il fascismo volle sottomettere il partito allo stato, e ... · il fascismo, una volta giunto al ......
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Francesco Lamendola
Il fascismo volle sottomettere il Partito allo Stato,
e non viceversa
Il fascismo, una volta giunto al potere, volle subordinare lo stato al partito, asservirlo, dominarlo;
oppure perseguì la strada diametralmente opposta, quella di sottomettere il partito allo stato? Dalla
risposta che si dà a questo interrogativo discende, per forza di cose, anche un giudizio sulla natura
stessa del fascismo, non solo come forma di governo, ma proprio come ideologia politica. Nel
primo caso, infatti, si avrebbe – come nella Germania di Hitler e nell’Unione Sovietica di Stalin –
un partito che pretende di uniformare ogni cosa nella vita dello Stato e, in definitiva, lo Stato
medesimo, a se stesso, sì da divenire un partito onnipotente, al disopra di qualsiasi norma o legge,
di qualsiasi diritto e istituzione, totalmente solo, al di là del Bene e del Male; nel secondo caso si
avrebbe un partito che, mettendosi al servizio di una più alta vita e di una più grande potenza dello
Stato, si riconosce come il mero strumento di un destino superiore, e precisamente del
completamento dell’opera risorgimentale iniziata nel XIX secolo. È evidente, inoltre, che nel primo
caso ci troveremmo di fronte a un vero totalitarismo – non importa se, di fatto, solo imperfettamente
realizzato, ma per delle ragioni pratiche e contingenti; nel secondo, al contrario, cadrebbe per
sempre la tesi del fascismo come totalitarismo e si dovrebbe ritornare a quella del fascismo come
“semplice” regime autoritario, spintosi, certamente, assai oltre lo Statuto e la forma di governo
liberale e parlamentare, ma non del tutto in opposizione e in antitesi ad essa, quanto piuttosto nella
linea di un suo potenziamento e di una sua più incisiva realizzazione.
Vale la pena di riportare il parere espresso dallo storico del diritto Carlo Ghisalberti nella sua
«Storia costituzionale d’Italia, 1848/1948» (Bari, Laterza, 1974, 1995, pp. 361-4):
«Il momento in cui si realizzò sul piano formale questo incremento del prestigio e dell’autorità del
Governo, espressione del partito unico, fu quello della cosiddetta “costituzionalizzazione” del Gran
Consiglio del fascismo, attuata con la legge del 9 dicembre 1928, n. 2693 e perfezionata con la
successiva legge del 14 dicembre 1929 n. 2.099 Con la prima di queste misure, infatti, il massimo
organo del Partito diventava il massimo organo dello Stato, direttamente dipendente dal capo del
Governo che ne sceglieva discrezionalmente i componenti, ad eccezione di taluni membri di diritto,
lo convocava e ne determinava l’ordine del giorno. Normalmente istituto consultivo del Governo
nelle materie politiche, economiche e sociali di interesse nazionale, il Gran Consiglio del fascismo
doveva essere obbligatoriamente sentito su ogni questione avente carattere costituzionale. Tra
queste venivano espressamente enunciate dalla legge quelle relative alla successione al trono, alle
attribuzioni e alle prerogative della Corona, che venivano inoltre fortemente limitate per quanto
atteneva al potere di scelta di un nuovo capo del Governo, in caso di vacanza della carica. […]
Queste disposizioni, e le altre che riguardavano l’obbligatorietà del parere del Gran Consiglio sulla
composizione e sul funzionamento delle Camere, sulle attribuzioni e le facoltà dell’esecutivo,
sull’ordinamento sindacale e corporativo in via di radicale trasformazione, sui rapporto tra lo Stato
e la Chiesa e sui trattati internazionali implicanti variazioni territoriali, contribuivano a creare una
scissione nel diritto pubblico italiano tra legislazione ordinaria e legislazione costituzionale,
nettamente in contrasto con lo spirito e la lettera dello Statuto. […]
L’alterazione del sistema appariva a questo punto in tutta evidenza. Infatti alla monarchia
parlamentare di derivazione risorgimentale fondata sulla separazione dei poteri e sulla pluralità dei
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partiti si era sostituito un regime autoritario a partito unico nel quale la preminenza del capo del
Governo e il primato dell’esecutivo sugli altri organi dello Stato e sulle istituzioni pubbliche si
traducevano ormai nella limitazione dei poteri di quelli e nella completa subordinazione di queste.
[…] Seguendo la via aperta dalla costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo, la nuova
legge stabiliva che lo Stato dovesse assumere il definitivo controllo del Partito imponendogli per
decreto uno statuto proposto dal capo del Governo, che manteneva anche il potere di nominare le
cariche maggiori del fascismo. Di più al capo del Governo veniva anche attribuito quel titolo di
“Duce del fascismo” che doveva simboleggiare, grazie al cumularsi delle due qualifiche nella
persona di Mussolini, il riconoscimento formale dell’avvenuto inserimento del Partito nello Stato.
