il caffé - numero 3

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Il Caffé Milano Anno: I Numero: III Direttore: Alessio Mazzucco «Sono onorato di essere nella città senza tempo del Cairo e di essere ospite di due importanti istituzioni. Per oltre un millen- nio Al-Azhar è stato un faro per la cultura araba e da più di un secolo l’università del Cairo è stata la fonte dello sviluppo dell’Egitto. Voi, insieme, rap- presentate l’armonia tra pro- gresso e tradizione e sono grato della vostra ospitalità, come dell’accoglienza del popolo egiziano. Sono fiero di essere il portavoce della buona volontà del popolo americano e di por- tare un saluto di pace dalle comunità musulmane del mio paese: assalaamu alaykum. Il nostro incontro si svolge in un momento di tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo, una tensione che affonda le proprie radici in ragioni storiche che vanno al di là del dibattito politico attuale. Le relazioni tra l’Islam e l’Occidente sono fatte di coesistenza e cooperazione, ma anche di conflitto e di guerre di religione; in tempi più recenti la tensione è stata alimentata da un colonialismo che negava i diritti e le opportunità di molti musulmani e da una Guerra Fredda durante la quale i paesi a maggioranza musulmana sono stati spesso trattati come spettatori privi del diritto di parola, senza rispetto per le loro aspirazioni. La modernizzazione e la globalizzazio- ne, inoltre, hanno portato cambiamenti così radicali da spingere molti musul- mani a vedere nell’Occidente un’entità ostile alle tradizioni dell’Islam. Que- ste tensioni sono state sfruttate da violenti estremisti per strumentalizzare un piccolo, ma potente numero di musulmani. Gli attacchi dell’11 settembre e i successivi tentativi di violenza contro la popolazione civile ha indotto alcuni Paesi a vedere nell’Islam un nemico irriducibile non solo per gli Usa e le altre nazioni occidentali, ma addirittura per i diritti umani. Tutto ciò ha alimentato la paura e la sfiducia. Fino a che il nostro rapporto verrà definito solamente in base alle nostre differenze renderemo sempre più potente chi semina odio, invece di pace, chi ricerca i conflitti, invece della cooperazione che è neces- saria perché tutti i popoli possano avere giustizia e prosperità. Per questo motivo deve essere spezzata la catena di sospetti e inimicizia. Sono qui per cercare d’inaugurare una nuova epoca nei rapporti tra Stati Uniti e i musul- mani in tutto il mondo, un rapporto basato sul mutuo rispetto e su un interes- se reciproco, fondato – soprattutto – sull’idea che Usa e Islam non siano in- compatibili e non debbano per forza essere in competizione. Si sovrappongo- no, invece, condividendo principi comuni di giustizia, progresso, tolleranza e dignità per tutti gli esseri umani. Cerco una nuova base per il nostro rapporto anche se so che il cambiamento non potrà avvenire improvvisamente, nessun discorso – da solo – può sradicare anni di sfiducia né posso rispondere oggi a tutte le complesse questioni che ci hanno portati fino a qui. Tuttavia sono convinto che per andare avanti sia necessario parlare apertamente di ciò che ci sta a cuore e che, troppo spesso, viene nascosto e taciuto. Ci dovranno essere sforzi da parte di entrambi, per ascoltare e per imparare dall’altro, per rispettarci a vicenda e, infine, per cercare un terreno comune su cui basare il nostro rapporto. (Continua a pag. 4) EUROPEE: BREVI SPUNTI Alessio Mazzucco Non si può certo dire che queste Europee siano state una boccata d’aria fresca. Anzi, l’aria politica, in Italia, pare farsi sempre più stantia. A partire dalla campagna elettorale. Praticamente inesi- stente si potrebbe dire. Sì, certamente, v’erano gazebo, dibattiti, opinioni e giornalisti attivi sull’argomento, ma certo l’Europa è ancora una realtà ben lontana dalla co- scienza politica della nostra società. In tutti gli Stati l’affluenza è stata bassa (con punte ridicole di elettorato) e gli equilibri politici destra- sinistra a livello continentale si sono invertiti. C’è stato uno scossone a Strasburgo; anzi, una vera batosta per il PSE (Partito Socialista Europeo). Ma non in Italia. Nel nostro Paese una sola cosa è cambia- ta: gli equilibri dell’esecutivo tra Lega e PdL. Certo, a sini- stra Di Pietro ha collezionato un buon elettorato, ma parlare di “cambiamenti d’equilibri” in un’opposizione bastonata, divisa, silenziosa e piegata mi sembra eccessivo. Dunque. A Destra gli estremismi non hanno riscosso successo. Que- sto è un dato. L’elettorato non ha sentito bisogno di uno Storace o un Fiore per portare avanti idee generate (a mio avviso) dalla paura. Paura della crisi, della perdita del lavoro, dell’immigrato stra- niero, ecc… (Continua a pag. 3) CUBA E INTERNET: DUE RIVOLUZIONI A CONFRONTO Simone Signore È di questi giorni la notizia quantomeno curiosa che il figlio dell’ex primo ministro cubano Fidel Castro, Anto- nio Castro, si sia fatto “gabbare” da un blogger (anch’esso cubano ma esilia- to in America) spacciatosi per un’avvenente giornalista sportiva ventisettenne di nome Claudia Valencia. A lui, o meglio, a “lei” avrebbe raccontato le sue vicende quotidiane, nonché i fre- quenti viaggi con il padre e lo zio, attuale primo mini- stro. Le debolezze del qua- rantenne “Toni” non hanno fortunatamente compromes- so alcun segreto di stato, ma l’intento del blogger, che ha rifiutato di porgere le proprie scuse portando ad evidenza il fatto di non poter più rien- trare nel proprio paese dal lontano 1971, era in realtà quello di denunciare “l’opulento” stile di vita dei Castro a differenza dei nor- mali cittadini Cubani, prima tra tutte la possibilità di accedere ad internet con particolare facilità. Stop. Lasciamo stare il gossip (che da quando in Italia ha tocca- to l’insindacabile ed ingiudi- cabile – nel vero senso della parola – primo ministro ha assunto caratteristiche sudice e sgradevoli, diventando l’ennesimo tabù italiota). A Cuba è difficile avere acces- so ad Internet?? Personalmente, una banale associazione di idee mi ha portato a considerare un caso politicamente analogo, che pone però più dubbi che rassicurazioni: in Cina è sì censurato il Web, con siste- mi tra l’altro molto avanzati, (Continua a pag. 2) PARTECIPA A “IL CAFFE’” VISITA IL SITO WWW.GIORNALEI LCAFFE.IT SALAAM ALEIKUM DISCORSO DI BARACK OBAMA AL CAIRO

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Terzo numero de "Il Caffé"

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Page 1: Il Caffé - Numero 3

Il Caffé Milano

Anno: I

Numero: III

Direttore: Alessio Mazzucco

«Sono onorato di essere nella città senza tempo del Cairo e di essere ospite di due importanti istituzioni. Per oltre un millen-nio Al-Azhar è stato un faro per la cultura araba e da più di un secolo l’università del Cairo è stata la fonte dello sviluppo dell’Egitto. Voi, insieme, rap-presentate l’armonia tra pro-gresso e tradizione e sono grato della vostra ospitalità, come dell’accoglienza del popolo egiziano. Sono fiero di essere il portavoce della buona volontà del popolo americano e di por-tare un saluto di pace dalle comunità musulmane del mio paese: assalaamu alaykum. Il nostro incontro si svolge in un momento di tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo, una tensione che affonda le proprie radici in

