sono il suono del mio passo

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SONO IL SUONO DEL MIO PASSO ForlìLab

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Un lavoro corale di Forlì Lab nell'ambito di Fabbrica Lab del 2012.

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SONO IL SUONODEL MIO PASSOForlìLab

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UN’ESPERIENZA DI CONOSCEN-ZE CONNETTIVE SUL CAMPO. IN-CONTRI, SCRITTURE, FOTO, DIA-LOGO. LA NARRAZIONE DI UN ATTRAVERSAMENTO E LA CO-STRUZIONE DI UNA MAPPA DEL-LA CITTA’ CHE VIVIAMO O CHE VORREMMO.OLTRE LA RAPPRESENTAZIONE SUL WEB, QUESTO E-BOOK RAC-CHIUDE IL SUONO DEL PASSO DI OGNUNO DEI PARTECIPANTI. VO-LONTARIO, VIANDANTE, FOTO-GRAFO, SCRITTORE.

SONO IL SUONO DEL MIO PASSO

PROGETTO DI ANTONIO CIPRIANI REALIZZATO NELL’AMBITO DI FABBRICA LAB GRAZIE ALL’ASSESSORATO ALLE POLITICHE GIOVANILI DEL COMUNE DI FORLI’

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INDICE

PREFAZIONE

INDICE E COLLBORATORI

MEMORIASONO IL SUONO DEL MIO PASSOFOTO E REALTA’TRA LUOGHI STORICI E TRENDYSPIRITO E VITAQUEL MULINO IRRAGGIUNGIBILE

FACCE

CULTURAFORLI’ DEL DIALOGOIL LATO PIGROQUELLI FORTI DELLA SUNSETTEMPIO JAZZIL GIORNALISMO E LA MENTEL’ASCOLTOBASSO, TARCHIATO. COI BAFFI

SOLIDARIETA’ANNA, IL MITORICREAZIONE A VILLAFRANCAWELCOMEBABYLON LO SLOW SHOP A FORLI’CO-HOUSINGLIBERI PENSIERI NEL SOFTWARE

IN CHIUSURA

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AUTORI

ANTONIO CIPRIANI ANNA FRABOTTAVALENTINA MONTISCISTEFANO RANIVALENTINA RENZIROSSELLA VIGNOLA

POTOGRAFI

CRISTOPH BREHMEANNA FRABOTTAPAOLO GIANNOTTI

PROGETTO PENSATO DA ANTONIO CIPRIANI E RE-ALIZZATO NELL’AMBITO DI FABBRICA LAB GRAZIE ALL’ASSESSORATO ALLE POLITICHE GIOVANILI DEL COMUNE DI FORLI’

IMPAGINAZIONE GRAFICA VALENTINA MONTISCI

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MEMORIA

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MEMORIA

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SONO IL SUONO DEL MIO PASSO

TESTO DI @ROSSELLA VIGNOLA

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NELLO STUDIO SEMPLICE DI DON SERGIO SALA

Poi si ferma, ci guarda, ad uno ad uno, i suoi occhi piccoli e luminosi, nei nostri, rapiti e forse anche un po’ persi. Si alza, e nei suoi pensieri c’è già una nuova strada da percorre-re, e altre storie da ascoltare. Lo seguo con lo sguardo mentre attraversa il lungo corridoio alle spalle della chiesa di Sant’Antonio Abate in Ravaldino, a Forlì. Lo percorre con deci-sione, ed io non so se è perché l’ha già fatto milioni di altre volte, o perché conosce bene il cammino che resta ancora da fare. Incontriamo don Sergio Sala nella parrocchia di Ravaldino, nel centro storico di Forlì, in uno studio semplice ed accogliente. Le pareti sono illuminate da una luce calda che sa di casa. Ci fa accomodare intorno ad un tavolo, che sembra essere lì da sempre: un luogo per

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MA PER TUTTI I FORLIVENSI E’IL PARROCCO DEL RAVALDINO

parlare, della vita e dei suoi misteri. Ma soprat-tutto un luogo per ascoltare. Dove c’è ancora spazio per il silenzio, la frase incompiuta, il pensiero confuso, inconfessato. Seguendo forme di comunicazione che non sono quelle della tele-visione. Con tempi che sanno ancora concedersi delle pause, scanditi dal ritmo lento del pen-siero e da un linguaggio ricco, ma mai difficile, che non si arrende alle semplificazioni. Perché esplorare l’animo umano non è affatto semplice, e bisogna avere a disposizione le parole giuste, inclusa la severità di un congiuntivo o il calore del dialetto. Don Sergio è da tanti anni parroco del Ravaldino, così la chiamano gli amici, una parrocchia assai vivace. Come un formicaio, è un contenitore di incessanti attività, un brulicare denso di vita. A Ravaldino il via-vai è continuo: catechismo, scoutismo, incontri di preghiera, ma anche corsi di alfabetizzazione per stranieri, o di ebraico biblico, accoglienza per persone in dif-ficoltà e per giovani madri. Può accadere spesso di trovare don Sergio a studiare nel silenzio della sua saletta, e contemporaneamente sentire gli schiamazzi e il disordinato caos dei ragazzini del

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Progetto Welcome: quaderni, palloni, entu-siasmi e capricci, compiti e maestre, richieste di attenzione e promesse, merende e giochi. Iniziato nel 2005, con Adele Pagnotta, una giovane in servizio civile (oggi coordinatrice del Progetto) principalmente come attività di aiuto-compiti e dopo-scuola per bambini e ra-gazzi del centro di Forlì, il Progetto Welcome è cresciuto nel tempo, fino a vincere un bando di finanziamento della fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì e diventare una realtà soli-da e un punto di riferimento per bambini e adolescenti che, data la particolare demografia del centro forlivese, sono in massima parte di origini straniere. Con l’aiuto di volontari, fra cui si contano numerose maestre in pensione, oggi Welcome accoglie ogni giorno decine di ragazzini, per compiti, giochi, e anche sem-plicemente per stare insieme. Per vivere dal di

dentro il centro di una città che sempre di più appartiene anche a loro e che, forse raramente, riesce a trovare il modo migliore per dire ai suoi nuovi abitanti: “Welcome!”, Benvenuti!Il centro di Forlì: centro di una città di pro-vincia, ma anche centro di gravità del nostro camminare. Una gravità che ci lega inesorabil-mente alla terra e ai territori perché visto da vicino, con gli occhi curiosi e le “scarpe buone” (come direbbe don Sergio) il centro di Forlì non è una terra straniera abitata da solitudine e anomia. Al contrario, esso può ancora resti-tuirci un senso fatto di vite pulsanti, passioni, e resistenze perché per noi, diversamente da quanto si diceva agli inizi degli anni Novanta osservando l’esplodere della globalizzazione, i territori non sono affatto finiti. Sono ancora molte, ed inesplorate le strade in cui perdersi, e le storie in cui inciampare.

DOVE SI PUO’ PARLARE DELLA VITA E DEI SUOI MISTERI

C’E’ ANCORA SPAZIO PER IL SILENZIO

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FOTO E REALTA’

Paolo Vallicelli è fotografo e insegnante di fotografia. Assieme a Silvia Camporesi, collega nonché vera artista della foto e del video, quest’anno ha tenuto il suo primo laboratorio a Forlì, alla Fabbrica delle Candele, un luogo che, negli ultimi quattro anni - dalla sua nascita ad oggi - sta diventando un punto di riferimento per le giovani generazioni della città, sia autoctone che fuori sede. Questo corso affianca il progetto di un altro laboratorio rivolto ai giovani, incentrato sulla comunicazione e le nuove tecnologie e la loro capacità di raccontare la città attraverso vari sguardi. Nel racconto la parola viene così arricchita e resa più “evidente”dalle immagini.

Paolo di cosa ti occupi?La mia attività principale è il fotografo e da vent’anni tengo corsi di fotografia. Mi occupo di fotografia a 360 gradi anche se ho maturato una certa esperienza nella fotografia teatrale e nell’insegnamento. Di personale ho recentemente realizzato un libro di viaggio, un primo passo verso il reportage fotografi-co. È stato un viaggio nel viaggio, in una zona non turistica della Mongolia.

Hai una tecnica preferita?Lavorare come professionista ti costringe ad affinare bene le tecniche principali, fare tutto e al meglio.

Quello alla Fabbrica è il tuo primo laboratorio rivolto solo a giovani?Sì, questo è il primo anno che tengo un laboratorio alla Fabbrica, rivolto a una determinata fascia d’età, di solito ho un target più ampio cha va dai giovanissimi ai più anziani.

Come riesce la fotografia a raccontare una città?La fotografia è, in generale, lo strumento più potente per raccontare la realtà: produrre immagini della città è il modo più forte per raccontarla. Per fare questo la macchina fotografica deve diventare parte integrante del nostro essere quotidiano .

