il terrore all'improvviso

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Racconto di Stefano Curreli. In memoria del massacro alla Sandy Hook Elementary School, Newtown (Connecticut) 14-12-2012

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Il terrore all’improvvisoIn memoria del massacro alla

Sandy Hook Elementary School,Newtown (Connecticut) 14-12-2012

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Dedico questo racconto alle vittime del massacro della Sandy Hook Elementary School, ai loro familiari e ai bambini sopravvissuti, i quali si porteranno dentro per sempre il ricordo dell’orrore puro. Con molta cautela, e anche con un'emotività che solitamente non si prova nella stesura di nessun'altra storia, ho cercato di scrivere queste pagine immedesimandomi negli occhi di quelle creature innocenti che hanno visto l’orrore in faccia; un orrore che si porteranno dietro fino alla tomba. Sperando che anche a voi susciti le stesse emozioni che ho provato io mentre l'ho scritto, vi chiedo di andare in una stanza silenziosa, sedervi comodamente, e di immergervi in quella mattina del quattordici dicembre del 2012, in una tranquilla cittadina del Cunnecticut, chiamata Newtown, precisamente nella sua scuola elementare. Riuscite a vederne i contorni? Ecco, ora potete voltare pagina e – non senza farvi percorrere la schiena dai brividi – iniziare quest’assurda e tristemente vera storia.

Stefano Curreli16-12-2012

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Quel venerdì mattina, Mark sarebbe rimasto volentieri a casa a guardare la tv al calduccio, ma il medico aveva assicurato che ormai era guarito dall’influenza. Così, dopo aver goduto di una settimana di coccole familiari, poteva finalmente tornare a scuola. Aveva insistito affinché sua madre cedesse ai suoi capricci facendolo tornare direttamente lunedì, ma lei non aveva voluto sentir nulla. Così Mark, durante il viaggio in macchina, era rimasto zitto per protesta, offeso. Lei fece finta di essere a sua volta indispettita da quel suo atteggiamento, ma lo sbirciava con la coda dell’occhio e provava un senso di tenerezza, a vederlo così, come un ometto, e a pensare che erano passati già otto anni da quando suo marito aveva dovuto fare slalom nel traffico per portarla all’ospedale, reparto maternità, per ritrovarsi neanche un’ora dopo quel suo sangue-del-suo-sangue in braccio. Era il loro unico figlio, atteso e ricercato per tre anni. Ci avevano riprovato, ad averne un altro, successivamente, ma non era arrivato.

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«Buona mattinata, tesoro», gli disse appena arrivati nel cortile della scuola. Mark aprì la portiera della macchina, fece un cenno col capo come per rispondere, e con le sopracciglia aggrottate la richiuse. Lei lo fissò con uno sguardo fintamente severo e ripartì. L’aria era gelida e, sebbene il vivido azzurro del cielo era in parte coperto da alcune nuvole passeggere, il tempo non prometteva pioggia. Mark si diresse verso il portone. Mancavano pochi minuti al suono della campana, e non aveva alcuna voglia di passare metà giornata lì. Certo, ormai era guarito e non aveva più nessun effetto postumo dell’influenza, solo un po’ di pigrizia, ma avrebbe fatto di tutto pur di rimanere a casa. Forse anche cedere il nuovo modellino di Batman, e forse anche quello di Joker. No, quello di Joker no, pensò, al massimo quello di Batman. «Mark!» Una voce lo sorprese alle spalle. Si girò, ma capì di chi si trattava ancora prima di vederla. «Ciao», rispose timidamente. Era Jenny, da un mese sua compagna di banco. Erano in classe assieme dalla prima, ma solo da quel mese aveva iniziato ad avere una cotta per lei. «Oggi dobbiamo fare le prove della recita», sorrise lei. «Tu sei pronto?»

