze necessarie per occuparsi della

supervisione, il che spiega, almeno in parte, com’è possibile che in molti casi le PMC

si siano allontanate dalle attività stabilite nei contratti senza ricevere alcuna sanzione.

Bisogna aggiungere, inoltre, il fatto che questi contratti hanno luogo in contesti

estremamente instabili e confusi, il che non aiuta certo la circolazione delle

informazioni e quindi la trasparenza circa le attività svolte.

Come conseguenza di tutti questi fattori, esiste sempre il rischio che il rapporto tra le

parti che stipulano l’accordo si sbilanci in favore delle PMC, che possono così

acquisire una posizione di vantaggio nei confronti del cliente, imponendogli delle

condizioni che questi non può rifiutare. Il vero pericolo della perdita di controllo,

dunque, consiste nel fatto che le aziende incrementano il loro potere a spese del

cliente. Si tratta di un rischio che, come si è detto, è presente in ogni tipo di contratto,

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ma che è molto più elevato nel caso in cui sono coinvolti clienti più poveri e dunque

“fragili”, come i governi dei paesi in via di sviluppo, che, non disponendo di nessun

contrappeso allo strapotere economico delle aziende, vengono asserviti, vedendo

talvolta addirittura minacciati i propri piani di sviluppo. A questo va aggiunto il fatto

che le PMC, quando operano per conto di governi del Terzo mondo, tendono a essere

molto meno affidabili rispetto a quando sono ingaggiate dai governi occidentali.

Questo ci ricollega al secondo problema principale, ovvero l’impossibilità di far

coincidere gli obiettivi delle due parti. In molti casi, i fini delle PMC non sono solo

diversi da quelli del cliente, ma in netto contrasto. Quest’ultimo, che si tratti di un

governo o di una ONG, ha come obiettivo il raggiungimento di un bene pubblico; le

PMC al contrario, in quanto aziende, agiscono per massimizzare i propri profitti,

senza nessun riguardo verso la collettività. Questa condizione, unita alla totale

mancanza di supervisione, porta spesso a situazioni particolarmente dannose.

Innanzitutto, le PMC possono incrementare i loro profitti a spese del cliente; se, ad

esempio, l’ammontare del contratto è stabilito in base al numero di dipendenti da

impiegare, le aziende possono ingaggiare un alto numero di soldati, facendone

lavorare solo una parte. Una situazione del genere si è verificata in Bosnia, dove il

40% del personale assunto dalla compagnia BRS non svolgeva nessuna delle attività

stabilite nel contratto.

In altri casi, un’azienda può sacrificare la migliore soluzione per limitare le spese;

come sappiamo, questa situazione non potrebbe mai verificarsi con gli eserciti statali,

che sono obbligati a scegliere la miglior soluzione in qualsiasi caso, a prescindere dai

costi. Tra i problemi principali c’è, inoltre, il fatto che l’industria militare privata è

legata in vario modo a multinazionali e altre entità commerciali, i cui interessi

possono influenzare negativamente le decisioni militari. Può dunque succedere che le

PMC, piuttosto che contribuire alla soluzione dei conflitti in cui sono impegnati,

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operino per farli continuare, quando questo significa riempire le tasche delle aziende

associate e dunque le proprie.

L’argomentazione che i dirigenti del settore portano per rispondere a queste accuse è

che i principali danneggiati in caso di mancato adempimento degli obblighi stabiliti

nei contratti, sarebbero le compagnie stesse, che vedrebbero rovinata la propria

reputazione, e di conseguenza i profitti a lungo termine. Per quanto verosimile, questa

affermazione viene completamente smentita dalla realtà dei fatti. La compagnia Sky

Air, ad esempio, non ha avuto nessun problema nel lavorare per entrambe le parti del

conflitto in Sierra Leone. Da un lato, vendeva armi ai ribelli, dall’altro forniva

supporto aereo al governo per aiutarlo a scacciare gli stessi ribelli dal paese.