TESTO DI @ VALENTINA RENZI

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TRA LOCALI STORICI E TRENDY

TESTO DI @ VALENTINA RENZI

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DAGLI ANNI ‘90 FORLI’ E’ STA-TA RIPOPOLATA DA STUDENTI

TRA LOCALI STORICI E TRENDY

Forlì è un vivace comune capoluogo di pro-vincia. A partire dagli anni ‘90 è stato ripo-polato e rivitalizzato da studenti universitari fuori sede, provenienti da tutte le regioni d’Italia, e anche da flussi di migranti dalle origini lontane. Nel corso di tutti questi anni la città è riuscita a conservare una dimensio-ne di vita a misura d’uomo e, al tempo stesso, si è aperta al nuovo, traendone opportunità di arricchimento. Passeggiando per il centro storico è ancora possibile scorgere angoli in cui il tempo sembra essersi fermato e altri spazi, invece, segno del progresso dei tempi. Ascoltando le persone e osservando atten-tamente i luoghi che appartengono a questa città, è possibile restituirne l’identità attraver-so sguardi insoliti oppure punti di vista più tradizionali.La salsamenteria TombaIl signor Giovanni Canestroni è uno tra gli

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DALLA SALSAMENTERIA TOMBA ALLA CAFFETTERIA MARGOT

“esercenti storici” di Forlì: è, infatti, il proprie-tario della salsamenteria Tomba. Questa attivi-tà appartiene alla sua famiglia da ben quattro generazioni. Negli anni ‘60 a gestirla erano i bisnonni, molto tradizionalisti, i quali si rivol-gevano a una clientela altrettanto tradizionale. Il testimone, poi, è passato dapprima ai nonni, poi ai genitori, infine al signor Giovanni che, nonostante gli studi in medicina, ha deciso di conservare l’attività di famiglia. Il negozio, nel corso degli anni, pur offrendo una tipologia di prodotto varia - carne bovina, ovina e suina - si è specializzato nei derivati della carne di maiale. Come tende a sottolineare il proprietario, tutto è stato volutamente conservato come ai tempi del bisnonno e il signor Giovanni stesso precisa che quello che conta di questo negozio è l’immagine rimasta autentica . I produttori/fornitori sono sempre gli stessi, oppure si ricorre all’autopro-duzione, gli strumenti di lavoro d’epoca fanno capolino in vetrina come fossero in mostra, e, anche per quanto riguarda l’arredo, nulla è stato postato, né tolto, né aggiunto, perché lasciando tutto fermo si ha l’impressione che si conservi

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meglio. La salsamenteria Tomba è, quindi, un pezzo di storia della città e, grazie al web, è di-ventata curiosamente un’attrazione anche fuori regione. Ad esserne catturata è una clientela fatta sia da fedelissimi, sia da curiosi: ci posso-no essere persone da molto lontano, oppure ex cittadini forlivesi che quando tornano in città hanno il piacere di rivedere un pezzettino di Forlì che non è cambiato. In fondo al signor Giovanni, quello che piace di più del proprio lavoro, è proprio il contatto con il pubblico cu-rioso e la possibilità di raccontare vita e aned-doti di quelle persone comuni, il ricordo delle quali diventa la memoria storica della città.Margot- caffetteria- wine bar.Accanto a chi, per questioni anagrafiche e geografiche, sente connaturato e forte l’attacca-mento alla tradizione, c’è chi, anche se giova-ne, sceglie con consapevolezza di riscoprire e salvaguardare la tradizione e il territorio, non solo della romagna. È questa la filosofia di vita di Federico, giovane oste forlivese che, nella sua caffetteria-wine bar Margot, offre la pos-

sibilità di gustare prodotti bio di qualità ad un prezzo abbordabile. Lui stesso, sostenitore della trasparenza della filiera produttiva, gira l’Italia alla ricerca di prodotti caratteristici dei territori e, poi, nel rispetto della stagionalità di questi alimenti, li porta in tavola da Margot. La sua è una clientela varia: dai giovani agli anziani, dai forlivesi ai fuori sede. Ecco che, un semplice punto di ristoro, diventa un luogo in cui persone provenienti da tutta Italia possono sentirsi un po’ come a casa e dove, attraverso la riscoperta di tante diverse tipicità, si può co-noscere la pluralità dei sapori e delle tradizioni italiane. In questo Margot diventa un “luogo di frontiera”, che rispecchia l’apertura di Forlì al resto dell’Italia che, da tanti anni, la abita.

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SPIRITO E VITA

In pieno terzo millennio, quando tutto nasce e si consuma in velocità, un click annulla i confini geografici e le distanze temporali, e un post o un tweet possono renderci protagonisti indiscussi della comunicazione - se non addirittura opinion leader - ci sono ancora vite e mestieri per i quali il cam-minare con lentezza, il respirare e l’ascoltare sono ancora cardini imprescindibili? Sì, questa possibilità c’è ed è don Sergio Sala, sacerdote della parrocchia di Sant’Antonio Abate in Ravaldino, a parlarcene.Don Sergio ci spiega come il camminare sia un po’ come ragionare con i piedi e come anche in que-sto frangente si possa comunicare e costruire delle relazioni. L’esperienza della comunicazione, così importante di questi tempi, ritorna ad essere il meno mediata possibile: non viene usato neppure il telefono, ma il contatto diretto. L’enorme bisogno di comunicazione, infatti, è anche ricerca dell’altro. Il gruppo che cammina, inoltre, ha la possibilità di ascoltare il proprio respiro, la propria anima. L’e-sperienza della comunicazione e quella dell’ascolto sono profondamente legate: oggi le persone hanno bisogno di essere ascoltate e sono proprio alla ricerca di un cuore e due orecchie. Don Sergio sottoli-nea come il lato più bello dell’essere prete sia proprio la possibilità di parlare e comunicare con tutti: bambini, giovani, anziani. Parlando con la gente si impara ad essere uomini, questo l’insegnamento che don Sergio vuole tra-smetterci, sottolineando che il dialogo è fatto di parole e le parole sono spirito e vita.

TESTO DI @ VALENTINA RENZI

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QUEL MULINO IRRAGGIUNGIBILE

TESTO DI @ROSSELLA VIGNOLA

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IL MULINO E’ AFFACCIATO SUL FIUME MONTONE

QUEL MULINO IRRAGGIUNGIBILE

Here we are/stuck by this river... Waiting here/always failing to remember why we came, came, came/ I wonder why we came [.] (Brian Eno, “By this river”)La prima volta che lo vidi pensai ad una visione. Alla ricerca di risposte chiesi ad un’anziana signora che passava di lì protetta da un impermeabile di plastica blu. “Che cos’è quel... quella cosa in rovina?” “Dove?” “Lì, al di là del fiume”. “Non c’è mica niente in rovina, lì...” Se ne andò sotto la pioggia così come era ve-nuta lasciandomi, per un istante, astonished. Letteralmente di sasso. Sentii il rumore sordo di quel sasso precipitare nel vuoto. Continuai a guardare quella struttura im-ponente, grigia, arrugginita, arresa, mentre dal cielo continuavano a cadere minuscole

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TORNO SPESSO A GUARDARE IL VECCHIO MULINO

gocce, insistenti come domande.Torno spesso a guardare il vecchio mulino affacciato sul fiume Montone, a Forlì. Come in una canzone di Brian Eno, ogni volta mi chiedo perché sono arrivata fin lì, ma non me lo ricordo mai. Ci sono luoghi che ti ipnotizzano, portatori di storie che vengono da un tempo indefinito a regalarti la vertigine dell’abbandono. A volte ti possiedono, stordendoti con il risuonare di una eco che sembra il ricordo di un sogno che non si ricorda. Altre volte ci rapiscono, perché lì, tra il vento e il silenzio, ognuno vive una sua storia.La mia, di storia, mi riporta con la mente a Craco, paese fantasma scolpito, da mani incerte, nel cuore dei calanchi lucani. Un cuore arido e lunare che ha un suo battito esilissimo. Abban-donato precipitosamente negli anni Sessanta in seguito ad una frana, oggi Craco è un mucchio di case di pietra, vetri rotti, polvere e leggende. Paplo me ne raccontò alcune: vicende di bri-ganti, di tesori straordinari nascosti da qualche parte tra le rovine, di spiriti dispettosi, gli stessi che popolavano le notti stanche dei contadi-

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CRACO PAESE FANTASMA NEL CUORE DEI CALANCHI LUCANI

MACINA CHICCHI PER FARNE FARINA

ni. Paplo lo incontrai a Craco, volteggiava a cavallo della sua improbabile motocicletta, con quel suo sguardo di volpe argentata. Ricordo la passeggiata proibita tra quelle rovine, ricordo la precarietà di ogni passo e la sensazione che la terra, sotto i piedi, si muovesse di continuo. Alcuni dicono che i luoghi penetrino nelle anime delle persone che li abitano segnandole per sempre. Franco Arminio scrive spesso di quando “terra e carne quasi si confondono e il corpo si fa paesaggio e il paesaggio prende corpo”. E allora io penso a tutte quelle esistenze franate orfane di un paese. Penso a Paplo che forse è ancora alla ricerca del tesoro dei bri-ganti, come ad inventarsi un risarcimento per una ferita che non vuol guarire. Perché Craco, solitario su una collina bianca, pare dirci qual-cosa. Ma è una verità che io non voglio sapere fino in fondo.