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Mark, insieme ad altri tre bambini, avrebbe dovuto interpretare un elfo. Certo, non era tra i ruoli più impegnativi, ma quella battuta, quella in cui doveva dire «Sì, siamo pronti, mettiamo i regali nel sacco e voooooliiiamoooo» era una bella prova di coraggio, con quell’euforia che doveva manifestare, così come gli aveva consigliato la maestra, e quell’alzare le mani al cielo così, come fosse un folle ubriaco. «Sì, tanto ho poche battute. Me le ricordo tutte.» Rispose, accennando un sorriso. In realtà si era dimenticato che le prove erano proprio quel giorno. Le gote gli si arrossirono, ma le aveva già abbastanza infuocate dal freddo che Jenny non captò il suo imbarazzo. «Eri malato?» Gli chiese. «Sì, ma adesso son guarito.» «Io non mi sono ancora ammalata quest’anno.» Disse assumendo un’aria abbattuta. «Quando succede mi piace perché sto a casa senza fare niente e tutti sono a mia disposizione.» Mark sorrise. «Sì, infatti quando guarisci e torni a scuola è brutto», le disse. Jenny rise, come se Mark avesse detto qualcosa di molto divertente.

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La campana suonò ed entrarono nell’edificio scolastico, percorrendo l’androne fino al corridoio della loro aula. Una volta seduti in classe, la maestra spiegò quella mattina avrebbero fatto le prove per la recita di natale, ma solo dopo aver corretto i compiti di grammatica. Mark estrasse prontamente il quaderno dallo zaino. «Li hai fatti giusti?» sussurrò Jenny. «Sì, mi piace molto la grammatica», rispose prontamente Mark. Jenny gli sorrise e, con fare danzante, estrasse anche lei il suo quaderno dallo zaino. Non aveva dubbi che il suo compagno di banco li avesse fatti tutti giusti. Lui era un genio. Un po’ timido, si potrebbe dire introverso, ma davvero intelligente, tanto che l’anno prima le maestre – Jenny ancora se lo ricordava – lo elogiarono davanti a tutti i genitori per la sua fervida fantasia nello scrivere storie. Avevano quasi concluso la correzione di tutti gli esercizi che era già passata una mezz’oretta, o forse così sembrava a Mark per via della poca voglia di stare a scuola che aveva in corpo quella mattina. Fu mentre la maestra disse di ritirare tutto per andare in aula magna a fare le prove, che sentirono quegli scoppi, come petardi. Jenny si tappò le orecchie, poiché dopo il primo ne seguirono un’altra decina, consecutivi e fortissimi. Non fu la sola a farlo. A tutti venne istintivo tenersi la

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testa tra le braccia, sul banco, come per ripararsi da un terremoto. Mark mantenne la calma, pensando che stesse esplodendo qualcosa nei dintorni della scuola. Di contro, la maestra parve subito agitarsi. «State qui!» Strillò spaventata. «Vado a chiedere cos’è successo.» Mark si alzò non appena la maestra abbandonò l’aula. «Sei pazzo?» Gli disse Jenny tenendolo per un braccio. «Dove vuoi andare?» «Voglio affacciarmi nel corridoio per vedere cos’è successo.» «Stai qui, che se torna subito e ti vede nel corridoio chissà cosa…» Jenny non riuscì a concludere la frase che un’altra raffica di boati si propagarono nella scuola. Ora erano decisamente più forti, o forse si sarebbe potuto dire più vicini. Tutti i bambini si alzarono di scatto. Alcuni raggiunsero la porta. Mark tenne Jenny per un braccio. «Sono spari!» Le disse, mentre assordanti si ripetevano, come se non dovessero finire più. «Ti prego, vieni sotto il banco, ho paura», disse Jenny scoppiando in un pianto disperato, il quale faceva da coro agli altri pianti che sempre di più crescevano dentro l’aula. Ma non erano i soli. Se si prestava un po’ d’attenzione si potevano infatti sentire

