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mondoperaio rivista mensile fondata da pietro nenni giannini cassese > pinelli > sandulli > d’alberti sigonella acquaviva > badini cambiando nencini > del bue > vizzini > intini > sajeva > pisani > buemi > pastorelli sassoli > magnani > bobo craxi > locatelli > de ruggieri > cianfanelli galli della loggia > tobias benzoni > o’gorman-schwartze > becchi > nannicini > buonomo cazzola > romano > d’ippoliti > di matteo > giuliani > covatta 11/12 novembre/dicembre 2015 nenni pasolini > di consoli memoria schmidt > gallino

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l. 27/02/04 N. 45 art. 1 comma 1) DBC

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ISSN 0392-1115

gianninicassese > pinelli > sandulli > d’alberti

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cambiandonencini > del bue > vizzini > intini > sajeva > pisani > buemi > pastorelli sassoli > magnani > bobo craxi > locatelli > de ruggieri > cianfanelli galli della loggia > tobias

benzoni > o’gorman-schwartze > becchi > nannicini > buonomo cazzola > romano > d’ippoliti > di matteo > giuliani > covatta

11/12novembre/dicembre 2015

nennipasolini > di consoli

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sommario / / / / mondoperaio 11-12/2015

>>>> sommario

mondoperaiorivista mensile fondata da pietro nenni 11/12

novembre/dicembre 2015

Direttore Luigi Covatta

Comitato di direzioneGennaro Acquaviva, Alberto Benzoni, Luigi Capogrossi, Simona Colarizi, AntonioFuniciello, Pio Marconi, Corrado Ocone,Luciano Pero, Cesare Pinelli, MarioRicciardi, Stefano Rolando.

Segretaria di redazione Giulia Giuliani

Collaborano a MondoperaioPaolo Allegrezza, Salvo Andò, Federigo Argentieri, Domenico Argondizzo,Antonio Badini, Valentino Baldacci,Maurizio Ballistreri, Antonio Banfi,Giovanni Bechelloni, Luciano Benadusi,Felice Besostri, Paolo Borioni, Enrico Buemi,Giampiero Buonomo, Dario A. Caprio,Giuliano Cazzola, Stefano Ceccanti, Luca Cefisi, Enzo Cheli, Zeffiro Ciuffoletti,Luigi Compagna, Carlo Correr, Piero Craveri,Bobo Craxi, Biagio de Giovanni, EdoardoCrisafulli, Gianni De Michelis, GiuseppeDe Rita, Mauro Del Bue, Danilo Di Matteo,Emmanuele Emanuele, Marcello Fedele, Aldo Forbice, Federico Fornaro, FrancescaFranco, Valerio Francola, Ernesto Gallidella Loggia, Vito Gamberale, TommasoGazzolo, Marco Gervasoni, GustavoGhidini, Ugo Intini, Massimo Lo Cicero,Emanuele Macaluso, Gianpiero Magnani,Bruno Manghi, Michele Marchi, PietroMerli Brandini, Matteo Lo Presti, Matteo Monaco, Enrico Morando, RiccardoNencini, Piero Pagnotta, Giuliano Parodi,Gianfranco Pasquino, Claudio Petruccioli,Giovanni Pieraccini, Carmine Pinto,Gianfranco Polillo, Paolo Pombeni, MarcoPreioni, Mario Raffaelli, Paolo Raffone,Giorgio Rebuffa, Giuseppe Roma,Gianfranco Sabattini, Antonio Salvatore,Giulio Sapelli, Giovanni Scirocco, Luigi Scoppola Iacopini, Carlo Sorrentino,Celestino Spada, Giuseppe Tamburrano,Giulia Velotti, Tommaso Visone, BrunoZanardi, Nicola Zoller.

Direzione, redazione, amministrazione, diffusione e pubblicità00186 Roma - Via di Santa Caterina da Siena, 57tel. 06/68307666 - fax 06/[email protected]

Le immagini di questo numero sono tratte dalla filmografia di Pier Paolo PasoliniImpaginazione e stampaPonte Sisto - Via delle Zoccolette, 25 - 00186 Roma© Mondoperaio Nuova Editrice Mondoperaio SrlPresidente del Consiglio di AmministrazioneOreste PastorelliRiproduzione vietata senza l’autorizzazionedell’editore. Il materiale ricevuto anche se nonpubblicato non si restituisce.

Ufficio abbonamenti Roberto RossiAbbonamento cartaceo annuale € 50Abbonamento cartaceo sostenitore € 150Abbonamento in pdf annuale € 25Singolo numero in pdf € 5Per sottoscrivere o rinnovare l'abbonamento con carta di credito o prepagata sul sito:mondoperaio.netoppure tramite c/c postale n. 87291001intestato a Nuova Editrice Mondoperaio srlVia di Santa Caterina da Siena, 57 - 00186 Romaoppure bonifico bancario codice IBAN IT46 Z0760103 2000 0008 7291 001 intestato a Nuova Editrice Mondoperaio Srl

Aut. Trib. Roma 279/95 del 31/05/95Questo numero è stato chiuso in tipografia il 30/11/2015 www.mondoperaio.net

editoriale 3

Alberto Benzoni Guerra

saggi e dibattiti 5

Teddy O’Gormann-Scwartze Oggi a Beirut, domani a Parigi Paolo Becchi Il disordine globale e i suoi derivati Tommaso Nannicini Appunti per i gufiGiampiero Buonomo I numeri al lotto Giuliano Cazzola La legge Boeri

sigonella 21

Gennaro Acquaviva La trappola per CraxiAntonio Badini La scelta di uno statista

giannini 1915/215 29

Sabino Cassese Il politico, il riformatore, lo studioso Cesare Pinelli Lavare la testa all’asino Aldo Sandulli Al lavoro con Morandi Marco D’Alberti Il giurista innovatore

aporie 50

Antonio Romano La lingua dei doppiatori

memoria 53

Helmut Schmidt Chiari e fiduciosi Luciano Gallino Il lavoro e la società

sylos labini 59

Carlo D’Ippoliti L’economista multidisciplinare

cambiando 63

Luigi Covatta Governare il cambiamento Mauro Del Bue Il coraggio delle idee Carlo Vizzini Costruire il futuro Ugo Intini Il ventennio perduto Roberto Sajeva Ordine nel disordine Maria Pisani Fare politica Enrico Buemi Una nuova stagione costituente Oreste Pastorelli Unificare le politiche del territorio Elisa Sassoli L’alleanza fra merito e bisogno Gianpiero Magnani Lavorare meglio lavorare tutti Bobo Craxi La tempesta perfetta Pia Locatelli Liberi e uguali Raffaello De Ruggieri Un meridionalismo vincente Elisabetta Cianfanelli Start up ItaliaErnesto Galli della Loggia Difendere il legame socialeJozsef Tobias Riflessioni sull’EuropaRiccardo Nencini Non reduci ma pionieri

pasolini 110

Andrea Di Consoli Un germe di riformismo Pier Paolo Pasolini A Nenni

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Guerra. Anzi guerre. Perché è di queste che intendiamoparlare. Delle guerre che, oggi e nel futuro prevedibile,

si conducono nel mondo. E del loro impatto sull’Europa, con-cepita come esempio di convivenza civile. Guerre. Nuovi tipidi guerra. Quella che ha lo scontro di civiltà come ragiond’essere e l’asimmetria come suo metodo. E come tela difondo, la terza guerra mondiale evocata da papa Francesco.Non si tratta di modelli nuovi, almeno per l’Occidente. Leguerre di civiltà le abbiamo condotte da secoli, se non damillenni; il nuovo è semmai la sua condotta asimmetrica, cheappartiene agli ultimi decenni del secolo scorso. E anche laterza guerra mondiale è chiaramente una replica: ma attenzione,non delle prime due, magari su scala autenticamente mondiale,ma piuttosto di quelle evocate da Marx e da Lenin: senza peròla conclusione salvifica dell’avvento del proletariato e dellaconseguente fine della storia. E che, a differenza delle primedue, vedrà il rovesciamento dello schema clausewitziano,come nelle pagine che seguono sostiene Paolo Becchi, benchèin un’ottica diversa dalla nostra: non più la guerra comepolitica condotta con altri mezzi, ma piuttosto la politicacome guerra condotta con altri mezzi.Il nostro problema, quello che intendiamo affrontare in questasede, sta tutto nell’impatto: in un’onda d’urto che l’Europa -un esperimento senza precedenti nella storia, anche perchécostruito pazientemente nel corso di settant’anni di pace -vive in modo del tutto passivo. Sia perché la avverte come un-nuovo e oscuro flagello. Sia e soprattutto perché non è, qui edoggi, in grado di farvi fronte: e ne è, visceralmente e razio-nalmente, consapevole.Di quale impatto si tratta? E perché non siamo in grado difarvi fronte? È questo che dobbiamo tutti cercare di capire.Senza andare oltre; senza la pretesa di suggerire soluzioni. Apartire da un dramma - quello della guerra di civiltà e dellasua condotta asimmetrica - visto secondo le regole dell’unitàdi tempo e di luogo. Stiamo parlando, è ovvio, di Parigi, diMedio Oriente e dell’Isis. E soprattutto della reazione europea- dei gruppi dirigenti ma anche della gente comune - all’attaccosubito. Delle sue ambiguità e delle sue incertezze. Ma, prima

di farlo, è necessario, con tutto il rischio che ciò comporta,riferirci ai massimi sistemi: e cioè alla politica come guerracon altri mezzi in atto a livello mondiale.Inutile descriverne le forme, perché sono infinite: dalle piùvisibili alle più occulte, dalle più violente alle più pacifiche,da quelle basate sulle regole a quelle fondate sulla loroviolazione, da quelle che interessano i punti centrali delsistema a quelle in corso nelle sue aree più periferiche. Bene invece richiamare il terreno su cui si svolge il confrontoe le ragioni dei suoi principali contendenti. E qui la partita è“America/ resto del mondo”. Una realtà segnata, comunque lasi guardi, dalla messa in discussione in tutti i campi dell’egemoniaamericana, e dal tentativo americano di difenderla e/o di ri-conquistarla: da una parte riprendendo la propria marcia inavanti con mezzi propri; dall’altra cercando di fermare, invari modi, quella degli altri.In tutto questo non ci sono oscuri disegni criminosi, ma l’og-gettività delle cose: il fatto che il “sistema America” abbia bi-sogno, per perpetuarsi, dell’egemonia Usa. Non c’è nemmenol’esplodere incontrollato della violenza: il quindicennio diapertura del ventunesimo secolo è, senza tema di smentite, ilmeno sanguinoso tra quelli che hanno segnato la storia delmondo dallo scoppio della prima guerra mondiale. E non c’ènemmeno, per concludere, l’esito necessariamente catastrofico:perché il tanto disprezzato concerto delle nazioni esiste, eperché è più che probabile che questo darà luogo a componimentidi tipo multipolare e pacifico dei conflitti.Per tornare all’Europa, è anche più che probabile che la dinamicadei massimi sistemi si traduca in un ridimensionamento del suomodello. Pensavamo, all’indomani della caduta del muro diBerlino, di poterlo esportare, come corollario della nostramaggiore capacità di influenzare pacificamente i processi inatto al di là dei nostri nuovi confini. È accaduto esattamente ilcontrario: è accaduto che stiamo stati invasi dal mondo esterno.Capitalismo globalizzato, immigrazione incontrollata, conflittiviolenti d’ogni tipo, e infine guerre di civiltà. È accaduto che questa invasione abbia modificato, e non inmeglio, l’orizzonte delle nostre vite, tanto più in quanto percepita

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mondoperaio 11-12/2015 / / / / editoriale

>>>> editoriale

Guerra>>>> Alberto Benzoni

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come un processo oggettivo e incontrollabile. Ed è accadutoche questa sensazione diffusa di impotenza e di fallimento - edella politica e dell’Europa - sia la tela di fondo in base allaquale interpretare la nostra risposta all’attacco dell’Isis.Al principio, il discorso di Hollande, e soprattutto il suo“siamo in guerra”. Una guerra a tutto campo, da combatterenon solo in Medio Oriente ma anche sul suolo francese; unaguerra che mobilita tutti, anche nell’accettazione piena dellesue conseguenze (maggiori poteri al governo, restrizione deglispazi di libertà); una guerra infine su cui la Francia richiede lasolidarietà (basata peraltro su intese bilaterali) di tutti, proprioper la natura della posta in gioco: la distruzione dell’Isis o lasconfitta dell’Occidente. Una chiamata alle armi in pienaregola. E, aggiungiamo, sostanzialmente identica a quellalanciata da Bush quattordici anni fa (a parte il dispositivofinale: il presidente americano aveva già in mente gli “stivalisul terreno”, quello francese ancora no).Un fatto che può suggerire le più diverse, e polemiche, consi-derazioni. Ma che qui ci interessa da un unico punto di vista:il grado di accoglimento dell’appello. Allora l’unanimeconsenso, interno e internazionale (un capitale poi stupidamentesperperato: ma questo è un altro discorso); oggi una serie dirisposte reticenti o gravate da riserve mentali, sino all’esplicitapresa di distanza da parte del governo italiano ed al silenziopensoso delle autorità europee preposte alla bisogna.Chi ha ragione? Chi ha torto? Che cosa bisogna fare? Chiscrive suggerisce una sospensione del dibattito. E quindidel giudizio. Si facciano, per l’intanto, le cose su cui esisteuna sostanziale concordia d’intenti, che non sono né pochené insignificanti (unificazione operativa dei sistemi di in-telligence; maggiori controlli in Europa; azione militare co-ordinata in Medio Oriente che preveda comunque unapresenza sul terreno di truppe occidentali che sia la minore

possibile; e infine priorità assoluta al negoziato di Vienna).E allo stesso tempo si sottopongano tutti i discorsi sullaguerra e sul come combatterla ad un preventivo “esame fi-nestra”, per scegliere quelle che presentino il minor numerodi controindicazioni.Non si tratta di ricette minimaliste, o di un’operazione diigiene culturale e/o morale contro gli sciacalli e gli arruffapopoloche dominano i vari talk show. Si tratta del fatto che non sipuò affermare l’esistenza di uno stato di guerra (e soprattuttoconcentrare la discussione su questo punto) senza avere laminima nozione di che cosa si parla. Detto in parole povere,senza avere ben chiaro: contro chi si combatte (frange terrori-stiche? Popolazioni incattivite dalle ingiustizie e dall’emargi-nazione? L’estremismo sunnita? L’Islam in quanto tale?);quale sia il terreno dello scontro (l’Europa? Il Medio Oriente?L’intero arco delle crisi?); e infine, quali siano le cause dellaguerra stessa, e le relative “colpe”. Un dibattito tra europei che tende a diventare automaticamenteuna diatriba paralizzante tra buonisti e cattivisti, tra pacifistiimbelli e razzisti guerrafondai, tra sostenitori dell’integrazionee islamofobi più o meno acculturati: per giungere, seguendo ilnaturale filo delle opposte argomentazioni, a ritenere che laguerra si vince o si perde in Europa, e che lo scontro sarà dilunga durata.È la ricetta della nostra disfatta. Perché il fattore tempo giocaa nostro sfavore. Possiamo vincere, e anche in tempi rapidi,un conflitto condotto in un’ottica di razionalità politica inMedio Oriente: mentre uno scontro di civiltà condotto intempi lunghi all’interno del nostro continente, che lo si vinca(?) o meno, distruggerebbe non solo tutto quello che abbiamocostruito nel corso di settant’anni, ma anche la nostra stessaanima. E dunque calma e gesso: mai come oggi l’arma segretaper superare la prova.

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L’attentato del 12 novembre in un affollato quartiere sciitadi Beirut – una roccaforte del movimento Hezbollah –

era tanto prevedibile quanto inevitabile. Questo è infattil’ultimo di una serie di attacchi sferrati negli ultimi due annida terroristi sunniti contro gli sciiti libanesi. I kamikazeimbottiti di esplosivo sono arrivati a piedi, alla chetichella,confondendosi tra la folla nell’ora di punta. Un terrorista eraoriginario di un vicino campo profughi palestinese (i jihadistilegati ad Al Qaida o all’Isis reclutano miliziani anche fra i pa-lestinesi, loro correligionari); gli altri erano siriani. L’Isis harivendicato l’attentato: e anche se non l’avesse fatto, è ovvioche dietro all’orribile impresa ci sono i tagliagole del Califfato.Tutti i kamikaze sono stati indottrinati e addestrati militarmentein Siria. Le menti che hanno progettato il massacro miravanoa colpire al cuore il movimento Hezbollah, che è soffuso daun’aura di invincibilità. E ci sono riusciti. Non ci sarà un effetto a catena: i libanesi hanno pagato unprezzo altissimo, in termini di morti e di distruzione, durantela loro lunghissima guerra civile, che si è protratta per benquindici anni (1975-1990). Il Libano, che è sostanzialmentepacificato, si regge su un delicato equilibrio fra le tre comunitàpiù rappresentative, i cristiani, i sunniti e gli sciiti. Il paese deicedri è un collage di straordinaria complessità. Sono ben 18 leconfessioni religiose che fanno capo a quelle tre comunità, eall’interno di esse vi sono ulteriori suddivisioni. Gli armeni,circa il dieci per cento della popolazione, sono cristiani manon arabi; e i drusi, un po’ meno numerosi degli armeni,fanno parte per se stessi: la loro è una setta sincretistica (ènata all’interno dell’Islam, ma ha assorbito elementi da altretradizioni religiose).Spesso si stenta a capire la logica di ciò che succede in Me-dioriente. Ma in questo caso la situazione è chiarissima: ilconflitto siriano stra tracimando in Libano. Ripercorriamo letappe di questa ennesima tragedia. L’antefatto: Assad, checome nelle dinastie d’altri tempi eredita la guida della Siriadal padre Hafez, garantisce alcune libertà e modernizza ilpaese, ma gestisce il potere con la corruzione e il pugno di

ferro. Il regime siriano, alla cui base c’è la minoranza alauitacui appartiene lo stesso Assad (come gli armeni e i drusi nelconfinante Libano, gli alauiti oscillano intorno al dieci percento), ha stretto un patto d’acciaio con l’Iran, e di conseguenzacon gli Hezbollah. La ragione è ovvia: gli alauiti si sentonopiù vicini agli sciiti che ai sunniti, benché anche la loro siauna setta spuria, che ha attinto a varie religioni.

La strategia dei sunniti, incoraggiati dai loro

alleati occidentali, è offensiva; quella degli sciiti

(e dei russi) è per lo più difensiva

Tutte le minoranze religiose in Medioriente temono l’espan-sionismo (o, secondo loro, la prepotenza) della maggioranzasunnita. Nel 2011 il morbo della Primavera araba contagia laSiria. Decine di migliaia di manifestanti, per lo più sunniti, re-clamano pacificamente le dimissioni di Assad. La reazionedel regime è brutale: i miliziani fedeli al regime sparano sullafolla. Nel giro di pochi mesi la protesta popolare si trasformain una insorgenza armata. Fin qui le responsabilità del regime di Assad sono inequivocabili.Ma si può attribuire in toto ad Assad la responsabilità di oltreduecentomila morti e di milioni di sfollati, che è il tragico contodel conflitto siriano dopo cinque anni? L’insensata e criminalerepressione delle proteste – giustificata da chi si stringe attornoad Assad per paura dell’ignoto o per interesse: alauiti, cristianie ampi settori della borghesia sunnita arricchitasi grazie allepolitiche del regime – non spiega la virulenza di una guerra cheè improprio definire civile. A un certo punto sono cominciate leingerenze esterne, che hanno internazionalizzato un conflittointerno. Sono stati alcuni paesi geograficamente vicini allaSiria a causare questa tragedia di proporzioni immani.In terra siriana si scontrano le grandi potenze regionali –Turchia, Arabia Saudita, Iran – sotto lo sguardo occhiuto diamericani e russi (gli israeliani, che hanno tutto da guadagnareda questo conflitto, si tengono saggiamente in disparte anchese hanno influenzato la strategia americana). Qual’è la posta in

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mondoperaio 11-12/2015 / / / / saggi e dibattiti

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Oggi a Beirut, domani a Parigi >>>> Teddy O’Gorman-Schwartze

La guerra dell’Isis

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gioco? Semplice: per gli americani si tratta di frantumare ladiga Iran-Hezbollah-Siria, un obiettivo utile ai sauditi, i qualinon vedono l’ora di mettere alle corde l’odiato Iran. Uscito discena Saddam Hussein, gli iraniani hanno potuto allungare iloro tentacoli sull’Iraq, paese arabo ma a predominanza sciita(l’Iraq è la culla della religione sciita). I sauditi hanno un’altra finalità occulta: scansare la pericolosaonda popolare rappresentata dalla Primavera araba che minacciadi lambire i suoi confini. La peste democratica è letale perloro. Anche Erdogan, che guida un partito sunnita, vuolecogliere l’opportunità della crisi siriana: da un lato accredita laTurchia come una nazione forte con cui fare i conti, unanazione giusta e “illuminata” che ha a cuore i diritti umani inMedioriente e che prende le difese dei sunniti repressi daAssad; dall’altro riesce a deviare l’attenzione internazionaledall’indipendentismo curdo e dalle critiche ai rigurgiti di auto-ritarismo a casa propria. Gli iraniani, invece, memori della sanguinosa guerra conl’Iraq di Saddam Hussein, puntano a costruire un cordone disicurezza attorno al loro paese: di qui il loro appoggio adAssad e la loro presenza in Libano e in Iraq. Gli sciiti, una mi-noranza nell’Islam, non possono permettersi velleità egemoniche.Per i russi – che devono tutelare corposi interessi politici edeconomici in Medioriente – è vitale difendere a spada trattal’alleanza con Assad, cui inizialmente forniscono una assistenzamilitare che si è trasformata in un intervento diretto con tantodi bombardamenti contro l’opposizione islamista.In sintesi: la strategia dei sunniti, incoraggiati dai loro alleatioccidentali, è offensiva; quella degli sciiti (e dei russi) è per lopiù difensiva. Sono i sauditi (coadiuvati dal Qatar) e i turchi apartire all’attacco, sia pure in sordina: cominciano a finanziareed equipaggiare le varie milizie islamiste sunnite che, comeuna testa d’ariete, si scagliano violentemente contro Assad e isuoi sostenitori. Non importa sapere chi finanzia tale o tal altraorganizzazione jihadista. C’è chiaramente una rivalità sorda estrisciante fra le stesse potenze sunnite: ogni gruppuscoloarmato ha i propri padrini o sponsor. Né ha molto sensodisquisire su chi sia il terrorista e chi l’indipendentista-partigiano:per i russi tutti i gruppi islamisti sono terroristi; per gli americanisolo l’Isis e Al Qaida. Gli altri sono jihadisti “amici”, una rein-carnazione dei freedom fighters dei tempi della guerra in Af-ghanistan finanziata dagli Usa in funzione antisovietica. Fattosta che nel giro di un anno o poco più l’insorgenza autoctona,che si era coagulata attorno al “Libero Esercito Siriano”, vienesommersa da una marea di jihadisti fanatici che accorrono daipaesi arabi, dall’Europa e dalla Russia.

L’Iran rafforza il proprio contingente siriano, inviando ufficialidel suo esercito come addestratori a sostegno di Assad. Glisciiti e agli alauiti si soccorrono a vicenda, trincerandosi nelleloro posizioni. È comprensibile che anche gli Hezbollahscendano in campo a fianco dei loro cugini alauiti minacciatidai jihadisti. Anche loro reagiscono all’aggressione dellepotenze sunnite, le quali, ai primi spari, si sono gettate comeavvoltoi su una Siria in subbuglio.

L’idea che uno Stato islamico possa nascere

dal basso costituisce una minaccia per l’ordine

costituito in Arabia, che i sauditi vogliono

assoluto e immutabile

Così il conflitto è diventato anche religioso e settario. All’inizioera solo politico (molti desideravano affrancarsi da una dittatura)e sociale (il regime siriano non aveva affrontato il problemadella povertà nelle campagne). Le responsabilità politiche diquesta odiosa metamorfosi sono evidenti a chi non abbiaparaocchi: è soprattutto l’Arabia Saudita che soffia a pienipolmoni sul fuoco della guerra di religione. Come già accennato,la monarchia saudita teme che le scintille della Primavera arabapossano appiccare un incendio nella penisola arabica. I sauditiosteggiano anche i Fratelli musulmani, che pure sono sunniti“doc”: quel movimento politico, nonostante le sue inclinazionidittatoriali, ricerca la legittimazione popolare tramite il voto. L’idea che uno Stato islamico possa nascere dal basso costituisceuna minaccia per l’ordine costituito in Arabia, che i sauditivogliono assoluto e immutabile. Nulla di più utile politicamenteche ricorrere alla vecchia strategia di convogliare le energieverso un nemico esterno ben identificabile: gli sciiti, ereticiper eccellenza. A questo punto, è giocoforza che ognunoscelga di stare con i suoi: è la logica delle guerre di religione.Le quali saranno pure scatenate da motivazioni politiche e in-teressi economici: ma hanno una loro natura specifica, perchél’elemento ideologico agisce da amplificatore del conflitto, elo radicalizza in sommo grado. E così siamo giunti allasituazione di stallo attuale, che assomiglia a una classicaguerra di posizione in cui il susseguirsi di offensive e controf-fensive non conduce alla vittoria di nessuna delle parti belli-geranti. Intanto però si accumulano pile di cadaveri su entrambii fronti. Il dato nudo e crudo è che si fronteggiano due blocchicontrapposti, quello sciita e quello sunnita, nessuno dei qualipuò vincere sul campo di battaglia. Benché anche fra gli sciiti pullulino gli estremisti religiosi,sarebbe un errore vedere nella scelta interventista di Hezbollah in

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Siria il riflesso di un fanatismo speculare e contrapposto a quellosunnita. Gli Hezbollah, demonizzati dalla stampa filo-israeliana e filo-americana, sorgono in seguito all’invasione israeliana del Libanodel 1982 e alla rivoluzione iraniana. La loro missione, findall’inizio, è duplice: proteggere il Libano dagli attacchi esterni edifendere se stessi dalle infiltrazioni fondamentaliste di stamposunnita. Quando danno manforte ai loro alleati alauiti interpretanoil ruolo di difensori dell’indipendenza libanese. Vigilano affinchéi sunniti più radicali non prendano il sopravvento: nella città diTripoli, nel nord del Libano, e in diversi campi profughi palestinesibrulicano i qaedisti o gli estremisti filo-Isis. Non è un mistero, peraltro, che l’Arabia Saudita in passato hatentato, con i suoi petrodollari, di esercitare una forte influenzasul Libano tramite i propri fiduciari locali. I sunniti libanesi na-turalmente contestano questo ruolo patriottico, di garante dellasicurezza nazionale, che il movimento Hezbollah si è attribuito(o arrogato). E non hanno tutti i torti: quando Assad era ancoraforte, aveva tentato di porre sotto tutela il Libano – Hezbollahconsenzienti – spingendosi fino ad occupare militarmente Beirut.Furono le proteste esplose a seguito dell’omicidio del leadersunnita Hariri a indurre i siriani a ritirare le loro truppe. Come reagiscono sunniti e cristiani libanesi all’attivismo diHezbollah in Siria? I primi sono contrari: è la loro gente cheviene repressa o bombardata. I secondi dicono che la guerra trasunniti e sciiti è un affare interno all’Islam, e quindi si illudonodi poter osservare dalla finestra anche i fatti di sangue piùtruculenti. Ma in realtà la comunità cristiana è profondamentedivisa sul conflitto siriano: una parte vorrebbe che Hezbollah –unica milizia armata nel loro paese – confluisse nell’esercito li-banese e non interferisse negli affari siriani; un’altra parteappoggia gli Hezbollah, ed è opportunisticamente filo-Assad,perché teme la vittoria di un fronte sunnita integralista a pochichilometri dai confini nazionali (in tempi di pace, partendo da

Beirut si arriva a Damasco in un’ora e mezza di macchina).Tuttavia la maggior parte dei cristiani libanesi, consapevoliche il pericolo più insidioso proviene dal radicalismo sunnita,parteggia più o meno apertamente per gli Hezbollah, decinedei quali muoiono quasi ogni giorno in Siria combattendocontro i miliziani dell’Isis. Ecco cosa si sente bisbigliare neiquartieri cristiani di Beirut: “Gli Hezbollah, appoggiati dairussi, fanno il lavoro sporco per noi. Iddio li benedica”.

Cristiani e sciiti condividono una storia comune

di persecuzioni e discriminazioni ad opera

dei sunniti

Questo sentimento pro-Hezbollah è comprensibile a prescinderedal conflitto in corso: cristiani e sciiti condividono una storiacomune di persecuzioni e discriminazioni ad opera dei sunniti.Il Libano fu creato a tavolino dai francesi negli anni Venti delNovecento proprio perché i cristiani erano in maggioranza inquell’area; oggi sono scesi a un terzo della popolazione. Per capire ciò che sta succedendo in Medioriente occorrecomprendere le ragioni dell’ostilità storica tra sunniti e sciiti.I sunniti rivaleggiano fra loro per stabilire quale sarà lapotenza egemone, il che spiega la tensioni fra turchi e sauditi.Ma per gli sciiti arabi il conflitto siriano è una questione di so-pravvivenza. Hanno già sperimentato il predominio sunnitasotto l’Impero ottomano, anche se non in tutta la sua asprezza.E sanno che oggi un Califfato sarebbe una iattura ben piùgrave: equivarrebbe a una sentenza di morte nei loro confronti. L’estremismo religioso non è fenomeno esclusivamente sunnita:vi sono sciiti che vogliono vendicare, a distanza di oltre mille equattrocento anni, l’assassinio di Alì, cugino e genero diMaometto, per mano di coloro che sarebbero diventati i sunniti(la disputa che divide l’Islam riguarda la successione a Maometto:Alì, guida degli sciiti, è venerato da questi come l’unico legittimo

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successore del Profeta). Ma è innegabile che in questo momentoil terrorismo più micidiale fa capo ai sunniti. Ed è propriol’Arabia sunnita a rinfocolare l’odio religioso contro gli sciiti. Ci sono vistose differenze tra Iran ed Arabia Saudita. Gli sciitiiraniani hanno edificato un regime teocratico che non ha esitatoa reprimere i moti di protesta politica. Eppure in Iran vi sonotracce di democrazia (il Presidente viene eletto dal popolo) espazi di libertà (i cristiani sono liberi di professare la loro fedealla luce del sole, nelle chiese, non nelle catacombe). Tutto ciòè inimmaginabile in Arabia Saudita, petromonarchia reazionariache vede le elezioni e la libertà religiosa come opera deldemonio. In Iran, inoltre, c’è una lotta aperta tra religiosi riformatori etradizionalisti, di cui non si ha il minimo sentore in ArabiaSaudita, dove prevale un piatto conformismo. L’Arabia Sauditaè dominata da una setta puritana e intransigente, i wahabiti,che predica un impossible ritorno all’Islam incontaminato epre-moderno delle origini. I wahabiti sono parenti stretti deisunniti più radicali, i salafiti, da cui discendono per filiazionepiù meno diretta al Qaida e, infine l’Isis. Non è che questi gruppi abbiano le stesse finalità politiche oadoperino gli stessi metodi, ma condividono la medesimavisione rigida ed oscurantista dell’Islam. Non tutti i wahabiti/sa-lafiti sarebbero disposti a tagliar teste o a farsi saltare in ariain mezzo a una folla di innocenti, come fanno i milizianidell’Isis. Eppure sappiamo che ogni gruppo religioso puritanoe intransigente è un focolaio autopropulsivo di fanatismo. Èfacile che sorgano scissioni al suo interno, ma è rarissimo chesiano di segno riformista: la logica del duro e puro è inflattiva,è un crescendo di follia per cui prima o poi l’adepto di turnoaccuserà di moderatismo i propri maestri. Al Qaida, che nasce nella melma salafita, pareva il culmine delmale. Ecco che si trova costretta a sconfessare l’Isis, che lasupera in efferatezza ed estremismo. È lo schema della “Rivoluzionetradita”, che i movimenti comunisti mutuarono proprio dallastoria tormentata delle sette religiose in Occidente. In questo scontro epocale tra sciiti e sunniti si intrecciano questionireligiose, politiche ed economiche. Del resto fu così anche nelleguerre di religione in Europa durante le quali si massacraronocattolici e protestanti. Ma sarebbe un errore negare che il conflittosiriano ha anche una matrice fideistica o ideologica. Finché gli imam e gli studiosi sunniti continueranno aconsiderare gli sciiti eretici, traditori e rinnegati dell’Islam,non ci saranno le basi per una pace duratura in Medioriente.Né può condurre alla riconciliazione il revanscismo sciita.L’Islam dovrebbe fare i conti con la modernità, seguendo l’e-

sempio della Chiese cristiane che dopo secoli di guerrereligiose, e a seguito dell’affermarsi del liberalismo inglese edell’Illuminismo francese, hanno accettato – benché obtortocollo – che può esserci più di una interpretazioni legittima deitesti sacri comuni alle varie confessioni. Oggi nessun cristianorivendica il possesso della verità assoluta da imporre con laviolenza ai recalcitranti, agli empi e ai miscredenti.

Il Libano, paese secolare e democratico, è

l’ultimo avamposto dell’Occidente in Medioriente

Tutte le petromonarchie sunnite si reggono grazie a un sapientemix di repressioni mirate, elargizioni di petrodollari e propagandareligiosa ossessiva e capillare. Qui come altrove incappiamo nelproblema storico dell’umanità: come rendere il potere, se non de-mocratico, almeno trasparente, soggetto a qualche forma dicontrollo popolare, e in ultima analisi reversibile. Finora l’attenzionedei media, in Occidente, si è appuntata sui crimini di Assad.Abbiamo applicato le nostre categorie politiche e morali solo alui, e non ai sauditi. Siamo saliti in cattedra e abbiamo bacchettatoil discolo prescelto ignorando gli altri. È il doppiopesismo in cuisiamo maestri. Gli americani non hanno mai avuto scrupoli a so-stenere dittatori della peggior risma in America Latina. In Me-dioriente preferiscono le teocrazie. I leader laici – Assad, e a suotempo Saddam Hussein – sono simboli del male. Il regime diAssad è una dittatura, ma lo è a maggior ragione la monarchia as-soluta in Arabia: una teocrazia è una tirannia al quadrato, perchéambisce a controllare anche la nostra anima. Il Libano, paese secolare e democratico, è l’ultimo avampostodell’Occidente in Medioriente. È la diga che contiene allanostra periferia più lontana la marea fondamentalista. Se saltail Libano, crolla tutto. Gli Hezbollah si sono assunti uncompito gravoso, la difesa dei confini libanesi dalle ordedell’Isis. Guai se i paesi occidentali si schierano con uno deicontendenti. La loro missione diplomatica e politica è quelladi mediare fra sunniti e sciiti in nome della coesistenzapacifica. Gli attacchi criminali sferrati a Beirut e a Parigi —preceduti dall’orribile attentato all’aereo pieno di turisti russiprovenienti da Sharm El Sheik – sono come una scossaelettrica per un sonnambulo: se non ci svegliamo ora, precipi-teremo nel baratro. Occorre far fronte comune contro ilterrorismo islamista. Stati Uniti, Europa e Russia hannol’obbligo politico di superare le loro differenze. Corposi interessi materiali e politici sono d’intralcio all’unità.I russi non sono intervenuti in Siria per spirito umanitario oper difendere i poveri cristiani. Né del resto gli americani

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hanno foraggiato l’insorgenza siriana per amore della democraziae della libertà. Ma è giunta l’ora di superare i meschini interessidi parte e i calcoli nazionalistici. È interesse comune coalizzarsicontro il terrorismo. Se non fermiamo l’Isis la terza guerramondiale – di cui stiamo provando un triste, ma ancora limitato,assaggio – ci investirà con la furia di un uragano. Solo l’unitàdi americani, europei e russi può evitare il disastro. Gli americani non avrebbero dovuto equiparare il regime diAssad e il regno del terrore dell’Isis. Assad garantiva libertàreligiosa e culturale, e i suoi pretoriani non hanno mai piazzatobombe nelle città europee. I russi invece avrebbero dovuto findall’inizio essere più malleabili e più disponibili al dialogocon gli americani. Ma sono gli americani ad aver sbagliato dipiù nella vicenda siriana: si sono illusi di poter spodestareAssad rendendo un favore a Israele senza che vi fosserograndi spargimenti di sangue.

È imperativo uccidere il mostro jihadista,

e poi adottare una politica analoga

alla denazificazione attuata dagli americani

nella Germania postbellica

Prima che la situazione degenerasse, un accordo con Assadera possibile. Oggi la strada del dialogo è bloccata da troppimorti. Ci sarebbero stati precedenti storici. Quando nel 1941le armate naziste invasero la Russia i conservatori britannici ei democratici americani, che pure erano visceralmente antico-munisti, non esitarono un solo istante: scelsero Stalin, chenon era uno stinco di santo, e approvarono immediatamenteun formidabile piano di aiuti civili e militari, salvando così laRussia da una sconfitta certa. Proviamo a proiettare su quel periodo i tentennamenti e leambiguità degli occidentali in Medioriente. Immaginiamocosa sarebbe successo se gli anglo-americani, che negli anniQuaranta del Novecento reggevano i destini del mondo,avessero giocato su più tavoli contemporaneamente ancheallora. Se avessero sostenuto sia Stalin che le nazionalità dalui oppresse, che nel 1941 accoglievano gli invasori tedeschia braccia aperte, Hitler avrebbe vinto. Oggi rischiamo chevincano i terroristi. Le nazioni libere e democratiche avevanocompreso in pieno il gravissimo pericolo nazista. Di qualesegno abbiamo bisogno perché ci si renda conto della minacciaislamista? I colloqui di pace sulla Siria rischiano di fallire perché si sonoimpantanati sul punto sbagliato: Assad deve andarsene o puòrimanere per un governo di transizione? Che Assad abbia

perso ogni legittimità per via delle repressioni violente delsuo regime è lapalissiano. Ma bisognerebbe porsi domandeben più importanti. Quale scenario politico abbiamo in menteper il dopo Assad? Vogliamo una Siria mutilata territorialmentee dominata da potenze straniere? Oppure, peggio ancora, unaSiria wahabita e integralista, che causerà l’esodo delle comunitàcristiana e alauita? Non va mantenuto in sella Assad, mavanno preservate le cose positive che il suo regime ha indub-biamente realizzato: lo Stato secolare, l’educazione per tutti(incluse le bambine e le ragazze), la libertà religiosa, ilpluralismo culturale (i siti archeologici in Siria sono semprestati curati e rispettati: in Arabia Saudita ogni traccia chericorda il mondo cristiano o pagano viene cancellata, distrutta).Qui cascherà l’asino. È probabile che su questi punti essenzialiAmerica, Europa e Russia trovino una intesa. Ma l’ArabiaSaudita non accetterà facilmente uno Stato secolare – o, figu-riamoci, democratico – ai propri confini. Erdogan invece puòessere convinto: nonostante le recenti involuzioni islamiste,la Turchia, membro della Nato, non è né una dittatura né unateocrazia. Raggiunto un accordo di massima sulla Siria del futuro, èimperativo uccidere il mostro jihadista. La strategia, peressere efficace, deve avere tre punte acuminate: quella fi-nanziaria, quella militare e quella ideologica. Erdogan hadetto una elementare verità: per affamare i terroristi eindebolirli dobbiamo anzitutto prosciugare gli asset finanziaridel jihadismo internazionale. Ma non illudiamoci che ciò siasufficiente. L’Isis va annientato manu militari. Lasciamoagli strateghi la decisione se inviare o meno truppe di terra(auspicabilmente occidentali ed arabe) in Siria e in Iraq. Lanostra reazione avrà un costo in termine di vite umane: manon è sperando in tempi migliori che la burrasca passeràsopra le nostre teste. E non dimentichiamoci che il mostro, dato per morto,potrebbe risorgere. Escogitiamo dunque una politica analogaalla denazificazione attuata dagli americani nella Germaniapostbellica. Dobbiamo porre condizioni tassative, non nego-ziabili, alle nazioni sunnite che intendono rimanere nelconsesso nelle nazioni “civili”: a nessun imam va consentitodi vomitare odio religioso contro gli “infedeli” (gli ebrei, icristiani e gli sciiti). Sono gli interessi politici ed economicia far scoppiare le guerre. Ma è il fanatismo ideologico – nongià una presunta o reale ingiustizia subita – la molla diabolicache spinge decine di migliaia di giovani a cercare il martirioe a dare la morte sui campi di battaglia in Medioriente enelle nostre città.

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Bisognerà correggere Clausewitz, e l’idea “classica” dellaguerra come continuazione della politica con altri mezzi.

La politica con la “P” maiuscola, la grande politica, quella cheidentificava il destino dei popoli, ha perso la centralità cheaveva in passato. Lo sperimentiamo anche in Europa, dove lediscussioni ormai vertono soprattutto sulle politiche di bilan-cio, con rigidi parametri imposti ai popoli per garantire la sta-bilità dei prezzi. Oggi è l’economia, magari sotto le vesti della politica moneta-ria e finanziaria, a non essere altro che una guerra condotta conaltri mezzi. La si combatte prima ancora che con i carri armati,con flussi di denaro e flussi migratori che si spostano da un’a-rea geografica all’altra, ed ha per posta in gioco il conflitto tragli Stati Uniti e la Cina, il riemergere della Russia nello scac-chiere internazionale, e il ruolo dell’ Europa.A partire dal 1989 l’Impero americano ha ottenuto il controllodei mercati mondiali: l’unità del mondo, per dirla con CarlSchmitt, è diventata possibile grazie al tramonto dell’UnioneSovietica e alla fine della guerra fredda1. C’è persino chiallora parlò di fine della storia. Così sembrò per più di ven-t’anni, sino a quando la Cina non è divenuta una concretaminaccia agli interessi americani, e la Russia postsovieticapure. La guerra – quella vera, quella che nessuno vede, perchéci fanno vedere solo quella contro il terrorismo islamico sucui tutti in apparenza concordano – è cominciata, e dal suoesito dipenderà il nuovo ordine globale2. Voglio qui cercare soltanto di mettere in luce alcuni dei feno-meni principali a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi,e che devono essere letti unitariamente, come “mosse” di que-sta guerra che si sta combattendo3.Anzitutto, la questione dei rapporti tra Cina ed Europa. GliStati Uniti sanno perfettamente che esiste una linea di colle-gamento tra gli interessi cinesi e quelli europei, la quale passaper l’economia tedesca. L’impressionante crescita economicatedesca degli ultimi anni è dipesa, infatti, dal “doppio filo”che la lega alla crescita cinese. Le esportazioni tedesche, age-volate dall’euro, hanno trovato nel mercato cinese il lorosbocco. Negli ultimi dieci anni il volume dell’interscambio si

è moltiplicato del 400%, e dal 2009 al 2011 è praticamenteraddoppiato, passando dai 37 ai 66 miliardi di euro. La Ger-mania, da sola, rappresenta il 50% di tutte le esportazionieuropee in Cina. Così la Cina è divenuta l’ultimo Land tede-sco. Colpendo la Cina gli Stati Uniti hanno voluto avvertite laGermania, e ora con l’ affaire Volkswagen la minaccia all’e-conomia tedesca è diventata esplicita4.

Gli Stati Uniti hanno bisogno di un’Europa amoneta unica perché è l’unione monetaria almomento ad assicurare l’alleanza atlantica

Gli Stati Uniti, in un contesto globale in cui emergono nuovepotenze (la Cina)5 e ne riemergono altre (la Russia), hannobisogno di confermare il loro rapporto di influenza sull’Eu-ropa, ed un’economia tedesca troppo forte e a stretto contattocon quella cinese rischia di pregiudicare i loro interessi geo-politici fondamentali. Ciò che sta avvenendo in questi ultimimesi, a ben vedere, altro non rappresenta che il tentativo diminare la crescita tedesca6. Sono infatti in particolare leesportazioni tedesche a risentire delle conseguenze della sva-lutazione cinese dello yuan.Altro elemento fondamentale, i rapporti tra l’Europa e laRussia. Non si tratta soltanto della questione ucraina, con ilcolpo di Stato organizzato dagli americani contro il legit-timo governo filorusso. Tutta la vicenda che ha visto in que-

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Il disordine globale e i suoi derivati>>>> Paolo Becchi

Europa sotto attacco

1 Per la profezia apocalittica schmittiana, si veda D. ZOLO, La profeziadella guerra globale, introduzione a C. SCHMITT, Il concetto discrimi-natorio di guerra, a cura di S. Pietropaoli, Laterza, 2008, pp. V-XXXII.

2 Si veda, sul punto, l’intervista al generale Fabio Mini, autore di Laguerra spiegata a…, uscita nel 2013 per Einaudi, La guerra globale? Ègià cominciata, in «Sollevazione.blogspot.it», 21 agosto 2015.

3 Sulle “trasformazioni” della guerra, cfr., per un’introduzione, M. VANCREVELD, Les transformations de la guerre, Paris, Rocher, 1998.

4 Cfr. G. TIMPONE, Scandalo Volkswagen: e se dietro ci fosse una guerracommerciale tra Ue e Usa?, in «Investireoggi.it», 22 settembre 2015.

5 Sull’obiettivo cinese come «stabilità in un contesto multipolare», cfr. S.JIRU, Cina ed Europa, baluardi del futuro ordine mondiale, in «Limes»,8 gennaio 1999.

6 Cfr., sul punto, Crisi cinese, piccolo avvertimento dagli Usa, intervistaa Paolo Turati, in «Sputniknews.com», 30 agosto 2015.

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sti mesi protagonista la Grecia e la sua tenuta all’internodella zona euro non si comprende se non si tiene conto delfatto che l’uscita della Grecia dall’unione monetariaavrebbe necessariamente comportato il suo avvicinamentoalla Russia – mediato dalla Chiesa ortodossa – e pregiudi-cato la stabilità della Nato, che guarda caso ha ripreso le sueesercitazioni militari proprio in questi giorni anche nelnostro paese. Gli Stati Uniti hanno bisogno di un’Europa a moneta unicaperché è l’unione monetaria al momento ad assicurare l’al-leanza atlantica. Paesi che dovessero uscire dall’euro potreb-bero infatti trovare il sostegno di Mosca. D’altro canto la crisipermanente dell’euro favorisce gli Stati Uniti: impedisce cheuna Germania troppo forte possa decidere di far giocareall’Europa un ruolo geopolitico indipendente, pronto adalleanze variabili con la Cina o con la Russia, superando latradizionale partnership atlantica.

È questo ruolo di un’Europa politicamente non più sottomessaalla relazione atlantica che gli americani temono più di ognialtra cosa: ed è per questo che premono per l’approvazione delTtip, ossia per la creazione di un’area economica transatlan-tica con la quale verrebbe assicurato nel tempo il dominioamericano in Europa. Ma i parlamenti europei, e in particolarequello tedesco e francese, potrebbero opporre resistenza. Enon è un caso che la recente grande manifestazione contro ilTtip sia avvenuta proprio a Berlino. Bisogna vincere le resi-stenze europee, e per farlo oggi è sufficiente indebolire la Ger-mania (del resto spiata da tempo dai servizi di intelligenceamericani) e la Francia, da sempre l’altro motore dell’integra-zione europea. Gli ultimi imponenti flussi migratori sono direttamente ricon-ducibili alla strategia americana: la guerra civile in Siria, ali-mentata dagli americani, lo mostra chiaramente; e l’ondatamigratoria che ne è conseguita questa volta, non casualmente,

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ha colpito proprio la Germania7. Ma non è stato raggiuntol’effetto sperato. I profughi siriani non hanno gettato nelpanico i tedeschi. Si tratta di mano d’opera qualificata chepuò trovare facile impiego in Germania. Ci vuole qualcosa dipiù forte per bloccare la potenza tedesca: ci vuole un crollofinanziario paragonabile a quello della Lehman Brothers, perdare una lezione alla Germania e addomesticare l’Europa. Enon è difficile individuare la banca tedesca che può saltare daun momento all’altro, la Deutsche Bank. È solo una questionedi tempo, ma le premesse per un nuovo tsunami ci sono tutte. Le politiche monetarie e finanziarie, assieme ai flussi migra-tori, sono armi che possono rivelarsi più efficaci di qualsiasipolitica militare. Si possono ridurre popoli interi alla miseria,e persino far collassare la Germania e l’intero Vecchio Conti-nente utilizzando nuove “armi non convenzionali” di distru-zione di massa. Oggi un’azienda automobilistica, domani unabanca: in attesa del Ttip, la cui funzione geopolitica è quelladi garantire la continuazione dell’alleanza atlantica, e conquesta il ruolo imperiale degli Stati Uniti nel mondo.

L’Europa, immiserita a causa di una crisi

permanente dovuta all’euro, appare indecisa

sul suo futuro: e non è affatto detto che abbia

ancora un futuro

Tutto questo però non esclude ovviamente l’uso della vio-lenza. Il terrorismo jihadista che ha colpito di recente la Fran-cia con un attentato orribile lo mostra ampiamente. La conse-guenza della destabilizzazione continua operata dagli StatiUniti nel Medio Oriente (Afghanistan, Irak, Libia, Siria), edall’altro canto l’incapacità dell’Europa di prenderne ledistanze, non poteva purtroppo che avere conseguenze dram-matiche. Era un’illusione pensare che l’Europa potesseseguire la devastante politica americana in Medio Orientesenza subire prima o poi il suo 11 settembre. Lo abbiamoavuto il 13 novembre. Il mondo ormai economicamente globalizzato non ha ancoratrovato una forma politica ad esso adeguata. Europa, Cina,

Russia e Stati Uniti formano grandi spazi al loro interno rela-tivamente omogenei, e altre entità geopolitiche si stanno nelfrattempo formando. L’Europa è in der Mitte, non solo strettanella morsa tra America e Russia, come pensava Heidegger:perché oggi una nuova potenza è emersa nel teatro della storiauniversale, la Cina. Ma la Cina nonostante la globalizzazione,resta lontana per tradizioni, costumi, valori, religione: pertutto ciò insomma che ha contribuito a formare l’ identitàeuropea, e per quel che ancora resta di essa. La Russia postsovietica al contrario non è più il pericoloincombente sull’ Europa come pensava Heidegger (e giàprima di lui Bruno Bauer): con le sue radici cristiane rimasteintatte potrebbe anzi rivelarsi l’alleato naturale di una Europanon sottomessa al dominio americano.Gli equilibri imperiali sorti dalla caduta del Muro di Berlinosono comunque finiti, e bisognerebbe prenderne atto. GliStati Uniti fomentano invece il disordine globale8 pur di ten-tare di conservarli. D’altro canto gli Stati nazionali europeioppongono una sorprendente resistenza al loro superamento.E il risultato della politica dell’Unione europea è fallimen-tare: si stanno costruendo dappertutto muri. L’Europa, immi-serita a causa di una crisi permanente dovuta all’euro, sotto-posta a grandi migrazioni, e ora colpita al cuore dal terrori-smo, pare stanca, impaurita e indecisa sul suo futuro: e non èaffatto detto che abbia ancora un futuro.

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7 Cfr. L’immigrazione? È una strategia Usa per controllare l’Europa,intervista a Fulvio Grimaldi, in «Byoblu.com», 18 agosto 2015. Si vedaanche l’articolo Insider: Die USA bezahlen die Schlepper nach Europa!,in «Direkt», 5 agosto 2015, secondo il quale gli Stati Uniti avrebberodirettamente finanziato il passaggio dei rifiugiati siriani in Europa.

8 Sul “disordine globale” si vedano i lavori della ricerca L’Occidente nelnuovo disordine globale, tenuta presso il Centro Alti Studi Difesa il 4dicembre 2014 e promossa dalla Fondazione Magna Charta(http://magna-carta.it/articolo/loccidente-nel-nuovo-disordine-globale).

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Una delle regole auree della politica economica è che seuna scelta è criticata per (ideologiche) ragioni opposte,

ci sono buone probabilità che quella scelta sia giusta. È unaregola a cui non sfugge il dibattito mediatico che sta accom-pagnando il percorso parlamentare della legge di stabilità peril 2016. Una manovra economica come quella appena cuci-nata dal governo Renzi può piacere o meno, ma è curioso chela si critichi per ragioni in palese contraddizione tra loro: per-ché fa troppo decifit e perché è succube dell’austerità; perchénon fa la spending review e perché contiene troppi tagli allaspesa; e via gufando.Sono quattro le accuse più gettonate all’impianto della mano-vra. Compra voti in deficit e con una logica meramente elet-toralistica (basta pensare, da ultimo, alla card elargita aidiciottenni per acquisti culturali). Non riduce davvero letasse, perché, al netto di qualche spicciolo sulla prima casa, silimita a eliminare le clausole di salvaguardia, cioè aumentimai scattati di accise e Iva. Non rispetta le regole europee,perché la clausola migranti non c’entra niente col taglio del-l’Ires. È di destra perché favorisce i ricchi. Vediamo queste accuse una per una. Partendo da una pre-messa metodologica: criticare un politico perché cerca voti èun po’ come criticare l’Avis perché raccoglie il sangue. Certo,i voti vanno cercati tenendo a mente una visione dell’inte-resse generale, non giustapponendo prebende. Ma in questocaso la visione c’è. L’accusa a Renzi di essere schiacciato sulogiche elettoralistiche, francamente, fa sorridere. Questo è ilgoverno che ha riformato il mercato del lavoro per superare ildualismo che ghettizzava tanti giovani precari, senza fermarsidi fronte al tabù dell’articolo 18 per paura di qualche scioperoo di qualche sondaggio. E questa è una manovra che dà prio-rità a misure sulla povertà e sulla produttività - che prebendenon sono - a scapito di una misura fortemente voluta da ampiefasce di elettori: quella che avrebbe consentito loro di andarein pensione prima del tempo. Tutto ciò per dire che la (sacro-santa) ricerca del consenso non è fine a se stessa, ma è fun-zionale a fare le riforme, a ridare fiducia al paese: anche lacard ai diciottenni risponde a un’idea precisa, quella di unacomunità che ti accoglie nella maggiore età ricordandoti conuna “spinta gentile” quanto siano cruciali i consumi culturali,

per il tuo arricchimento personale e per irrobustire il tessutocivile.Ma veniamo al deficit. La manovra economica ha un carattereespansivo, che – tradotto – significa che si fa più deficit delprevisto. È una scelta consapevole, fatta nel rispetto della cor-nice europea definita dalle nuove clausole di flessibilità.Dopo anni passati a discettare sui limiti dell’austerità e sucome le regole fiscali impedissero politiche per la crescita,adesso ci si sorprende che il governo italiano abbia deciso diusare tutti i margini esistenti per sostenere una ripresa ancorafragile. E che lo faccia non solo nel rispetto delle regole euro-pee (a differenza di altri paesi che in passato le hanno violateunilateralmente), ma continuando a perseguire l’obiettivo diridurre il rapporto tra debito e Pil (che, inflazione permet-tendo, tornerà a scendere nel 2016), e facendo scenderequello tra deficit e Pil (che passerà dal 2,6% del 2015 a unmassimo di 2,4% nel 2016). Curioso.

La disuguaglianza è una cosa

troppo seria per trasformarla

in una bandierina ideologica

È vero: il percorso di aggiustamento sarà più lento rispettoagli impegni troppo onerosi che ci eravamo autoimposti(ancora nel Def di aprile il rapporto tra deficit e Pil era 1,8%per il 2016). Ma dov’è il problema? Chi usa questa contabilitàper gridare all’esplosione del deficit rispetto ai valori pro-grammati piuttosto che ai consuntivi passati, dovrebbe allorariconoscere che la spending review vale più dei 5,8 miliardiindicati dal governo: perché – contabilizzando tutte le rinuncea maggiori spese già programmate – i tagli superano i 7miliardi. Dopodiché, va da sé che se l’aggiustamento è piùlento, anche la spending review lo sarà. Ma ciò non significarottamarla. Al contrario, spalmarla nel tempo la renderà cre-dibile e sostenibile.La vera domanda è un’altra: c’era davvero bisogno di unamanovra espansiva e in deficit, adesso che l’economia sta dandosegnali di ripresa? La risposta è sì per due motivi. Primo, perchéla crescita è ancora fragile e abbiamo bisogno di sostenerla.Secondo, perché ci sono ancora molte riforme in cantiere, e per

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Appunti per i gufi>>>> Tommaso Nannicini

Legge di stabilità

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farle passare serve dare un po’ di ossigeno a famiglie e impreseprostrate dalla crisi.C’è modo e modo di spendere, poi. La manovra lo fa con unmix attento di misure congiunturali e strutturali. Il bonus sugliammortamenti vuol far ripartire subito gli investimenti pri-vati. Il taglio strutturale dell’Ires vuol dare fiducia a chi faimpresa. In punta di metafora, il calo dell’Ires è la legna perfar ripartire il fuoco della crescita, il bonus ammortamenti èla diavolina che deve far scattare la fiamma. E non ci si fermalì. I nuovi incentivi fiscali alla partecipazione dei lavoratori eal welfare aziendale vogliono favorire la contrattazione lad-dove si creano valore aggiunto e guadagni di produttività.Insomma: rilancio degli investimenti privati e della contratta-zione aziendale come strumenti per aggredire la stagnazionedella produttività. Altro che soldi rubati ai cittadini di domani:queste misure vogliono far ripartire la crescita proprio conuno sguardo rivolto al futuro.La seconda accusa alla manovra recita più o meno così: iltaglio delle tasse è solo propaganda; il governo non taglia glisbandierati 20 miliardi perché 16,8 sono mere eliminazioni diclausole di salvaguardia che non hanno effetti sui comporta-menti di famiglie e imprese. Tanto per iniziare, togliere leclausole di salvaguardia non è uno scherzo: famiglie eimprese se ne sarebbero accorte se il governo non fosse riu-scito a farlo (come è capitato al governo Letta con le clausoleereditate da quello Monti). E averle azzerate nel 2016 rendecredibile l’impegno politico a togliere quelle che rimangono:credibilità indispensabile perché le clausole future non creinoincertezza e scoraggino consumi e investimenti.Ma c’è di più. I conti di cui sopra guardano solo alla finanzapubblica nel 2016, ma molti interventi sui redditi d’impresavarranno già dal 2016 (e quindi avranno effetti economici dasubito), anche se il loro impatto sulla finanza pubblica simaterializzerà solo a partire dal 2017. Se si prendono in con-siderazione tutte le misure fiscali della manovra, il tagliodelle tasse su famiglie e imprese (immobili, ammortamenti,Ires, minimi partite Iva, franchigia Irap sulle società di per-sone, recupero Iva sui crediti non riscossi, esonero contribu-tivo, etc.) si aggira intorno ai 13 miliardi.Veniamo alla terza accusa (procedurale ma velenosa): chec’entra il taglio dell’Ires con la clausola migranti? In realtà leregole europee prevedono più flessibilità a fronte di “eventieccezionali”, ed è difficile sostenere che l’impennata deiflussi migratori nell’area del Mediterraneo non lo sia. Ciò nonsignifica che le risorse aggiuntive debbano essere spese peraccogliere i migranti: questo l’Italia lo fa già da sola (e non daoggi) perché è un paese responsabile. Il punto è che si deveprendere atto di questo sforzo finanziario, che ha drenatorisorse ad altri impieghi. Se questo sforzo verrà riconosciuto,

come hanno chiesto anche altri paesi, l’Italia tornerà a usarequelle risorse per perseguire i propri obiettivi di politica eco-nomica a sostegno di imprese e famiglie, come è normale chesia. Tutto qui. Dopo i tragici eventi di Parigi, è possibile cheuna parte della flessibilità legata alla clausola degli eventieccezionali sia usata per aumentare le spese in sicurezza ecultura, rosicchiando quanto sarebbe stato chiesto per l’emer-genza immigrazione.Ma al di là degli aspetti procedurali, c’è un elemento politicoche sarebbe sbagliato sottovalutare. Questa manovra segnauna svolta nel modo in cui l’Italia si rapporta alle regole fiscalie alla stabilità dei conti pubblici. Nella seconda Repubblica ilconsolidamento fiscale è sempre stato l’obiettivo della nostrapolitica economica, mentre la crescita era un vincolo da fron-teggiare (si doveva cioè evitare che il risanamento uccidesse lacrescita). La manovra di quest’anno capovolge l’ordine delledue variabili: la crescita è l’obiettivo, i conti in ordine sono ilvincolo. È un cambio di prospettiva fondamentale.La quarta accusa, quella alla manovra “di destra”, è la più stru-mentale. La manovra taglia le tasse sulla prima casa in manieranon progressiva? E allora? Lo fa dopo che il governo è interve-nuto sull’Irpef e sul costo del lavoro, contestualmente allemisure sulla fiscalità d’impresa. Un’altra regola aurea della poli-tica economica recita che per ogni obiettivo ci vuole uno stru-mento. La mossa sulla prima casa vuole incidere sulle aspetta-tive e sulla fiducia delle famiglie. Punto. Non ha intenti redistri-butivi: per quello ci sono altri strumenti, come gli 80 euro e ilprogramma strutturale di lotta alla povertà. La manovra non siferma alla casa. Si rinnova l’esonero contributivo sul tempoindeterminato: favorire l’occupazione stabile è di destra? C’è ilJobs Act sul lavoro autonomo: fisco, previdenza, assistenza etutele nella committenza (contro i ritardi dei pagamenti, le clau-sole vessatorie e a difesa della proprietà intellettuale). Difenderei lavoratori autonomi e i tanti giovani free lance è di destra?Per la prima volta (e al contrario dei governi del passato, chesu questo hanno fatto molte chiacchiere e solo qualche distin-tivo) si introduce una misura strutturale di lotta alla povertàimpegnando un miliardo di risorse aggiuntive. Per alcunil’enfasi sui bambini poveri è roba da “conservatorismo com-passionevole”. Esattamente il contrario: ci si appresta a intro-durre uno strumento di inclusione attiva su tutto il territorionazionale, dirottando le risorse in maniera prioritaria allefamiglie povere con minori a carico, ma creando un’infra-struttura che coinvolgerà comuni, terzo settore e fondazionibancarie e potrà essere ulteriormente estesa in futuro. Ci sonopoi le misure sul merito nella ricerca scientifica. Anche questaè roba di destra? Per carità, la disuguaglianza è una cosa seria:troppo seria per trasformarla in una bandierina ideologica chetrascende qualsiasi confronto sui contenuti.