Quel vecchio mulino sul fiume Montone che per alcuni non esiste, per altri è abbandonato, per altri ancora è qualcos’altro, è in realtà un mulino ancora in funzione: “Molino Partisani Desdemolo”. Leggo queste lettere squadrate, malamente appoggiate su una facciata grigia dell’edificio che da su via Firenze. Quando lo raggiungo non mi pare vero. L’avevo sempre visto al di là del fiume, sempre avvolto da una foschia, mi sembrava sospeso, irraggiungibile, altrove. Pensavo fosse al di là, invece io gli vado incontro. E non mi pare vero. C’è un mulino che funziona, macina chicchi per farne farine, ma io sono delusa. Continuo a camminare, ingoiando il boccone amaro di una delusione che non so spiegare. Per fortuna compare, su via Firenze, una piccola via: “via dei Molini”. La prendo e presto incontro un’altra stradina, “via della Cartiera”. Nomi che mi fanno pensare ad

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nel Montone e che Aldo chiama “il canale della terra del sole”. Non ci sono tracce, oggi, di quelle macchine complesse che sono stati i mulini ad acqua. Oggi che della farina non resta che polvere posso soltanto immaginare l’acqua che muove le macine, l’orgoglio del mugnaio, le storie dei farinini: la piccola gran-de storia del pane. Ringrazio il signor Aldo per aver custodito queste memorie e me ne torno a casa, camminando piano. La sensa-zione di sentirmi altrove non passa, complice la luce strana di un novembre indecifrabile. Penso ai canali e al loro scorrere sotterraneo, probabilmente luoghi del rimosso della città. Penso ai luoghi indecisi, che Gilles Clément chiama “territori indispensabili per l’errare dello spirito”. E so che tornerò a visitarli, sem-pre senza sapere bene il perché.

un tempo in cui le cose si producevano. Anche oggi si producono, ma noi non ci facciamo caso, troppo impegnati a consumarle. Mi im-provviso semiologa di luoghi marginali e mi metto a ricercare segni e tracce di un passato rimosso di cui si avverte un po’ la presenza in questa periferia sfilacciata e indefinita. Via dei Molini diventa sempre più stretta. Si srotola lentamente sotto i miei piedi come un nastro morbido. Ai lati della strada le ultime case e verso il fiume distese di frutteti, orti e terre incolte. Mi incanto a guardare il pavimento di foglie colorate generosamente offerte dagli al-beri di kaki, carichi di frutti che sembrano tan-ti piccoli soli. Cammino sul ciglio della strada, sull’orlo della campagna, al confine della città. Mi sento come su un crinale, dove anche il cuore è esposto e la città non ti protegge più. L’incontro con il signor Aldo Diamanti mi riporta alla realtà. Gli chiedo subito dei muli-ni. Aldo me lo conferma. Ben quattro, a fine Seicento alimentati dal canale che termina

MI INCANTO A GUARDARE IL PAVIMENTO DI FOGLIE

CAMMINANDO SUL CIGLIO DELLA STRADA

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FACCE

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FACCE

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ANTONIO CIPRIANI

“Persisto con le parole nuove per raccontare: posizionamento, presenza, mappa, relazione. Un punto di partenza civile, per poter riem-pire di valori una testimonianza”.

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VALENTINA MONTISCI

“Ripercorrere le immagini e le storie per fare questo e-book per me è ricchezza. Un passo su tutti: le sedie in circolo nella Fab-brica e tutti a dialogare fino a sera”.

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CHRISTOPH BREHME

“Forlì sembra addormentata, ma c’è tanta energia e ci sono tante persone che realizza-no idee nuove, belle e grandi”

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DAVIDE CRESCENTINI

“Forlì è una città in evoluzione, ad esempio è abbastanza in fermento dal punto di vista dei progetti su sistemi alternativi”

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VALENTINA RENZI

“Fare queste interviste mi ha fatto apprezzare di più Forlì: ho scoperto tante persone volen-terose di animarla”

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ELENA COLANGELO

“Scelgo una parola: dialogo, Forlì ha biso-gno di dialogare”

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VALENTINA RAVAIOLI

“Una città di pari opportunità, inclusiva, sostenibile, internazionale. Una città corag-giosa, piena di speranza e di occasioni per la cultura. Ecco la Forlì che sogno”.

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STEFANO RANI

“Forlì sta vivendo con crescente consape-volezza il nuovo stato di città ,universitaria, da tranquillo paese di provincia si sta affac-ciando in una realtà globale”.

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RITA SPAZZOLI

“Forlì è una città poco amata, è circondata da sorelle più belle e più ricche che Le vengono preferite dai suoi stessi abitanti”

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MICHELE DORI GIORNALISTA

“Faccio il giornalista perché ho capito il ruolo sociale del giornalismo”

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MARGHERITA FAVALI

“Forlì ha potenzialmente tanto, è che spesso rimane tutto nascosto.”

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WALTER BIELLI

“Forlì tenta di risvegliarsi”

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DON SERGIO SALA

“Parlando con la gente si impara a essere uo-mini”

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STEFANO IGNONE

“La complessità è una parola difficile e an-tipatica. E’ il contrario della semplificazio-ne che distrugge la realtà”

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ROSSELLA VIGNOLA

“Forlì è piena di persone attente alle sfide”

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ANNA FRABOTTA

“Nel forno di via Regnoli ho imparato ad apprezzare i rapporti umani come si trat-tasse dello scorcio di un paese che soprav-vive al grigiore della città”

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CULTURA

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CULTURA

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FORLI’ DEL DIALOGO

TESTO DI @VALENTINA RENZI

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TRE PUNTI DI VISTA PER L’AG-GREGAZIONE DELLA CITTA’

FORLI’ DEL DIALOGO

Forlì, il dialogo tra le parti, l’aggregazio-ne e il rinnovamento. Tre punti di vista a confronto: Elena Colangelo, un’educatrice lavoratrice per LVIA, Walter Bielli, politico. Stefano Ignone, giornalista.Forlì ha bisogno di dialogareElena è un’educatrice da anni impegnata con l’associazione LVIA - Forlì nel mondo nella promozione dell’interculturalità tra le giovani generazioni. Nel 2012 si è occupata del progetto Giovani e intercultura: un anno di dialoghi. Elena ci dice che per definizione il dialogo è sempre aperto e interculturale, perché presuppone un confronto tra so-miglianze e differenze reciproche. Ciò che manca a Forlì è un maggiore e più costrut-tivo dialogo tra le tante potenzialità. In questo i giovani hanno un ruolo centrale: gli universitari stanno portando nuova linfa, e molti fuori sede si fermano a vivere la città

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LA NUOVA LINFA DEGLI STUDEN-TI CHE PORTANO MOVIMENTO

anche nei fine settimana. Ciò che ad Elena sem-bra, però, essere debole è la capacità della città di offrire spazi di aggregazione adeguati. In questi ultimi anni i centri di aggregazione giovanile hanno vissuto nell’ombra: la risposta migliore non è costruire nuove mura, correndo il rischio che rimangano vuote, ma dare mura ai giovani che già ci sono e alle loro idee.Forlì tenta di risvegliarsi Con un appassionato intervento, Walter Bielli, politico, commenta lo stato attuale di Forlì nei suoi tentativi di risveglio e di rinnovamento. Sicuramente i giovani universitari sono decisivi: grazie a loro sono nate tante nuove iniziative. Questo tentativo di risvegliarsi, però, non è an-cora sufficiente e si scontra con un grosso limite: la capacità di uscire dal localismo. È importante oggi ripensare ai centri giovanili per dare la pos-sibilità ai giovani di fare gruppo e per incremen-tare anche la possibilità di relazionarsi con altre realtà del territorio.Un’enorme piazza sempre deserta Stefano Ignone è un ex studente fuorisede, diven-tato forlivese d’adozione. È giornalista e, come

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UNA BELLISSIMA PIAZZA QUASI SEMPRE VUOTA, POCO VISSUTA

I GIOVANI FORLIVESI POPOLA-NO I TANTI CENTRI CITTA’

tale, è dotato di forte senso critico e spirito d’osservazione. Quello che subito gli è saltato agli occhi, è come Forlì abbia un’enorme piazza che, però, è spesso vuota, o meglio, è poco vissuta dai forlivesi. A chi, come lui, proviene dal sud, o appartiene a paesi nei quali la piazza è un luogo di grande valore simbolico, sorge spontaneo chiedersi dove siano i forlivesi. La risposta non è così scontata: non sono a casa, come si potrebbe immaginare, ma animano le circoscrizioni dei vari quartieri. A Forlì il centro non è propriamente piazza Saffi, ma ci sono tanti centri dislocati nella città. Nei vari quartieri, infatti, ci sono i centri sociali dove giovani e anziani si ritrovano gratuitamente e spontaneamente. In questo scenario si collo-cano due realtà che faticano ad integrarsi con la città: gli stranieri e gli studenti universitari fuori sede. Questo fenomeno, però, non può

essere indagato e trattato con “semplicità”, proprio perché ha una natura complessa, ossia determinata da molteplici fattori.