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i pianti e le urla che oltre il corridoio si annidavano anche nelle altre classi. Il panico si fece ufficiale. Il signor Corey, il bidello, piombò in aula con il viso dipinto di terrore. «Uscite dall’aula e seguitemi. Presto! Nel corridoio che porta all’uscita del campo, in fila indiana. Non urlat…» Non fece in tempo a concludere la frase che uno sparo lo azzittì. Cadde con una pesantezza terrificante, e, alcuni bambini che si erano già avviati verso il corridoio e che gli stavano di fronte, lo scavalcarono con le mani sul viso e con urla che squarciavano loro le gole. Cosa stava succedendo? Dal fondo della stanza Mark prese Jenny per mano. «Andiamo!» Jenny continuava a piangere, e quando si trovarono sulla porta, pronti per sbucare nel corridoio, lei fece resistenza. «Sparerà anche noi», gli disse. Mark si affacciò, costatando che ora chi aveva sparato non si vedeva più. Era ovvio, pensò, loro non potevano mica morire. No, non si può morire così, a scuola, durante la lezione, a otto anni. Quello era solo una specie di incubo, nient’altro. Pura finzione. E poi il bidello Corey che cerca di salvarli e muore, e che ora è lì, buttato a terra; non poteva mica essere reale. Questo non era il mondo che conosceva lui.

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La tenne per mano. «Non ci spara nessuno. Corriamo nel corridoio e arriviamo al campo.» Poi una processione di bambini gli passò davanti, che non poteva credere che nella scuola – e forse addirittura nel mondo intero – ce ne fossero così tanti, che Dio ne avesse fatto un numero così esagerato, e che ognuno di loro avesse un nome, una vita, una famiglia, forse una playstation, un animale domestico, un fratello o una sorella – o forse anche tutti e due – e un programma preferito alla tv. Mark non era più così convinto che fosse un sogno. La disperata fiumana che gli si mostrò davanti gli conferì il coraggio di prendere finalmente Jenny per un braccio e trascinarla fuori da quell’aula, verso una possibile salvezza. Una volta ritrovatisi nel corridoio divennero parte di quella massa fuggitiva guidata da alcune maestre, anche loro in lacrime e terrorizzate. Alcuni bambini cadevano e venivano calpestati da altri, i quali correvano all’impazzata, più che potevano. Mark notò che alcuni invece si erano arresi, e che restavano accasciati ai lati del corridoio, con le mani sul viso, terrorizzati. Mark, mentre teneva Jenny ancora stretta – la quale non riusciva a vedere dove metteva i piedi, poiché si copriva il volto, rosso da far paura e grondante di lacrime – si girò e vide in lontananza che il mostro

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che terrorizzava la scuola altri non era che Adam, il figlio dell’amica di sua madre, il quale impugnava due armi terribili con le quali li stava puntando come si fa a caccia con gli uccelli che si poggiano sui rami. Come gliel’avrebbe detto, a sua madre, una volta tornato a casa, che Adam aveva sparato il bidello Corey e che forse avrebbe sparato tutti? E se avesse sparato anche lui? Non smise di pensarci che una raffica di spari gli raggelarono il sangue. Jenny, a causa del terrore dato dal forte boato che faceva eco in quel corridoio così lungo e stretto, si staccò dalla sua presa. Mark corse senza guardare più dietro di sé, con una velocità che non sapeva di avere in quelle gambe così magre e poco allenate, e non ebbe il tempo di accorgersi di aver perso Jenny. Alcuni bambini caddero a terra, ma stavolta non avevano inciampato. Stavolta il sangue gli sgorgava dalla testa, e ad alcuni dal petto, impregnando il maglioncino appena lavato e ancora profumato d’ammorbidente. Era l’inferno. Alcuni, urlanti come animali, si tenevano una gamba ferita, o un braccio, in urla sovraumane e col viso dolorante, costretti così ad abbandonare la corsa per la salvezza. A Mark venne in mente Jenny. Dov’era? E subito un tonfo caldo allo stomaco.