Per non parlare, poi, dell’enorme danno economico che suppone, per i governi, il

fatto di spendere tempo e denaro per addestrare ufficiali e membri delle forze

speciali, per poi vederli improvvisamente passare al settore privato. È stato calcolato

che per formare un berretto verde sono necessari 18 mesi di addestramento, per un

costo totale di 257.000 dollari. In pratica, è come se lo Stato pagasse le PMC due

volte: da un lato con i soldi che vengono stanziati per i contratti, dall’altro con quello

speso per addestrare le truppe.

Infine, esiste un ultimo problema, non legato alla struttura dell’industria, quanto

piuttosto alla natura dei suoi dipendenti. Succede, cioè, che anche se l’azienda

rispetta i termini del contratto, i suoi dipendenti non sono obbligati ad essere leali

verso la fazione che servono e possono quindi abbandonare i propri compiti. Questo

perché, come sappiamo, non esistono legami patriottici, né leggi che regolano la

condotta dei soldati a contratto sui campi di battaglia. Se uno di loro decide di non

fare quello per cui è stato pagato, magari perché giudica la situazione troppo

pericolosa, rischia al massimo di essere licenziato dalla propria azienda, mentre i

militari degli eserciti regolari, in una situazione analoga, potrebbero essere

condannati per diserzione.

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Da quanto detto finora, emerge una condizione tutt’altro che rassicurante per coloro

che si affidano alle PMC. Nella maggior parte dei casi, queste possono decidere, per

ragioni di convenienza, di non svolgere il loro compito al meglio, e il cliente,

subordinato e senza alcuno strumento di controllo, è costretto a fare affidamento sulla

buona fede e su una improbabile volontà di disciplina dell’agente. In conclusione, si

può dire che un contratto con l’industria militare privata spesso non garantisce il

massimo dell’efficienza, e non è affatto automatico che faccia risparmiare denaro.

Problemi politici

Il secondo ordine di problemi riguarda la dimensione politico-istituzionale. L’avvento

del privato nella gestione dei servizi militari in molti stati ha avuto come risultato

quello di destabilizzare il settore pubblico. Questo perché, nel momento in cui i

confini tra pubblico e privato si sono fatti via via più sfumati e indefiniti, è venuto

meno l’equilibrio tra autorità pubblica e apparato militare, che in qualsiasi Stato

moderno costituisce un presupposto fondamentale per la stabilità politica. Le

conseguenze di questa perturbazione istituzionale, sono state diverse a seconda del

grado di sviluppo dei sistemi politici interessati; bisogna, quindi, distinguere tra paesi

occidentali e paesi in via di Sviluppo.

Nei sistemi politici caratterizzati dalla presenza di democrazie instabili o in via di

formazione, l’ingresso dell’industria militare privata, ha portato a esiti

particolarmente gravi. In più di un caso, il logoramento delle relazioni tra potere

civile e potere militare, è sfociato in rivolte e scontri armati. Questo perché, molte

volte, l’introduzione di una forza armata parallela e staccata dalle linee di comando

degli eserciti statali, causa risentimento nelle forze locali. Succede soprattutto quando

le PMC ingaggiate appartengono ai settori della consulenza e della fornitura di servizi

da combattimento. Le ragioni sono diverse. Per prima cosa, i soldati a contratto

percepiscono salari molto più alti rispetto ai militari locali, nonostante svolgano gli

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stessi compiti. Per esempio, i salari dei dipendenti di Executive Outcomes erano di

cinque volte maggiori rispetto a quelli dei dipendenti dell’esercito sudafricano e dieci

volte più alti di quelli che venivano percepiti mediamente dai militari dei paesi in cui

l’azienda veniva ingaggiata. In secondo luogo, agli ufficiali delle PMC sono riservate

le posizioni di comando, di modo che viene scavalcata completamente l’usuale catena

gerarchica, e sia impossibile, per gli ufficiali locali, ottenere promozioni e gratifiche.