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IL LATO PIGRO

Ho sentito dire che nel 1971 uscì una rivista che titolava “Forlì è morta”, ho sentito anche dire che quel titolo si trasformò in una profezia autoavverante per una città tranquilla al punto tale da poter essere definita dormiente, morta per l’appunto. Se quella della rivista sia realtà o leggenda da non autoctona del posto non mi è dato saperlo con certezza, ma sicuramente chi definisce questa città morta non conosce Sara, Denise, Marcello ed Elena, i quattro protagonisti della storia che sto per raccontarvi.Per trovare l’inizio di questa storia dobbiamo guardare indietro di circa dieci anni quando un ragazzo di Forlì, Marcello, decise di acquistare una vecchia casa di campagna situata all’interno di un boschet-to sulle colline di Meldola. Probabilmente a nessuno piacerebbe vivere da solo in mezzo ad un bosco, così la casa inizia fin da subito ad arricchirsi di personaggi interessanti, tanto da alimentare una certa curiosità tra gli abitanti di Forlì che proprio non si spiegano chi possa abitare in mezzo ad un bosco in una vecchia casa priva di acqua potabile. Quella che poteva sembrare un luogo a puro scopo abitativo, inizia però a subire una metamorfosi: il salone si “apre” e lo stare insieme diventa ben presto una com-ponente peculiare della casa. Nasce la voglia di far gruppo e di riconoscersi in un’associazione cultura-le che vedrà la luce nel 2006, dopo un lungo percorso di discussione in cui i ragazzi riflettono su quelli che devono essere gli obiettivi e le passioni della neonata associazione, “rafforzare le reti sociali e il sentimento di appartenenza che nascono dall’essere legati ad una stessa località” diventa la mission di quella che nel 2010 diventerà la cooperativa sociale Casa del Cuculo. Ma come ha fatto un’anonima casetta situata in mezzo ad un bosco a diventare la Casa del Cuculo? Ci sono almeno due passaggi cruciali che vanno ricordati e che, insieme all’entusiasmo di Sara, Denise, Marcello ed Elena, hanno portato alla nascita della cooperativa. Il primo è rappresentato dal labo-ratorio sulle musiche albanesi che nel 2008 porta alla nascita della Spartiti per Scutari Orkestra che diventa uno dei pilastri della casa stessa. Nel 2010 sarà la volta de “Il re oggi gira. Voi no?”, il secondo momento fondamentale per il passaggio da associazione a cooperativa. Si tratta di un progetto di re-cupero e integrazione multiculturale di una delle vie “difficili” di Forlì, via Giorgio Regnoli. Vengono coinvolti attivamente i commercianti e i residenti di via Regnoli, tre pittori che espongono le loro ope-re in ogni esercizio della strada, e l’ormai immancabile Spartiti per Scutari Orkestra che suona ad ogni porta e da ogni balcone di via Regnoli. Da questa esperienza nascerà l’anno successivo Regnoli 41, un’associazione culturale fondata da residenti e commercianti volta ad una rivalorizzazione culturale della via stessa. Questi eventi mostrano la strada alla Casa del Cuculo: l’animazione di rete diventa l’obiettivo della cooperativa. Ci si occupa di organizzare eventi, ma sempre con il supporto di chi abita il luogo da “rianimare” per permettere ai residenti una riappropriazione del luogo stesso. Si insegna a far rete, a lavorare tutti insieme dal basso, per poi auspicarsi che si formi un gruppo coeso che sappia camminare sulle proprie gambe anche senza il prezioso aiuto dei ragazzi della Casa del Cuculo.

TESTO DI @ANNA FRABOTTA

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QUELLI FORTI DELLA SUNSET

TESTO DI @VALENTINA MONTISCI

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QUELLI FORTI DELLA SUNSET

Michelangelo arriva nella Fabbrica del-le Candele che sta scendendo la sera. La giornata è stata piena di incontri, di facce, sguardi, risate e storie. Piccole e grandi, ma narrazioni di tante vite di speranze di tenacia. Le associazioni hanno incontrato il Lab in uno spazio bello, aperto, circolare. Mentre le persone se ne vanno arriva lui, Michelangelo Pasini della Coop Sunset. Sarà per l’imbruni-re ma sembra uscito da una foto in bianco e nero del maggio francese. Non so, di quegli anni prima che nascessi conosco solo le foto. E gli slogan, qualcuno. E De Andrè che canta la canzone del Maggio. Mi passano per la testa queste idee mentre lui sorride e si mette a disposizione per essere intervistato. Che poi non è un’intervista, è un modo di incontrarsi e di raccontarsi addosso. Qualcuno dice che somiglia al cantante dei Nomadi, quello che c’era prima. Ma io non lo so. So solamente che ha un suo fascino. Infatti RadioLab con-ferma: ha un suo che, sarà per via del cinema o di quel modo birichino di carezzarsi la

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barbetta furba.Lui, Lisa Tormena e Matteo Lolletti, assieme a altri due ragazzi, hanno fatto la Coop Sunset, che si occupa di produzione video,  comunica-zione, immagine. Fanno documentari, hanno il piglio della scrittura e della regia. Sono giovani e forti. I loro progetti sono conosciuti e apprezza-ti. Ne vanno fieri. “Siamo dei giovani professio-nisti che hanno messo insieme le loro capacità per fare della  partecipazione e della mutualità il punto di forza”.Matteo non verrà, ma Lisa sta arrivando. Prima che faccia il suo ingresso è ormai sceso il buio. E Michelangelo sorride: “...ma ora abbiamo dovu-to ampliare il nostro staff perché per fortuna il lavoro ha cominciato ad ingranare”. Ecco Lisa Tormena.  Sono belli questi della Sunset. Si met-tono a disposizione e ci raccontano chi sono e che fanno, di Forlì e del cinema. “La produzione video, in particolare quella documentaristica, è il campo in cui maggiormente operiamo”. L’o-biettivo? L’obiettivo è quello di riuscire a pro-durre solo lavori sociali, ma ora come ora non possiamo farlo, siamo costretti a prendere tutto. Cioè non tutto, anche lavori che ci piacciono meno.”La strada del successo è tortuosa e in salita. Che poi chi lo dice che sia il successo quello che

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conta, non sarà mica la strada? Questa impres-sione mi danno, mentre parlano, Lisa e Miche-langelo. La strada, la loro strada è piena di una forza magica. E piena di futuro, di altri passi.  Mi fermo a pensare che questo nostro Lab si basa proprio sui passi. Sul suono dei passi che risuonano nelle strade (ancora la strada), sulle voci, gli sguardi, gli incontri. Sulle speranze e le attese di ognuno. Di chi aggiunge un pezzetto alla storia collettiva di tutti.Ma voi avete una storia per raccontare la vostra città? Lisa: Io penso che Forlì sia una città con poten-zialità nascoste.Michelangelo: Io penso che ci siano troppi giovani che si lamentanoLisa: è sempre così, noi ci compensiamo, io sono la positiva, lui quello un po’ più negativo.Michelangelo sorride e si gode le parole di Lisa. C’è qualcosa di intrigante nel suo parlarsi un po’ addosso, battibeccare col sorriso e l’ironia. “Ogni tanto ci scontriamo  perché proprio la pensiamo in modo diverso su alcune questio-ni”, ma è anche bello confrontarsi così. Ne-

anche il tempo di finire i sorrisi che arriva il siluro.“E tu ce l’hai una frase per raccontare la città e il senso di quello che fai?”Beh, sì, boh, no. Non si fa così, io faccio le do-mande e voi date le risposte.“No no, cara, è un incontro, stiamo conversan-do e ci scambiamo idee”.Non hanno torto, ma pazienza. Uscita di sicurezza: un bel sorriso e ci si ride sopra. Mi soccorrono gli altri che hanno sempre una frase in testa da dire, un concetto tenuto nel taschino per intrattenere il mondo. Boh, io non ci riesco, mi godo però l’energia bella di questa chiacchierata che è notte, nella stanzina dove i ragazzi di Sunset fanno il loro corso di cinema. Deve essere bello.E per chiudere questa conversazione e racconto metto in successione dei video che riportano i loro lavori. Intanto per la prossima volta preparo un’idea.

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TEMPIO JAZZ

Se a Forlì si parla di musica, inevitabilmente uno dei primi pensieri corre al “Naima”, tempio cittadino dedicato al jazz e al blues. In questo locale sono passati i più grandi artisti della scena internazionale ed hanno mosso i primi passi giovani emergenti, oggi celebrità affermate. È grazie a realtà come queste che Forlì , la città di provincia con poco più di 100.000 abitanti, si è tra-sformata, in occasione di memorabili concerti, in capitale della cultura, permettendo agli appassionati di viaggiare col pensiero ed immaginarsi altrove, tra il Mississipi e la Route 66.Sembra incredibile, eppure proprio al Naima sono passati personaggi come Chet Baker e ., Vinicio Capossela.Oggi il locale compie 30 anni e, per festeggiare, Michele Minisci, deus ex machina del club, ha pensato di organizzare un’iniziativa importante che si svilupperà fino al 30 dicembre prossimo: 30 concerti, in 30 luoghi diversi con 30 musicisti tutti forlivesi, da Danilo Rossi, prima viola alla scala di Milano, a Vince Vallicelli, batterista di fama internazionale.Tra i vari eventi, il concerto dal sapore più particolare è stato sicuramente quello svoltosi in carcere, alla presenza dei detenuti, che hanno potuto vivere qualche ora di spensieratezza, lasciandosi trascina-re dalla musica dei Rebel Cats, nota rock and roll band della città.La storia del Naima, racconta con grande passione e coinvolgimento da Minisci, è una storia di gene-razioni, di sogni, di vittorie, di sconfitte, di luci da palcoscenico e bicchieri per brindare o dimenticare. La storia del Naima è la storia di una sfida regolarmente combattuta contro ogni evidenza e buon senso. Un storia difficile da raccontare, perché le parole non possono spiegare l’emozione di quella musica, divenuta la musica della nostra città.