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Ma non poteva girarsi a cercarla, o sarebbe sicuramente morto anche lui, come i bambini buttati a terra che deviava in quel folle slalom. Dov’era Dio?, Si chiese. Fu proprio quando mancavano forse meno di dieci metri dalla porta che conduceva all’esterno dell’edificio che gli sbucò di fronte Adam, che con un’espressione che non gli aveva mai visto lo mirò dritto in faccia. Il mostro aveva fatto il giro ed era sbucato da lì per ritrovarsele frontali, le prede, e godersi meglio lo spettacolo, abbattendoli uno dopo l’altro. Le urla di terrore della folla impaurita ora erano talmente forti da far esplodere i timpani. Tutti fecero dietrofront, in un terrore generale che portò alcuni a cadere per via della brusca frenata e del terrore assieme. Mark se la diede a gambe ancor più velocemente di prima. Ed ecco altri spari. Un’infinità. L’inferno sembrava non aver intenzione di finire. Mark sentì un proiettile sfiorargli la spalla. Fu forse quello che colpì quel bambino della classe di fronte alla sua, quello grassoccio che gli stava così simpatico e che nella recita sarebbe dovuto essere Babbo Natale. Mark lo vide fare una piroetta con gli occhi bianchi e le braccia molli, come fa una trottola appena prima di cadere, per poi piombare al suolo come un ramo strappato dal vento.

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Mark per poco non gli calpestò la testa. Riuscì a deviargliela per poco, e finalmente si ritrovò nell’androne. Con lo sguardo subito cercò Jenny ma non la vide. Vide solo l’altro bidello, il signor Bob, che ordinava di percorrere il corridoio che portava alla segreteria, perché a sua detta l’assassino, dopo essere sbucato nel punto in cui Mark se l’era ritrovato davanti, si dirigeva ora verso la parte opposta della scuola. Tutti gridavano, il panico era ormai pioggia che bagnava i volti dei presenti a quel teatro d’assurdità. Alcuni bambini giacevano buttati a terra come marionette inanimate, con pozze di sangue più o meno estese a tenergli compagnia. I cocci di vetro sparsi per l’androne suggerivano che Adam doveva essersi divertito a sparare le sue prede dal cortile ancor prima di entrare nella scuola, per poi entrare e iniziare i giochi ufficialmente. Mark, ormai sempre più sicuro del fatto che tutto stesse avvenendo realmente e che quello non fosse un sogno, si rifiutò di seguire i consigli Bob, e, adocchiato un armadietto alla destra della reception, lo raggiunse per nascondercisi dentro. Era forse una scelta che aveva la sua rischiosità, ma non aveva intenzione di fuggire ulteriormente all’interno della labirintica tana del mostro. Ci si accovacciò dentro e chiuse l’anta. Solo lui e il buio. Sarebbe rimasto lì, fino a quando un supereroe

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non sarebbe arrivato a catturare Adam, e forse pure ad ucciderlo. Ma sarebbe andato bene anche un poliziotto, o il bidello Corey, o Bob. Poi subito pensò a suo padre. Se venisse lui, si disse, lo catturerebbe senza problemi perché è forte. Si sentiva confuso. Gli venne quasi da ridere, al pensiero che stava lì, al buio, a suo modo protetto, mentre fuori si sentivano ancora spari, urla e pianti convulsi. Poi però, senza che se ne rendesse conto, dalla gola gli nacque un pianto la cui natura gli era stata fino ad allora ignota. Era il pianto della paura, del terrore puro. Silenziosamente un flusso di lacrime gli grondò sul viso. I singhiozzi lo facevano sobbalzare. Si accasciò ancora di più e pensò alla recita, che non si sarebbe più fatta, e alla vita, che forse anche quella non si sarebbe più fatta. E cosa ne sarebbe stato – se fosse morto – delle estati al mare, e delle vacanze dai nonni, delle figurine dei cartoni e dei cartoni stessi, e poi di Jenny… Un terrore ancor più violento gli percorse il corpo. Si sentì raggelare le ossa e, cosciente ormai di essere impotente di salvarla, si strinse ancor di più nel suo esile corpicino, quasi abbracciandosi, come per darsi conforto da solo. Non seppe dire quando le urla cessarono, sostituite dalle sirene. Forse era mezz’ora, o forse molto di più.