ragioni storiche che vanno al di là del dibattito politico attuale. Le relazioni tra l’Islam e l’Occidente sono fatte di coesistenza e cooperazione, ma anche di conflitto e di guerre di religione; in tempi più recenti la tensione è stata alimentata da un colonialismo che negava i diritti e le opportunità di molti musulmani e da una Guerra Fredda durante la quale i paesi a maggioranza musulmana sono stati spesso trattati come spettatori privi del diritto di parola, senza rispetto per le loro aspirazioni. La modernizzazione e la globalizzazio-ne, inoltre, hanno portato cambiamenti così radicali da spingere molti musul-mani a vedere nell’Occidente un’entità ostile alle tradizioni dell’Islam. Que-ste tensioni sono state sfruttate da violenti estremisti per strumentalizzare un piccolo, ma potente numero di musulmani. Gli attacchi dell’11 settembre e i successivi tentativi di violenza contro la popolazione civile ha indotto alcuni Paesi a vedere nell’Islam un nemico irriducibile non solo per gli Usa e le altre nazioni occidentali, ma addirittura per i diritti umani. Tutto ciò ha alimentato la paura e la sfiducia. Fino a che il nostro rapporto verrà definito solamente in base alle nostre differenze renderemo sempre più potente chi semina odio, invece di pace, chi ricerca i conflitti, invece della cooperazione che è neces-saria perché tutti i popoli possano avere giustizia e prosperità. Per questo motivo deve essere spezzata la catena di sospetti e inimicizia. Sono qui per cercare d’inaugurare una nuova epoca nei rapporti tra Stati Uniti e i musul-mani in tutto il mondo, un rapporto basato sul mutuo rispetto e su un interes-se reciproco, fondato – soprattutto – sull’idea che Usa e Islam non siano in-compatibili e non debbano per forza essere in competizione. Si sovrappongo-no, invece, condividendo principi comuni di giustizia, progresso, tolleranza e dignità per tutti gli esseri umani. Cerco una nuova base per il nostro rapporto anche se so che il cambiamento non potrà avvenire improvvisamente, nessun discorso – da solo – può sradicare anni di sfiducia né posso rispondere oggi a tutte le complesse questioni che ci hanno portati fino a qui. Tuttavia sono convinto che per andare avanti sia necessario parlare apertamente di ciò che ci sta a cuore e che, troppo spesso, viene nascosto e taciuto. Ci dovranno essere sforzi da parte di entrambi, per ascoltare e per imparare dall’altro, per rispettarci a vicenda e, infine, per cercare un terreno comune su cui basare il nostro rapporto. (Continua a pag. 4)

EUROPEE: BREVI SPUNTI

Alessio Mazzucco

Non si può certo dire che queste Europee siano state una boccata d’aria fresca. Anzi, l’aria politica, in Italia, pare farsi sempre più stantia. A partire dalla campagna elettorale. Praticamente inesi-stente si potrebbe dire. Sì, certamente, v’erano gazebo, dibattiti, opinioni e giornalisti attivi sull’argomento, ma certo l’Europa è ancora una realtà ben lontana dalla co-scienza politica della nostra società. In tutti gli Stati l’affluenza è stata bassa (con punte ridicole di elettorato) e gli equilibri politici destra-sinistra a livello continentale si sono invertiti. C’è stato uno scossone a Strasburgo; anzi, una vera batosta per il PSE (Partito Socialista Europeo). Ma non in Italia. Nel nostro Paese una sola cosa è cambia-ta: gli equilibri dell’esecutivo tra Lega e PdL. Certo, a sini-stra Di Pietro ha collezionato un buon elettorato, ma parlare di “cambiamenti d’equilibri” in un’opposizione bastonata, divisa, silenziosa e piegata mi sembra eccessivo. Dunque. A Destra gli estremismi non hanno riscosso successo. Que-sto è un dato. L’elettorato non ha sentito bisogno di uno Storace o un Fiore per portare avanti idee generate (a mio avviso) dalla paura. Paura della crisi, della perdita del lavoro, dell’immigrato stra-niero, ecc…

(Continua a pag. 3)

CUBA E INTERNET:

DUE RIVOLUZIONI A CONFRONTO

Simone Signore

È di questi giorni la notizia quantomeno curiosa che il figlio dell’ex primo ministro cubano Fidel Castro, Anto-nio Castro, si sia fatto “gabbare” da un blogger (anch’esso cubano ma esilia-to in America) spacciatosi per un’avvenente giornalista sportiva ventisettenne di nome Claudia Valencia. A lui, o meglio, a “lei” avrebbe raccontato le sue vicende quotidiane, nonché i fre-quenti viaggi con il padre e lo zio, attuale primo mini-stro. Le debolezze del qua-rantenne “Toni” non hanno fortunatamente compromes-so alcun segreto di stato, ma l’intento del blogger, che ha rifiutato di porgere le proprie scuse portando ad evidenza il fatto di non poter più rien-trare nel proprio paese dal lontano 1971, era in realtà quello di denunciare “l’opulento” stile di vita dei Castro a differenza dei nor-mali cittadini Cubani, prima tra tutte la possibilità di accedere ad internet con particolare facilità. Stop. Lasciamo stare il gossip (che da quando in Italia ha tocca-to l’insindacabile ed ingiudi-cabile – nel vero senso della parola – primo ministro ha assunto caratteristiche sudice e sgradevoli, diventando l’ennesimo tabù italiota). A Cuba è difficile avere acces-s o a d I n t e r n e t ? ?Personalmente, una banale associazione di idee mi ha portato a considerare un caso politicamente analogo, che pone però più dubbi che rassicurazioni: in Cina è sì censurato il Web, con siste-mi tra l’altro molto avanzati,

(Continua a pag. 2)

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Il Caffé

(Segue dalla prima)

la presenza di un grande firewall, che, scherzosamente ma non troppo, si rifà alla ben più famosa grande muraglia, nonché il futuro arrivo di un software censore preinstallato su ogni nuovo PC della nazione. Tuttavia l’accesso è diffuso e consentito a tutti, ed i 300 milioni di accessi ed i 100 milioni di blog sono la conferma che la rete parla sempre di più il mandarino. Allora qual è la vera ragione per cui a Cuba è così difficile navigare (col mouse)? La risposta è: il prezzo. In una nazione nella quale il reddito medio pro-capite si aggira intorno ai 30 dollari mensili, l’accesso ad internet costa 5 dollari per una mezz’ora, 10 dollari per un’ora di navigazione. Il sistema è regolato tra-mite la vendita di tessere nominali con password di accesso alla rete. Pratica-mente per il cittadino medio un’ora di navigazione costa un terzo del proprio reddito: aggiungete che la percentuale di computer per persona è del 3,4% e diviene facile comprendere come internet sia per i cubani un “lusso poli-tico”. Ma è davvero tutta colpa del regime? La realtà come sempre è un po’ più complessa di come appare, ma in questo caso è anche un po’ nasco-sta: Cuba, per effetto dell’embargo Statunitense che sopporta da ormai 47 anni, non ha modo di allacciarsi ai cavi

ad alta velocità sottomarini che colle-gano il Messico alla Florida, garanten-done l’accesso alla rete. La soluzione adottata è quindi quella di un accesso ad internet tramite connessione satelli-tare, che senza entrare troppo nei det-tagli è decisamente meno prestante, ed anche più costosa. A questo si aggiun-ge il fatto che le blockades commer-ciali costituiscono anche la causa di un’infrastruttura delle telecomunica-zioni obsoleta e per nulla comparabile a quella dei paesi più industrializzati. Basti pensare che il sito governativo http://www.cubaweb.cu/ è ospitato su server (computer remoti che “ospitano” e “forniscono” i dati del sito ndr) canadesi, questo perché a Cuba non c’è abbastanza banda da sopportare il traffico in accesso. Persi-no il dato sulla distribuzione dei com-puter è fuorviante, in quanto i compu-ter sono dislocati capillarmente in nu-merosi “Club de Computación”. È presente una nutrita schiera di esperti in networking, che hanno ricevuto istruzione e formazione grazie a politi-che di governo, nonché la presenza di programmi come il “Cuban Youth Computer Club” e lo “InfoMed”[7]. C’è anche da considerare il fatto che, data la poca disponibilità di accesso, questo è giustamente garantito innan-zitutto ad enti di maggiore interesse

IN PRIMA PAGINA

pubblico, quali le strutture sanitarie e finanziarie, che ne consumano dunque una buona fetta. Come se ciò non fosse abbastanza, nelle ultime settimane il governo Cubano ha applicato misure di censura a fonti di informazione tele-matiche che criticano il suo operato (è il caso del famoso “Generación Y” della blogger cubana Yoani Sánchez, che ha contato fino a 1.2 milioni di contatti mensili)[8]. Queste informa-zioni rendono la pillola meno amara? Per nulla, ma forse ci possono aiutare ad essere più obiettivi, a non puntare pregiudizialmente il dito contro il regi-me, se non per le forti critiche che si merita per aver censurato. L’ONU ha approvato per la diciassettesima volta di fila la richiesta di abolizione dell’embargo Americano nei confronti dell’isola, con un risultato di 185 voti favorevoli, 3 contrari ed 2 astensioni[9]. È probabilmente il caso che la presidenza di Obama metta finalmente la parola fine a questa faccenda, anche perché in caso contrario è comunque previsto un accordo nel 2010 per un collegamento della rete Cubana a quel-la Venezuelana: speriamo che la gran-de forza democratica di internet possa imporsi anche in questa grande piccola isola tropicale.