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>>>> saggi e dibattiti

Nell’affrontare la questione dei limiti posti per legge all’e-lettorato passivo, è bene definire subito ciò di cui non ci

occuperemo. La “legge Severino” è fuori dal tema: come nac-que, quali mutazioni subì in sede parlamentare, come la suagestione si sviluppò a cavallo di due governi e di due dica-steri, è cosa affidata agli storici della “strana maggioranza” edi quel periodo in cui si salvava la patria pensando di “salirein politica”.È out anche la questione delle richieste europee di estendereagli eletti in Parlamento la normativa contro la corruzione,arrivate da Oltralpe – con effetto boomerang – mentre incu-bavano a Roma e Napoli inchieste sulla compravendita deiparlamentari: a livello sovranazionale ci si dimostrava singo-larmente ignari dell’articolo 68, comma primo della nostraCostituzione, e del dibattito alto che esso aveva generato nelleGiunte immunitarie nostrane (in un’epoca in cui il “Greco”non era l’acronimo di un organismo europeo, ma un aggettivoper i compiti a casa dei liceali).Infine, la questione dell’indegnità morale come limite aldiritto di voto è stata plasticamente dissipata, nel nostro con-vegno di aprile, da Pio Marconi: la sua autorevole ricerca haspiegato come nella Costituente, intorno alla nozione di buoncostume come limite per la libertà di espressione, ribollissetutto un brodo di coltura di moralismo chiesastico che nonriteneva giustificata la parità di diritti civili per i titolari dinegozi connotati da “turpitudine della causa”.Non ci vuole udito molto fino, però, per cogliere in tutto ciòil fruscio della coda di paglia: con questo insistito richiamoalla categoria dell’indegnità fior di giuristi si sono affannati aspiegare che l’articolo 48 della Costituzione giustifica unacompressione “speciale” dei diritti politici del cittadino.Anche quando non ancora attinto da una condanna passata ingiudicato, anche quando destinatario di una condanna defini-tiva che non contempla pene interdittive, il politico percostoro meriterebbe, volta a volta: l’incandidabilità prima delvoto ad una carica elettiva; la decadenza dopo il voto; lasospensione per un periodo più o meno ampio dalla mede-

sima carica, in attesa che il giudizio si definisca nei gradi suc-cessivi. Ovviamente, con un concetto metagiuridico cosìintriso di disvalore, opporre barriere o individuare controli-miti è difficilissimo: si abbandonano le coordinate note e sidirazza pericolosamente nel diritto libero. Tutto porta inquella terra di mezzo, in cui un tratto di penna del legislatoreaggiunge un numeretto (“art. 323 c.p.”) ad un testo previgentee – da un certo momento in poi – anche l’abuso d’ufficio fascattare il marchingegno infernale.

Mondoperaio aveva, in epoca non sospetta,

proposto di affrontare il percorso per la via maestra

La reazione più comune è quella del re-wind: e, così come ‘onummero è entrato nel bussolotto della legge, altrettantocasualmente farcelo uscire. Approccio forse poco cartesiano,ma che risolveva alla buona il problema di un futuro governa-tore amico (vedi il disegno di legge “Modifica all’articolo 11del testo unico di cui al decreto legislativo 31 dicembre 2012,n. 235, in materia di cause di sospensione e di decadenzadalle cariche negli enti locali”). Il fatto è che questo metodosolleverebbe alcune scomode accuse di “doppia morale”,rivolte per di più alla parte politica che per un intero decennioha vestito i panni dell’indignazione verso il metodo delleleggi ad personam dello schieramento opposto. Si capiscequindi che De Luca sia stato sospinto nel tunnel del ricorsogiurisdizionale, che però è un bussolotto con estrazioni a sor-presa nel tempo, nel luogo e nel risultato: un eterno cardio-palma giudiziario che non giova certo alla gestione stabile edefficace di una regione complessa come la Campania.Mondoperaio aveva invece, in epoca non sospetta, propostodi affrontare il percorso per la via maestra. Una via che nascecon il guardasigilli Giuliano Vassalli, firmatario della legge55/1990 sullo scioglimento dei comuni ad infiltrazionemafiosa, e prosegue con un altro ministro socialista: ClaudioMartelli, coadiuvato da Giovanni Falcone, firmò il decreto-legge 164/1990 (poi convertito in legge 221/1991), che per la

I numeri al lotto>>>> Giampiero Buonomo

Decreto Severino

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prima volta prevedeva la sospensione degli amministratorilocali condannati per associazione mafiosa. Non che quellemisure non soffrissero di criticità: ma il loro punto di equili-brio – sospensione a tempo in caso di condanna non defini-tiva, decadenza in caso di condanna definitiva – fu consacratodalla Corte costituzionale, fu recepito nella successiva legi-slazione, e resiste nel tempo da vent’anni. Alterare i piatti diquella bilancia, così sapientemente dosati da un’antica culturagarantista, non ha giovato a nessuno: né a chi ha voluto inse-rirvi la generalizzazione forcaiola, né a chi ha pensato diregolare conti più o meno antichi.Se il gioco sulle date di vigenza è il primo indizio di malafededel legislatore, il panorama che offre il decreto n. 235/2012 èsconfortante: un abuso d’ufficio addebitato a chi era magi-strato e medio tempore è stato eletto sindaco; la forchetta tem-porale (larga un ventennio) di chi era tycoon al momento deifatti, poi è diventato premier durante il processo (nasconden-dosi dietro la carica per non recarsi in udienza), ed è statocondannato da senatore; la nomina del consulente comunaleimputata ad un sindaco/viceministro nel frattempo eletto Pre-sidente di giunta regionale.

Quando si parla di elettorato, si parla di un diritto

politico: una categoria che non a caso, dal 1865,

fu sottratta al contenzioso amministrativo

Quando la Corte europea dei diritti dell’uomo entrerà nel-l’aula di Strasburgo, il crucifige dei socialisti consentirà peròall’Italia di innalzare un’ostia diversa. Marcello Miniscalco èl’archetipo della retroattività, che non si sarebbe mai potuta odovuta verificare. Davanti ai giudici europei si presenta invitro il modello di chi – prima del decreto Severino, primadella legge delega, quando i casi De Magistris, Berlusconi eDe Luca erano ancora in mente Dei – aveva già ricevuto pro-cesso, condanna ed espiazione. Il suo abuso di ufficio, pacifi-camente, non aveva meritato un giorno di pena interdittiva daparte del giudice che aveva conosciuto il caso: eppure, perl’operatività di una legge ex post facto, tre lustri dopo la con-danna e due decenni dopo i fatti, venne sottoposto ad un’e-sclusione illegittima dalla competizione elettorale regionaledi durata del tutto scollegata dalla gravità dei fatti, in viola-zione del principio di proporzionalità di cui all’articolo 3 delprimo protocollo della Cedu.Taciamo per carità di patria della pronuncia dismissiva di Tare Consiglio di Stato sulla sua censura di incostituzionalità deldecreto Severino. Da quando il sindaco di Napoli ha prospet-

tato i medesimi dubbi, rimessioni alla Corte costituzionalecome se piovesse: ma nessuna che si elevasse al di sopra dellamodestia dell’abuso d’ufficio, o dell’eccesso di delega, odella disparità di trattamento tra amministratori locali e parla-mentari. Argomenti che, non a caso, non hanno convinto laCorte ad ottobre 2015.La natura sanzionatoria o meno delle misure del decretoSeverino è solo il dito che indica la luna: l’astro luminoso è ildiritto soggettivo di ogni cittadino a partecipare alla gestionedella cosa pubblica col metodo democratico. Quando si parladi elettorato, si parla di un diritto politico: una categoria chenon a caso, dal 1865, fu sottratta al contenzioso amministra-tivo. Per l’Italia liberale compilare le liste elettorali non erasoltanto una ricognizione dell’esistenza di requisiti di legge.Si trattava di tutelare un diritto soggettivo, alla stregua deidiritti civili: non si voleva che un dipendente dell’Esecutivocomprimesse il diritto dei competitori a partecipare alle ele-zioni, in virtù delle quali quel medesimo Esecutivo avrebbepotuto essere rimpiazzato. La cosiddetta prima Repubblicamantenne la scelta di cognizione del tribunale civile sulleesclusioni dalle liste elettorali, perché condivideva quellabanale ovvietà: eppure in quest’Italia del XXI secolo fiumi diinchiostro sono stati sprecati a sostenere l’assurdità di un pre-fetto che firma la sospensione di un sindaco eletto. A dissipare il paradosso sono dovute intervenire – nel maggioscorso – le sezioni unite della Cassazione, riaffermando lanatura di diritto soggettivo dell’elettorato (attivo e/o passivo).Non l’impugnativa di un atto, ma la cognizione di un fattolegittima la competenza del giudice, che quindi non puòessere un Tar. Anche qui, l’inventiva partenopea si è ridotta adindividuare il nuovo uscio cui battere: il sottotesto della pro-nuncia degli “ermellini” è stato ancora una volta ignorato,anche se recava le chiavi per risolvere la faccenda. Ora è tuttopiù difficile, perché i pozzi sono avvelenati e gli sciacalli viballano intorno, delegittimando la funzione giurisdizionalecome quella politica. Forse solo un podestà forestiero potràgarantire il ritorno alla pace civile: nella messa in sicurezza diingranaggi così delicati per la macchina democratica, la Corteeuropea è garanzia di professionalità, saggezza e disinteresse.Proprio quello che, finora, è mancato ai nostri legislatori.

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Mi è capitato di commentare con un amico giornalista laquestione più seria (anche se non adeguatamente consi-

derata) nella vicenda della proposta dell’Inps per la (contro)ri-forma del sistema di welfare (è opportuno usare questa defini-zione di carattere generale essendo la grande maggioranza dei16 articoli del progetto dedicati ad un riordino dell’assistenza):come può essere consentito al presidente del più importanteente previdenziale d’Europa di strumentalizzare (perché diquesto si tratta) il proprio ruolo istituzionale allo scopo di farcircolare le proprie idee con l’avallo della “gioiosa macchinada guerra” di cui è solo al comando (vista la più voltedimostrata inconsistenza del Consiglio di indirizzo e vigilanza,di cui sono componenti i rappresentati di quelle forze socialiche oggi non incutono più timore reverenziale a nessuno)?

L’amico giornalista, di solito ben informato, mi fornisce lasua versione: quando era in corso la formazione del governoMatteo Renzi avrebbe offerto a Boeri la titolarità del ministerodel Lavoro, non essendo poi in grado di mantenere l’impegnopreso. Così, a fronte delle rimostranze di Boeri, il premier loaveva proposto al Consiglio dei ministri come presidente del-l’Inps, dopo aver rimosso – con uno stile molto discutibile eassai poco corretto – una persona di grande professionalità,esperienza e prestigio come Tiziano Treu. Su sua richiesta – èsempre l’amico giornalista che parla – Matteo Renzi aveva ri-conosciuto a Boeri la facoltà di avanzare tutte quelle proposteche avrebbe ritenuto opportune, come se fosse una sorta diministro-ombra della previdenza. Non sono in grado di giudicare se la storia che mi è stata rac-

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La legge Boeri>>>> Giuliano Cazzola

Pensioni

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contata sia corrispondente al vero. È, tuttavia, certamente ve-rosimile; e questo, con i tempi che corrono, è già abbastanzaper poterne scrivere. Inoltre in tal guisa si spiegherebberotanti aspetti altrimenti incomprensibili: dal ricorrente (etollerato) protagonismo di Boeri: fino al comunicato con cuila presidenza del Consiglio ha commentato (e praticamentecoperto) lo sgarbo istituzionale riguardante la pubblicazionedella proposta (mentre tutti hanno notato le reazioni piccatedel ministro Giuliano Poletti).Ciò premesso, è sufficiente – ammesso e non concesso che diquesto si tratti – la parola del premier per poter violare impu-nemente regole istituzionali consolidate? Così al mio amicogiornalista ho fatto notare che, se il premier avesse promessoal Comandante dell’Arma dei Carabinieri (per convincerlo adaccettare l’incarico) che gli sarebbe stato consentito diproclamare lo stato d’assedio quando lo avesse ritenuto op-portuno, lo stesso premier non potrebbe lamentarsi il giornoin cui fosse stato preso in parola. Che cosa si potrebbe pensare,del resto, se il governatore di Bankitalia presentasse sul sitodell’Istituto un articolato riguardante il rientro dal debito? Ose Rossella Orlandi, dalla “stanza dei bottoni” dell’Agenziadelle entrate, insistesse nel criticare le scelte di politica fiscaledel governo? Se ne valesse la pena, si potrebbero fare tanti altri esempi diazioni “politicamente scorrette”: ma sappiamo di vivere nel“tempo degli Unni”, in cui non solo non valgono più levecchie regole, ma non ve ne sono neppure di nuove. In qualealtro modo, per esempio, si potrebbe commentare uno deipunti clou del progetto Boeri, riguardante il taglio strutturale,permanente e definitivo di prestazioni sociali erogate sullabase della legislazione vigente e, secondo una giurisprudenzaconsolidata della Consulta, fino ad ora considerate diritti ac-quisiti?Anche sulle proposte concernenti la “transizione flessibile” cisarebbe parecchio da ridire. In fondo l’idea di Boeri – il qualenon si astiene da una critica ingenerosa e sbagliata alla riformaFornero – non fa che ricalcare una soluzione già prevista nel-l’articolo 24 del decreto legge n. 201/2011, “rinverdendo”un’opzione (peraltro tuttora vigente) prevista nella legge Dini-Treu del 1995. È consentito, infatti, optare per il calcolo dellapensione interamente con il metodo contributivo a condizionedi far valere almeno 15 anni di contributi, 5 dei quali versatisecondo tale metodo. Optando per il calcolo contributivo èpossibile – sulla base della riforma Fornero – servirsi dell’uscitadi sicurezza prevista al raggiungimento di 63 anni di età, apatto che l’importo a calcolo sia pari o superiore a 2,8 volte

quello dell’assegno sociale (1.200 euro mensili lordi nel 2012).Ciò in quanto il sistema non deve garantire solo la sostenibilità,ma anche l’adeguatezza dei trattamenti. Esiste un ulteriore requisito per poter esercitare tale facoltà:aver maturato meno di 18 anni di versamenti prima del 31 di-cembre 1995. In pratica, dunque, la proposta dell’Inps superaquesti requisiti accessori ed estende l’opzione anche a coloroche si trovano nel sistema misto (in più strizzando l’occhio,per quanto riguarda il modesto disincentivo, alle proposte dilegge attualmente in discussione alla Camera, e in particolare aquella a prima firma di Cesare Damiano e Pier Paolo Baretta).In generale l’elaborato di Boeri finisce per essere datato. Leproposte sulla prestazione assistenziale, ad esempio, vanno inuna direzione diversa da quelle prefigurate nel Jobs Act, chepunta sull’Asdi e sulle politiche attive (in quest’ultimo aspettocon molta più convinzione di quella che trapela nel testo dell’Inps).

È venuto il momento di mettere radicalmente

in discussione le analisi che ci trasciniamo

appresso dal 1995 ad oggi

Ed è veramente singolare quanto è scritto nel documento: «Ilblocco delle uscite verso il pensionamento impone costi anchesotto forma di ritardi nei processi di ristrutturazione delle impresee di mancata rotazione della manodopera nel pubblico impiego.Al di là di questo problema legato alla particolare intensità edurata della Grande Recessione e della successiva crisi del debitopubblico dell’area euro, una maggiore flessibilità in uscita, se so-stenibile, aumenterebbe grandemente il benessere delle famiglieche hanno, specie in quella fascia di età che precede il ritiro dallavita attiva, esigenze ed aspirazioni molto diverse tra di loro. Iltutto alleggerendo la gestione del personale di imprese chealtrimenti si troverebbero a dover dare lavoro a persone pocomotivate, presumibilmente poco produttive».È quasi da non credere a quanto si legge: un intellettuale di rangoe di prestigio, profondo conoscitore della materia come TitoBoeri, non trova, come risposta alla crisi, una ricetta migliore diuna massiccia operazione di prepensionamento. A suo avviso al-leggerire gli organici dei lavoratori più anziani (“persone pocomotivate”) favorirebbe i processi di ristrutturazione.Ma il limite vero del progetto è un altro: nonostante la pretesadi chiudere in via definitiva l’iter ultraventennale delle riformeprevidenziali (“una serie di aggiustamenti ben calibrati possonopermetterci di non dover più intervenire in futuro, dando fi-nalmente stabilità normativa, sicurezze ai contribuenti e aipensionati”) la proposta dell’Inps non è il Jobs Act delle

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pensioni. Odora invece tremendamente di vecchio, comeanziani sono i soggetti di riferimento delle nuove regole madeby Boeri: lavoratori il cui progetto di vita è già orientato allaquiescenza. È venuto il momento, ad avviso di chi scrive, di mettere ra-dicalmente in discussione le analisi che ci trasciniamoappresso dal 1995 (dalla riforma Dini) ad oggi. Si è sempredetto che l’introduzione del sistema contributivo avrebberisolto i problemi della sostenibilità del sistema, mentre lacriticità di quella legge (e delle modifiche successive)consisteva nell’eccessiva gradualità della fase di transizione,organizzata e predisposta allo scopo di tutelare le generazionicontemporanee mandando il conto da pagare a quelle future.Per ripristinare l’equità, allora, occorreva perseguire unpercorso che accelerasse la fase di transizione e “correggessei privilegi” dei padri.

I risparmi ottenuti dai tagli delle “pensioni d’oro”

sarebbero usati a copertura non dei giovani, ma

dei pensionandi dei prossimi anni

È questa la filosofia del progetto di Tito Boeri e della sua insi-stenza quasi maniacale per il ricalcolo dei trattamenti in esserecon il metodo contributivo. In sostanza, si sta verificando,nell’ambito del sistema pensionistico, una sorta di ritovendicativo nei confronti dei “privilegiati” del passato, qualecontrappasso nei confronti dell’amaro destino previdenzialedei figli. Ma l’impianto rimane seduto a “rammendare lesolite vecchia calze” dei lavoratori anziani. Si toglie ai “vecchi”,per dare ai “vecchi”: dai più benestanti ai più poveri di loro,pur appartenendo essi al medesimo regime pensionistico re-tributivo (bandito come “privilegiato”).Non si guarda ai meriti, ma solo ai bisogni. Basti pensare,infatti, che i risparmi ottenuti dai tagli sulle “pensioni d’oro”sarebbero usati a copertura di qualche aggiustamento a favorenon dei giovani, ma dei pensionandi dei prossimi anni. Dopoche ai cosiddetti esodati sono garantite ben sette sanatorie perun onere, a regime, intorno ai 12 miliardi. E i giovani? A lorosi dà il contentino del “mal comune mezzo gaudio”, tagliandola pensione dei “padri” egoisti e ingenerosi, sottoponendo an-ch’essi all’autodafé del calcolo contributivo. Occorrerebbe invece trovare il coraggio di dire la verità. Ilmodello prefigurato dalla riforma Dini e dagli aggiustamentisuccessivi è rimasto con la testa rivolta all’indietro: nelsenso che ha continuato a collocare i lavoratori di oggi edi domani nel mercato del lavoro di ieri, senza porsi l’o-

biettivo di come garantire ai giovani – a fronte delle con-dizioni del mercato del lavoro dell’economia globalizzatae competitiva – un trattamento non solo sostenibile, maanche adeguato.A pensarci bene, mutatis mutandis, sarebbe necessario compiereun’operazione analoga a quella che fu fatta alla fine degli anni’60 con la legge delega n. 153/1969, quando da un rozzosistema contributivo (le “marchette”) si passò a quello retributivo,che si dava l’obiettivo di assicurare, alla fine della vita attiva,una pensione equipollente al reddito acquisito nell’ultima fasedi essa. La finalità era quella di garantire una vecchiaia dignitosaa quanti avevano avuto una storia lavorativa e contributivapiuttosto accidentata nell’immediato dopoguerra, o addiritturaavevano visto sfumare i loro versamenti relativi ad attività la-vorative antecedenti il conflitto per via dell’inflazione postbellica. Le modalità con cui questo esito venne perseguito (una retri-buzione pensionabile limitata ad un arco temporale troppobreve) sono, in parte, alla base della insostenibilità del sistemaprima delle riforme. Ma almeno il modello era in grado di ga-rantire una tutela pensionistica adeguata per quei soggettisociali che erano centrali nel mercato del lavoro di allora.L’incerta prospettiva pensionistica dei giovani di oggi nonderiva dalle regole dell’accreditamento dei contributi e dalmeccanismo di calcolo della prestazione, ma dalla loro condizioneoccupazionale precaria e saltuaria durante la vita lavorativa.Una carriera contraddistinta da un accesso tardivo all’impiego,da rapporti interrotti e discontinui (senza potersi giovare, inoltre,di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che cucia tradi loro i differenti periodi lavorativi, magari contraddistinti darapporti regolati da regimi differenti) finirà per influire negati-vamente anche su di una pensione il cui regime venne pensatoper un lavoratore della società industriale.Il fatto è che le nuove caratteristiche del lavoro non sono unincidente della storia, ma il frutto di una trasformazione per-manente resa necessaria dai processi dell’economia globale ecompetitiva. Da noi invece si continua a ballare intorno altotem del contratto a tempo indeterminato come forma comunedi lavoro: come se bastasse sconfiggere, durante la vita attiva,quelle che chiamano condizioni di precarietà per salvare cosìanche la pensione, quando invece occorrerebbe invertire il pa-radigma. Ecco dunque l’esigenza di ripensare un sistema obbligatoriocoerente con il lavoro di oggi e di domani. Magari da applicaresolo ai nuovi assunti, come il contratto a tempo indeterminatoa tutele crescenti. È questa la prospettiva a cui dovrebbelavorare l’Inps.

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Scrivo questo sintetico ricordo-riflessione sulla crisi di Si-gonella due giorni dopo gli attentati di Parigi della notte

del 13 novembre 2015. È impossibile non mettere in correlazionele due vicende. Nella mia interpretazione esse appaiono infattinon solo inevitabilmente vicine e direi conseguenti, maaddirittura sovrapponibili, pur se collocate a trent’anni didistanza ed in un contesto geopolitico (ma anche sociale eculturale) inevitabilmente imparagonabile con quello in cuivivevamo nella metà degli anni ’80. E però la radice è la me-desima: è visibile nel fatto che gli errori politici alloracommessi tornano ad emergere con tutta evidenza. Soprattutto oggi è del tutto evidente che i caratteri propri dellacrisi in quell’area cruciale, e gli stessi ruoli assunti nel tempodai protagonisti, non si discostano se non apparentemente daquelli allora in campo. Per proporre una verifica di questogiudizio avanzo un riferimento preciso proprio alla vicendaSigonella ed al ruolo che nell’occasione svolse allora la Siria,ed anche il clan familiare che allora come oggi la dominavacon mano di ferro, esprimendo una supremazia alla cui co-struzione non era estraneo il rapporto con il suo formidabile“socio esterno”, l’Unione Sovietica.Tra i primissimi atti predisposti dal governo Craxi, nelle oreimmediatamente successive alla notizia dell’avvenuto sequestrodella Achille Lauro, ebbero la priorità quelli politico-diplomatici,tesi a costruire immediatamente un arco di solidarietà politicheil più vasto possibile, ed anche idonei a tradursi immediatamente,a richiesta, in capacità operative in grado di sostenerci nellanostra azione. Craxi distribuì subito i compiti agli apparatied a ciascuno dei ministri riuniti d’urgenza. Si trattava in par-ticolare dei ministri Andreotti, Spadolini, ed anche del vice-presidente Forlani. Fu del tutto ovvio che alla persona del ministro degli Esterifosse consegnato il capitolo “Assad”: era il suo referente pri-vilegiato nell’area e lo conosceva bene. In quel momento eraper noi punto decisivo, anche perché la nave sequestratasembrava puntare ad un attracco proprio in Siria, a Tartous.Non fu ovviamente solo la bravura “relazionale” di Andreotti

a consentirgli di trovare in poche ora il dittatore siriano: lorintracciò addirittura in Germania, dove Assad risiedeva se-gretamente in quei giorni perché doveva sottoporsi ad un’o-perazione chirurgica. Come è altrettanto ovvio che il leadersiriano si mosse subito a nostro favore non solo perchéconosceva bene il ministro italiano che gli parlava al telefono.Assad agì immediatamente e duramente, obbligando chi con-trollava la nave ad invertire la rotta e a tornare a dirigersiverso le acque antistanti l’Egitto.

Si trattò di una crisi predisposta accuratamente,

perché passava per l’utilizzo di due opposti poli:

la destra conservatrice di matrice

israelo-statunitense e l’insieme di quello

che allora era il consistente partito palestinese

degli “irriducibili”

La domanda che possiamo porci è dunque perché, persino laSiria dittatoriale e filosovietica volle allora agire perchè nonfosse la violenza dell’azione terroristica - cieca e indiscriminata- a dominare una fase politica che si stava ormai decisamenteorientando verso il negoziato, aprendo probabilmente ad unastagione decisiva di pace. La risposta è oggi sotto gli occhi diognuno di noi, per chiunque abbia voglia di vedere e di capireallontanando da sé pregiudizi e falsità. “La pace è l’unica politica rivoluzionaria per il Medio-Oriente”: questo era allora lo slogan della sinistra israeliana,proposto cocciutamente nel Parlamento e gridato nelle piazze.Ed era lo stesso concetto che il nostro presidente del Consiglio,uno statista autorevole e lungimirante che si chiamava BettinoCraxi, ripeteva e ricordava ai suoi contraddittori nel liberoParlamento della Repubblica italiana, riuscendo a costruirecosì sul tema un consenso ben più ampio della sua maggioranza. Allora, in quegli anni centrali degli ’80, l’Europa sospinta inparticolare dall’Italia aveva di fronte l’occasione storica, bendescritta nelle parole di Goethe di duecento anni prima in ri-

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La trappola contro Craxi >>>> Gennaro Acquaviva >>>>

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ferimento all’unità del suo paese: “Quello che è perduto unavolta, l’eternità intera non restituirà più”. Allora l’occasioneera reale, costruita e realmente perseguibile anche per l’auto-revolezza e la passione espressa dall’Italia di Craxi (e Andreotti).E fu persa. Lo fu perchè passava per l’utilizzo decisivo della via negozialeaperta dalla risoluzione Onu “Pace contro Territori”; lo fuperché, per fermare l’opposizione israeliana e annullare ilveto americano al negoziato diretto l’Italia puntava comeprimo passo alla costruzione di una delegazione mista giorda-no-palestinese, favorendo così la costruzione di una presenza“istituzionale”: uno strumento che fosse in grado di favorireconcretamente l’avvio di una Confederazione giordano-pale-stinese ben più solida di quella, che poi vinse, per la costruzionedi uno Stato palestinese basato a Gaza.Fu anche per il rischio concreto che questa azione trovasseuna effettiva via di realizzazione che si costruì l’operazioneSigonella. Si trattò infatti di una crisi predisposta accuratamente,perché passava per l’utilizzo di due opposti poli che la deter-minarono, cercarono di gestirla ed agirono fortemente perportarla a compimento: e cioè la destra conservatrice e so-stanzialmente reazionaria di matrice israelo-statunitense, el’insieme – disparato e disperato - di quello che allora era ilconsistente partito palestinese degli “irriducibili”, rappresentatodal “Fronte del Rifiuto”, ma anche da Habash e Hawatmeh. Il primo polo noi allora la vedemmo in azione addirittura conle fattezze del nostro compagno socialista Simon Peres, allorapremier di Israele, durante i suoi incontri con Craxi a Roma;ma anche in quelle del traduttore americano che falsificava leparole degli statisti con cui interagiva, e cioè Michael Ledeen;il secondo era rappresentato allora da una galassia confusa,impasticciata e impacciata, anche se molto pericolosa, che as-sunse allora le fattezze apparenti di Abu Abbas: un terroristache però contribuì decisamente alla consegna libera dellaAchille Lauro, e che si confondeva tra i guerriglieri dell’Olp.La questione centrale che favoriva l’azione decisa di chiallora guidava l’Italia e voleva stabilizzate il Medio Orientesi collocava appunto nella finestra temporale che si era aperta,anche per mancanza di alternative, in quell’anno a cavallodell’autunno del 1985.Da un lato infatti l’azione degli irriducibili e dei “bombaroli”per mestiere (ma che non furono mai fanatici religiosi) trovavaun contrasto proprio in Arafat, che arrivò allora a capire chenon poteva più nascondesi rispetto alla domanda ben fondatache Craxi continuava a ripetere rispetto alla loro classedirigente: “Ma con quali ministri potranno fare il governo pa-

lestinese? Non possono ridursi a chiamare il medico condottodi Gerico”.Dall’altro i leader dell’Europa (da Mitterand a Kohl, ma anchela Thatcher), sospinti da Craxi e da Andreotti, si stavano final-mente convincendo che la crisi medio-orientale non si potevarisolvere con le prediche, o peggio limitandosi alle punture dispillo, oggi tornate di moda per merito del Parlamento europeoe della sua decisione di bollare le arance della Cisgiordania perricordarci che è in atto un’occupazione coloniale.Ma voglio tornare al tema che mi compete in questa sede: lacrisi di Sigonella. Ricordo a premessa che nell’autunno del1985 l’esperienza del governo Craxi era andata molto avanti,soprattutto perché aveva potuto dimostrare al mondo intero diche pasta solida era fatto. Il presidente del Consiglio in queimesi di trent’anni fa era addirittura circondato di gloria, e purse continuava ad essere penalizzato dall’essere possessoresolo di un modesto consenso elettorale era riconosciuto datutti, in Italia e nel mondo, come un grande leader: autorevolee lungimirante, determinato ed anche saggio.

Per gli ideatori del gioco al massacro il bersaglio

grosso non era Abu Abbas ma il governo italiano

All’inizio dell’estate di quell’anno aveva raggiunto unconsenso popolare che non aveva mai avuto, perché erariuscito a vincere, praticamente da solo, un referendum decisivocontro il Pci, la sua supremazia sul mondo del lavoro, edanche il suo voler essere cocciutamente titolare del vincoloconsociativo all’italiana, gestito costantemente in simbiosicon la Dc. Ed è appunto anche contro questa supremazia di Craxi cheviene organizzato, per la prima ed unica volta, un attentatoterroristico contro una nave da crociera italiana nel bel mezzodi quel mare Mediterraneo a partire dal quale Craxi (eAndreotti), come ho ricordato, stanno tessendo positivamente,con tenacia e buona lana, una tela per la pace che si allarga esi afferma, perché non assomiglia in nulla a quella di Penelope. Colui che in quel tempo era il consigliere diplomatico diCraxi, e cioè Antonio Badini, propone di seguito una riflessioneesauriente su quello che allora accadde e sul perché accadde.Voglio quindi limitarmi ad aggiungere poche riflessioni suquegli avvenimenti, in particolare quelli della notte tra il 10 el’11 ottobre del 1985: anche per dare solidità e concretezza algiudizio che ho già espresso di quanto allora avvenne di grandenella storia della politica dell’Italia ed anche in quella di Craxi. Nel pomeriggio e nella serata americana di quel giovedì 10

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ottobre, mentre era notte fonda in Italia, cosa non fu messo inmoto per affondare il governo italiano e colpire personalmenteCraxi: i centralini del potere intasati dal balletto delle chiamatedi correo indirizzate ai tanti personaggi ambigui che popolavano(anche allora) la scena pubblica italiana; il disprezzo e l’ingannoche caratterizzarono, dall’inizio alla fine, la pur brillantegestione americana della vicenda, pensata e costruita a Wa-shington dagli uomini della Situation room sotto la guida delcolonnello North, al quale il vertice Usa aveva colpevolmentelasciato mano libera; le falsità, il doppiogioco, le forzatureplateali espresse a tutti i livelli nei confronti della sovranità diuna nazione che pure veniva continuamente indicata e lodatacome “amica e alleata”. Per scoprire la malvagità del gioco isdraelo-statunitense chesi espresse in quelle ore convulse è sufficiente riflettere sullascelta di Sigonella, e quindi dell’Italia, come luogo e obiettivoda colpire, utilizzando lo strumento già predisposto allo scopo:e cioè l’aereo egiziano appositamente “rapito” in volo con abordo i terroristi ed i loro accompagnatori. In quelle ore laGrecia aveva fatto intendere agli americani il suo diniego al-l’atterraggio; ma quella sera, di fronte alle opzioni degliuomini dell’ammiraglio Poindexter, c’era – senza controindi-cazioni ed in assoluta sicurezza – anche la base britannica diAkrokiri, sull’isola di Cipro: una scelta che per gli americanidoveva venire ben prima di Sigonella e dell’Italia, perché sitrattava di una postazione assolutamente sotto controllo,periferica quanto bastava, ideale per sostenere il gioco sporcodei “rapitori dei rapitori”. La questione era che per gli ideatori del gioco al massacro ilbersaglio grosso non era Abu Abbas ma il governo italiano.Bisognava catturare i terroristi che avevano ammazzato ilpovero Leon Klinghoffer giusto in tempo per non perderel’ora buona del telegiornale di prima serata della costa occi-dentale: e pazienza se questo spiazzava irrimediabilmente glialleati mediterranei di un processo politico di pace, delicato eormai possibile; e se un uomo che si era levato in piedi controlo strapotere del maggior partito del comunismo occidentale eaveva deciso l’installazione degli euromissili veniva cosi mi-serevolmente condannato al fallimento. Di fronte all’ondata emotiva - e troppo spesso anche irrazionale- che vedo emergere in questi giorni rispetto ai fatti di Parigimi viene naturale riflettere sulla diversità dei comportamentitra allora ed oggi: ed anche misurare la differenza di statura edi livello tra quel sistema e quegli uomini rispetto alladecadenza ambigua, nel costume e nel potere, dell’Europa edell’Italia di oggi.

In quei giorni del 1985 un uomo politico minoritario, ma cheera stato in grado di elevarsi per suo merito al ruolo di statista,si collocò con semplicità al di sopra degli inganni, delle falsitàe delle paure che aggredivano e circondavano lui ed il suopaese: ed ebbe la forza e l’autorevolezza di contrastare, prati-camente da solo, chi voleva sconfiggere la verità e le buoneragioni di una politica estera lungimirante e saggia che egliera stato in grado di esprimere e di far pesare in tutto il Mediooriente, una politica non a caso amica della pace e delprogresso, alleata della giustizia e della verità. All’espressione di questa alterità, che fu solo di Craxi ed ilcui merito gli va riconosciuto per intero, egli fu allora ingrado di accompagnare una grande capacità di guida, dura edecisa quanto bastava, ma anche costruita con abilità perchéin grado di ricercare ed utilizzare alleanze e solidarietà motivatedai buoni argomenti che erano in suo possesso: tutti elementinecessari per fargli vincere alla fine una partita giocata difronte al mondo intero. Ancora oggi siamo a domandarci se le oscure potenze cheCraxi contrastò e vinse in quei giorni siano state parte, magariin concorso con altre, delle sconfitte e dell’arretramento chesono seguiti negli anni ’90, innestando la decadenza dell’Italiae portando lui stesso alla sconfitta ed alla morte in esilio. È perme difficile riconoscere un rapporto di causa ed effetto. Quelloche posso dire è che per una nazione di media potenza qual’era,ed è, l’Italia (anche se favorita allora dal gioco dei due blocchi)realizzare una politica alta, lungimirante e forte pretendeva unlivello di solidità del paese (ma anche una base affermata distoria democratica) che esso evidentemente non possedeva. Eprendere atto che gli obiettivi che sono oggi di fronte alle ge-nerazioni più giovani non si discostano di molto dalla permanenzadi questi vincoli e dalle relative necessità riformatrici: vincolie obblighi di cambiamento, cioè, non molto dissimili da quelliche Craxi ed i socialisti avevano dinnanzi trent’anni fa, e cheoggi sono inevitabilmente l’obiettivo di chi può finalmente af-frontarli, e forse anche portarli a soluzione.

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L’iniziativa della Fondazione Craxi di far produrre unfilm documentario sulla notte di Sigonella, per ricordare

un avvenimento che creò la più grave crisi con gli Stati Unitinel dopoguerra, é certamente degna di plauso almeno per dueragioni: la prima, per riflettere sulla dinamica di una azione dipolitica estera che univa la tutela della dignità nazionale, lacoerenza alla giustizia internazionale e la sicurezza geopoliticadel paese (nel caso specifico la ricerca di una soluzione dipace israelo-palestinese). La seconda, per gettare luce sullacapacità dell’Italia di guardare oltre il giardino di casa, assu-mendosi con coraggio le proprie responsabilità e i propririschi per concorrere fattivamente a costruire una pace menominacciata nella regione.Il governo Craxi smentiva cosi la critica di consumare piuttostoche produrre sicurezza, che veniva periodicamente mossa alnostro paese proprio da Washington: qualche volta, forse coneccessiva malizia, addebitandogli financo di fare «patti coldiavolo» per restare fuori dal terrorismo di quei tempi. La ri-flessione sul caso Sigonella appare del resto quanto mai op-portuna e tempestiva in una fase storica come quella cheviviamo, in cui vengono ancora da Mediterraneo e Mediorientegravi minacce alla sicurezza. E ciò appena qualche anno dopola «Primavera araba», quando con le popolazioni protagonistedi una ribellione cruenta l’Occidente si illuse, senza muovereun dito, che fosse veramente possibile sperare nell’avvento diuna «Democrazia Globale».Il film-documentario si è fatto inoltre apprezzare per lasuspense che ha generato e per la ricchezza delle immagini einformazioni tratte rispettivamente dai fatti accaduti e dallevoci dei protagonisti che quegli accadimenti hanno vissuto etestimoniato. C’é da augurarsi che il racconto visivo dellaesperienza piuttosto unica vissuta dal paese richiami l’attenzionedi una classe politica ancora poco adusa ad impegnarsi seria-mente, e non solo a chiacchiere, in azioni internazionali, igno-rando che in un’epoca di globalizzazione esse influiscono, di-rettamente o indirettamente, sugli affari interni e la vita deicittadini.

Se l’obiettivo di risvegliare l’orgoglio nazionale é statocentrato, altri due aspetti della vicenda, quelli giuridico epolitico, sono rimasti purtroppo un po’ nell’ombra, facendoalla fine apparire un Craxi «alla Forattini» invece di unostatista – quale egli é stato e sarà certamente ricordato dallastoria – che poneva l’interesse del paese e degli italiani alprimo posto della sua agenda politica. Insomma, é emersa ditanto in tanto l’immagine di un uomo «decisionista» nel di-fendere la sovranità nazionale e la causa palestinese, madistratto di fronte allo sdegno dell’Amministrazione americana(invero erroneamente diretto verso l’Italia) per l’assassiniodel cittadino statunitense Leon Klinghofer. Ma in realtà l’Italianon commise nessuno sgarbo al grande alleato rifiutando unacomplicità in atti non ben meditati. Vediamo perché.

Nulla nelle registrazioni avvalorava

un ruolo di mandante di Abu Abbas

L’inizio della sfortunata vicenda fu tutto in salita. La circostanzainfatti che il barbaro assassinio fosse stato commesso neiriguardi di un ebreo mosse anche Israele, che volle concorrereall’istanza dell’Amministrazione americana fornendole la tra-scrizione dei colloqui intercettati tra Abu Abbas e i quattro di-rottatori dell’Achille Lauro. Fu quella una mossa che potevaportare nocumento alla verità, in giorni di forte tensione, dispasmodica ricerca comunque di una via di uscita da una si-tuazione ingrata e spinosa per tutti. Si parlava ad arte di unaprova pesante del ruolo di Abu Abbas come mandante, nelchiaro intento di influenzare il nostro governo (eravamo nellanotte di un venerdi che anticipava il rompete le righe del finesettimana).Ma Craxi non cercava pretesti per sfuggire alle sue responsabilità.E di conseguenza noi, suoi stretti collaboratori (penso aGennaro Acquaviva e al mio Vice, Leonardo Visconti di Mo-drone), abbiamo sempre preso le giuste precauzioni. Fortuna-tamente quella mossa venne efficacemente controbilanciatadall’eccellente lavoro di intercettazione compiuto nella circo-

La scelta di uno statista>>>> Antonio Badini

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stanza dalle navi della Marina italiana, inviate su nostrarichiesta nell’area non appena appresa la notizia del dirottamentodella Achille Lauro. In effetti l’esame minuzioso delle duetrascrizioni, quella di fonte israeliana e quella di fonte dellanostra Marina, ci aveva permesso di far constatare ai giudicichiamati poi a giudicare sulla richiesta di estradizione, di cuiparleremo in seguito, che nulla nelle registrazioni avvaloravaun ruolo di mandante di Abu Abbas.Più in generale, va sommessamente detto che il commento delfilmato - pur essendo stato affidato a due persone di prestigio,il ministro della Difesa Roberta Pinotti e l‘editorialista delCorriere della Sera Antonio Polito - non ha granché correttole lacune: talché rischiano di restare senza risposta per i tele-spettatori che hanno seguito la trasmissione di Rai Duequestioni importanti. Mentre ci sarebbe un gran bisogno diaprire qualche squarcio sull’opacità che avvolge l’attualepolitica mediterranea dell’Italia. Sono le stesse questionisollevate problematicamente nel convegno promosso dall’As-sociazione Socialismo e da Mondoperaio tenutosi il 16 ottobrescorso nella Sala Zuccari del Senato. In quell’occasione molto si é insistito sul perché Craxi eAndreotti rischiarono di ledere l’amicizia e la lealtà nei riguardidel nostro maggiore alleato per proteggere una personalità,Arafat, di certo non sempre di specchiata coerenza nel suo per-corso di «politico-guerriero» e leader di una organizzazione,l’Olp, nell’ambito della quale agiva il Fronte di liberazionedella Palestina cui appartenevano i sequestratori della nave dacrociera. Da notare che il capo del Flp era proprio Abu Abbas,che dunque agiva come quinta colonna del più sanguinario«Fronte del rifiuto» dei vari Jibril, Hawatmeh e Habbash.Ricordo, del menzionato convegno, l’effetto prodotto nellaSala Zuccari da un efficace intervento di Arnaldo Forlani, altempo vicepresidente del Consiglio, che nel distinguere«l’essere dall’apparire» ha definito Craxi politico dell’«essere»,che esprimeva con risolutezza le sue convinzioni senza neces-sariamente preoccuparsi dell’«apparire»: di come cioé quelleconvinzioni potevano essere percepite e valutate da altrepersone, a partire dagli stessi uomini politici che condividevanocon lui la responsabilità di governo (e che esprimevano, ébene ricordarlo a sostegno della osservazione di Forlani,diverse sensibilità, essendo quello un governo di coalizionecon non rare tensioni al proprio interno). Tanto più che, comepoi ha precisato Maurizio Caprara, editorialista del Corrieredella Sera, non emergeva dalla figura di Arafat una convincentee totale trasparenza e dirittura morale nel perseguimento deisuoi pur legittimi obiettivi politici.

In soldoni la domanda indirettamente posta dai due oratoriera: perché rischiare gli equilibri interni da un lato, e le buonerelazioni dell’Italia con gli Stati Uniti dall’altro? Il loro com-prensibile interrogativo, che rifletteva verosimilmente quellodi altri, comprendeva l’implicito sviamento dal Trattato cheall’uopo era stato firmato dai due paesi: per cui era nell’alveodi violazione del diritto internazionale che sarebbe discesa lamancata estradizione di Abbas, per di più decisa per preservarela posizione di un uomo, appunto Arafat, considerato impre-vedibile e ondivago tra il bene e il male. È allora utile, per ri-spondere alla più che legittima domanda, soffermarsi sullecitate carenze del film-documento nell’affrontare sia gli aspettigiuridici connessi con la vicenda sia il nocciolo della questionepolitica.

Non era sostenibile la tesi americana nè

per il trasferimento coatto di Abu Abbas

negli Stati Uniti, nè per la sua consegna da parte

del governo italiano

Come dianzi accennato, erano disponibili al governo italianole intercettazioni del colloquio di Abu Abbas con i quattro se-questratori, che furono messe a disposizione dei magistraticonvocati a Palazzo Chigi dal ministro Matinazzoli (che apparesolo fugacemente nel filmato) per valutare se apparivanocongrue le motivazioni addotte da parte americana per giudicarei sei negli Stati Uniti: se concedere o meno, quindi, l’estradizionedei quattro dirottatori e di Abou Abbas (il sesto era la suaguardia del corpo) quale mandante dell’assassinio. La consegnadi quest’ultimo alle autorità di Washington veniva particolarmentesollecitata dall’ambasciatore Maxwell Rabb, che si facevaforza (almeno in un primo momento) delle ricordate intercettazionidi fonte israeliana, che a suo dire dimostravano un rapporto diassoluta dipendenza dei dirottatori dal capo del Flp, tanto dapoterlo ritenere il mandante dell’intera operazione.In realtà nelle intercettazioni, lette attentamente da magistrati,vi era un non ambiguo ordine di Abbas ai quattro di noncompiere azioni violente e di desistere dal sequestro, conse-gnandosi senza condizioni alle aurorità egiziane a Porto Said.Circostanza del resto plausibile poiché l’accesso dei quattroclandestini a bordo dell’Achille Lauro da subito fu spiegata daAbbas ad Arafat, e da questi a Craxi, come dovuta per il com-pimento di un attentato ad Ashdod. Era tale azione certamentedeprecabile, perché comunque destinata a danneggiare l’im-magine e la credibilità non solo di Arafat ma dello stesso

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governo italiano: ma non costituiva per il caso alcuna prova afavore della richiesta di estradizione. È stato del resto appurato che nessuno a Porto Said, compresolo stesso Abu Abbas, durante i tentativi per convincere idirottatori a desistere fosse ancora al corrente dell’assassiniodi Klinghofer, circostanza che, come accennato, Craxi appresedirettamente parlando con il comandante De Rosa qualcheminuto prima della conferenza stampa. Craxi ci disse diavvertire subito il nostro ambasciatore Migliuolo incaricandolodi preparare il terreno per una nostra richiesta di estradizioneper i quattro dirottatori, poiché il salvacondotto era condizionatoall’assenza di ogni fatto di sangue avvenuto sulla nave. DeRosa, certamente per quieto vivere, aveva purtroppo taciutosull’assassinio di Klinghofer nelle precedenti telefonate colministero degli Esteri e coi Servizi.Prima ancora di recarsi alla conferenza stampa, Craxi ci detteinoltre istruzioni per informare la Farnesina della nostra con-versazione con Migliuolo e chiedere di avviare con la massimaurgenza le procedure, d’intesa col ministero della Giustizia,per l’estradizione dei quattro dirottatori, richiesta che egliavrebbe appoggiato direttamente presso il presidente Mubarak.In questo senso fu naturale per lui confermare al presidenteReagan, nel corso della conversazione telefonica della nottesuccessiva, che egli avrebbe trattenuto i dirottatori per farligiudicare da un Tribunale italiano: mentre, precisò, nulla agliatti risultava su eventuali responsabilità di Abu Abbas, cheegli tuttavia si riservò ulteriormente di approfondire. Cosache poi puntualmente fece, ai fini dell’estradizione di Abbas,con l’ausilio della magistratura. Della mia conversazione con Abu Abbas sull’aereo dell’Egyptairin sosta a Sigonella mettemmo a parte con Acquaviva il Capodi gabinetto del ministro Martinazzoli, Zhara Buda, cheguidava i giudici riuniti a Palazzo Chigi. Gli dicemmo in par-ticolare che Abu Abbas aveva confermato nel citato colloquioche l’obiettivo dei suoi uomini era di sbarcare ad Ashdod percompiere un attentato, mentre dell’uccisione di Klinghoferegli aveva dichiarato con fermezza di averlo appreso solo allosbarco dei suoi quattro miliziani, ribadendo che essa era deltutto estraneo agli obiettivi del Flp. Non era quindi sostenibilela tesi americana nè per il trasferimento coatto di Abu Abbasnegli Stati Uniti, nè per la sua consegna da parte del governoitaliano. Di qui il rigetto della richiesta di estradizione, peraltrodeliberata dopo tre ore di attento esame compiuto dai magistratiall’uopo convocati. Considerata l’assenza di elementi di fattoe di diritto per la consegna di Abu Abbas, un voltafacciadell’Italia avrebbe rappresentato per il mondo arabo moderato,

e in primo luogo per l’Egitto, una gravissima perdita dicredibilità, a tutto vantaggio dei movimenti radicali. La logica conseguenza sarebbe stata l’emarginazione oltreche dell’Egitto, dell’Arabia Saudita e soprattutto della Giordania,che nei piani di Craxi doveva invece svolgere un ruolo centralesia guidando (come si dirà in seguito) la delegazione negozialegiordano-palestinese, sia fornendo garanzie agli impegni sullacostruzione del futuro Stato palestinese. Specularmente,avrebbe acquisito nuova forza la Siria, che ospitava a Damascoil nucleo forte delle forze radicali (prevalentemente laiche macon crescente partecipazione di quelle legate all’estremismo religioso, in primis Hamas ma poi la Jama’a Islamiya).

Che alla fine Craxi non sbagliò a non far cadere

Arafat ce ne dà autorevole conferma un grande

uomo di Israele, Yitzhak Rabin

Le suesposte considerazioni ci portano diritto dentro il disegnopolitico, la seconda delle questioni critiche trascurate dalfilmato. Mette conto al riguardo osservare come Craxi, sebbenegovernasse nel «periodo laico» del terrorismo, fosse convintoche dopo Arafat vi sarebbe stato il ben più pericoloso terrorismodell’estremismo religioso i cui segni premonitori erano i mo-vimenti raccoltisi poi attorno all’asceta Ahmed Yassin,sceicco e Imam, fondatore di Hamas. Craxi avvertiva di quelprevedibile passaggio il governo israeliano (e Peres soprattutto,in nome del sodalizio creatosi tra i due uomini politiciall’interno dell’Internazionale socialista). Lo rendeva chiarol’ineluttabile coinvolgimento delle popolazioni, vere portatricidella collera per l’umiliazione inferta al popolo palestinese,che gli Imam e le fratellanze islamiche seppero tesaurizzare.Una collera che non avrebbe risparmiato Israele, ma neanchepaesi considerati più o meno vicini allo Stato ebraico, e cheavrebbe reso incandescente l’intera regione e assai piùcomplesso il processo negoziale: significativo che la primaIntifada iniziò nel 1987.Craxi avvertiva perciò la necessità di non disperdere i progressidecisamente incoraggianti sino a quel momento conseguiti. Equi é necessario un flash back a partire dal novembre 1984. Aquel momento - siamo alla vigilia della presidenza italianadella Comunità europea - Craxi e Andreotti rompono gliindugi e mettono in priorità la questione palestinese. Il primoimperativo era di indurre Arafat a scegliere in maniera univocala via negoziale; il secondo, acquisito il primo, era di difenderela credibilità del leader palestinese nei riguardi del governoisraeliano e dell’Amministrazione americana, per permettergli

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di far progredire concretamente il processo di pace e dirafforzare conseguentemente la sua posizione come leaderdell’unica Organizzazione palestinese internazionalmente ri-conosciuta.Il momento topico fu l’incontro segreto avvenuto nellevicinanze di Tunisi la notte del 5 dicembre 1984: Craxi e An-dreotti ebbero un lungo colloquio con Arafat e i suoi più fidaticollaboratori. Due settimane prima, al vertice di Dublino,Craxi era riuscito a ottenere dai Capi di Stato e di governo deipaesi che allora componevano la Ce un mandato a impegnarel’Europa a premere per una soluzione di pace conforme allaRisoluzione 242/67 del Consigllio di sicurezza, basata sulnoto principio Land for Peace. Forte di tale mandato, mapremuto dai tempi stretti della sua durata (cioé il semestre dipresidenza italiana, che iniziava il primo gennaio 1985), Craxi– col pieno assenso e la collaborazione di Forlani e Andreotti– decise di passare ai fatti, impegnando la sua immagine per-sonale e quella del governo italiano.La posta in gioco era alta e rischiosa, poiché l’iniziativa di-plomatica avrebbe potuto scatenare una controffensiva delleformazioni che si richiamavano al «Fronte del Rifiuto», chepoteva contare sulle forze radicali del Fronte popolare per la

liberazione della Palestina-Comando generale (Fplp-Cg) diJibril, oltre che di altri due leader, Habbash e Hawatmeh.Dopo circa tre ore di discussione talvolta aspra ci fu l’intesa.Il leader palestinese illustrò la strategia degli «irriducibili»che pensavano di inasprire la lotta armata contro Israele, dicreare tensioni all’interno dei paesi arabi più moderati (Egittoe Giordania soprattutto), e di alimentare le azioni terroristichein Europa, sul tipo dell’attentato che aveva funestato leOlimpiadi di Monaco nel 1972.Arafat fu chiaro: non avrebbe potuto iniziare un percorso asenso unico verso l’acquisizione della fiducia di Israele in as-senza di precise garanzie di un esito negoziale favorevole allacreazione di uno Stato plestinese, come appunto sanciva la ri-soluzione n. 242. Craxi e Andreotti al riguardo gli dettero lemassime assicurazioni di impegno: l’Italia avrebbe condottouna forte azione diplomatica con l’obiettivo di sbloccare ilveto americano sulla delegazione palestinese e isolare Israelese avesse continuato a frapporre pretesti all’avvio negoziale.Cosa che puntualmente venne fatto, lavorando specialmentecon Re Hussein, Mubarak e Re Fahd per la nomina di una de-legazione mista giordano-palestinese e per un eventualepassaggio ad una Confederazione giordano-palestinese prima

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dell’esercizio del diritto all’autodeterminazione riconosciutodalla Dichiarazione di Venezia del 1980. Purtroppo quei buonirisultati furono compromessi da un inopinato e amareggianteatteggiamento ambiguo del primo ministro israeliano SimonPeres.Questa era la situazione alla vigilia della intercettazione del

velivolo Egyptair e del suo atterraggio alla base di Sigonella.La vicenda, specie con il rilascio di Abbas, provocò momentidi grande emozione, e fu normale che la stampa internazionalene cogliesse gli aspetti più esteriori. Si parlò di grave fratturafra due alleati di ferro. Craxi fece di tutto per smorzare i toni.Si preoccupò di non essere frainteso, soprattutto a causa delladubbia correttezza di chi interpretò il suo iniziale colloquiotelefonico con Reagan, poi ripreso in varie versioni dallastampa. Si astenne da commenti e pensò a come tagliar cortosu di una storia che rischiava di nuocere alla saldezza deirapporti fra i due paesi. Dominava la sua preoccupazione che, se non istradata sullavia negoziale, la questione palestinese avrebbe costituito un’arma pericolosa in mano ai diversi movimenti radicali, all’iniziolaici ma progressivamente ispirati dall’estremismo religioso.È qui la risposta al quesito sul perché Craxi ha rischiatol’amicizia di Reagan e il valore strategico del maggiore alleato,prendendo le difese di Arafat, uomo certamente di difficile af-fidabilità ma premuto da tanti dei suoi (veri e falsi) luogotenenti,che chiedevano progressi netti e visibili del negoziato perconservargli l’appoggio. Che alla fine Craxi non sbagliò a non far cadere Arafat ce nedà autorevole conferma un grande uomo di Israele, YitzhakRabin: il quale – certamente con più coraggio e lungimiranzadi Peres – accettò di stringere la mano di Arafat e firmare conlui gli accordi di Oslo del 1993. Ed altri dopo di lui, vilmenteassassinato, seguirono le stesse orme: innanzitutto Ehud Barak.In My life, suo libro autobiografico, Bill Clinton afferma che«Arafat si lasciò sfuggire con Barak l’opportunità di una pacelunga e duratura». Clinton fece di tutto, sul finire del suosecondo mandato, per giungere alla agognata pace israelo-pa-lestinese. E gli analisti convengono nell’interrogarsi sulle in-comprensibili paure che assalirono Arafat. È possibile chequalche personalità araba esitasse troppo a rassicurare Arafatche non sarebbe rimasto solo a difendere il merito di unaccordo che Clinton era pronto a far suggellare dall’Ammini-strazione americana. È triste ammettere che l’Europa era nel frattempo sparitadallo schermo, e che i governi italiani che si sono succedutiavevano perso la memoria di Sigonella e di quello che l’Italiaseppe fare con senso dell’onore e una chiara visione politica.Oggi la situazione nella regione é certamente più complessa:ma pensare di dipanare il groviglio delle tensioni e dei conflittiin atto senza la seria ricerca di una equa soluzione del conflittoisraelo-palestinese sarebbe di corto respiro e probabilmentenon nell’interesse a lungo termine dello stesso Israele.

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>>>> giannini 1915-2015

>>>> Sabino Cassese

Aquindici anni dalla sua morte l’insegnamento di MassimoSevero Giannini è ancora molto attuale e vivo. Mi

riferisco sia al suo insegnamento di politico, sia a quello di ri-formatore, sia a quello di studioso: tre ruoli che Giannini hasvolto con grande coerenza e continuità, e ai quali è dedicatoquesto scritto1.Comincio da quello di Giannini politico. Ciò potrà stupire chiabbia conosciuto la sua critica severa della politica e ladistanza da lui stabilita fin dal 1949, dopo l’impegno deglianni ’40 con il partito socialista. Ma Giannini distingueva net-tamente la politica dalla politica dei partiti. Riteneva che laprima non si esaurisse nella seconda. Esprimeva un giudiziomolto critico verso la politica dei partiti. Non ne faceva di-scendere un disimpegno politico tout court. Era critico di De Gasperi, che impose ai democristiani dellaAssemblea Costituente la scelta di istituzioni deboli, mentrepersone come Dossetti e come Mortati (con quest’ultimoGiannini, nonostante la diversità d’età, aveva stretto un rapportodi stima e apprezzamento reciproco, condividendone le idee)avversavano il sistema parlamentare puro. Fu molto criticodel suo partito, come scrisse in un lettera a Nenni e ripetettepiù volte: riteneva il partito socialista impreparato, approssi-mativo, incostante, declamatorio.Se si mettono insieme i vari interventi di Giannini – quelli delriformatore e quelli dello studioso – ci si rende conto che lomuovevano idee proprie della cultura inglese. Riteneva che ilParlamento fosse “organo di teatro” (penso che questa espres-sione, da lui usata nel corso di diritto costituzionale, sia unatraduzione di una analoga espressione che si trova in Bagehot):quindi che potesse ritenersi buon Parlamento un’assembleacapace di produrre un buon governo.Quanto al governo, premiava la stabilità. I suoi studi dellastoria costituzionale inglese, comparata a quella italiana, lo

inducevano a ritenere importante la stabilità degli esecutivinon per premiare la durata dell’organo, ma per assicurare lacontinuità delle politiche. E la continuità delle politiche era dalui considerata importante perché considerava lo Stato modernoorganismo troppo complesso per non doverne continuamenteassicurare la manutenzione, che a sua volta richiedeva continuitàe costanza di linee direttrici. Per lo stesso motivo ritenevafondamentale disporre di una buona amministrazione, cheequilibrasse l’impulso politico proveniente dal vertice, lo li-mitasse e contenesse, ma anche lo portasse ad esecuzione.Apprezzava, infine, l’autogoverno piuttosto che l’autonomia.