TESTO DI @STEFANO RANI

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IL GIORNALISMO E LA MENTE

TESTO DI @VALENTINA RENZI

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MICHELE DORI ARRIVATO PER CASO AL GIORNALISMO

IL GIORNALISMO E LA MENTE

Michele Dori, vive a Castrocaro Terme anche se è nato a Roma. Un po’ casualmente nel 2004 inizia a fare il giornalista, collaborando con la redazione di “una città”. Comincia, così, un’avventura nella carta stampata che continua ancora oggi, una professione alla quale Michele riconosce il preciso ruolo sociale di promuovere fatti e persone che altrimenti rimarrebbero sconosciute. Fare il giornalista ha anche un altro merito: aprire la mente.Michele, di cosa ti occupi? Macchina fotografica, computer, carta e penna sono sempre con me: questa è metà della redazione di Forli24ore, portale di in-formazione che non ha una redazione fisica e che viene portato avanti, oltre che da me, dal mio collega Enrico Samorì. Ho iniziato a fare il giornalista nel 2004, collaborando con “una città”. Nel 2009 sono passato al Corriere

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GIORNALISMO ONLINE E FEED BACK CON I LETTORI

POSSIAMO CONTARE SULLA VE-LOCITA’ DEI SOCIAL NETWORK

Romagna, occupandomi di cultura e spettaco-li, cronaca, costume. Nel 2011 ho cominciato a scrivere per Polis, quotidiano di Parma, concentrandomi sulla parte di cultura e spetta-colo. Dentro Forli24ore mi occupo un po’ di tutto: si chiama così perché gli aggiornamenti avvengono veramente 24 ore su 24.Che pregi ha il giornalismo on line rispetto al giornalismo cartaceo? La risposta e il feed back diretto dei lettori. Noi abbiamo deciso di usare un filtro e non rendere pubblici proprio tutti i commenti, ma solo quelli che possono essere utili a svilup-

pare un discorso, un dibattito. Un altro pregio dei giornali on line tenuti dai giovani è quello di avere uno stile veloce tipo Facebook. Tutto questo non c’è nel formato cartaceo: il giorna-lista scrive gli articoli senza ricevere un feed back e questo non è più adatto ai tempi che stiamo vivendo e, soprattutto, è lontano dal target di lettori di età tra i 25 e 40 anni.

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L’ASCOLTO

Stefano Ignone, redattore delle riviste Una città e Questa Città. “La complessità è una parola difficile e antipatica. È il contrario della semplificazione che distrugge la realtà. Quello che si racconta è com-plesso, bisogna entrare nelle cose. Complessità è una parola bellissima per capire la realtà”.Stefano Ignone è un giovane giornalista che scrive per due periodici con sede redazionale a Forlì: uno nazionale Una città ed uno locale Questa Città. Entrambe le riviste hanno la peculiarità di ospitare al loro interno unicamente foto in bianco e nero e lunghe interviste. Stefano ci racconta come proprio questa modalità di inchiesta possa regalare grosse soddisfazioni. Come sottolinea, proprio stando a lungo a parlare con un interlocutore si ha la possibilità di raccogliere una testimonianza aperta e sincera, usufruendo del tempo giusto, senza forzature, magari dimenticandosi che si sta prendendo parte ad un’intervista. Stefano Ignone passa adesso da intervistatore a intervistato. Stefano, quando e come hai iniziato a fare il giornalista?Mi sono avvicinato prima ad Una città , ma non sono stato subito un intervistatore. Dopo la laurea ho fatto vari colloqui ed ho assistito ad una conferenza della rivista nazionale Una città. Stufo di come andavano i colloqui ho mandato una mail: mi hanno risposto e mi è piaciuto il loro modo. Ho svolto varie mansioni fino a cominciare a fare le prime interviste. Due anni fa è nato il progetto di una rivista locale: Questa città. Prima di diventare giornalista, quali erano i tuoi riferimenti?Sono stato un grande lettore di romanzi e di quella narrativa dallo stile asciutto, secco, non mistifi-catore della realtà e del dettaglio. Ho sempre letto i giornali, come uno strumento - studiando infatti Scienze Politiche- ma non sono appassionato di un giornalista in particolare.La redazione di Una città è la stessa di Questa città?No, a parte un paio di elementi. Una città ha collaboratori sparsi in tutta Italia, si fanno riunioni na-zionali via skype, mentre la rivista locale Questa città ha collaboratori che stanno qui, a Forlì.Parlaci di Una città e Questa città.Una città e Questa città sono due riviste figlie di quella generazione degli anni ‘70 che, stanca di cer-care risposte, cominciò a fare domande. Dopo il 1989 e la caduta del muro di Berlino, nel giornalismo c’è la tendenza a fare domande e ad ascoltare, a portare avanti un’indagine sociale e sociologica fatta di interviste rivolte alla grande varietà delle persone. La verità va cercata proprio tra tante persone, im-parando ad ascoltare, non tagliando con l’accetta. Per noi, con Questa città, fare questo nel compren-sorio forlivese è ancora più arricchente. Una città viene venduto in abbonamento è più di nicchia, mentre Questa città esce in edicola e vuole essere più un mezzo di massa. Cosa ti piace di più del tuo mestiere?Sfidare i pregiudizi che hai. Magari vai a fare un’intervista convinto di sapere tutto, invece se ti apri all’ascolto capisci molto di più.

TESTO DI @VALENTINA RENZI

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BASSO, TARCHIATO. COI BAFFI

TESTO DI @ANNA FRABOTTA

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CARMELO PECORA, L’ISPETTO-RE SCRITTORE SI RACCONTA

BASSO, TARCHIATO. COI BAFFI

«Un ispettore basso, un po’ tarchiato e con i baffi» Carmelo Pecora si racconta seguen-do la descrizione che di lui ha dato Andrea Cotti, scrittore bolognese che ne ha fatto il protagonista di due dei suoi romanzi, Un gioco da ragazze (Colorado Noir) e L’ora blu (Aliberti). Carmelo in effetti è così, ma io per descriverlo preferisco usare altri termini, come brillante o eccezionale. Si presenta con una bella stretta di mano ed un sorriso che rincuora, mi dice di non essere uno scritto-re, ma solo uno che racconta storie perché di storie Carmelo ne ha tante da raccontare. Inizia subito a parlare di sé fornendomi qual-che riferimento biografico: nasce e cresce ad Enna - «il capoluogo di provincia più alto d’Italia» mi ricorda - intraprende la carriera di poliziotto e proprio per il suo lavoro gira tutta l’Italia. Sta a Roma, poi a Bologna dove conosce la donna che diventerà sua moglie,

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ASSIEME ALLA MOGLIE DECIDE DI TRASFERIRSI A FORLI’

infine torna ad Enna, ma «per quanto amassi il mio paese mi rendevo conto che non mi per-metteva di crescere come uomo» mi confessa, arricchendo la sua affermazione con qualche aneddoto: «una volta provai a multare un signo-re per divieto di sosta, ma mi sentii rispondere “guarda che lo dico a tuo padre”, mancava il ri-spetto per l’autorità». Così assieme a sua moglie decide di trasferirsi a Forlì, una scelta casuale, presa non senza un velo di sofferenza e nostalgia per poter regalare un futuro migliore ai suoi figli. Scegliendo Forlì forse Carmelo voleva evitar-gli di provare quel senso di noia che lo portò appena dodicenne a scappare di casa insieme a due amici, una fuga breve con un epilogo quasi divertente, tre ragazzini sognano l’America, ma il loro viaggio finisce a Palermo insieme ai loro soldi. Certo è che se Carmelo Pecora non fosse scappato di casa non avrebbe mai avuto modo di regalarci il suo primo romanzo autobiografico, Tre ragazzi in cerca di avventura.Nel frattempo Carmelo ne ha fatte di cose, la sua può essere definita come una vita particolare perché si è intrecciata alle principali vicende che

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PER TOGLIERSI QUEL SENSO DI NOIA TIPICO

SUL POSTO DEL RITROVAMENTO DEL COPPO DI MORO

hanno segnato tragicamente la storia recente del nostro paese. Era poliziotto da soli otto mesi quando si ritrova per primo insieme ad alcuni colleghi sul luogo del ritrovamento del corpo di Moro, da questa esperienza nascerà uno dei suoi libri più famosi, 9 Maggio 1978, in cui la storia dell’omicidio Moro si intreccia non solo a quella personale di Carmelo, ma anche a quella di un altro omicidio avvenuto quello stesso giorno, meno noto, ma non per questo meno importante, quello di Peppino Impastato, un giovane di Cinisi che con la sua trasmissione radiofnica non ci riusciva pro-prio a farsi i fatti propri e a chiudere gli occhi di fronte alla mafia locale. Due personaggi diversi Moro e Impastato, ma che lottavano per gli ideali in cui credevano, è questo il pa-rallelismo che Carmelo ci suggerisce nel suo romanzo.