In terzo luogo, viene minacciato il prestigio delle forze locali, in quanto l’assunzione

di servizi privati esterni, viene vista come una mancanza di fiducia da parte dei

governi nei confronti dei propri eserciti. Questi elementi fanno si che gli eserciti

vedano minacciata non solo la propria autonomia in campo militare, ma il loro stesso

ruolo all’interno dell’ordine sociale, per cui possono mettere in atto forme di rivolta

armata contro i governi e contro le stesse PMC. Una situazione del genere si è

verificata sempre in Sierra Leone nel 1997: nel momento in cui Executive Outcomes

era uscita dal paese, in quanto aveva ultimato i propri compiti, il governo si è

ritrovato senza la sua protezione ed è stato rovesciato dall’esercito, che nel frattempo

si era alleato coi ribelli. Per motivi identici, la stessa Executive Outcomes si è

ritrovata, in Angola, a combattere, oltre che contro le formazioni nemiche dei ribelli,

contro l’esercito locale, in teoria suo alleato.

Viceversa, il settore privato può anche contribuire a stabilizzare la situazione politica.

Visto il pericolo esposto in precedenza, i governi di questi paesi possono decidere di

affidarsi alle PMC, in particolar modo a quelle di consulenza e addestramento, per

creare una forza armata competente e soprattutto leale. In questo caso le aziende, che

possono contare su conoscenze strategiche e organizzative di alto livello, si

dimostrano capaci di scongiurare il pericolo di conflitti interni. Il problema è che

tutto questo può avvenire anche a vantaggio di regimi non democratici, perché, come

sappiamo, l’unico scoglio da superare per ottenere questi servizi militari, è il

reperimento di soldi per pagarli.

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D’altro canto, quando si parla di instabilità in contesti politicamente fragili, bisogna

tenere ben in mente due fattori, peraltro strettamente connessi tra di loro. Da un lato,

il fatto che l’instabilità politica non è solo la conseguenza degli interventi delle PMC,

ma il motivo stesso per cui le PMC intervengono; dall’altro, il fatto che la questione

politica va a braccetto con quella economica, legata, cioè, allo sfruttamento delle

risorse. Non può essere una coincidenza, infatti, che le regioni che sono più spesso

associate alle operazioni delle PMC, comprendano paesi come Angola, Zaire, Sierra

Leone e Iraq. Si tratta di paesi che vivono gravi crisi politiche interne, ma che, allo

stesso tempo, sono ricchi di risorse minerarie e petrolifere. Queste risorse vengono

ipotecate dai governi per ottenere sicurezza; così facendo, questi Stati si vedono

privati non solo dei mezzi indispensabili per la crescita socioeconomica, ma della

loro stessa autonomia politica, visto che le loro scelte sono influenzate dalla volontà

delle PMC. Il pericolo di fondo, tutt’altro che remoto, è che le PMC possano

costituire una minaccia per gli stessi governi che le hanno ingaggiate, minando le basi

della loro sovranità.

Per quanto riguarda gli Stati occidentali, la maggiore solidità istituzionale e il forte

radicamento democratico, rendono praticamente impossibile l’eventualità che

l’equilibrio tra potere politico civile e potere militare si deteriori fino ad arrivare allo

scontro violento. Tuttavia, anche in questi contesti, l’affermazione dell’industria

militare privata può influenzare le relazioni istituzionali. Non si tratta di una

destabilizzazione d’arrivo, causata dall’impatto economico negativo che le PMC

portano con il loro ingresso, come avviene nei paesi in via di sviluppo, quanto di

partenza o meglio di permanenza, nel senso che è dovuta al fatto che le PMC

condizionano il contesto dall’interno.

In questo caso, il timore maggiore è che l’ascesa incontrastata delle PMC possa

minacciare l’autonomia di cui storicamente hanno goduto la sfera politica e militare.