Compito della Assemblea costituente doveva

essere “quella permeazione tra popolo e Stato in

cui consiste l’intima struttura della democrazia”

Questo disegno era nella mente di Giannini fin dal periodoprecedente alla Costituente. Ne sono testimonianza la relazioneche presentò al congresso fiorentino del partito socialista del-l’aprile 1946, e la conseguente mozione, anche questa da luiredatta: due atti con cui si definiva la linea del partito all’As-semblea Costituente. La relazione partiva dal distacco tra popolo e Stato-apparato,e dal contrasto tra i principi e la realtà. La mozione dichiaravache compito della Assemblea costituente doveva essere “quellapermeazione tra popolo e Stato in cui consiste l’intima strutturadella democrazia”. Nella relazione Giannini sosteneva che“nella carta costituzionale si debbano stabilire non solo delleenunciazioni, ma delle disposizioni idonee a garantire ilcittadino sia contro gli arbitri del legislatore da un lato, siacontro gli arbitri dell’esecutivo dall’altro”: contro gli arbitridel legislatore la carta doveva stabilire disposizioni “piùprecise” e prevedere il controllo della costituzionalità delleleggi; contro l’arbitrio dell’esecutivo Giannini prevedeva la“possibilità di azionare i diritti subbiettivi”.Sull’eguaglianza, Giannini sosteneva che non bastasse l’e-nunciazione in formula generale, e che occorresse anche

Il politico, il riformatore, lo studioso

1 Questo scritto riprende osservazioni che ho svolto nella voce “Giannini”del Dizionario biografico Treccani e nello scritto su “Giannini e la pre-parazione della Costituzione”, in corso di pubblicazione nella Rivistatrimestrale di diritto pubblico, 2015, n. 3.

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“enunciare un principio generale il quale dica che spettaall’azione dello Stato eliminare le disuguaglianze che si pro-ducono nella collettività e che siano imputabili a fatti attinential corpo sociale stesso”. L’azione dello Stato “si svolgerà nelsenso di fornire a chiunque gli elementi base, di fornireabitazioni civili, di organizzare e assicurare un’adeguata pro-tezione sociale. In taluni casi, come per esempio l’educazione,potrebbe perfino riconoscersi al cittadino un vero e propriodiritto pubblico subbiettivo verso lo Stato ad ottenere un’adeguataprestazione”. La mozione ripeteva in termini quasi analoghila proposta di introdurre nella Costituzione il principio dieguaglianza sostanziale.Mediante l’autogoverno si doveva ricostruire lo Stato “dalbasso”: “È molto più importante rivolgere la nostra attenzioneai problemi delle strutture amministrative minori, anziché aiproblemi delle strutture costituzionali essenziali, poiché è sempreaccaduto che i primi condizionano i secondi e non già viceversa,come si crede comunemente”. In consigli di gestione, sindacati,enti locali, partiti, occorreva affermare i principio dell’autogoverno.I consigli di gestione dovevano anche essere correlati agliorgani dei ministeri, in modo che funzioni pubbliche potesseroessere svolte da “funzionari eletti dal basso”.

“La funzione moderatrice che alcuni attribuisco-

no alla seconda camera risponde più ad una af-

fermazione che a una realtà; anzi, molto spesso

è una deformazione ottica”

Sull’organizzazione territoriale Giannini proponeva una nettaseparazione di funzioni locali e statali, un limite minimo di100 mila abitanti per i comuni (definiti comunità), federazionidi comuni e aree metropolitane, un massimo di 12 regioni,unificazione di tutta l’amministrazione statale periferica “sottoil coordinamento di un personaggio o elettivo o di carriera,che potrebbe avere il nome di governatore, e che sarebbeappunto incaricato di collegare il centro con la regione”.Inoltre libertà statutaria e soppressione della provincia, “troppoampia sotto certi aspetti e troppo piccola sotto certi altri”. Dopo aver proposto il riconoscimento giuridico dei partiti,con l’affidamento di poteri di controllo, la relazione continuava:“La parte che concerne l’organizzazione è assai meno importantedi quanto si creda, una volta che sia assicurata la vitalità diquegli organismi intermedi tra il popolo e il potere centrale, iquali costituiscono la vera anima della democrazia e il più im-portante strumento per l’esercizio del potere”.

Proponeva un sistema monocamerale, notando che “in tutti icasi in cui la seconda camera non è stata rappresentativa dideterminati gruppi o interessi politici, regolarmente essa hafatto fallimento”, e che “d’altra parte la funzione moderatriceche alcuni attribuiscono alla seconda camera nella maggioranzadei casi risponde più ad una affermazione che a una realtà;anzi, molto spesso è una deformazione ottica”. La mozioneaggiungeva che la Camera sarebbe stata eletta a suffragiodiretto e segreto, e “almeno per un primo tempo, anche pro-porzionale”.Il governo, secondo Giannini, doveva essere composto dalprimo ministro, eletto dalla Camera, e dai ministri, nominatidal primo ministro. “Il voto di sfiducia dovrà essere emessoperò solo con particolari cautele (maggioranza qualificata, de-posito preventivo)”. L’amministrazione doveva essere organizzataper servizi di dimensioni minori, alcuni riuniti in ministeripermanenti (presidenza, esteri, interni, economia, educazione,difesa, finanze - ministeri di gabinetto - oltre a lavoro,protezione sociale, lavori pubblici e urbanistica), altri riunitidi volta in volta in unità maggiori: “Presso ogni serviziodovrebbe istituirsi un ufficio per la razionalizzazione dellavoro: è il mezzo migliore per combattere gli appesantimentiburocratici”.Sia la relazione sia la mozione concludevano affermando chela forma di governo proposta non era né parlamentare, né pre-sidenziale, né assembleare, ma “una nuova forma di governo,che muove interamente dal popolo (capo dello Stato – assemblea– governo – tribunale costituzionale), il quale è raccordatoallo Stato dagli enti locali e dall’autogoverno, dai partiti edagli organismi di autogoverno del campo dell’economia”.Come riformatore Massimo Severo Giannini ha svolto un’operaimportante, che ha avuto il suo acme nel 1945 – 1947, negli anni’60 del XX secolo, e nel periodo in cui è stato componente deigoverni Cossiga I e Cossiga II quale ministro senza portafoglioper la pubblica amministrazione e le regioni (1979 – 1980).

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Nel periodo 1945 - 1947 ha lavorato alla preparazione delleCostituzione, raccogliendo idee e proposte; poi suggerendo aicostituenti che gli furono più vicini (ad esempio Lelio Basso)proposte di norme (particolarmente importante il suo ruolonella formulazione del secondo comma dell’articolo 3 dellaCostituzione, relativo all’eguaglianza in senso sostanziale). Nel secondo periodo, quello del cosiddetto disgelo costituzionalee dell’allargamento della base parlamentare del governo ai so-cialisti, Massimo Severo Giannini ha svolto una intensa attivitàquale componente di commissioni consultive ministeriali, maanche perché molto ascoltato personalmente da alcuni ministri.

L’opera del giurista consiste nel trarre

il sistema dal reale

Negli anni ‘60 Giannini si impegnò – quale consulente e neidibattiti pubblici – nella riforma regionale e in quella dellagiustizia amministrativa, nel riordino dell’organizzazione dellaricerca scientifica, nella riforma dell’organizzazione turistica.Nel terzo periodo, quello della sua breve esperienza ministeriale,Massimo Severo Giannini riuscì da un lato a far acquisireconsapevolezza della grande importanza politica dell’ammi-nistrazione e della necessità della sua riforma; dall’altraimpostò il problema della riforma come problema economico(di maggiore efficienza dei servizi amministrativi), con leconseguenti necessità di razionalizzazione e di diminuzionedei costi.Nel 1990 - 1992 Giannini si impegnò direttamente nell’attivitàpolitica, come promotore di referendum, e poi presentandosialle elezioni. Si schierò a favore di un sistema elettorale mag-gioritario. Contribuì alla fondazione di un Comitato per lariforma democratica, agendo tra i promotori dei quesiti refe-rendari per l’abolizione del Ministero delle partecipazionistatali, dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno e delsistema delle nomine bancarie, e aderendo al referendum sulfinanziamento pubblico dei partiti promosso dai radicali. I re-ferendum (18 aprile 1993) ebbero successo. Con altri intellettualicreò (ma con crescente scetticismo) l’associazione “Alleanzademocratica” e una lista elettorale, anche per sostenere in Par-lamento le riforme referendarie. Alle elezioni politiche del1994 la lista ebbe pochi voti e non riuscì a conquistare alcunseggio.L’attività di studioso di Giannini è iniziata con due libri del1939 e continuata con quasi seicento scritti, tra cui le operegenerali sul diritto amministrativo (lezioni, corsi, istituzioni),sul diritto pubblico dell’economia e sul diritto costituzionale.

Giovanissimo, ha pubblicato due opere, l’una sull’interpretazionedell’atto amministrativo, l’altra sulla discrezionalità; e nel1940 il lungo saggio che conteneva una parte della prolusionedel corso che avrebbe tenuto all’università di Sassari.Nell’opera prima, il corposo volume sulla interpretazionedell’atto amministrativo, ha distinto due categorie di mezziinterpretativi, definiti intrinseci ed estrinseci. Ha osservatoche il diritto si interessa dei secondi, non dei primi. L’uso deimezzi detti estrinseci è disciplinato in due modi: disponendonel’impiego per illustrare e chiarire il significato attribuito altesto dai mezzi intrinseci (interpretazione testuale), o consentendoche con essi tale significato si possa modificare (interpretazioneextra-testuale). Giannini così distingueva le norme sull’ope-razione interpretativa dalle norme sull’interpretazione, e di-sancorava il problema dell’interpretazione da quello dellavolontà e della dichiarazione.Lo studio giovanile sul potere discrezionale era fondato suun’accurata analisi di alcuni casi giurisprudenziali, e prospettavala tesi del potere discrezionale come comparazione qualitativae quantitativa degli interessi pubblici e privati che concorronoin una situazione sociale oggettiva. La discrezionalità è quindiponderazione di interessi essenziali e di interessi secondari.Nel saggio che sviluppava la prolusione sassarese Gianniniosservò che il metodo della scienza giuridica era soddisfacente,mentre non lo erano le problematiche. Espose l’idea che lascienza del diritto amministrativo non coglieva la realtà,perché dedicatasi all’astrazione. Egli propose l’osservazionediretta dei problemi tramite l’induzione sulle singole leggi, esoprattutto sulle singole realtà. Quindi l’opera del giuristaconsiste nel trarre il sistema dal reale.Successivamente Giannini ha esaminato criticamente lamaggiore costruzione teorica del suo maestro, quella dell’or-dinamento giuridico, sostenendo che essa era rudimentale.Secondo Giannini l’ordinamento giuridico constava di tre ele-menti: la plurisoggettività, la normazione, l’organizzazione.Di questa visione analitica della teoria dell’ordinamentogiuridico fece applicazione nello studio sul credito (sviluppandoil concetto di ordinamento sezionale), e in quello sullo sport. Giannini ha inoltre studiato campi prima inesplorati, comela disciplina pubblicistica del credito, le decisioni ammini-strative contenziose e le deliberazioni amministrative, l’au-tonomia locale, i profili pubblicistici del lavoro. NelleLezioni del 1950 innovò la sistematica della materia, inne-stando il diritto amministrativo su quello costituzionale,per poi passare all’esame delle fonti, dell’organizzazione edell’attività.

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Ribadì il principio della sistematicità del diritto amministrativo,considerato come un insieme organico, retto da principiordinati gerarchicamente (principio che successivamente haabbandonato, in considerazione della “coralità” del dirittoamministrativo); portò in primo piano la dialettica autorità-libertà. Negli anni che seguirono Giannini ha svolto ricerchein numerosi settori: il diritto internazionale, i sistemi costitu-zionali, il diritto pubblico dell’economia e il diritto finanziario,il campo della responsabilità amministrativa e contabile.

Come studioso Giannini è stato allo stesso

tempo storicista e razionalista

Negli anni ’60 ha pubblicato un secondo corso di lezioni, piùampio e sviluppato del primo. Nel disegno seguì il corso del1950, aggiungendo beni, obbligazioni e giustizia. Non posepiù al centro del diritto amministrativo il conflitto autorità-libertà. Criticò l’impostazione geometrica dei diritti. Mise inluce la tendenza legislativa ad ampliare la parte dell’ammini-strazione regolata dal diritto privato, anziché dal diritto am-ministrativo.Il decennio degli anni ’60 si concluse con il corso intitolatoDiritto amministrativo, pubblicato nel 1970, nel quale si puòregistrare il più importante sforzo di riportare l’intera materiaad unità, abbandonando la distinzione tra parte generale e

parte speciale del diritto amministrativo. Il quindicennio suc-cessivo fu dominato dal problema dei beni culturali e del-l’ambiente e da quello costituzionale, temi su cui Giannini hadato un contributo non solo di conoscenza, ma anche di pro-posta.Nella Introduzione al diritto costituzionale, frutto delle suelezioni romane degli anni ‘80, affermò che lo Stato è divenutoun aggregato di strutture; che partiti e sindacati vanno annoveratitra i poteri pubblici; che il Parlamento è sede di affluenza diinteressi ordinati al dibattito pubblico, alla discussione, allavalutazione, alla composizione, che solo eventualmente siformalizza in una decisione; che l’organizzazione statale, dalmodello a burocrazia compatta, è divenuta multipolare.Questo periodo si chiuse con tre altre opere generali, il Dirittopubblico dell’economia, del 1977 (II edizione nel 1985), leIstituzioni di diritto amministrativo, del 1981, e il volume suIl pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche del 1986.Con le Istituzioni Massimo Severo Giannini ha scritto laquarta opera generale di diritto amministrativo. In essa, allafine, dedicò un lungo capitolo alle funzioni, distinguendole infunzioni di azienda (beni e mezzi finanziari), di indirizzo, co-ordinamento e programmazione, e altre funzioni. Una dellenovità maggiori di questa opera fu costituita dalla individuazionedelle «invarianti», di cui presentò una analisi prima di ognitrattazione di diritto positivo.

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Come studioso Giannini è stato allo stesso tempo storicista erazionalista. Ha non solo continuamente ribadito l’idea dellastoricità del diritto, ma anche dato un concreto contributo allastoricizzazione degli istituti e del pensiero giuridico, indagandola storia di istituti (come il Consiglio di Stato, gli interventinelle aree sottosviluppate, i mercati comunali, l’impiego pub-blico), di persone (come Calamandrei, Cammeo, Zanobini),di idee (come l’idea di regione). A sua volta può dirsi che abbia storicizzato il suo stesso

pensiero, mettendo in prospettiva le idee ricostruttive fondamentalie registrandone il mutamento o l’abbandono. Sostenitoredapprima della tesi del diritto amministrativo come sistema, èandato via via attenuando e storicizzando questa idea. Autoredella tesi – che ha incontrato un grandissimo successo – deldiritto amministrativo come conflitto tra autorità e libertà, hapoi abbandonato questa ricostruzione, riconoscendo che esso èormai divenuto “corale”. Oppositore in un primo momento delprivatismo portato nello studio del diritto pubblico, si è poiconvinto della larga penetrazione del diritto privato e dei suoimoduli nel diritto amministrativo, ciò che richiedeva ai suoicultori di dotarsi della relativa strumentazione tecnica. Semprecritico della pandettistica, è approdato alla tesi che esistanosoltanto invarianti, ovvero concetti che hanno maggior duratadi altri, ma pur sempre tratti dall’analisi del diritto positivo.

Il suo lascito è un patrimonio di idee

che andrebbe periodicamente riscoperto

ed esplorato

Come razionalizzatore del diritto amministrativo Giannini hadato un contributo essenziale al sistema dei concetti di base edi quelle applicativi della materia, sempre sottolineandone lamutevolezza, ma nello stesso tempo fornendo ad essi una ar-chitettura concettuale di essenziale limpidità. L’opera svolta da Giannini domina l’intera seconda metà delventesimo secolo per estensione, vastità e fertilità. I suoimotivi di fondo sono due: il dominio del diritto come fenomenounitario, ordinabile in scienza rigorosa secondo principii (oinvarianti), e l’attenzione per la realtà. L’unità del diritto hacostituito sua cura costante: prima nel ricordare agli ammini-strativisti il diritto privato, con i suoi tremila anni di vita; poinel ricordare agli studiosi di diritto privato l’importanza di al-largare il loro studio, che si trattasse delle figure giuridichesoggettive o della responsabilità e dei moduli negoziali.Giannini è stato il continuatore dell’opera dei maestri dellaprima e della seconda generazione della scuola italiana di

diritto pubblico, come gli fu riconosciuto da Vittorio EmanueleOrlando in una lettera del 18 agosto 1951 in cui gli scriveva:“Io sono il passato e lei l’avvenire”. Ha infatti sia usato, siasviluppato, tutti gli strumenti concettuali, i mezzi di analisi si-stematica del diritto e le principali conclusioni della scuolache fa capo a Vittorio Emanuele Orlando e a Santi Romano.Nello stesso tempo, è stato un grande innovatore sia nellascelta delle tematiche (nessuno più di lui ha esplorato campinuovi e non visitati), sia nel modo in cui le ha affrontate,portando nell’analisi giuridica un acuto senso della realtàsociale e politica e un forte interesse per la riforma del diritto. Molte delle idee di Giannini sono divenute patrimonio comune.Sono ormai acquisite dalla cultura giuridica le sue riflessionisullo Stato pluriclasse, sugli elementi degli ordinamentigiuridici, sugli ordinamenti sezionali, sulla multifinalità deipoteri pubblici, sulla discrezionalità come ponderazione di in-teressi, sugli spostamenti del confine tra pubblico e privato esulla formazione di un’area comune, sulle figure giuridichesoggettive (munus, ufficio, ecc.), sulla collegialità, sugli effettidelle certezze pubbliche, sui procedimenti ablatori, sullatipologia dei contratti pubblici (ad evidenza pubblica e adoggetto pubblico), sulla proprietà collettiva, sui beni culturali,sull’ambiente, sulle imprese pubbliche.In conclusione, come larga parte della migliore cultura italiana,Giannini ha guardato al mondo anglosassone, riconoscendoin quei paesi gli antesignani più efficaci dei regimi politico-amministrativi contemporanei. Ma non si è limitato a trasporrein concetti italiani la cultura anglosassone: l’ha anche sviluppatae modificata, con riferimento all’ordinamento italiano. Ha in-trodotto nel dibattito politico e culturale (in tutte e tre le vestiqui considerate, come politico, come riformatore e come stu-dioso) concetti nuovi e proposte originali. Molte volte è statoascoltato: si pensi soltanto all’introduzione del principio dieguaglianza sostanziale in Costituzione e all’idea delle impli-cazioni economiche della riforma amministrativa. Molte altrevolte non è stato ascoltato: basti ricordare i suoi insuccessinell’introdurre concretezza nell’azione politica del partito so-cialista, nel proporre la ”amministrazione per servizi” e l’au-togoverno, nella battaglia per la riforma dell’amministrazionecentrale. Ha contribuito sia alla conoscenza del sistema politico italiano,forgiando gli strumenti concettuali per intenderne natura edisfunzioni, sia alla sua riforma. Ha vissuto con lo sguardodistaccato dello studioso e la passione del cittadino e del ri-formatore. Il suo lascito è un patrimonio di idee che andrebbeperiodicamente riscoperto ed esplorato.

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L’opera di politica costituzionale di Massimo Severo Gian-nini si svolge nell’arco di mezzo secolo: dalle prime po-

sizioni in vista della Costituente alle proposte di riforma dellaparte organizzativa della Costituzione. Più di ogni altro giuristaGiannini si adoperò per preparare i lavori della Costituente:fu autore della formulazione del principio di eguaglianza so-stanziale, e si impegnò subito per l’attuazione della Costituzionecon i costituzionalisti più avvertiti. Ma non per questo nascosele sue critiche a parti cospicue del testo. Queste posizioni, co-munque, non erano fra loro contraddittorie. Più contrastato,casomai, fu il suo rapporto con la politica, e in particolare colPartito socialista, al quale rimase peraltro sempre legato no-nostante le tante delusioni. In una prima fase Giannini si mette all’opera per preparare laCostituzione e poi promuoverne l’attuazione. In un brevescritto del 1945 comparso sul Bollettino dell’Istituto di studisocialisti si preoccupa di scansare i timori suscitati a destradalla prima costituzione provvisoria (d.l.luog. n. 151 del 1944),che assegnava alla Costituente anche il potere legislativo,nonché la scelta fra monarchia e repubblica. Precisa che,“secondo il nostro partito, l’Assemblea Costituente significache essa deve essere il primo organo costituzionale dello Stato:promanando dal popolo nel modo più diretto e avendo carattereeccezionale, essa non può subire poteri di altri organi superiori.Questo però non significa, né deve significare, che l’AssembleaCostituente sarà un’assemblea giacobina, o più ancora, un’as-semblea che eserciterà i propri poteri in modo arbitrario, asso-lutamente discrezionale, come vanno prospettando i contro-in-teressati”. Escludendo pertanto che “un accordo sui modi del-l’Assemblea Costituente” possa ridurla a un Comitato governativoo a un’Assemblea succedanea della Camera dei deputati chepotrebbe essere sciolta dal Luogotenente, chiarisce che “secon l’accordo i suoi poteri risulteranno limitati, ciò non significache essa perderà il carattere sovrano: è anzi proprio dellasovranità l’essere limitata dalla maestà della legge”1. Per ragioni diverse la seconda costituzione provvisoria (d.lgs.luog. n. 98 del 1946) porrà poi dei limiti alla Costituente, a

cominciare da quel referendum accettato da Nenni pur disbloccare il processo decisionale e a condizione che si tenessecontestualmente all’elezione dell’Assemblea. Certo è che ilcontributo alla Repubblica e alla Costituente del ministroPietro Nenni e del giovane professore che fu suo capo digabinetto si rivelò fondamentale. Giannini ricorderà la decisionedi dar vita al Bollettino d’informazione e la pubblicazionedelle due collane di studi storici e giuridici che si proponevanodi spiegare a un’impaurita borghesia le valenze non giacobinedell’Assemblea, secondo una linea di “imparzialità e diequilibrio nell’allora difficile mondo di scontro delle ideologie”;e quando Mortati rispose ad uno dei suoi sfoghi promettendogliun libro sulla Costituente ricorda che si trovava al ministerocome “un disperato che si batteva contro nugoli fastidiosissimidi ignoranti, per i quali l’Assemblea costituente si associavase non proprio alla ghigliottina almeno al Terrore”2.

Il Congresso di Firenze del maggio 1946

approvò ma non discusse la Relazione sullo

Stato repubblicano da lui preparata. Inoltre fu

escluso dalle liste socialiste per la Costituente

Ricorderà, ancora, che quando accompagnò Mortati da Nenniper l’offerta del suo volume sulle Assemblee costituenti “Nenniera raggiante. Fece un lungo discorso per dire, in sostanza,che adesso intimidazioni e divagazioni sull’Assemblea costituentesarebbero divenute quasi impossibili. Come in effetti fu, ancheperché nel frattempo l’opera di persuasione, del ministero edei partiti, era proseguita instancabile”3.

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Lavare la testa all’asino>>>> Cesare Pinelli

1 M.S. GIANNINI, L’Assemblea Costituente, ora in Scritti, II, 1939-1948,Giuffrè, 2002, p. 601.

2 M.S. GIANNINI, In memoria di Costantino Mortati (1986), in Scritti,VIII, 1984-1990, Giuffrè, 2006, p. 522.

3 M.S. GIANNINI, Nenni al Ministero per la Costituente, in Nenni diecianni dopo, a cura della Fondazione Nenni, Lucarini, 1991, p. 54.

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Ben più modesta fu invece l’incidenza dei socialisti suicontenuti del testo costituzionale4. Qui giocarono le divisioniinterne (la scissione di Palazzo Barberini si consuma nelgennaio 1947, quindi nel bel mezzo dei lavori della Costituente),le tensioni permanenti fra partito e gruppo parlamentare, glienormi sprechi di energia nei rapporti fra politica e culturaanche nell’impostazione delle proposte per la Costituente.Lelio Basso ricorderà che “il Partito socialista non avevaallora che una scarsissima sensibilità, e ancor minore prepara-zione, per questi problemi, e fu merito grande del prof.Massimo Severo Giannini aver richiamato l’attenzione dei di-rigenti del partito sull’importanza ch’essi avrebbero rivestitoanche per il futuro del popolo italiano. Si addivenne così allanomina di un comitato ristretto, incaricato di affiancare e con-sigliare i membri della commissione dei 75”5.

Con l’articolo 3 della Costituzione “non avevamo

intenzione di fare del nuovo, ma solo di

affermare un principio di dinamica dell’azione dei

pubblici poteri per una società più giusta”

Ma in realtà anche quel comitato, presieduto dallo stessoBasso, funzionò assai poco, sempre a causa delle tensioni po-litiche interne. Nel frattempo Giannini aveva visto mal ripagatoil suo impegno di politica costituzionale. Il Congresso diFirenze del maggio 1946 approvò ma non discusse la Relazionesullo Stato repubblicano da lui preparata insieme ai componentidel romano Istituto di studi socialisti6. Inoltre fu escluso dalleliste socialiste per la Costituente7, anche se rimase in contattocoi massimi dirigenti del partito, soprattutto con Morandi econ Basso. I punti più originali della Relazione sullo Stato repubblicanoerano costituiti dalla proposta di un Capo dello Stato collegiale,dal principio dell’autogoverno e dai Consigli di gestione. Laprima era stata avanzata da Luzzatto e Targetti, mentre Gianniniera a favore del modello presidenziale e del sistema elettoralemaggioritario8, in quanto critico dell’assemblearismo e delpari scettico su automatismi rimessi ad accordi tra partiti insistemi diversi da quelli di tipo britannico9. Sua era inveceuna proposta di autogoverno che ruotava intorno alla regionevista come “organo dello Stato fornito di autogoverno, nelsenso che i funzionari della regione avrebbero lo stato giuridicodei funzionari dello Stato, pur essendo elettivi. In altre parolesi tratterebbe di trasportare da noi l’istituzione delle conteeanglosassoni”, cui era resa complementare l’idea di unificare

l’amministrazione periferica statale sotto il coordinamento diun “governatore”, elettivo o di carriera, chiamato a collegareil centro con la regione e componente di un consiglio dei go-vernatori che “potrebbe illuminare l’opera del governo consufficiente continuità e soprattutto con quella maneggevolezzache viceversa l’opera di 92 prefetti non raggiunge”10. La proposta era meno ambiziosa di quella di Adriano Olivetti,di cui Giannini condivideva però l’ispirazione pluralistica e ilcoraggio innovativo, trattandosi sempre di concepire gli entidi autogoverno con una revisione contestuale delle struttureportanti dell’amministrazione centrale, per porle al serviziodei cittadini11. Lo schema Giannini-Barbara indicava le ulterioriragioni per cui al criterio di ripartizione delle amministrazionicentrali per ministeri, tipico della tradizione continentale,dovesse preferirsi quello anglosassone del “gruppo dei servizi”,in cui i dipartimenti “si raggruppano e si scindono secondo leesigenze del momento”12.La proposta dei Consigli di gestione era più legata all’esperienzaconcreta: sia perché quegli organismi, già operanti al Nord,evocavano i consigli di fabbrica e il controllo operaiosperimentati nel primo dopoguerra, sia perché la proposta diuna Camera dei consigli che affiancasse la Camera dei deputatiera stata prospettata nel 1944 da Lelio Basso13. Nel dicembre

4 F.TADDEI, La Costituente nella politica del Psi, in Cultura politica epartiti nell’età della Costituente, a cura di R. Ruffilli, II, il Mulino,1979, p. 58; e C. PINELLI, Gli azionisti e i socialisti alla Costituente eTosato, in Egidio Tosato costituzionalista e Costituente, a cura diM.Galizia, Giuffrè, 2010, p. 136.

5 L. BASSO, Considerazioni sull’art. 49 della Costituzione, in ISLE,Indagine sul partito politico, I, Giuffrè, 1966, p. 133, (2).

6 Come riferisce A. LEVI, Appunti per la nuova costituzione, in Criticasociale, 1 giugno 1946, 169, per mancanza di tempo la discussione fuaffidata a una commissione presieduta dallo stesso Levi, ma conun’incidenza evidentemente molto minore.

7 G. MELIS, Giannini e la politica, in Rivista trimestrale di dirittopubblico, 2000, 1264.

8 Come mi disse personalmente, e come risulta da M.S. GIANNINI, Con-siderazioni a quasi mezzo secolo di distanza (1991), in Scritti, IX, 1991-1996, Giuffrè, 2006, p. 82.

9 M.S. GIANNINI, Intorno al progetto costituzionale francese, in Socialismo,maggio 1946, p. 123.

10 M.S. GIANNINI, Lo Stato democratico repubblicano, in Bolletino del-l’Istituto di studi socialisti, 11 aprile 1946.

11 M.S. GIANNINI e A. OLIVETTI, Il problema delle autonomie locali, inIl Corriere amministrativo, 1945, p. 144.

12 M.S. GIANNINI-T.BARBARA, L’amministrazione per servizi, inMinistero per la Costituente. Commissione per studi attinenti all’orga-nizzazione dello Stato (1946), in Scritti, II, cit., p. 722.

13 L. BASSO, Parlamento e Camera dei Consigli, in Avanti!, 12 gennaio1944.

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1946 il ministro dell’Industria Rodolfo Morandi presenta unprogetto di legge, redatto da Giannini in qualità di capo del-l’ufficio legislativo, nel quale le funzioni di “controllo dellagestione aziendale” sono indirizzate “verso scopi di portatapiù generale e verso le finalità che essi si prefiggono nell’ambitonazionale, in conformità del piano ricostruttivo”14. Lasciatodecadere dal IV Governo De Gasperi, il progetto è in parteripreso nel testo dell’art. 46 Cost.

“La seconda parte è un obbrobrio, perché se

diciamo che fonda la democrazia ciò è accaduto

in quanto si è avuta, da tutti, un’interpretazione,

un’applicazione che oggi ci fanno dire che in

questa parte della Costituzione, bene o male,

è delineato uno Stato democratico”

Un contributo singolo, ma di estrema importanza, di Giannini fula formulazione dell’art. 3, secondo comma, che gli fu richiestada Basso. Ritenendosi da parte socialista che fosse “un tradimentofermarci all’enunciazione dell’uguaglianza formale”, ma nonessendo “pensabile una norma di garanzia dell’uguaglianza eco-nomica e sociale, che presupponeva un tipo di Stato allora eanche oggi inesistente”, Giannini propose due soluzioni alternative:la prima più spinta, che impegnava la Repubblica a offrire a tuttii cittadini “uguali posizioni economiche e sociali di partenza”;l’altra che corrispondeva al testo poi accolto. E senza unaminima carica retorica noterà che “non avevamo intenzione difare del nuovo, ma solo di affermare un principio di dinamicadell’azione dei pubblici poteri per una società più giusta”15. Nel decennio successivo all’entrata in vigore della CostituzioneGiannini partecipa alle iniziative di denuncia dell’“ostruzionismodella maggioranza”, come lo definiva Calamandrei. Nell’aderire

nel 1951 all’appello di 34 giuristi per “esigere il sollecito e ri-goroso adempimento delle norme della Costituzione”, avverteche la sua mancata attuazione si è convertita “in uno stato diincertezza quale non si è mai verificato nella nostra storia”,che è “fonte di ingiustizie, di disagi, di perturbamenti profondidella vita associata”; e denuncia che “al paradosso di commistionedi ordini costituzionali diversi fa riscontro una paradossalecommistione di democrazia e di antidemocrazia, nelle formedel peggior autoritarismo che si sia mai avuto”16. Nel saggiosul lavoro nella Costituzione conclude nel senso che il solomodo per non lasciare la frase dell’art. 1 allo stadio diun’“espressione letteraria” è di applicare la Costituzione, pro-cedendo “a quelle riforme di struttura che essa prevede”17. Con lo stesso spirito partecipa coi maggiori costituzionalisti aun dibattito sulla competenza della Corte costituzionale inordine alle norme anteriori alla Costituzione. Da quella “speciedi Cln della scienza costituzionalistica”18 Giannini si dissociaperò subito dopo, per ragioni più culturali che politiche. LaCostituzione italiana rientra per lui fra le “Costituzioni con-venzionali” dell’epoca contemporanea, che regolano non più iconflitti tra gruppi di una medesima classe, come le Costituzioni“ordinative” del XIX secolo, ma i contrasti fra le classi: con laconseguenza che “le forze politiche versano nella Costituzionedelle formulazioni con le quali si garantiscono qual l’unoquale l’altro istituto, o principio, o diritto”, cercando di “re-stringere l’elasticità di applicazione delle norme costituzionaliper evitare arbìtri da parte di chi deterrà il potere”19. In questo quadro ritiene che la nostra sia “una importante Co-stituzione per le classi oppresse, sia per quello che contiene eche è già applicabile, sia per quello che contiene come garanziadi riforme di struttura”: salvo avvertire che “la lotta che leclassi lavoratrici devono sostenere per far tradurre in esecuzionequeste norme si urta contro due ideologie costituzionali dimascheramento; due ideologie dello stesso genere di quelladella sovranità popolare. La prima è quella della difesa dellapersona umana; la seconda è quella della democrazia formale.Si capisce che noi converremmo pienamente nella effettivaattuazione del contenuto di questi concetti, se in realtà essinon fossero correntemente intesi in una maniera difforme”20. Giannini, comunque, tornerà più volte sulla formula delloStato pluriclasse, fino a rivederla profondamente, ragionandodi “partiti interclassisti” sulla scorta del noto saggio di PaoloSylos Labini21. Sono invece le sue convinzioni sulla Costituzione che noncambiano nel tempo: e differiscono a seconda che si tratti dellaprima o della seconda parte. Riteneva fin dai primi commenti

14 R. MORANDI, I consigli di gestione (1946), in Democrazia diretta eriforme di struttura, Einaudi, 1975, p. 98 ss.

15 M.S. GIANNINI, Costituzione e Stato pluriclasse, intervista a cura di D.Corradini (1980), in Scritti, VII, 1977-1983, Giuffrè, 2005, p. 455-456.

16 M.S. GIANNINI, La Costituzione “fluida” (1951), in Scritti, III, 1949-1954, Giuffrè, 2003, p. 392.

17 M.S. GIANNINI, Rilevanza costituzionale del lavoro (1949), in Scritti,III, 1949-1954, Giuffrè, 2003, p. 126.

18 L. ELIA, Diritto costituzionale, in Cinquanta anni di esperienza giuridicain Italia, Giuffrè, 1982, p. 356.

19 M.S. GIANNINI, Carattere delle Costituzioni moderne (1978), in Scritti,VII, cit., p. 129.

20 M.S. GIANNINI, Carattere delle Costituzioni moderne, cit., p. 130.21 M.S. GIANNINI, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche,

il Mulino, 1986, pp. 57 ss.

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“che la prima parte della Costituzione è opera monumentale,degna di figurare accanto alle più grandi Costituzioni esistenti.La seconda parte è un obbrobrio, perché se diciamo che fondala democrazia ciò è accaduto in quanto si è avuta, da tutti,un’interpretazione, un’applicazione che oggi ci fanno dire chein questa parte della Costituzione, bene o male, è delineatouno Stato democratico”22. E trattando della forma di governoquando già si cominciava a parlare di una sua riforma, ribadiscela risalente convinzione che quella presidenziale “sia la più ra-zionale tra quelle inventate sinora, e sia la più confacente allasocietà italiana quale storicamente esistente”, contestando l’o-pinione che essa generi dittature, a parte gli Stati dove nonesistono forze politiche né istituzioni di garanzia delle libertà23.

“Lo Stato repubblicano è ancora un edificio in

costruzione: per alcune parti anzi malfatto; per

altre perfino somigliante ad un bel rudere, come

quello di un palazzo imperiale del Palatino”

Le riserve originarie sul disegno organizzativo gli risultano dunquesolo confermate dall’esperienza, e casomai si saldano con la regi-strazione della cattiva o mancata attuazione degli enunciati costi-tuzionali: “Lo Stato repubblicano è ancora un edificio in costruzione:per alcune parti anzi malfatto; per altre perfino somigliante ad unbel rudere, come quello di un palazzo imperiale del Palatino”24. Èun bilancio del 1981, dove non conta come la legislazione abbiaattuato il testo, ma quali conseguenze ne siano derivate sull’orga-nizzazione e sull’azione dei pubblici poteri. Ambedue le componenti – il critico dei lavori della Costituentee l’amministrativista attento ai risultati dell’attuazione costitu-zionale – aiutano a spiegare i suoi giudizi, e tuttavia non siprestano a una stessa valutazione. La prima lo portava a ungiudizio indiscriminato anche là dove era più difficile negarecerte differenze. Pochissimi costituzionalisti si sono illusi sulla

riuscita del bicameralismo perfetto, e la debole razionalizzazionedella forma di governo parlamentare è dimostrata dagli stessilavori preparatori, visto il mancato seguito all’o.d.g. Perassiche raccomandava congegni volti a scongiurare “le degenerazionidel parlamentarismo”. Ma prima di parlare di “obbrobrio”, èda considerare che intorno alle istituzioni politiche la Costituzioneha introdotto, o totalmente ripensato, organi enti ed istituti (laCorte costituzionale, la magistratura, il Presidente della Re-pubblica, il referendum, le Regioni), prefigurando un “sistemadei freni” alla tirannia della maggioranza fino a disegnare “untipo ‘pluralistico’ di regime parlamentare”25. In questo la Co-stituzione riflette una precisa tendenza del costituzionalismoeuropeo post-totalitario, dalla Germania alla Spagna: a parteogni illazione su dove saremmo se, scomparsi i figli dei Costi-tuenti, i freni non avessero funzionato. Quanto invece all’altra componente, i bilanci di Giannini sullaCostituzione contenevano una segnalazione fondamentale. Direche negli Stati pluriclasse l’azione e l’organizzazione dellepubbliche amministrazioni avevano raggiunto una portata co-stituzionale anche al di là di enunciazioni testuali26 comportavache nessun giudizio sull’attuazione costituzionale potessefermarsi alla fattura delle leggi, prescindendo dalle loro ricadutesull’amministrazione e dalla prassi amministrativa. Questa se-gnalazione non è stata raccolta abbastanza né dai politici né daigiuristi, il che spiega molte cose sullo stato presente dell’Italia. Le linee di politica costituzionale disegnate da Gianninipartono soprattutto da qui, rivolgendosi verso un’articolazioneistituzionale del pluralismo e una razionalizzazione ammini-strativa che saranno ambedue disattese – o forse peggio ancoradistorte – in sede politica. Più che alla Costituzione in quantotale, quindi, la sua attenzione si rivolgeva all’anello mancante,al complesso delle condizioni che ancora difettavano per poterassestare una convivenza costituzionale decente. Non a caso, tornando a riflettere sul ruolo dei socialisti dopo laLiberazione, un azionista come Vittorio Foa scriverà: “Noi leg-gemmo allora nella nostra sconfitta una restaurazione, un ritornoalla democrazia zoppa del primo dopoguerra, coi suoi partiticarichi di illusioni ed esposti ai venti della reazione. A distanzadi tanti decenni dobbiamo riconoscere che quello che veniva‘restaurato’ non era il sistema politico prefascista ma la propostapolitica che si era tentato di attuare fra il 1919 e il 1921 e che ilfascismo aveva distrutto sul nascere: era la proposta cheattraverso i grandi partiti portava le masse contadine e quelleoperaie e impiegatizie sulla scena della politica e delle istituzioni”27. Si era insomma instaurato lo Stato pluriclasse di Giannini. E apartire dal primo centro-sinistra si era pure avuta, dirà poi Nenni,

22 M.S. GIANNINI, Intervento, in Il pensiero giuridico di Carlo Lavagna(1996), in Scritti, X, Giuffrè, 2008, p. 83.

23 M.S. GIANNINI, Riforma della costituzione: un problema aperto (1985),in Scritti, VIII, 1984-1990, Giuffrè, 2006, p. 315.

24 M.S. GIANNINI, La lentissima fondazione dello Stato repubblicano, inScritti, VII, cit., p. 657.

25 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II, Cedam, 1969, p. 676.26 M.S. GIANNINI, Parlamento e amministrazione (1961), in Scritti, IV,

1955-1962, Giuffrè, 2004, specie p. 844 ss.27 V. FOA, Ieri, oggi, domani, in La questione socialista. Per una possibile

reinvenzione della sinistra, a cura di V. Foa e A. Giolitti, Einaudi, 1987,p. 69.

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“la dilatazione dello spirito di libertà, la crescente partecipazionedei cittadini alla vita pubblica, in un certo senso la stessa conte-stazione giovanile che ha rotto il sonno a uomini e apparati bu-rocratici […] Si dice del sistema politico di destra o del regimeautoritario che tutto funziona e nulla vive. Del sistema politicoche ha preso nome e data dal centro-sinistra si può dire ilcontrario, e cioè che nulla funziona e tutto vive […] Tutto cioè èin movimento, nessuno è fuori tiro. Tutto è oggetto di critica e didenuncia. Il potere comporta sempre una caterva di abusi. Ma lalibertà è un correttivo permanente degli arbitrii. Il centro-sinistra,e la presenza in esso dei socialisti, si è risolto in una garanzia dimaggiore libertà anche quando c’è stata carenza di iniziativa sulterreno concreto della difesa della libertà e della democrazia”28.

Da ministro per la Funzione pubblica nel 1979

presenta al Parlamento un fondamentale Rapporto

sui principali problemi dell’amministrazione dello

Stato che rimane lettera morta

In effetti, nell’ultimo trentennio della sua opera di politica costitu-zionale, l’attenzione di Giannini è tutta spostata sull’anellomancante dopo “l’espansione della forma di governo”29, ossia suun conseguente riordino delle istituzioni repubblicane. Da presidentedella Commissione per il completamento dell’ordinamento regionalelicenzia nel 1976 una relazione il cui contenuto viene in gran partedisatteso dal Dpr n. 616 del 197730. Da ministro per la Funzionepubblica nel 1979 presenta al Parlamento un fondamentaleRapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato31

che rimane lettera morta. Scrive su questi e altri temi collegaticentinaia di lavori. E continua a redigere proposte e a fornireconsigli ai politici con immutata generosità, e con lo stesso stuporedel grande giurista per gli esiti sempre inferiori alle attese. Se ci chiediamo perché, nonostante la sua grande esperienza,continuava a stupirsi, dobbiamo accennare anzitutto ai rapportifra i giuspubblicisti (non i giuristi in generale) e i politici diquella generazione. Giannini era nato nel 1915, e la sua giovinezzal’aveva vissuta sotto il fascismo. Il libro sul potere discrezionaledella pubblica amministrazione, comparso nel 1938, era molto

innovativo rispetto alla tradizione di Vittorio Emanuele Orlandoe di Santi Romano, alla cui scuola si era formato. Per quanto in-novativo, però, Giannini si portava appresso una idea di sistemagiuridico come insieme ordinato di istituti che era stata tipica deigiuristi dell’epoca liberale prefascista: dei privatisti, che eranoriusciti (o erano accreditati per essere riusciti) a portarla a com-pimento; e dei pubblicisti, che avevano aspirato allo stessorisultato senza mai riuscirvi pienamente. La loro fiducia nellapossibilità di costruire il sistema intorno allo Stato, detentoredella sovranità e portatore dell’interesse generale di tutta lasocietà, si era incrinata già prima del fascismo, se solo si pensache la rivista di Orlando – su cui erano usciti molti studi suldiritto di voto e sulla rappresentanza politica concepita come uncircuito fra elettori “capaci” ed eletti “virtuosi” – dopo l’introduzionedel suffragio universale maschile (1913) non pubblicherà piùsaggi sul tema. Col fascismo, poi, l’irrazionalità predominanella politica, e i vecchi giuspubblicisti si dividono fra chi sirifugia nella torre d’avorio e chi prende parte in varie forme allavita pubblica senza prendere sul serio l’ideologia del regime. Quando arriva la Costituzione, Giannini parla di Stato pluriclasseproprio per segnare la massima discontinuità col passato:restaurare l’antico sistema era impossibile. Ma ritiene ancorapossibile mantenere un’istanza di razionalità nella politica co-stituzionale attraverso tre componenti: un’idea di modernizzazionedelle istituzioni dello Stato che gli veniva da Max Weber, la pa-rabola della programmazione economica che avrebbe contagiatotutti negli anni Sessanta, e la fiducia del giurista nella possibilitàdi razionalizzare la politica, che comportava anche fiducia neipolitici stessi. Negli ultimi anni la politica era entrata in unafase schizofrenica. Da una parte si dovevano conquistare i votiattraverso i media. Non più coi programmi e i comizi di cuiproprio Pietro Nenni era stato maestro insuperato, ma con im-magini, volti, storie personali convincenti, fino a inseguire glielettori non nella loro “pancia”, come si dice, ma nelle regionidella regressione infantile. Dall’altra parte bisognava legiferare,tradurre in testi normativi ragionati obiettivi politici malamenteaggiustati e soprattutto precari, nel caos italiano dei gruppi diinteresse. I politici andavano ancora dai giuristi per farsi aiutare,anche se poi non era più l’aiuto decisivo. Un canale comunqueera ancora aperto: da cui lo stupore del vecchio giurista. Oggi non avrebbe di che stupirsi, perché la schizofrenia èfinita. I giuristi non prendono più parte in nessuna forma allavoro legislativo, sono reputati inutili. Servono idee-spot daservire al pubblico, che se non ci fossero le burocrazie ancorafunzionanti delle due Camere andrebbero direttamente sullaGazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

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28 P. NENNI, Intervista sul socialismo italiano, a cura di G. Tamburrano,Laterza, 1977, pp. 125-126.

29 G. AMATO, Il primo centro-sinistra, ovvero l’espansione della forma digoverno (1981), ora in Le istituzioni della democrazia. Un viaggio lungocinquant’anni, il Mulino, 2014, pp. 103 ss.

30 M.S. GIANNINI, Del lavare la testa all’asino (1979), in Scritti, VII, cit., 424.31 Scritti, VII, cit., 327 ss.

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Il tema dei consigli di gestione delle aziende, dopo alcunidecenni di scarsa attenzione, è tornato di stringente attuali-

tà1, non soltanto a causa della grave crisi economica e dellesue conseguenze (elevato tasso di disoccupazione e di dissestiaziendali), ma anche per il risveglio di attenzione scientificaper i temi della democrazia partecipativa, nonché del lento macostante ridimensionamento del ruolo del sindacato.Il tema, rimasto pressoché inattuato l’art. 46 Cost., è statodimenticato in Italia per quasi mezzo secolo (al netto della bre-vissima parentesi dei consigli di fabbrica degli anni Settanta e dialtri falliti tentativi). Nell’immediato dopoguerra (tra il 1946 e iprimi anni Cinquanta), tuttavia, il tema era stato di assoluta cen-tralità nel progetto di rinascita economica e sociale del paese:basti pensare al dibattito vivissimo che le riviste scientifiche e diopinione produssero intorno a questo argomento2. Massimo Severo Giannini fu tra i principali protagonisti di tale

dibattito. Sul grande giurista romano è stato già scritto molto(sia in ordine alla produzione scientifica sia riguardo al ruolopolitico e istituzionale), e quasi tutte le vicende biografiche sonostate oggetto di approfondito scandaglio. Ma un periodo sinorapoco indagato della sua vita è certamente quello dei dieci mesie mezzo trascorsi in qualità di capo dell’ufficio legislativo delministro dell’Industria Rodolfo Morandi, tra il 14 luglio 1946 eil 1° giugno 1947, in seno al secondo governo di unità nazionalepresieduto da Alcide De Gasperi3. In quel breve lasso temporaleGiannini diede un decisivo apporto alla stesura del disegno dilegge sui consigli di gestione, argomento cardine dell’agendapolitica di Morandi: disegno di legge che non passò poi il vagliodel Parlamento4. Una materia, quella in cui si collocano i consi-gli di gestione, che, come affermato da Giannini in uno scrittodel 1951, «è giuridicamente, per i nostri paesi, ancor vergine, enon si può pretendere da nessuno una chiarezza problematicaquando è la stessa problematica che deve elaborarsi»5.

Giannini era pervaso da una tensione in

direzione di concrete misure riformistiche, che

rendeva la sua posizione non collimante con

quella dei vertici del Partito socialista

Al fine di ricostruire il contributo di Giannini conviene pren-dere le mosse dai suoi brevi scritti sul tema. I contributi dimaggiore interesse sono principalmente tre, tutti pubblicatinel Bollettino dell’Istituto di Studi Socialisti: Lo Stato demo-cratico repubblicano, edito nella primavera del 1946 (e quin-di precedente all’incarico presso il ministero dell’Industria);Lo sviluppo dei Consigli di Gestione nel mondo, dato allestampe nella primavera del 1947 (e dunque quasi al terminedel suddetto incarico); Contributi al “Piano Socialista”.Strumenti della pianificazione (I), uscito nell’autunno del1947 (immediatamente successivo al termine dell’incarico).Giannini era all’epoca componente del comitato scientificodell’Istituto di Studi Socialisti, presieduto proprio da RodolfoMorandi. Dopo la Liberazione egli fu, assieme a Giuliano

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Al lavoro con Morandi>>>> Aldo Sandulli

1 Si veda, tra gli altri, I Consigli di gestione e la democrazia industriale esociale in Italia. Storia e prospettive, a cura di G. Amari, Ediesse, 2014.

2 Ad esempio, Critica economica, Rinascita, Giornale degli economisti eannali dell’economia, e così via.

3 Sul periodo in questione, lo scritto più significativo è attualmente costituitodal terzo capitolo della monografia di M. Pastorelli, L’opera giuridica diMassimo Severo Giannini, vol. I, (1939-1950), Giuffrè, 2012, 177 ss., dedi-cato al triennio che va dal 1945 al 1947 e che descrive il ruolo rivestito daGiannini nella ricostruzione istituzionale e costituzionale del paese: masolo tre pagine sono dedicate al tema dei consigli di gestione delle aziende.

4 Come ricordato da G. Melis, Giannini e la politica, in Riv. trim. dir.pubbl., 2000, 1259, nota 38, una testimonianza significativa circa il ruo-lo svolto da Giannini è costituita da una lettera di Morandi del 22 dicem-bre 1946, con la quale, a nome dell’Istituto degli Studi Socialisti, gli siconferisce un premio «in riconoscimento del magnifico lavoro che haisvolto per la redazione del progetto sui Consigli di gestione» (in CarteM.S. Giannini, presso l’Archivio Centrale dello Stato).

5 M.S. Giannini, Una recente indagine sui “comitati d’impresa” in Francia,in Riv. giur. lav., 1951, 271 ss., anche in Id., Scritti, vol. III, Giuffrè, 2003,438. Lo scritto passava in rassegna i contenuti del libro di P. Chambelland,Les comités d’entreprise, Paris, Rousseau, 1949: pur elogiandone il metodoed apprezzando la mole di dati, Giannini esprimeva forti critiche alla totalemancanza di inquadramento teorico, sul piano giuridico. Proprio in quelfrangente storico dell’immediato secondo dopoguerra, peraltro, il tema fuoggetto di analisi anche da parte di un altro grande studioso del dirittoamministrativo, Mario Nigro, la cui prima pubblicazione scientifica - ilvolumetto Democrazia nell’azienda, edito nel 1946 (Roma, Sestante) - fudedicata alla partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale.

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Vassalli6, tra i collaboratori più stretti di Pietro Nenni, dive-nendo il principale riferimento giuridico del Psiup per l’areagiuspubblicistica. Sicché, quando Nenni fu nominato Mini-stro per la Costituente (nonché Vicepresidente del Consiglio)nel primo governo Parri (dal 15 agosto a 10 dicembre 1945) -incarico poi confermato nel primo governo De Gasperi (dal10 dicembre 1945 al 13 luglio 1946) - Giannini divenne suocapo di Gabinetto. Con il secondo governo De Gasperi ilministero per la Costituente fu “degradato” a ministero senzaportafoglio, e Giannini passò al ministero dell’Industria. Il documento su Lo Stato democratico repubblicano fu pub-blicato nel Bollettino l’11 aprile 1946, in occasione dell’aper-tura del XXIV Congresso nazionale del Psiup, e il 17 aprile,a chiusura dei lavori, fu illustrato da Giannini all’Assembleadel partito7. È uno scritto militante, di taglio programmatico,finalizzato alle imminenti elezioni del 2 giugno 1946 (nellequali il Psiup riscosse un buon successo, risultando il primopartito di sinistra ed eleggendo centoquindici deputati).La finalità dello scritto è politica, ma esso è scientificamentedi notevole rilievo, perché esprime in nuce le teste di capitolodella spinta riformistica che avrebbe contraddistinto l’attivitàscientifica di Giannini nel corso dell’intera seconda metà delXX secolo. Egli era pervaso da una tensione in direzione diconcrete misure riformistiche, che rendeva la sua posizionenon collimante con quella dei vertici del Partito socialista(con cui sarebbe entrato ben presto in collisione, fino all’au-toemarginazione del 1949 e al totale abbandono dell’attivitàpolitica nel 19538), perché richiamava l’attenzione sull’effet-tività e sulla concretezza degli interventi strutturali di rico-struzione del paese9.L’articolo – che contiene, in filigrana, le premesse per la teo-rizzazione dello Stato pluriclasse – prende le mosse da untema classico di Santi Romano: quello del rapporto tra Statoe società nell’ottica ordinamentale e istituzionalista. Il proble-ma dello Stato moderno è, per Giannini, nella netta cesura traStato e popolo. I tentativi rivoluzionari succedutisi negli ulti-mi secoli hanno tentato di ricucire tale strappo: con la rivolu-zione francese la lotta tra la libertà e l’eguaglianza si è venutaa spostare dal piano dei principi a quello dell’effettività. Lestrutture statali capitaliste tendono più a tutelare esteriormen-te la libertà che a limitare interiormente l’autorità. L’antitesi tra popolo e Stato può avvicinarsi a soluzione attra-verso la semplicità e schematicità dell’apparato statale: «Ilprincipio di chiarezza sia nell’ordinamento dell’apparato sta-tale sia nei rapporti fra Stato e cittadino deve quindi presiede-re tutte le riforme che noi auspichiamo e deve essere attuato

con gelosa attenzione, perché l’insidia maggiore che essoincontra si trova non già nell’enunciazione generale e nellenorme fondamentali, bensì nelle disposizioni di attuazione edi regolamentazione secondaria». A questo principio si collega quello della «massima permea-zione possibile tra le strutture statali e le forze popolari», che«deve potere intervenire in tutti i fatti di organizzazione deipubblici poteri, quindi nello Stato, negli enti pubblici territo-riali e non territoriali, negli organismi sindacali, negli organi-smi di azienda. La conquista democratica dello Stato si iden-tifica quindi con la formazione di strutture nelle quali i citta-dini possano, in ogni momento, far sentire la propria voce epossano controllare l’osservanza delle deliberazioni prese»10.

Il disegno di legge Morandi viene implicitamente

inteso quale punto più avanzato delle diverse

esperienze in tema di consigli di gestione

L’idea riformatrice di Giannini emerge in modo chiaro daqueste poche righe. Da un lato lo sviluppo, accanto alla tuteladelle libertà, dell’eguaglianza sostanziale, per il tramite di unintervento attivo dello Stato. Dall’altro, l’integrazione trasocietà e Stato per il tramite di molteplici spinte dal basso,operate attraverso strumenti organizzativi nei diversi settoridegli apparati pubblici e privati: modelli che oggi definirem-mo di democrazia partecipativa. Un assetto da realizzare in

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6 Entrambi i celebri giuristi erano stati attivi nella Resistenza. Entrambierano figli di noti giuristi che avevano rivestito incarichi importanti nelventennio fascista. Filippo Vassalli aveva rivestito un ruolo di caratteretecnico-giuridico, coordinando per circa un quindicennio i lavori prepa-ratori del codice civile del 1942 (G. Chiodi, Vassalli, Filippo, in Il con-tributo italiano alla storia del pensiero - Diritto, Enciclopedia Italiana,Ottava appendice, Roma, Treccani, 2012, 563 ss.). Amedeo Giannini erastato Consigliere di Stato e segretario generale del Consiglio del conten-zioso diplomatico (1923), ministro plenipotenziario (1924), vicepresi-dente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (1928), senatore (1934),ambasciatore (1937), e dal 1936 al 1942 direttore generale degli affarieconomici al ministero degli Affari esteri (G. Melis, Giannini, Amedeo,in Diz. Biogr. It., vol. LIV, Roma, Treccani, 2000).

7 Sul punto, Pastorelli, cit., 182, nota 13, il quale ricorda che la relazionepresentata in Assemblea fu pubblicata sull’Avanti! del 18 aprile 1946, ein forma sintetica nell’edizione milanese dell’Avanti! del 21 aprile, non-ché nel Bollettino di informazione e documentazione del Ministero perla Costituente del 30 aprile.

8 Su questi profili, G. Melis, Giannini e la politica, cit., 1249 ss. e, in par-ticolare, 1260 ss.

9 Sul tema si v. anche G. D’Auria, Giannini e la riforma amministrativa,in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, 1209 ss.

10 M.S. Giannini, Lo Stato democratico repubblicano, in Bollettino dell’I-stituto di Studi Socialisti, 11 aprile 1946, II, n. 7, anche in Id., Scritti,vol. II, Giuffrè, 2002, 728.