Ma le sue “avventure” non si fermano al ritro-vamento di quella Renault rossa, così come i suoi romanzi non si fermano con 9 Maggio 1978. Carmelo c’era anche a Bologna quel maledetto 2 agosto del 1980: «stavo lavorando in mensa non molto lontano dalla stazione quando scoppiò la bomba, sento ancora il rumore nelle orecchie», il suo volto diventa buio mentre mi racconta di aver scavato a mani nude fino allo stremo nelle macerie. Carmelo è nuovamente protagonista della storia italiana e nuovamente decide di raccontarcela in un romanzo, Polvere negli occhi, in cui passa in rassegna gli avvenimenti della fine degli anni ‘70 fino a raccontarci ad una ad una chi erano le 85 persone che persero la vita quel giorno nella stazione di Bologna, tutto a partire dalla sua storia personale, quella di un giovane po-liziotto della scientifica nei suoi primi anni di

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servizio.Stessa sensibilità la ritroviamo anche in un altro dei suoi romanzi, Ustica. Confessioni di un angelo caduto, in cui racconta la triste vicenda di Antonino “Nino” Greco, un suo collega appena ventitreenne che perde la vita sul DC9 dell’Itavia Bologna-Palermo che pre-cipitò il 27 giugno 1980. Carmelo mi racconto del suo incontro con la madre di Antonino, una donna distrutta dal dolore non solo per la perdita del figlio, ma anche per non aver conosciuto giustizia, me ne parla come di uno dei giorni più intensi e toccanti della sua vita e sorride quando mi dice del rapporto che ha col fratello di Nino che adesso chiamo lui, Carmelo, “fratè”.Passati gli anni più tragici della storia italia-na, anche Carmelo trova una sua stabilità a Forlì dove diventa ispettore di polizia - «a

Forlì grazie al mio lavoro ho avuto modo di conoscere tantissime persone, ho preso tante di quelle impronte digitali» mi racconta sor-ridendo - e poi mi parla di tutti gli stranieri che ha incontrato, di quelli che sono passati in commissariato, dei tanti bambini, dei loro sorrisi e dell’arricchimento personale che ha ricevuto da ognuno di loro: «mi ha dato tanta umanità incontrare tante etnie diverse» ed è proprio l’umanità il filo rosso dei suoi romanzi oltre che della sua vita.

IN USTICA RACCONTA DI ANTONINO GRECO

NEL CAPOLUOGO ROMAGNOLO CARMELO DIVENTA ISPETTORE

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SOLIDARIETA’

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SOLIDARIETA’

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ANNA, IL MITO

Chi è la signora Anna? Difficile racchiudere l’essenza di una persona in poche righe, ancor più difficile se si parla di quella che ormai è una vera e propria leggenda tra gli studenti forlivesi. No, non si tratta dell’esagerata opinione di chi scrive, la signora Anna è davvero una leggenda perché ha colmato un vuoto che questa città, pur pullulando di studenti da ogni dove, ha da sempre: l’assenza di una mensa universitaria. Ricordo ancora la mia prima volta nel piccolo forno di via Oreste Regnoli, la prima impressione non fu positiva, il locale era piccolissimo e allo stesso tempo troppo pieno, pieno di cose, ma anche di per-sone, tanto che dovetti aspettare una buona mezzora prima di essere servita. Continuavo a chiedermi come mai ci fosse tanta gente, ma soprattutto come mai i miei amici insistevano per restare nono-stante la coda. La motivazione iniziai ad intuirla una volta giunta alla cassa, meno di due euro per un enorme panino col prosciutto crudo, ma mi fu completamente chiara solo a fine pasto, quando vidi arrivare la signora Anna con una moca e un vassoio colmo di dolci: tanto io entro sera devo buttarli via, preferisco che li mangiate voi, ci disse con cordialità. Ho passato tanti pomeriggi nel forno di via Regnoli imparando ad apprezzarne non solo la qualità del cibo e i prezzi bassi, ma soprattutto i rap-porti umani che si sviluppano al suo interno, come si trattasse dello scorcio di un paese che sopravvi-ve al grigiore della città. Da Anna sorridi, incontri tanta gente, ma soprattutto ti senti a casa.Siamo andati a far visita alla signora Anna, l’abbiamo trovata indaffarata, sorridente e incredula. Di essere uno dei personaggi degni di nota di questa città lei non se lo aspettava proprio, ma come potrebbe essere altrimenti per chi ci saluta affermando di sentirsi come una mamma per gli studenti fuorisede della città?

TESTO DI @ANNA FRABOTTA

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RICREAZIONE A VILLAFRANCA

TESTO DI @VALENTINA RENZI

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FABRIZIO FOCA RACCONTA LA SUA RICREAZIONE

RICREAZIONE A VILLAFRANCA

Fabrizio Foca fa parte dell’associazione di promozione sociale Ricreazione, nata circa cinque anni fa, sotto sollecito della pubbli-ca amministrazione, e operativa nella zona di Villafranca. L’associazione, che opera in aiuto dei comitati di quartiere, delle circo-scrizioni e della pubblica amministrazione, riceve proprio da queste fonti finanziamenti e sovvenzioni. Ricreazione conta sei soci, tutti volontari del territorio, che portano avanti varie attività tutte volte a creare e rafforzare la relazione tra i ragazzi del quartiere e quelli extracomunitari. All’origine dell’associazio-ne c’era, infatti, l’esigenza di far interagire proprio all’interno di Villafranca le varie componenti. Le diffidenze e i pregiudizi, più che a livello dei ragazzi, si manifestavano tra gli adulti, a livello delle famiglie: c’era il divieto di frequentazione di figli di extraco-

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CON L’ASSOCIAZIONE SONO STA-TI FATTI GRANDI PASSI

munitari e, qualora si verificasse qualche furto, erano sempre gli stranieri ad essere frettolosa-mente accusati. Adesso la situazione è cambiata: i ragazzi di entrambe le parti si frequentano nelle case e, se qualche barriera è rimasta, la si trova solo negli adulti. Da quando l’associazione Ricreazione ha cominciato ad operare ad oggi l’integrazione c’è e si nota. A cementare le rela-zioni un programma di attività vario: la squadra di calcio maschile, il laboratorio teatrale rumors - la cui attività culmina in due rappresentazioni teatrali messe in scena nel territorio - i corsi di chitarra, e, da Gennaio 2012, l’attività di aiuto allo studio, per il momento rivolta ai ragazzi residenti a Villafranca ma in futuro allargabile anche ai territori limitrofi. Durante la settimana ci sono, inoltre, due ore di attività libera: ragazzi e ragazze si ritrovano in uno spazio all’interno della polisportiva Giulianini e si confrontano tra loro, monitorati da due educatori.Ogni anno, durante la prima settimana di giu-gno, viene organizzata una grande festa dove viene fatto vedere tutto quello che si è realizzato durante l’anno. In questa occasione ha anche

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E ORA L’INTEGRAZIONE NON E’ SOLTANTO TEORICA

C’E’ ANCHE UNA SQUADRA DI CALCIO IL VILLAFRANCA CREA

luogo la Fiera del baratto: i ragazzi di varie scuole portano oggetti usati che poi scambie-ranno con altri. Fabrizio Foca si occupa in pri-ma persona della squadra di calcio denominata “Villafranca crea”, composta da ragazzi di età compresa tra i sedici e i venti anni. La squadra è inserita all’interno del campionato Uisp. In questa attività Fabrizio crede fortemente e ha investito molto impegno. L’idea di creare una squadra di calcio nasce da diverse motivazioni: prima di tutto la specifica conoscenza da parte di Fabrizio dell’ambiente del calcio, la capa-cità di questo sport di essere uno strumento di aggregazione, e il desiderio manifestato dai giovani di giocare a questo sport, usando impropriamente gli spazi disponibili. Nel giro di quattro anni Fabrizio ha visto una forte ma-turazione fra i suoi ragazzi e una crescita, non tanto in termini di risultati calcistici, quanto

a livello umano: ragazzi che non riuscivano a rapportarsi agli altri hanno imparato a stare in gruppo e a rispettare le regole. Un’esperienza che si è rivelata una vera palestra di vita.

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WELCOME

Adele Pagnotta è una giovane educatrice, responsabile del centro educativo Welcome, situato nei locali della parrocchia di Sant’Antonio Abate in Ravaldino. Il centro nasce circa nel 2000, in risposta alle esigenze della Caritas, che si occupa già di alcune famiglie di migranti per i bisogni relativi alla ricerca del lavoro e della casa, così come per la regolarità dei documenti. Era infatti necessario, soprat-tutto per i bambini, anche un supporto educativo. Inizialmente il servizio viene offerto da un gruppo di volontari, impegnati a seguire un numero ristretto di bambini nello svolgimento dei compiti. Nel corso degli anni il doposcuola si struttura sempre più: il numero dei bambini aumenta e dal 2005 anche i rapporti con le scuole si consolidano. Nel 2010 il centro vince un bando di finanziamento per un’operatrice fissa, coadiuvata da collaboratori indetto dalla fondazione Cassa dei Risparmi di Forli-Cesena. Oggi, oltre ad Adele, il collaboratori-volontari sono circa trenta e si occupano di sessanta bambini delle elementari e di venti ragazzi delle medie. Il centro è aperto a tutti, ma la maggioranza di chi lo frequenta è costituita da migranti di seconda generazione provenienti spesso da famiglie in difficoltà economica. La prima parte del pomeriggio è dedicata allo studio e allo svolgimento dei com-piti, mentre la seconda parte prevede attività di gioco o laboratori. Il centro è frequentato anche da sei giovani di età compresa tra i sedici e i ventidue anni che si impegnano come aiutanti. Adele, commen-tando i risvolti del proprio lavoro, ci rivela che la soddisfazione più grande è che i bambini e i ragazzi vogliono venire, sono costanti e spingono i genitori ad iscriverli. La frequentazione del centro Wel-come, come sottolineato dalla responsabile, migliora i risultati scolastici e facilita la socializzazione all’interno delle classi. I genitori stranieri tendono, infatti, ad affidare molto i figli e il loro andamento scolastico agli educatori. Un altro aspetto che Adele vuole porre alla nostra attenzione è come l’im-pegno presso il centro sia un’occasione di crescita anche per i volontari che, segnati proprio da questa esperienza di servizio, magari decidono di voler diventare educatori professionisti. Con rammarico Adele ci fa notare come i passi da compiere per una più reale integrazione siano ancora molti e come il centro Welcome sia solo un primo tassello. Il rapporto tra la città e le seconde generazioni, soprattutto nella fascia d’età dell’adolescenza, è ancora piuttosto problematico e difficile. La causa di questo disagio si potrebbe imputare alla mancanza, proprio in centro storico - dove si concentrano la maggior parte delle abitazioni dei migranti - di uno spazio adeguato. Dopo la positiva esperienza del centro educativo Welcome, si potrebbe pensare di avviare un centro di aggregazione con attività ricreative per la gestione del tempo libero. Su questo versante occorre da un lato sensibi-lizzare e coinvolgere la cittadinanza, dall’altro lato trovare il sostegno delle autorità pubbliche.