Vero è, però, che più volte è stata espressa la tesi, fondamentalmente inesatta, di un primato
dell’organizzazione fascista sull’apparato statale e, quindi, della completa subordinazione dello
Stato al Partito. In realtà la costituzionalizzazione del Gran Consiglio e il controllo governativo
sulle strutture civili e paramilitari di questo testimoniavano sufficientemente la volontà
mussoliniana di fare del Partito uno strumento dello Stato mantenendolo alla costante dipendenza di
questo. L’atipicità della soluzione giuridico-costituzionale adottata, che oltre a essere ormai lontana
dalla “facies” antica dello Stato liberale, si presentava con caratteristiche formali del tutto nuove,
poteva talvolta autorizzare, per la confusione di organi, di istituti e di persone realizzata dopo il
1925, l’opposta visione della subordinazione dello Stato al Partito. Ma l’idea e lo stile mussoliniano
della dittatura personale, la concezione fascista del potere elaborata dai tecnici del regime
soprattutto da personaggi come Rocco Gentile e Volpe, portati naturalmente a ritenere il nuovo
ordine del punto di vista istituzionale, filosofico e politico come lo sviluppo e il perfezionamento
dell’antico, e infine la stessa configurazione dello Stato autoritario offerta dalla dottrina giuridica
prevalente, apparivano motivi sufficienti a smentire quella visione. Ché anzi nell’esaltazione dello
Stato e nella sua mitizzazione portata innanzi dalla teoria politica e dalla cultura giuridica del
tempo, era la prova più evidente della conferma della prevalenza dell’ordinamento statale
sull’organizzazione partitica, considerata come il mezzo per il rinnovamento di quell’ordinamento
in vista della compenetrazione dell’integrazione della società nazionale dello Stato. […]»
Ecco, dunque, il parere di un qualificato costituzionalista, che smentisce frontalmente decenni di
lettura interessata e strumentale del fenomeno fascismo: nel regime mussoliniano, esattamente
all’opposto di quel che avveniva in Unione Sovietica dopo il 1917 o in Germania dopo il 1933, non
siamo affatto in presenza di un partito unico che mira a sostituirsi allo Stato, a scalzarlo da tutte le
sue funzioni fondamentali, o, comunque, a subordinarlo interamente a sé e a farne il mero strumento
della sua affermazione e della sua potenza; bensì, proprio al contrario, vediamo un partito unico che
si fa da sé strumento del rinnovamento dello stato, della sua piena affermazione e della sua potenza,
insomma che fornisce allo Stato l’energia necessaria a compiere ciò che, nella forma liberale, esso
non era stato capace di fare: fondersi con la nazione e divenire un organismo efficiente, moderno,
all’altezza delle sfide dei tempi. Insomma, realizzare il programma del Risorgimento.
Non si vuol dire, con questo, che il fascismo non sia stato una dittatura e che non abbia operato una
rottura con la continuità dello Statuto albertino (almeno nella sostanza: perché, nella forma, rottura
non vi fu, se non altro grazie alla pronta e totale adesione della monarchia a tutte le sue riforme, a
tutte le sue decisioni, a tutte le sue leggi, laddove la persona del sovrano era, appunto, quella del
supremo garante della vita costituzionale dello stato); si vuol dire che, se tale rottura vi fu, non ebbe
il significato che comunemente le è stato attribuito, ossia, semplicemente, di distruzione degli
organi dello stato liberale per fascistizzare lo stato, ma esattamente quello contrario: di sgombrare il
terreno da quanto esso riteneva, a torto o a ragione - e su questo si può, ovviamente, discutere –
avesse ostacolato l’insediamento dello stato nella vita della nazione e la sua piena realizzazione in
quanto stato “forte”, che non si limita – come nelle democrazie liberali – a sorvegliare la gelosa
tutela delle sfere di libertà dei cittadini e di separazione e reciproca autonomia dei poteri legislativo,
esecutivo e giudiziario, ma vuole fondere i cittadini e le istituzioni in un blocco sociale nuovo ed
inedito, ricostruendo le basi stesse del “patto sociale”. Ed ecco a cosa serviva il tanto criticato (e
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ridicolizzato) nazionalismo fascista: a fornire la spinta morale necessaria a tale ambizioso progetto.