In qualsiasi società moderna, uno dei presupposti più importanti è proprio la

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separazione fra tre istituzioni: militare, politica ed economia. Negli ultimi anni,

questa distinzione è stata erosa, come abbiamo visto, dalla commercializzazione e

privatizzazione della società. La sfera economica sembra aver preso il sopravvento

sulle altre due, con delle conseguenze potenzialmente molto gravi. Innanzitutto, le

politiche dei governi saranno sempre meno autonome, perché sempre più indirizzate

dagli interessi commerciali delle multinazionali, tra cui le stesse PMC; anche in

questi contesti, dunque, il pericolo è che gli Stati vadano perdendo progressivamente

la propria sovranità e legittimità agli occhi dell’opinione pubblica. In secondo luogo,

l’istituzione militare, privata del proprio status “superiore” nella società, in quanto

portata sullo stesso livello di qualsiasi azienda del comparto civile, vedrà minacciata

la propria credibilità. Non è un caso, quindi, che le principali voci di dissenso contro

l’operato delle PMC, nei paesi occidentali, giungano da settori delle forze armate, che

in molti casi denunciano l’incapacità operativa delle aziende, manifestando

irritazione per il peso sempre maggiore del settore privato negli affari militari. E non

stupisce nemmeno il fatto che il dibattito su questi problemi sia particolarmente

acceso negli Stati Uniti, dove il settore militare è sempre stato quello più rispettato

dall’opinione pubblica e dove, d’altro canto, si concentrano i maggiori profitti delle

PMC.

Infine, esiste la possibilità che il ricorso alle PMC influenzi negativamente i rapporti

tra gli stati. Questo rischio è la diretta conseguenza della difficoltà di distinguere le

truppe ufficiali dai soldati a contratto sui campi di battaglia; nel caso di operazioni

poco chiare o reati di vario tipo, è difficile dire con certezza di chi sia la

responsabilità. I rapporti che alcuni governi intrattengono stabilmente con le PMC, in

particolar modo con quelle che forniscono servizi da combattimento e consulenza,

possono creare una sorta di “concorso di colpa”, portando la comunità internazionale

ad assumere che quei governi stiano utilizzando l’industria militare privata come

strumento politico, a scapito delle organizzazioni internazionali e regionali, che

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vengono by passate . Il problema di fondo, dunque, non è la semplice delega di una

singola attività, ma la privatizzazione dell’intera politica estera.

Problemi etico-morali

Il fatto che le PMC si trovino a operare negli scenari più violenti e controversi del

mondo, porta necessariamente a porsi degli interrogativi a proposito della moralità

delle loro azioni. Questo a maggior ragione se si considera che, come abbiamo

appena detto, la circolazione delle informazioni in un contesto di guerra è

particolarmente complicata, per cui diventa difficile attribuire la responsabilità di una

certa azione. D’altro canto, la loro natura aziendale, unita agli stretti legami che le

PMC intrattengono con compagnie commerciali dagli svariati interessi economici,

hanno fatto aumentare i dubbi dell’opinione pubblica, portando alcuni studiosi a

definire queste compagnie come forze “ricolonizzatrici”. Certamente, le PMC non

godono, attualmente, di una buona reputazione. Vediamo, quindi, di capirne i motivi

principali.

Un primo punto di domanda riguarda la clientela delle PMC, ossia il fatto che le

aziende, nel rispondere alle offerte di ingaggio dei potenziali clienti, non sono tenute

a valutare aspetti etici e legali, ma solo ed esclusivamente quelli economici.

Quest’assenza di limitazioni permette, ad esempio, che le PMC possano lavorare sia

per progetti umanitari che per governi autocratici. La gravità di questa questione è già

stata messa in evidenza, ma vale la pena riportare altri casi. Nel 1997, il Dipartimento

di Stato USA ha negato a MPRI una licenza che l’azienda aveva richiesto per

assistere il regime corrotto di Mobutu in Zaire. La stessa MPRI, ha sostenuto per due

anni una dittatura militare in Guinea Equatoriale, mentre altre PMC hanno fornito

addestramento militare per gruppi jihadisti.