Simone Signore

CUBA E INTERNET:

DUE RIVOLUZIONI A CONFRONTO

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Il Caffé

(Segue dalla prima)

All’elettorato è bastata la Lega, unico vero partito “porta a porta” si sente dire. Il porta-portismo sta ritornando in auge dopo la chiusura dei partiti al territorio e al cittadino. Scriveva Ilvo Diamanti sulla Repubblica di qualche settimana fa (non cito a memoria): le destre si stanno territorializzando, conquistano l’elettorato nelle piazze, si fanno sentire e sono presenti, le sinistre si stanno richiudendo alla tradizione che fu sem-pre loro. E’ vero? Credo di sì. E’ in-quietante, a tratti, vedere un partito co-me la Lega, con le sue idee e il suo mo-do di fare, essere l’unico partito vera-mente politico (in senso di inserimento nella società) del panorama politico italiano. Inquietante non solo per l’accordo o il disaccordo delle mie idee nei confronti dei leghisti; inquietante perché le alternative possibili si stanno bruciando in un autoreferenzialismo dannoso, distruttivo. Ebbene: ora la Lega è il modello del partito vero. Ulti-mamente lo si sente nei programmi d'approfondimento, lo si legge sui gior-nali, lo si avverte nei dibattiti. Leggevo l’Unità ieri. Qualche pagina era dedica-ta alla gioventù PDina. Da pagina quat-tro a pagina otto si susseguivano opi-nioni di giornalisti e nuovi politici in erba. Dunque: che fare? Il “sì può fare” tanto osannato (che aveva conquistato anche a me a suo tempo) ora diventa una domanda, non più un’affermazione. “Si può fare?”. Cosa? Un’opposizione, un partito, una nuova classe dirigente? Cosa esattamente? Non lo si spiega. Le domande che pone l’Unità sono sempli-ci e sono due: “Come si può strutturare

il PD? Quali sono le (nuove) forme di radicamento territoriale?”; “Ha ancora senso parlare di lotta per un partito? E come si lotta quotidianamente?”. E mentre si aspetta il Congresso d’autunno, già le forze e le correnti pro-pongono i propri candidati. E tra tutti sento, come solitaria voce nuova, il candidato sindaco di Firenze al ballot-taggio, Renzi (che non apprezzavo trop-po a dir la verità): unico che parla di vera alternativa, vero ritorno nella so-cietà con idee nuove, unico che dice basta a ideologie vecchie e ad un anti-berlusconismo consumato, portato a-vanti, ben più ferocemente, dalle frange Dipietriste. Vedremo che accadrà. E di Dipietrismo se ne può parlare per ore e ore. Passare dal 4 all’8 percento accrescerebbe le aspirazioni di chiun-que, fino a sentirsi nuovo polo della sinistra anti-berlusconiana e alternativa. Chissà che non sia proprio l’Italia dei Valori il portatore nuovo di una bandie-ra oramai lacera di sinistra. Spero di no. Ma vedremo anche questo, poiché ulti-mamente, a sentire Gentiloni, il PD potrebbe avvicinarsi all’UDC per creare un polo di opposizione. Possiamo dire addio al progressismo PDino? E la sinistra più radicale dove la lascia-mo? Fuori dal parlamento di sicuro. Ma a sommare le percentuali dei partiti, partitini, liste e coalizioni si va ben oltre il 4% e gli elettori si contano in qualche milione. Eppure si resta divisi. In effetti leggere programmi di un nuovo liberi-s m o d i s i n i s t r a a l l e g a t i a “demilitarizzazione dell’Italia e aboli-zione del precariato” si potrebbe rima-nere un po’ basiti. E unire vecchi socia-

IN PRIMA PAGINA

EUROPEE: BREVI SPUNTI

listi con nuovi provenienti dai ranghi rifondisti, e mischiarli e rimischiarli per dar vita a liste sempre più amalgamate potrebbe portare qualcosa? Io credo di no. Dunque, quali le conclusioni? Nulla da dire per la destra. Cavalcano l’onda del successo (populista, mediatico, ef-fettivo che sia) e si radicano sempre più nelle coscienze sociali e nel territorio. Usano il verbo “fare”. Nulla da aggiun-gere. Per la sinistra? Io credo sia giunta l’ora di sganciarsi dai partiti, dalle alle-anze, dalle coalizioni, dalle sigle, nomi, simboli, bandiere morte e riesumate. E’ tempo di dar vita al nuovo, ma davvero, non solo a parole. Niente simboli ora, nessun partito. E’ vero che le regionali sono vicine, ma tenere in vita ciò che c’è adesso è controproducente per una visione di lungo periodo. La sinistra ha grandi ideali e la forza intellettuale di metterli in pratica. Manca coordinazio-ne, un programma comune, un nuovo radicamento nel territorio. Io dico di togliersi la veste degli schemi vecchi e consunti, della mentalità partitica che ora non sta dando buoni frutti. Bisogna ricominciare un dibattito intorno ad un programma e farsi sentire davvero dalle persone e dalla società. E quando la sinistra ricomincerà a scendere in piaz-za e nelle strade, a risolvere i problemi quartiere per quartiere, città per città, allora il dibattito potrà ricominciare poiché, ad essere chiamati alle urne, saranno cittadini ed elettori, non più compilatori di schede, tifosi, vecchi fedeli. O almeno, questa è la mia idea.

Alessio Mazzucco

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Il Caffé

Come il sacro Corano ci esorta, “Sii consapevole di Dio e di’ sempre la veri-tà”. Questo è proprio quel che tenterò: fare del mio meglio nel dire la veri-tà , con l’umiltà che è necessaria per affronta-re la sfida che ci atten-de, fermo nella con-v i n z i o n e che gli interessi che ci uniscono in quanto esseri umani siano molto più potenti delle forze che ci dividono. Questa convinzione è basata, in parte, sulla mia esperienza personale. Sono cristiano, ma mio padre proveniva da una famiglia keniota che contava generazioni di musulmani e, da ragazzo, ho passato diversi anni in Indonesia e ho ascoltato la chiamata dell’adhan [la chiamata alla preghiera effettuata tradi-zionalmente dal muezzin sul minareto, n.d.T.] all’alba e al tramonto. Quando, da giovane, ho lavorato nelle comunità di Chicago, ho conosciuto molte perso-ne che avevano trovato dignità e pace nella fede musulmana. Durante gli studi di storia ho compreso il debito che la cultura ha nei confronti dell’Islam. E’ stato proprio l’Islam, in luoghi come l’università di Al-Azhar, a far avanzare la luce della cultura attraverso i secoli, aprendo la strada per il Rinascimento e l’Illuminismo europei. L’innovazione all’interno delle comunità musulmane ha permesso lo sviluppo dell’algebra, l’invenzione della bussola magnetica e di altri strumenti di navigazione, le tec-niche di scrittura e stampa, la compren-sione dei motivi e dei mezzi di diffusio-ne delle malattie e la scoperta delle cu-re. La cultura islamica ci ha donato ar-chi maestosi e guglie svettanti, poesia

immortale e musica preziosa, la grafia elegante e luoghi pacifici e magnifici.