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modo pragmatico, stando particolarmente attenti all’attuazio-ne amministrativa della normazione primaria, perché è inquella fase che si innestano i virus che fanno fallire le istanzeriformatrici.Su questi principi di fondo, che permeano il processo di rico-struzione costituzionale del paese, si sviluppa l’idea dei con-sigli di gestione delle aziende, e cioè di «quegli organi diimpresa, i quali hanno comunque la funzione di far partecipa-re i lavoratori dipendenti dall’impresa alla dirigenza dell’im-presa stessa»11. A questo tema Giannini dedica un breve con-tributo di taglio storico e comparato12, volto a ricostruire ilpercorso compiuto per giungere sino al disegno di legge

Morandi, all’epoca all’esame del Parlamento. Il succinto arti-colo è un distillato della ben più estesa relazione al disegno dilegge, scritta dallo stesso giurista romano.Giannini individua due periodi evolutivi: il primo sino al1935, il secondo a partire da quell’anno. Nel primo periodoqueste esperienze si sono sviluppate con il condizionamentodell’ideologia e della politica, divenendo strumenti di con-trapposizione tra capitalismo e proletariato e fallendo proprioper tale ragione. Nel secondo periodo si sono perfezionatequali tecniche di vita associata, con due «tendenze che emer-gono: la collaborazione tecnica e l’impulso ad operare inambiti superaziendali»13. La prima tendenza prevale nell’e-sperienza nordamericana, ed è presente anche in Francia; laseconda si è sviluppata maggiormente in Inghilterra, per iltramite dei Working parties. Giannini è particolarmente attratto dalle ricadute ordinamen-

tali di questa seconda tendenza: «I consigli di gestione si pon-gono come elementi rappresentativi unitari dell’azienda inordinamenti costituiti di ambito superaziendale, e cioè di set-tore industriale, o di distretto, o perfino in un ambito didimensioni nazionali. In tal modo i consigli di gestione ven-gono ad avere due facciate, l’una interna, relativa all’azienda,l’altra esterna; qualche cosa di analogo a quello che sono gliorgani costituzionali di uno Stato, nel loro aspetto interno e inquello internazionale»14. Ciò va nella direzione di forme diauto-amministrazione dell’industria (il selfgovernment ofindustry auspicato dai socialisti inglesi). Il disegno di leggeMorandi, citato in conclusione della disamina, viene implici-

tamente inteso quale punto piùavanzato delle diverse esperien-ze in tema di consigli di gestio-ne: con questo innesto legislati-vo l’Italia passerebbe d’embléeda fanalino di coda a capocorda-ta in tema di democrazia dell’a-zienda. Giannini, estensore della propo-sta, individua nel disegno iseguenti otto punti qualificanti:«a) duplice funzione dei consi-gli, l’una intraziendale, l’altrasuperaziendale; b) nell’eserci-zio della funzione intraziendale,attribuzione ai consigli digestione di compiti di consulen-za tecnica della direzione del-

l’impresa, e di limitati compiti deliberativi (propria organiz-zazione, protezione sociale, distribuzione qualitativa dellamano d’opera); c) nell’esercizio della funzione superazien-dale, attribuzione ai consigli di gestione di poteri consultiviper lo Stato, di compiti attinenti allo studio della pianifica-zione e al controllo dell’esecuzione dei piani; d) diritto deiconsigli di gestione di essere informati dalla direzione del-l’impresa per tutto ciò che è necessario per poter disimpe-gnare i propri compiti; e) facoltà di proposta e di iniziativaai consigli di gestione nelle materie attinenti alla propria

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11 M.S. Giannini, Lo sviluppo dei Consigli di Gestione nel mondo, in Bol-lettino dell’Istituto di Studi Socialisti, 1-15 maggio 1947, II, n. 2, anchein Id., Scritti, vol. II, Giuffrè, 2002, 799.

12 Giannini, Lo sviluppo dei Consigli di Gestione nel mondo, cit.13 Giannini, op. ult. cit., 799.14 Giannini, Lo sviluppo dei Consigli di Gestione nel mondo, cit., 800.

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competenza consultiva superaziendale; f) separazione deicompiti dei consigli di gestione da quelli delle commissioniinterne; g) istituzione di comitati di coordinamento dei con-sigli di gestione, con competenza territoriale, al fine dismussare le deviazioni sezionalistiche cui i consigli digestione possono dare luogo; h) composizione paritaria deiconsigli di gestione ed istituzione di essi in un limitatonumero di imprese»15.

Il fine non è né di pacificazione né di rivoluzione,

ma è concentrato sul risultato concreto, che è

quello della ricostruzione industriale della nazione

Il terzo scritto, pubblicato sul finire del 1947, sposta l’atten-zione, sempre in ottica comparata, sul tema della pianificazio-ne. Si staglia, tra le altre, ancora una volta, l’esperienza ingle-se, in ordine alla quale Giannini richiama la particolarità deiWorking Parties. Ad avviso di Giannini «ciò che caratterizzala pianificazione inglese è il largo posto che ad essa è datodall’autogoverno delle categorie; il che presenta, dall’altrafaccia, il pericolo del corporativismo»16.Dal secondo e dal terzo contributo si evince il ruolo chiavedei meccanismi di democrazia partecipativa, che fornisconolinfa vitale all’assetto pianificatorio attraverso il fondamenta-le apporto della società alla elaborazione di esperienze e dilinee strategiche. L’autogoverno delle categorie consente dicostruire dal basso, dalle energie sociali, il percorso di svilup-po economico, che viene poi elaborato dal vertice pubblicisti-

co sulla base degli input che per-vengono dai singoli centri di pro-duzione. Contrariamente a quantoera avvenuto sino agli anni Trenta,dove ci si era concentrati più suiriflessi interni alla fabbrica, i con-sigli di gestione sono per Gianninistrumento di rilievo soprattutto perle implicazioni esterne, di tessituradelle nervature dell’apparato pub-blico per il tramite delle energiedella società civile. Come detto, la relazione di accom-pagnamento al disegno di leggesull’istituzione dei consigli digestione nelle imprese industriali ecommerciali è, sia per contenuti

che per stile, chiaramente frutto dell’elaborazione di Gianni-ni. Ma vi sono anche numerosi elementi che depongono in talsenso: nel volumetto di Angelo Di Gioia del 195217 si citaespressamente Giannini quale autore della relazione al dise-gno di legge. Parte della relazione è stata poi sunteggiata nel-lo scritto innanzi esaminato sullo sviluppo dei consigli digestione nel mondo, a ulteriore riprova dell’origine del con-tributo. Il documento è molto più di una semplice relazione diaccompagnamento: è più ricco e denso rispetto ai tre brevicontributi pubblicati sul Bollettino dell’Istituto di Studi Socia-listi ed è organizzato come una sorta di saggio scientifico sultema dei consigli di gestione. Può essere di interesse sintetiz-zarne i contenuti. Innanzitutto, la relazione innesta il tema dei consigli digestione nel grande tronco della riforma costituzionale e isti-tuzionale, quale iniziativa di democratizzazione del paese: «Ilriconoscimento al lavoro della dignità che gli compete e l’ef-fettiva democrazia nelle aziende hanno costituito le mete diquesto movimento: mete che si integrano l’una nell’altra, enelle quali trova una delle sue principali manifestazioni unasocietà democratica effettiva. Perché se è vero che la parteci-pazione de lavoratori alla gestione delle imprese si collega adun passato di rivendicazioni socialiste, non è men vero che

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15 Giannini, Lo sviluppo dei Consigli di Gestione nel mondo, cit., 801.16 M.S. Giannini, Contributi al “piano socialista”. I) Strumenti della pia-

nificazione, in Bollettino dell’Istituto di Studi Socialisti, 1-30 settembre1947, II, n. 10-11, anche in Id., Scritti, vol. II, Giuffrè, 2002, 808.

17 A. Di Gioia, L’intervento dei lavoratori nella gestione delle aziende,Quaderni di “Notizie economiche”, n. 2, Firenze, 1952, 89.

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essa oggi non è nei programmi di un unico movimento politi-co, ma è sentita da moltissimi partiti come mezzo di elevazio-ne della personalità umana, e come mezzo per ottenere ilmiglioramento della produzione e l’indirizzo di essa per ilbenessere della collettività».Si chiarisce subito, pertanto, che il disegno di legge nasce indiscontinuità con il passato, e in particolare slegato rispettoalla lotta di classe che era stata costruita, nell’immediato pri-mo dopoguerra, attorno ai consigli di fabbrica. Il fine non è nédi pacificazione né di rivoluzione, ma è concentrato sul risul-tato concreto, che è quello della ricostruzione industriale dellanazione. Proprio il perseguimento, in passato, di falsi obiettiviha indotto ad abbandonare questa strada. E difatti si segnalache il paese, il quale in passato non era in posizioni di retro-guardia sui temi della partecipazione dei lavoratori allagestione delle imprese, «è oggi veramente ultim[o]». E sipone anche l’accento sulla “gestione” delle imprese, chiaren-do che il termine è utilizzato in «un’accezione lata, per signi-ficare partecipazione ad organi di azienda aventi funzioni nonesecutive»: una sorta di distinzione, in ambito privatistico, traindirizzo politico e gestione.

La funzione principale del consiglio di gestione

è “di porsi nel processo produttivo dell’economia

nazionale, conservando però in esso

– a differenza di quanto avviene nelle forme

corporative o statalistiche – la propria individualità”

Si dipana, poi, un primo tragitto di comparazione tra le diver-se esperienze europee e nordamericane in tema di partecipa-zione dei lavoratori nell’immediato primo dopoguerra: sonopresi in considerazione Gran Bretagna, Unione Sovietica,Germania, Austria, Cecoslovacchia, Norvegia, Lussemburgo,Estonia. Si esamina, in coda, la situazione italiana tra il 1919e il 1921, con la gestione operaia delle fabbriche dell’areatorinese nel 1919, i convegni Fiom di Firenze (1919) e diGenova (1920), e il fallito progetto Giolitti sulle commissionidi fabbrica del 1921. Si sviluppa, a seguire, un secondo per-corso comparato, dagli anni Trenta alla seconda guerra mon-diale: si prendono ancora una volta le mosse dai paesi anglo-sassoni, Inghilterra e Stati Uniti, dedicando particolare atten-zione ai Working parties inglesi. Si analizzano i comitati diimpresa francesi. E si giunge quindi ad esaminare le vicendeitaliane tra il 1943 e il 1947.Si illustrano, infine, i contenuti del disegno di legge, che non

fa «che portare su di un piano di disciplina legislativa unarealtà che già esiste e che è pregnante di esperienza», ma chesi sviluppa attraverso «linee che si presentano con caratteriveramente nuovi», volti al superamento degli schemi tradi-zionali, che erano soliti distinguere tra organismi di parteci-pazione operaia all’indirizzo aziendale a carattere collabora-tivo e a carattere classista. Si mettono da parte gli interessipadronali e quelli lavoristici e si punta «invece sull’interessecomplessivo dell’azienda e su quello della collettività» (di quila composizione paritetica dei consigli di gestione, istituitinelle imprese con più di duecentocinquanta dipendenti). La novità è data dal collegamento strutturale tra i consigli digestione, in modo tale da proiettare questi ultimi in unadimensione superaziendale, che si affianca a quella tradizio-nale intraziendale: «Così avvenne per i parlamenti, che sortiinizialmente per controllare le spese dei re elevarono poi illoro compito a ben più alto e fattivo rango». I consigli vengo-no pensati, pertanto, quale fondamentale strumento di rico-struzione industriale.Alla novità organizzativa si affianca il profilo funzionale,consistente nel conferire funzioni pubbliche o di pubblicointeresse a tali consessi, che in altri paesi (e in particolare inInghilterra) hanno condotto «gli organismi di democraziaindustriale direttamente sul piano della regolazione generaledell’industria, quando non è quello della disciplina dell’eco-nomia». La funzione principale del consiglio di gestione èpertanto «di porsi nel processo produttivo dell’economianazionale, conservando però in esso – a differenza di quantoavviene nelle forme corporative o statalistiche – la propriaindividualità […] I consigli di gestione costituiscono l’organomediante il quale l’impresa si pone nell’ordinamento diautoamministrazione». Oltre che far partecipare i lavoratoriall’indirizzo generale dell’impresa e contribuire al migliora-mento tecnico ed organizzativo della stessa, infatti, finalitàprecipua è di «creare nelle imprese strumenti idonei per per-mettere ad esse di partecipare alla ricostruzione industriale edalla predisposizione delle programmazioni e dei piani di indu-stria che venissero adottati dai competenti organi dello Stato,e per renderne effettuale ed operante l’esecuzione» (art. 1 deldisegno di legge). Ciò soprattutto sulla scorta dell’esempio inglese, che è perl’ennesima volta richiamato ed esaltato: l’esperienza dei Wor-king parties è definita «estremamente felice e può dirsi diavanguardia, in quanto realizza una forma di autoamministra-zione industriale, passibile di grandi sviluppi; essa è infattiuna forma nella quale vengono superate suggestioni corpora-

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tive o neo-corporative, sindacaliste o neo-sindacaliste; ciòperché l’unione sul piano verticale avviene direttamente tra lesingole aziende, e non già tra organismi intermedi, che a lorovolta riuniscano – non interessa qui il modo – le singoleaziende medesime». E difatti le attribuzioni dei consigli di gestione sono netta-mente separate da quelle delle commissioni interne, che rap-presentano invece dei veri e propri prolungamenti sindacaliall’interno dell’azienda. Il collocamento dei consigli sul pia-no superaziendale, infine, consente altresì di superare il costi-tuirsi di collusioni padronali-operaie e l’emergere di seziona-lismi; a tal fine sono stati anche previsti comitati di coordina-mento dei consigli di gestione, con il compito di smussare leasperità e gli attriti sia all’interno dell’impresa sia all’esterno.

Il ruolo emergenziale dei consigli di gestione

delle aziende nell’Italia settentrionale appena

liberata fu fondamentale

Attraverso tale costruzione Giannini portava ad avanzamentola teoria istituzionalista di Santi Romano, con i consigli digestione non soltanto strumento di democrazia aziendale, manesso istituzionale tra la produzione industriale e l’apparatogovernativo dello sviluppo economico: «Il piano veniva dun-que a rappresentare il punto di mediazione tra gli equilibri dimercato del sistema capitalistico e gli obiettivi di riformastrutturale, in primo luogo quelli riguardanti la redistribuzio-ne del reddito, perseguito dai ceti e dalle classi sociali subal-terne»18.Il disegno di legge, peraltro, oltre a indubbi pregi, avevaanche alcuni limiti, ben individuati da Piero Craveri e richia-mati da Giorgio Ghezzi19. Il rapporto tra consigli di gestione e«organismi di regolazione industriale» era postulato, ma rin-viato ad altro atto normativo, sicché si prefigurava un control-lo operaio correlato alla pianificazione nazionale, ma senzache la pianificazione divenisse elemento strutturale della poli-tica economica di governo. Il progetto era elaborato in conco-mitanza con i lavori dell’Assemblea costituente, ma, «comene è ignorato, così li ignora, nella misura in cui non vienepensato con immediato riferimento alle nuove articolazioniautonomistiche dello Stato che la carta fondamentale va dise-gnando; ed anzi ne prescinde, mentre rinvia al futuro l’indi-spensabile organizzazione d’un arsenale di strumenti istitu-zionali di controllo pubblico sull’attività economica»20. C’è poi di fondo, nelle teorizzazioni di democrazia industriale(come evidenziato da Giorgio Ruffolo21), un elemento utopi-

stico nel presupposto del “controllo operaio” dell’impresa:sicché, nella massima parte, si torna a un sostanziale riaffida-mento ai dirigenti della funzione imprenditoriale, in nome eper conto dei lavoratori. Critiche similari erano state già mos-se, nel 1943, da Pasquale Saraceno, secondo cui le esigenzetecniche di gestione della grande impresa erano destinate asvuotare le istanze di partecipazione alla gestione di essa daparte dei lavoratori (ma anche a sostituire i proprietari condirigenti stipendiati: tragitto bidirezionale che avviava a unasocietà senza classi contrapposte)22.È di tutta evidenza che Giannini svolse un ruolo significativoe originale ai fini della elaborazione del disegno di legge suiconsigli di gestione delle aziende. Il suo contributo, tuttavia,si inserì in un humus favorevole. Da un lato l’esperienza ita-liana dei consigli di fabbrica vantava quindici anni di storianei primi due decenni del Novecento a partire dal contrattocollettivo siglato dalla Fiom e dall’Itala nel 1906; essa si eradipanata dalle commissioni interne di fabbrica, che sino al1919 erano state una sorta di organi decentrati delle organiz-zazioni sindacali; al tentativo gramsciano dei consigli di fab-brica nel 1919 a Torino, con cui il proletariato aveva mossoalla conquista del potere nei luoghi di produzione; alle occu-pazioni delle fabbriche del 1920; alla divisione del fronte del-la sinistra tra comunisti e ordinovisti (con il contrasto tra Bor-diga e Gramsci23) e tra massimalisti e riformisti (con il contra-sto tra Giacinto Menotti Serrati e Filippo Turati); al poco for-tunato progetto Giolitti delle Commissioni di fabbrica del1921. La vicenda dei consigli di gestione era ripresa con la cadutadel fascismo. La Repubblica sociale, con decreto legge 12febbraio 1944, n. 375, aveva attuato la “socializzazione” delleimprese per il tramite della istituzione dei consigli di gestio-ne. Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai),con decreto del 17 aprile 1945, pur abrogando il precedente

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18 P. Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, il Mulino, 1977, 187. 19 G. Ghezzi, Art. 46, in A. Nigro, G. Ghezzi, F. Merusi, Rapporti econo-

mici, tomo III, nell’ambito del Commentario della Costituzione, a curadi G. Branca, Zanichelli-Il Foro italiano, 1980. 93-94.

20 Ghezzi, op. cit., 94-95, che rinvia a Craveri, cit., 199.21 G. Ruffolo, La grande impresa nella società moderna, 2 ed., Einaudi,

1971, 229-231. 22 P. Saraceno, Ricostruzione e pianificazione, 1943-1948, Laterza, 1969,

in particolare 101 ss.23 Per Gramsci i Consigli di fabbrica dovevano essere le istituzioni demo-

cratiche di un nuovo ordine statale e perciò dovevano essere altro rispet-to al sindacato: si v. A. Gramsci, L’Ordine nuovo, Torino, Einaudi, 1954;ma anche P. Spriano, L’“Ordine nuovo” e i consigli di fabbrica, Torino,Einaudi, 1971.

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decreto del 1944, aveva istituito organismi similari, che sor-sero a centinaia. Il ruolo emergenziale dei consigli di gestionedelle aziende nell’Italia settentrionale appena liberata fu fon-damentale24, ed essi conquistarono, nel volgere dei drammati-ci mesi successivi alla Liberazione, un significativo ruolosociale, di emersione dal basso di energie spontanee mirantialla ricostruzione e al riscatto nazionale. Il disegno di leggeMorandi, del dicembre del 1946, tentò di trasformare questaenergia spontanea in risorsa istituzionale dell’ordinamentogiuridico, irreggimentando la forza sociale nel corpo dell’as-setto istituzionale25. D’altra parte il ministro dell’Industria, Rodolfo Morandi,esponente della sinistra del partito socialista, era un approfon-dito studioso della storia industriale del paese. La sua Storiadella grande industria in Italia, la cui prima edizione fu pub-blicata nel 193126, resta un importante contributo di storiaeconomica e politica, tra l’altro edito proprio nel pieno dellagrande crisi: la ricerca aveva riempito una lacuna nel panora-ma nazionale ed era stata condotta attraverso il ricorso adocumenti e materiali di prima mano. Al tema dei Cln azien-dali Morandi (presidente Clnai dal 27 aprile 1945) aveva feb-brilmente lavorato sul piano politico sin dalla Liberazione, efortissimo fu il suo rammarico per il mancato esito positivodel tragitto parlamentare del disegno di legge. In un discorsoromano del 4 novembre 1947, ormai tramontata l’ipotesi diun vaglio parlamentare positivo, si intuisce tra le righe comela spinta riformatrice e innovativa del Ministero dell’industrianon soltanto fosse stata attivamente avversata da Confindu-stria, come era lecito attendersi, ma non avesse goduto nep-pure del sostegno dei partiti e delle organizzazioni sindacali:il disegno di legge, dunque, era stato anche vittima di fuocoamico27.Anche il sottosegretario Roberto Tremelloni, oltre che parla-mentare socialista (della destra riformista), era uno studiosodi economia politica: ed avrebbe pubblicato, proprio nel1947, una Storia dell’industria italiana contemporanea. Dal-la fine del Settecento all’Unità italiana28 e poi, alcuni annidopo, un ulteriore studio che copriva il primo secolo dell’U-nità nazionale29. Lo stesso Ludovico D’Aragona, ministro delLavoro e cofirmatario del disegno di legge, era un sindacali-sta e politico di lunghissimo corso, segretario della Confede-razione generale del lavoro dal 1918 al 192530.Tramontata la possibilità di una legge sui consigli di gestionedelle aziende, questi ultimi rimasero in vita, per il tramitedegli accordi aziendali, nelle fabbriche del Settentrione sinoai primi anni Cinquanta; in alcune realtà industriali particolar-

mente avanzate, quale, ad esempio, la Olivetti, si trasforma-rono in forme sperimentali di gestione sociale31. Ma di ricono-scimento legislativo dell’istituto non si sarebbe più parlato.

Lo stop parlamentare intervenuto nel 1947

e l’inattuazione dell’art. 46 Cost. hanno inciso

fortemente sullo sviluppo economico, sociale

e culturale del paese

Dall’analisi delle opere di Morandi, peraltro, si ricava chiara-mente che l’aspetto più interessante, sul piano teorico, dell’i-stituto – e cioè lo sviluppo superaziendale dei consigli digestione (nonché gli effetti innovativi che tale ruolo avrebberivestito sul rapporto tra società e Stato e l’incidenza signifi-cativa del nuovo assetto sul ruolo di corpi intermedi quali sin-dacati e partiti politici) – fosse totalmente frutto della tessitu-ra teorica gianniniana. Dunque, se è vero che la riflessione delgiurista romano operò in un ambiente fertile e recettivo, appa-re evidente che il sostrato culturale e il quadro teorico rico-struttivo sarebbe stato assai meno denso di contenuti senzal’apporto di Giannini, che può essere realmente considerato ilpadre naturale del disegno di legge Morandi. L’art. 46 Cost. è rimasto unica eredità dei consigli di gestionee di quel periodo di riforme: «Una norma costituzionale “for-temente compromissoria” caduta anch’essa molto presto nel

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24 Per una raccolta documentale, tra gli altri, L. Lanzaro, I Consigli digestione. L’archivio dei Comitati di Torino e del Piemonte, Centro Studi“Piero Gobetti”, Regione Piemonte, Torino, 1991.

25 Per una recente ricostruzione storica delle vicende nazionali in tema diConsigli di gestione delle aziende, S. Musso, Esperienze storiche di par-tecipazione: i Consigli di Gestione nel secondo dopoguerra, in I Consi-gli di Gestione e la democrazia industriale e sociale in Italia, cit., 23 ss.

26 R. Morandi, Storia della grande industria in Italia, Torino, Einaudi,1931.

27 Si vedano in proposito i numerosi discorsi dedicati al tema, raccolti inR. Morandi, Opere, vol. III, Lotta di popolo, Einaudi, 1958; Id., Opere,vol. V, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica, Einaudi, 1960.

28 R. Tremelloni, Storia dell’industria italiana contemporanea. Dalla finedel Settecento all’Unità italiana, Einaudi, 1947.

29 R. Tremelloni, Cent’anni dell’industria italiana (1861-1961), in L’Eco-nomia italiana dal 1861 al 1961. Studi nel 1° Centenario dell’Unità d’I-talia, Giuffrè, 1961, 187 ss.

30 Per una ricostruzione delle varie e sfrangiate posizioni all’interno delpartito socialista sui temi della pianificazione, V. Spini, I socialisti e lapolitica di piano (1945-1964), Sansoni, 1982.

31 Su cui S. Musso, La partecipazione nell’impresa responsabile. Storiadel Consiglio di gestione Olivetti, il Mulino, 2009. Su Olivetti si veda,tra gli altri, G. Berta, Le idee al potere. A. Olivetti fra la fabbrica e laComunità, Ed. di Comunità, 1980. Con il movimento di Comunità diOlivetti, Giannini collaborò fino al 1953 (in proposito, Melis, cit., 1262-1265).

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dimenticatoio»32 e rimasta, come altre, pressoché inattuata.Ciò in evidente controtendenza rispetto non soltanto alleesperienze tedesche di cogestione (Mitbestimmung), maanche alle evoluzioni negli altri paesi europei: pur dovendoriconoscere che il modello tedesco in nulla somiglia al model-lo superaziendale dei consigli di gestione in funzione di pia-nificazione, contrariamente a quanto invece elaborato nellaRepubblica di Weimar, nella quale era stato costruito un siste-ma che dai consigli di azienda risaliva fino al Consiglio eco-nomico di Stato33.Lo stop parlamentare intervenuto nel 1947 e l’inattuazionedell’art. 46 Cost. hanno inciso fortemente sullo sviluppo eco-nomico, sociale e culturale del paese34. Lo sviluppo organici-sta dei consigli di gestione rientrava tra le conquiste delleclassi più povere nella prima metà del Novecento: come ricor-dato da Giuseppe Amari, i consigli di gestione erano citatianche dal Manifesto di Ventotene tra le punte più avanzatedell’estensione dei diritti nei primi decenni del XX secolo35, eFederico Caffè li aveva annoverati, nel 1977, tra le occasioniperdute di riforma dell’immediato secondo dopoguerra36.

“I sindacati hanno la principale responsabilità del

rifiuto di studiare le forme che avrebbero potuto

consentire ai lavoratori di far sentire la propria

voce nell’impresa”

L’art. 46 Cost., d’altra parte, costituì il frutto acerbo d’un dibat-tito asfittico in Assemblea costituente. Tale dibattito, in senoalla terza sottocommissione, non si allontanò minimamentedalla singola unità di produzione aziendale, senza riferimentiné all’ottica superaziendale né alla dimensione programmatoriae pianificatoria: ci si fermò ai temi della partecipazione agli uti-li, della partecipazione azionaria, della partecipazione alla con-duzione dell’impresa; nessun cenno, neppure vago, ai consiglidi gestione e al loro ruolo. In sede assembleare la norma fuvotata il giorno dopo lo scioglimento della coalizione tripartita,il 13 maggio 1947, con la fondamentale sostituzione del termi-ne «partecipazione» con quello di «collaborazione». Per quanto sia stato deludente l’esito assembleare, ancor piùassordante è stato il silenzio che ne è seguito nei decenni suc-cessivi37. Per circa mezzo secolo un velo è calato sulle modalitàdi partecipazione dei lavoratori nelle aziende (con la breveparentesi, cui si è accennato, degli anni Settanta e un ritorno diinteresse all’inizio degli anni Novanta). Recentemente, tutta-via, il modello proposto da Morandi e Giannini è stato richia-mato all’attenzione quale strumento «per impostare su nuove

basi il problema della presenza dei lavoratori nello spazio poli-tico-istituzionale. Il lavoro e i lavoratori non solo si sono estra-niati dalla Costituzione, non solo sono caduti lentamente fuoridello spazio pubblico, ma sono anche usciti dall’impresa, quan-do hanno rifiutato la cogestione prevista dalla Costituzione,alla quale avevano lavorato socialisti quali Rodolfo Morandi eMassimo Severo Giannini. I sindacati hanno la principaleresponsabilità del rifiuto di studiare quelle “forme” e quei“modi” che avrebbero potuto consentire ai lavoratori di far sen-tire la propria voce nell’impresa. Un rifiuto dettato da spirito dicorpo, dal timore che i lavoratori avrebbero potuto far sentire lapropria voce in altri modi e attraverso altri canali. In una parola,i sindacati hanno rifiutato di attuare la Costituzione per conser-vare il proprio monopolio della rappresentanza. Mentre tutto ilmondo è alla ricerca di forme nuove di partecipazione, special-mente di quelle procedurali, il rifiuto sindacale italiano ha con-dotto i lavoratori su un binario morto, all’afonia»38. Ecco quindiche l’idea riformatrice della partecipazione istituzionale, elabo-rata da Giannini sulla scorta delle tesi romaniane, vittima dellecontingenze storico-politiche del tempo, pare poter tornare distringente attualità.

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32 F. Vella, L’impresa e il lavoro: vecchi e nuovi paradigmi della parteci-pazione, in I Consigli di Gestione e la democrazia industriale e socialein Italia, a cura di G. Amari, cit., 199. Si vedano anche, nel corso degliultimi decenni del XX secolo, le riflessioni di Bruno Trentin sul temadella democrazia industriale: A. Gramolati, G. Mari, Bruno Trentin:lavoro, libertà, conoscenza, Firenze University Press, 2010.

33 Ghezzi, cit., 101, per il quale una sorta di Mitbestimmung superaziendale«era già stata concepita dal sindacato socialdemocratico weimariano,nella prospettiva, condensata nell’opera-manifesto curata da Fritz Naph-tali, della Wirtschaftsdemokratie, con l’obiettivo di un crescente inter-vento statale nell’economia e con lo scopo di istituire un nesso organicotra “democrazia economica” e sistema sociale (in senso lato) socialista».

34 Vella, op. cit., 211: «Dall’indebolimento della programmazione econo-mica al mancato controllo delle disinvolte gestioni, concentrate più sullafinanza che sulla produzione, sulla evasione fiscale e sulla esportazionedi capitali, sulla costituzione di fondi neri destinati al finanziamento del-la corruzione e talvolta dell’eversione, per non parlare della fuga diaziende all’estero, delle loro affrettate se non speculative chiusure».

35 G. Amari, La democrazia industriale economica, sociale e politica inItalia, in I Consigli di Gestione e la democrazia industriale e sociale inItalia, cit., 219.

36 Amari, op. cit., 231-232. Interessanti considerazioni di Federico Caffè sullapartecipazione dei lavoratori nelle aziende anche in Federico Caffè, un eco-nomista per il nostro tempo, a cura di G. Amari e N. Rocchi Ediesse, 2009.

37 È sufficiente rinviare, per tutti, a B.G. Mattarella, Sindacati e pubblicipoteri, Giuffrè, 2003, 51-52, ma anche, per implicito, nel più complessivoesame dell’art. 39 Cost. Mancata attuazione probabilmente anche dettatada ragioni politiche e, più che altro, geopolitiche, essendo stata per decen-ni l’Italia linea di confine tra blocco occidentale e blocco sovietico.

38 S. Cassese, Discorso critico sul diritto del lavoro, in Una nuova costitu-zione per il sistema delle relazioni sindacali, a cura di L. ZOPPOLI, A.Zoppoli, M. De Delfino, Napoli, Editoriale Scientifica.

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Massimo Severo Giannini è stato uno dei più grandi giu-risti del XX secolo. È nato nel 1915 ed è morto nel

2000. Ha quindi vissuto i maggiori eventi del secolo scorso,con le sue rotture rispetto al passato, le sue contraddizioni ele sue tragedie. È stato anzitutto accademico, ma anche avvo-cato, uomo di Stato, e autore di numerosi articoli per lastampa. Ha dunque “fatto diritto” da teorico e da pratico. Edè stato grande innovatore.Innanzitutto, ha innovato nel metodo di studio del diritto. Lascuola classica del diritto amministrativo – la materia di cui siè più occupato – aveva sostenuto che il giurista dovesse adot-tare un metodo proprio, senza contaminazioni provenienti daaltre scienze sociali come la politologia o la sociologia. Neera derivata una scienza del diritto assolutamente chiusa in sestessa. Per di più molto distante dall’analisi della realtà eco-nomica e sociale, e assai concentrata su un concettualismoastratto e formalistico. Giannini spezza questa tradizione, eapre lo studio del diritto amministrativo – e pubblico in gene-rale – al dialogo con le altre scienze sociali. Questa aperturaha portato con sé un approccio realistico, fondato su un’ana-lisi attenta dei fatti e dei loro cambiamenti.Grazie a tale metodo realistico, Giannini ha sottolineato inmolti dei suoi lavori scientifici le maggiori trasformazionisubite dal diritto costituzionale e dal diritto amministrativo inragione dei mutamenti della realtà sociale e politica. Adesempio, ha messo in luce il passaggio – avvenuto tra la finedell’Ottocento e l’inizio del Novecento – dallo Stato borgheseallo Stato che ha voluto chiamare “pluriclasse”: passaggiointervenuto a seguito dell’allargamento del diritto di voto edell’avvento dei partiti politici e dei sindacati. Tutto ciò ebbe come conseguenza che i gruppi sociali emer-genti (non borghesi) iniziarono ad esprimere nuove domandepolitiche, finalizzate ad ottenere un intervento dei pubblicipoteri che assicurasse garanzie effettive ai diritti sociali elimitazioni alla proprietà e all’impresa privata. E questo inter-vento dei pubblici poteri – come ha chiarito Giannini – è statomesso in campo essenzialmente dalla pubblica amministra-

zione e dal diritto amministrativo: tra l’altro, con la statizza-zione delle ferrovie, con la municipalizzazione dei servizilocali, con più penetranti controlli amministrativi sull’im-presa privata. Ne risulta che il mutamento dei fatti politici e sociali portacon sé una trasformazione della costituzione materiale e l’in-troduzione di nuovi strumenti di diritto amministrativo. È unaprima immagine chiara di un diritto in movimento. Efficacis-sime sul punto le pagine de Il pubblico potere (Bologna,1986).

La concezione pluralistica ha condotto Giannini

a sostenere che non esiste un unico interesse

pubblico contrapposto agli interessi privati

Un altro cambiamento essenziale del diritto amministrativo èstato messo in luce da Giannini. Quello che negli anni Trentadel Novecento, con il consolidarsi del regime fascista, portòad uno Stato “dirigistico” e ad una regolazione pubblicadell’economia ancor più consistente: con interventi massicciin agricoltura; con un ruolo più penetrante della Banca d’Ita-lia; con un vero e proprio sistema di società in partecipazionestatale negli anni successivi alla crisi mondiale del 1929; conuna nuova disciplina valutaria e del commercio con l’estero;con un ruolo decisionale maggiore dei direttori generali deiministeri.La consapevolezza di questo mutamento della realtà Gianninila ebbe già nel 1940, nei suoi Profili storici della scienza deldiritto amministrativo: la dottrina fino a quel tempo avevaampiamente trascurato il mutamento e continuava ad ada-giarsi sul vecchio diritto amministrativo.Altri cambiamenti del diritto amministrativo sono stati evi-denziati da Giannini. Importante l’emersione e l’allargamentograduale, nel secondo Novecento, delle garanzie di partecipa-zione degli amministrati ai procedimenti che conducono alledecisioni delle pubbliche amministrazioni. Giannini ne ha

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L’innovatore del diritto pubblico>>>> Marco D’Alberti

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parlato soprattutto nel suo manuale di Diritto amministrativo(l’ultima edizione è del 1993). Questo cambiamento ha assi-curato una tutela più effettiva ai diritti dei cittadini e delleimprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni, per-ché ha offerto una protezione preventiva rispetto alla deci-sione del pubblico potere: mentre l’unica protezione eraprima successiva e consisteva nel ricorso al giudice contro ilprovvedimento adottato dall’amministrazione.Un’altra significativa innovazione di Giannini sta nella suacompiuta declinazione di una visione pluralistica del diritto,degli interessi e delle istituzioni. Giannini è stato allievo diSanti Romano, che già nel secondo decennio del Novecentosi era allontanato dalla tradizionale idea secondo cui il dirittoè un insieme di norme. Tali norme erano essenzialmentequelle poste dal legislatore, ma anche le regole statuite daigiudici nella risoluzione delle controversie. Dunque, il dirittoera fondamentalmente un prodotto dello Stato, costruito dallesue leggi e dai suoi giudici.

Nella sua nota opera L’ordinamento giuridico (1917)Romano aveva chiarito che il diritto risiede, ancor più e ancorprima che nelle norme, nelle istituzioni, intese come organiz-zazioni pubbliche e private, associazioni, comunità. È lacosiddetta teoria istituzionistica del diritto. Questa teoria con-dusse ad attenuare la connessione tra il diritto e lo Stato, poi-ché lo Stato è soltanto una delle tante istituzioni. La conclu-sione è stata una visione pluralistica del diritto: vi sono tantiordinamenti giuridici quante sono le istituzioni. Giannini, con qualche variante, ha seguito questa concezionepluralistica e l’ha applicata al diritto amministrativo. Con con-seguenze – di nuovo – fortemente innovative. In primo luogo,la pubblica amministrazione è stata scomposta in una pluralitàdi strutture. È stata declinata al plurale, come “pubblicheamministrazioni”. Ne è derivata l’articolazione in varie ediverse strutture amministrative: ministeri, agenzie, enti pub-blici, società con partecipazione pubblica, autorità indipen-denti. Un marcato pluralismo delle istituzioni amministrative.

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In secondo luogo, la concezione pluralistica ha condottoGiannini a sostenere che non esiste un unico interesse pub-blico, contrapposto agli interessi privati. Vi è invece una plu-ralità di interessi - pubblici, collettivi e privati - che le pubbli-che amministrazioni devono considerare quando assumonouna certa decisione. La teoria del potere discrezionale elabo-rata da Giannini alla fine degli anni Trenta (Il potere discre-zionale della pubblica amministrazione, 1939) si fonda suquesta premessa.

Un grande maestro capace di essere realista

nello studio del diritto, sistematico nella sua

costruzione, eretico nella critica delle disfunzioni,

sempre costruttivo nell’indicazione dei rimedi

La dottrina classica – soprattutto in Germania e in Italia –aveva sottolineato che la discrezionalità della pubblica ammi-nistrazione consisteva in una scelta sul se adottare o meno unprovvedimento amministrativo finalizzato a perseguire ilpubblico interesse nell’attuazione di norme di legge. In sin-tesi, l’interesse pubblico era stato raffigurato come entità uni-taria, e la decisione dell’amministrazione era stata vista piùcome una misura che dava esecuzione alla legge che comeuna valutazione complessa. Al contrario, Giannini ha precisato che il potere discrezionalesi concreta in una ponderazione comparativa di interessi plu-rali che l’amministrazione trova dinanzi a sé quando devedecidere. Questa conclusione era, alla fine degli anni Trenta,radicalmente innovativa. E lasciava emergere un ruolo deci-sionale molto più rilevante della pubblica amministrazione,vista non più come cinghia di trasmissione del potere legisla-tivo e mera esecutrice di norme, ma come un potere larga-mente autonomo e legittimato a bilanciare interessi complessie confliggenti. Analoghe teorie pluralistiche del pubblicointeresse e della discrezionalità si affermeranno molto piùtardi nella letteratura giuridica, soprattutto dagli anni Set-tanta. A conferma della modernità di Giannini.Va sottolineata un’ulteriore conseguenza che Giannini faderivare dal pluralismo. Poiché le pubbliche amministra-zioni devono tener conto di molti interessi diversi, esse nonsempre possono decidere con atti unilaterali e autoritativi,ma devono basare spesso le loro decisioni sul dialogo,quanto più possibile paritario, con i portatori di quegli inte-ressi. Per questa ragione Giannini ha sempre prestato grandeattenzione alla partecipazione garantita ai cittadini e alle

imprese all’interno dei processi decisionali delle ammini-strazioni pubbliche, e ai contratti tra esse e i privati: dueessenziali strumenti di dialogo. Un altro aspetto ancora deve essere messo in luce. Gianniniha sempre analizzato attentamente le disfunzioni delle pubbli-che amministrazioni e del diritto amministrativo. Egli haduramente criticato diversi limiti del sistema: tra gli altri, laturbativa da eccessiva ingerenza dei politici nella gestioneamministrativa; l’inefficacia di tanti controlli posti in esseredall’amministrazione; i frequenti stalli nel processo decisio-nale delle amministrazioni pubbliche. Ha parlato più volte di“tracollo” delle istituzioni. Ma non si è mai limitato alla cri-tica distruttiva, cercando sempre di individuare i rimedi e leriforme necessarie a superare le disfunzioni. In particolare ha cercato strumenti che potessero evitare para-lisi decisionali sia nel Parlamento che nelle pubbliche ammi-nistrazioni. Da questo punto di vista ci ha messo in guardiacontro gli eccessi del pluralismo: che egli ha teorizzato contanta forza, che ha rafforzato progressivamente le basi dellademocrazia e della partecipazione alle scelte pubbliche, mache se portato all’eccesso può sortire effetti contrari, trasfor-mandosi in un groviglio inestricabile di istanze e di interessicontrapposti che comporta la paralisi delle decisioni pubbli-che. Occorre un pluralismo equilibrato, più composto; e sononecessari meccanismi istituzionali che consentano decisionirapide ed efficienti. Più volte Giannini ha scritto che l’ammi-nistrazione centrale “è ingovernabile”; che Stato e Regioni “sidisturbano a vicenda”; che i Comuni, per funzionare, dovreb-bero essere mille e non ottomila. E ha proposto le riformenecessarie per migliorare. Dopo l’inattuazione delle riforme da lui prospettate, si sonosucceduti diversi altri tentativi, soprattutto dagli anniNovanta. E oggi si sta tentando ancora. Un punto, grazie agliinsegnamenti di Giannini, è chiaro. Sono necessarie riformeprofonde delle istituzioni e dell’amministrazione. E nonnecessariamente per legge. Perché le leggi spesso rimangonosulla carta. Troppe delle lacune e delle disfunzioni eviden-ziate da Giannini restano ad oggi irrisolte. Quel che emerge dal lavoro di Giannini è l’immagine di undiritto amministrativo e costituzionale in continuo movi-mento, nelle norme e nelle teorie. E l’immagine di un grandemaestro, che è stato capace di essere al tempo stesso realistanello studio del diritto, sistematico nella sua costruzione, ere-tico nella critica delle disfunzioni, sempre costruttivo nell’in-dicazione dei rimedi necessari: una ricchezza che si ritrovararamente nella letteratura giuridica.

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Chiunque lavori o abbia lavorato per la pubblica ammini-strazione, e avendo qualche cognizione di stile si sentisse

mortificato o irritato dal burocratese, si renderebbe prestoconto che non c’è rimedio.La burocrazia è un’attività che si svolge in un territorio fra ipiù pericolosi: quello della lingua per la legge, che come talerisente in Italia dell’oscurità diffusa sistemicamente nellalegge stessa. I motivi storici sono facilmente tracciabili, per-ché l’Italia ha una storia di aristocrazia in cui il suddito è unospite sul territorio di proprietà del re e quindi la legge deveessere inaccessibile al suddito e manipolabile dal notabile. Lanostra relativamente giovane democrazia è alle prime armi intema di semplificazione, anche a causa del livello medio deiburocrati in carica. La semplicità del Mind the gap dellametropolitana londinese è lontana anni luce dal nostro fetici-smo del chiasmo: saremmo perfino in difficoltà se alla ban-china dovessimo imbatterci nella scritta Occhio al buco.Altro problema insito nel burocratese come “lingua per” è –similmente al linguaggio generale – quello di non avere unreferente esterno che ne sancisca la validità. Abitualmenteaccettiamo che il linguaggio si tenga in piedi e si convalidi dasé, senza che intervenga un arbitro esterno: e grazie a questatacita accettazione siamo in grado di apprezzare in egualmisura tanto i libri di Gadda quanto quelli di Camus, senzaritenere gli uni o gli altri linguisticamente illegittimi. La que-stione nasce quando questa liberalità viene portata nell’am-bito legale o burocratico, col portato di oscurità che ben cono-sciamo.Purtroppo, il lavoro burocratico – che deve pur avere unmetro di giudizio – non è soggetto ai dettami del buon gusto:così solo la quantità di carta prodotta diventa un parametrooggettivo. Comunicazioni di diversa natura, specialmentequelle dirette ai cittadini, devono raggiungere una certa lun-ghezza per motivare lo stipendio: perciò, informazioni cherichiederebbero sì e no un paio di cartelle vengono dilatatefollemente per raggiungere un’inoppugnabile lunghezza. Inquesto modo lo scribacchino di turno, magari assunto comeconsulente esterno per la comunicazione, potrà trionfalmenteportare a casa il risultato di sei o sette cartelle piene di refusie soperchierie retoriche.Quella più divertente, almeno a giudizio di chi scrive, è la dit-tologia sinonimica. Frasi come “accelerare (accrescere, favo-rire, migliorare) lo scambio di informazioni”, o l’insistenza

con cui compaiono anglismi posticci e parole tipo “preposto”,sono l’indice di una mancanza di cognizione di quel che si stafacendo: ma la ripetizione di parole fra loro pressoché identi-che è opera di studio diabolico. Anzi, “diabolico e maligno”.Se i documenti burocratici avessero la prestanza di svilupparesimili artifici per rafforzare un messaggio non ci sarebbe nullada ridire. Purtroppo però servono solo a coprire una datasuperficie cartacea.La tematica non è nuova, e la pubblica amministrazionestessa s’è data da fare un po’ per riparare (inutilmente, s’in-tende). Proprio per questo, forse, sarebbe proficuo “riparlarnee ridiscuterne”. Anche perché sembra che il problema non siail cosiddetto “cultismo”, ma il suo esatto opposto: l’ignoranzacrassa, l’inattitudine all’intarsio dello scritto, la scarsa fre-quentazione con la lingua. Siamo infatti d’accordo che l’ita-liano sia una lingua predisposta a simili violenze, dato chenon possiede veri sinonimi, ma solo dei quasi-sinonimi(“maschio bianco” è affine a “uomo candido”, con l’evidenteslittamento di senso): ma proprio per questo chi scrive per ilpubblico più ampio immaginabile dovrebbe sapere comeaggirare gli ostacoli, invece di crogiolarvisi. Sarebbe suffi-ciente, cinque minuti al giorno, frequentare un semplicedizionario, cosa che disgraziatamente esonda dalle mansionidell’estensore pubblico, sovente lasciato a gerbido.Forse sarebbe davvero il caso di mettere da parte il valorelegale del titolo di studio per introdurre l’obbligo di periodicicorsi di scrittura, come una sorta di misura d’igiene. Bisogne-rebbe spazzar via la sporcizia mentale che intasa la formula-zione dei periodi con ipotassi e paraipotassi, ritornare a inse-gnare l’analisi logica e grammaticale, e concentrare l’atten-zione di chi scrive sulla frase minima e semplice (o frasenucleare). prima di lanciarsi in quella complessa.Anche qui sussiste una ragione storica: troppi grandi scrit-tori e pochi onesti scrittori. Non è casuale che in Italia ilcinema si sia sempre diviso in cinema intellettuale e com-mediola, a differenza degli americani, che hanno un solidocomparto di qualità intermedia: difettiamo di umili scrittoriconsci dei pericoli insiti nel lasciare troppo libero il sin-tagma, non abbiamo scrittori di mestiere, siamo lasciati anoi stessi nel gestire il linguaggio medio. Questo ci pena-lizza nell’invenzione di una lingua comune che non siasciatta o cervellotica, e conferma che «l’italiano è una lin-gua parlata dai doppiatori».

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mondoperaio 11-12/2015 / / / / aporie

>>>> aporie

La lingua dei doppiatori>>>> Antonio Romano

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A novantasei anni se n’è andato HelmutSchmidt, l’ultimo testimone di una stagionestraordinaria del socialismo europeo. Lo ricordiamo pubblicando il discorso che tenne al congresso della Spd del 2011.

Anche se in alcuni dei quaranta Stati d’Europa la coscienzanazionale si è sviluppata tardi (come in Italia, Grecia e

Germania), ci sono sempre state guerre sanguinose. E qui, nelcuore del continente, questa tragica storia, questa serie di scontrifra centro e periferia, è sempre stata il campo di battagliadecisivo. E la memoria va alle due guerre mondiali del XXsecolo, perché l’occupazione tedesca gioca ancora un ruolo do-minante, anche se latente. Quasi tutti i vicini della Germania (eanche gli ebrei di tutto il mondo) ricordano l’Olocausto e leatrocità che sono avvenute durante l’occupazione tedesca neipaesi periferici. Noi tedeschi non siamo sufficientemente consapevoli del fattoche probabilmente quasi tutti i nostri vicini hanno ancorasfiducia nei nostri confronti: un fardello storico con il qualedovranno convivere le nuove generazioni. E non dimentichiamoche c’era sospetto circa lo sviluppo futuro della Germaniaanche quando nel 1950 ha avuto inizio l’integrazione europea.Del resto l’integrazione si è realizzata in una visione realisticadi sviluppo, e allo stesso tempo per il timore di una futuraforza tedesca. Non si trattava dell’idealismo di Victor Hugoche pensava all’unificazione dell’Europa nel 1849. Gli statistipoi leader in Europa e in America (George Marshall, Eisenhower,Kennedy, Churchill, Jean Monnet, Adenauer, De Gaulle, DeGasperi e Henri Spaak) non hanno agito in base a un idealismoeuropeo, ma sono stati spinti dalla conoscenza della storia delcontinente. Hanno agito in una visione realistica, nella necessitàdi evitare la continuazione della lotta tra la periferia e il centro.Tutto questo è ancora un elemento portante per l’integrazioneeuropea, e chi non lo ha compreso manca di un presuppostoessenziale per la soluzione della crisi attuale in Europa.

Quanto più, nel corso dagli anni ’60 fino agli ’80, l’allora Re-pubblica federale aumentava il proprio peso economico epolitico, tanto più agli occhi degli statisti dell’Europa occidentalel’integrazione europea è apparsa come una polizza assicurativa.La resistenza iniziale di Margaret Thatcher, Mitterrand o An-dreotti (era il 1989/90) contro l’unificazione tedesca era chia-ramente giustificata dal timore di una forte Germania, alcentro del piccolo continente europeo. L’Unione europea è necessaria. De Gaulle e Pompidou, neglianni ‘60 e fino ai primi anni ’70, hanno continuato l’integrazioneeuropea per integrare la Germania: ma hanno anche voluto in-corporare il proprio Stato in meglio o in peggio. Dopo di che labuona intesa tra me e Giscard d’Estaing ha portato a un periododi cooperazione franco-tedesca ed al proseguimento dell’inte-grazione europea, un periodo che è stato continuato consuccesso dopo la primavera del 1990 tra Mitterrand e Kohl.

Ognuna delle nazioni europee rappresenterà

nel 2050 solo una frazione pari all’1%

della popolazione mondiale

Allo stesso tempo, la Comunità europea è gradualmente au-mentata, raggiungendo nel 1991 12 Stati membri. Grazie allavoro di preparazione svolto da Jacques Delors (allorapresidente della Commissione europea), Mitterrand e Kohl aMaastricht hanno dato vita all’euro. La preoccupazione difondo era, di nuovo sul fronte francese, di una potenteGermania e (più precisamente) di una moneta tedesca, ilmarco, super potente. Da quegli anni l’euro è diventato laseconda valuta più importante nell’economia mondiale. Questamoneta europea, sia internamente che nelle relazioni esterne,è di gran lunga più stabile rispetto al dollaro americano (ed èstata più stabile del marco nei suoi ultimi 10 anni). Tuttiparlano e straparlano di una presunta “crisi dell’euro”, ma èun frivolo chiacchiericcio di giornalisti e politici.A partire da Maastricht il mondo è cambiato enormemente.Siamo stati testimoni della liberazione delle nazioni dell’Europaorientale e dell’implosione dell’Unione Sovietica. Stiamo as-

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Chiari e fiduciosi>>>> Helmut Schmidt

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sistendo allo sviluppo prodigioso di Cina, India, Brasile e altri“mercati emergenti” che sono stati precedentemente chiamati“terzo mondo”. Allo stesso tempo la parte reale delle maggiorieconomie della terra si è ”globalizzata”: quasi tutti i paesi delmondo dipendono l’uno dall’altro. E soprattutto è accadutoche gli attori sui mercati finanziari globali abbiano acquisitoun potere del tutto incontrollato. Ma al tempo stesso (e quasiinosservata) la razza umana si è moltiplicata e ha superato i 7miliardi di persone. Quando sono nato, ce n’erano appena 2miliardi. Tutti questi cambiamenti hanno un impatto enormesui popoli d’Europa, sui loro Stati e le loro ricchezze.D’altra parte tutte le nazioni europee stanno riducendo i loro cit-tadini. A metà del XXI secolo è probabile che vivano anche 9miliardi di persone sulla Terra, mentre le nazioni europee insiemecostituiranno solo il 7% della popolazione mondiale: 7% di 9miliardi. Per due secoli, e fino al 1950, gli europei hanno rappre-sentato più del 20% della popolazione mondiale. Analogamente,l’Europa vedrà scendere il proprio prodotto globale al 10%, dal30 che era nel 1950. Ognuna delle nazioni europee rappresenterànel 2050 solo una frazione pari all’1% della popolazionemondiale. Vale a dire: se vogliamo sperare di avere un ruolo nel mondo, lopossiamo avere solo congiuntamente. Quindi l’interesse strategicoa lungo termine degli Stati-nazione europei è nella loro fusione. Questo interesse strategico nella costruzione europea assumesempre maggiore importanza. Anche se la maggior parte degliabitanti non ne è ancora consapevole e i governi non ne parlano.Quindi se non si farà una vera Unione europea nei prossimidecenni ciò significherebbe che i singoli Stati del continente e laciviltà europea nel suo complesso si emarginerebbero da soli.Potrebbe anche accadere. Né si può escludere che in questa si-tuazione riemerga la concorrenza e la lotta per il prestigio trai diversi paesi. Il vecchio gioco tra centro e periferia potrebbetornare ad essere una realtà.Il processo di educazione globale, la diffusione dei diritti in-dividuali e della dignità umana, lo stato di diritto e la demo-cratizzazione dell’Europa non potrebbero avere uno stimolopiù efficace. Sotto questi aspetti, l’Unione europea è unanecessità vitale per gli Stati del nostro vecchio continente.Questa esigenza si estende oltre le ragioni di Churchill e DeGaulle. Si estende ben oltre le motivazioni di Monnet eAdenauer. Io aggiungo: certo, ma occorre una reale integrazione dellaGermania. Quindi dobbiamo chiarirci le idee circa la nostramissione tedesca, il nostro ruolo nel contesto dell’integrazioneeuropea. La Germania ha la continuità e l’affidabilità necessarie.

Se alla fine del 2011 si guarda dal di fuori della Germania at-traverso gli occhi dei nostri vicini diretti e indiretti emergononotevoli dubbi e si dissolve l’immagine di una Germania dalcammino sicuro: emergono ombre sulla continuità della politicatedesca. E la fiducia nella affidabilità della politica del paeseè sempre meno netta.Qui i dubbi e i timori sono basati sugli errori della politicaestera e dei governi. In parte sulla forza sorprendente dell’e-conomia della Repubblica federale unita. La nostra economiaè tecnologicamente e socialmente una delle più potenti delmondo. La nostra forza economica e la nostra pace sociale re-lativamente stabile hanno anche innescato invidia, soprattuttoper il tasso di disoccupazione inferiore e il rapporto tra debitoe Pil tra i migliori.

Il nostro surplus commerciale è enorme.

Le nostre eccedenze sono i deficit di altri

Tuttavia politici e cittadini non sono sufficientemente consapevolidel fatto che la nostra economia è altamente integrata sia con ilmercato comune europeo che con l’economia globalizzata. Altempo stesso, però, questo può portare a un grave squilibrio: ilnostro surplus commerciale è enorme, per anni le eccedenzehanno costituito circa il 5% del Pil. Sono cifre simili a quelledella Cina, anche se la cosa non emerge con chiarezza per viadella sostituzione del marco con l’euro. Ma sembra che i nostripolitici non siano a conoscenza di questo fatto. Le nostre ecce-denze sono in realtà i deficit di altri. Le affermazioni cheabbiamo sentito sugli altri, sui loro debiti, sono fastidiose vio-lazioni di un ideale equilibrio esterno. Non solo questo disturbai nostri partner, ma solleva sospetti ed evoca brutti ricordi.In questa crisi economica, nella reazione delle istituzioni del-l’Unione europea, la Germania ha avuto ancora una volta unruolo centrale. Insieme con il presidente francese, il Cancelliereha accettato volentieri questo ruolo. Ma ci sono molte capitalieuropee in cui sta crescendo la preoccupazione di un dominiotedesco che per ora si esprime su giornali e Tv. Questa voltanon si tratta di potenza militare e politica, ma economica. Aquesto punto è necessario un promemoria per i politici tedeschi,per i media e la nostra opinione pubblica. Noi tedeschi di sinistra non dobbiamo farci prendere da illusionio farci confondere da cortine fumogene: se la Germania tenteràdi essere il primus inter pares nella politica europea, unacrescente percentuale dei nostri vicini penserà di doversidifendere efficacemente da questo tentativo di primato. Tornerebbela preoccupazione della periferia per un centro troppo forte. E

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le probabili conseguenze di un tale sviluppo sarebbero paralizzantiper l’Ue, mentre la Germania cadrebbe nell’isolamento. In fondo abbiamo bisogno di proteggerci da noi stessi.Quindi nel processo di integrazione europea bisogna partiredall’articolo 23 della Costituzione, che impone di partecipareallo sviluppo dell’Unione europea. E l’articolo 23 ci impegnaanche al “principio di sussidiarietà”. L’attuale crisi del funzionamento delle istituzioni dell’Ue noncambia questi principi. La nostra posizione geopolitica centrale(in fondo una sfortuna fino alla metà del XX secolo) richiedeun alto grado di empatia per gli interessi dei nostri partnereuropei. E la nostra volontà di aiuto sarà fondamentale. Noitedeschi abbiamo ricostruito la nostra grande potenza: loabbiamo fatto certo da soli, ma tutto questo non sarebbe statopossibile senza l’aiuto delle potenze occidentali, senza lanostra integrazione nella Comunità europea, senza l’aiuto deinostri vicini, senza gli sconvolgimenti politici in Europa cen-trorientale seguiti alla dissoluzione dell’Urss. Abbiamo moltimotivi per essere grati. E abbiamo il dovere di dimostrarcidegni della solidarietà ricevuta.Al contrario, la ricerca di un esclusivo ruolo e prestigio nellapolitica mondiale sarebbe inutile e probabilmente anche dannoso.Sono convinto che è negli interessi strategici a lungo terminedella Germania non isolarsi. Un isolamento all’interno dell’Oc-cidente sarebbe pericoloso. Un isolamento all’interno dell’Unioneeuropea o della zona euro sarebbe catastrofico. I politici e imedia tedeschi hanno il dovere e l’obbligo di difendere questopunto di vista e di sostenerlo presso l’opinione pubblica. Ma sequalcuno ci dice o ci fa capire che il futuro d’Europa parlatedesco, se un ministro degli Esteri tedesco ritiene che leapparizioni in Tv mentre è a Tripoli, al Cairo o a Kabul sianopiù importanti dei contatti politici con Lisbona, Madrid eVarsavia o Praga, con Dublino, L’Aja, Copenaghen ed Helsinki,e se un altro pensa di dover impedire trasferimenti di un po’ di

sovranità all’Unione, beh, tutto questo è solo dannoso.In realtà, la Germania è stata un contributore netto per moltidecenni fin dal tempo di Adenauer. E naturalmente Grecia, Por-togallo e Irlanda sono sempre stati beneficiari netti. Lo abbiamofatto a lungo e possiamo permettercelo. Il principio di sussidiarietà,anche contrattualmente richiesto da Lisbona, prevede chel’Unione faccia ciò che uno Stato da solo non può fare. KonradAdenauer, a partire dal Piano Schumann, ha tentato di correggereistinti politici e resistenze perché sapeva che l’interesse strategicoa lungo termine era questo, anche nel quadro della divisionepermanente della Germania. E tutti i successori (compresiBrandt, io stesso, Kohl e Schröder) hanno continuato la politicadi integrazione concepita da Adenauer.

Sono d’accordo con Giorgio Napolitano,

quando ha detto che oggi abbiamo bisogno

di concentrarci su ciò che è necessario fare oggi

La situazione attuale richiede l’energia dell’Ue. Non possiamoin questo momento anticipare un futuro lontano. Correzioni aMaastricht potrebbero solo in parte eliminare errori e omissioni,così come mi sembrano inutili le proposte di modificare l’attualetrattato di Lisbona che comunque dovrebbe passare attraversoil vaglio di referendum nazionali. Sono quindi d’accordo con ilpresidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, quando- alla fine di ottobre, in un discorso straordinario - ha detto cheoggi abbiamo bisogno di concentrarci su ciò che è necessariofare oggi. E che abbiamo bisogno di sfruttare le opportunità chel’attuale trattato Ue ci dà: in particolare il rafforzamento delleregole di bilancio e politiche economiche nell’area dell’euro.Con l’eccezione della Banca centrale europea, le istituzioni – ilParlamento europeo, il Consiglio europeo, la Commissione diBruxelles e il Consiglio dei ministri – hanno concluso poco nelsuperare la grave crisi bancaria del 2008 e soprattutto l’attuale

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crisi del debito. Per superare l’attuale crisi di leadershipdell’Unione europea non esiste una panacea. Si richiedonodiversi passaggi, a volte contemporanei a volte successivi, e ciòrichiederà energia e pazienza. E il contributo tedesco non potràessere limitato a slogan per il mercato televisivo.In un punto importante sono d’accordo con Jurgen Habermas,che ha recentemente affermato che “abbiamo fatto l’esperienzaper la prima volta nella storia dell’Unione europea di undegrado della democrazia”. Infatti non solo il Consiglioeuropeo, compreso il suo presidente, ma anche la Commissioneeuropea, compreso il suo presidente e i vari Consigli deiministri e tutta la burocrazia di Bruxelles hanno congiuntamentemesso da parte il principio democratico.