Coloro che fanno parte di questo settore, cercano di allontanare i dubbi affermando

che le imprese legittime, cioè quelle riconosciute in ambito internazionale, lavorano

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solo per governi legittimi. Quest’argomento non convince del tutto. Innanzitutto

perché, se per legittimità si intende il fatto di essere al potere, le PMC

contribuirebbero sempre e comunque a mantenere lo status quo, cioè a difendere il

governo in carica, senza tenere in conto in che modo questo sia arrivato al potere o se

si comporti in maniera democratica o dittatoriale. Tra l’altro, a volte è molto difficile

stabilire con certezza quale delle parti in conflitto sia legittima. Il riconoscimento può

cambiare notevolmente a seconda dei punti di vista. Ad esempio, le forze ribelli sono

comunemente considerate illegittime, in quanto mirano a destabilizzare l’ordine

esistente, ma in più di una caso la loro azione ha portato a rovesciare governi

autoritari, quindi “illegittimi”. Per non parlare dei cambiamenti nel tempo: l’African

National Congress di Nelson Mandela, ad esempio, è stato per anni classificato come

gruppo terrorista, prima di venir eletto democraticamente.

Un secondo quesito riguarda l’affidabilità dei dipendenti. In più di un caso, si è

scoperto che le aziende avevano ingaggiato personale dal passato tutt’altro che

raccomandabile. Questo perché le PMC, nel momento in cui reclutano, si

preoccupano soprattutto delle doti professionali dei futuri dipendenti, spesso

prescindendo da valutazioni circa la disciplina e il codice etico. Anche in questo caso,

vale la pena citare esempi concreti.

Oltre al caso degli ex-militari del Sudafrica dell’apartheid, che lavorano in giro per il

mondo, c’è quello dei soldati cileni impegnati attualmente in Iraq, gran parte dei quali

provenienti dai reparti speciali costituiti dal dittatore Augusto Pinochet. Queste

situazioni permettono di ricollegarci a un terzo tipo di problema, quello che riguarda

il rispetto dei diritti umani. Non è raro che il nome di alcune PMC venga associato a

gravi violazioni in questo campo. Alle volte, sono state le stesse PMC, tramite i loro

dipendenti, a portare avanti questi crimini. È utile, in proposito, ricordare il caso dei

dipendenti Dyncorp in Bosnia, implicati in traffici di prostituzione e armi. Di fronte

ad avvenimenti del genere, il vero problema è che nemmeno l’azienda è in grado di

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conoscere con certezza le attività dei propri dipendenti sul campo di battaglia. Alcune

PMC affermano di essere intransigenti in tema di rispetto dei diritti umani, ma anche

qualora riuscissero ad accertare le eventuali responsabilità dei propri impiegati e li

licenziassero, questi verrebbero comunque assunti da un’altra compagnia. In altri

casi, le PMC possono contribuire indirettamente alla violazione dei diritti umani.

Quando una PMC di consulenza inizia a lavorare per un governo, infatti, cerca di

rispondere a un unico standard, quello dell’efficienza; si preoccupa, cioè, di garantire

al meglio il servizio per cui viene pagata. Nel momento in cui l’azienda ultima i suoi

compiti e lascia il paese, però, non esiste nessun tipo di controllo su come il governo

utilizzerà le capacità militari acquisite.

Un quarto problema è legato alla cosiddetta “azione per procura”, cioè il pericolo che

le PMC possano operare segretamente per conto dei governi, svolgendo compiti e

attività che questi non vogliono o non possono eseguire direttamente. In questo caso,

il vantaggio nel ricorrere a servizi militari privati sta nel sottrarsi alle critiche

dell’opposizione, dell’opinione pubblica e delle Nazioni Unite. Se qualcosa va storto

in una di queste operazioni, ad esempio, è facile per i governi negare qualsiasi tipo di

coinvolgimento.