Lungo il corso della storia, infi-ne, l’Islam ha dimostra-to, con le parole e con i fatti, la possibilità di vivere attra-verso la tol-leranza reli-g iosa e ’eguaglianza r a z z i a l e . Sono anche

consapevole che l’Islam ha fatto parte, da sempre, della storia degli Stati Uniti. Il Marocco è stata la prima Nazione a riconoscere il mio paese e, firmando il Trattato di Tripoli del 1796, il nostro secondo Presidente John Adams scrisse: “Gli Stati Uniti non hanno alcun motivo di inimicizia per le leggi, la religione o la tranquillità dei m u s u l m a n i ” . A partire dalla fon-dazione, i musul-mani americani hanno arricchito gli Stati Uniti, hanno combattuto le no-stre guerre, hanno servito il nostro Governo, si sono erti a difesa dei diritti civili, hanno fondato imprese, insegnato nelle nostre università e ottenuto risultati eccezionali nello sport, sono stati insigniti del Premio Nobel, hanno co-struito i nostri edifici più alti e acceso la torcia olimpica. Quando, recentemente, il primo americano di religione musul-

POLITICA E ATTUALITÀ

SALAAM ALEIKUM DISCORSO DI BARACK OBAMA AL CAIRO

(SEGUE DALLA PRIMA)

mana è stato eletto membro del Con-gresso, ha giurato di servire la nostra Costituzione usando il Sacro Corano che uno dei nostri Padri Fondatori – Thomas Jefferson – teneva nella sua biblioteca personale. Ho conosciuto l’Islam in tre diversi continenti prima di visitare la regione dove è stato rivelato e quelle esperienze sostengono la mia convinzione che un rapporto tra Ameri-ca e Islam debba essere basato su ciò che l’Islam è, non su ciò che non è. Considero dunque parte della mia re-sponsabilità come Presidente degli Stati Uniti lottare contro gli stereotipi negati-vi sull’Islam, ovunque essi appaiano. Lo stesso principio deve essere usato dai musulmani per valutare la propria percezione degli Stati Uniti. I musulma-ni non possono essere descritti da un rozzo stereotipo, allo stesso modo la natura e l’identità degli Stati Uniti non corrispondono alla grezza immagine di un impero egoista. Gli Stati Uniti sono stati una delle più importanti culle del

progresso che il mondo abbia mai conosciuto. Sia-mo nati grazie alla rivoluzione contro un impero, siamo stati fonda-ti in nome dell’ideale che tutti gli uomini siano stati creati uguali e abbiamo sparso il nostro sangue e lottato per secoli al fine di dare significa-to a queste paro-le, all’interno dei nostri confini come nel resto del mondo. Sia-mo stati formati da tutte le cultu-

re, siamo giunti da ogni angolo della terra e ci siamo dedicati a un semplice ideale: ex pluribus unum: “Da molti,

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Il Caffé

uno solo”. Sono state spese molte paro-le sul fatto che un afro-amer icano di nome Barack Hus-sein Obama potesse es-sere eletto Presidente, ma la mia storia perso-nale non è unica in questo sen-so. Il sogno di una pos-sibilità per tutti non diventa realtà per ciascuno in America, ma questa pro-messa esiste per tutti quelli che arrivano sulle nostre rive e ciò comprende i quasi 7 milioni di americani musulmani che oggi, nel nostro paese, godono di redditi e livelli di istruzione al di sopra della media. Negli Stati Uniti la libertà è in-scindibile dalla libertà di professare la propria religione, questo è il motivo della presenza di una moschea in ogni Stato dell’Unione e di più di 1200 mo-schee all’interno dei nostri confini. Questa è, inoltre, la ragione per cui il governo degli Stati Uniti ha combattuto in tribunale per il diritto delle donne e delle ragazze di indossare lo hijab e per punire che negava questo diritto. Non ci sia dunque alcun dubbio: l’Islam è parte degli Stati Uniti e io credo che l’America abbia, dentro di sé, la co-scienza che tutti noi, senza distinzione di religione o razza, condividiamo le stesse aspirazioni: quella di vivere sicu-ri e in pace, di avere un’istruzione e di poter lavorare con dignità, di amare la nostra famiglia, la nostra comunità e il nostro Dio. Questo è ciò che condivi-diamo, questa è la speranza per tutta l’umanità. Il riconoscimento della no-stra comune umanità è certamente solo il punto di partenza della nostra missio-ne, le parole da sole non possono appa-gare i bisogni delle nostre genti, ma

queste necessità potranno essere soddi-sfatte solo se a g i r e m o coraggiosa-mente negli anni a venire e se capire-mo che le sfide che ci si presente-ranno sono sfide comuni e che un f a l l imen to d an n eg g e -rebbe tutti noi. Abbia-

mo imparato dall’esperienza di questi ultimi mesi che quando un sistema fi-nanziario di indebolisce in un Paese, la prosperità di tutti è in pericolo. Quando una nuova influenza infetta un essere umano, tutti siamo a rischio. Quando una Nazione cerca di ottenere gli arma-menti nucleari, il rischio di un attacco cresce per ogni Paese. Quando estremi-sti violenti agisco-no in una zona di montagna, ci sono persone in pericolo dall’altra parte dell’oceano. Infine, quando vengono uccise persone in-nocenti in Bosnia e Darfur, si macchia la nostra coscienza c o l l e t t i v a . Questo è il vero significato di con-dividere il mondo nel 21° secolo e questa è la respon-sabilità che ciascu-no di noi ha verso gli altri esseri uma-ni. E’ certamente una responsabilità difficile da accettare, anche perché la storia umana è un sus-seguirsi di Nazioni e tribù in lotta tra di loro per il perseguimento dei propri

POLITICA E ATTUALITÀ

SALAAM ALEIKUM DISCORSO DI BARACK OBAMA AL CAIRO

(CONTINUA)

interessi. E tuttavia, in questa nuova epoca, tali abitudini sono dannose per ciascuno. Ogni ordine mondiale che veda una Nazione, o un gruppo di per-sone, al di sopra degli altri è inevitabil-mente destinato al fallimento, conside-rando il grado di interdipendenza tra di noi; questo significa che quando riflet-tiamo sul passato non dobbiamo diven-tarne prigionieri. I nostri problemi de-vono essere affrontati con la coopera-zione, il progresso deve essere condivi-so. Ciò non vuol dire che sia necessario ignorare le fonti della tensione, anzi, suggerisce esattamente il contrario: dobbiamo affrontare i contrasti in modo diretto. In quest’ottica permettetemi di parlare il più chiaramente e semplice-mente possibile a proposito di alcune delle questioni che – credo – dobbiamo affrontare insieme. La prima problema-tica che dev’essere fronteggiata è quella dell’estremismo violento in ogni sua forma. Ad Ankara ho affermato con chiarezza che gli Stati Uniti non sono, né saranno mai, in guerra con l’Islam.