Alcune migliaia di persone che operano

nella finanza, più alcune agenzie di rating,

hanno preso in ostaggio l’Europa

Perciò mi appello a Martin Schulz: è ora che voi e i vostriomologhi democristiani, liberali e verdi, insieme, portiate al-l’attenzione del pubblico i problemi veri e drammatici. Mostrareche alcune migliaia di persone che operano nella finanzanegli Stati Uniti e in Europa, più alcune agenzie di rating,hanno preso in ostaggio i governi d’Europa. È improbabileche Barack Obama farà molto. Lo stesso vale per il governobritannico. I governi del mondo nel 2008/2009 hanno salvatole banche, ma dal 2010 il branco di finanzieri ha ripreso asvolgere il vecchio gioco, di nuovo con profitti e bonus. Unascommessa a spese di tutti i non-giocatori.Se nessun altro vuole agire, allora deve agire l’Eurozona.Questo è il modo di interpretare l’articolo 20 del trattato di Li-sbona. Vi è espressamente previsto che uno o più Stati membridell’Unione europea “instaurino una cooperazione rafforzatatra di loro”. In ogni caso i paesi della zona euro devonomettere in atto regolamenti finanziari comuni: dalla separazionetra normali banche commerciali e banche di investimento aldivieto di effettuare vendite allo scoperto di titoli in una datafutura; dall’impedire il commercio di prodotti derivati, se nonsono approvati ufficialmente dalla Securities and ExchangeCommission, fino a un sistema di ritenute efficaci su determinateoperazioni finanziarie. Non voglio infastidirvi con ulteriori dettagli. Naturalmente,la lobby bancaria globalizzata si è già messa in moto perostacolare tutto questo ed evitare regole comuni. I governieuropei sono stati costretti a dover inventare nuovi “paraca-dute”. È ora di difendersi contro di essa. Quando gli europei

avranno il coraggio di applicare una nuova regolamentazioneai mercati finanziari, allora potremo essere in una zona distabilità. Almeno a medio termine. Ma se falliamo qui,allora il peso dell’Europa continuerà a diminuire, mentre ilmondo si sta evolvendo verso un duumvirato tra Washingtone Pechino.Per l’immediato futuro della zona euro continuano a esserenecessari tutti i passi precedentemente annunciati. Questiincludono il fondo di salvataggio, i limiti del debito e il lorocontrollo, una politica economica e fiscale comune peravere una estensione di ogni politica fiscale nazionale, lapolitica della spesa, politiche sociali e le riforme del mercatodel lavoro. Ma un debito comune sarà inevitabile. Noi tedeschi non possiamo rifugiarci in una posizione nazio-nal-egoistica. E non dobbiamo propagare in tutta Europa unapolitica di deflazione estrema. Occorre avviare progetti perfinanziare la crescita e il miglioramento. Senza crescita,senza lavoro, nessuno Stato può ristrutturare il propriobilancio. Chi crede che l’Europa possa essere maestra solonel risparmio dovrebbe leggere qualcosa sull’impatto fataledella politica deflazionista attuata da Heinrich Brüning nel1930/32. Ha innescato una depressione e un livello intollerabiledi disoccupazione e pertanto avviato alla caduta la prima de-mocrazia tedesca.Infine: la socialdemocrazia tedesca è stata per mezzo secolointernazionalista, abbiamo lottato per mantenere la libertà ela dignità di ogni essere umano. Abbiamo inoltre credutonella rappresentanza della democrazia parlamentare. Questivalori ci impegnano oggi per la solidarietà europea. Certamentel’Europa è formata anche nel XXI secolo da Stati-nazione,ognuno con una propria lingua e con la propria storia. Pertantonon è certamente facile trasformare l’Europa in un’Unionefederale. Ma l’Ue non deve degenerare in una semplice con-federazione di Stati, deve rimanere una rete che si evolve inmodo dinamico. Noi socialdemocratici dobbiamo contribuireallo sviluppo graduale di questo progetto.Più si invecchia, più si pensa a lunghissimo termine. Ancheda vecchio ho ancora stretti fra le mani i tre valori fondamentalidel Programma di Bad Godesberg: libertà, giustizia, solidarietà.E credo che la giustizia richieda oggi pari opportunità per lenuove generazioni. Quando mi trovo a guardare indietro, aglianni bui dal 1933 al 1945, i progressi che abbiamo realizzatosembrano quasi incredibili. Cerchiamo quindi di lavorare e dicombattere perché l’Unione europea, che storicamente è senzaprecedenti, esca dalla sua attuale debolezza. Dobbiamo esserechiari e fiduciosi.

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Il 7 novembre, a 88 anni, è scomparsoLuciano Gallino, che nella sua lunga vita èstato anche collaboratore di questa rivista. Lo ricordiamo pubblicando il suo interventoalla conferenza di Rimini del 1982, nel quale indicava le strategie per governare i cambiamenti già allora in attonell’organizzazione della produzione e nel mercato del lavoro.

Quando si parla di organizzazione del lavoro il pensierocorre inevitabilmente all’industria e in particolare alla

fabbrica, alle macchine operatrici, alla catena di montaggio.Viene naturale riferirsi, in altre parole, alla organizzazionetecnica del lavoro, ossia al modo in cui il lavoro é suddivisotra mansioni e ruoli differenti nella gerarchia aziendale, pro-grammato e controllato nelle numerose fasi che portano ad unprodotto finito. Questa nozione di organizzazione tecnica del lavoro appare ormaiinsufficiente per comprendere i mutamenti che si vanno deli-neando nel mondo del lavoro. È la collocazione stessa dellavoro nell’insieme della vita sociale, sono i rapporti tralavoro, studio, vita familiare e tempo libero, il diffondersi dinuove forme di lavoro non istituzionale e di lavoro plurimo,la domanda per una riconsiderazione radicale della distribuzionedel tempo tra lavoro e non lavoro, la nuova distribuzione dellavoro tra i sessi e le classi di età, e altri ancora, gli elementiche vanno considerati con non minore attenzione e immagi-nazione dell’organizzazione tecnica del lavoro. Questa conservae conserverà certo un’impronta centrale, ma è necessario af-frontarne lo studio e il cambiamento nel quadro complessivodei suddetti elementi, ai quali mi riferirò per semplicità coltermine di organizzazione sociale del lavoro. Da un punto di vista generale si può dire che il progresso tec-nologico stia premendo per redistribuire il lavoro nello

spazio mentre gli individui premono soprattutto allo scopo diredistribuire il loro lavoro nel tempo. La redistribuzione dellavoro nello spazio e quella nel tempo non sono di per sé in-compatibili ma nemmeno si possono collegare senza problemi.Da secoli dire officina o ufficio, stabilimento o amministrazionesignifica riferirsi a uno spazio coperto di qualche decina, cen-tinaia di metri quadrati nel quale sono concentrati decine,centinaia o migliaia di lavoratori. L’organizzazione tecnica, iflussi di comunicazione, i rapporti interpersonali, le strutturegerarchiche, le relazioni sindacali sino ad oggi predominantierano connaturate a tale concentrazione di lavoratori nellospazio d’un singolo edificio o di edifici contigui.

Milioni di persone lavorano come

e più di prima, ma tendono a preferire

ed a inventare lavori che si inseriscano

in un loro progetto autonomo di vita

Vari sviluppi della tecnologia stanno già operando una evidentedeconcentrazione delle forze di lavoro negli impianti esistenti.L’automazione dei processi di produzione continua consentedi avere laminatoi lunghi centinaia di metri ai quali lavoranonon più di sei-otto lavoratori per turno. La popolazione deimontaggi viene drasticamente sfoltita dall’effetto combinatodei meccanismi di assemblaggio automatico e dell’impiantosempre più esteso di circuiti elettronici prestampati persostituire congegni elettromeccanici composti da decine diparti. Interi reparti sono soppressi da robots e altri automatismi. La tecnologia preme peraltro anche in direzione di forme diriorganizzazione del lavoro nello spazio diverse dall’officina,con un numero minimo di addetti. L’automazione dell’ufficio me-diante l’uso di vari tipi di minicomputer preannuncia a brevescadenza un drastico sfoltimento di segreterie e reparti di dat-tilografia, contabilità e amministrazione. Al di là dell’ufficioautomatizzato, informatica e telematica prospettano la possibilitàdi un decentramento dei tipi non automatizzabili di lavoromentale presso il domicilio dell’impiegato e del dirigente, e di

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Il lavoro e la società>>>> Luciano Gallino

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nuove figure di lavoratori autonomi che elaborano presso disé le informazioni e le trasmettono via cavo al cliente. Il co-siddetto ufficio diffuso verrà cosi a sovrapporsi ed a confondersicon i nuovi tipi di lavoro a domicilio, resi anch’essi possibilie attraenti dal progresso tecnologico. La riduzione dei costiper unità di prestazione di ogni tipo di macchina automaticaconsente oggi ad una famiglia di acquistare, noleggiare oavere in uso a buone condizioni apparati di alto livello tecno-logico, la cui diffusione sta rapidamente soppiantando inmolte zone i lavori manuali a bassa tecnologia che da semprecaratterizzavano il lavoro a domicilio. Grandi impianti con un numero minimo di lavoratori, spesso fi-sicamente isolati; piccole aziende modulari tecnologicamentesofisticate, ciascuna delle quali assicura una singola fase pro-duttiva in base a un programma centrale; il lavoro d’ufficiodiffuso sul territorio e mediato prevalentemente da elaboratorid’ogni ordine di grandezza e reti telematiche; il lavoro adomicilio ad alta tecnologia: sono queste realtà incipienti checonviene prepararci ad affrontare. Quali interessi produrrannotra i lavoratori coinvolti? Quale tipo di solidarietà sindacalepotrà stabilirsi tra loro, e con quali mezzi? Come cambierà laloro qualità della vita, in rapporto con la qualità del lavoro?Ma più ancora che le pressioni tecniche ed economiche per laredistribuzione del lavoro nello spazio si manifestano oggi diffusedomande individuali per una redistribuzione del lavoro neltempo. Non è semplicemente una questione di orari. Ciò che èin gioco, per mezzo di milioni di esperimenti individuali, è lacollocazione del tempo di lavoro nella giornata e nellasettimana, nell’anno, e nell’arco dell’esistenza. Occorre qui confutare ancora una volta l’opinione correnteper cui masse di individui, in specie gli appartenenti alleultime leve, tendono nel nostro paese a lavorare sempre meno(sia come orario settimanale sia come anni di lavoro nel corsodella vita). Tutti gli indici di cui si dispone dicono il contrario.È in aumento il lavoro regolare tra gli studenti delle medie su-periori. È diffusissimo il lavoro tra gli studenti universitari.L’orario di lavoro effettivo nella maggior parte dell’industria,dei servizi e del settore agricolo continua ad essere di quarantaore, quando non le supera. Tra due e tre milioni di lavoratoridi tutti i settori produttivi a tutti i livelli svolgono regolarmenteun secondo lavoro. È in aumento il lavoro tra pensionati. Perciò gli atteggiamenti ed i comportamenti che vengonospesso etichettati come un rifiuto generico del lavoro vannopiuttosto interpretati come un rifiuto di continuare a subordinarel’organizzazione del proprio tempo complessivo alla organiz-zazione attuale del tempo di lavoro. In complesso, è stato giu-

stamente detto, noi viviamo in un regime staliniano del tempo. Se si vuole un posto di lavoro istituzionale o si accettano leotto ore per cinque giorni, o si può rinunciarvi (e se fosserosei per sei, o cinque per sette la rigidità non si attenuerebbeper nulla). Nell’arco dell’anno si lavora undici mesi e poi siriposa per uno, lo stesso per tutti. Nell’arco della vita, primasi è tenuti a studiare, poi a lavorare, e quindi ad andare bru-scamente in pensione, ad un’età fissa e uguale per la granmaggioranza. Poiché tutti sono costretti a fare tutto esattamentenelle stesse ore e negli stessi giorni, l’esistenza quotidianaè una alternanza di momenti vuoti e di momenti sovraffollati,di rincorsa delle scadenze orarie, di sotterfugi cui l’individuoè costretto per poter utilizzare nel suo tempo di lavoro illavoro di altri che nel tempo libero dello stesso individuo nonsono disponibili, perché quello è anche il loro tempo libero:donde le frustrazioni per non essere riusciti a farlo.

Aumenta la tendenza a intercalare

flessibilmente periodi di lavoro e di studio,

di riposo e di cure familiari, uscendo

dalla strettoia della settimana fissa e della

sequenza canonica studio-lavoro-pensione

Milioni di persone si stanno quietamente ribellando a questacamicia di forza. Lavorano come e più di prima, ma tendono apreferire ed a inventare lavori che si inseriscano in un loroprogetto autonomo di vita, piuttosto che subordinare questoprogetto al lavoro come viene ufficialmente proposto. Si trattadi decidere se convenga esercitare una massiccia azione repressivaper ricondurre i comportamenti entro la norma o non procederepiuttosto a modificare le norme per orientare e incanalare icomportamenti manifestati verso una nuova organizzazionesociale del lavoro. Per fare questo è necessario inventare, esaper poi applicare, una vera e propria politica del tempo. Proverò a delineare alcuni degli scopi che una politica del tempodovrebbe perseguire. Un primo scopo dovrebbe ovviamenteconsistere nel distribuire in modo più equo le ore di lavoro nelsistema economico. Benché si tratti d’un paradosso non soloitaliano, noi abbiamo circa due milioni di persone in cerca dilavoro mentre due-tre milioni di persone svolgono un secondolavoro. Si sa che una quota consistente di secondo lavoro faparte della fisiologia di un’economia moderna, altamente dif-ferenziata, e come tale è ineliminabile. Tuttavia una quota ap-prezzabile potrebbe venire disincentivata, a favore di aumentodei posti di lavoro istituzionali.

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Una distribuzione più equa delle ore di lavoro disponibili (ideaquesta peraltro ambigua, ma su cui non posso soffermarmi)sarebbe altresì facilitata se si introducesse nelle organizzazioniil principio del tempo prescelto. Tempo prescelto significapossibilità di scegliere un orario inferiore alle quaranta ore(inferiore di un quarto, di un terzo, della metà) con unariduzione corrispondente della retribuzione. Fra coloro chesono attualmente occupati, si tratta di vedere quantisarebbero quelli disposti a guadagnare un po’ meno, lavorandomeno ore, con la possibilità di tornare all’orario pieno quandolo desiderano. È possibile siano più numerosi di quanto non sipensi. E coloro che cercano lavoro sarebbero più flessibilinell’accettare il lavoro offerto dalle aziende, se potessero sce-gliere a priori la durata del lavoro e l’entità del guadagno. Va notato che la diffusione del tempo prescelto comporterebberilevanti problemi per l’organizzazione delle aziende, e non èprivo di inconvenienti nemmeno per il singolo: là dove esistonoconcrete possibilità di mobilità ascendente, esse sono proba-bilmente minori per chi lavora per lunghi periodi a orarioridotto. Ma questi costi vanno confrontati ai benefici individualie collettivi che ne deriverebbero. Lo studente che lavora -

altra cosa dal lavoratore studente - o la donna che prova con-temporaneamente a tenere un lavoro part time, a studiare ed acrescere un figlio, anticipano in concreto la tendenza aintercalare flessibilmente periodi di lavoro e di studio, diriposo e di cure familiari, uscendo dalla strettoia della settimanafissa e della sequenza canonica studio-lavoro-pensione.La redistribuzione del tempo allo scopo di adeguarla ainuovi bisogni individuali e familiari dovrebbe toccare anchel‘età e il modo del pensionamento. Tenuto conto del fatto chele condizioni psicofisiche di molti individui che hanno superatoi sessant’anni sono oggi assai migliori in media che nonuna generazione addietro, mentre permangono settori diattività tradizionali che logorano i lavoratori più della media,Io scarto di età psicofisica (non cronologica) tra lavoratoriche desiderano ed hanno necessità oggettiva di andare inpensione e lavoratori che non Io desiderano né hanno oggetti-vamente necessità di smettere il lavoro può raggiungere iventi anni. Se l’età é fissa e uguale per tutti, ciò significa chevi sono lavoratori che si trascinano stancamente per cinque odieci anni in attesa di una messa in pensione troppo lontana,mentre ve ne sono altri per i quali la pensione è una punizione

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inflitta meccanicamente cinque o dieci anni prima del limitefisiologico.Non meno barbaro del limite fisso e uguale per tutti (e lascioqui da parte la questione dei privilegi che consentono a talunidi abbassare tale limite) è il modo drastico in cui si smetteper sempre di lavorare. Dopo aver lavorato ogni giorno dellavita per trentacinque o quarant’anni, ci si ritrova buttati fuoridal sistema produttivo, e per certi aspetti dall’intera società,letteralmente da un minuto all’altro. Qualcuno ci muore, comeben sanno gerontologi e psicologi. Altri che hanno insiemel‘energia e le competenze professionali adatte, si trovano unaltro lavoro, magari non sempre sulla base delle cosiddettenorme vigenti.

Un effetto della redistribuzione del lavoro

nello spazio e nel tempo consisterà nella rottura

della corrispondenza, che da sempre viene data

per scontata, tra individuo e posto di lavoro

Una politica del tempo potrebbe porsi come scopo di elaborareforme di transizione graduale alla vita di non lavoro: adesempio offrendo la possibilità al lavoratore di continuare alavorare per qualche anno con una riduzione progressiva del-l’orario di lavoro settimanale e del reddito da lavoro, mentrecrescerebbe via via la quota di reddito da pensione. Un effetto della redistribuzione economica del lavoro nello spazioe nel tempo, già vigorosamente in atto, consisterà nella rotturadella corrispondenza, che da sempre viene data per scontata,tra individuo e posto di lavoro. I nuovi soggetti di cui tanto siparla, più che nuove figure di lavoratori coincidenti con nuovispecifici posti di lavoro, sono vari tipi di figure sociali multiple. Tutti questi fenomeni concomitanti renderanno via via più dif-ficile identificare un individuo con un determinato settoredi lavoro produttivo o improduttivo, cosi come renderà vir-tualmente privo di senso affermare che un dato settoreoccupa X addetti sulla base dei lavoratori occupati a tempopieno nelle unità centrali di quel settore. Questa cifra avràinfatti un rapporto solamente indiretto con la produzioneglobale di quel medesimo settore. Gli interessi, invece, deri-veranno sempre più dal complesso dei rapporti sociali in cuil’individuo e la sua famiglia, quale che sia la composizionedi questa, sono inseriti: ossia dipenderanno dall’organizzazionesociale del tempo, e soltanto in parte si collegheranno agliinteressi “di classe” del capofamiglia, altro ruolo sociale invia di estinzione.

Sarebbe un segno di miopia culturale e politica non accorgersidelle nuove tendenze in atto nell’organizzazione sociale dellavoro; ma sarebbe non meno grave ignorare le vecchiesituazioni che essa continua a riproporre, talora con mezzinuovi. Se la qualità del lavoro, intesa come professionalità eautonomia di decisione sul posto di lavoro, corrispondessealla distribuzione statistica dei lavoratori par categorie, livellio qualifiche funzionali, ci sarebbe davvero di che rallegrarsi.In poco più di dieci anni si è avuto un massiccio spostamentodi lavoratori dalle categorie inferiori, sia operaie che impiegatizie,alle categorie o alle qualifiche medio-alte. In molti settoriqueste ultime comprendono ormai oltre tre quarti di tutti gliaddetti. La realtà, per quanto riguarda la qualità del lavorosvolto, è ben diversa. La mobilità ascendente che si rilevadelle statistiche è stata frutto di strategie sindacali intese adottenere aumenti addizionali di reddito mediante il passaggiodi lavoratori da una categoria a quella superiore. Nel fatto laqualità del lavoro, migliorata in certi settori produttivi dalpunto di vista dell’ambiente e dei ritmi di lavoro, é rimastesovente la stessa – dove non è arretrata – sotto il profilo dellaprofessionalità, dell’autonomia decisionale, della creatività.

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>>>> sylos labini

Nel 2002, in una conferenza i cui atti furono pubblicatil’anno successivo, il premio Nobel per l’economia

Robert Lucas proclamò che “la macroeconomia […] ha otte-nuto il suo scopo: il suo principale problema, la prevenzionedelle depressioni economiche, è stato risolto; in effetti, è statorisolto da molti decenni”1. Più o meno contemporaneamente,in un differente convegno, Paolo Sylos Labini esprimeva“gravi preoccupazioni sulle prospettive dell’economia ameri-cana, che condiziona fortemente le economie degli altri paesi,e in particolare quelle europee”2. Se non è bastata la peggiorecrisi del capitalismo dal 1929, intervenuta nel frattempo,saranno gli storici e gli storici del pensiero a fare giustiziadella relativa rilevanza e del rigore dei contributi dei due eco-nomisti. Intanto, a dieci anni dalla scomparsa del secondo,due densi convegni tentano di salvaguardarne la memoria esottolinearne l’attualità del pensiero.Il primo – dedicato ai temi del mercato e della concorrenza,che ha ricordato anche il contributo di altri pensatori deldopoguerra italiano come Siro Lombardini, Giovanni Dema-ria, Sergio Steve, Manlio Rossi-Doria ed Ernesto Rossi – haavuto luogo il 18 novembre presso l’Accademia Nazionaledel Lincei. Il secondo, su “Paolo Sylos Labini e la politicadelle riforme” è organizzato dall’associazione Economiacivile e avrà luogo il 4 dicembre presso l’Università degliStudi Roma “La Sapienza”.Entrambi i convegni prendono spunto dai lavori della “Com-missione di inchiesta sui limiti posti alla concorrenza” dellaCamera dei deputati, presso cui Sylos Labini, assieme a moltialtri economisti e imprenditori, rese testimonianza. I lavoridella Commissione furono determinanti per la successivaapprovazione di molte importanti riforme del capitalismo ita-liano (da quella delle società per azioni alla creazione del-l’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato), e conten-gono molti altri spunti di riflessione che ancora oggi dovreb-bero ispirare le scelte di politica economica di un governoriformista. La testimonianza di Sylos, resa l’8 febbraio 1962,è stata pubblicata – commentata da Alessandro Roncaglia,

Gianfranco Pasquino e Filippo Cavazzuti – nel numero dimarzo di Moneta e Credito, rivista su cui Sylos Labini hapubblicato tra i suoi principali contributi alla scienza econo-mica3.

“Non è probabile che sia un buon economista

chi non è nient’altro”

Senza aspirare a completezza, o alla profondità di analisi chedovrà caratterizzare il lavoro storico cui mi riferivo sopra,sembra opportuno ricordare qui alcuni dei principali contri-buti dell’economista italiano, certamente tra i più importantidel XX secolo. Nel suo stesso lavoro citato in apertura, cheper questo non possiamo identificare come una “previsione”della crisi, Sylos spiega che “in economia non sono possibiliprevisioni vere e proprie ma solo ipotesi previsive fondate sudiagnosi approfondite” (p. 76, nostro corsivo). Quello chepuò sembrare un impeto di modestia è invece un’ottima sin-tesi del suo metodo rigoroso e dell’importanza dei suoi con-tributi, da cui discendevano diagnosi approfondite e - certonon solo in quell’occasione - lontane se non opposte a quelledella maggioranza degli economisti anglosassoni (cosiddettimainstream).Per quanto riguarda il metodo, Sylos Labini incarnava l’opi-nione di John Stuart Mill (nome che diede al gatto che gliteneva compagnia alla biblioteca del ministero dell’Agricol-tura), secondo cui “non è probabile che sia un buon econo-mista chi non è nient’altro”. Il metodo di Sylos integravastoria, economia, statistica e tante discipline cognate, a par-

L’economista multidisciplinare>>>> Carlo D’Ippoliti

1 Nostra traduzione dall’originale: “Macroeconomics […] has succeeded:Its central problem of depression prevention has been solved, for all prac-tical purposes, and has in fact been solved for many decades” (R.E.LUCAS, Macroeconomic Priorities, in American Economic Review, vol.93 n. 1/2003, pp. 1-14.

2 P. SYLOS LABINI, Le prospettive dell’economia mondiale, in Moneta eCredito, vol. 56 n. 223/2003, pp. 267-294.

3 Tutti gli articoli sono gratuitamente disponibili all’indirizzo http://ojs.uni-roma1.it/index.php/monetaecredito/issue/view/1084.

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tire dalla sociologia e dalla demografia4. Forse anche perquesto alla Sapienza lavorò sempre nella Facoltà, multidi-sciplinare ed empirica, di Scienze Statistiche. E proprio inquanto concepiva l’economia come scienza sociale, Sylosera cosciente che il grado di costanza e prevedibilità deifenomeni economici è infinitamente inferiore a quelli propridelle “scienze dure”. Da un lato questo implica che occorre molta prudenza nellaprescrizione di politiche pubbliche ispirate da modelli mate-matici, per definizione parziali e “storicamente determinati”.Dall’altro, è proprio la possibilità di intervenire con misure dipolitica economica che rende il futuro in una certa misuramodificabile, e quindi (forse) anche le crisi evitabili. Ma que-sto richiede, evidentemente, che le diagnosi approfonditesiano anche corrette. Anche da questo punto di vista molticontributi di Sylos Labini – impossibile riassumerli qui tutti –sono ancora rilevanti5. Tra gli economisti il suo nome è legatoprincipalmente (a volte a sproposito, nel contesto dellemoderne “teorie dei giochi”) alla teoria dell’oligopolio.Secondo Sylos, i casi tradizionalmente considerati dagli eco-nomisti (la concorrenza perfetta e l’oligopolio) sono due casiestremi, legati a ipotesi teoriche molto specifiche, e relativa-mente rari nelle economie contemporanee, soprattutto nel set-tore dell’industria.Con il suo Oligopolio e progresso tecnico Sylos Labini svi-luppa una teoria generale delle forme di mercato, in cui ilpotere delle imprese di fissare i prezzi dipende dall’altezzadelle “barriere all’ingresso” nel loro mercato di riferimento6.Qualora non ci siano barriere di alcun tipo, ci troviamo nelcaso della concorrenza perfetta, e l’impresa non ha alcunpotere di mercato. Nel suo modello econometrico dell’econo-mia italiana Sylos ipotizzerà che questo è il caso più diffusoin agricoltura. Nel caso di barriere invalicabili, ad esempioper la presenza di un brevetto, siamo nel monopolio, in cuil’impresa ha il massimo potere di mercato possibile, tempe-rato solo dalla domanda dei consumatori (ovvero il fatto chepiù sale il prezzo meno sono gli acquirenti).

Ma il caso più tipico, quantomeno nell’industria, è l’oligopo-lio, in cui esistono barriere all’ingresso di potenziali nuovicompetitors, ma queste non sono invalicabili. Tipicamente, sitratta di barriere tecnologiche (ad esempio è necessario soste-nere alti costi fissi, come la costruzione di grandi impianti,per poter entrare in un mercato), o della presenza di marchi edaltre forme di fidelizzazione della clientela (che per i nuovientranti implicano la necessità di forti investimenti pubblici-tari). In questo caso le imprese hanno il potere di fissare ilprezzo, un potere tanto maggiore quanto più alte sono le bar-riere all’ingresso di potenziali nuove imprese. Anzi - e questoè uno degli aspetti più interessanti della teoria di Sylos - l’al-tezza delle barriere all’ingresso dipende proprio da come leimprese presenti nel mercato sfruttano il loro potere.

Le conseguenze dell’austerity sono anche

politiche: a partire dalla crisi delle

socialdemocrazie europee e dall’ascesa dei

movimenti populisti sia di destra che di sinistra

In particolare, se le imprese “resistono alla tentazione” diporre un prezzo troppo alto (come invece prevede la teoriadominante), possono fissarne uno che gli garantisca comun-que profitti accettabili, ma sufficientemente basso da impe-dire che chi eventualmente volesse entrare nel mercato possapoi recuperare tramite le vendite l’investimento fatto. In altreparole, un prezzo relativamente basso scoraggia i potenzialicompetitors, perché ne influenza i calcoli di profittabilità, epermette così alle imprese oligopolistiche di godere di profittinon “massimi”, ma comunque superiori a quelli dei settori inconcorrenza.Anche la diagnosi della crisi strisciante negli Usa all’iniziodegli anni 2000, richiamata all’inizio, parte dall’analisi delladiffusione degli oligopoli e dalle sue conseguenze. AnzituttoSylos nota come una conseguenza delle posizioni oligopoli-stiche è che i prezzi diventano molto più rigidi, perché alvariare della domanda le imprese preferiscono variare lequantità prodotte anziché i prezzi (che, come abbiamo detto,determinano le barriere all’entrata nei loro mercati). Ma senzafenomeni generalizzati di deflazione dei prezzi è molto piùdifficile diagnosticare una crisi su larga scala: questa avràprincipalmente la forma di un aumento della disoccupazionee di un calo della domanda. Inoltre, i top managers delleimprese oligopolistiche riusciranno ad appropriarsi di unaparte degli alti profitti, contribuendo così da un lato al peggio-

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4 Si veda M. CORSI, Il mestiere dell’economista secondo Paolo SylosLabini, in Economia e Lavoro, n. 3/2007, vol. XLI, pp. 15-21.

5 Si rimanda il lettore interessato agli articoli in memoria riportati sul sitodell’associazione Paolo Sylos Labini: http://www.syloslabini.info/online/paolo-sylos-labini/

6 Sull’argomento si rimanda al carteggio di Paolo Sylos Labini con FrancoModigliani, pubblicato sul numero di settembre 2014 della rivista dedicataal suo nome, la PSL Quarterly Review, insieme ai commenti di AlessandroRoncaglia e Antonella Rancan: http://ojs.uniroma1.it/index.php/PSLQuarterlyReview/issue/view/1060

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ramento delle diseguaglianze dei redditi e dall’altro alimen-tando bolle speculative nei mercati di Borsa e immobiliare. A loro volta questi due fenomeni aumentano la corsa all’inde-bitamento privato, stimolata da un lato dal desiderio di ridurrele diseguaglianze negli stili di vita tramite il consumo adebito, e dall’altro dagli alti guadagni possibili grazie allebolle speculative. Questi fenomeni sono tollerati, se non inco-raggiati, dalla banca centrale, che in maniera dogmatica con-sidera un problema solo il debito pubblico, anche quando,come nel caso degli Usa negli anni ’90, non lo è.Come si vede da questi brevi accenni, la diagnosi di SylosLabini (del 2002) anticipa di vari anni quelli che saranno iprincipali elementi della discussione sulle “spiegazioni” dellacrisi: la crescita delle diseguaglianze, le bolle finanziarie eimmobiliari, il debito insostenibile e le politiche economicheerrate. Quello che ha permesso a Sylos di anticipare molti deidibattiti che hanno seguito la crisi è stata la sua capacità difondare in una sintesi coerente l’analisi delle forme di mer-cato, della distribuzione dei redditi e delle dinamiche finan-ziarie: sintesi preclusa oggi, tra l’altro, dall’iper-specializza-zione degli economisti su ambiti di ricerca sempre piùristretti.L’ultimo degli elementi citati, le politiche errate, è anche ilprincipale imputato nel Manifesto contro la disoccupazionenell’Unione europea del 1998, firmato con Franco Modi-gliani, Jean-Paul Fitoussi, Beniamino Moro, Dennis Snower,Robert Solow e Alfred Steinherr. Anche questo documentorisulta di straordinaria attualità, come si vede dalle primis-sime parole di apertura: “Questo Manifesto mette in discus-sione una pericolosa convinzione che ha fatto presa sulleautorità politiche europee […] ovvero che un ristretto numerodi politiche dell’offerta vada destinato alla lotta contro la di-soccupazione, mentre le misure di gestione della domandaaggregata […] debbano essere utilizzate solo nella lotta con-tro l’inflazione”7. Questa perniciosa convinzione purtroppo

ha determinato anche la risposta di politica economica allacrisi dell’euro, che a parte una brevissima parentesi haescluso pressoché interamente politiche fiscali espansive,determinando un inutile e dannoso peggioramento della crisi. Le conseguenze, oltre che economiche e sociali, sono anchepolitiche: a partire dalla crisi delle socialdemocrazie europeee dall’ascesa dei movimenti populisti sia di destra che di sini-stra. Da questo punto di vista, quindi, risulta purtroppo diattualità per il lettore odierno anche il Saggio sulle classisociali, incentrato sull’importanza di riconoscere la centralitàsociale e politica della classe media, e di indurla a un’alleanzaprogressista con le classi più basse, anziché spingerla versol’alleanza conservatrice con le classi più alte8.

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7 Il testo completo è disponibile alla URL http://ojs.uniroma1.it/index.php/monetaecredito/article/viewFile/10871/10750

8 Il volume, che negli anni ’70 vendette più di 50.000 copie ed ebbe moltarisonanza internazionale, è oggi ripubblicato (2015) dall’editore Laterza.Sembra opportuno, infine, indirizzare il lettore interessato ad approfondireil pensiero di Sylos Labini verso due utili fonti. Anzitutto, in occasione deldecennale della scomparsa, l’Associazione Paolo Sylos Labini ha curatoun volume edito da Francesco Sylos Labini su “Paolo Sylos Labini eco-nomista e cittadino”, di prossima pubblicazione presso l’UniversitàSapienza Editrice. Più in generale, l’Archivio Sylos Labini raccoglieonline tutti i principali lavori dell’economista italiano, gratuitamente sca-ricabili dal sito dell’Università della Tuscia all’indirizzo http://dspace.uni-tus.it/handle/ 2067/163/

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Solitamente si colgono due aspetti dell’umanità delledonne e degli uomini: la dimensione interiore e psicolo-

gica e quella social-relazionale. A ciò i credenti aggiungonoquella “verticale”, legata al rapporto con il divino. Non man-cano le concezioni filosofiche per le quali l’altra persona ècostitutiva, per dir così, di ciò che io sono: non esistereisenza gli altri. Eppure, se la meraviglia è la passione filoso-fica per eccellenza, non dovremmo dimenticare mai l’inter-rogazione di fondo rivolta all’altro essere umano: tu chi sei?Sei come me? Sei simile a me? O sei talora profondamentediverso da me?Siamo legati da interessi comuni? Dovremmo acquisire laconsapevolezza di far parte della stessa classe sociale, o dellostesso genere, o della stessa generazione? Sì, ma poi fra me ete resterà un abisso, o almeno una distanza, e presto o tarditorneremo a dividerci e a configgere. Come diceva il vecchioEraclito, “polemos è padre di tutte le cose”. Per molti dei filo-sofi dell’esistenza, del resto, l’altro è sì a me intimamentelegato, ma il suo sguardo mi mette in soggezione. Oppure laconvivenza mi porta a subire la dittatura del “si”: si deve, sifa, si dice ciò che dicono, fanno, devono tutti/e. Il se stessodiviene un “si” stesso. La domanda resta comunque quella: “Tu chi sei”? E “chi sonoio per te?”. Si badi bene: non è un problema di coppia, legatosolo alle diadi, riguardante gli innamorati, o i fratelli, o i geni-tori rispetto al proprio figlio. Ѐ un problema eminentementepolitico: come posso con-vivere con uno sconosciuto? Omeglio: con tanti sconosciuti? Praticando una sorta di solida-rietà fra estranei, mi suggerisce Habermas. E qui il problemadiviene un rompicapo: per certi versi è grazie all’altro che ilsingolo è ciò che è. Una sorta di riflesso (colmo certo di pecu-liarità) dell’altro, degli altri. Concepire l’individuo è semprepossibile, come sono possibili gli artifici. Al fondo, però, ilmio volto si riflette in quello dell’altro. Per dirla col saggioHume, potrei disporre del mondo intero, ma non sarei felicese ne godessi in solitudine.E qui si insinuano due parole che oggi vanno assumendo

valenze quasi magiche: condivisione e relazione. E siamo alquesito originario: con chi? Con chi e perché dovrei relazio-narmi, con chi e perché dovrei condividere qualcosa di mio odi me?Ecco uno degli aspetti della politicità della filosofia e dellavita stessa. Da credente, accolgo il suggerimento di Levinas:“La traccia non è una parola in più: essa è la prossimità diDio nel volto del mio prossimo”. Il Signore non è in quelvolto, è ad esso prossimo. E la traccia non è una parola: èvicinanza.Come pormi, però, dinanzi alla dimensione “macro”?Quando, cioè, accanto al mio prossimo scorgo migliaia emilioni e miliardi di altri volti, di “terzi” volti, per lo piùsenza nome? Quegli altri chi sono? E io cosa rappresentoper loro?Ecco, forse mi avvicino al cuore del problema: la politica micostringe a pormi accanto ad altri al fine di divenire consape-vole del loro carico di domande, di problemi, di angosce. Iltuo volto non riesco sempre a scorgerlo. Posso però immagi-nare l’espressione interrogativa del tuo viso. Posso immagi-nare. Per Max Weber la politica è l’arte dell’impossibile: e sel’ “impossibile”, la tensione verso il limite delle possibilitàconsistesse nell’immaginare le espressioni, le paure, ledomande di migliaia e migliaia di esseri umani? E di imma-ginare nel loro volto la prossimità di Dio?In definitiva non è, non deve essere, il “politeismo deivalori” a coinvolgermi troppo. Ѐ l’immagine, la facoltà diimmaginare il volto di quei tanti, a spingermi ad agire. Edinanzi a chi vuol impedire ad altri di continuare a espri-mere paure e richieste, a dire tacendo o parlando, comeposso pormi se non provando a far prevalere la ragionevo-lezza? Sì, perché cos’è la ragionevolezza se non il tentativodi non spegnere volti ed espressioni? E cos’è l’irragione-vole pretesa di singoli o di gruppi di affermarsi soppri-mendo coloro che ignorano (gli altri, per l’appunto), se nonla negazione della possibilità stessa di continuare a chie-dersi: tu chi sei?

>>>> meditazioni

Le radici della politica>>>> Danilo Di Matteo

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Governare il cambiamento era il titolo della prima confe-renza programmatica del Psi, quella di Rimini del 1982.

Il titolo lo scelse Craxi. Io proponevo Rifare l’Italia, ed incuor mio pensavo a quel changer la vie col quale l’annoprima Mitterrand aveva portato al successo l’unione dellasinistra. Lui mi obiettò che il riformismo non poteva esserepiù dirigista, perché la società stava cambiando da sola.Alcuni anni dopo il concetto sarebbe stato ripreso da Bobbio,che al nostro convegno sul riformismo del 1985 si era chiestose il riformismo fosse ancora possibile, “almeno nel senso incui è stato inteso all’interno della sinistra”, e cioè “comeazione o insieme di azioni prolungantisi nel tempo indirizzateal cambiamento in base a progetti”. Poi, più modestamente,da Alberto Benzoni in un prezioso pamphlet sul craxismo: ilriformismo non poteva più essere “il superamento dell’ordineesistente attraverso l’azione cosciente della politica”. Ora sitrattava “di capire, sostenere ed eventualmente orientare l’e-voluzione spontanea e multiforme della società”. Al di là della nostalgia, lo slogan di allora è di evidente attua-lità. Ma ancora più attuale, per quello che ci riguarda, è recu-perare lo spirito col quale lavorammo in quell’occasione. Sitrattava di modificare sia la percezione che di noi avevano glialtri partiti, sia la percezione che noi avevamo di noi stessi:lasciandoci alle spalle una stagione in cui eravamo stati unasinistra nel governo, ma non una sinistra di governo. Nei ven-t’anni precedenti, infatti, eravamo stati una sinistra che sisforzava di aggiungere all’agenda di governi diretti da altriproposte che in gran parte venivano elaborate da altri ancora.Ora invece l’agenda pretendevamo di proporla noi.Gli osservatori più attenti, anche i meno vicini, se ne accor-sero subito. Sulla Repubblica, per esempio, Giuseppe Turanisegnalò che, proponendo “minor costo del denaro, maggioreflessibilità del fattore lavoro, spesa pubblica e assistenzialemeno dispendiosa“, il Psi voleva “consentire al sistema eco-nomico di correre più in fretta e meglio” verso la sfida dellaterza rivoluzione industriale. Mentre Miriam Mafai colse neinostri discorsi “il riconoscimento di una complessità socialesulla quale non è pensabile intervenire con un rigido disegno

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Governare il cambiamento>>>> Luigi Covatta

Il 30 e 31 ottobre si è tenuta a Roma la Conferenzaprogrammatica del Psi. Le relazioni introduttive del

direttore di Mondoperaio Luigi Covatta e del direttoredell’AvantionlineMauro Del Bue sono state precedutedagli interventi di Carlo Vizzini, presidente del Consiglionazionale del Psi, del segretario della Fgs RobertoSajeva, della portavoce del Psi Maria Pisani e di UgoIntini. Successivamente si sono riuniti sei gruppi di lavorotematici: Le istituzioni della democrazia, coordinatoda Enrico Buemi; La tutela del territorio, coordinatoda Oreste Pastorelli; La società solidale, coordinatoda Elisa Sassoli; Pace e sicurezza, coordinato da BoboCraxi; Lavorare meglio, lavorare tutti, coordinato daGianpiero Magnani; La libertà delle persone, coordinatoda Pia Locatelli. Nei gruppi di lavoro sono intervenuti fra gli altri:Marco Andreini, Antonio Badini, Maurizio Balli-streri, Franco Benaglia, Michele Bertasi, Felice Be-sostri, Massimo Biagioni, Felice Borgoglio, SalvatoreBraschi, Giampiero Buonomo, Luigi Capogrossi,Loreto Del Cimmuto, Rita Cinti Luciani, GiovanniCrema, Paolo Cristoni, Alessandro De Rossi, ValerianoDelicio, Alberto Famoni, Fabio Ferrario, Daniele Fi-chera, Ivano Fioravanti, Rocco Fiorino, AldoForbice, Andrea Galgano, Elisa Gambardella, Fran-cesco Giacobone, Giovanni Giribuola, Sonia Gradi-lone, Francesco Gugliotti, Vincenzo Iacovissi, LuigiIorio, Gianni Iuliano, Barbara La Rosa, Nicla Loiu-dice, Andrea Maccarone, Giuseppe Mammarella, Ago-stina Mancini, Nicola Marzo, Giovanni Milana, TinaNuti, Giorgio Panizzi, Vito Panzarella, Michele Pa-scale, Enrico Maria Pedrelli, Walter Pedullà, GiulianoPennisi, Vincenzo Pepe, Marco Polizzi, Mauro Quer-cioli, Francesco Reggiani, Enrico Ricciuto, StefanoRolando, Luciano Romanzi, Giuseppe Sacco, Paolo

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programmatore”: per cui “la forte carica programmatoria chenel primo centrosinistra era indirizzata verso il sistema eco-nomico” si trasferiva “sul problema delle istituzioni e del fun-zionamento dello Stato”. La Mafai registrò anche “una visione della società che fatabula rasa non solo delle tradizionali analisi della sinistra, maanche di ogni forma di antagonismo sociale”: tanto che “allacontrapposizione destra-sinistra si è sostituita la contrapposi-zione vecchio-nuovo”. Sembra scritto ieri.Nella nostra visione, tuttavia, la contrapposizione vecchio-nuovo non si sostituiva a quella destra-sinistra, ma la inte-grava e la rafforzava. Nella storia del movimento socialista,infatti, l’alleanza fra merito e bisogno (fra chi può e chi devecambiare) viene prima della “pietrificata sociologia marxistadelle classi” che Martelli ci invitava a superare. La sua propo-sta si collocava quindi nel perimetro della sinistra, senza peròtemere di farsi ennemis à gauche: anzi, sfidando quanti siostinavano ad inseguire “una rivoluzione che non c’è” invecedi cercare di governare “la rivoluzione che è in atto”. Edanche questo sembra detto ieri.

La tela della seconda Repubblica fu

paradossalmente tessuta proprio da quanti

allora accusavano Craxi di perseguirla

Così come sembra scritta ieri, anche se sotto altre testate econtro altri obiettivi, la replica ottusa dell’Unità: che per lapenna di Antonio Caprarica accusava Martelli di spiegare “chele classi non esistono”, e ironizzava a Francesco Alberoni, cheaveva sì “riscoperto la forza dello sviluppo dell’individuo insocietà che si avviano lungo la strada ella demassificazione”,ma aveva appena rilasciato “un’intervista ad Amica corredatadalle foto di modelli del noto stilista Versace”.Nonostante la modestia degli avversari, tuttavia, quella sfidaalla fine fu persa, come sappiamo fin troppo bene. Ma si deveancora stabilire se fu persa perché osammo troppo o perchéosammo troppo poco. Personalmente, penso che osammotroppo poco: ed è per questo, fra l’altro, che non nutro nes-suna nostalgia per l’accomodante socialismo precraxiano, emi preoccupo quando la vedo riaffiorare nel socialismo post-craxiano. Osammo troppo poco in attacco: nel 1985, quando rinun-ciammo a scommettere fino in fondo su quella maggioranzariformista che si era manifestata nel referendum sulla scalamobile; e nel 1987, quando rinunciammo a sfidare fino infondo la pretesa partitocratica di De Mita e del suo “patto

della staffetta”, e non riuscimmo a sottoporre direttamente ilgoverno Craxi al giudizio degli elettori. Ed osammo troppopoco anche in difesa: quando nel 1991 rinunciammo a provo-care le elezioni anticipate che avrebbero evitato il referendumsulla preferenza unica; e quando nel 1993 non reagimmo allostrappo costituzionale operato da Scalfaro sul “decretoConso”. Non era facile, peraltro, osare. Proprio nel 1987, per esempio,il direttore di Panorama Claudio Rinaldi ammoniva Craxi anon osare troppo: perché “l’Italia, anche per merito delgoverno Craxi, è il quinto paese più industrializzato delmondo”, e di conseguenza “sono pochi quelli che davveroavvertono la necessità di tessere una seconda Repubblica”.Come invece sappiamo, la tela della seconda Repubblica fuparadossalmente tessuta proprio da quanti allora accusavanoCraxi di perseguirla: il che forse spiega la salute malferma dicui essa ha sofferto nel ventennio in cui è vissuta, anche senon spiega l’assenza di prospettiva che caratterizzò quel con-cepimento tutt’altro che immacolato.Il sistema politico della seconda Repubblica, infatti, non si èformato secondo una qualche prospettiva individuata da chilo aveva creato, ma – come ho già scritto su Mondoperaio –attraverso quella che Gramsci avrebbe definito una “rivolu-zione passiva” e Darwin un adattamento opportunisticoall’ambiente: all’ambiente creato dalla geometrica potenzadell’intreccio fra introduzione del maggioritario e fine dellaconventio ad excludendum.Il maggioritario della legge Mattarella (insieme con l’evapo-razione della Dc) consentì il gioco di prestigio con cui Berlu-sconi mise insieme Lega, Alleanza nazionale ed elettoratomoderato, tirando fuori dal cappello quel centrodestra che inItalia non c’era mai stato: come, alla vigilia dell’approvazione

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Sartori, Nicola Savino, Leonardo Scimmi, AgostinoSiciliano, Carlo Sorrente, Carlo Troilo, Carlo Uberti-ni, Bruno Zanardi, Sergio Zanetti. I materiali su cuihanno discusso i gruppi di lavoro verranno pubblicatiin un e-book, ed approfonditi in conferenze tematicheche avranno luogo nei prossimi mesi.Le conclusioni di Riccardo Nencini sono state precedutedagli interventi del nuovo sindaco di Matera RaffaelloDe Ruggieri, del segretario del Partito socialista un-gherese Jozsef Tobias, di Elisabetta Cianfanelli e diErnesto Galli della Loggia.

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della nuova legge elettorale, segnalò nella generale indiffe-renza Ernesto Galli della Loggia, che fece presente come l’e-lettorato conservatore fosse stato “per decenni convogliatoforzatamente al centro”. Mentre la fine della conventio adexcludendum (del tutto preterintenzionale, peraltro, perquanto li riguardava) convinse i postcomunisti di disporre diuna cultura di governo bell’e pronta che solo a causa dell’o-diosa discriminazione non aveva potuto manifestarsi prima.Fu così, come scrisse allora Mauro Calise, che milioni di ita-liani ebbero l’opportunità “di liberarsi del proprio passatodepositando nell’urna, a costo zero, una scheda sacrificale”.Con la conseguenza che la mitica “società civile” ebbe la pos-sibilità non solo di autoassolversi, ma di consolidare la propriadimensione corporativa: lasciando alla Casta l’onere di sbri-gare gli affari correnti e l’onore di fare da capro espiatorioquando qualcosa non funzionava. Del resto il popolo dei fax, lemigliaia di tricoteuses che seguivano le cronache di Paolo Bro-sio sul Tg4, le oceaniche maggioranze referendarie si guarda-rono bene dall’investire anche qualche spicciolo sul Mosè cheli aveva liberati dalla cattività della prima Repubblica: quelMario Segni che rientrò in Parlamento solo grazie all’esecrataquota proporzionale. Mentre scienziati della politica che ancoraimperversano dalle cattedre dei principali quotidiani potevanosostenere sul Mulino, prima delle elezioni del 1994, che “ladestra non può vincere le elezioni”, e che “solo la sinistra, se cimette molto impegno, può sperare di perderle”.

Renzi riesce a vincere perché opera nel vuoto

della politica, ed ha per avversari principali

un blog e un algoritmo

È anche grazie a questa genetica desertificazione della culturapolitica, del resto, che il nuovo sistema ha potuto sopravvi-vere a lungo al tradimento delle promesse che lo avevano giu-stificato e legittimato. Ricordiamole solo per un attimo:innanzitutto, la fine della corruzione; poi, la governabilità;poi ancora, la semplificazione del sistema dei partiti; infine,un rapporto più diretto fra eletti ed elettori.Della corruzione e della governabilità è meglio che non par-liamo. Così come è meglio che non parliamo del rapporto fraeletti ed elettori, visto che si è passati da quella vera e propriascuola di paracadutismo che – per consentire di lottizzare icollegi sicuri fra i numerosi commensali coalizzati – fiorì colMattarellum, al più ordinato afflusso di nominati nelle auleparlamentari regolato dal Porcellum.

Solo nel 2008, invece, si arrivò ad una relativa semplifica-zione del sistema dei partiti (di cui furono vittime, come sap-piamo, anche i socialisti). Ma non è un caso che quella legi-slatura produsse il disastro del 2011, con l’avvento di ungoverno “tecnico” dopo numerose scissioni di partiti e cospi-cue transumanze di parlamentari: a dimostrazione che i partitidella seconda Repubblica avevano la bocca più grande dellostomaco. L’unica promessa effettivamente mantenuta è stataquella dell’alternanza: ma, a ben vedere, più per merito dellalegge del pendolo che dell’ingegneria elettorale, visto che invent’anni non è mai capitato che il governo uscente venisseconfermato dagli elettori.Neanche il governo in carica, del resto, sembra che aspiri adessere confermato dagli elettori in quanto tale: mentre vi aspi-rano con tutta evidenza il suo leader ed il partito di cui èsegretario. Il paradosso è che questo partito ora governa (consuccesso) alla guida di una coalizione che non si è formatanelle urne ma è il frutto di diverse manovre di palazzo: mentreil partito che pretende di rappresentare in esclusiva il governodavanti agli elettori ha il suo punto debole proprio al suointerno. Discuteremo se questo paradosso giustifica una cor-rezione della legge elettorale, in modo che sia la coalizione digoverno a sottoporsi al giudizio degli elettori. Ma è indiscuti-bile che, qualunque sia la soluzione cui si perverrà, non saràessa a sciogliere il paradosso.Qualche settimana fa Michele Salvati si chiedeva sul Corriereperché Renzi, oltre a vincere, non riesce a convincere. Primaperò bisognerebbe chiedersi perché Renzi riesce a vincere: ela risposta è perché opera nel vuoto della politica, ed ha peravversari principali un blog e un algoritmo. Renzi vince, cioè,perché non si deve confrontare con “classi dirigenti ade-guate”: senza le quali, però, difficilmente un abile uomo poli-tico si trasforma in grande statista, come dice Salvati citandoRaffaele Mattioli; e senza le quali, appunto, si vince ma nonsi convince. Solo nel caso del Jobs Act, in realtà, Renzi ha vinto e con-vinto: ma in questo caso erano innanzitutto i sindacati a nondisporre di “classi dirigenti adeguate”, se è vero come è veroche si sono attardati nella difesa dell’articolo diciotto invecedi cogliere l’occasione per svuotare la sacca di precariato chesi era formata a partire dal pacchetto Treu del primo governoProdi: a testimonianza che non c’è niente di peggio della fles-sibilità in deroga al posto della flessibilità regolata.Sulla scuola, invece, Renzi non ha né vinto, né con-vinto, come hanno spiegato bene nel numero di ottobredi Mondoperaio Giovanni Cominelli ed Anita Grami-

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gna. Non ha vinto, perché le mediazioni cui è statocostretto in Parlamento hanno castrato la riforma dellasua finalità (quella di attuare davvero l’autonomia sco-lastica), fino a ridurla a una maxisanatoria: per giuntasporcata dall’uso disinvolto di legge 104, certificatimedici e affini. Ma non ha neanche convinto, se è potutocapitare che Repubblica definisse “la svolta americana”l’esperimento con cui al liceo Parini di Milano si stannoapplicando né più né meno che i principi cui si ispiravala “buona scuola”: a testimonianza che, con buona pacedegli esperti di comunicazione di cui si circonda, il capodel governo non è riuscito neanche a tutelare un copy-right al quale pure teneva moltissimo.Eppure, nel caso della scuola, era stato condotto un sondaggiodi massa attraverso la mitica rete, quasi imitando i rituali acinque stelle: che evidentemente non bastano, però, a farecultura politica, e neanche ad acquisire consenso. Non è ilmetodo, infatti, a garantire consenso a Grillo. Sempre conbuona pace dei sullodati esperti di comunicazione e di altritardi epigoni di McLuhan, infatti, in questo caso il mezzo nonè il messaggio. Ed il messaggio di Grillo, al di là delle appa-renze e della stessa decenza estetica, è estremamente attuale:nel senso che si adatta alla perfezione al contesto in cui sisvolge oggi la nostra vita politica.Cito ancora Mauro Calise. Sul Mattino ha individuato in

Beppe Grillo “un vero e proprio specialista del lessico multi-partito”, tanto che “continua a pescare a piene mani tra glielettori ex di destra ed ex di sinistra”. Ed il contesto che valo-rizza l’abilità di Grillo è quello per cui “si fa ormai fatica aposizionare i tre poli sull’asse destra-sinistra”, mentre “si stadisintegrando in Italia anche l’asse centro-periferia, che eratenuto insieme dai partiti, fin quando hanno funzionato”.

Orfini ha scoperto ad ottobre del 2015

quello che per noi era chiaro a maggio del 2013,

e cioè che non si poteva votare per un Marino

che si promuoveva con lo slogan

“non è politica, è Roma”

Per capire meglio questa seconda affermazione, citofonareOrfini: il quale ha scoperto ad ottobre del 2015 quello che pernoi era chiaro a maggio del 2013, e cioè che non si potevavotare per un Marino che si promuoveva con lo slogan “nonè politica, è Roma”. E che però ha fischiato il game over solodopo la storia degli scontrini, quasi interinando l’etica pub-blica dei 5 stelle. D’altra parte è inutile rincorrere Grilloanche sull’altro terreno, quello del “multipartito”: almeno finquando la rigidità dei meccanismi elettorali terrà artificial-mente in piedi il teatrino della politica degli ultimi vent’anni,

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nel cui cartellone il bipartitismo imperfetto è stato sostituitodal bipolarismo coatto. È questa restrizione artificiale dell’offerta politica, infatti, che fala fortuna di Grillo. Ed è sconcertante vedere tanti scienziati dellapolitica discettare di ripristino del bipolarismo senza considerareche ormai i poli sono tre, e che tutti e tre insieme, comunque, fati-cano a governare una conflittualità sociale che per ora è punti-forme, ma che i numerosi fattori di crisi presenti in Italia e fuoripossono generalizzare da un momento all’altro.Personalmente sono rimasto molto colpito, come ho detto suMondoperaio, vedendo il video del capo del personale di AirFrance che scavalca in mutande un cancello per sottrarsi allafuria dei dimostranti: proprio in Francia, cioè nel paese in cuiil bipolarismo cartesiano della quinta Repubblica era riuscitoperfino a far durare soltanto un mese il mitico maggio del ’68.

Sarebbe ormai tempo che la “sezione italiana

del Pse” – e cioè il Psi e il Pd – sollecitasse

la convocazione di un congresso straordinario

del Pse per discutere della crisi che sta

scuotendo l’Unione

La rivista che oggi indegnamente dirigo fu la prima, quaran-t’anni fa, a violare il tabù della “centralità del parlamento” ea criticare – anche ispirandosi al “modello francese” – lademocrazia consociativa. Non siamo sospettabili, quindi, disoffrire del “complesso del tiranno” se ora proponiamo di vol-tare pagina, e di valutare con l’opportuno disincanto gli esitidi una stagione che noi stessi abbiamo in qualche modo inau-gurato.In un contesto come quello che abbiamo davanti, infatti, nonc’è bisogno di essere dei rottami della prima Repubblicacome me per auspicare l’avvento di un sistema politico piùflessibile di quello che ci si prospetta, e la rivalutazione deipregi della democrazia parlamentare: anche considerando chela promessa della governabilità attraverso il maggioritarionon è stata mantenuta, e che in questi vent’anni sono nati piùpartiti degli eletti che partiti degli elettori. La questione, come si può capire, trascende ampiamente siala disputa in corso sull’assegnazione del premio di maggio-ranza, sia le iniziative avviate in sede giurisdizionale control’Italicum: che potrebbero anzi rivelarsi improvvide se riget-tate per motivi procedurali, e devastanti per l’autonomia delpotere legislativo se valutate nel merito. La questione, anzi, trascende la stessa materia elettorale, se è

vero che un sistema politico non si forma solo attraverso leregole che misurano i rapporti di forza, ma anche (se nonsoprattutto) fissando i criteri che regolano i rapporti fra leforze. Tanto che oggi l’obiettivo della “democrazia gover-nante” – che abbiamo indicato noi per primi, e che per noiresta valido anche a quarant’anni di distanza – in Germania simostra compatibile col proporzionale e con la forma parla-mentare di governo, mentre in Francia si allontana sempre piùdall’orizzonte. Finora mi sono dilungato sulle cause endogene della crisi delnostro sistema politico. Ad esse ovviamente vanno aggiuntele cause esogene. Non solo quelle derivanti dalla tempestaperfetta che sta scuotendo la comunità internazionale: chepure, con la crisi dei migranti, ha avuto un tale impatto sugliStati membri dell’Unione europea da giustificare l’afferma-zione del nostro presidente del Consiglio quando ha indivi-duato nella linea di frattura che distingue gli uomini dallebestie un nuovo criterio di selezione delle forze politiche.Soprattutto quelli legati alla nostra cessione di sovranitàall’Unione europea. È infatti evidente che da essa sono con-dizionate l’efficienza e l‘autorevolezza dei sistemi politicinazionali, ma non ancora l’identità delle forze politiche, vistoanche il deficit democratico che affligge la governance del-l’Unione. A questo proposito sarebbe ormai tempo che la “sezione ita-liana del Pse” – e cioè il Psi e il Pd – sollecitasse la convoca-zione di un congresso straordinario del Pse per discutere dellacrisi che sta scuotendo l’Unione. E pazienza se un’iniziativacomune del Pd e del Psi fa venire in mente l’unione fra l’ele-fante e la farfalla: tutti sanno quanto può far male una farfallache vola a Singapore. Come si vede, ce n’è abbastanza per aprire una grande stagionecostituente: magari individuando sedi che ci mettano al riparodalle umilianti pratiche cui abbiamo assistito nell’esercizio delpotere costituente da parte di un Parlamento di dubbia legitti-mità e di incerto indirizzo politico. Dopo il colpo di picconedella riforma del Senato, che bene o male ha aperto il cantiere,c’è infatti da ristrutturare l’intero edificio istituzionale, se sivuole garantirne l’equilibrio e migliorarne la funzionalità. Lo si è visto già in sede di approvazione della stessa leggeBoschi, quando il governo non si è opposto all’ordine delgiorno presentato dal senatore Ranucci sull’accorpamentodelle regioni. E pazienza se due anni fa, quando una propostasimile venne avanzata dalla Società geografica italiana, lastampa trattò la notizia come un serpente di mare, e solo Mon-doperaio la prese sul serio, nell’ottica di dare un senso al

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tanto conclamato “federalismo”. Questo è pur sempre il paesein cui i “federalisti” della Lega, invece di trasferire i poteri delgoverno centrale alle regioni, trasferirono gli uffici delgoverno centrale nelle regioni; ed in cui altri federalistiimprovvisati, per fare dispetto alla Lega, approvarono ilnuovo Titolo V della Costituzione con quattro voti di scarto.Ma ci sono molte altre questioni da regolare. Ne ho già parlatonegli ultimi numeri della rivista: per esempio, l’ampiezza dellacessione di sovranità nei confronti dell’Unione europea, che nonpuò essere definita solo dall’articolo 11 o dall’articolo 81 rifor-mato; la razionalità degli assetti del potere locale, che non si puòdeterminare solo con l’abolizione delle province; l’omogeneitàfra sistemi elettorali locali e sistema elettorale nazionale, senza laquale si incentiva il cacicchismo e si ostacola il ruolo nazionaledei partiti; l’esondazione del potere giudiziario, che non puòridursi a questione di efficienza del sistema giustizia. Resta anche(e soprattutto, con l’aria che tira) l’opportunità di confermare iprincipi della prima parte della Costituzione: che non sono affattoscontati in una situazione in cui, oltre alla coesione sociale, sem-bra a rischio la stessa coesione culturale della nazione.