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Fatto sta che il buio si fece luce – qualcuno aveva aperto l’armadietto – e aprendo gli occhi vide un uomo in divisa. «Ce n’è un altro», disse l’uomo. Lo prese in braccio e lo tirò fuori. «Stai tranquillo, piccolo», gli disse mentre lo trasportava fuori dalla scuola. «Va tutto bene.» Un attimo primo di lasciare l’edificio, dalle braccia del poliziotto si voltò a guardare l’androne. E fu per lui quasi come uno scatto fotografico che si sarebbe portato nella memoria per sempre. Il pavimento era cosparso di sangue e delle impronte delle scarpe di chi era passato di lì. Impronte di adulti mischiate a quelle dei bambini. Niente più corpi. Quelli li avevano ormai ritirati tutti. Ma la desolazione agghiacciante di cui era adornata la scuola era uno scenario altrettanto terrificante anche senza i cadaveri. Una volta fuori, il poliziotto affidò Mark ad una delle tante ambulanze che ghermivano il parcheggio. Un medico molto giovane gli disse di entrare, che gli avrebbero dato una controllatina. «Hai qualche ferita?» Gli domandò. «No, niente.» Un’infermiera lo invitò a sedersi. Fu allora che Mark vide i suoi genitori, a una ventina di metri da lui, in lacrime e affranti dalla disperazione. Fece uno scatto come per raggiungerli, ma il medico lo tenne per il braccio.

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«Piccolo», gli disse, «è tutto passato. Ora ti facciamo un po’ di controlli e chiamiamo i tuoi genitori per avvisarli che…» «Sono loro», lo interruppe lui, indicandoli. La madre lo vide, tra la folla di bambini superstiti e volti di genitori straziati. Gli andò incontro di corsa, seguita dal marito. Il medico gli diede una pacca sulla spalla. «Vai», gli disse dolcemente. Mark li raggiunse di corsa. Nessuno potrà mai dare un senso ad alcune vicende del mondo, alla morte gratuita di innocenti e al pianto disperato di madri, ma ciò che è certo è che quel giorno Mark, almeno lui, di ritorno a casa, dentro la sua macchina, coi suoi genitori, era vivo. Ma gli altri, si disse, dove sono? E Jenny? Mentre la lunga coda di traffico li riportava al centro di quella che prima di allora tutti avevano sempre considerato una tranquilla e sicura cittadina, dal finestrino scorse il viso di Jenny. Si strofinò gli occhi ancora appannati dal piano per accertarsi che fosse davvero lei. Non si sbagliava, era proprio Jenny, addormentata dolcemente nella macchina dei suoi genitori. Era viva. Ce l’aveva fatta anche lei. Un debole sorriso gli solcò il viso. Sentì caldo allo stomaco. Per un attimo un senso di gioia lo pervase. Si sentiva però confuso, stordito. L’importante è che almeno io e lei siamo salvi, si disse.

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Non sapeva che salvo non era la parola adatta, giacché quella vicenda se la sarebbe portata dietro fino alla tomba, e che ormai era segnato per sempre. E che si sarebbe svegliato nel cuore della notte, ora come da adulto, talvolta, con incubi terribili. Che cosa poteva saperne del fardello della disperazione e della paura che avrebbe dovuto portarsi tutta la vita in spalla, e che la tranquillità non sarebbe stata mai più di casa sua? Intanto il sole faceva capolino tra alcune nuvole passeggere, come spesso fa. Il sole, che lui c’è sempre, qualunque cosa succeda, e il cielo idem, in alto, sempre più in alto, dove certe cose non si riescono a vedere anche se succedono. E il mondo gira ignaro, come se niente fosse. Belle le gote di Jenny, arrossate, ben visibili dal finestrino. Mark la fissò, sorridendo, e, nonostante quella notte avesse dormito bene e abbastanza a lungo, si riaddormentò, per dimenticarsi del mondo reale almeno per qualche minuto, almeno il tanto di arrivare a casa.