TESTO DI @VALENTINA RENZI

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BABYLON LO SLOW SHOP A FORLì

TESTO DI @VALENTINA RENZI

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BABYLON LO SLOW SHOP A FORLì

Nel cuore del centro storico di Forlì, in via Giorgio Regnoli n.33, sorge Babylon, non un semplice negozio, ma uno spazio multifun-zionale gestito dall’omonima associazione culturale che, oltre alla vendita, offre ai pro-pri clienti un ventaglio di servizi aggiuntivi. Babylon, infatti, è uno slow shop di second hand di abbigliamento per bambini dai 0 ai 10 anni e di attrezzature quali passeggini, seggioloni tutti in ottimo stato e offre una vasta gamma di prodotti ecologici quali pannolini lavabili, abbigliamento e bianche-ria in cotone ecologico, detergenti e cosmesi naturale per mamme e bimbi, giochi in legno, stoffa, carta e in materiali di riciclo. L’associazione durante tutto l’anno organiz-za incontri che promuovono l’attuazione di buone pratiche quotidiane, uno stile di vita ecosostenibile, il riciclo e il riuso. Ai bambini sono dedicati numerosi laboratori creativi, mentre ai genitori - sia mamme, sia papà - vengono proposti percorsi di consa-pevolezza genitoriale.

Vania Vicino è una delle socie fondatrici, assieme a Maya Piccolo e Francesca Cecco-lini. In questa avventura ognuna di loro ha contribuito a partire dalla propria esperienza e dal proprio vissuto di madre.Vania, quando nasce Babylon e quali obiet-tivi volevate perseguire? L’associazione Babylon nasce nel gennaio 2011. A partire dall’ottobre del 2010 Maya, Francesca ed io ci siamo trovate insieme a parlare dell’idea di creare un punto sul riuso. La nostra è stata la prima idea di second hand a Forlì, dedicato non solo alle attrezza-ture ma anche all’abbigliamento per l’infan-zia. Tutte e tre il quel momento avevamo del tempo libero e volevamo trovare un luogo dove, oltre al second hand, potevamo anche creare un punto di accoglienza per l’ecolo-gia, intesa sia in termini fisici, sia in termini emozionali. La ricerca del luogo ci ha por-tate nella casa natale di Giorgio Regnoli, per molteplici motivi quali riportare un po’ di vita in centro, in una via difficile, con molti

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negozi sfitti e una spiccata multiculturalità. Nel marzo 2011 Babylon apre e questa realtà acquista consapevolezza man mano che prende vita. Oltre al second hand il negozio offre un mondo: c’è tut-to quello che può riguardare l’approccio etico alla maternità e alla puericultura. Ci sono, ad esempio, giochi in legno e stoffa che lasciano libera la fan-tasia. Stiamo ampliando anche la parte editoriale che può offrire un punto di vista più naturale alla gravidanza. Inoltre facciamo parte della Leche Le-ague, ossia la lega internazionale dell’allattamento: siamo l’unico punto a Forlì che organizza incontri liberi e gratuiti a sostegno dell’allattamento ma-terno. Ci si trova una mattina al mese, di solito il sabato. Oltre alla vendita, Babylon organizza tutta una serie di attività: “naturalmente madri” attual-mente conta una ventina di iscritte e si rivolge alle mamme, sia durante la gravidanza, sia nel post parto, aiutandole ad accrescere la propria consa-pevolezza. Abbiamo anche i laboratori per bambi-ni dai 3 ai 5 anni: adesso ne abbiamo in corso uno musicale in collaborazione con la scuola di musica popolare di Forlimpopoli e a dicembre ne avremo uno natalizio con la Casa del cuculo.Le vostre attività si rivolgono anche ai padri?Sì, abbiamo laboratori dedicati ai soli padri. Se è vero che le donne diventano madri, per gli uomi-ni diventare padri è altrettanto una rivoluzione.

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Anche il padre, tante volte, deve affrontare delle novità emozionali. Noi abbiamo circa cinque papà che si contrano con un altro papà: parlare tra uomini crea una maggior sintonia. Questi papà sono i compagni di alcune donne che stanno seguendo il corso pre-parto. Alcuni hanno continuato a trovar-si anche nel post-parto.Il vostro dunque è target molto vario .Sì, e vengono molte persone anche da fuori Forlì: Bertinoro, Riolo, Dovadola, Predappio, da tutta la provincia perché i nostri corsi pre-parto rispetto a quelli ospedalieri - più fisico-tecnici - affrontano tutto l’aspetto emozionale e ti aiutano ad affrontare la gra-vidanza in modo più consapevole.Negli ultimi anni gli stili di vita ecosostenibi-li e il riuso si stanno diffondendo sempre di più. Quando voi avete aperto a Forlì, però, eravate delle pioniere. A quale modello vi siete ispirate? Ci siamo ispirate al nostro bisogno. Siamo tutte e tre madri di bambini tra i 3 e i 6 anni. Ognuna di noi ha vissuto la maternità in

modo diverso, non standard. Ci siamo chieste perché a Forlì non c’è un posto dove poter ac-quistare pannolini lavabili, fasce porta bebè, un luogo che offra un supporto anche per i bisogni psicologici . Da noi puoi trovare un panorama completo di tutto quello che in gravidanza, e anche dopo, ti può servire: non siamo solo una giocattoleria o uno spazio commerciale, siamo uno “slow shop per tutta la famiglia”. Abbiamo anche una sala dedicata al gioco spontaneo per i bambini e un “baby pit stop”, cioè un punto con fasciatoio, pannolini e asciugamani puliti per un cambio veloce del proprio bimbo e un riforni-mento di latte.Progetti per il futuro?In progetto c’è la creazione di corsi per bimbi più piccoli, di età inferiore ai tre anni, che coinvolga-no anche le mamme. Abbiamo anche pensato di fare incontrare le mamme italiane con mamme di altre culture durante delle merende inter-culturali per confrontare stili di vita diversi. In questo momento stiamo sostenendo un progetto di educazione libertaria condotto da Debora Stenta.

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CO-HOUSING

Due anni fa, a Villafranca, una delle periferie di Forlì, è nata la cooperativa Case Franche che conta tra i suoi soci Fabrizio Foca, geometra, e sua moglie architetto. La cooperativa nasce per portare avanti un progetto ben preciso, ossia una proposta - la prima in zona - di co-housing. Questo termine lette-ralmente significa co-abitazione e sta ad indicare una modalità di vivere che ha origine in Danimarca attorno agli anni ‘70: gli individui, per mantenendo la proprietà privata, scelgono di condividere alcu-ni spazi e alcuni servizi per essere di mutuo aiuto.Fabrizio e la moglie, lavorando nel settore dell’edilizia, si sono chiesti quale possibilità abitativa potes-se contrastare il problema sempre più diffuso della speculazione edilizia e la co-abitazione è sembrata loro rispondere a questa necessità e, allo stesso tempo, potersi adattare a soluzioni di vita eco-sosteni-bili.È così che, quattro anni fa, è nata l’idea attorno alla quale stanno tuttora facendo socialità e sensibiliz-zazione, riscuotendo già interesse. Due anni dopo, è nata la cooperativa Case Franche che ha com-prato un lotto di terra e alcune case in zona San Martino in Villafranca. Si tratta di diciotto abitazioni, tutte alimentate in modo ecosostenibile e con sistemi fotovoltaici, così da favorirne l’autonomia dal punto di vista energetico, inoltre il loro costo è inferiore rispetto al prezzo di mercato. Oltre la casa privata sono previsti degli spazi comuni, nei quali si condividono alcune attività: la cucina, la lavande-ria, l’accudimento dei bambini. All’interno del quartiere di Villafranca questo progetto sta crescendo: si sta, infatti, pensando di attivare anche un servizio di carsharing con auto elettriche, così da ovviare al disagio dovuto alla presenza di pochi mezzi di trasporto pubblici. Questo progetto, che rappresenta una valida alternativa solidale alle speculazioni edilizie, ha girato l’Europa e ha riscosso molti con-sensi anche a livello locale, al punto da essere patrocinato da ben quattro assessorati comunali, tra cui l’assessorato all’ambiente, l’assessorato all’urbanistica, l’assessorato al welfare e alle politiche sociali.