Da questo punto di vista, il governo americano è quello che desta più sospetti,

considerato che ha più volte fatto ricorso alle PMC per mascherare alcune sue attività

all’ estero. Angola e Guinea Equatoriale, ad esempio, sarebbero, per legge, non

sostenibili dal governo USA, in quanto regimi non democratici; eppure, gli Stati Uniti

hanno aiutato militarmente i loro governi. Il rischio, dunque, è che le PMC possano

diventare delle vere e proprie armi in dotazione ai governi, con conseguenze

potenzialmente gravissime.

L’ultimo problema, forse il più importante e di sicuro il più controverso, è quello che

riguarda la “militarizzazione dell’azione umanitaria”, ovvero l’utilizzo delle PMC

negli interventi umanitari e di peacekeeping. La questione viene trattata in

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quest’ultima parte per ragioni di comodità, ma la sua portata non si limita all’ambito

etico-morale, ma si estende anche agli altri due trattati in precedenza. Ultimamente, ai

vertici delle Nazioni Unite si sta facendo sempre più strada l’idea di un impiego più

esteso di società private di sicurezza, con la convinzione, così facendo, di aumentare i

propri standard operativi in termini di efficienza.

Effettivamente, in più di un caso, operazioni di questo tipo sono fallite a causa di

evidenti limiti a livello militare, sia dei contingenti dell’ONU, che si sono trovati a

fronteggiare situazioni per le quali non erano preparati, sia, logicamente, da parte dei

forze locali, il più delle volte mal equipaggiate e scarsamente competenti. Nel caso

delle ONG, invece, il ricorso al settore militare privato appare in un certo senso

obbligato, visto che rimane l’unica strada per ottenere protezione in zone

estremamente pericolose. Di conseguenza, ci sono tutti gli elementi per pensare che

le PMC si andranno inserendo in modo sempre più stabile nell’ambito dei progetti

umanitari, con la possibilità, così, di ripulire la propria immagine e normalizzarsi

definitivamente di fronte all’opinione pubblica.

Tuttavia, le perplessità a riguardo sono diverse e suscitano alcune considerazioni.

Prima di tutto, bisogna osservare che le operazioni di peacekeeping sono molto

diverse dalle operazioni militari regolari, in quanto ad attività svolte e a

responsabilità. Richiedono, infatti, un addestramento particolare e una approccio

diverso dei soldati, incentrato su aspetti umanitari (come la protezione dei civili dai

conflitti), tutte condizioni che dei semplici dipendenti non possono soddisfare.

Inoltre, vale la pena ricordare che il fulcro di qualsiasi missione umanitaria, non è

costituito dalle operazioni prettamente militari; queste sono importanti

esclusivamente in funzione di stabilizzazione della situazione, al fine di ricostruire il

contesto socio-economico e politico del paese in cui si interviene. Affidare questi

compiti alle PMC appare molto pericoloso, visto che queste, in quanto orientate da

calcoli di breve periodo, lascerebbero i territori non appena ultimati i propri compiti,

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senza svolgere quella serie di operazioni che sono richieste a un intervento delle

Nazioni Unite.

Un altro problema è legato al modo in cui le popolazioni locali vedono gli operatori

umanitari. Nel momento in cui le istituzioni internazionali e le ONG si trovano ad

operare a stretto contatto con i dipendenti delle PMC, rischiano di non venire più

percepite come soggetti imparziali, impegnati in opere di ricostruzione, ed è più

facile che diventino bersagli di attacchi. Tra il 1992 e il 2001, si stima che siano stati

uccisi ben 85 operatori umanitari. I legami con l’industria militare privata hanno

contribuito, almeno in parte, a questa cifra. C’è da sottolineare, infine, che tutti i

rischi relativi al mancato monitoraggio dei contratti. A fianco della privatizzazione

della guerra, che ha già assunto dimensioni importanti, sta dunque prendendo

progressivamente piede la privatizzazione della pace, che se portata avanti nei

prossimi anni, potrà generare conseguenze ancor più gravi della prima.