La nostra opposi-zione sarà sempre rivolta, incessan-temente, contro gli estremisti violenti che costi-tuiscono un grave pericolo per la nostra sicurezza e questo perché noi rifiutiamo ciò che viene rigettato da tutte le fedi del m o n d i : l’uccisione di uomini, donne e bambini innocen-ti. Ed è il mio primo dovere come Presidente degli Stati Uniti

quello di proteggere il popolo america-no. La situazione in Afghanistan dimo-stra la correttezza degli obiettivi ameri-cani e il bisogno di lavorare insieme

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Il Caffé

verso di essi. Più di sette anni fa, gli Stati Uniti iniziarono a perseguire al Qaeda e i T a l e b a n i r i c e v e n d o un vasto s u p p o r t o dalla comu-nità interna-zionale, non ci siamo impegnati in questa lotta per nostra volontà, ma per necessi-tà. Sono consapevole dell’esistenza di chi mette in dubbio, o giustifica, gli eventi dell’11 settembre, ma vorrei che fosse chiaro: al Qaeda uccise quasi 3000 persone quel giorno. Le vittime erano uomini, donne e bambini innocenti, americani e di altre nazionalità, che non avevano fatto nulla a nessuno e tuttavia al Qaeda scelse di assassinare queste persone senza pietà, di rivendicare l’attacco e ancora oggi dichiara la propria volontà di uccidere su vastissima scala. Al Qae-da ha affiliati in molti Paesi e sta cer-cando di espandere la propria influenza, queste non sono opinioni oggetto di discussione: sono fatti che devono esse-re affrontati. Non ingannatevi: non vo-gliamo tenere le nostre truppe in Afgha-nistan, non vogliamo avere là delle basi militari permanenti e per l’America è un’agonia perdere i nostri giovani uo-mini e le nostre giovani donne. Conti-nuare questo conflitto ha un costo poli-tico ed economico difficile da sostenere e saremmo felici di poter far rientrare a casa ognuno dei nostri soldati, se fossi-mo sicuri che in Afghanistan e Pakistan non vi siano estremisti violenti determi-nati a uccidere quanti più americani possibile. La situazione, però, non è questa. Questa è la ragione della nostra alleanza con 46 Paesi e, nonostante i costi, l’impegno dell’America non s’indebolirà. Anzi. Nessuno di noi do-

vrebbe tollerare questi estremisti, che hanno ucciso in molte Nazioni, hanno

ucciso per-sone di fedi diverse e – più di ogni altre – per-sone di fede musulmana. Le loro azio-ni sono in-conciliabili con i diritti degli essere umani, il p r o g r e s s o delle Nazio-

ni e con l’Islam. Il sacro Corano inse-gna che uccidere un innocente equivale a uccidere tutta l’umanità, mentre salva-re un innocente è come salvare l’umanità intera. La fede di più di un miliardo di persone è enormemente più grande dell’odio cieco di pochi. L’Islam non è parte del problema nella lotta all’estremismo violento, ma una componente impor-tante nella promozio-ne della pace. Siamo consapevoli che il solo intervento mili-tare non è sufficiente a risolvere i problemi in Afghanistan e Pa-kistan, per questo stiamo progettando di investire 1,5 miliardi di dollari ogni anno, per 5 anni, per lavo-rare in collaborazione con i pakistani alla costruzione di scuole e ospedali, strade e imprese, oltre a inve-stire centinaia di mi-gliaia di dollari per aiutare chi si è dovu-to spostare dai propri luoghi d’origine. Per questo motivo finanziamo con 2,8 miliardi di dollari i progetti degli afgha-

POLITICA E ATTUALITÀ

SALAAM ALEIKUM DISCORSO DI BARACK OBAMA AL CAIRO

(CONTINUA 2)

ni per lo sviluppo della propria econo-mia e per la fornitura dei servizi essen-ziali alla vita. Permettetemi anche di affrontare la questione dell’Iraq. Al contrario del conflitto in Afghanistan, abbiamo scelto di iniziare la guerra in Iraq e questa scelta ha causato forti con-trasti nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se sono convinto che, per il po-polo iracheno, sia positivo il fatto di essersi liberato della tirannia di Saddam Hussein, credo anche fermamente che gli eventi in Iraq abbiano ricordato agli Stati Uniti la necessità di impegnarsi diplomaticamente e di costruire un con-senso internazionale, quando possibile, al fine di risolvere i contrasti. Possiamo ricordare le parole di Thomas Jefferson che disse: “Spero che la nostra saggezza cresca con il nostro potere e ci insegni che meno useremo questo potere mag-giore sarà la nostra grandezza”. Oggi gli Stati Uniti hanno una doppia responsa-bilità: quella di aiutare l’Iraq a plasmare un futuro migliore e quella di lasciare

l’Iraq agli iracheni. Ho detto chiara-mente alla popola-zione dell’Iraq che non vogliamo isti-tuire nessuna base militare, che non avanziamo alcuna pretesa sui loro territori e sulle loro risorse. La sovrani-tà dell’Iraq appar-tiene all’Iraq ed è per questo che ho ordinato il rientro delle unità da com-battimento entro agosto. Onoreremo i nostri impegni con il governo iracheno democraticamente eletto di rimuovere le unità di combat-

timento dalle città entro luglio e di far rientrare tutte le nostre truppe dall’Iraq en tro i l 2012. Col laboreremo

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all’addestramento delle forze di sicurez-za del Paese e allo sviluppo della sua e c o n o mi a , ma sosterre-mo un Iraq sicuro e unito in ve-ste di par-tner, non ci comportere-mo come p a d r o n i . I n f i n e , l ’ A m e r i c a non potrà mai tollerare la violenza degli estremisti e, allo stesso modo, non dovremmo mai modificare i nostri principi. L’11 set-tembre è stato un trauma terribile per il nostro Paese e ha comprensibilmente causato rabbia e paura, ma in alcuni casi ci ha condotti ad agire in violazione dei nostri ideali. Ci stiamo concreta-mente impegnando a cambiare corso, ho proibito, senza possibilità di eccezio-ne, l’uso della tortura da parte degli Stati Uniti e ho ordinato la chiusura della prigione di Guantanamo entro il prossimo anno. In questo modo l’America si potrà difendere, rispettan-do però la sovranità delle Nazioni e la guida della legge. Agiremo in collabo-razione con le comunità musulmane che, come noi, vengono minacciate e prima gli estremisti si troveranno isolati e sgraditi all’interno delle comunità musulmane, prima tutti noi potremo essere più sicuri. La seconda maggiore fonte di tensione internazionale che vorrei discutere con voi è la situazione tra Israele, i palestinesi e il mondo ara-bo. I legami tra Stati Uniti e Israele sono ben noti, questo legame non si può spezzare perché è basato su vincoli sto-rici e culturali e sul riconoscimento che l’aspirazione per una patria ebraica af-fondi le proprie radici in un passato tragico che non può essere negato. Il popolo ebreo ha subito persecuzioni nel corso dei secoli e in tutto il mondo e, in Europa, l’anti-semitismo è culminato in

un Olocausto senza precedenti. Domani visiterò Buchenwald, che faceva parte

di un sistema di campi di c o n c e n t r a -mento dove gli ebrei ve-nivano schia-vizzati, tor-turati, fucila-ti, uccisi con il gas per mano del Terzo Reich. Furono ucci-

si 6 milioni di ebrei, più dell’attuale popolazione di Israele e negare questo fatto è una posizione senza fondamento, ignorante e odiosa. Minacciare di di-struggere Israele o perpetuare i vili ste-reotipi sugli ebrei è profondamente sba-gliato, ha l’effetto di evocare nelle men-ti degli israeliani il più doloroso dei ricordi e, allo stesso tempo, di impedire la pace che le popolazioni di quella regione si meritano. D’altro canto è innegabile che la popolazione pale-stinese – sia musul-mana che cristiana – abbia sofferto nella ricerca di una patria. Per più di 60 anni hanno soppor-tato il dolore dell’essere profu-ghi, molti attendo-no nei campi per rifugiati della Ci-sgiordania, di Gaza e delle regioni vici-ne la vita di pace e sicurezza che non hanno mai potuto condurre. I palesti-nesi devono sop-portare le grandi e piccole umiliazioni quotidiane causate dall’occupazione. Sia dunque chiaro che la situazione della popolazione palestinese è intolle-rabile, l’America non ignorerà le legitti-

POLITICA E ATTUALITÀ

SALAAM ALEIKUM DISCORSO DI BARACK OBAMA AL CAIRO

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me aspirazioni dei palestinesi di dignità, opportunità future e di un proprio Stato. Per decenni siamo rimasti in una situa-zione di stallo: due popoli con aspira-zioni legittime, entrambi con una storia dolorosa alle spalle che rende difficile il compromesso. E’ facile puntare il dito – i palestinesi denunciano gli spostamenti di popolazione causati dalla fondazione dello stato di Israele e gli Israeliani la-mentano gli attacchi e la costante ostili-tà che hanno dovuto affrontare nel cor-so della loro storia sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Tuttavia, se osserviamo il conflitto da uno solo dei due punti di vista non riusciremo a riconoscere la verità: l’unica soluzione è che le aspirazioni di entrambi i popoli vengano soddisfatte con la creazione di due Stati dove sia israeliani che palesti-nesi possano vivere in pace e sicurezza. Questa soluzione è nell’interesse di Israele, dei palestinesi, degli Stati Uniti e del mondo intero e per questa ragione ho intenzione di impegnarmi personal-mente per raggiungere quest’obiettivo,

impiegando tutta la pazienza che sarà necessaria. Gli impegni sottoscritti dalle due parti nel-la Road Map sono chiari e affinché ci sia pace è tempo per loro di dimo-strarsi all’altezza delle proprie re-sponsabilità. I pa-lestinesi devono abbandonare ogni forma di violenza, perché resistere attraverso la vio-lenza e l’omicidio è sbagliato e non porta al successo.