C’è piccolo partito e piccolo partito: c’è chi può

vantare nel proprio albero genealogico sia

Agostino Viviani che Giuliano Vassalli, e chi può

vantare si e no la Severino

Non sembri inappropriato o contraddittorio, a questo propo-sito, rivendicare anche il ruolo dei partiti: magari cominciandoa dare attuazione all’articolo 49 della Costituzione e ponendofine a pratiche destrutturanti e delegittimanti quali quelle chehanno punteggiato il ventennio che abbiamo alle spalle. Infattiil concetto di partito non è necessariamente divisivo, comevorrebbe il manzonismo degli Stenterelli della secondaRepubblica, per i quali si è tanto più “partito” quanto più ci sicolloca “o di qua o di là”, e soprattutto quanto meno numerosisono i posti a tavola. Il concetto di partito è invece unitivo, come insegna la gram-matica della politica democratica: perché in prima approssi-mazione unisce una porzione della cittadinanza attorno a un’i-dea e ad un programma; e in prospettiva consente alle diverseporzioni della cittadinanza di unirsi per perseguire il benecomune. Ed è tanto più unitivo nella società della disinterme-diazione, in cui inevitabilmente perdono peso i corpi intermedilegati alla rappresentanza di interessi, e sono invece più prati-cabili di un tempo le aggregazioni di opinione e le comunità

elettive. Tanto che può darsi che siano proprio partiti dotatidella necessaria cultura politica a creare quel ”consenso d’opi-nione” che sul Corriere evocava qualche giorno fa GiuseppeDe Rita, nel prendere atto da un lato dell’obsolescenza del“consenso organizzato” e del “consenso di fatto”, e dall’altrodella necessità di aggregare “collettive intenzioni” anche peraccelerare la ripresa economica. A questo punto qualcuno mi accuserà di astrattismo e dimegalomania, vista l’evidente sproporzione fra gli obiettiviche ho suggerito e la forza di questo piccolo partito. Ma unpiccolo partito può portare a casa la legge sulla responsabilitàcivile dei giudici che tanto angoscia l’Anm: così come, d’altraparte, può alzare un polverone sulla gestione dell’agenziadelle entrate alla vigilia della discussione della legge di stabi-lità. Il fatto è che c’è piccolo partito e piccolo partito: c’è chipuò vantare nel proprio albero genealogico sia AgostinoViviani che Giuliano Vassalli, e chi può vantare si e no laSeverino. Ed un piccolo partito ha diritto di esistere solo se èportatore di un grande messaggio: altrimenti si colloca nellastoria del ceto politico, non in quella della nazione. Senza direche il ceto politico in carica è così mediocre da essere statoscalato non solo, a suo tempo, da un quasi outsider come Ber-lusconi, ma più di recente da due outsider autentici comeMatteo Renzi e Beppe Grillo. E che è perfino possibile che unanziano signore con le idee giuste mandi all’opposizione lacorazzata del Pd: come, con l’appoggio dei socialisti, è acca-duto qualche mese fa a Matera. Ai blocchi di partenza, quindi, non manca una relativauguaglianza delle opportunità, anche se purtroppo è stataraggiunta più per l’arretramento delle teste di serie che perla capacità dei gregari. A Napoli c’è una storiella un po’volgare, ma che rende bene l’idea di quanto i ruoli sianorelativi. Nelle acque maleodoranti di un porto galleggianonumerosi rifiuti organici. Ma a un certo punto da una navecade in mare una cassa di arance, che in napoletano si chia-mano purtualle, e che a loro volta finiscono per galleggiarenel porto. Per cui un rifiuto organico dice sorridente all’al-tro: Simme tutte purtualle. Nelle acque poco limpide in cuisi è insabbiata la seconda Repubblica, che ci siamo cadutio che ci fossimo già, simme tutte purtualle. E comunquesia, per me vale sempre la battuta di Manieri in uno deiprimi film dei fratelli Taviani, San Michele aveva un gallo.Manieri era un patriota condannato all’ergastolo chesopravviveva facendo comizi in cella. E quando i carcerierilo prendevano in giro, rispondeva: “Meglio ridicoli che ras-segnati”.

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Massimo Cacciari, trasformato in brillante commentatoretelevisivo, ha rilevato, anche alla luce del caso Marino,

che la politica deve essere una professione e che senza la sele-zione nei partiti non si forma una classe dirigente. Grazie per larivelazione dell’uovo di Colombo. Noi l’avevamo già intuitoqualche tempo fa. Dopo la fase del nuovismo degli anninovanta e quella della rottamazione degli anni duemila pare chesi apra cosi la nuova fase del rimpianto: com’erano belle le sta-gioni di una volta, le mamme di una volta, le ciambelle di unavolta, e perché no, anche i partiti di una volta. Due anni orsono abbiamo eletto un presidente della Camerache non era mai stato deputato e un presidente del Senato chenon era mai stato senatore. Sono stati nominati un Alto com-missario europeo alla politica internazionale che non aveva maifatto il commissario né il parlamentare europeo, nonché mini-stri senza un minimo trascorso politico. Ecco, se davvero tra-montasse l’epoca in cui nell’attività politica l’inesperienzadiventa la virtù principale e la qualità fondamentale di un par-tito è di non avere una storia, credo che noi realizzeremmo lapiù importante delle riforme. C’è poi bisogno di una riforma lessicale, perché il lessico cor-rente nasconde spesso un alto tasso di ambiguità politica. Ce loha ricordato un famoso editorialista su un giornale di grandetiratura. Se dobbiamo – come dovremmo – impegnarci in unaguerra contro i barbari dell’Isis, la chiamiamo “missione dipace”; il Senato, giustamente dimezzato, non sarà né elettodirettamente, né indirettamente, ma designato: e sapete comeabbiamo definito quello che in tutto il mondo si chiama matri-monio gay? “Formazioni sociali specifiche”. Tra le tante contraddizioni di questo nostro tempo anche noi neabbiamo vissuta una. Chi ci accusava di perseguire una nostrasilenziosa e progressiva svendita a basso costo al Pd o si è tra-sferito lui stesso in quel partito o si appresta a collocarsi in unnuovo schieramento in cui, più che al risorgimento del sociali-smo italiano si mira alla decadenza dal socialismo europeo. Noisiamo qui per dare un messaggio a chi ci vuole seguire, a chicontinua a credere che debba esistere in Italia un’organizza-

zione autonoma di socialisti; siamo qui per garantire che lanostra comunità non solo non chiude bottega, ma anzi ne apreuna che non vende illusioni né almanacchi leopardiani, ma pro-getti e proposte concrete.Ci sono due motivi che ci spingono a esistere e a lottare ancora.Uno è di coerenza con la storia, così manipolata e strumentaliz-zata, così piegata a interessi di parte. Il Pd è oggi un partito delsocialismo europeo con una storia italiana tutta comunista e inparte minore democristiana. Dovendo piegarsi alle sue originirischia di apparire un partito centauro: socialista in Europa manon in Italia, dove i suoi punti di riferimento ideali restano Ber-linguer e Moro e Fanfani, ai quali vengono intestate sezioni,dedicate vie e piazze, promosse cerimonie di ricordo. Il suogiornale è l’Unità, fondato da Gramsci come quotidiano comu-nista nel 1924 in aperta polemica con l’Avanti!.

Non risulta che Renzi abbia rivolto

un appello ai socialisti affinché portino la loro

identità, la loro storia, le loro organizzazioni

dentro il suo partito

Renzi pare avere deciso così una netta divisione dei compiti.Agli ex comunisti qualche soddisfazione in più per la storia,agli ex democristiani molte soddisfazioni in più per la politica.Ma qualche infiltrazione di cinismo, anche se comprensibile efunzionale a esercitare una leadership, può contribuire ad avve-lenare la verità. Dei nostri è di moda ricordare il solo Pertini, inchiave di antifascista e di presidente di tutti gli italiani. La suaimmagine, a mo’ di simulacro, viene esposta anche nelle festedell’Unità. Poche settimane fa è morto Pietro Ingrao, un presti-gioso leader del comunismo italiano al quale tutti abbiamo resoomaggio. Nel giorno del suo funerale se n’è andato per sempre,nel silenzio generale, anche Mauro Ferri, già segretario deisocialisti democratici italiani, uomo della Resistenza, presi-dente della Corte costituzionale. Rimettiamo a posto la storia ed evitiamo di improvvisarci noimissionari dell’impossibile, e cioè trasformatori volontari e

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>>>> cambiando

Il coraggio delle idee>>>> Mauro Del Bue

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non richiesti del Pd in quello che almeno finora ha mostrato dinon voler diventare. Non mi risulta che Renzi abbia rivolto unappello ai socialisti affinché portino la loro identità, la loro sto-ria, le loro organizzazioni dentro il suo partito. Se così fossedovremmo discuterne. Ma ho registrato una maggiore propen-sione a costruire una sorta di Partito della nazione di stampo tri-colore, cioè bianco, rosso e Verdini, dove non possono confon-dersi il nostro garofano e la nostra rosa. Dunque mi pare che lascelta di aderire al Pd sia un po’ come quelle risposte date senzache ci siano le domande, cosa della quale parlava Karl Poppera proposito dell’educazione dei bambini. Se nessuno neppure cidomanda di aderire al Pd, perché mai qualcuno dei nostri hascelto di rispondere di sì?Di fronte al progressivo, incessante oscuramento, noi teniamoaccesa una luce. Lo abbiamo fatto anche dopo il 2008, e questogruppo dirigente deve essere orgoglioso di avere combattutoper resistere quando era più facile farla finita. Questo sforzoche continuiamo a fare è doveroso, è necessario, è giusto. Ma

per far questo basterebbe una Fondazione. Noi siamo un partitoche non può vivere di solo passato, anche se siamo l’unico par-tito del passato ancora vivo (faticosamente vivo).

Viviamo in una sorta di contraddizione

permanente tra un presidenzialismo

de facto e un parlamentarismo de iure

Ma veniamo alla bottega delle idee. Le riassumo cominciandodalla democrazia. Noi non possiamo non apprezzare il pro-cesso di riforme avviato dal governo Renzi, giudicandolomeglio del conservatorismo ispirato al rito del “giù le manidalla Costituzione” dei girotondini e dei sacerdoti del Vangelodella democrazia alla Stefano Rodotà. Preferiremmo però met-terci piuttosto che le mani la testa. Proponiamo un ragiona-mento semplice e chiaro, con una conseguenza logica. Pren-dendo un problema di qua e uno di là (la legge elettorale cam-biata tre volte in vent’anni, il Senato giustamente riformato in

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nome del superamento di un bicameralismo insopportabile einefficiente, il Titolo V della Costituzione con la riforma dellariforma) non si affronta il problema fondamentale del nostroassetto istituzionale, e cioè la scelta tra il modello presidenzialee quello parlamentare. Noi viviamo in una sorta di contraddi-zione permanente tra un presidenzialismo de facto e un parla-mentarismo de iure: continuiamo a parlare di presidenti elettidal popolo, di governi eletti dal popolo, quando invece ilpopolo (quando va bene, e non è costretto a non eleggere nep-pure quello) è chiamato a eleggere solo il Parlamento. Anche l’Italicum è ritagliato sul modello presidenzialista. L’i-dea stessa che l’elettorato debba decidere un vincitore si adattasolo all’elezione di un presidente, e non di un Parlamento dovesi eleggono solo singoli deputati. In quale paese esiste il dovereche l’elettorato scelga un vincitore alle elezioni politiche, comese fossero il Giro d’Italia? Solo nei paesi sorretti appunto dalpresidenzialismo, cioè quando si sceglie una persona, e cioè inFrancia e negli Stati Uniti d’America: ma solo in occasionedelle elezioni presidenziali, non certo in occasione delle ele-zioni politiche. Perfino in Grecia, dove esiste un premio cospicuo da destinareal primo partito, non è detto che il premio gli consenta di supe-rare la maggioranza assoluta. Tanto è vero che Tsipras, pur vin-cendo entrambe le elezioni, è stato costretto a un’alleanza l’unae l’altra volta. Per non parlare dell’Inghilterra dell’uninominalesecco, dove più volte sia i laburisti sia i conservatori sono staticostretti ad alleanze coi liberali. Si scelga allora con chiarezzail presidenzialismo. Noi lo facemmo già negli anni ottanta. La vera riforma dello Stato, cioè la scelta del suo modello, deveessere l’oggetto o di un’Assemblea costituente o di un referen-dum consultivo. Le due ipotesi mi si chiede di lasciarle all’ap-profondimento dei tavoli. Personalmente insisterei sulla prima,perché non vedo un solo motivo per abbandonare una propostache per primi abbiamo lanciato. Non è certo la riforma costitu-zionale appena approvata dal Senato che ci vieta di porre il pro-blema dell’assetto istituzionale complessivo dello Stato ita-liano: e magari di riscoprire la vecchia massima di PietroNenni, “o la Costituente o il caos”, che ben si adatta anche aigiorni nostri. Il Psi chieda subito una modifica dell’Italicum sul premio elet-torale, che si ritiene debba essere trasferito dalla prima lista allaprima coalizione. Tutti la rivendicano, Renzi per ora tace, e nonsi sa se acconsente. Gli vorrei ricordare che in caso di ballot-taggio coi grillini il rischio che una bella bistecca fiorentinaanneghi nel parmigiano non è così fuorviante. Si tratta di unformaggio ottimo, ma a Cinque stelle.

Questo ventennio, che noi abbiamo addirittura processato e delquale non siamo stati certo né levatrici né protagonisti, giusta-mente condannato anche dall’attuale presidente del Consigliocon parole aspre (e com’è nel suo stile anche dirette), ha favo-rito l’emergere di due nuove supremazie: quella dei nominatisugli eletti e quella dei dirigenti sui nominati. Dall’elezionediretta dei sindaci e dei presidenti delle province fino a quelladei governatori regionali si è introdotta la regola dell’espropria-zione dei consigli elettivi. Cioè il sindaco o presidente eletto, inrealtà designato da una lista o da una coalizione di liste, puòscegliere i suoi assessori e nominarli senza passare dai Consi-gli. I nominati, nella sostanza, contano assai di più degli eletti,in quanto delegati dal sindaco o governatore. E questo è vera-mente singolare.

Una sinistra che adotta come sua figlia

legittima la sconfitta non mi attrae

Ma esiste una seconda assurda supremazia: quella dei dirigentisui nominati. La legge Bassanini sposta infatti la maggior partedelle responsabilità degli amministratori sui dirigenti, i quali,non dovendosi presentare alle elezioni, non hanno alcun inte-resse che le cose vengano fatte, ma anzi hanno tutto l’interessedi non farle perché il non fare equivale al non rischiare. Dunquepiù potere alla politica – e in particolare alle istituzioni elettedal popolo – meno alla burocrazia. Dobbiamo ribaltare la gra-duatoria che vede prima i dirigenti, poi i nominati e infine glieletti. L’analisi della crisi economico-finanziaria e dell’occupazioneha suscitato anche nella sinistra, e perfino nella nostra comunitàpolitica, il formarsi di due posizioni. Per alcuni il prevaleredella finanza, la globalizzazione e il libero commercio senzaregole, i vincoli europei, insomma tutto ciò che ci ha visto soc-combere, ha mostrato il vero volto di un liberismo che dob-biamo combattere con un rilancio di vecchie impostazioni poli-tiche. Li chiamerei i fautori della revisione delle revisioni.Questo è avvenuto anche in altri paesi europei. Penso all’In-ghilterra di Corbyn, l’anti Blair, alla stessa Grecia col feno-meno Tsipras, oggi però in disuso. Si pensa che si debbaabbandonare proprio quel connotato liberale del socialismoche noi abbiamo assunto dagli anni ottanta come farmaco chepermette una trasformazione sociale graduale e rispettosa delmercato, del suo pluralismo, della sua vivacità: perché ilmerito, insomma, sia alleato del bisogno, come raccoman-dava a Rimini Claudio Martelli. Questa revisione delle revisioni ci riporta al veterosocialismo,

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tanto che anche tra noi si riscoprono vecchi riti che avevamosmesso come vestiti sdruciti, e si rispolvera perfino quel sim-bolo della falce e martello che oggi è esposto in un paese“democratico” come la Corea del Nord. Io penso invece che il socialismo liberale sia mai come oggi ilrimedio più appropriato. Certo il mercato, sopratutto quellofinanziario, va regolato. È incredibile e inaccettabile che i deri-vati nel mondo siano quattro volte il prodotto lordo mondiale.Così si cammina sui carboni accesi. Ma non comprendo cosa cisia di nuovo nel riscoprire vecchie teorie, vecchi simboli, vec-chie certezze, che certo non potevano sortire dall’esame delnuovo mondo e neppure prevederlo. Non si può ritornare addi-rittura più indietro delle nostre revisioni. Questa equazione,crisi economica uguale rivalutazione delle vecchie teorie mar-xiste, mi lascia perplesso.Penso invece, questa è la seconda posizione, che proprio la crisiodierna e l’impossibilità di tornare esattamente al punto di par-tenza (si prevede che la piena occupazione resterà un’utopianella società del futuro) rilanci proprio quell’ipotesi di societàsolidale che noi ipotizzammo già negli anni ottanta, e di unsistema sociale misto in cui il pubblico governa ma non neces-sariamente gestisce, e in cui il privato interviene anche perrisolvere i problemi che il pubblico non è più in grado di risol-

vere. Un sistema che noi dovremmo proporre come scelta e chegià si applica in molte realtà per necessità. Pensiamo alle nostreidee sul bonus scolastico, al sistema sanitario misto e conven-zionato sotto il rigido controllo pubblico, a sgrassare la finanzalocale dai grandi impianti sportivi, al nuovo sistema teatraledelle fondazioni aperte ai privati: e contemporaneamente allatendenza ideologica di pretendere la gestione (non la proprietà)dell’acqua, che rischia di produrre costi maggiori per i comunie bollette più care per i cittadini. Aggiungo che una sinistra che adotta come sua figlia legittimala sconfitta non mi attrae. La sinistra che ama la Grecia perchéha prodotto debito e non la Germania che l’ha contenuto permerito di un socialista come Schroeder e della sua Agenda2010, non mi pare per nulla intrigante. E aggiungo anche che lacrisi del socialismo europeo non è affatto detto che si possarisolvere alla Corbyn: perché se è vero che Blair ha commessoerrori (ma solo in politica estera), è più difficile dimostrare cheli abbia commessi anche Schroeder. E poi anche Corbyn, semai vincerà le elezioni, sarà costretto a governare col realismonecessario, imitando Tsipras e deludendo anche lui la sinistradelle illusioni.Certo molti errori sono stati fatti in Italia anche nel rapportocon l’Europa. In un’intervista del 1997 Bettino Craxi sostenne

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la necessità che il governo italiano pretendesse di rivedere iparametri di Maastricht, pretesa dovuta al fatto che senza l’Ita-lia l’Europa non avrebbe potuto continuare ad esistere. Un peri-coloso sovversivo, in una intervista recente, ha testualmenteaffermato: “Noi anche adesso avremmo saputo dare un’im-pronta politica alla gestione folle della crisi che attraverso l’au-sterità e le politiche degli anni trenta ha gettato un intero conti-nente nella deflazione e nella disoccupazione di massa”. Que-sto sovversivo non è Che Guevara, ma Gianni De Michelis. È vero, senza la politica, senza il coraggio della sfida politica econ la subalternità della politica ai centri economici e finan-ziari, le scelte vengono fatte altrove. Allora è la politica darilanciare: non un neo massimalismo improduttivo, ma la poli-tica riformista, assieme a un’idea di Europa unita che oggiappare perfino più lontana di dieci anni fa. Occorre un grande piano di messa in sicurezza del nostro terri-torio. Viviamo in un paese in cui se piove si rischia la vita.Troppe tragedie si sono verificate in Italia, anche recentemente.Non vorrei che il vecchio detto popolare “Piove, governoladro” iniziasse ad assumere una qualche logica rispondenza.

Non possiamo parlare alla pancia, ma alla testa:

e pur tuttavia usando la testa dovremo

risolvere anche qualche problema di pancia

Nella legge di stabilità si stanziano risorse, ma sono ancoratroppo poche. L’agricoltura rappresenta una grande opportunitàdi sviluppo, al pari del turismo, e consente un’occupazione auna nuova generazione di giovani imprenditori, mostra nuoveopportunità di lavoro valorizzando i territori insieme alle cul-ture e alle tradizioni locali, con una propensione a metodi dicoltivazione ecosostenibile. Occorrono, e i socialisti le propor-ranno, adeguate agevolazioni, incentivi, minori vincoli che lefavoriscano e le potenzino. Ma anche una rete di sovrastruttureche oggi ancora risulta carente.Non sarebbe giusto delegare il tema della sicurezza alla destra.Certo non possiamo parlare alla pancia, ma alla testa: e pur tut-tavia usando la testa dovremo risolvere anche qualche pro-blema di pancia. Nel confronto si assiste a un paradosso. Tuttisostengono che dobbiamo dare asilo ai profughi e rimpatriare iclandestini. Ma i toni, le motivazioni, i sentimenti e i risenti-menti che vengono suscitati sono assai diversi. Salvini sostieneuna tesi stravagante. E cioè che i clandestini stanno bene dovestanno e vengono qui solo per disturbarci (sono sadici) e perprendere asilo negli hotel a cinque stelle. Il leader della Legavoleva convincere i nigeriani di questa sua scoperta, ma pare

non gli sia stato possibile. Correva seri rischi di essere trattatolui come un clandestino e di essere fatto nero. E ha rinunciatoal viaggio. Oggi però ci troviamo di fronte un problema nuovo, che solomolto relativamente è connesso con la povertà e il sottosvi-luppo, ed è relativo ai riflessi di una guerra scatenata all’Oc-cidente e ai paesi arabi ritenuti amici dell’Occidente da unafrangia estrema di islamisti che interpretano il Corano comeuna dottrina di lotta cruenta agli infedeli. Può essere che glierrori degli Usa e di parte dell’Occidente sui temi dell’Iraq,della Siria, della Libia, abbiano potenziato l’attrazione daparte di giovani che vivono anche in paesi europei verso laJihad. Resta il fatto che questa guerra è in atto e non la si puòignorare, né si può prendere atto che esista solo dopo unattentato o a seguito della diffusione di macabre testimo-nianze di sangue, di morte e di carneficine. Lo Stato islamicoè un territorio, un territorio terroristico. Ed è compito dellenazioni democratiche e liberali, in stretto collegamento congli Stati arabi moderati, espropriare di un territorio il terrori-smo. Magari convincendo il presidente Obama che in guerranon si possono combattere i due rivali contemporaneamente.Occorre fare la scelta del meno peggio: Churchill nel 1939disse che si sarebbe alleato anche col diavolo per battere Hit-ler, e si alleò con Stalin.Proprio nel momento in cui diamo opportunamente ospitalità inbase alle nostre leggi, dobbiamo essere vigili, perché non pos-siamo ospitare tutti. Il principio dell’ospitalità deve sempreessere coniugato con la possibilità concreta di ospitare. Il pro-blema non è di far stare un po’ meno bene noi: il problema veroè che, senza ragionare di quote compatibili, rischiamo di farstar peggio i nostri ospiti. Il giusto principio che siamo tutti esseri umani, che siamo tutticittadini del mondo e che noi siamo anche privilegiati peressere nati in Europa va poi applicato nella realtà, che ha le sueregole, i suoi vincoli, le sue compatibilità. Occorre poi natural-mente una vigilanza perché vi sia una reale disponibilità all’in-tegrazione, altrimenti con il tasso di natalità che abbiamo noieuropei rischia di prendere forma quell’Eurabia della qualeparla la Fallaci, in cui non saremo noi ad integrare al nostrosistema di regole democratiche i nostri ospiti, ma saranno loroad integrare noi, e questo rappresenta un futuro non certo edi-ficante per i nostri nipoti. Solidarietà, ospitalità possibile, inte-grazione nella difesa delle nostre regole liberali e vigilanzadevono oggi essere i nostri precetti fondamentali. Su questo tema accentuerei molto la questione della difesadella nostra civiltà liberale. Potrei dire anche cristiana e libe-

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rale. Cristiana nel senso di solidale, attenta ai bisogni di chi stapeggio: ma anche liberale, cioè in difesa dei principi fonda-mentali su cui si regge la nostra società. Il principio di rispettoper tutte le idee e le religioni, la tolleranza, la parità tra uomo edonna, la libertà di pensiero, di linguaggio, di critica, anche diironia e di sarcasmo, il rifiuto della violenza. Esiste poi una questione che per i socialisti è tuttora impre-scindibile, e lo è ancora di più nel momento in cui la libertàdelle persone è in pericolo per la dichiarazione di guerra delfondamentalismo: e proprio nel trentesimo anniversariodella scomparsa di un grande socialista al quale tutto si deveper la dotazione di leggi di libertà e di civiltà in Italia, LorisFortuna. Fu quella degli anni settanta e primi ottanta unastagione eccezionale. Con Fortuna e Pannella, con l’Italiasocialista e liberale, uscimmo dal nostro buio clericalismo.Oggi siamo all’opposto. Come ricorda Michele Ainis in uneditoriale del Corriere della Sera, in materia di diritti dellepersone non è il Parlamento, ma altre istituzioni che legife-rano: e cioè la Consulta, la Cassazione, la Corte europea deidiritti dell’uomo.L’Italia è un’anomalia. Riprendiamo e motiviamo l’afferma-zione di Ainis. La legge 40 sulla fecondazione eterologa vienebocciata dalla Corte costituzionale attraverso ben 33 sentenzesuccessive e praticamente riscritta, mentre l’Italia è più volterichiamata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Stra-sburgo sui temi delle coppie gay e della giustizia. Mancano tut-tora in Italia leggi sul testamento biologico per sancire la libertàdi scelta. L’Italia è l’unico paese europeo in cui non vige laseparazione delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti.La questione delle carceri è solo argomento di iniziativa e dipressione dei radicali. Solo recentemente sono state approvateleggi in materia di divorzio breve e di responsabilità civile deimagistrati, quest’ultima a carattere indiretto.I socialisti intendono rilanciare una campagna per una nuovastagione di diritti civili. Il nuovo sistema politico a caratterepost identitario divide quasi tutti i partiti sul tema della laicità.Laici e integralisti esistono nel Pd, in Forza Italia, perfino nelNuovo centrodestra, nella Lega. I cosiddetti temi etici nonsono la base su cui costruire una forza politica, perché l’iden-tità dei partiti si fonda oggi soprattutto sulle opportunità elet-torali. Così i cittadini inviano al Parlamento rappresentanti dicui non conoscono l’orientamento su temi fondamentali per lavita delle persone.Contrariamente agli anni del primo centro-sinistra, in cui igoverni non cadevano sui temi del divorzio e dell’aborto(attorno ai quali anzi si potevano formare maggioranze diverse

rispetto a quelle di governo), oggi i temi della laicità diventanonon solo occasione di divisione all’interno dei partiti, ma con-dizione per far vacillare un governo. Così allo scontro legittimodi diverse opzioni di vita si introduce il criterio della media-zione per evitare conflitti. Per tenere uniti i partiti, per tenereunito il governo. E si continua a rinviare. Il buon Giovanardi,il solo che ritiene che i bambini li porti ancora la cicogna, lasciaper questo scandalizzato la maggioranza di governo. D’al-tronde si propone una legge sullo ius soli che pare un uno iusnativitatis e introduce una nuova discriminazione tra nasciturie residenti: mentre il testamento biologico, regolato in Usa e inEuropa, pare deceduto insieme a Eluana Englaro. Così come lalegge sull’omofobia approvata alla Camera nel settembre del2013 risulta oggi desaparecida al Senato. I socialisti si impegnano dunque in Parlamento e nel paese peruna grande campagna per l’introduzione di una legge sulle cop-pie gay che preveda gli stessi diritti per omosessuali e eteroses-suali, combattendo tutte le attenuazioni o privazioni di dirittidegli omosessuali in materia di adozioni (oggi gli integralisticontestano perfino la stepchild adoption, adottata dalla democri-stiana Germania); poi una legge europea sul fine vita che eliminiquesta mostruosa carenza legislativa e adotti il principio dellelibera scelta attraverso una dichiarazione anticipata, sul modellopresente in tutte le nazioni europee; la piena affermazione deiprincipi costituzionali sul tema della fecondazione assistita, cosìcome prescritto dalla Corte; l’adozione di una riforma della giu-stizia di stampo liberale e garantista, che preveda la netta sepa-razione delle carriere dei magistrati e lo sdoppiamento del Csm,nonché l’abolizione di quell’obbrobrio giuridico che si chiamaipocritamente obbligatorietà dell’azione penale; un piano di edi-lizia per nuove carceri e per impedire il loro sovraffollamento: ese necessario, una nuova legge di indulto o amnistia, per evitareche in carcere oggi possa essere reintrodotta la pena di morte.Su questi temi, che verranno adesso approfonditi, allargati ecodificati nei nostri sei tavoli di lavoro, i socialisti si richia-mano al loro patrimonio di idee adeguandolo ai tempi nostri:alle grandi rivoluzioni economiche, sociali e tecnologiche. Laparola adesso passa ai tavoli. Se i tavoli parleranno, sarà unmiracolo che genererà a sua volta il miracolo di un Psi cheparla, che vive, che lotta, attraverso campagne politiche e pro-poste di legge: azioni autonome e incisive che, senza mettere indiscussione le nostre attuali alleanze, ci consentano di comuni-care la nostra diversità, di sottolineare il nostro contributo ori-ginale, di propugnare le nostre posizioni, con quello che unvecchio cantautore romano ha voluto proprio chiamare “ilcoraggio delle idee”.

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Permettetemi di portare un mio contributo alla riflessioneche insieme faremo per stimolare il cambiamento nel

paese e favorire l’azione del governo. In primo luogo affermocon fermezza che tocca ai socialisti a rilanciare il tema dellalaicità dello Stato. Essa va intesa come una reale equidistanzadello Stato da tutti i cittadini di qualunque cultura, religione,etnia e genere essi siano. Siamo rimasti indietro nella tuteledei diritti delle minoranze, spesso schiacciate da coloro cheosteggiano nuove leggi per una società che cambia. Penso airitardi su temi come l’omofobia, il femminicidio e la parità ditrattamento per tutte le religioni. La nostra storia è quella dicompagni come Loris Fortuna, che scrissero pagine importantiper la difesa dei diritti civili.Dobbiamo altresì occuparci della nuova legge elettorale edella necessità di un suo adattamento alle condizioni nellequali ci troviamo. Abbiamo collaborato lealmente alla riformadella Costituzione, ormai in dirittura d’arrivo. Abbiamo soste-nuto il governo senza ricatti e fornito il nostro contributo.Oggi, nel momento in cui attraverso la riforma del sistemaelettorale si cerca di passare dall’attuale tripolarismo politicoad un sistema di bipartitismo secco, pensiamo che occorrauna riflessione per evitare che un articolo di legge possaservire solo per eliminare le forze politiche intermedie.Non riteniamo di dover cambiare la struttura della legge giàapprovata, ma il processo di cambiamento deve essere politicoe condiviso. Per questa ragione riteniamo utile introdurre unanorma transitoria che, senza intaccare la struttura della legge,preveda nella sola sua prima applicazione la possibilità di for-mare coalizioni con apparentamenti sin dal primo turno, daconservare all’eventuale ballottaggio. In questo modo si la-scerebbe poi ai partiti il tempo di dar vita a nuovi soggetti po-litici che comprendano coloro che insieme hanno affrontato leurne e svolgono la propria funzione.Nello stesso tempo ritengo che bisogna affrontare una questioneimportante che è quella della forma di governo. Il tema èquello di capire se il Primo Ministro e/o il Presidente dellaRepubblica debbano essere indicati dal Parlamento o eletti di-

rettamente dal popolo. Oggi i sindaci delle città e delle areemetropolitane, i presidenti delle circoscrizioni e i presidentidelle Regioni sono eletti dal popolo: ma non il capo dell’ese-cutivo. Allora è giusto interpellare su questo gli elettori.Io penso che dobbiamo metter mano ad una proposta di leggedi iniziativa popolare interpellando i cittadini elettori e propo-nendo una soluzione che parta dal basso per allargare la parte-cipazione e la forza della nostra democrazia.

I socialisti italiani devono vivere con l’orgoglio di avere una grande storia

e di volere costruire il futuro

La nostra nazione ha oggi il problema delle due velocità nellosviluppo dell’economia e dell’ormai cronico dualismo nelladislocazione economica del paese. Recenti studi hanno affer-mato che vi sono al sud zone, e non poche, con trent’anni diritardo nei confronti dei territori a sviluppo avanzato. Tuttoquesto è storicamente chiamato “questione meridionale”, enessuno di noi può negare gli errori fatti nel passato e i metodidi spesa spesso polverizzata senza affrontare in modo serio eglobale il tema delle infrastrutture materiali (ed oggi ancheimmateriali). Senza queste il sud non potrà mai crescere.È davvero triste pensare che il Colosseo duemila anni fa fucostruito in sette anni, ed è ancora in piedi dopo invasioni,guerre, bombardamenti e malaffare locale che ne ha usatoabusivamente rubando parte del materiale. Oggi invece non sicontano più gli anni per completare un’opera come l’autostradaSalerno-Reggio Calabria, ancora a cantieri aperti da tempoimmemorabile.Nessuno pensi che ci siano situazioni in cui il sud possaessere abbandonato. Chi sbaglia va punito ma l’Italia deve an-dare avanti in tutta la sua estensione. Il nostro paese con lesue venti regioni è come un convoglio ferroviario. Vi è una lo-comotiva e venti vagoni. Semmai uno o più vagoni meno fun-zionali degli altri dovessero deragliare, con essi deraglierebbel’intero convoglio e sarebbe la fine.

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Costruire il futuro>>>> Carlo Vizzini

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Ma a questo punto dobbiamo avere il coraggio di affrontareuna altra terribile piaga del nostro sistema. Parlo della corru-zione e del crimine organizzato, che – attraversando in modotrasversale la nostra società – sono una grave palla di piomboal piede dello sviluppo economico e della stessa democraziaitaliana. Questi elementi distruggono la libertà di impresa,impediscono la concorrenza e uccidono il futuro delle giovanigenerazioni. L’opera della magistratura riguarda reati già com-piuti sui quali si indaga: ma in realtà la prevenzione dovrebbeessere compito di una sana pubblica amministrazione e dellapolitica. Purtroppo la dimensione del fenomeno in atto dimostraquanto permeabili siano entrambe.La politica deve comprendere che non basta legiferare, maoccorre che tutti gli amministratori siano all’altezza di quellaonestà che impedisca sul nascere le penetrazioni del crimine, eabbiano il coraggio di controllare e sostituire per tempo i burocratiasserviti alle tangenti e alla mafia. Il governo sta lavorando inquesta direzione, e il nostro viceministro Riccardo Nencini si staoccupando del codice degli appalti, lavorando per una maggioretrasparenza e cercando di limitare drasticamente il numero dellestazioni appaltanti, che ad oggi sono ancora migliaia.Esiste però un fenomeno gravissimo che dobbiamo contrastaresenza sconti per nessuno. Dalla stagione delle stragi deglianni novanta è cresciuta nel paese un’antimafia che ha raccoltoil suo successo con azioni pubbliche di dichiarazioni perfettecontro la mafia, rilasciando anche “patenti di antimafiosità” ecreando un’antimafia di facciata che in alcuni casi si è trasfor-mata in antimafia degli affari: pezzi della politica, dell’im-prenditoria, ed alcuni magistrati che sono indagati per la malagestio dei beni sequestrati, con l’appoggio di altre istituzionidello Stato. Si è creato un sistema torbido che in taluni casi

diventa vera concorrenza alla mafia tradizionale (vedi casipiù recenti di Palermo e di Roma) gestendo in modo non eticoma indegno le proprie attività. Lo stesso volontariato antimafiaè divenuto in alcuni casi una sorta di professione sorretta dacontributi dello Stato e facilitato nelle gestioni commerciali.Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il volontariato mamolto con l’affarismo sleale di chi lavora senza avere proprierisorse. Su questo terreno dovremo cimentarci con passione econ rigore, da socialisti garantisti che non demonizzanonessuno ma devono saper pretendere la trasparenza su tutto.Dobbiamo operare convinti che le mafie vadano colpite espro-priate dei propri beni che provengano dal crimine ed alla finedefinitivamente sconfitte. Occorre evitare di pensare che unvolontariato contro le mafie possa diventare una professionea tempo indeterminato, mentre in realtà è una precondizionedella buona politica da trasformare in una risorsa di tutti.Concludo dicendo che i socialisti italiani devono vivere conl’orgoglio di avere una grande storia e di volere costruire ilfuturo. Chi volesse andare via può farlo ma nessuno pensi checorrere verso un partito più grande sia un buon esercizio dacompiere. Noi abbiamo la forza di vivere in autonomia con lanostra storia, che è quella dei socialisti europei: non è dunquené quella dei postcomunisti, né quella dei cattolici democratici.La nostra storia ha il futuro dei principi e delle idee che sonomoderni anche per il governo del cambiamento. Il completa-mento del lavoro di ognuno di noi deve consistere nellacapacità di consegnare, prima di fermarsi, il testimone ad ungiovane perché continui la nostra battaglia, la nostra volontàferma di andare avanti con il riformismo: che è presidio di li-bertà e di giustizia sociale in un mondo nel quale sempre piùspesso prevalgono egoismi e strapotere.

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Speriamo che i dirigenti del Psi riescano con i loro sforzi aconservare una presenza nelle istituzioni, che è la prima

necessità. Naturalmente, questa presenza non deve essere finea se stessa. Serve a valorizzare la nostra storia, come stafacendo questo convegno, e come nel mio piccolo ho fattoanch’io scrivendo la storia dell’Avanti!1. Ma anche la valoriz-zazione della storia non è fine a se stessa. La nostra storia èun patrimonio immenso, che solo noi possiamo mettere a di-sposizione del paese, che serve a capire il presente e ad avereuna visione per il futuro: come sempre è accaduto. Oggi è piùfacile, perché l’Italia sembra aver toccato il fondo e ci sicomincia ad accorgere di quanto è successo: per la stradacome negli editoriali dei quotidiani. Cominciamo dalla strada. Sempre più accade che qualcuno cifermi e dica: “Come siamo ridotti! Si stava meglio quandoc’era la politica vera, quella della prima Repubblica”. Ineffetti si sta comprendendo che abbiamo alle spalle un ven-tennio perduto nel quale l’Italia è diventata meno ricca, menodemocratica e meno libera. Un ventennio perduto. Non mistancherò di ripeterlo. Che il paese sia diventato meno ricco lo si tocca con mano. Virisparmio le statistiche: sul reddito, sulla disoccupazione,sulla povertà, sulla scomparsa della classe media, sulla conse-guente moltiplicazione delle distanza tra ricchi e poveri. Talie tanti sono i segnali negativi che, se ripresa ci sarà, sarà danoi enormemente più debole che altrove, nonostante la cadutadegli ultimi anni sia stata enormemente più grave. Anche per-ché si guardano le pagliuzze ma non si dice la verità sulletravi, che non potranno essere rimosse in tempi brevi (se mailo saranno). Vogliamo ricordare le più grosse? Siamo tra i paesi più vecchi del mondo, e la vecchiaia, comesi sa, non è un motore per l’accelerazione dello sviluppo. Tral’altro i paesi vecchi hanno bisogno di immigrati più deglialtri e gli italiani li vogliono meno degli altri. Il primo fattore

di progresso è oggi la conoscenza, specialmente tecnologica.Ma siamo tra i paesi meno istruiti del primo mondo. Siamo gliultimi in Europa. Nella fascia di età tra i 25 e i 54 anni, sol-tanto il 16,1% degli italiani ha una laurea o un livello di istru-zione definito alto. La Gran Bretagna è al 39,3%, la Francia èal 33,4%. In questo contesto non può stupire il livello misera-bile del dibattito culturale e quindi politico.

All’indomani delle elezioni politiche

del 1992 Giuliano Amato guidò il governo

con il sostegno di 19 milioni e 368 mila voti.

Oggi Renzi guida un governo con il sostegno

di 10 milioni e 353 mila voti

Per di più, le poche lauree trascurano le materie scientifiche.Siamo su questo terreno i penultimi nell’Europa a 28 (stapeggio solo l’Ungheria): abbiamo il 20 per cento (sul totale)di laureati in materie scientifiche, contro il 35 per centodell’India e il 40 per cento della Cina. Il lavoro delle donneè uno straordinario fattore di progresso. Ormai gli economi-sti calcolano con precisione quanto la loro mancata utilizza-zione nel sistema produttivo abbatta il prodotto nazionalelordo. Ma siamo tra i paesi dove l’occupazione femminile èpiù bassa. Siamo ormai scesi a livelli inferiori a quelli rag-giunti dall’America latina, con 23,5 punti percentuali inmeno rispetto ad esempio alla Germania. La condizione fem-minile è talmente disastrosa da presentare un’apparente con-traddizione. Le donne italiane sono tra quelle che lavoranomeno al mondo e nel contempo sono tra quelle che hannomeno figli. Per un paese che vive di esportazioni, il peso politico interna-zionale è essenziale. Ma ne abbiamo perso non poco, insiemealla perdita di una visione comune dell’interesse nazionale. I pilastri erano storicamente due: l’unità dell’Europa e la co-operazione tra le due sponde (Nord e Sud) del Mediterraneo. I demagoghi li hanno destabilizzati entrambi perché la poli-

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Il ventennio perduto>>>> Ugo Intini

1 Ne è stata pubblicata adesso una nuova edizione economica ed un Dvddi 53 minuti che può essere usato per la divulgazione della nostra storia.

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tica estera è ostaggio delle polemiche provinciali suggerite dauna campagna elettorale permanente.Siamo l’unico paese moderno dove il potere giudiziario nonfunziona e al tempo stesso (come un tempo le forze armateturche) tiene la democrazia sotto la sua occhiuta tutela. È esasperante vedere l’Anm che ripete le stesse identichereprimende di 20 anni fa appena la politica cerca timidamentedi intervenire. È una tutela – quella della magistratura – chenon ha impedito alla corruzione di dilagare, né al Mezzo-giorno di essere inchiodato al sottosviluppo per molte ragioni,ma anche perché vi mancano la certezza del diritto e l’autoritàdello Stato (esattamente gli ostacoli che la Banca Mondialeogni anno indica come la palla al piede del Terzo Mondo). Nel “ventennio perduto” l’Italia è diventata meno democra-tica. Per misurare il consenso popolare lasciamo da parte lechiacchere, i sondaggi di opinione e anche le percentuali cal-colate senza tenere conto del numero sempre più impressio-nante di cittadini che rifiutano di partecipare alle elezioni.Pesiamo i voti veri. Nel momento peggiore della primaRepubblica, a un passo dal suo crollo finale, alle elezionipolitiche del 1992, la maggioranza parlamentare era sostenutadal 43,11 per cento dei cittadini aventi diritto al voto. Oggi èsostenuta dal 19,07 (la percentuale sugli aventi diritto al votoottenuta dal Pd, che peraltro, grazie al consenso espresso daun italiano su cinque, ha da solo la maggioranza assoluta deiseggi alla Camera). Un italiano su cinque! All’indomani delle elezioni politichedel 1992 Giuliano Amato guidò il governo e il quadripartitosbeffeggiati dai media con il sostegno di 19 milioni e 368mila voti. Oggi Renzi guida un governo legittimato dai mediacon il sostegno di 10 milioni e 353 mila voti. Oltre 9 milionidi voti in meno. E sì che i cittadini aventi diritto al voto sonooggi oltre 2 milioni più di allora. So che sembra incredibile.So che è un film completamente diverso da quello che gli ita-liani sono stati abituati a vedersi proiettato (abituati al puntoda convincersi che rappresenti la realtà). Ma non è così. I numeri, come i fatti, hanno la testa dura. E sono questi. Ilfilm che ci viene proiettato tutti i giorni racconta una verità diregime. L’Italia ha ormai un sistema istituzionale sostenuto daun consenso così basso da risultare inquietante. Ed è infattianche meno libera, come suggerisce la retorica della Rai (chee ormai uno scandalo nazionale) e dei media, quasi tutti omo-logati, in crisi economica, di lettori e di credibilità. Meno ricchezza, meno democrazia e meno libertà. Tutto sitiene. L’uomo della strada, come dicevo all’inizio, cominciaad accorgersene. E comincia ad affiorare una risposta. Una

risposta giusta, quasi ovvia, che tuttavia nel “ventennio per-duto” abbiamo continuato a gridare senza essere ascoltati. Lacrisi economica è aggravata dalla crisi istituzionale e demo-cratica. Ma la crisi democratica è stata provocata innanzituttodalla distruzione dei partiti. Non c’è democrazia senza partiti.Non c’è libertà, ovvero possibilità di esprimere liberamentedelle idee facendosi ascoltare dall’opinione pubblica, senza ipartiti: partiti organizzati, dove si vota, dove la classe diri-gente viene pazientemente selezionata, fatta crescere senzaimprovvisazioni, partendo dal basso, gradino dopo gradino,come in tutte le carriere. Non partiti che servono soltanto perradunare le platee dove si applaude il sedicente leader delmomento. Partiti veri, pesanti. Ma i partiti non si inventano: si costruiscono lentamente,nascono dalla storia e dalla cultura. E qui ritorniamo al puntodi partenza. La valorizzazione della storia e della culturasocialista. Anzi, arriviamo a un punto ancora più importante.Perché per valorizzare la storia bisogna che ci sia. E oggiquello che non c’è su Internet non esiste. La nostra storia èstata cancellata dagli archivi raggiungibili attraverso la rete, eperciò, tra poche generazioni, non esisterà più davvero, nep-pure per gli studiosi che la volessero andare a cercare.

Marino è stato la metafora dell’Italia.

Il Pd a Roma ha inseguito i grillini, e si trova

adesso con i sondaggi che li danno in testa

Vogliamo parlarne? L’Avanti! e Mondoperaio sono di impor-tanza fondamentale non solo per la storia socialista, ma perla storia di Italia. Eppure sono tra i pochissimi giornali nondigitalizzati e non consultabili su Internet. Con un clickchiunque può sapere cosa ha scritto Maurizio Costanzo sulMessaggero. Un giornalista, uno studente, un professore nonpuò sapere cosa ha scritto Nenni sull’Avanti!. Si può leggerecon un click come Celentano ha commentato Canzonissimanel dicembre 1979: ma non come Craxi ha proposto sull’A-vanti!, qualche mese prima, la grande riforma delle istitu-zioni, o come Norberto Bobbio ha contestato il leninismo suMondoperaio. La storia socialista diventa opaca e svaniscegiorno dopo giorno, come una vecchia pellicola fotograficaesposta al sole. Propongo che un nostro parlamentare si occupi di questo pro-blema subito, prima che sia troppo tardi. Non è un problemacomplesso, niente affatto. Ma se il convegno di oggi avessecome risultato di risolvere anche questo solo problema,

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sarebbe un convegno importante, da ricordare negli anni. Per-ché noi lavoriamo sulla storia socialista, sulla possibilità chesia il pilastro su cui costruire partiti con un futuro: non pernoi, purtroppo, ma per le prossime generazioni.Infine ancora un’ultima osservazione che ci riporta anch’essaall’inizio. È vero. Si comincia a capire che la sparizione deipartiti politici e quindi della politica è una causa della crisiitaliana. Qualche fondo di politologi intelligenti ha comin-ciato a dirlo dopo il disastro di Marino a Roma, che haassunto un valore simbolico. Ma la strada da fare è molta, e laverità va detta tutta. Marino non nasce per caso o dal nulla.Quando, alla vigilia delle ultime elezioni comunali a Roma, lademagogia grillina si è scatenata, il Pd non ha risposto scon-trandosi frontalmente, non ha difeso le ragioni della politica edei partiti. Niente affatto. Ha inseguito e cavalcato l’antipoli-tica puntando su Marino, che ha vinto le elezioni con lo slo-gan “non è politica, è Roma”. Il Pd ha puntato su quel Marino che ha simbolicamente sottoli-neato la sua distanza dalla politica (identificata con le auto blu)andando in bicicletta; che ha sbandierato l’uso dell’acqua dirubinetto anziché minerale nelle riunioni di giunta. Subito dopola vittoria, Marino ha riunito la giunta per due giorni di ritiro aTivoli, e ha ingaggiato una società di consulenza psicologicaamericana per creare in quel ritiro lo spirito di squadra (“teambuilding”) attraverso giochi manuali di gruppo e di ruolo. A

questo punto siamo arrivati! Non un dirigente politico, non ungiornale ha obiettato che con i “giochi di gruppo” si giocavacon il fuoco. E che con il team building anziché con la politicauna banda di imbecilli preparava il disastro. Tutti zitti. In Italia per anni sono infatti spariti anche spirito critico esenso del ridicolo. Brutto segno. Questa sparizione è semprel’anticamera dei regimi. Marino è stato la metafora dell’Italia.Il Pd a Roma ha inseguito i grillini, e si trova adesso con isondaggi che li danno in testa. Il Pd ha inseguito l’antipoli-tica, e oggi soltanto l’1 per cento dei giovani romani (secondoun recente sondaggio) si dichiara interessato alla politicastessa. Chi ha meno di quarant’anni non sa cosa sono stati lapolitica e i partiti con la P maiuscola. È di importanza assolu-tamente vitale raccontarglielo. Ma chi ha più di quarant’annie ha il potere per raccontare non lo vuole fare, perché peringenuità, viltà o opportunismo ha cavalcato la rivoluzioneantipolitica precedente a quella grillina, ovvero la rivoluzionedi Mani Pulite. E invece chi ha più di quarant’anni e con tuttoil cuore, vorrebbe raccontarlo non lo può fare, perché glihanno spento i microfoni e le telecamere. Roma e Marinosono stati la metafora dell’Italia. Speriamo che l’Italia nonfinisca come Roma. Lo dico ai compagni che sono ancora inParlamento e nelle istituzioni. Riprendetevi la vostra storia,mettetela in salvo perché qualcuno possa ancora raccontarlain futuro. Prima che sia troppo tardi.

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Questa è la prima conferenza programmatica dopo la presadi coscienza, in Italia, della crisi del Pse. Il Partito del

Socialismo Europeo era nato, in Italia, come sintesi tra leesperienze socialiste democratiche e comuniste, come speranzadi una rinnovata unità del fronte popolare finalmente dallaparte giusta della storia: il riformismo. Tangentopoli però nonsegnò il rallentamento solo del fronte italiano: in quegli annitutto il socialismo mediterraneo entrò in crisi, e oggi non è piùpossibile tacere come questo abbia segnato drammaticamentela storia europea.L’egemonia delle socialdemocrazie gotiche e la forza dellaterza via blairista hanno legato il socialismo europeo alla rea-lizzazione di una Unione europea complice del cordonesanitario antirusso che causa la maggior parte delle tensionitra la Russia ed i suoi vicini. Inoltre l’Unione a trazionetedesca non è certo risultato della Merkel: semmai di Schroe-der. Mentre l’Europa si allargava ad est, ed il Pse accoglievaal proprio interno gli ex apparati comunisti, scopertisi atlantistiper necessità e post-blairisti per vocazione, il Mediterraneorestava una questione marginale dell’agenda europea. Il Me-diterraneo, continente liquido (e di conseguenza l’Italia) è di-venuto “geograficamente dispersivo”: follia geopolitica allaradice di una trascuratezza e approssimazione che ha portatola primavera araba ad incenerire buona parte delle propriebuone intenzioni. L’Italia, da avamposto europeo nel Medi-terraneo, è stata trasformata in un’appendice in buona partescomoda del continente solido. La fine del nostro ruolocentrale di unica forza autonoma italiana, ed il sorgere diforze miopi o ascare, ha permesso che l’Italia si gettasse apesce in questa agenda suicida per i propri interessi. Dopo lafine del berlusconismo ecco il risorgere di vecchi equivoci, adestra come a sinistra: che però hanno rimesso al centro deldibattito due temi fondamentali. la sovranità e la vocazione.La vocazione è quella mediterranea di cui abbiamo parlato, edil Psi è stato il primo partito a rispondere allo tziprasismo ri-mettendo sul piatto il socialismo mediterraneo, espressionecarica di valore e visione e missione (mentre “socialismo eu-

ropeo” è oramai una mera, metternichiana, espressione geo-grafica), la sovranità, al di là degli equivoci, non potrà piùessere quella di un tempo, ma questo non vuol dire chedovremo rilanciare su di un europeismo che va per lo menomesso sotto osservazione. L’equivoco, a destra come allanostra sinistra, sta nel fatto che non è da rafforzare o indebolirela sovranità dello Stato: qui bisogna rafforzare la sovranitàdella società, mirare a quella sociocrazia che è il centro delnostro canone eretico: ordine senza potere.

Questa paura del controllo globale è un’ingenuità

assoluta. Nessuno ha il controllo di niente,

questa è la triste verità

Ordine è la parola d’ordine. Quando in questi anni abbiamoparlato di crisi di missione ma anche di ragione sociale, eral’ordine che cercavamo. E qui viene in campo il centro delmio discorso: ordine e organizzazione. È un po’ la differenzatra architettura e ingegneria. L’ingegneria è struttura, l’archi-tettura è concezione dello spazio. Abbiamo già iniziato unlavoro in termini organizzativi che porterà il Psi ad essere piùefficace in una società che riempie le piazze solo per urlare ilproprio deserto, e che invece affolla, intimamente ed indivi-dualmente, i social network, dove sempre più si vannoformando le coscienze politiche e antipolitiche.Ancora oggi le forze democratiche e progressiste riempionola rete di comunicati stampa evanescenti che andavano beneper accompagnare via radio gli uomini alla guida e le donnenel tinello in un’Italia da fresco dopoguerra. In un’epoca diseduttori, convertitori, infiammatori (e in generale di modellidi leadership poco laici), Internet è diventata la fucina di co-scienze sociali schizoidi dove le vecchie ubbie e paure italianehanno trovato conferme inaffidabili. Mentre parliamo l’Italiasi vaccina sempre meno, guarda le scie degli aerei con semprepiù sospetto, si convince sempre più che i grandi del mondoabbiano il controllo su tutto.Questa paura del controllo globale è un’ingenuità assoluta.

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Ordine nel disordine>>>> Roberto Sajeva

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Nessuno ha il controllo di niente, questa è la triste verità. Piùgli uomini vanno in alto, più aumenta la vertigine, e menocontrollo hanno: e questo mondo politico allucinante, divisofra affamati d’oro e assetati di sangue, ne è la dimostrazione.I cittadini urlano al complotto, all’inciucio: ma l’indignazionenasconde una complicità e una speranza. Sperano terribilmenteche qualcuno abbia il controllo, ma è tutto fuori controllo. Seil problema è la mancanza di controllo la soluzione non è ilcontrollo, la soluzione è l’ordine. Ordine senza potere.Dobbiamo cavare dall’alto, dall’ideale, la nostra missione rin-novata: mettere in campo un’offerta che renda libera la gentedalla paura, che è esistenziale prima che materiale. La crisimateriale del ceto medio ha fatto impazzire la società italiana,perché sta perdendo quel po’ di controllo che aveva sulle lorovite, sul loro futuro. La missione italiana è stata sostituita daalcuni obiettivi e parametri, come se una grande nazioneformata da grandi uomini e donne possa stare fissa in dei pa-rametri meramente economici.

Siamo qui per riformulare e rinnovare la nostra offerta, e dob-biamo farlo tenendo a mente che deve esserci un filo conduttore,una coerenza ideale in tutto quello che andremo a produrrenelle prossime ore di lavoro. Dobbiamo mettere in ordine ciòche ancora non è in disordine, diceva qualcuno: e la Fgs hainiziato proprio dal Disordine professionale, la campagna na-zionale sul lavoro che presenteremo nel pomeriggio. Libera-lizzazione degli ordini professionali, parità retributiva, esten-sione delle tutele del lavoro autonomo e via cantando.L’organizzazione che rappresento è un’organizzazione chefinalmente è di nuovo presente in tutte le regioni italiane, èben rappresentata nella nostra comunità internazionale, nelleprincipali piattaforme studentesche e del terzo settore, ecceteraeccetera. Non siamo meno rappresentativi di altre organiz-zazioni giovanili. Non è una struttura grande, e non illudia-moci che la militanza sarà nuovamente quella dei grandicortei: ma qui annuncio che proveremo anche a fare qualcosadel genere.