I limiti legislativi

Dopo aver individuato i maggiori reati in cui possono incorrere le PMC, si tratta ora

di capire qual è il sistema regolativo preposto a prevenirli e sanzionarli. In più di una

occasione abbiamo accennato al vuoto legislativo intorno all’industria militare

privata, vedendo come questo stesso fattore abbia contribuito in modo decisivo alla

crescita del fenomeno. In realtà, una legislazione in materia non è del tutto assente.

Negli anni Sessanta, il riapparire del mercenariato, parallelamente ai processi di

decolonizzazione e ridefinizione dei confini statali, ha portato gli organismi

internazionali, su pressione dei neonati stati dell’Africa e dell’Est europeo che si

impegnavano a creare dei sistemi politici finalmente indipendenti, ad adottare delle

norme che limitassero le attività mercenarie, cercando di coinvolgere il maggior

numero di stati possibile. Questi sforzi hanno portato alla formazione di tre diversi

strumenti giuridici:

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• l’articolo 47 del I Protocollo Addizionale del 1977 alle Convenzioni di Ginevra;

• la Convenzione del 1977 dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) per

l’eliminazione del mercenariato in Africa;

• la Convenzione Internazionale contro il Reclutamento, l’Uso, il Finanziamento e

l’Addestramento di Mercenari nel 1989.

Col passare del tempo, però, queste norme sono diventate, di fatto, inapplicabili, in

quanto caratterizzate da lacune di vario tipo.

Il primo, dei tre, è quello che definisce meglio, da un punto di vista giuridico, le

attività mercenarie. L’articolo stabilisce che un soldato viene considerato mercenario,

per cui fuori dai parametri della legalità, quando: a) è specificatamente reclutato per

un conflitto armato; b) prende parte diretta alle ostilità; c) ha come unica motivazione

il profitto personale; d) non fa parte delle comunità impegnate nel conflitto; e) non è

membro di forze armate regolari; f) non ha l’avallo di nessuno stato per combattere.

Ciò che rende questo articolo poco utile, è il fatto di essere stato costruito interamente

intorno a una concezione del mercenariato antica, risalente alle guerre coloniali, in

cui esistevano i soldati di ventura che, individualmente, si mettevano a disposizione

dell’esercito, da cui rimanevano comunque separati. Di conseguenza risulta obsoleto,

inadatto a inquadrare gli sviluppi occorsi negli ultimi anni, che hanno reso il

fenomeno più complesso e globale. Le PMC non incontrano dunque problemi

nell’eludere questa normativa.

Innanzitutto perché, come sappiamo, buona parte di esse non prende direttamente

parte alle ostilità, ma occupa posizioni di regia o di retrovia. In secondo luogo, vale la

pena ricordare che il fine è sì il profitto, ma non personale, quanto piuttosto

aziendale. Terzo, i dipendenti delle PMC sono spesso inseriti nelle file degli eserciti

statali, il che fa decadere il quarto punto. Inoltre, l’articolo 47 ha il limite di essere

pensato per conflitti interstatali, non per quelli civili, che rappresentano la maggiore

fonte d’impiego per le PMC. Infine, appare debole anche da un punto di vista

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politico, visto che non è stato accettato dagli stati più influenti, come Francia e Stati

Uniti.

La Convenzione del 1977 dell’OUA, entrata in vigore nel 1985, è stato il primo

provvedimento che cercasse di imporre sanzioni concrete contro le pratiche

mercenarie. In effetti, rispetto al precedente, questo strumento dimostra un più ampio

margine di applicabilità; tuttavia, anch’esso contiene limiti evidenti. Viene

considerato mercenario chiunque collabori con organizzazioni che mirano a

rovesciare con la forza i governi legittimi dell’OUA o a bloccare le attività dei

movimenti anticoloniali riconosciuti dall’OUA, non vietando, invece, agli stessi

governi, di assoldare mercenari per reprimere gruppi di dissidenti all’interno dei

confini.