La popolazione nera degli Stati Uniti ha, per secoli, sofferto per le frustate ricevute durante la schiavitù e per l’umiliazione della segregazione, ma non è stata la violenza a permettere di

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Il Caffé

ottenere una piena uguaglianza di dirit-ti. E’ stata, al contrario, la pacifica e d e t e r m i n a t a insistenza sugli ideali centrali nella fondazio-ne degli Stati Uniti. La stessa cosa può essere detta per il Su-dafrica e il Sud Est asiatico, per l ’ E u r o p a d e l l ’ E s t e l’Indonesia. La semplice verità è che la violenza è un vicolo cieco, non è potere né coraggio lanciare dei razzi contro bambini che dormono, né far esplodere vecchie si-gnore che viaggiano su un autobus. Non è così che si rivendica l’autorità morale, in questo modo – al contrario – la si abbandona. Per i palestinesi è giunto il momento di concentrarsi su ciò che possono costruire, l’Autorità palestinese deve sviluppare una capacità di gover-no, creare istituzioni che siano al servi-zio dei bisogni delle sua gente. Hamas ha il supporto di una parte dei palestine-si, ma ha anche delle responsabilità: quella di contribuire a soddisfare le aspirazioni dei palestinesi e quella di unificare il popolo. Per questo deve abbandonare la violenza, riconoscere gli accordi stipulati in passato e il diritto di Israele all’esistenza. Israele deve, allo stesso tempo, riconoscere che tanto quanto non può essere negato il suo diritto all’esistenza, allo stesso modo non può essere negato quello della Pale-stina. Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità dei continuati insediamenti israeliani perché questo viola gli accor-di precedenti e indebolisce gli sforzi per raggiungere la pace. Questo è il mo-mento di fermare gli insediamenti. Isra-ele deve dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità affinché i palesti-nesi possano vivere, lavorare e svilup-pare la propria società. La crisi umani-taria di Gaza, infatti, devasta le famiglie

palestinesi, ma è anche una minaccia per la sicurezza di Israele, come lo è

anche la mancan-za di possibilità per il futuro della popolazione che vive in Cisgior-dania. Il progres-so nella vita quo-tidiana della po-polazione pale-stinese deve es-sere necessaria-mente una com-ponente del cam-

mino di pace e Israele deve agire con-cretamente per permettere tutto questo. Gli Stati Arabi, infine, devono ricono-scere che il Summit della Lega Araba è stato un inizio importante, ma che non può costituire la fine delle loro respon-sabilità. Il conflitto arabo-israeliano non dev’essere più utilizzato per distrarre le popolazioni delle Nazioni arabe da altri problemi, dev’essere invece un motivo di intervento a favore dello sviluppo delle istituzioni palestinesi che siano in grado di gestire uno Stato, un motivo per ricono-scere la legittimità dello Stato di Israele e, ancora, per sce-gliere il progresso piuttosto di concen-trarsi sul passato. Gli Stati Uniti colla-boreranno con chi vuole raggiungere la pace e renderanno pubbliche le propo-ste e le discussione fatte con gli Israeliani, i palestinesi e i rappresentanti degli Stati arabi. Non possiamo imporre la pace, ma – in pri-vato – molti musulmani riconoscono il fatto che Israele non scomparirà e, allo stesso modo, molti israeliani riconosco-

POLITICA E ATTUALITÀ

SALAAM ALEIKUM DISCORSO DI BARACK OBAMA AL CAIRO

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molti israeliani riconoscono la necessità di uno Stato palestinese. E’ giunto il momento di agire per raggiungere ciò che tutti sanno essere vero. Sono state sparse troppe lacrime. Troppo sangue è stato versato. La responsabilità di lavo-rare per il giorno in cui le madri israe-liane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere assieme è nostra; è nostro l’impegno per far diventare la Terra Santa per tre grandi religioni il luogo di pace che dovrebbe essere; è nostro anche il dovere di rendere per molto tempo Gerusalemme una casa sicura per ebrei, cristiani e musulmani e un luogo in cui tutti i figli di Abramo possano ritrovarsi pacificamente come nella storia di Isra, in cui Mosé, Gesù e Maometto, che la pace sia con loro, erano uniti in preghiera. La terza fonte di tensione è il nostro comune interesse nel diritto e nella responsabilità delle Nazioni in materia di armamenti nucle-

ari. E’ una questione che è stata causa di tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran, per molti anni l’Iran ha parzialmente definito la propria identità in opposi-zione al mio Paese e cer-tamente la storia delle nostre relazioni è tumul-tuosa. Traduzione di Veronica D e C r i g n i s ( I l Sole24Ore). Ricerca te-sto: Vincenzo Scrutinio

(continua su: http://

politicaattualitailcaf-fe.blogspot.com/2009/06/blog-

post.html)

Le parole più usate nel discorso di Obama

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Il Caffé

“Zang Tump Tump”, suoni bislacchi in piazza Duomo: così inizia “Futurismo 1909-2009” la mostra sull’avanguardia milanese in scena a palazzo reale fino al 6 giugno. E’ un percorso intenso, ludico a tratti, creati-vo di una creatività coinvolgente. Il visitatore si trova gettato in un mondo surreale e bizzarro sin dall’ingresso nella corte del palazzo; qui enormi altoparlanti dal sapore vagamente re-trò, producono una musica alienante ma coinvolgente, una musica “Futurista”. La mostra si articola se-condo un percorso cronologico che, dal prodromo figurativo arriva all’avanguardia vera e propria, quella degli albori coloniali del suo fondatore (Marinetti è nato ad Alessandria d'E-gitto), fino a percorrere l‘iter dell’agguerrito gruppo. Il contesto culturale in cui il movimento (ossia i suoi fondatori) si sviluppa è quello del c a l e i d o s c o p i c o m o n d o p o s t -impressionista. Da una parte chi ne ha ripreso le fila e, galvanizzato da vapori pos i t iv i s t i , ha da to v i ta ad un’espressione pittorica fondata sull’illusione ottica (il puntinismo); dall’altra chi, nel rifiuto della pittura c o m e r a p p r e s e n t a z i o n e d i un’impressione, ha cercato “foreste di simboli” nel reale, ha cercato di ritrar-re il senso ultimo, mistico che la realtà custodisce (il simbolismo); ed infine chi ha concepito la pittura come vetto-re di ideali sociali (Pellizza Da Volpe-

do con il suo quarto stato). L’inizio della mostra è enigmatico, diversivo; un antipasto figurativo in cui troviamo le avanguardie milanesi del tempo. Si va dallo scapigliato Medardo Rosso (“Noi siamo degli schizzi di luce, la materia non esiste”1) con le sue “morbide” sculture di cera, a Gaetano Previati con “La maternità”, divisioni-sta, a tratti simbolista. Poi l’inizio tan-to atteso. La prima sezione è dedicata agli albori dell’avaguardia, dal manife-sto, alle prime opere. Il gruppo, sorto intorno alle stravaganze del letterato Filippo Tommaso Marinetti, esalta il progresso, la velocità, ciò che, nuovo, possa spazzare via tutto quello che è stato, e l’attitudine a riproporlo (il “Passatismo” come lo definì Marinet-ti). Anni 10, siamo in quella fase del Futurismo definita “Divisionismo pla-stico”: la realtà risulta frammentata in un vortice puntinista che, smanioso di riprodurre il movimento in quanto tale, viene sezionata in più piani e frantu-mata; in tale fase, fortemente influen-zata dal cubismo (a là Braque ed a là Picasso), spiccano pittori quali Boc-cioni, vero profeta del dinamismo2, Balla, con i suoi tentativi “tecnici” di dipingere una donna che porta a pas-seggio un cagnolino3 e Severini. La mostra prosegue con i fasti degli anni 20, l’arte “Meccanica”; l’avanguardia milanese si spinge all’esaltazione, “decadente” uanto aulica, della mac-china. Tale fase, resa ancor più ambi-