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Questa non è una banale conferenza, non siamo qui riunitisoltanto per battere un colpo e contarci insieme: sappiamo

chi siamo, sappiamo quanto valiamo. Questo è il momento incui ripensare e ripensarci. La nostra storia recente e il futuroche ci attende. Cercando di alzare lo sguardo e di cambiare.D’altronde i grandi partiti progressisti nascono per rivoluzionarele società: sono un progetto ambizioso, una “follia” di molti.È questo il fondamento della nostra esistenza: scegliere diessere quella possibilità di trasformazione radicale, quell’idealedi liberazione. Una iniziativa politica riformista c’è già stata in questi anniprima che potessimo porci il problema della parte di societàche potremmo rappresentare. In un certo senso il riformismodi oggi è il fare e il filosofare sociale, istituzionale, culturale ecivile della riconquistata autonomia socialista, della ritrovataidentità autonoma del socialismo italiano. Nel 1976, loricorderete meglio di me, nella sua prima intervista da segretariodel partito, ad un Giampaolo Pansa che gli chiedeva intenti,spiegazioni e dettagli della traiettoria possibile di un partitoappena sconfitto nelle elezioni politiche e marginale nel de-terminare in quel momento gli equilibri politici, Craxi rispose:“Primum vivere”. Oggi il partito è vivo, forse più vivo di ognialtro partito italiano: per questo dobbiamo continuare a crederein noi stessi, nelle nostre particolarità, nei nostri limiti e nellenostre possibilità. A chi pensa che queste siano utopie irrealizzabili rispondiamoche è esattamente all’angustia delle loro proposte, alla timidezzadel loro sguardo, che dobbiamo molte delle nostre sconfitte edei nostri insuccessi. La vera e realissima utopia è quella incui molti si sono da soli confinati: un non-luogo dove lapolitica è deludente, incapace di rappresentare, incerta quandosi tratta di affermarsi e troppo rivolta alla tutela di chi è lastessa politica a garantire.Come disse Martelli a Rimini, noi non ci siamo posti ilcompito di produrre una rivoluzione che non c’è, ma quello dirappresentare politicamente e di governare con l’efficaciadella politica democratica la rivoluzione che è in atto, il cam-

biamento che è in atto. Ora per governare politicamentequalcosa occorre prima conoscerla, padroneggiarla concet-tualmente. La descrizione del contesto internazionale, ilproblema delle istituzioni pubbliche, il problema dello sviluppoeconomico e delle sue conseguenze sociali così come emergonoda queste due giornate socialiste di studio, di analisi, didibattito, di proposta è innanzitutto una acquisizione di cono-scenza: una descrizione delle condizioni del nostro agirepolitico. Come abbiamo più volte detto e come si confermaanche in questa congiuntura politica, noi siamo il partito delmovimento e del programma.Per questo chi rischia, è il nostro primo alleato. Chi rischiaperché in difficoltà, chi rischia perché vuole comunqueinvestire, creare lavoro, dare speranza. Il paese, nel derby trapaura e coraggio, ha già scelto il coraggio. Oggi in Italiavivono quasi 5 milioni di persone di origine non italiana: la-voratori e lavoratrici, famiglie, bambini, giovani. Di questipiù di 1 milione sono nati e cresciuti in Italia ma continuanoad essere censiti alle anagrafi come immigrati o stranieri,malgrado non abbiano compiuto alcuna scelta migratoria ecrescano sentendosi italiani di fatto ma non di diritto. Siamo un meraviglioso paese dalle identità plurali e diversificate.È la nostra migliore strada per inserirci in una modernitàcapace di riconoscere la diversità, per declinare i termini del-l’identità nazionale in modo meno banale di quanto non siasuccesso in questi decenni, nei quali l’italianità di maniera èstata brandita come elemento divisivo tra un “noi” e un “loro”che offende e brutalizza la nostra storia culturale, segnatadalla diversità e dalla pluralità dalle sue origini e dall’intrecciocontinuo tra identità locali e incontro con le culture differenti.Non è un caso che le forze conservatrici e populiste abbiamodeciso pochi giorni fa di tirarsi indietro, non votando o aste-nendosi dal voto alla Camera sullo ius soli.La Lega dovrà però farsene una ragione. Non esistono cittadinidi serie A e di serie B. I figli dell’immigrazione, nati in Italiao ricongiunti ai loro genitori, non possono scoprire a 18 annidi essere stranieri. La loro vita, i loro legami affettivi e sociali,

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Fare politica>>>> Maria Cristina Pisani

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la loro cultura e i loro percorsi educativi e di istruzione sonoitaliani. Io e Riccardo abbiamo incontrato Amir al centroSprar di Latronico alcune settimane fa. Lui è l’esempio piùconcreto di come l’accoglienza sia innanzitutto integrazione.Amir pulisce le strade, svolge “piccoli gesti di manutenzione”,come dice lui: si rende socialmente utile. Lo ripeto sempre a me stessa (è un buon esercizio): Proust so-steneva ‘che gli uomini incapaci di mettersi nei panni altruisono simili ai becchini.’ È così, sempre. C’è la presunzione didire, di fare, di scegliere anche per gli altri senza provare,senza toccare, senza conoscere. Inutile provare a dare definizionio cercare un momento in cui posizionare l’inizio dellediscussioni sui diritti, di qualsiasi diritto. La laicità è uno deiprincipi fondanti del nostro Stato, definito «supremo» dallaCorte costituzionale. Eppure questo principio “semplice”proprio nel campo dei diritti civili sembra essersi smarrito.Siamo perennemente in lotta, benché alle istituzioni si richiedaequidistanza rispetto a scelte morali o ideologiche. Che poi èpure bene ricordarsi che nelle spire del moralismo, prima opoi, si resta impigliati.

“La logica ci porterà da A a B ma

l’immaginazione ci porterà dappertutto”

Voglio mostrarvi questo messaggio. Ho chiesto a Max Fanelli,malato di sclerosi amiotrofica, e alla moglie Monica di parte-cipare ai nostri lavori di oggi in questo modo. Non tuttiabbiamo la stessa sensibilità, certo: ma perché non possiamoconsentire a Max di disporre pienamente della propria vita,di una vita che non è neppure più vita? Eppure il dettato co-stituzionale e in particolare l’art. 9 e l’art. 32 dovrebberoguidarci bene.A nessuno giova una tale sofferenza, ed è con questo doloreche dovremmo confrontarci. Per me non è egoismo scegliereconsapevolmente di porre fine alla malattia, è egoismoinchiodare i familiari ad un percorso di dolore estremo,profondo, psicologicamente distruttivo. Caro cardinale Parolin,questa è una delle tante sconfitte dell’umanità, non l’amoretra persone dello stesso sesso. Per lei è un atto di carità con-dannare un uomo allo strazio? Per me no: la sofferenza, non èespiazione, non è catarsi, non ha una ragione. L’art. 32 poneun limite preciso, la legge che impone un determinatotrattamento sanitario, non può calpestare la dignità umana.Scegliere autonomamente quando e come l’accanimento tera-peutico debba fermarsi, deve essere prerogativa di ogniindividuo. Noi continueremo a chiedere insieme a Max Fanelli

di calendarizzare al più presto la discussione sulla legge diiniziativa popolare sul fine vita. Ci metteremo tutto l’impegnopossibile.Un’ultima cosa. Mi era stato chiesto di dedicare il miointervento alle donne. Io voglio farlo, a conclusione, ma inmodo diverso. La formula ottocentesca “questione femminile”voglio rovesciarla, perché esiste una tenace “questionemaschile” che produce iniquità, ingiustizie e violenze, e cherallenta lo sviluppo del paese, dimezzandone le potenzialità,impedendo allo sguardo femminile di applicarsi alla globalitàdei problemi e di prendere parte alla formazione delle decisionipubbliche. Alle cittadine di questo paese è consentito unicamenteesercitarsi politicamente e in modo quasi autodifensivo su te-matiche ritenute “femminili”, dalla fecondazione assistita,all’aborto, alla violenza e al femminicidio: questioni cheinvece hanno direttamente a che vedere con la sessualità e imodelli maschili.Dobbiamo assumere e fare fronte alla crisi di questa soggettivitàmaschile, attorno alla quale la società ha fin qui costruito ilmodello di sviluppo politico, sociale e culturale: e in ognimodo favorire la partecipazione delle donne alla vita pubblica,non pretendendo di inquadrarle nella rigidità delle strutturemaschili, ma intendendole come portatrici di irriducibile dif-ferenza e promotrici di quel cambio di civiltà politica di cui lanostra democrazia affaticata ha estremo bisogno. Per realizzare tutto ciò, per vincere una sfida così difficileavremo bisogno di tanto coraggio: ma non basterà il nostrocoraggio. Avremo bisogno di studiare tanto, ma non basteràil nostro studio. Avremo bisogno di libertà, ma non basteràla nostra libertà. Perché avremo bisogno anche e soprattuttodi tutto il nostro entusiasmo. Fare politica oggi è un rischio.Una scommessa. Un azzardo, forse. Sarebbe più comodo ri-tirarsi da parte, aspettando che passi lo scontento, la rabbia,la stanchezza. Ma pensiamo che tocchi a noi cambiarel’Italia, senza lamentarsi di chi non vuol farlo e mettendosiin gioco. Perché questo accada, non basta avere buone idee,bisogna avere la voglia e la forza di concretizzarle, coinvol-gendo gli italiani, suscitandone le speranze, alimentandone isogni. Ecco perché abbiamo bisogno di entusiasmo, disperanza, di fiducia. Ecco perché tutto sta in piedi solo conlo sforzo personale di chi non si arrende, di chi non sirassegna, di chi ha voglia ancora di alzarsi e di provarci.Non è possibile cambiare senza liberare tutto l’entusiasmoche abbiamo. D’altronde, “la logica ci porterà da A a B mal’immaginazione ci porterà dappertutto”: lo diceva Einstein,mica io.

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Invece di riflettere su un’educazione civica della collettivitànazionale sin dalla formazione scolastica (in termini di

consapevolezza deontologica e di prevenzione a tutti i livellidel conflitto di interessi), la piccola setta degli antiparlamen-tarismi di destra e di sinistra – che nel nostro paese ha sempreavuto vita marginale (ma non rapsodica, percorrendo sottotraccia tutto il centocinquantennio di storia unitaria) gode diun insperato ed oramai stabile insediamento sociale, in virtùdi una “narrazione” che sta avvelenando i pozzi della convi-venza sociale. Con una stupefacente confusione semantica che accomunapolemisti di destra e di sinistra, i canoni marxisti vengono rie-sumati per riproporre un giudizio di valore negativo – gene-ralizzato e preconcetto – su coloro che si dedicano al serviziodella collettività. In questa “narrazione” dai frutti avvelenatinessun valore è ascritto al pubblico servizio offerto dalloStato e dagli altri enti territoriali; nessun reale contributo èriconosciuto al settore pubblico – ristretto al “guardiano not-turno” ordoliberista o allargato al welfare secondo le ricettekeynesiane – perché tutto è travolto nella generale condannadella funzione di direzione politica della società.Persino coloro che competono per questa funzione si presen-tano non come “politici” ma come “portavoce”, secondo unagenerica caratterizzazione di democrazia diretta. È sconvol-gente che tutti gli attori del sistema politico italiano, chi piùchi meno, occhieggino a questa prospettazione, tanto da pro-durre il paradosso (ben descritto da Giovanni Orsina sullaStampa del 31 ottobre) di una politica che “ha cercato così disconfiggere l’antipolitica sul suo stesso terreno, ‘mascheran-dosi’ da antipolitica”. Poiché dietro questa mascherata ven-gono a collocarsi persino i massimi vertici delle assembleerappresentative nazionali, è bene richiamare i motivi per iquali, contro la fascinosa pericolosità della retorica dellademocrazia diretta, già i grandi teorici dei secoli scorsiammonivano le masse popolari.La nuova “geografia dei poteri” – ruotante intorno al Parla-mento – ha individuato un luogo di conflitto e di componi-

mento tra gli interessi di gruppo: intorno alla sua funzione dirappresentanza si è esercitata non soltanto la scienza, maanche l’azione politica, in termini di spazio da occupare opericolo da eludere, in termini di modalità di esercizio delpotere, in termini di produzione della norma. o di funziona-mento del meccanismo dello scambio politico. È un fatto che l’americanizzazione della composizionesociale del nostro paese ha fatto tramontare una coscienza diclasse o di ceto, e che nessuno si è fatto avanti per individuare- nei nuovi interessi, pure presentissimi nella società postmo-derna - una o più coalizioni sociali. Ma ciò che ha fatto, e stafacendo, la differenza è l’atrofizzazione di una serie di fun-zioni di controllo nella società, tradizionalmente esercitatedalla cultura e da coloro che ne sono i cultori. Il “cane daguardia” della democrazia, cioè la libera stampa, sempre piùveicola informazione di scarsa qualità e correttezza: le mira-bolanti cronache dell’antipolitica hanno fatto fortuna nelladivulgazione dello storytelling volto a delegittimare le istitu-zioni rappresentative.

La riflessione sulla forma di Stato e sulla forma di governo non si è esaurita con la revisionecostituzionale di cui all’Atto Senato n. 1429

Un ceto dirigente non c’è più, e la manipolazione della piazzaappare a molti tradizionali attori della vita sociale la scorcia-toia con cui veicolare messaggi massimalisti, senza alcunaattenzione alla funzione di mediazione tra gli interessi checoesistono in una collettività, nazionale ed europea. La sini-stra dovrebbe riscoprire il tema delle possibilità di crescitache vengono offerte a ogni individuo: invece, senza bussolaideologica si predica spesso un cambiamento fine a se stesso.I socialisti si presentano a questa sfida con le carte in regola:continuiamo a fare quello che sappiamo fare bene, nell’in-tento di offrire uno strumento, in primo luogo culturale, a chivuole impegnarsi nella ricerca del bene comune.Per farlo, però, occorre che le sedi istituzionali, le assemblee

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Una nuova stagione costituente>>>> Enrico Buemi

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elettive, i contrappesi offerti dalla forma di governo riguada-gnino credibilità. Ciò non può avvenire in altro modo cheoffrendo un sistema di regole. Occorrono riforme che, per laprima volta nel nostro paese, facciano da argine alla degene-razione della vita pubblica: verrebbe meno l’alibi per tutti ipiccoli plebiscitarismi che stanno pericolosamente crescendoanche da noi. La riflessione sulla forma di Stato e sulla forma di governonon si è esaurita con la revisione costituzionale di cui all’AttoSenato n. 1429. Sia che la si voglia affidare ad un’Assembleacostituente eletta col sistema proporzionale, sia che si vogliaproseguire lungo il percorso tracciato col metodo di revisioneordinario dell’articolo 138 Cost., questa riflessione deveriguardare una serie di profili ancora non compiutamenteaffrontati. L’alternativa storica tra modello semipresidenziale e parla-mentarismo razionalizzato non è stata ancora sciolta: occorreperfezionare la composizione del futuro Senato, avvicinan-dola il più possibile al Bundesrat tedesco. Se ciò che chie-diamo ad un assetto costituzionale, oggi, è temperare le pul-sioni decisioniste di questi ultimi anni con contrappesi seri, èpiù utile cercarli nella forma di Stato più che nella forma digoverno. Ecco perché, sulla linea già avanzata in passato, isenatori socialisti si sono battuti perché i nuovi senatori fos-sero espressi dagli Esecutivi regionali. Certo, la razionalizzazione del sistema ragionale ha ancheun’importante – e probabilmente prioritaria – ricaduta geogra-fica: su di essa un impegno politico è già stato conseguito inordine alla revisione dei confini regionali, ed occorre celer-mente darvi seguito. L’esigenza di statuti speciali è poi venutameno; l’armonizzazione è un principio che va esteso anche allagestione amministrativa delle autonomie locali, imponendo untetto onnicomprensivo agli emolumenti erogati a chicchessiada qualunque soggetto pubblico, comprese le regioni: che nonpossono più godere di ambiti sottratti al controllo contabile.Proseguendo con la disamina degli aggiustamenti alla forma diStato, si impone la piena armonizzazione delle leggi elettoraliche esprimono le assemblee rappresentative a tutti i livelli ter-ritoriali. Ciò vale non soltanto dal lato dell’elettorato attivo,ma anche sul versante dell’elettorato passivo: l’abrogazione

del decreto Severino è anche il contenuto delle buone ragioni,portate a Strasburgo dal compagno Marcello Miniscalco, die-tro la cui battaglia giurisdizionale si unisce tutto il Psi.L’impianto della legge elettorale per la Camera dei deputativa corretto, prendendo atto del sostanziale tripolarismo del-l’elettorato e ripristinando il premio di maggioranza alle coa-lizioni. La richiesta di una legge applicativa dell’articolo 49della Costituzione, che imponga un ordinamento internodemocratico, si accompagna alla regolamentazione delle lob-bies e del conflitto di interessi. Dare attuazione all’articolo 39della Costituzione, con un ordinamento sindacale che si ispiria democrazia interna, è una soluzione che attrarrebbe nuova-mente la forza lavoro, nelle sue molteplici forme, verso l’at-tività e la partecipazione sindacale.Neppure i settori direttamente partecipi della vita istituzio-nale, e dell’offerta di servizi per i cittadini, possono sottrarsidalla decisa operazione di rinnovamento che il Psi propone.La giustizia necessita di: ragionevole durata dei processi,mediante una maggiore velocità e non con l’obolo ai soggettilesi dal ritardo; una reale tutela economica dell’innocente; lariaffermazione del requisito di indipendenza come assolutoper il magistrato giudicante, mentre per quello requirente essova contemperato con le esigenze di organizzazione del lavorodell’ufficio del pubblico ministero; la selezione mediante sor-teggio dei componenti del Csm; la strutturazione dei giudicispeciali come sezioni specializzate dell’unica carriera magi-stratuale e la riduzione dei riti processuali. La pubblica amministrazione esige: l’accorpamento coattivodi tutti i comuni inferiori ai 5mila abitanti; una minore ester-nalizzazione delle funzioni pubbliche presso società munici-palizzate o partecipate; l’istituzione di un “governatorato” diRoma capitale, sotto la diretta responsabilità dell’Esecutivonazionale; il controllo della performance dei dirigenti, che siestenda anche sulla qualità amministrativa facendo loro caricodegli atti illegittimi istruiti, della violazione dei costi standard,della mancata trasparenza delle procedure, degli atti e degliemolumenti; l’accrescimento del diritto d’accesso agli atti deicittadini, contro tutte le forme di elusione; un piano per la digi-talizzazione dei servizi pubblici; il ripristino del divieto di par-tecipazioni azionarie delle banche nelle imprese e viceversa.Riguadagnare l’anima, per la nazione italiana, sarà un pro-cesso lento e faticoso. Ma si può fare, contrapponendo allostorytelling un’attività pubblica trasparente, responsiva versogli elettori e coerente con la proposta politica intorno allaquale si dovranno raggruppare i consensi di una nuova coali-zione sociale.

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Nel corso del dibattito le idee e gli spunti di riflessionesono stati significativi e numerosi, a testimonianza della

maturità di una sensibilità ambientalista, ma anche della com-plessità del tema. In questo quadro una parte rilevante deldibattito è stata occupata dalle politiche di conservazione pro-grammata e preventiva del patrimonio artistico e ambientale,che, com’è noto, esistono da tempo nel nostro ordinamento,ma la cui realizzazione pratica deve necessariamente passareattraverso una modernizzazione delle istituzioni ad esse pre-poste. Quest’ultimo dunque deve essere il principale obiet-tivo, realizzabile solo attraverso un ripensamento delle strut-ture statali, e in primis di quelle ministeriali. In questo senso la proposta di creare un nuovo ministerodell’Ambiente e del Territorio nel quale, in un’ottica di sem-plificazione, far confluire le competenze degli attuali mini-steri dell’Ambiente, delle Infrastrutture e dei beni culturali,rappresenta una battaglia politica sulla quale il Psi deve inve-stire energie e competenze: le quali, come abbiamo visto, nonmancano. La conservazione tanto del patrimonio artistico chedi quello ambientale, anche per l’alto grado di reciproca com-penetrazione che li caratterizza, richiede una “visione d’in-sieme” in grado di coordinare gli aspetti burocratici, giuridicie più propriamente tecnici legati ad ogni singola opera di con-servazione. Un esempio per tutti: finora si è ragionato in termini di “vin-colismo”, limitando fortemente le iniziative di recupero pub-bliche e private. Tale approccio, in realtà, ha solo desertificatoe mummificato i centri storici, lasciandoli in stato di completodegrado. L’abbandono di questa impostazione deve peròconiugarsi con una progettualità moderna e ordinata, nonpotendosi concepire, al contrario, uno sviluppo anarchico deicentri urbani.Accanto alla questione più propriamente organizzativa vi èdunque anche la necessità di aggiornare l’attuale quadro nor-mativo, anche con riguardo agli strumenti di tutela del territo-rio: non è infatti tollerabile che quest’ultima sia ancora oggiaffidata a leggi e a decreti risalenti al periodo fascista.

Appare poi chiaro che il tema delle infrastrutture e quello del-l’ambiente sono tra loro intimamente connessi: si guardi alproblema del rischio idrogeologico. La soluzione non puòprescindere da un ripensamento delle tecnologie costruttive edi recupero del patrimonio edilizio privato e pubblico; di quil’ulteriore conferma che solo un nuovo ministero dell’Am-biente e del Territorio, supportato da un’adeguata normativadi settore (che tenga conto della complessità del concetto diterritorio e delle esigenze ad esso connesse), potrà far frontea queste sfide, facendo recuperare al paese decenni di ritardo. Non solo: con riguardo al rischio idrogeologico occorre met-tere in campo ogni anno risorse con le quali mettere in sicu-rezza il territorio: la destinazione annuale di una quota fissadel Pil appare l’unica soluzione seria per questo tipo di pro-blemi.

Il nuovo ministero dell’Ambiente e del Territorio

che proponiamo dovrà garantire la compatibilità

e la sostenibilità delle attività umane con

l’ambiente nel quale si svolgono

C’è poi il tema del consumo del territorio: dal dibattito èemerso che l’attuale normativa vigente non stia di fatto rag-giungendo l’obiettivo del “consumo zero”. Nonostante se neparli molto, l’edificabilità dei suoli non sembra infatti esserediminuita: vi è quindi anche in questo caso la necessità di nor-mative ben collegate alle concrete condizioni del territorio.Molto spesso invece ci si trova di fronte a territori fortementeantropizzati, i quali solo successivamente, e in modo del tuttoinutile, sono sottoposti a vincolo. Le stesse procedure autoriz-zative devono essere semplificate ulteriormente: si pensi aitempi lunghissimi e incerti per il rilascio di pareri da partedella Soprintendenza dei beni culturali. Un semplice chiari-mento legislativo circa i margini di applicabilità del meccani-smo del “silenzio-assenso” aiuterebbe gli stessi enti localinella gestione dei titoli edificatori, mentre anche l’utilizzo di

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Unificare le politiche del territorio>>>> Oreste Pastorelli

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nuove tecnologie da parte della pubblica amministrazione peril monitoraggio del territorio appare cosa urgente: “piccole-grandi” misure che richiedono, però, una visione d’insieme euna conoscenza delle reali esigenze del territorio: solo cosìsarà possibile far funzionare le procedure già esistenti ma nonpienamente efficaci. Molto deve essere fatto, poi, con riguardo al recupero dei benidemaniali per l’housing sociale: occorre snellire la filiera isti-tuzionale in grado di incidere sull’utilizzo di tali beni, chia-rendo le competenze di ciascuno, e riflettendo volta per voltasui costi di interventi che comunque devono essere fatti.È venuto poi alla nostra attenzione il tema degli enti locali:qui si deve fare una riflessione aperta sull’attuale disciplinariguardante le competenze e le funzioni dei comuni, specie inmateria di gestione e controllo del territorio. Data la dimen-sione generalmente medio-piccola dei comuni in Italia, c’è dachiedersi se non occorra risalire a livelli di governo superiori(quali le Regioni) per l’elaborazione e l’attuazione di pro-grammi di valorizzazione o di tutela del territorio. Altro pro-filo emerso con forza dai lavori è il collegamento tra il temadel territorio e quello dello sviluppo: questo aspetto è in gradodi caratterizzare l’intera offerta politica del Psi, distinguen-dolo rispetto agli altri soggetti politici. Per fare tutto ciò occorre abbandonare l’ottica formalistica

delle procedure per abbracciare quella più concreta delle stra-tegie, a medio e lungo termine: ed è chiaro che il nuovomodello di ministero dell’Ambiente e del Territorio che pro-poniamo dovrà esprimere proprio questa visione, in grado dielaborare ecosistemi urbani e di garantire la compatibilità e lasostenibilità delle attività umane con l’ambiente nel quale sisvolgono. A quest’ultimo riguardo, mi preme sottolineare come in que-sto discorso svolga un ruolo fondamentale l’attività agricola:il suo rilancio attraverso misure a sostegno dell’agricolturasociale ed ecosostenibile (specie se svolta da giovani impren-ditori) rappresenta strumenti fondamentali per la ripresa eco-nomica (in particolare nei piccoli centri), per la cura del terri-torio e la conservazione dell’ambiente. Sono già molte le ini-ziative parlamentari su questo tema, ma occorre proseguire suquesta strada, investendo sempre di più sulla green economy. Finora, infatti, lo sviluppo economico non sembra abbia coin-ciso con lo sviluppo del territorio e la cura dell’ambiente:questo perché quelle sinergie interistituzionali, da più partiauspicate negli ultimi 50 anni non hanno funzionato: nonhanno prodotto quei frutti, quelle strategie, in grado di salvareil nostro territorio e di farlo crescere. In questo senso c’è lanecessità di ritornare anche sul Titolo V della Costituzione,così come sulla disciplina urbanistica, per ripensare compe-tenze e percorsi decisionali in grado di intervenire in primissul futuro delle nostre città.Da quanto è emerso nel corso dei lavori c’è la necessità dun-que di un’interpretazione dell’ambiente “culturalmentediversa”, all’avanguardia rispetto a quanto sinora propostodai vari soggetti politici: su questo punto, insisto, il Psi si col-loca in posizione di forte vantaggio politico, avendo com-preso prima degli altri l’importanza di questi temi. I problemi sinora citati, e affrontati nel corso del dibattito,appaiono tutti tra loro collegati, anzi intrecciati: quelli delconsumo del territorio, del divario tra nord e sud, dellacarenza delle reti, del rischio idrogeologico, del risparmioenergetico, sono tutti problemi che si rincorrono tra loro e checon il tempo si sono ingigantiti. Dinanzi a questo quadrooccorre allora un approccio “sistemico”, un’unica chiave dilettura in grado di elaborare soluzioni efficaci. Si pensi adesempio alle potenzialità della portualità italiana rispetto alleprincipali tratte commerciali presenti nel Mediterraneo: sedietro un porto italiano non c’è un’adeguata “retro-portualità”(snodi autostradali e ferroviari, etc.), non si possono realiz-zare tutte le potenzialità ad esso connesse, facendo così per-dere importanti occasioni all’intero sistema-paese.

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Èpossibile (e convincente) raccontare la nostra società uti-lizzando la metafora delle sette giare (De Rita): una

società asistemica, organizzata per compartimenti stagni, cia-scuno autoreferenziale e utile solo a se stesso. Insiemi ricchial loro interno, ma chiusi, senza comunicazione e relazione,incapaci di fare sistema. Una società liquida senza ordine si-stemico. I singoli soggetti sono a disagio, si sentono abbandonatia se stessi, in una obbligata solitudine: vale per il singolo im-prenditore come per la singola famiglia. È certamente unostrascico della “società dei due terzi” prodotta dal Welfare no-vecentesco. Ma soprattutto è conseguenza dell’avvento della“società della disintermediazione”, che mette in crisi le tradi-zionali forme di rappresentanza sia sul terreno politico che sulterreno sociale. A questa crisi non si risponde né ripristinando prassi neocor-porative (difesa dello Stato sociale delle corporazioni che haprodotto nuove diseguaglianze e nuove esclusioni), né inse-guendo sogni di democrazia diretta, ma riformando gli istitutidel Welfare verso la creazione di una società solidale delle op-portunità secondo criteri di equità, quali quelli che i socialistiindividuarono a suo tempo nell’alleanza fra il merito e ilbisogno, sulla scia del socialismo liberale e del concetto digiustizia sociale. Sulla scia del socialismo liberale, perché i due termini dell’e-quità e della libertà possono funzionare da bussola. Molte an-ticipazioni che noi stessi abbiamo ispirato possono aiutarci: ilsuperamento dell’idea statalista, una strategia di forte compe-netrazione tra pubblico e privato, un nuovo orizzonte di re-sponsabilità anche diretta dei lavoratori nella conduzione delleimprese, lo spostamento di risorse verso le nuove opportunitàdi lavoro per i giovani e verso le politiche attive del lavoro. E sulla scia del concetto di giustizia sociale, che è un ancoraggioideale del pensiero socialista e che può essere il principalestrumento per arrivare ad una società solidale. La giustizia so-ciale (da visualizzare come una bilancia che pesa e valuta ledifferenze, un equilibrio, e non un peso che schiaccia le diffe-renze e che finisce con l’essere negazione del merito, una

qualità individuale che va riconosciuta per offrire eguaglianzadelle opportunità, e non dei risultati.Merito e bisogno devono essere uniti, andare insieme, perchésenza unione una società rischia di indurirsi nell’egoismo, op-pure di impoverirsi nell’illusione di aiutare i “bisognosi” conl’assistenzialismo, che è una medicina sbagliata, e sicuramenteoggi non più sostenibile. Una rete di protezione sociale è indispensabile per emanciparedal bisogno, creare pari opportunità e incoraggiare a migliorare.La società solidale, la welfare society, è allora una opportunità,perché può essere un modo di rimettere in relazione le settegiare. La società liquida mette in crisi le giun ture siste mi chedella vita col let tiva, e se la poli tica vuole ribadire il suoprimato deve rico min ciare ad agire con tutta la società, senzamettere da parte le forze sociali. Una democrazia non puòvivere di sola delega elettorale: ha bisogno di sussidiarietà, habisogno che la politica ceda alla società organizzata compitipubblici ed è anche per questo che sono indispensabili i corpiintermedi.

Siamo partiti dalla grande ingiustizia del nostro

tempo, la disoccupazione giovanile

Queste considerazioni non ci esimono tuttavia dall’ evidenziareuna lunga serie di ritardi che le forze sociali hanno accumulato,i riti che hanno ingessato le soluzioni e una concertazione cheha perso contatto con il cambiamento sociale in atto. Se pen-siamo alle opposizioni odierne (“anziani-giovani”, “uomini-donne”, “insider-outsider”), ci rendiamo conto di come le ten-sioni non vengano più canalizzate dai corpi intermedi chehanno perso (colpevolmente) larga parte della loro rappresen-tanza e della loro funzione sociale. La società solidale è una opportunità perché una nuova inte-grazione tra i vari soggetti, pubblici e privati, senza tabù eguerre ideologiche, è capace non solo di garantire la tutela sa-nitaria e sociale delle persone, ma anche di favorire la crescitaeconomica, a partire dai territori. E può contribuire alla costru-

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L’alleanza fra merito e bisogno>>>> Elisa Sassoli

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zione di una identità competitiva dei territori e renderli più at-trattivi. Avere un pubblico che controlla di più ed un privatoche prova a gestire qualcosa in più può garantire una maggiorequalità e quantità dei servizi erogati: anche come leva peraiutare la crescita, l’occupazione e lo sviluppo di attività legateal benessere di tutti i cittadini. Già avviene in molti territori,per esigenze oggettive: perché allora non proporlo comemodello da lasciare alla libera scelta delle famiglie?Se “riformismo” è cambiare la vita della gente con idee cheabbiano i piedi per terra, allora il tema, vero, concreto, èquello di governare i servizi, saperli orientare verso qualità ebene pubblico, dare a tutti l’opportunità di servirsi di essi al

meglio: nella sanità, nella cultura, e anche, e soprattutto nellascuola. Anche e soprattutto per i giovani. Da qui siamo partiti:dalla grande ingiustizia del nostro tempo, la disoccupazione eil disagio giovanile, e poi la disoccupazione femminile, in unasocietà che sta invecchiando.Il cambiamento richiesto è allora un cambiamento che tuteligli interessi delle generazioni presenti, ma che li componga inun ordine gerarchico che assegna priorità a quelli delle gene-razioni future. Un cambiamento che il processo di riforme av-viato dal governo Renzi sta attuando, facendo esplicito riferi-mento al jobs act e alla buona scuola. Con il primo per molteplici (e concreti) motivi che riguardano

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soprattutto giovani e donne. Se c’erano due parti ben delineatenel mondo del lavoro (dipendenti a tempo indeterminato digrandi imprese e della p.a. con tutele, e tutti gli altri – che sonosoprattutto giovani senza tutele – adesso il dualismo si sta supe-rando. Tutela della persona e non del posto di lavoro: la tutela diquel determinato posto di lavoro si trasforma sempre di più nellanecessità di trovare un lavoro e di tutelare la persona affinché la-vori. Politiche attive per finanziare l’occupabilità, promuoverel’occupazione e l’inserimento lavorativo, non limitarci a finanziarela disoccupazione. Misure positive per la conciliazione vita-lavoro: maggiore flessibilità nell’utilizzo dei congedi parentali,indennità fino al 30% fino al sesto anno del figlio, congedi per levittime di violenza di genere, scelta tra congedo e part-time.

Sono proprio le aspettative che incorporano

quella proiezione e quella richiesta di futuro che

è il fattore di cui al momento il nostro paese

risulta maggiormente in debito

E la seconda, la buona scuola. Nella società della conoscenzala scuola è il principale strumento per riattivare la mobilitàsociale, e ciò è possibile solo se essa riequilibra la disugua-glianza di opportunità, determinata per ciascun bambinodalle diverse capacità delle famiglie. Una scuola di bassaqualità toglie ai più bisognosi uno strumento per competerecon chi ha di più. Se si ribadisse ciascuno nelle rispettiveposizioni d’ingresso la scuola avrebbe fallito il suo compito.Fare parti uguali tra chi uguale non è non fa altro che con-fermare i meno uguali nelle condizioni di svantaggio iniziali. La buona scuola è stata una riforma molto sfidante: uno scos-sone, che ha portato novità significative e auspicate, soprattuttoin termini di maggiore autonomia, riconoscimento del meritodegli insegnanti, e responsabilità dei dirigenti scolastici: dallalibertà dei percorsi culturali all’apertura della scuola al territorio,a cui fornire e dai cui ricevere benefici materiali e immateriali;dal fondo per il riconoscimento del merito (che sarebbeinefficace se distribuito a pioggia ma sarebbe una svolta storicase fosse destinato, come dovrebbe, a quella percentuale di do-centi che davvero lo meritano, perché si andrebbe oltre l’egua-litarismo che scoraggia i meritevoli e sostiene di fatto un’ im-postazione impiegatizia) all’alternanza scuola-lavoro, al pianodigitale. Oltre che lo sforzo a favore dell’edilizia scolastica.Tra le altre proposte, segnaliamo:• l’implementazione coerente della legge 107/15, fino a giungere

alla piena autonomia didattica degli istituti scolastici;

• la riproposizione del bonus scolastico, che non si traducain finanziamenti a pioggia alle scuole private, ma in uncontributo, calcolato sul costo degli alunni nelle scuolepubbliche, che dia agli studenti e alle loro famiglie l’op-portunità di scegliere liberamente la scuola da frequentare;

• misure per sostenere l’accesso dei giovani al mercatodel lavoro anche sviluppando il progetto europeo “Garanziagiovani”, rendendo strutturali le misure previste;

• promuovere una cultura di partecipazione anche ricono-scendo il diritto di voto ai sedicenni nelle elezioni ammi-nistrative: una “riforma a costo zero” e un ottimo eserciziodi educazione civica, propedeutico al voto politico, signi-ficativo di un maggior interesse verso i giovani;

• istituzione del Servizio civile universale obbligatorio,sia per i ragazzi che per le ragazze, della durata di 6mesi e finalizzato anche a ambiente e protezione civile,per accompagnare le politiche di prevenzione e di valo-rizzazione del nostro patrimonio naturalistico e culturale;

• riforma del terzo settore, promessa e annunciata, e bloccata.Il terzo settore è grande contenitore di opportunità, diesperienza, di formazione, oltre che di lavoro e di innova-zione. Una riforma allora che parta dalla riforma delcodice civile, perché senza cambiare il codice restanosolo leggi di settore. E il riconoscimento al terzo settoredi una soggettività economica (liquidando le teorie dellamarginalità) e cercando così di evitare gli abusi e leelusioni fiscali.

Suggerimenti, idee, temi, non tutti qui evidenziati per ragionidi sintesi, allo scopo di provare a rimettere in moto le rela-zioni, a far sì che le giare producano dinamismo esterno, aconferma che il primato della politica debba servire a rico-struire sistema, e così a mettere in azione il capitale inagito.Oltre all’altra necessità, quella di una politica che rimetta inmoto il desiderio di creare aspettative e orientarle: perchésono proprio le aspettative che incorporano quella proiezionee quella richiesta di futuro che è il fattore di cui al momentoil nostro paese risulta maggiormente in debito.Una politica che guardi al futuro e alla progettualità per su-perare innanzitutto la percezione che i giovani hanno dellacondizione che Mario Calabresi ha così ben descritto nelsuo ultimo libro: “La sensazione di vivere alla fermata diun autobus e di non poter mai salire perché ogni vettura chepassa viaggia completa. La sensazione di disturbare il mondodegli adulti, quelli che sono dentro e non hanno nessuna vo-glia di aprirti la porta, perché tanto, come ti viene ripetutosempre, non c’è posto”.

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L’economia italiana è stagnante a prescindere dagli effettidella crisi finanziaria mondiale: è caratterizzata da un

capitalismo di relazione, dalla carenza di politiche di investi-mento pubblico, da un movimento sindacale ancora legatoall’era fordista, come ha dimostrato la vicenda Fiat. Il redditodelle famiglie italiane dal 2008 al 2014 si è ridotto del 9%. Lacrisi ha colpito maggiormente i ceti medi e medio bassi; la dis-occupazione in Italia è pari all’11,9%, ma è del 21,7% nel Mez-zogiorno, del 44% fra i giovani e del 60% fra i giovani del Sud.Oggi si lavora in pochi e si lavora male: ma il lavoro non è unsemplice costo, come vorrebbe farci credere il neoliberalismo.È invece il fattore produttivo fondamentale dell’economia. Sul“precariato odioso” è già intervenuto il Jobs Act: occorremigliorare le politiche attive costituendo l’Agenzia nazionaledel lavoro e introducendo la partecipazione più ampia possi-bile anche in materia economica, la cosiddetta “democraziaindustriale”. A tal fine, occorre riconoscere la legittimità delsindacato, attuando compiutamente l’art.39 della Costitu-zione; bisogna però regolarne meglio l’attività, indurlo a scelteinnovative, differenziare i modelli di contrattazione (nazio-nale, aziendale ma anche territoriale), e allargare la rappresen-tanza a tutto il mondo del lavoro, anche quello più frammen-tato (non escludendo di intervenire sulla legislazione che dif-ferenzia il lavoro autonomo da quello dipendente). Andrebbealtresì recepita la direttiva europea sul comitato aziendaleeuropeo in connessione alla legge su rappresentanza, rappre-sentatività ed efficacia dei contratti collettivi.Occorre rivedere radicalmente la formazione professionale, per-ché non è più adeguata ai tempi; bisogna introdurre nella scuolail tema della cultura d’impresa che è del tutto assente, comepure prevedere nei programmi scolastici anche elementi di cul-tura economica e finanziaria. Bisogna nel contempo incentivarele imprese a finanziare scuole, università, centri di ricerca e diformazione, creando percorsi formativi per dottorati di ricercadentro le aziende, favorendo l’alta specializzazione in grandicentri universitari di eccellenza nazionale, e liberalizzando gliordini professionali. Bisognerebbe poter valorizzare anche il

“talento migrante”, per le opportunità che potrebbe offrire alleimprese italiane che operano con l’estero. Troppi, poi, sono isoggetti istituzionali attualmente coinvolti nel commercioestero: Simest, Ice, ministero, istituzioni locali, Camere di com-mercio; bastano queste ultime, per contenere i costi e sburocra-tizzare il nostro sistema di relazioni internazionali.Occorre individuare politiche di riduzione e rimodulazione dellaspesa pubblica: lo Stato è la prima impresa italiana e il primodatore di lavoro del paese, ma la spesa pubblica è male distribuitae troppo spesso inefficiente. Bisogna applicare l’analisi costi-benefici in ciascun programma di spesa e rivisitare i centri dispesa delle Regioni, che incidono per la metà della spesa totale.

Non basta dire no (no Tav, no Ponte, e così via)

Lo Stato deve supportare l’ampia varietà territoriale e cultu-rale italiana, sostenere la specializzazione produttiva e il raf-forzamento dei distretti industriali: le vecchie aree produttivevanno superate con la creazione di nuove aree-incubatore perle start-up. Ma è necessario anzitutto ripensare lo sviluppo delMezzogiorno, perché senza di esso la ripartenza dell’Italiarimarrà incompiuta: servono interventi articolati e plurimi, fracui l’introduzione di “zone economiche speciali” per incenti-vare investimenti dall’estero, favorire la creazione di coope-rative giovanili (cui affidare ad esempio terreni e aree dema-niali inutilizzate), prevedere agevolazioni per l’occupazionefemminile, realizzare società di venture capital e una Bancadei Giovani, come ha suggerito De Rita, per facilitare l’avviodi nuove imprese sull’intero territorio nazionale. Occorremigliorare la presenza del Mezzogiorno nei circuiti interna-zionali del turismo e investire sui collegamenti anche logisticicol resto d’Italia e d’Europa, creando altresì un’agenda cultu-rale italiana. È necessaria una diversa e migliore utilizza-zione dei finanziamenti europei, specie nel Sud: servonoopere infrastrutturali e di ammodernamento, per far sì che ilMezzogiorno divenga risorsa per il paese, il naturale collega-mento fra Mediterraneo e Nord Europa. Per questo non basta

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Lavorare meglio, lavorare tutti>>>> Gianpiero Magnani

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dire no (no Tav, no Ponte, e così via): troppi no ad opere pub-bliche ed interventi infrastrutturali bloccano il paese e non sitraducono in un risparmio di costi.Chiediamo altresì maggiori risorse per la green economy: ènecessario attuare il piano della mobilità elettrica su strada,aumentare gli investimenti pubblici nelle energie rinnovabilie incentivare i comuni a rivitalizzare l’edilizia residenziale aprezzi calmierati.

Defiscalizzare gli investimenti effettuati

per nuove risorse lavorative

Per quanto riguarda le politiche fiscali, occorre rispettare ilprincipio di progressività dell’imposizione, anche sulla tassa-zione degli immobili e dei valori mobiliari, come forma diredistribuzione; e andrebbe altresì prevista una più incisivaprogressività nelle imposte di successione. Anche la tassa-zione sui redditi va rivista, permettendo nuove e più ampiedetrazioni delle spese sostenute per far emergere l’economiasommersa, e incentivando il più possibile l’utilizzo delletransazioni elettroniche. I paradisi fiscali vanno combattuti sututti i fronti, a cominciare dai protettorati dei paesi europei;come pure l’arbitraggio delle regole che consente le deloca-lizzazioni competitive e il social dumping (e in Italia combat-tendo con più decisione il caporalato). Non si può poi farecassa sul gioco d’azzardo, che richiede invece ben altri inter-venti sul piano normativo e della comunicazione. Va rivista la tassazione sui redditi d’impresa che non vengonodistribuiti ma che servono a patrimonializzare l’azienda o pernuovi investimenti che possono produrre effetti positiviimmediati sulla crescita e quindi sulle stesse entrate tributarie.Occorre defiscalizzare gli investimenti effettuati sulle nuoverisorse lavorative: defiscalizzare un nuovo posto di lavoro

costa allo Stato meno dell’assistenzialismo. L’assegno di cit-tadinanza, il reddito minimo o sussidio di solidarietàdovrebbe essere connesso ad una qualche forma di lavoroutile, e ridotto per quanto possibile il numero degli inattivi,cioè di coloro che non lavorano, non studiano e non cercanolavoro, e che oggi superano il 35% della popolazione italiana.Il credito è fondamentale per la ripresa dell’economia perchéincide immediatamente su produzione e domanda aggregata.Stiamo per uscire dalla recessione: cittadini che avevano persoil lavoro in qualche caso l’hanno ritrovato, le imprese stannopian piano ripartendo; è necessario prevedere anzitutto unamoratoria sui giudizi di insolvenza formulati dalle banche datifinanziarie nei confronti di coloro che si sono messi in regolacon i pagamenti, anche se con ritardo, rivedendo il codice dideontologia del 2004 a firma del Garante Rodotà. Bisognaaltresì rivedere le modalità di segnalazione alla centrale deirischi della Banca d’Italia. Il tema del rating sta mostrando glistessi limiti delle politiche di austerità: frena la crescita e allon-tana dal modello di banca che dialoga e conosce l’impresa.È necessario prevedere altresì una o più banche pubbliche peril credito industriale, anche accordando nuovi strumenti alMediocredito centrale affinché possa erogare direttamentemutui alle imprese sia per nuovi investimenti con rientro alungo e lunghissimo termine (i cosiddetti “capitali pazienti”),sia per il consolidamento dei debiti esistenti, che ingessanomolte aziende che pure dispongono di piani industriali di rilan-cio. Occorre potenziare le istituzioni di mutua garanzia e ilmicro-credito, per facilitarne l’accesso ai piccoli imprenditori;è necessario migliorare il funzionamento della giustizia civilee accelerarne i tempi di risposta in materia di controversie eco-nomiche, preparando giudici specializzati anche per settoriproduttivi, tipologie di attività economica e lotta all’usura.Bisogna altresì rivedere l’art.1260 del Codice Civile emigliorare lo sfruttamento della Legge 52 del 1991 per preve-dere la completa cedibilità dei crediti alle società di factoring,senza bisogno dell’approvazione del debitore, limitando l’ap-plicabilità delle normative sulla revocatoria fallimentare alsolo debitore ceduto, e facendo rientrare le cessioni del cre-dito negli atti di amministrazione ordinaria delle imprese. Lostrumento del factoring va esteso alle piccole imprese ed aicrediti maturati verso la pubblica amministrazione, azzeran-done totalmente i tempi di pagamento. Una recente indaginedella Banca d’Italia (n.295 ottobre 2015) ha stimato che sevenissero azzerati del tutto i tempi di pagamento della solapubblica amministrazione alle imprese, il Pil nazionalemigliorerebbe di almeno 1,2 punti percentuali in due anni.

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Bisogna avviare una discussione pubblica sulle possibili con-seguenze del “bail in” che dal 2016 sposterà l’onere dei sal-vataggi bancari dai governi ai clienti delle banche, col rischiodi innescare un circolo vizioso caratterizzato dalla compre-senza di aziende in crisi e banche in crisi.Anche a tale scopoè opportuno introdurre per via legislativa in Italia il modello dicodeterminazione sull’esempio tedesco, peraltro già previstodall’art.46 della Costituzione, applicandolo inizialmenteall’intero sistema italiano del credito, come forma aggiuntivadi controllo interno in aggiunta alla Vigilanza esterna, per pre-venire per tempo le situazioni di crisi bancaria e le loro riper-cussioni sul territorio. La codeterminazione nel credito nonsarebbe solo una forma di partecipazione dei lavoratori ai pro-cessi decisionali, ma anche un contrappeso al modello digovernance anglosassone che ha favorito l’espansione dell’e-conomia finanziaria e speculativa interessata agli utili di breveperiodo a scapito delle strategie aziendali di lungo termine.

L’Unione europea è la più grande

potenza economica

del mondo: deve diventare la più grande

potenza politica del mondo

Partendo da questa prima esperienza, il modello di codetermi-nazione nei consigli di amministrazione delle grandi imprese -che da decenni è in vigore in Germania ed è una delle ragionidel successo economico di quel paese - potrebbe essere estesoper via legislativa anche ad altri settori dell’economia nazio-nale: non escludendo neanche l’azionariato, attraverso l’inter-vento dei fondi pensione nel capitale delle aziende.La recente grande crisi economica e finanziaria non ha pro-dotto una nuova regolamentazione del sistema finanziariomondiale. Occorre una nuova Bretton Woods che prevengafuture crisi finanziarie, regoli la circolazione dei capitali e ilmercato dei derivati, e introduca una tassazione internazio-nale sulle transazioni finanziarie. L’Unione europea potrebbesvolgere un ruolo decisivo in questo contesto, perché è la piùgrande potenza economica del mondo: ma pur rappresen-tando un quarto del Pil mondiale non sta svolgendo alcunruolo politico adeguato alla propria potenza economica. Lamancanza di capacità politica è anche il principale ostacoloalla ripresa della crescita interna, soprattutto nell’eurozona,ancora troppo divisa tra un Nord virtuoso e un Sud indebitato.Il differenziale dello spread, un vero e proprio svantaggiocompetitivo, non può essere contenuto solo con gli interventi

della Bce: bisogna introdurre gli Eurobond come soluzionefederale al problema del debito per tutti i paesi dell’eurozona,anche i più virtuosi, perché una sola moneta europea presup-pone un solo debito pubblico europeo. Riteniamo tuttoraattuale in proposito il manifesto sulla democrazia e la finanzaproposto nel 2011 da importanti esponenti del socialismoeuropeo, che potrebbe essere messo all’ordine del giorno diun congresso straordinario del Pse che potrebbe essere con-vocato dalla sezione italiana per discutere le situazioni di crisiche scuotono l’Unione, dentro e fuori di essa.L’introduzione degli Eurobond dovrebbe altresì essereaccompagnata da una riforma fiscale più generale dell’euro-zona, che preveda misure diverse e articolate: fra cui unTesoro europeo, pieni poteri alla Bce di intervenire sul mer-cato primario dei titoli pubblici, una dichiarazione fiscaleunica europea (come suggerito da Piketty), l’armonizzazionedelle aliquote fiscali e in particolare delle imposte sui con-sumi (Iva). Bisogna altresì rivedere il Fiscal Compact e sepa-rare il deficit di bilancio per spesa corrente dal deficit perinvestimenti, che non dovrebbe avere vincoli; prevedendoaltresì emissioni specifiche di Eurobond e finanziamenti Beiper investimenti di lungo periodo e per la ricerca scientifica etecnologica, e creando nel contempo un’area europea per laricerca che incentivi l’innovazione in Europa come processocollettivo e di rete. Maastricht va ridiscussa, perché l’Europasociale è l’unica alternativa possibile alla disintegrazione.Infine, ma non ultimo, il debito pubblico italiano è cresciutodal 99,7% del 2007, anno di inizio della crisi finanziaria mon-diale, raggiungendo il 132% sul Pil nel 2014. E quel che è peg-gio, solo il 4,7% è detenuto direttamente dalle famiglie ita-liane. Ricordiamo che nel lontano 1984 l’incidenza del debitopubblico sul Pil era pari al 74% e il 70% del debito era interno.Occorre creare un fondo nazionale per abbattere il debito pub-blico, che potrebbe anche essere una public company da col-locare in parte sul mercato e nel cui attivo conferire patrimo-nio non strategico dello Stato e degli enti locali, quantificatoin circa 400 miliardi di euro. Non dobbiamo dimenticare chela speculazione sul debito pubblico si è fermata solo graziealle politiche della Bce di Mario Draghi, il cui mandato scadenel 2019, e che l’incidenza sul Pil italiano della spesa per inte-ressi nel 2014 è stata pari al 4,7% , mentre nel 1996 con la liraarrivò all’11,1% del Pil. Siamo parte dell’Unione europea, lapiù grande potenza economica del mondo: bisogna salvare ilprogetto europeo nell’unico modo possibile, facendo diventarel’Unione la più grande potenza politica del mondo. Questo è ilcompito più grande e più difficile del socialismo europeo.

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Pace e sicurezza non possono essere disgiunte da unimpegno più forte del nostro governo sullo scenario del

Mediterraneo, assieme ad un ampio ripensamento delle politichedi integrazione europea che deve vedere l’Italia protagonistadel cambiamento sostanziale di orientamenti e regole chehanno tralasciato il principio di sussidiarietà: con le conseguenzepratiche che hanno avuto una ricaduta assai negativa, comeabbiamo visto nel caso conclamato dell’immigrazione noncontrollata che ha obbligato tardivamente l’Unione ad assumereiniziative di contenimento e redistribuzione dei profughi solol’indomani delle emergenza.È auspicabile una più robusta azione politica che rilancil’azione unitaria del Partito del socialismo europeo, che nonha saputo fare fronte comune all’avanzata impetuosa deiprocessi squilibrati dell’economia globalizzata ed alle reazionipolitiche conseguenti che giudichiamo pericolose : il riaffioraredi rigurgiti xenofobi e nazionalistici, il nuovo vento secessionistache spira all’interno delle singole nazioni europee, nonchéun’avanzata impetuosa delle ricette liberiste che rafforzano igoverni conservatori ed influenzano negativamente anche igoverni a guida progressista.Siamo allarmati da ciò che sta accadendo all’amico e vicinoPortogallo, ove forze diverse si oppongono alla creazione diun governo dal limpido e chiaro segno progressista.Sono crollati gli equilibri internazionali in seguito alla finedel bipolarismo, ma lo squilibrio non è stato sanato né dallapretesa americana di assumere autonomamente la tutela di unnuovo equilibrio, né dal protagonismo economico dei paesiemergenti, e men che meno dal revanscismo putiniano.D’altra parte l’apertura dei mercati finanziari e gli altrifenomeni che genericamente cataloghiamo col termine di“globalizzazione” hanno prodotto conseguenze economichee sociali da nessuno previste in tutta la loro portata. Hannosicuramente esteso la crescita economica ad aree primadestinate a stagnare nel sottosviluppo. Ma contestualmentehanno accentuato le aspettative di benessere delle popolazionifinora più svantaggiate, finchè alla libera circolazione dei

capitali è inevitabilmente seguita la rivendicazione dellalibera circolazione delle persone.È in questo quadro che la questione della sicurezza internazionalesi sta intrecciando con quella della sicurezza interna, specialmenteper quello che riguarda paesi che contemporaneamentesoffrono di una grave crisi demografica.Per ristabilire un equilibrio internazionale accettabile ènecessario innanzitutto lasciarsi alle spalle i riflessi condizionatiereditati dalla guerra fredda: ed è in questa prospettiva chedovrebbe muoversi innanzitutto l’Unione europea, i cui confinisono minacciati ad Est e a Sud dal dilagare del disordine, e lacui cultura politica, d’altra parte, dovrebbe essere in grado disuperare le logiche che ancora caratterizzano sezioni significativedell’amministrazione americana.In questa prospettiva è necessario:• sostenere tutti gli sforzi volti a realizzare in seno all’Ue

una politica comune di difesa, rafforzando anche l’impegnoe la presenza europea all’interno dei dispositivi di difesadell’alleanza atlantica;

• sviluppare coerentemente gli accordi siglati a Ginevra conl’Iran, e creare un’ampia coalizione che stronchi la minacciarappresentata dall’Isis;

• sollecitare la comunità internazionale ad intervenire più au-torevolmente nel conflitto israelo-palestinese: il Psi condannaogni forma di violenza, sia essa recata con l’arma bianca aidanni di cittadini inermi, sia recata sotto forma di rappresagliautilizzando armi di distruzione ad alta tecnologia balistica;

• scoraggiare le politiche nazionalistiche coltivate da alcunipaesi dell’Est europeo;

• puntualizzare una linea coerente e chiara di interventoitaliano nelle aree di crisi: se si addivenisse ad una richiestaformale da parte delle autorità libiche, qualora avessero ri-trovato la via di una soluzione unitaria alla crisi delle treregioni, l’Italia dovrebbe svolgere la propria azione positivaper il ristabilimento della pace, della sicurezza e della fun-zionalità delle istituzioni nell’ambito di una politica positivadi buon vicinato.

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Il disordine mondiale>>>> Bobo Craxi

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Quanto al fenomeno migratorio, nel salutare positivamente lapresa di coscienza delle sue caratteristiche da parte dell’Ue,occorre rivedere complessivamente le politiche finora seguiteper governarlo, senza illudersi di poterlo ridurre a problemadi ordine pubblico o di emergenza umanitaria.Anche l’Italia dovrà puntare all’integrazione piena dei flussimigratori, rinunciando a pratiche velleitarie come quelle a suotempo messe in campo dai governi di centrodestra e a misuredi mero contenimento come quelle finora seguite dai governidi centrosinistra. L’Italia dovrà puntare all’integrazione pienadei flussi migratori, rinunciando a pratiche velleitarie comequelle a suo tempo messe in campo dai governi di centrodestraed a misure di mero contenimento come quelle finora seguitedai governi di centrosinistra.Perciò proponiamo:• il rafforzamento del ruolo dell’alto rappresentante per la

politica estera nel quadro di una sempre più marcatapresenza unitaria dell’Ue nell’arena internazionale;

• il rilancio del Processo di Barcellona dell’Unione euromediterranea;

• la ridefinizione del ruolo della Nato nel nuovo scenariogeopolitico;

• un più incisivo impegno del governo nelle sedi internazionaliper debellare l’Isis, ripristinare la stabilità politica in Libiaed in Siria, rilanciare il processo di pace fra Israele e pale-stinesi;

• la convocazione di un congresso straordinario del Partitodel socialismo europeo sulla questione delle migrazioni e

dell’accoglienza dei migranti;• l’abrogazione della legge Maroni sui migranti;• la sperimentazione di nuovi percorsi di integrazione per i

migranti;• l’implementazione dell’accordo con l’Unione islamica sti-

pulato in applicazione dell’art. 8 della Costituzione;• l’adozione di misure straordinarie per la collocazione di

comunità di migranti nei comuni spopolati ed abbandonati,proposta che ha già avuto delle positive sperimentazioniin alcuni comuni della Basilicata.

Il Psi si impegna – a partire dalle proprie strutture periferichesino ai propri parlamentari – ad adottare conseguentementequeste linee guida, al fine di trasformare in buone pratiche iprincipi di fondo ispiratori di una politica estera che sappiaunire lo spirito internazionalista delle nostre origini all’interessedella Comunità internazionale; per lo sviluppo della suaeconomia in un ambito di cooperazione; per la diffusione ela difesa degli interessi culturali italiani nell’ambito delleproprie comunità all’estero; per il sostegno dei cittadiniitaliani in armi che svolgono un impegno difficile per ilmantenimento della pace e della sicurezza nel mondo, versoi quali non può mancare il sostegno politico attivo di unaforza democratica e pacifica come quella di un partito che sifregia del suo impegno più che centenario a fianco deipopoli in lotta per la libertà e la democrazia e contro laviolenza determinata dallo sterminio per fame causata daiconflitti e dall’avanzare delle crisi di siccità in particolarenel continente africano.

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Siamo un paese a basso tasso di laicità e con difficoltà adaccettare le diversità. Da qui nascono molti problemi e

vuoti legislativi che vengono spesso colmati dalle sentenzedelle Corti, nazionali ed internazionali, che svolgono un ruolodi supplenza a causa dell’inerzia dei legislatori.La prima grande battaglia di laicità fu vinta per merito soprat-tutto dei socialisti con la legge sul divorzio – a prima firma diLoris Fortuna, scomparso trent’anni fa – e con la sua confermaal referendum del 1974. Gli anni Settanta furono segnati daconquiste epocali per il nostro paese, che si arricchì del nuovodiritto di famiglia e della legge sull’interruzione volontariadella gravidanza, confermata con il referendum indetto nelmaggio ’81. Da allora le questioni relative alle libertà delle persone nonsolo sono scomparse dalla scena e dal dibattito politico (conl’eccezione della recente legge sul divorzio breve), ma sonostati fatti passi indietro. Emblematici di questo arretramentosono l’approvazione nel febbraio 2004 della legge 40 (“Normein materia di procreazione medicalmente assistita”), una leggecrudele nei confronti delle donne e delle coppie sterili, oltreche incostituzionale in molte sue parti, e nel giugno 2005 ilmancato quorum per il suo annullamento, grazie alla mobili-tazione astensionista di forze reazionarie e clericali.Esempi della resistenza al cambiamento sono le resistenzesulla legge contro l’omofobia (una legge “lievissima” che silimita ad estendere all’omofobia e alla transfobia l’area di ciòche è penalmente rilevante, e che a due anni dall’approvazioneda parte della Camera aspetta di essere calendarizzata alSenato); per non parlare della legge sul doppio cognome, chepermette alle coppie di decidere quale cognome attribuire afigli e figlie, anch’essa ferma al Senato dal settembre 2014. Altro tema sul quale registriamo ritardi e resistenze fortissimeè quello delle famiglie di fatto, etero e omosessuali: un temache fummo i primi a porre all’attenzione del Parlamento conla proposta di legge della socialista Alma Cappiello nelfebbraio 1988. Da mesi si discute in Senato della legge sulleunioni civili (per il momento definite “formazioni sociali spe-

cifiche”), intesa a normare esclusivamente le unioni tra per-sone delle stesso sesso.Ovviamente non condividiamo la recente sentenza del Con-siglio di Stato, che ha stabilito che sono nulle le trascrizioninegli archivi di stato civile dei Comuni italiani degli atti dimatrimonio tra persone dello stesso sesso contratti all’estero.Rileviamo inoltre che l’estensore del provvedimento si erain precedenza schierato a favore della tutela della famigliaeterosessuale e non risulta che ne abbia informato gli altricomponenti il Collegio giudicante, il che non ha consentitoloro di valutare l’opportunità che facesse parte del Collegiostesso e soprattutto che gli venisse affidata l’estensionedella sentenza, a seguito della quale è ancor più necessariauna legge.