Nemmeno la Convenzione del 1989, nata sotto gli auspici dell’ONU, quindi dotata,

almeno sulla carta, di un vasto consenso politico internazionale, è riuscita a risolvere

il problema, in quanto manca di strumenti applicativi efficaci. Ad esempio, gli stati

possono farvi ricorso solo nel caso in cui le violazioni vengano commesse sul loro

territorio o dai propri cittadini, e anche qualora il reato venisse accertato, non è

previsto un sistema codificato di sanzioni. A questo si aggiunge il fatto, non

secondario, che la Convenzione è entrata in vigore soltanto nel 2001, orfana, tra

l’altro, della ratifica dei maggiori Paesi occidentali.

D’altro canto, l’inadeguatezza della normativa internazionale, ha fatto sì che nei

singoli paesi venissero adottate delle legislazioni a riguardo ancora più permissive; il

che ci ricollega a un altro punto imprescindibile se si vuole capire come si è arrivati

alla situazione attuale: la mancanza di volontà politica dei governi occidentali. Nel

2002, il governo britannico ha commissionato ad un gruppo di esperti l’elaborazione

di uno studio approfondito del settore militare privato (il Green Paper), per valutarne

i pro e i contro e vagliare la possibilità di un suo utilizzo legale nei conflitti.

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Quest’iniziativa ha avuto il merito di essere il primo tentativo volto a sensibilizzare il

mondo politico occidentale in tema di privatizzazione militare; tuttavia, è viziata da

un orientamento troppo permissivo verso le PMC, che sottovaluta i pericoli esposti

finora. Anche gli Stati Uniti, d’altronde, hanno più volte dimostrato di non voler

stringere più di tanto il cerchio legislativo intorno alle PMC. Non c’è dubbio che il

motivo di questa tolleranza sia da rintracciare, in buona parte, nei rapporti sempre più

fitti che i governi di questi due paesi intrattengono con i potentati economici di cui le

PMC fanno parte.

Gli strumenti legislativi appena analizzati, per quanto diversi tra loro, falliscono per

un motivo comune: cercano di limitare le attività mercenarie, ancorandole a un

contesto e a un momento storico determinati; si tratta, cioè, di norme nate in

condizioni di emergenza, pensate per salvaguardare l’integrità politica di alcune aree

nell’immediato. Come abbiamo ripetuto diverse volte nel corso di questo lavoro,

però, l’industria militare privata sfugge completamente a qualsiasi logica spazio-

temporale. La sua natura insieme finanziaria, politica e militare, le permette di essere

del tutto invulnerabile rispetto a quelle definizioni.

La chiave, dunque, sta nel ridefinire lo status giuridico del mercenariato su basi

completamente nuove, non limitandosi a considerare gli aspetti politici e militari

della questione, ma sviluppando un punto di vista il più possibile “globale”, che tenga

conto dei cambiamenti che hanno interessato l’intero corpo sociale negli ultimi anni.

Nella pratica, questo significa tenere ben presente gli “effetti collaterali” generati

dalla diffusione dell’economia liberista su scala mondiale negli ultimi vent’anni;

l’ascesa delle PMC, infatti, è legata, prima di tutto, alle condizioni socio-economiche

dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, vittime della globalizzazione: fino a quando la

povertà, e di conseguenza la conflittualità, continueranno ad aumentare al loro

interno, qualsiasi proposito, seppur sincero e legittimo, di arginare l’avanzata delle

multinazionali della sicurezza, si dimostrerà del tutto inutile. In conclusione, è

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difficile dire che ci sia (sempre che ci sia) il rimedio che permetta di scongiurare una

volta per tutte i problemi esposti finora; ciò che è certo, però, è che qualsiasi misura

si decida di adottare, deve necessariamente essere sostenuta da un ampio consenso

politico, per cui avere come punto di partenza i fori politici ed economici

internazionali.