TESTO DI @VALENTINA RENZI

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LIBERI PENSIERI NEL SOFTWARE

TESTO DI @ROSSELLA VIGNOLA

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LIBERI PENSIERI NEL SOFTWARE

Le circoscrizioni di Forlì nascondono pre-ziosi segreti. Incontro Raffaele Ravaioli e Riccardo Corrado in una saletta della Cir-coscrizione numero 3, in via Dragoni. Ma non si tratta di una stanza qualsiasi: le pareti sono ricoperte da volumi enormi, con scritte dorate su copertine rivestite di tessuto rosso. Curiosa, ne prendo uno, un po’ impolvera-to. Dentro, milioni di puntini in altorilievo. E’ un libro scritto in braille, un libro che si legge con le mani. Ce ne sono decine di altri, perché la stanza in cui incontro Raffaele e Riccardo dell’associazione culturale Forlì-Linux User Group (FoLUG) è in realtà la minuscola, ma preziosissima, biblioteca per non vedenti Spartaco Fabbri.Anche Raffaele e Corrado usano le mani per leggere i segreti più reconditi dei computer. La nostra conversazione inizia discutendo della hacker attitude: l’istinto di mettere le mani nelle cose. La volontà di capire come sono fatte, come funzionano, e cosa fare per migliorarle. Guidati da una curiosità insazia-

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bile nei confronti della tecnologia. E con spirito di scoperta, di gioco. Insomma, racconta Raffae-le, “è gente che smonta le televisioni soltanto per vedere come sono fatte”. E ammette che, a forza di provare sistemi operativi e programmi, ha rovinato delle macchine, buttato via dei dischi. Precisa Riccardo: “il termine hacker col tempo ha assunto una connotazione negativa, dovuta al fatto che gli hacker spesso violano la legge. Ma il movente originario è la curiosità, non la sfida all’autorità e alle leggi”. La cultura hacker è etica, filosofia, sogno. Sogno di un mondo libero, an-tiautoritario, antiburocratico, solidale.Il FoLUG è un’associazione culturale nata a Forlì nel 1998 per la difesa e la promozione del Free Software e delle idee che ne sono alla base. Gli amici del FoLUG precisano che “free” non sta per gratis, ma proprio per libero: la parola migliore per sottolinearne la valenza etica e so-ciale. Il software è libero quando chiunque può utilizzarlo, studiarlo, modificarlo, migliorarlo. Il codice sorgente, il testo scritto in un linguaggio di programmazione che costituisce l’anima, la sorgente, appunto, di un qualsiasi programma, è rilasciato dal programmatore all’utente che può utilizzarlo liberamente. È una questione di liber-tà, non di prezzo. Libertà che Richard Stallman, l’informatico newyorkese laureato ad Harward,

geniale ideatore del movimento del Free Sof-tware, non esita a definire “libertà fondamen-tali”, come se si trattasse di una costituzione. Raffaele racconta dell’episodio che convinse Stallman, cresciuto in quell’incredibile labo-ratorio di innovazione che fu il Mit di Boston, ad abbracciare con convinzione e consapevo-lezza l’idea che il software debba essere libero. Accadde quando si vide negata la possibilità di modificare il sorgente di una stampante: se avesse potuto farlo avrebbe apportato quel-le modifiche che ne avrebbero migliorato il funzionamento: per tutti. Siamo agli inizi degli anni Ottanta, e la cultura hacker che tanto ave-va contribuito a rendere effervescenti e creativi I laboratori del Mit, inizia a frammentarsi. I produttori blindano i software. “Un crimine contro l’umanità”, sosterrà Stallman osservan-do i limiti alla libertà posti da queste moderne enclosures dell’era virtuale: “solo muri che dividono le persone”, scriverà ancora Stallman. E’ così che lascia il MIT alla ricerca di un suo modo per uscire vivi dagli anni Ottanta. Intraprende la grande avventura della Free Software Foundation (FSF) che raccogliendo programmatori, esperienze, ricerca, ma anche sostegno legale, si dedica alla creazione di un sistema operativo completamente libero chia-

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mato GNU. Nel 1991 il completamento, ad opera di un giovane studente di informatica finlandese di nome Linus Torvalds che scrive il kernel (ovvero il cuore del sistema operati-vo), l’ultimo pezzo ancora mancante. Nasce così GNU/Linux: un sistema operativo libero e aperto che permette lo sviluppo collettivo e naturale del software. È la libertà di accedere alle informazioni a consentire l’evoluzione della conoscenza. Sottolinea Riccardo: “Non saremmo arrivati fino a questo punto se le conoscenze non fossero state divulgate. La scienza si fonda sull’errore.”Il FoLUG si occupa di difendere e ricordare questa storia che è una storia di conoscenza e di libertà perché la “conoscenza è potere, rende consapevoli” dice Riccardo. I soci del FoLUG sono convinti che la filosofia e gli strumenti del Software Libero siano la base per uno sviluppo sociale innovativo, che per-metta di superare l’idea che la conoscenza sia patrimonio di pochi. Il FoLUG promuove corsi, conferenze, convegni che favoriscono la diffusione del patrimonio del Software

Libero, e lo scambio di conoscenze, sia tec-niche che filosofiche. Offre assistenza e aiuto gratuito indipendentemente dal proprio cre-do informatico. Collabora inoltre con enti ed istituzioni per promuovere la diffusione del Software Libero all’interno delle pubbliche amministrazioni. A partire dal 2006 ha rac-colto e donato, attraverso contributi sempre liberi e volontari, più di 2.500 euro ad enti internazionali che si occupano di Software Libero, come la già citata FSF, Mozilla, Wiki-pedia. In novembre sono programmati altri due appuntamenti, gratis ed aperti a tutti, del seminario di informatica giuridica: si parlerà di diritto d’autore, e delle diverse forme delle licenze d’uso, ma anche di privacy, dei diritti dell’utente, del diritto all’oblio. Perché al FoLUG non si riuniscono quattro sfigati con gli occhiali grossi, topi di biblioteche virtuali fatte di bit e codici binari. Ma cittadini attenti alle sfide e alle insidie della società dell’in-formazione, ed esploratori consapevoli delle ultime frontiere dell’universo digitale

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IN CHIUSURA

Dice la mia amica Lucrezia Zito che si dovrebbe parlare di posizionamento e presenza. Qualcosa quindi che ha a che fare con la mappa e con la relazione. Domani mercoledì sarò a Forlì per la secon-da tappa del Lab. Saremo alla Fabbrica delle Candele. Ma solo per incontrarci. Perché così come ho fatto alla prima tappa, ogni tipo di rituale introduzione al mondo dell’informazione, al giornalismo, a teorie e tecniche, lascia il passo - è il caso di dirlo - a qualcosa di diverso. Si esce in strada. Per fare che cosa, lo vedremo. Intanto si esce ed è un’azione simbolica e pura.Ci rifletto sempre. Sono cresciuto con i piedi nel dubbio: non accetto soluzioni facili dagli altri e nean-che da me stesso. Lo spaesamento che colgo nelle persone che attraversano il Lab è la stessa vertigine che vivo e che cerco. Un non sentirsi a casa, non sentirsi comodi, non cullarsi nelle proprie certez-ze e nelle abitudini. Restare nelle domande accese, prima ancora che avere la sicurezza che a quelle domande qualcuno ha già risposto e che per terra è già disegnato uno schema che ci fa compiere dei gesti, dare delle risposte, aspettarsi delle cose.Mentre scrivo e metto su carta quello che mi passa per la testa, penso che si può vivere benissimo senza tutto questo. Sarebbe più facile percorrere le strade del giornalismo come è sempre stato elargi-to, ma io persisto con le parole nuove per raccontare: posizionamento, presenza, mappa, relazione. Un punto di partenza civile, per poter riempire di valori un mestiere, una scrittura, una testimonianza. Non format ma pensiero. Spiazzando la realtà per meglio raccontarla, diceva Pier Paolo Pasolini. E ancora: guardarla con occhi stupefatti, non assuefatti. Con occhi da barbaro che sbarca sulle rive di un paese sconosciuto.Così, bisogna avere la forza di non essere conformisti. Poi il resto viene facendo del pensiero un’azio-ne. Innanzitutto in piedi. Ecco la prima svolta. In piedi, lontano dal computer, senza rete davvero se non quella umana dello sguardo (primo rapporto con la realtà), della relazione, del posizionarsi, del costruire la propria mappa. Altezza uomo (in piedi camminando). Perché restituisce umanità, fa stare dritti con la schiena, mette in moto un mondo diverso. Questo è il primo passo. E già questo è difficile da comprendere, da accettare. Ma senza questo primo passo non si può far niente che abbia un senso vero e rivoluzionario. Senza questo primo passo, niente.Grazie alle persone che partecipano a questa esperienza che un mio amico di Forlì, politico navigato, ha definito: visionaria. Ma perché c’è una visione, credo. O stanchezza per i luoghi comuni, irritabilità per chi fa della parola virtù e dell’azione ignavia. Domani un altro viaggio.

PS Questo testo è stato scritto prima del secondo incontro di Forlì Lab. Tante cose sono sucesse, parole, idee immagini, ma preferisco chiudere con queste riflessioni e con queste domande accese.

TESTO DI @ANTONIO CIPRIANI

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