Nei reparti di terapia intensiva ogni anno 20.000

malati terminali muoiono con l’aiuto dei medici,

quasi sempre con l’assenso dei familiari

A proposito di unioni tra persone dello stesso sesso, essevanno normate sulla base del principio che l’accesso aidiritti non può essere graduato a seconda del sesso, dell’o-rientamento sessuale e dell’identità di genere delle persone.Così come non è concepibile che una donna, in quanto tale,debba godere di minori diritti, altrettanto non è accettabile lalimitazione per le persone LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali,transessuali, intersessuali). La nostra proposta deve esserechiara e coerente, come ad esempio la sentenza della Cortesuprema Usa che ha dato il via libera ai matrimoni gay intutti i 50 Stati.È di queste settimane un fiorire di iniziative volte a “crimi-nalizzare” la cosiddetta teoria del gender. L’argomento èstato sollevato strumentalmente a seguito di una circolareministeriale sul Piano triennale dell’offerta formativa perassicurare l’attuazione dei principi di pari opportunità, l’e-ducazione alla parità e all’accettazione delle differenze, ladecostruzione degli stereotipi sessisti e omofobi, la preven-

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Liberi e uguali>>>> Pia Locatelli

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zione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni. Èquindi strumentale l’accusa di voler introdurre nelle scuolela teoria gender indottrinando scolari e studenti con l’obiettivodi scardinare i valori della famiglia e banalizzare qualunquecomportamento sessuale.Libertà delle persone è anche libertà di decidere del propriofine vita (testamento biologico ed eutanasia), superando iltabù dell’eutanasia che è sempre molto forte nel nostro paese.Lo dimostrano tre fatti:- il rifiuto di un aperto dibattito parlamentare e l’affossamentodelle proposte di legge sia di iniziativa parlamentare (comequella socialista presentata all’inizio della legislatura), sia diiniziativa popolare (come quella promossa dall’AssociazioneLuca Coscioni e depositata nel settembre 2013);- l’interesse episodico della stampa e soprattutto delle televi-sioni;- il silenzio, ad eccezione di Umberto Veronesi e di pochialtri, dei nostri più illustri intellettuali. In realtà nei reparti di terapia intensiva ogni anno 20.000malati terminali muoiono con l’aiuto dei medici, quasi semprecon l’assenso dei familiari. Questo dato risulta da una ricercadell’Istituto “Mario Negri” resa nota il 17 ottobre del 2007,anche se lo stesso Istituto ritiene che non si tratti di eutanasiama di desistenza terapeutica: una distinzione formale che anostro parere non cambia la sostanza dei fatti.

Difendiamo il principio sacrosanto

del diritto all’obiezione di coscienza,

ma non ne tolleriamo l’abuso

L’altro dato inquietante è quello dei suicidi di malati terminalio comunque affetti da malattie, fisiche o psichiche, nonguaribili e tali da provocare sofferenze intollerabili. Secondol’Istat sono circa mille l’anno, e poco più di mille i tentativinon riusciti. Casi “ufficiali” cui bisogna aggiungere i tanti dicui non conosceremo mai né il numero né la storia. La prudenza dei legislatori si scontra quindi con il sentiredelle persone, che in alte percentuali sono favorevoli all’eu-tanasia e ancor più alte al testamento biologico. All’inizio della legislatura i socialisti presentarono una propostadi legge sul testamento biologico scegliendo un approccio“prudente” e rinviando a tempi successivi il tema dell’eutanasia.A distanza di due anni ci pare che i tempi siano maturi perchéil tema del fine vita sia affrontato nella sua completezza e ca-lendarizzato al più presto nei lavori parlamentari. I socialistidanno inoltre pieno appoggio alle iniziative extra-parlamentari,

confermando il diritto all’autodeterminazione, principio cheabbiamo sempre sostenuto a partire dalla legge 194 sull’inter-ruzione volontaria della gravidanza.A questa è collegato il tema dell’obiezione di coscienza, cheha visto posizioni diverse a confronto. Noi difendiamo il prin-cipio sacrosanto del diritto all’obiezione di coscienza, ma nonne tolleriamo l’abuso, cui fanno pensare le alte (a volte altis-sime) percentuali di medici che vi ricorrono. Quello all’obie-zione e quello al servizio sono due diritti che confliggono, econciliarli è un problema di difficile soluzione: che però vatrovata, a partire da una diversa organizzazione del servizio,anche prevedendo figure aggiuntive all’organico chiamate al-l’uopo, e tenendo conto che prevedibilmente il tema si porràper altri ambiti (vedi l’obiezione di coscienza della funzionariastatunitense alla celebrazione di matrimoni tra persone dellostesso sesso).Il tema delle libertà delle persone abbraccia anche la giustizia,con particolare riferimento all’amnistia. La proposta dellaconcessione dell’amnistia in occasione del Giubileo (legameritenuto inaccettabile per un partito che ha fatto della laicità ilsuo tratto distintivo) ha suscitato un vivace dibattito: la diffusapercezione di insicurezza, vera o presunta, nella società; ilgiudizio sulla inefficacia della misura, visto l’alto tasso di re-cidiva in tempi brevissimi; ed infine il complessivo giudizionegativo sul funzionamento del nostro sistema giudiziario esui comportamenti di pubblici ministeri e giudici portano adescluderne l’adozione.Quindi un no prevalente all’amnistia, ma una insistenza sullanecessità di un approccio diverso alla gestione delle carceri(ora soprattutto luogo di repressione e università di delin-quenza), che devono invece promuovere percorsi di rieduca-zione e “retribuzione” della società come forma di riparazionedel danno, attraverso percorsi formativi1. Rientra nella famiglia delle libertà anche la libertà dell’infor-mazione, sempre più carente perché oggi non esistono più gli“editori puri”: i grandi giornali sono proprietà di gruppi econo-mico-finanziari, di conseguenza la stampa non è veramente li-bera; internet non sopperisce alla carenza anche perché non viè cura di verificare l’attendibilità di quanto viene pubblicato.Quando si parla delle libertà delle persone non si può non par-

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1 Esempio significativo è l’accordo tra l’Associazione Fare Ambiente-Movimento Ecologista Europeo, di Favignana, e il Ministero dellaGiustizia finalizzato all’elaborazione e all’avvio di progetti tecnico-for-mativi sul rispetto della legalità e dell’ambiente rivolti alla formazionecontinua dei detenuti al fine di conseguire attestati di qualifica e skillprofessionali, anche di antichi mestieri, per inserirsi più facilmente nelcontesto socio-economico territoriale.

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lare dei diritti umani dei richiedenti asilo e dei rifugiati,sessanta milioni di persone che si muovono nel mondo incerca di protezione internazionale. Si è soliti pensare che fug-gano da disastri ambientali, carestie, guerre e terrorismo,come è il caso di questi ultimi mesi: ma la protezione interna-zionale viene invocata anche da chi fugge da paesi dovevigono la tortura, pratiche tradizionali dannose come le muti-lazioni dei genitali femminili e i matrimoni precoci e forzati,dove l’omosessualità è considera reato e perseguita con lapena di morte.Fenomeno non sempre facile da separare rispetto ai rifugiati èquello dei migranti economici che cercano migliori condizionidi vita. Se nel caso delle migrazioni economiche vannorispettate le regole e valutate le conseguenze sul nostro paesedelle nuove presenze, prevedendo opzioni diverse, anche dinon accoglienza ed espulsione, la concessione della protezioneinternazionale a chi ne ha diritto è un obbligo cui non possiamo

sottrarci. Va però evidenziato che l’attuale sistema sconta unastrutturale debolezza anche normativa, a partire dal regolamentodi Dublino (Dublino III), che rende difficile gestire i flussi,soprattutto nelle fasi di primissima accoglienza e identifica-zione.Al diritto all’accoglienza si deve accompagnare il dovere dirispettare le nostre regole per chi entra in Italia con un bagagliodi culture, costumi e tradizioni non sempre compatibili con iprincipi di libertà e integrità personale: le mutilazioni deigenitali femminili, i matrimoni precoci e forzati, la negazionedell’uguaglianza tra donne e uomini non possono trovare ac-coglienza. È necessario un equilibrio capace di contemperarele esigenze, spesso diverse, di chi arriva nel nostro paese e dichi ci vive da sempre. Il rischio da non correre è di dividere lepersone tra chi è pronto ad una accoglienza senza criteri e chichiude a priori ogni possibilità di accoglienza, fomentandopaure e insicurezze per mera convenienza politica.

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Debbo ringraziare per l’invito a questa vostra conferenzanella mia qualità di sindaco della città di Matera. È una

carica istituzionale che ho assunto pochissimi mesi fa. edebbo esprimere alcune valutazioni che nascono da questaesperienza “scandalosa” che mi porto addosso. L’ambizione di un sindaco di una città del Mezzogiorno chenel 2019 rappresenterà l’Italia è quella di costruire il modellodi un Mezzogiorno che funziona, di un Mezzogiorno che nonsi lamenta, di un Mezzogiorno che vuole attraverso questaopportunità epocale costituire un punto di riferimento perattivare quelle scelte, quelle azioni, quelle visioni che sonostate poi declinate nel corso dei precedenti interventi. Io sono un oggetto misterioso perché sono diventato un rap-presentante istituzionale dopo una lunga militanza civica. Enel nostro contesto nazionale si pone il problema del ruolodelle militanze civiche. In tre mesi noi abbiamo costruito unmovimento, e come Davide abbiamo abbattuto Golia. Perchétutte quelle cose che sono state dette poco fa sono stateoggetto di un lungo processo che ho chiamato “il metodoMitridate”: cioè distillare con caparbia costanza il seme delvalore della appartenenza, della capacità di dire alle donne eagli uomini del nostro territorio di ritrovare il senso dell’au-tostima, di chi siamo, da dove veniamo, di quale è la nostrapossibile costruzione di futuro. Questo è stato il processo, direi scandaloso, del nostro per-corso. Che ha trovato nel fattore cultura l’elemento lievi-tante. Perché la cultura non è un fatto accidentale: è un mododi essere, un modo di sentire, un modo di esprimersi, un mododi vivere; ma deve essere una cultura praticata, quella che iochiamo cultura operaia, cultura d’azione, pensare per fare. Questo è stato il metodo che noi abbiamo adottato per oltrequarant’anni; il metodo che ha trasformato la frustrazione diun’area meridionale ritenuta in tempi lontani vergogna nazio-nale in orgoglio di appartenenza: che significa recupero diuna responsabilità su un territorio che si ritiene finalmente unterritorio fecondo e non un territorio inerte. Queste sono state le ragioni di un successo incredibile.

Vedete, Matera ha vissuto un crescendo rossiniano, passando– come dicevo prima – dalla frustrazione di una condizione diattenzione come luogo di miserabilità al riconoscimento del-l’interesse nazionale sulla città e poi al riconoscimento Une-sco come patrimonio mondiale dell’umanità. Ciò che era vergogna e cattiva coscienza è stato riconosciutoinvece patrimonio mondiale dell’umanità e poi nel 2014Matera è stata designata la città italiana che sarà capitaleeuropea della cultura nel 2019. Vi siete chiesti perché questacittà marginale, periferica, diciamo minore, è riuscita a vin-cere a vincere su città aristocratiche, nobili, ormai universali?Perché i commissari dell’Unione europea hanno verificatoquesta lievitazione comunitaria. Questo è il prodotto diquello che è stato poco fa detto sui valori civici e i valoriumani: nel senso che i cittadini hanno cominciato a compren-dere che non potevano essere più spettatori ma attori di unaloro crescita e di un loro processo.

La cultura, ha detto qualcuno, rende inevitabile

ciò che è altamente improbabile

Vedete, io sono qui a raccontarvi queste sensazioni che sonodiventate poi concretezze. Quale è stato il mistero di questavitttoria che rientra in una logica di prospettiva per l’interanazione. Nel nostro territorio è avvenuto un miracolo. Laquestione culturale è divenuta questione politica. Cioè i citta-dini sono ritornati ad essere visceralmente legati alla loropolis, al loro territorio, al loro valore identitario. Non piùclienti, non più spettatori, ma protagonisti. Il diciassette otto-bre dell’anno scorso nella piazza di Matera c’erano cinquemilapersone in attesa, non per festeggiare la vittoria, ma in attesadi conoscere l’esito di una competizione di cui loro si senti-vano protagonisti. Cioè, erano lì in trepidante attesa di unrisultato di cui loro si sentivano creatori e produttori. Questaè stata la vicenda: per cui quando Franceschini ha pronunciatoil nome di Matera ci sono stati momenti di giubilo, ma c’èstato anche un diluvio di pianto un pianto di partecipazione.

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Un meridionalismo vincente>>>> Raffaello De Ruggieri

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Per entrare in un discorso propositivo, noi siamo scesi incampo dopo quella vittoria perché non potevamo più esserespettatori di momenti celebrativi e di momenti festaiuoli. Lavittoria andava governata, andava capitalizzata, andava utiliz-zata. Il potere contrattuale, il brand che Matera oggi ha acqui-sito, doveva essere messo a frutto: non più per un fatto diostentazione ma in un momento di progettualità, attraversoquesta inaspettata opportunità che il territorio aveva avuto. Io sono legato ad alcuni principi che mi porto addosso. Lacultura, ha detto qualcuno, rende inevitabile ciò che è alta-mente improbabile. Voi potete immaginare la probabilità diuna città periferica meridionale che potesse diventare rappre-sentativa del valore culturale della nazione e dell’Europa:sembrava impossibile eppure è avvenuto. Allora questa è lasfida che io mi porto addosso, come rappresentante di unMezzogiorno che è passato da un sogno esigente a un’azioneoperativa forte per costruire il modello di un Mezzogiornoche non si lamenta e che realizza non sogni, ma azioni e con-cretezze.

Questo è il livello di una partecipazione che ha portato me,militante civico, ad essere oggi il sindaco della mia città,anche questo in maniera inaspettata e “scandalosa” (in sensoevangelica). Uno scandalo politico perché dietro di me nonc’è la proiezione di una carriera politica, c’è solo il livellomorale di una missione che io mi porto addosso e che i mieicittadini e le mie cittadine mi hanno confermato. Queste cose volevo dirvi, perché credo che c’è qualche scin-tilla positiva nel nostro territorio e nella nostra nazione. Èstato scritto da qualcuno: “se ce l’ha fatta Matera ce la puòfare l’Italia”. Guardate che cosa porto addosso come sindacodi questa città marginale. Porto addosso la scommessa dipoter diventare un elemento di riferimento per un nuovomodello sociale di sviluppo.Chiudo questo mio intervento per dirvi quale è stato il risul-tato di questo percorso. Quello innanzitutto di costruire -insieme al governo europeo, al governo nazionale, al governoregionale - un progetto non voglio dire speciale, perché que-sta parola non mi piace, ma di preveggenza di una città chevuole costruire un codice di pratica democratica ed essere unacittà attraente e attrattiva. Matera ha sette mila anni di vita,Matera è uno spazio geografico che si è fatto storia, e su que-sto spazio geografico dobbiamo innestare il vessillo della spe-ranza. Il cinque novembre a Matera vengono i rappresentanti di que-sti governi a tracciare la cornice del patto per il Sud, e all’in-terno del patto per il Sud di un patto per la Basilicata e perMatera. Ma quello che mi piace dirvi, quello che oggi si toccacon mano nel ventre sociale di un territorio meridionale, è ilsorriso: cioè si è passati dalla disaffezione, dalla rassegna-zione, dall’immobilismo, dalla tristezza malinconica di un’e-sistenza, ad una vitalità di fiducia e di speranza, quello cheforse manca al paese oggi. Queste sensazioni, queste testimonianze volevo portarvi. Iosono un povero avvocato di provincia che ha vissuto la suavita per innalzare i livelli di attenzione su una città straordi-naria. Adesso ho innalzato il livello della speranza della miacomunità attraverso la testimonianza di vita. Questo è il latoil dato principale che volevo esternarvi, senza più riportare iltema di questa nostra vicenda particolare . E vorrei chiudere un’altra forza propositiva: stiamocostruendo un progetto speciale per la città che potrebbeessere esportato. Oggi Matera è un brand, oggi Matera ha unappeal straordinario. La mia ambizione è di costruire unmodello di meridionalismo vincente: quel meridionalismovincente che potrebbe essere il lievito per un futuro migliore.

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Il cambiamento in atto della società ha la necessità di esseregovernato e per questo analizzato al fine di sviluppare

nuove e appropriate modalità operative. In un momento diforte cambiamento globale in tutti i settori, l’Italia di oggiviaggia con affanno su molteplici strade che noi per semplifi-cazione possiamo ridurre a due, ma entrambe identificate dalcaos: una con creatività e l’altra con pessimismo, e connessuna connessione tra loro se non casuale. Le due vie nonhanno un percorso condiviso con obiettivi da raggiungere e ilpossibile movimento si deve alla sola capacità degli italiani.Il primo percorso, composto di alcuni elementi caratteristicidell’Italia come le Pmi (localizzate quasi tutte nel Centronord),in cui lavorano l’80% degli occupati e con quota export chesupera (27,8%) la media europea (27%). Inoltre, le Pmi rap-presentano il 99,9% delle imprese e l’80% dell’occupazione,con notevole capacità di reazione alla crisi sui mercati inter-nazionali, dove pesano per il 55% dell’export totale. Rappre-sentano per il nostro paese il traino all’innovazione, allacrescita economica, alla creazione di posti di lavoro, e svolgonoil ruolo di coesione sociale. Inoltre rappresentano l’eccellenzain alcune nicchie di mercato come nel caso di creazione e rea-lizzazione di prodotti di alta gamma in cui l’Italia producel’80% del mercato mondiale. I punti di debolezza delle nostre Pmi: sono poco strutturate,non fanno rete sull’internazionalizzazione, troppo il gap disviluppo tra nord e sud, non hanno un sistema di comunicazionee retail efficace sul prodotto e non assicurano tracciabilità deicomponenti e dei prodotti al fine di garantire i loro clienti in-ternazionali.Altro elemento è il fenomeno crescente delle start up che sisviluppano sia nel settore delle tecnologie digitali che nelsistema del made in Italy, molte delle quali operano nelsistema della moda. Le start up molto spesso si sono rivelatestrutture ingenue ed effimere dentro una bolla di consulenti edincubatori: ma hanno ridato vita al tema di fare impresa e allacultura di impresa in Italia. Le persone che le creano sonoquarantenni, tutti laureati con master all’estero e dottorati:

quindi persone con un’alta formazione, e spesso di livello in-ternazionale.I punti di debolezza sono l’assenza del trasferimento della culturadelle start up nelle imprese tradizionali, la scarsa trasmissionedelle competenze in tecnologie digitali nelle Pmi (secondo lemodalità manifacturing 4.0). Inoltre molte delle nostre start up,in particolare quelle che creano nuovi prodotti e servizi nelcampo del digitale, vengono acquistate da aziende estere.Il secondo percorso è identificato dal caos del pessimismo:quello che ha dimostrato un paese impreparato ad affrontarela disoccupazione di lunga durata, la disoccupazione giovanile,la povertà in aumento, le diseguaglianze, il disagio sociale, ela morsa di una pubblica amministrazione sempre più impegnataa scrivere “le regole delle regole” con l’unico fine di paralizzarela macchina pubblica rendendola sempre più impermeabile,con una complicazione del linguaggio a volte desueto ed in-comprensibile. Una pubblica amministrazione in cui non sipremia il merito ma in cui si rende difficile la vita a chi vuolelavorare.Sembra quasi impossibile che le due vie non abbiano elementidi connessione: in quanto la prima via che cerca risorseumane da assumere non condivida con l’altra una vision perdiminuire la quota di disoccupazione che oscilla tra il 20 e il40% in base al luogo e all’età. Forse è necessario interpretareil cambiamento in atto in tutti settori con un cambiamentoculturale nel modo di pensare e con la creazione di nuovestrategie e prassi operative. Con la forza (anzi la capacità) dinon dire solo no a qualunque ipotesi di trasformazione o di in-novazione, con la determinazione di condividere un progettoculturale ed economico per un paese del XXI secolo. L’Italia ha necessità di un progetto che dovrà definire le lineestrategiche di sviluppo e quindi di occupazione. È un paeseche deve trovare nella propria storia e cultura materiale e im-materiale i valori per un nuovo modello di innovazione chetenga conto dello stile di vita italiano, che gli altri ci riconosconocome valore assoluto e che noi non sappiamo reinterpretare inquesta nuova configurazione globale.

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Start up Italia>>>> Elisabetta Cianfanelli

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Vi assicuro che sento tutto il peso sgradevole del ruolo cuisono stato chiamato: cioè che, essendo io quello che si

usa chiamare, con una parola molto ambigua, un “intellet-tuale”, la mia parte è quella della mosca cocchiera, che non èmai una parte molto gradevole. Mi sento comunque autoriz-zato a farla anche spinto da una antica simpatia verso il partitosocialista, che ormai risale a molti decenni fa (credo che sianomolte le persone qui dentro il cui rapporto con il partitosocialista è ormai un rapporto semisecolare).Il Psi oggi è un piccolo partito: e allora mi domando che cosabisogna chiedere ad un piccolo partito. Penso che bisogne-rebbe chiedergli di non sentirsi troppo vincolato, troppostretto al realismo delle proposte. Invece ho visto, special-mente stamattina, un oceano, un torrente di proposte: conquesto Leitmotiv del “bisogna”. Ho una certa età, e miricordo i programmi dei partiti della prima Repubblica: chenon erano niente male, però era un continuo martellanteelenco di “bisogna”, e poi non si diceva mai come fare, conquali costi.Io personalmente (ma questa naturalmente è un’idiosincrasiapersonale) quando sento ancora parlare di certe cose (lariforma della legge elettorale, la nuova costituente) non dicoche mi verrebbe voglia di mettere mano alla pistola, ma quasi.Naturalmente sono il primo a fare autocritica: anche io hocontribuito allo scempio di chiacchiere su questi argomenti.Però penso che ad un piccolo partito bisognerebbe chiederedi concedersi il lusso di essere un po’ visionario, di parlare dicose di cui gli altri non parlano, non di parlare delle stessecose di cui parlano tutti, magari in modo diverso per affer-mare la propria diversità.Credo che questo sia anche un modo per combattere quelladesertificazione culturale di cui parlava nella sua relazioneCovatta: facendosi delle domande che non tutti solitamente sifanno. Allora vi farei per esempio una domanda a cominciaredall’argomento di questo convegno, il cambiamento. È sicuroche il cambiamento sia sempre un valore, che sia un valore diper sé?

Noi siamo abituati a considerarlo un valore perché lo asso-ciamo ad una parola (di cui però non abbiamo più il coraggiodi parlare) che è la parola “progresso”. Pensiamo che ognicambiamento sia un progresso: però del progresso abbiamodei dubbi a parlare, perché siamo abbastanza consapevoli cheforse la realtà degli ultimi decenni o degli ultimi anni rendel’uso di questa parola alquanto problematico. Allora parliamodi cambiamento, ma ne parliamo più o meno come parla-vamo quando parlavamo del progresso: il progresso è unacosa bella, e anche il cambiamento è una cosa bella.

Oggi il cambiamento è spesso sinonimo

di disgregazione sociale

Io invece avrei dei dubbi. L’Italia degli ultimi due decenni(forse tre) è cambiata, accidenti se è cambiata: ma è cambiatabene? Non so, avrei dei dubbi. Ogni cambiamento, soprat-tutto oggi, è dettato dal grande motore delle tecnologie: chesono sempre molto belle, ci seducono. Nascondono però unproblema: sono sempre in qualche modo collegate a degliinteressi, e spesso quindi sono anche nemiche della libertà edell’uguaglianza, due teorie che sono ancora care a molti dinoi. Il fatto che ogni sei mesi esca un nuovo modello di i-phone, che i ragazzini a sette, otto anni abbiano in mano que-sti aggeggi, è certo un cambiamento, ma un drammatico cam-biamento: e così se ne potrebbero citare molti altri che mipare difficile considerare cambiamenti positivi.Oggi - ve lo offro con tutta la parzialità di un punto di vista- il cambiamento è spesso (in Italia ma non solo) sinonimo didisgregazione sociale. È un cambiamento che immiserisceper molti aspetti la società, che immiserisce sostanzialmentela vita degli individui: naturalmente sempre pensando ad unmodello di vita degli individui che forse ha fatto il propriotempo. È un fatto che mi colpisce, e anche in questi duegiorni qui ho avuto questa impressione: abbiamo una grandedifficoltà oggi a pensare la società, a pensare il legamesociale.

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Difendere il legame sociale>>>> Ernesto Galli della Loggia

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In pratica il legame sociale nelle nostre società è il welfarestate, le provvidenze che lo Stato è in grado di dare. Il bilan-cio dello Stato è il vero legame sociale: ma per quanto tempopotrà durare? Per quanto tempo ancora le democrazie, lenostre società, riusciranno a comprarsi il consenso attraversoil welfare state, attraverso la spesa pubblica? Siamo sicuri checi saranno sempre le risorse per pagare tutto quello che oggipaghiamo? E per quanto tempo ancora potrà durare il com-promesso keynesiano su cui le socialdemocrazie hanno costi-tuito la propria identità? La socialdemocrazia (e quindi anche il partito socialista) esi-ste soltanto perché è esistito il compromesso keynesiano.Prima non era possibile una politica come quella che lesocialdemocrazie hanno posto al loro centro, e quindi l’iden-tità socialdemocratica - è il dramma della socialdemocraziatra le due guerre mondiali - è stata sempre fluttuante, incerta:da un lato il fallimento del 1914, dall’altro l’incalzare deicomunisti. Grazie poi invece alla nascita nel 1945 di undiverso meccanismo economico si è potuta costruire un’iden-tità delle socialdemocrazie.

Il socialismo è nato come un discorso sulla

natura del cambiamento, sottoponendolo al

giudizio dei valori nel momento in cui le società

europee stavano conoscendo il più clamoroso

cambiamento della loro storia

Ma è possibile però che le socialdemocrazie pensino illegame sociale soltanto in questa prospettiva? Io penso chequesta prospettiva si stia consumando rapidamente, che la vit-toria delle destre che si sta profilando in moltissimi paesid’Europa significa appunto l’emergere di un grave problemadi legame sociale, a cui la sinistra non riesce più a dare unarisposta. E penso che la ripresa della dimensione religiosa,che si vede da molti sintomi, dipenda anche da questo: perchéin essa si vede un legame sociale, un’identità delle societàeuropee che invece in altre cose si sta perdendo. Andiamo verso il bisogno di un legame sociale non contrat-tato: nelle opinioni pubbliche europee, e anche nel meccani-smo della governance europea, è sempre più presente questoproblema, che forse sta aprendo una pagina di storia politicainteramente nuova. Cambiare, ma come? La sinistra dovrebbe porsi questo pro-blema del come cambiare. Invece mi sembra che la sinistra(non parlo soltanto del partito socialista ma, diciamo così, di

parti molto più consistenti oggi nel panorama italiano) è sem-pre un’apolegeta del cambiamento, una forza a cui piacesempre tutto, che trova sempre bellissima e positiva qualun-que novità.Un tempo non era così. La sinistra è nata per contestare laqualità del cambiamento, o perlomeno per sottoporlo ad ungiudizio. Mi pare che invece questo si stia perdendo. Il cambiamento viene giudicato sempre positivo, soprattuttoquando è ampliamento della sfera dei diritti individuali: chepoi è il cambiamento non economico, che viene sempre citatocon grande favore, con grande simpatia e identificazione.Non vorrei apparire più reazionario di quello che sono: peròavrei dei dubbi su un ampliamento della sfera dei diritti intesosoprattutto come ampliamento della sfera della soggettività,diciamo così, biologico-emotiva (e quindi il diritto di sce-gliere la proprio identità sessuale, di scegliere di morire, discegliere come sposarsi, eccetera). I diritti individuali sonosempre più questi, e sono invece sempre di meno i diritti delfare e dell’essere socialmente. Molte battaglie per il diritto individuale a scegliere il propriostile di vita, a scegliere se essere o no genitori: ma invece sitrascura tutta un’altra sfera di diritti legati appunto alla possi-bilità di fare socialmente, di essere socialmente qualcosa,quello che si vuole, che si spera. Sta capitando questo ancheper una ragione su cui la sinistra dovrebbe riflettere: e cioè lacatastrofe (uso questa parola a ragion veduta) del sistema ita-liano dell’istruzione, che ormai da almeno un paio di decenniha praticamente fatto sì che la scuola non sia più in nessunmodo un ascensore sociale e che quindi nessun ragazzo uscitodalle classi inferiori della società possa ragionevolmente aspi-rare a veder migliorato il proprio ruolo.Su questa catastrofe dell’istruzione si aprirebbe un altro capi-tolo che a me piacerebbe veder trattato, il capitolo dell’auto-critica. Forse per essere credibili oggi bisognerebbe fare delleautocritiche sull’ieri, ma non sull’ieri del partito x o y (questecose le fanno tutti i giorni i giornali): l’autocritica sulle sceltedi fondo. Per esempio, se l’istruzione è oggi alla catastrofe èperché nel settore il punto di vista della sinistra ha avutomodo di affermarsi, e perché i sindacati hanno avuto modo dioperare in maniera assoluta (e questo in genere vale per tuttoil pubblico impiego). Qualcuno ieri ha ricordato una frase di Craxi, “la società stacambiando da sola”: sì, la società cambia da sola, ma comecambia? Spesso cambia male. Ci sarebbe bisogno di intro-durre in questo controllo del cambiamento un concetto a cuisono personalmente sempre più affezionato, cioè il concetto

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di limite: che è un concetto che va bene per quello cheriguarda le risorse, ma che va bene anche per quello cheriguarda i diritti. Perché noi non pensiamo che sia ammissi-bile la poligamia, pur tra persone consenzienti? C’è qualcosache ci porta a dire no. Abbiamo una tradizione, una storia,che costituiscono un limite. Queste cose andrebbero pensate, andrebbero messe a fuoco.Io penso che cambiare, oggi, in qualche modo voglia anchedire conservare o restaurare. Penso per esempio ad un grandeassente nella discussione di queste giornate: parlo dello Stato.I socialisti da lungo tempo per fortuna non sono più statali-sti: però tutto quello che si può fare per la società in generelo si può fare attraverso qualche cosa che bene o male è loStato, lo strumento di cui qualunque politica ha bisogno. Èinutile che spendo parole per dire che cos’è lo Stato italiano,a cosa è ridotto. Ma l’autocritica ci dovrebbe far dire che farele regioni è stato uno sbaglio colossale: pensate che forza

avrebbe un partito di sinistra che dicesse “le regioni sonostate una boiata pazzesca, chiediamo scusa”. Conservare il legame sociale oggi mi pare un compito urgentedella sinistra anche per strapparlo come grande tema alla destra.Guardate che la destra si fa forte oggi soprattutto di questo: dellegame sociale, dell’identità. Conservare anche l’identità dell’I-talia (qualcuno di voi forse saprà che è un tema a me molto caro):l’identità del paesaggio, la conservazione della sua tradizione. Abbiamo bisogna insomma di un discorso molto serio suicontenuti del cambiamento. Il socialismo, come ricordavo, ènato come un discorso sulla natura del cambiamento. È natonel momento in cui le società europee stavano conoscendo ilpiù clamoroso cambiamento della loro storia, la rivoluzioneindustriale. Ma per l’ appunto il socialismo – prima di Marx eal di là di Marx – volle vedere che cosa c’era dietro quel cam-biamento, sottoponendolo al giudizio dei valori. Spero che ilsocialismo continuerà a farlo.

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Considero importantissima la solidarietà tra partiti fratelli,non solo a parole, ma anche nei fatti: per cui veramente

sono grato per questo invito e per la possibilità di partecipare.La mia patria, il mio paese attualmente si sta staccando dal-l’Europa, e si sta anche in un certo senso disgregando.L’Ungheria ha un governo che esercita una democraziailliberale: crede che le libertà personali, i diritti di libertàsiano solo un fattore di limitazione per il paese e per il funzio-namento del suo governo. Da quando questo sistema è al governo sta svolgendo unaguerra generalizzata all’Unione europea. Ma anche la miapatria si sta spezzando, per effetto della terribile disuguaglianzache divide il paese. Questo governo sta consentendo la nascitadi super ricchi a fronte di milioni di persone che patiscono lafame. Ma non voglio solo parlarvi della realtà attuale del-l’Ungheria, di quale immagine ci dà: vorrei esprimere anchequalche parere sul ruolo che i socialisti potrebbero oggiassumere. Per me è stato interessantissimo ascoltare le esperienze deigruppi di lavoro di ieri e a questo proposito anch’io devo fareautocritica: sicuramente in tre campi abbiamo sbagliato. Hosempre creduto nel fatto che la società deve costantementecambiare, ma abbiamo dimenticato che anche noi dobbiamocambiare. Il secondo grande errore è stato quello di essereconvinti di sapere cosa la gente vuole, ma non ci siamo maimisurati con le esperienze concrete. La terza convinzionesbagliata è stata quella di pensare che la crescita economicaavrebbe prodotto un diffuso benessere. Politiche economicheneo liberiste, terza via, Regno Unito, Germania sono soloalcuni esempi negli ultimi dieci anni di questa impostazione. Sono convinto che si debba ricominciare da capo: e allora, aquesto punto, bisognerebbe vedere cosa si intende “per rico-minciare da capo”. Se non si riesce a dire chiaramente cosa differenzia l’uomodall’uomo, che non può esistere una discriminazione fondatasul fatto di essere nato in luogo o in un altro, e che il vero di-

scrimine riguardo alle probabilità e alle possibilità di successosta nell’accesso a queste possibilità, è difficile orientarsi.Oggi ogni cittadino ungherese ha il diritto di voto, peròmilioni di ungheresi non hanno il diritto di decidere in qualescuola mandare i figli, non hanno la libertà di scegliere qualelavoro fare e con il quale ottenere un certo prestigio e unacerta posizione nella società. Va detto chiaramente che allagente va data anche la possibilità di decidere liberamente, eche non bastano i diritti assicurati per legge come il diritto divoto, ma è fondamentale poter decidere della propria vita. Va riconsegnato a tutta la società il valore del lavoro: parliamocontinuamente solo di come creare posti di lavoro; invece do-vremmo anche preoccuparci di quali forme e modalità dilavoro siano più opportune e in grado di realizzare i desideridelle persone, e non pensare astrattamente alla creazione diposti di lavoro. Purtroppo devo dire che nell’ultimo quarto di secolo abbiamoservito gli interessi del capitale internazionale, confidandonel fatto che poi questo si ripercuotesse positivamente anchesulla sorte della gente. Io credo che i socialisti – in Italia, inUngheria, ovunque sono presenti – debbano combattere peruna vita migliore; e sono convinto anche di un’altra cosa, cheho risentito nelle parole del sindaco di Matera: che nondobbiamo assolutamente dimenticare che abbiamo le tradizioniche abbiamo. Per una vita migliore è necessario ripristinaredeterminate tradizioni, non solo le tradizioni politiche maanche quelle appartenenti alle collettività locali. Ho apprezzato l’argomento dell’abolizione delle Province epoi la critica sulla costituzione delle Regioni: dal mio puntodi vista, l’errore è stato quello di aver tralasciato la tradizione. In Ungheria è stata possibile una svolta di governo in senso il-liberale poiché sono state cancellate tutte le esperienze positiveacquisite fino a quel momento; tutte le istituzioni della nostrademocrazia non sono state in grado di assicurare alla gente,agli elettori, alla popolazione quei diritti democratici che an-drebbero sempre difesi. È indispensabile che i nostri partitidiscutano degli strumenti con cui rafforzare la democrazia:qualsiasi politica non avrà credito fino a quando non sarà

Riflessioni sull’Europa>>>> Jozsef Tobias1

1 Segretario generale del Partito socialista ungherese.

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disposta a rinunciare a una parte del suo potere per concederlaalla gente. Negli ultimi venti anni, da quando svolgo la mia attività nelPartito socialista ungherese, ho ascoltato e partecipato atantissimi dibattiti sui possibili significati della libertà e suivalori dell’Unione europea: sono argomenti importanti, mapenso che sia giunto ormai il momento di cominciare adibattere di cosa la gente affronta quotidianamente, di checosa ha bisogno la popolazione, i collettivi locali e cosa costi-tuisce per loro la dimensione della libertà. Concordo pienamente con coloro che vorrebbero che siguardasse un poco più in là: non basta dare una buona rispostatecnica a una questione tecnica, non è il momento, non credosia sufficiente. La debolezza dell’Europa oggi non è data dalfatto che sia composta da ventotto nazioni, ma da un fatto piùsemplice: che non c’è una idea comune, una comune strategia

affinché questo continente possa cavarsela nel mondo intero. Quindi io non vorrei parlare di valori europei in Ungheria,ma il discorso che devo fare in Ungheria sui valori europei lodevo pensare come ungherese, e da questo punto di vistavorrei rappresentare gli interessi degli ungheresi in un’Europacomune. Mi chiederete: come facciamo se ognuno porta isuoi interessi nazionali? Come si arriva al consenso? Èsemplice. Concedendo a questo sistema comune europeo qual-cosa della nostra sovranità. Non credo che chiunque rappresenti oggi l’Europa sia più in-telligente o più informato dell’altro: ma penso che prima opoi sarà inevitabile occuparsi di questa questione. Sappiamoche Schuman disse che l’Europa o sarà cristiana o non sarà:ma questa affermazione la integrerei adesso anche con l’espe-rienza degli ultimi dieci o quindici anni, e direi invece che sel’Europa non sarà più forte, più attiva, si disgregherà.

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Siamo di fronte a un cambiamento di scenario planetario:il passaggio dalla società industriale alla società tecnolo-

gica. Papa Francesco ha addirittura parlato di “cambiamentod’epoca”. Tra la Conferenza di Rimini e la Conferenza diRoma, l’Italia – con l’Europa e il mondo – ha subito una pro-fonda mutazione. 1982: crescita travolgente del terziario, fine dell’emergenzaterroristica, superamento del compromesso storico e dell’ege-monia democristiana, ruolo centrale dei partiti, ripresa econo-mica, speranza europea con Maastricht alle porte, Yalta scal-fita ma in piedi, assenza problema migranti, desiderio digoverni stabili, forte partecipazione al voto.2015: rivoluzione tecnologica in corso, globalizzazione algaloppo, crisi Ue, tramonto della Repubblica dei partiti,ondate di populismo diffuse, in ombra la società civile, mar-cate diseguaglianze, crisi del ceto medio, leggero vento diripresa, astensionismo radicato. Si è passati da una societàstrutturata alla società della solitudine e della sopravvivenza,la società molecolare.La sinistra italiana raramente ha anticipato e governato ilcambiamento: non nel primo dopoguerra, non negli anniNovanta. Solo il Psi, nel decennio precedente, intuì e pro-pose. Rara eccezione alla fine degli anni Cinquanta, quandosi prepara il governo di centrosinistra. La società tecnolo-gica è più veloce, più superficiale, più anonima. Sommataalla finanziarizzazione dei mercati e ai nuovi Stati emer-genti, provocherà sommovimenti radicali. La svolta vaaffrontata innanzitutto da un’Europa rinnovata radical-mente. Poi viene l’Italia.La seconda Repubblica è un naufrago, spiaggiato sulla fron-tiera Berlusconi/Antiberlusconi È in questo periodo che siacuisce la crisi della politica e delle istituzioni che hannointessuto un’idea di nazione. Poche le riforme di rilievo,molte le crisi. Tra il 1994 e il 2008 due schieramenti condi-zionati dalle forze estreme: nel 1994 la Lega provoca lacaduta di Berlusconi; nel 1996 vince Prodi con la Lega fuoridai poli e Prodi cade a causa di Rifondazione Comunista; nel

2006 Prodi vince di nuovo ma cade di nuovo a causa di Rifon-dazione Comunista; dal 2013 Italia senza una maggioranza“di parte” e senza una maggioranza scelta dagli elettori.In Italia si sono accentuate tendenze tipiche delle società con-temporanee. Ma altrove la politica tiene, qui è in letargo.Altrove vive un sistema di partiti, qui i partiti sono deboli.Conseguenza: democrazia rappresentativa insufficiente; ver-ticalizzazione delle decisioni; crisi della società di mezzo;populismo; eccesso di presentismo e mancanza di strabismo,di un’idea lunga di governo della complessità; evoluzionedestra e sinistra in dentro/ fuori: chi ha lavoro e chi no, chi hagaranzie sindacali e chi no, chi ha una famiglia e chi no, chinasce nel posto giusto e chi no.

“Quello che conta non è essere ottimisti

o pessimisti, ma determinati”

In pochi anni si è passati attraverso tre sistemi: proporzio-nale “condizionato” dal fattore K, bipolarismo acerbo, einfine tripolarismo anomalo. Oggi si manifestano due ten-denze in contrasto: partiti riformisti con un leader forte, edue poli – Destra e Cinque stelle – che estremizzano le loroposizioni. Non va assolutamente escluso che alle prossimeelezioni politiche vi sia uno scontro Renzi/Grillo: sistema eantisistema. È palese, invece, la crisi del patto sociale attorno a cui l’Italiasi è ricostruita dopo il secondo conflitto mondiale. Il pattovenne siglato grazie a un welfare ricco (che dagli anni Set-tanta viene alimentato con il debito di bilancio), grazie al rac-cordo tra città e campagna, grazie a una ramificata pubblicaamministrazione, grazie a una crescita economica vertiginosache generò una classe media diffusa. Nessuno di questi fattoriha la stabilità di un tempo: più povertà, più divario nord/sud,maggiore ricchezza apicale, dispersione dei corpi intermedi.Dominano paura e insicurezza, latita una missione condivisa.“Il permanente plebiscito dei mercati ha sostituito il plebi-scito delle urne”, ha sostenuto a ragione Hans Tietmeyer, pre-

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Non reduci ma pionieri>>>> Riccardo Nencini

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sidente della Bundesbank. Una sinistra che pensasse a unoStato sociale alimentato dal debito pubblico e che non sioccupasse di creare ricchezza da redistribuire sarebbe com-pletamente fuori gioco.Priorità: recuperare il tempo perduto e tracciare una rottadurevole. Lo dico con Jean Monnet: “Quello che conta non èessere ottimisti o pessimisti, ma determinati”. Da qui lanecessità di convocare un Congresso straordinario del Pse. Aproblemi comuni, soluzioni condivise.Il Parlamento attuale è l’immagine della fine di un ciclo.Eppure, come sostiene Sabino Cassese, qualcosa si muove,soprattutto sotto la spinta del governo. Il presidente del Con-siglio non gioca affidandosi a coordinate tradizionali. Hacoraggio e muove in campi considerati in passato scomodi dacerta sinistra e da certo mondo cattolico. Su giustizia e diritticivili abbiamo incontrato sulla nostra strada prima Renzi ditanti tronfi alfieri del progresso. Ma se Renzi puntasse all’au-tosufficienza, incorrerebbe nell’errore fatto da Veltroni: senon altro perché il trasformismo parlamentare non diventeràtrasformismo elettorale (i tanti gruppi in Parlamento sonoamebe nei territori. I parlamentari eletti in Forza Italia pre-senti in cinque gruppi tra Senato e Camera totalizzeranno uncoriandolo dei voti raccolti dal loro vecchio partito.

La risposta non è il Partito della nazione

ma una “missione paese” spinta

da un riformismo sfrontato

Il 2016 sarà l’anno decisivo: vero test politico tra elezioniamministrative e referendum sulla riforma del Senato. Il votosarà politico, perché nelle metropoli si fissa il livello di svi-luppo di una nazione. Troppi Marino e troppi Nogarin eletti asindaco dubito favoriscano l’Italia.La risposta non è il Partito della nazione, di cui tanto si parlama di cui Renzi non ha mai parlato, ma una “missione paese”spinta da un riformismo sfrontato. La missione richiede pas-sione, un patto tra territori e un nuovo patto generazionale.Insomma, una strategia.La domanda che dobbiamo farci – parlo ora dei socialisti –non è dove stare, ma come stare nella sinistra riformista. Iodico: leali nell’alleanza, liberi nelle scelte. Non esiste un attodel governo che non abbia conosciuto nostri emendamenti:scuola, Senato, legge elettorale, alcuni approvati, altri no.Sulla legge di stabilità le modifiche apportate a cancellazionedella Tasi e in materia di gioco d’azzardo portano la nostrafirma. Omicidio stradale e codice appalti, divorzio breve e

misure sulla giustizia, provvedimenti sulla casa e sulla culturavanno annoverati tra le iniziative intraprese dai socialisti inParlamento.Dobbiamo “rassettare” il territorio fino dalle amministrative.Dobbiamo farlo in alleanza con i civici, con i cattolici demo-cratici, con chi rappresenta la cultura laica. A partire daRoma. In alleanza col Pd (in alleanza, non nel Pd). Un erroreaffiancare i socialisti alla sinistra radicale. Tradiremmo la sto-ria dell’ultimo mezzo secolo e ci infileremmo, per il futuro, inun collo di bottiglia senza via d’uscita. Obiettivo: tornarenelle grandi città dalle quali manchiamo dal 1990 (con qual-che eccezione dovuta alla presentazione di liste senza ilnostro simbolo, salvo Napoli).Sottolineo alcune delle proposte avanzate dai gruppi dilavoro. Completare la riforma delle istituzioni e cambiare le leggeelettorale. Ricordate i casi Acerbo nel 1923 (535 deputati dicui 37 fascisti) e il Mattarellum nel 1994? Leggi elettoralipensate per favorire nel primo caso i liberali e nel secondocaso Segni. Sappiamo come è andata a finire. Né vale ilmonito di Parisi: “Se cambia il premio di maggioranza sitorna al centrosinistra col trattino”. No, non torniamo ai diecimicrofoni al Quirinale. Spalmare il premio di maggioranzasulla coalizione vincente non è solo giusto ma utile. La coali-zione riformista sarebbe composta da pochissime forze e perdi più senza la presenza di partiti massimalisti.Reti territoriali più larghe, quindi più autorevoli e in lineacon le piattaforme di sviluppo economico. Servono per starenella globalizzazione. Fusione dei piccoli comuni, via gli entiterritoriali superflui, revisione delle competenze regionali,riforma del Titolo V. Ma soprattutto forme di democraziadiretta per rendere vitale il nostro sistema. Montesquieu temevai pericoli autocratici ma nessuno aveva previsto un così forteallontanamento dei cittadini. Utili il voto ai sedicenni neicomuni, il referendum non solo abrogativo, il debat publique,le primarie regolate, il sorteggio per il Csm, l’elezione direttadei vertici delle città metropolitane (dalle città transita il futuro,come nelle città medievali: una sorta di frontiera per la speri-mentazione, la cultura, l’impresa), la gestione in comune diprogetti tra regioni (l’art. 117 della Carta già lo consente).Le migrazioni. I migranti non sono gli emigranti. Si spostanocon le loro tradizioni, i loro costumi, le loro identità. Il feno-meno sarà duraturo. Non lo si affronta né con gli Accordi diDublino né con certa xenofobia dilagante: e nemmeno concerto multiculturalismo etnico che ha contraddistinto unaparte della sinistra. Dobbiamo fermarci al monito mazziniano

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della combinazione diritti/doveri: multiculturalismo sì, manon lesivo dei diritti delle persone. Né tribunale della sharia,né matrimonio coatto, né infibulazione, né diversità uomo-donna. Favorire l’inserimento dei profughi anche attraverso illoro impiego in lavori utili per la comunità che li ospita.Le libertà. A Milano vive già una maggioranza di nucleifamiliari cosiddetti atipici. La tendenza si manifesta ovunque.C’è troppa ansia di mediazione in tema di diritti. Da quiimmobilismo. Corte Costituzionale e Cedu obbligano l’Italiaa decidere in fretta. Riconosciuto il diritto fondamentale avivere liberamente una condizione di coppia ottenendone ilriconoscimento giuridico, il Parlamento italiano se ne occupicon carattere di priorità.Un’altra Europa. Necessaria perché il trattato di Maastricht èstato indebolito da quattro fenomeni: una lunga crisi, euro dis-sociato dall’oro e dalla sovranità, globalizzazione che ci ha tro-vati impreparati (Europa con il 7% sulla popolazione mondialee col 50% di welfare), allargamento. Ironia della storia è chel’unione monetaria pensata per fare l’Europa ora la stia demo-lendo. Siamo di fronte a due economie: quella mediterranea(crescita legata alla domanda interna, stimolata dall’inflazionee sorretta da alto deficit pubblico) e quella nordeuropea (piùcompetitiva sui mercati esteri e con politiche monetarie piùrigide). Il risultato: conflitti laceranti. La via d’uscita è un’Eu-ropa federata, coesa in politica estera e nelle politiche economi-che. L’alternativa è la fuoriuscita dallo scenario internazionale.Un’altra Italia. O l’Italia ce la fa tutta insieme o rischia di nonfarcela. Si confrontano due storie: quella del Grande Gatsby ela storia di 4 milioni di italiani in povertà assoluta. Fonte Inps:su 100 euro di spesa sociale solo 3 vanno ai più poveri; delleprestazioni assistenziali, il 30% va alla popolazione più ricca.La proposta: maggiore eguaglianza e valutazione del merito alcancello di partenza (sostenere studenti poveri ma meritevoli,

aiutare le famiglie indigenti per accrescere le opportunità), esostegno successivo. Punto di riferimento è il ciclo di vita, nonil qui e ora: valutare non solo il reddito ma l’appartenenza digenere, l’etnia, la generazione. Il welfare mantenga la sua uni-versalità, ma sia orientato soprattutto ai meno favoriti. Non piùsolo pensioni e risarcimenti passivi, ma lotta alla povertà epromozione della mobilità sociale.Urgono investimenti pubblici per sostenere l’innovazione tec-nologica. Ma si deve contestualmente lavorare al “sostegno diinclusione attiva”. Non si tratta del reddito di cittadinanza, eva erogato solo a persone indigenti: non pasti gratis, ma unpatto con lo Stato che, se non rispettato, decade. Prevedere untetto agli stipendi dei manager: differenze alte giustificatesolo se aumentano il reddito complessivo e se i frutti vanno avantaggio dei più sfavoriti (nel caso Atac di Roma, gli sti-pendi ai manager verrebbero ridotti al lumicino).Investire nella conoscenza: in passato il progresso tecnico haaumentato le capacità dell’uomo. La rivoluzione delle tecno-logie digitali, con la macchina che sostituisce le capacitàcognitive dell’uomo, rende superflue alcune funzioni, come ilcavallo con la locomotiva. Da qui: estendere il raggio deimestieri, valorizzare e investire sui “nuovi artigiani”, inve-stire sulle idee, premialità a chi si connette e a chi si consor-zia, all’export manifatturiero, alla green economy (30%imprese del settore innovano contro il 15% delle altre, il 44%esportano contro il 24% delle altre), incentivi fiscali a chiinveste in cultura e arte.I socialisti sono come la 500: affidabili e con una bella storia.E con l’ambizione di tracciare una strada. Preservare la comu-nità integra. Siamo gli unici ad aver attraversato il deserto, gliunici ad aver conservato ideali raccolti in una comunità, in unnome, in un simbolo, in una bandiera. Tra reduci nostalgici epionieri, preferisco i pionieri.

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Un germe di riformismo>>>> Andrea Di Consoli

Si provi a rileggere attentamente il corpo centrale di questalettera in forma di poesia che Pier Paolo Pasolini scrisse

per e a Pietro Nenni nel 1960 – probabilmente all’indomanidella caduta del controverso governo Tambroni – e che i let-tori dell’Avanti! poterono leggere, non senza sorpresa, nell’e-dizione del 31 dicembre del 1961. E si provi a rileggerla pro-prio alla luce di tutto quel che poi è accaduto nella vicendapasoliniana, e che è palese (esageratamente palese) in questoquarantesimo anniversario dei tragici fatti di Ostia, con l’av-vilente riduzione di gran parte dell’ideologia politica e lette-raria di Pasolini a miti pre-antipolitici quali il processo alpalazzo, alla tv, al benessere, alla scolarizzazione: fino alparossismo dell’equazione per cui il nuovo fascismo nonpoteva e non può che coincidere con lo sviluppo economico. Ci si chieda, nel rileggerla, se in Pasolini non ci fosse benrimossa o taciuta un’anima riformista, e dunque non estremi-sta; e come sia potuto accadere che nulla, di quell’inaspettatoriformismo, rimanesse negli anni successivi, allorquandoPasolini decise di voltare ferocemente le spalle al presente, al“mondo così com’è”, alla modernità, alla libertà che donal’essere “benestanti” (fino al monito estremo, liminare, affi-dato a Furio Colombo: “Siamo tutti in pericolo”). Scriveva dunque Pasolini: “Io mi chiedo: è possibile passareuna vita / sempre a negare, sempre a lottare, sempre / fuoridalla nazione, che vive, intanto, / ed esclude da sé, dalle feste,dalle tregue, / dalle stagioni, chi le si pone contro? / Esserecittadini, ma non cittadini, / essere presenti, ma non presenti,/ essere furenti in ogni lieta occasione, / essere testimoni sola-mente del male, / essere nemici dei vicini, essere odiati / d’o-dio da chi odiamo per amore, / essere in un continuo, osses-sionato esilio / pur vivendo in cuore alla nazione?”. Tutta la grandezza di Pasolini fu possibile anche grazie aquella modernità contro la quale si scagliò con furore mille-naristico e con sillogismi lucidi eppure semplicistici (ana-temi?). Quella che potremmo definire nostalgia pasolinianaci appare oggi come il sintomo di un profondo tormento psi-cologico, quanto più stringente tanto più commovente da un

Nenni

>>>> Pier Paolo Pasolini

Era il pieno dell’estate, quell’estatedell’anno bisestile, così tristeper la nazione in cui sopravviviamo.Un governo fascista era caduto, e dappertuttoc’era, se non quell’aria nuova, quella nuovaluce che colorò genti, città, campagne,il venticinque Luglio - una sia pur incertaluce, che dava al cuore un’allegrezzaeccezionale, il senso di una festa.E io come il “naufrago che guata” (scrivoa un uomo che certo mi concede il cederea delle citazioni dannunziane…)felice d’aver salvato la pelle - bisestiledoppiamente per me, è stato l’anno -ho avuto, per un attimo, dentro, il sensod’un “poema a Fanfani”: e non soltantoper solidale antifascismo e gratitudine,ma per un contributo, anche se ideale,di letterato: un “appoggio morale”, com’èuso dire. Fu l’idea di un mattinobruciato dal sole di quell’estateche qualcuno aveva maledetto, e il cui biancorefaceva dell’Italia ricca - che ronzavain lidi popolari e in grandi alberghi,nelle strade delle Olimpiadi incombenti -l’imitazione d’una civiltà sepolta.E poi, ero ridotto a una sola ferita:se ancora ero in grado di resistere,lo dovevo a una forza prenatale, ai nonnio paterni o materni, non so, a una naturaradicata ormai in un’altra società.Eppure, in quel mio slancio, mezzopazzo e mezzo troppo razionale,c’era una necessità reale: lo vedomeglio ora, che la collaborazioneè un problema politico: e Lei lo pone.

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punto di vista lirico. Pasolini fu scrittore e intellettuale dellamodernità – le copertine, le apparizioni in tv, lo star-systemcinematografico, gli editoriali-orazioni sul Corriere dellasera, ecc. – e la stessa battaglia identitaria e di genere fu pos-sibile, spaccando in talune circostanze a metà l’opinionepubblica non solo italiana, proprio grazie al rapido sbiadirsidel bigottismo anni ’50 – un vero e proprio boom sociale-antropologico-culturale – che nel 1963, iniziando a scrivereLa divina mimesis, Pasolini ancora vedeva, con sguardonostalgicamente deformato, come una sorta di paradiso per-duto: per non parlare della civiltà contadina, che lo avevaesiliato brutalmente costringendolo alla fuga all’indomanidel famigerato scandalo (a dirla proprio tutta, a costringerloall’esilio fu il combinato disposto di moralismo contadino edi bigottismo comunista). Eppure, misteriosamente, Pasolini rese omaggio per l’interavita ai propri carnefici, ovvero all’ideologia catto-comunista,anche se non fece altro che spostare i propri furori sul fasci-smo (quanto largo, in Pasolini, il concetto di fascismo!),obiettivamente ineffettuale col nascere della Repubblica,ridottosi a puro folclore rumoroso. Qui, in questa lettera-poesia a Nenni, appare evidente ungerme di maturità politica e ideologica, l’accenno appena diuna lettura più articolata e complessa della realtà italiana (omeglio, della realtà in senso lato). Il furore in ogni lieta occa-sione, l’esilio pur vivendo nel cuore del proprio tempo, l’es-sere cittadini “ma non cittadini” - insomma, un’esistenza tra-scorsa sempre a “negare” e a “lottare” - appare di colpo alloscrittore friulano un’ammissione d’impotenza e di sterileesclusione: dalle soluzioni dei problemi concreti degli altri,certo, ma anche dalle “feste”, cioè dalla pura vita il cui flusso“erotico”, al di là delle ideologie, avviene a dispetto di qual-siasi utopia o critica radicale; ovvero di esclusione morali-stica (non fu per caso la “trilogia della vita” un felice ritornoa questo “riformismo”?). Eppure quella di Pasolini – del Pasolini luterano e corsaro –non fu un’esclusione distaccata e snobistica dal moderno; alcontrario, Pasolini le mani se le sporcò ingaggiando unadura lotta estetico-politica con il presente consumistico, delquale ambiguamente (e sia detto in senso positivo) utilizzòstrumenti, retoriche e dialettiche. Nel mentre negava, affer-mava; e nel mentre demoliva, costruiva qualcosa d’inutiliz-zabile politicamente, ma assai efficace dal punto di vistaestetico e retorico, poiché la sua fu una suggestiva e dirom-pente critica radicale del presente: una critica che tentò –con furore logico e con razionalismo irrazionale – una diffi-

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Dal quarantotto siamo all’opposizione:dodici anni di una vita: da Leitutta dedicata a questa lotta - da me,in gran parte, seppure in privato(quanti interni terrori, quante furie).Con che amore io vedo Lei, acerbo,gli occhiali e il basco d’intellettuale,e quella faccia casalinga e romagnola,in fotografie, che, a volerle allineare,farebbero la più vera storia d’Italia, la sola.Io ero ancora in fascie, e poi bambino,e poi adolescente antifascista per esteticarivolta… Timidamente La seguivod’una generazione: e L’ho vista trionfarecon Parri, con Togliatti, nei grandiosi,dolenti, picareschi giorni del Dopoguerra.Poi è ricominciata: e questa voltaabbiamo, sia pur lontani, ricominciato insieme.Dodici anni, è, in fondo, tutta la mia vita.Io mi chiedo: è possibile passare una vitasempre a negare, sempre a lottare, semprefuori dalla nazione, che vive, intanto,ed esclude da sé, dalle feste, dalle tregue,dalle stagioni, chi le si pone contro?Essere cittadini, ma non cittadini,essere presenti ma non presenti,essere furenti in ogni lieta occasione,essere testimoni solamente del male,essere nemici dei vicini, essere odiatid’odio da chi odiamo per amore,essere in un continuo, ossessionato esiliopur vivendo in cuore alla nazione?E poi, se noi non lottiamo per noi,ma per la vita di milioni di uomini,possiamo assistere impotenti a una fataleinattuazione, al dilagare tra lorodella corruzione, dell’omissione, del cinismo?Per voler veder sparire questo statodi metastorica ingiustizia, assisteremoal suo riassestarsi sotto i nostri occhi?Se non possiamo realizzare tutto, non saràgiusto accontentarsi a realizzare poco?La lotta senza vittoria inaridisce.

(Una lettera, di solito, ha uno scopo.Questa che io Le scrivo non ne ha.Chiude con tre interrogativi ed una clausola.Ma se fosse qui confermata la necessitàdi qualche ambiguità della Sua lotta,la sua complicazione ed il suo rischio,sarei contento di avergliela scritta).

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cile sintesi, quasi un delirio poetico, tra umanesimo, cattoli-cesimo, civiltà contadina, dottrina marxista e nuovismolibertario. Nulla, ripetiamo, di politicamente utilizzabile; ma una posi-zione poetica viscerale e controriformistica nella quale molti

si riconobbero, poiché a quest’altezza storica vediamo chiara-mente che in quei decenni di boom tutti avevano una civiltànaufragata da piangere e da rimpiangere, avendo la nascenteciviltà industriale reso intimamente e storicamente orfanequasi tutte le classi sociali italiane.