ARTE E CULTURA

FUTURISMI VECCHI E NUOVI

gua dalla vicinanza con il regime del duce, produce opere “spigolose”, in-tense, a tratti “metafisiche”4. Una let-tura ingenua di un futuro anelato com-posta da ritmi meccanici ed automi. Anni 30: l’esuberanza primigenia la-scia, in parte, spazio al sognante. Sia-mo nella fase dell’ ”Aeropittura”in cui Dottori stupisce con i suoi paesaggi aerei, la macchina lascia spazio ad altro ma si fa strumento indispensabi-le, complice, per l’artista.5 Infine la mostra presenta quelli che sono stati gli sviluppi, durante e dopo, il Futuri-smo. Si va dall’arte polimaterica in cui scorgiamo i sacchi di Burri, alle ultime interpretazioni del dinamismo materi-co. Il Futurismo è un’avanguardia e-clettica, attraversata da uno spirito forte, vorace nella sua volontà panica. Un desiderio insaziabile fino ad arriva-re, talvolta, alla contraddizione.

“Abbiate fiducia nel progresso: ha sempre ragione anche quando ha tor-to”.

Amava dire Marinetti.

Tommaso Giommoni

1. Medardo Rosso - La Portinaia

2. Umberto Boccioni - La Città che Sale

3. Giacomo Balla - Dina-mismo di un Cane al

Guinzaglio

4. Fortunato Depero - Fulmine Composi-

tore

5. Gerardo Dottori - Umbria Primavera

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Q uando pensiamo ad un’opera visionaria e geniale nella sua genialità, la prima persona a

cui pensiamo è George Orwell, con il suo “1984”. Se la risposta fosse un’altra sarebbe comunque l’opera di uno scrittore, di un giornalista, magari di uno scienziato. Mai pen-seremmo ad un film. Invece è pro-prio di un film che voglio parlare. Questo film è “The Truman Show”, del 1998. In pochi si ricorderanno bene di questo film, che fu accolto in modo piuttosto tiepido anche quando uscì nei cinema. In un mo-mento ancora libero da Grandi Fra-telli, Isole dei Famosi e chi ne ha più ne metta, Peter Weir (regista dei più conosciuti “L’attimo Fuggente” e “Master & Commander”) girò un film fondato proprio sul morboso desiderio degli uomini di spiare dal buco della serratura e, parallelamen-te, all’insito istinto della curiosità e del desiderio di verità. Si contrap-pongono due figure: un uomo, Tru-man, appunto, l’Uomo Vero, che nasce e cresce all’interno di un set televisivo, un mondo creato a tavoli-no per lui, dove tutti lo possono spi-are, appassionarsi, crescere con lui, che però si pone delle domande, vuole capire chi è, da dove viene, perché alcune cose accadono, e,

dall’altra parte del teleschermo, gli spettatori che seguono, trattenendo il fiato, ogni sua mossa. Tut-ti i gesti, i comporta-menti di T r u m a n sono segui-ti e, talvol-ta, corretti, nella misu-ra in cui l’imprevisto potrebbe nuo-cere allo share del programma. Nel “Truman Show”, il reality del film, passano una serie di personaggi che rappresentano diversi approcci al problema posto dal film: c’è la mo-glie, che ci appare un’attrice senza la minima considerazione per i sen-timenti del protagonista, il migliore amico, che rispetta il copione cer-cando però di parlare con Truman e entrarci per quanto possibile vera-mente in contatto e la ragazza cono-sciuta al liceo, mai dimenticata da Truman, che al tempo cercò di libe-rarlo dall’inganno e perciò subito eliminata dal reality, che rappresen-ta in qualche modo il desiderio di sapere dell’uomo, di sapere di più. Solo la pubblicità, fatta dagli attori durante la ripresa, in modo da non

TEATRO, CINEMA E MUSICA

da non perdersi nemmeno un secon-do della soap, interrompe l’idillio di

q u e s t o m o n d o quasi invi-d i a b i l e . Q u e s t o film è in apparenza molto fri-volo e l e g g e r o , dalla pati-

nata copertina hollywoodiana, e for-se è proprio questa la sua forza, per-ché allo spettatore attento rivela con estrema delicatezza ciò che si trova nell’animo umano. Alla luce di que-sto film è facile capire perché in Italia al momento la preoccupazione maggiore (e drammaticamente an-che uno degli argomenti di conver-sazione più gettonati) sia con chi sia andato a letto il premier. Perché in fondo tutti vogliamo spiare dal buco della serratura. E se questo morboso desiderio è persino legittimato dall’opinione pubblica e dalla stam-pa, che cosa ci può essere di me-glio?

Irene Deltetto

LA TRISTE REALTÀ DELL’IRREALE:

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Il Caffé

La natura è indifferente ai drammi dell’umanità: con i suoi ritmi e i suoi ci-cli, pare farsi beffe dei nostri travagli. E’ forse questo cuore selvaggio, che ha reso l’uomo contemporaneo così non curante verso le sofferenze dei suoi simili. Ed e c c o c h e l’ipersensibilità di alcuni appare più come la risposta allergica sproposita-ta di un sistema immunitario che riconosce come dannose sostanze innocue, piuttosto che la voglia di comprendere ed aiutare l’altro: è la sensibilità che si fa vanto, nei moderni salotti radical chic. In un simile scenario, dove l’individuo ar-ranca nella sua ignoranza spirituale e sen-timentale, salvifiche sono le figure che portano alla luce disagi ed inadeguatezze. Nella Grecia antica, Socrate aveva saputo dare una svolta al pensiero, fornendo non solo l’esempio di un metodo d’indagine, ma soprattutto proponendo un modello di vita cui ispirarsi, opponendosi ai meschini sofisti e a quei detentori di verità marmo-ree. Oggi molte sono le luci che si staglia-no, ma una in particolare giunge dal fred-do nord Europa e prende il nome conso-nantico di Ingmar Bergman. Regista poli-edrico, che ha saputo fare cinema per mezzo secolo, Ingmar Bergman è sicura-mente una delle voci più esperte in meri-

to: la sua filmografia è fin dall’inizio co-stellata da opere che richiamano lo spetta-tore alla riflessione. Certo, perché se la medicina è la scienza di chi ricerca un’appagante risposta chiarificatrice sui

meccanismi dell’anima e del corpo, l’arte, nella sua accezio-ne più nobile, è la scienza di chi esige l’analisi, di chi ama l’interrogativo, di chi vorrebbe operare una radiografia al pro-prio spirito ed è in quest’ultima prospettiva che Bergman si pone. L’analisi della vita dell’autore risulta quanto mai indispensabile in questo caso, dato che le esperienze biografi-che diventano spunto per i suoi film. Ma partiamo con ordine. Egli nasce in Svezia, in

un’austera famiglia prote-stante nel 1918. Figlio di un pastore luterano, in casa re-gnava una disciplina ferrea, che non lasciava spazio all’errore, né tanto meno alla spontaneità. Sempre nel miri-no del giudizio dei parroc-chiani, la famiglia viveva “come sul palco di un teatro” e lo stress era notevole. Nes-suno poteva lasciarsi andare ad atteggiamenti ritenuti “eccessivi”, la decenza e il decoro erano le parole d’ordine: Così le fantasie di un bimbo di sette anni che sognava di andare a vivere in un circo era punita in maniera esempla-