In altre parole: alla vulgata democratico-resistenziale, che si ostina a presentare il fascismo come
una specie di invasione barbarica dello stato da parte di una minoranza cinica ed egoista, capace
solo di adoperare il manganello e l’olio di ricino (o peggio), occorre sostituire una visione molto più
articolata ed obiettiva, secondo la quale il fascismo fu un movimento politico avente la precisa
volontà di restaurare lo stato, rinnovandolo dalle fondamenta, e creando un inedito blocco sociale di
cittadini-lavoratori (le corporazioni), nel quale gli interessi dei singoli e delle categorie fossero
sottomessi a quelli superiori dello stato medesimo, al quale esso intendeva cedere, per così dire,
prendendole da sé, dalle proprie file, le quote di energia necessaria ad effettuare un così ambizioso
programma, quale mai era stato anche solo immaginato dagli uomini politici della vecchia classe
dirigente. Il fascismo, dunque, mirava a creare qualche cosa di più (lo stato nuovo) e non qualche
cosa di meno (una dittatura come tante, ad esempio quella franchista in Spagna) rispetto allo stato
liberale: stato liberale che, non lo si dimentichi mai, aveva fallito già prima che il fascismo
divenisse una forza politica importante e che s’impadronisse, con la “marcia su Roma”, ma dietro
precisa richiesta del sovrano, della direzione politica della nazione.
In questo senso appare chiaro come il fascismo fosse destinato, per sua stessa natura, a configurarsi
come un totalitarismo imperfetto: imperfetto perché la sua mira non era quella di sostituirsi allo
stato o di inglobare in sé lo stato, infiltrandolo e permeandolo capillarmente, dai vertici (governo)
alla base (podestà), bensì quella di ridare slancio, autorità e potere decisionale ad uno stato che era
divenuto sempre più fiacco, inetto, incapace di affrontare i problemi della vita nazionale e
internazionale. Lo stato liberale aveva voluto la guerra mondiale per cementare l’unità nazionale e
per accreditarsi davanti ai cittadini; ma aveva fallito la prova, perché non aveva saputo creare quella
unità (se non al prezzo di una politica repressiva durissima, che vide all’opera le decimazioni
nell’esercito, in misura assai maggiore di quanto accadrà nel 1940; e senza poter evitare la vergogna
di Caporetto, che fu, in buona sostanza, uno “sciopero generale” contro uno stato che non aveva
saputo rendere nazionale la guerra) e non aveva saputo affrontare minimamente gli onerosi
problemi del dopoguerra: politici, economici, finanziari, morali. Figuriamoci cosa avrebbe saputo
fare, o cosa non avrebbe saputo fare un simile stato di cartapesta, paralizzato dalle lobbies, dalle
fazioni, dall’attendismo, dalla corruzione, davanti alla crisi economica mondiale del 1929: certo
l’Italia non se la sarebbe cavata tanto a buon mercato e di nuovo, come nel 1917, la nazione avrebbe
dovuto pagare un conto salatissimo per gli errori e l’incapacità della classe dirigente.
Quando il fascismo instaurò il regime autoritario, nel 1925 (dunque, dopo oltre due anni che, di
fatto, era andato al potere: segno che esso cercò, per quanto possibile, e, senza dubbio, alla sua
maniera e nella sua prospettiva, un qualche coinvolgimento delle altre forze politiche), esso si
caricava di una pesantissima eredità: quella di uno stato materialmente e moralmente in bancarotta,
ridotto ai minimi termini della efficienza, della capacità decisionale, della credibilità di fronte ai
cittadini. Si può deplorare che esso abbia interrotto il cammino della nazione verso la democrazia,
ma non che abbia soffocato un sistema statale sano e collaudato per sostituirlo con una cieca smania
di occupazione del potere. E quanto alla vecchia classe dirigente, essa aveva fatto bancarotta ancor
più clamorosamente dello stato che non aveva saputo guidare: basti dire che non era riuscita ad
avvicinare di un millimetro, nonostante la drammatica esperienza della Prima guerra mondiale, il
popolo alle istituzioni politiche. Di fatto, nel 1919 regnava il caos sociale: con i due partiti di massa,
socialisti e popolari, che a tutto pensavano, tranne che ad assumersi la responsabilità di governare,
pensosi esclusivamente del pubblico bene. Il fascismo non licenziò una classe politica democratica,
matura ed europea, ma un guazzabuglio di elementi parassitari, feudali, borbonici, che appestavano
la vita della nazione e che vivevano, politicamente parlando, di rapina e spoliazione sistematica
della cosa pubblica, di intrallazzi, di clientele, di mezzucci: il tutto sotto l’occhio cinico e
indifferente di una monarchia che, da piemontese, anzi, da savoiarda, non aveva saputo farsi
italiana. Neppure la ferita della scissione fra stato e chiesa era stata minimamente curata: era tutto
fermo al 1871. Lo stato liberale del 1922 era già morto e la guerra civile incombeva. Questo era lo
stato dell’arte, allorché Mussolini andò al governo, su invito del re Vittorio Emanuele III…