TEATRO, CINEMA E MUSICA

IL SOCRATE DEL GRANDE NORD:

QUANDO LA PIAZZA SI FA SALA DA CINEMA

era punita in maniera esemplare (come si ricorda nell’autobiografia “Lanterna Ma-gica”). Un simile ambiente ha avuto con-seguenze differenti sui tre figli della cop-pia: Ingmar Bergman asserisce di “aver imparato ad educare se stesso alla Menzo-gna”, celando all’altro i propri veri senti-menti, vestendo di volta in volta maschere diverse a seconda delle situazioni. Uniche costanti nei vari rapporti erano il cinismo e l’indifferenza, più o meno consapevoli. Nessuno poteva scalfire questo gelido animo, se non la macchina da presa, che piomba nella sua vita per caso, un freddo Natale, quando gli viene regalata una rudimentale lanterna magica: è l’inizio di un legame durato per più di cinquant’anni. Superfluo cercare nella

filmografia un punto di riferimen-to: tre periodi si possono riconosce-re nella carriera e per ciascuno di essi è arduo asse-gnare il titolo di capolavoro ad una singola opera. Da “Il posto delle f r a g o l e ” , a “Fanny e Alexan-d e r ” , d a “ Persona” , a “Sussurri e grida”, per non dimentica-re la cosiddetta

trilogia su Dio e l’acclamato “Scene da un matrimonio”. Unico leitmotiv nel turbinio di interrogativi è l’approccio alle diverse

“ Le piccole ferite dell'io e le coliche morali sono esaminate al microscopio. La paura del vero che caratte-rizza il soggettivismo e le coscienze scrupolose è diventata di gran moda e noi corriamo finalmente in un

enorme recinto in cui litighiamo sulla nostra solitudine, senza ascoltarci a vicenda, senza notare che ci spin-giamo gli uni verso gli altri, sino a morirne soffocati.” (da Tino Ranieri, Ingmar Bergman, il castoro cinema).

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Il Caffé

l’approccio alle diverse problematiche: l’artista di Uppsala è un chirurgo, che con il bisturi della coerenza e dell’analisi im-pietosa rimuove i brandelli di maschere che nascondono la necrosi ora della mora-le ora della società. L’uomo descritto è un individuo solo nella comunità, benché attorniato da più per-sone, solo nella vita, benché accompagnato da un Dio ormai clau-dicante. Se nella pri-ma parte della carrie-ra, un Bergman incer-to si cementa in com-m e d i e b r i l l a n t i dall’amaro retrogusto esistenzialista, è con gli anni Cinquanta che il suo cinema si svela al grande pubblico. Tra il 1957 (anno in cui esce “Il settimo sigillo”) e la fine degli anni Sessanta, il regista rincorre le tematiche più diverse, in un labirinto di dubbi e incertezze: dal rapporto conflittu-ale con la religione ( “Il settimo sigillo” o “Come in uno specchio”o ancora “Luci d’inverno”), alla prospettiva catastrofica di un mondo senza Dio (e senza anima, come in modo straziante è ricordato ne “Il silenzio”); dalla visione dell’arte come un rito, un qualcosa che prende avvio dal nostro inconscio più remoto (“Il volto”, “Il rito”); ai lavori più d’avanguardia, come “Persona” ( film fondato sul para-dosso di un’attrice che si accorge di aver recitato molteplici ruoli nella vita reale come sul palco, senza cinicamente rileva-re una gran differenza) o “L’ora del lu-po”, dove si mette in scena più o meno letteralmente lo scomporsi dell’unità dell’io, la presa di coscienza dell’impossibilità dell’individuo di essere “uno” (“Lo specchio si è rotto, ma che cosa riflettono i frantumi, sapete dirme-lo?” intona Johan Borg ne “L’ora del lupo”. Con “Sussurri e grida” si assiste ad uno spartiacque con il passato: è il primo lungometraggio a colori e il mae-

stro sa giocare efficacemente con il sim-bolismo ad essi associato, producendo un film che si annovera tra i capolavori della storia del cinema. “Sussurri e grida” è la storia di un trio, in cui ciascun componen-

te si fa portavoce di un modo di afferrare la vita: sono tre sorelle, di cui una è la gelida razionalità, il raziocinio disposto “a rin-chiudere Cristo in un mani-comio” (come viene men-zionato a tal proposito nella piéce teatrale giovanile “Il giorno finisce presto” ); Liv Ullman è la carnalità esuberante, fatta di affet-tuosità melliflue e futili discorsi sdolcinati; ed infi-ne la sorella malata, colei che davvero sa che cos’è la vita, proprio grazie alla sua

malattia, che la porta a riconoscere nell’esistenza e nel sincero rapporto con le sorelle un significato che va al di là delle semplici moine civettuole e delle rigide asserzioni di una ragione onnipo-tente. Da “Sussurri e grida” lo stile del regista si fa più scarno, abbandona la ri-cerca del contrasto di luci e ombre (che tanto gli riesce bene in film come “Persona" o “Luci d’inverno”) e maggior-mente incentrato sul dialogo, sull’analisi dei volti e delle loro espressioni, divenen-do un vero e proprio banco di prova per i suoi fedeli attori. Perciò non si può non riconoscere a “Scene da un matrimonio” del 1973 il suo fortissimo impatto media-tico (tanto che i sociologi dell’epoca rico-nobbero in esso la causa scatenante dell’impennata di divorzi che seguirono): ritratto di una coppia piccolo borghese dall’appagante vita tra gli agi e la serenità, il matrimonio si rivelerà ben presto un vero e proprio carcere, un incubo, scaturi-to dal totale “analfabetismo sentimenta-le” (come lo definisce il protagonista Jo-han) che li affligge. Un analfabetismo tuttavia ben più drammatico, che affonda le sue radici nella totale ignoranza per ciò che riguarda la propria persona, il proprio

TEATRO, CINEMA E MUSICA

essere, che prescinde le maschere impo-ste de genitori, insegnanti ed amici. Johan e Marianne sono due adulti che si sono convinti della verità ontologica di quel travestimento, che hanno finito per scambiare l’abito con il corpo, il velo di Maya con il mondo. Il quadro raccapric-ciante è presto definito. Con “Fanny e Alexander” Bergman ha voluto conclude-re la sua carriera, lasciandoci un’opera che somiglia più ad una favola, dove fan-tasia e narrazione autobiografica si inter-secano in un racconto formidabilmente riuscito. Faranno seguito opere minori, come “Dopo le prove” e l’ultimissimo “Sarabanda”, in cui l’artista si cimenta nell’era del digitale. In ultima analisi, perciò, nel regista svedese, si può ricono-scere quella figura un po’ mitica e un po’ veritiera, che forse ha annoiato molti stu-denti sui banchi di scuola, ma il cui valore sociale e culturale è indiscutibile: Socrate. Il filosofo è passato alla storia per la sua inconfondibile ed inarrestabile fame di verità, che lo spingeva per le vie della polis e nelle piazze a porre le domande più banali e più semplici su temi come giustizia e libertà. E non c’era scampo per gli interlocutori: ricchi e poveri, giovani e vecchi, nessuno si poteva esimere da que-sto incrollabile scienziato del dubbio, che metteva in discussione non già per portare avanti una polemica sterile e distruttiva, ma anzi per porre le basi ad un sapere più solido. Allo stesso modo, Ingmar Ber-gman è un inquisitore dei nostri tempi, un acerrimo nemico di quello che Pierpaolo Pasolini chiamava “il laicismo consumi-stico che ci ha resi dei bruti, adoratori di feticci”, ma altrettanto fervido oppositore della tradizione bieca, che porta avanti idee solo “perché si è sempre fatto così”. Lucido psicanalista sine laurea, Bergman come Socrate scandaglia l’animo umano alla ricerca di quel qualcosa che possa salvarci dall’abisso del cinico raziocinio, riportandoci ad una autentica dimensione della spiritualità.

Alessia Ferraris

IL SOCRATE DEL GRANDE NORD: QUANDO LA PIAZZA SI FA SALA DA CINEMA

(CONTINUA)