foibe - l’orrore della vendetta

30
1 Foibe: l’orrore della vendetta L’esposizione della semplice realtà dei fatti è sempre scomoda e dolorosa. Da una parte o dall’altra ci sarà sempre chi avrà qualcosa da obiettare e preferisce modellare più o meno spudoratamente l’accaduto per adattarlo alle proprie esigenze. La vicenda delle foibe istriane appartiene ad un passato ancora troppo vicino per superare l’esame della storia e la ricerca della verità su quei tragici avvenimenti continua ad incappare in ferite ancora aperte o non del tutto rimarginate. Ma non si può continuare a far finta che nulla sia successo, così come non si può continuare ad offendere la memoria dei caduti per vergognosi fini propagandistici. E’ accaduto, e questo è un fatto innegabile. Il perché ed in quali circostanze è quanto invece ci è dovuto sapere se veramente vogliamo rispettare il dolore e la sofferenza di chiunque, da qualunque parte del modo, è costretto a subire e cadere sotto i colpi del più forte. Se ne è fatto un gran parlare negli ultimi tempi, ma quanti sanno rispondere alla più semplice delle domande: cosa sono le foibe? La risposta che si ottiene è quasi sempre univoca e tende a mettere molto semplicisticamente tutti i buoni da una parte (le vittime) ed i cattivi (i carnefici) dall’altra. Una risposta prevedibile, perché in tutti questi anni non si è fatto altro che alimentare, con plauso generale, un’opinione a senso unico. Ha senso individuare, in una tragedia come la seconda guerra mondiale, i morti nelle foibe come martiri della destra ed i morti nei lager come martiri della sinistra? Chi ha a dato ai rispettivi schieramenti il diritto di arrogare a sé gli uni o gli altri caduti mettendoli in concorrenza come fossero un trofeo di guerra da usare a fini propagandistici? Eppure è esattamente quanto è accaduto sinora e continua ad essere sotto gli occhi di tutti, come dimostrano le continue dispute (anche parlamentari) sull’opportunità o meno di effettuare retoriche commemorazioni o istituire giorni della memoria per le vittime delle foibe. E’ giunto il momento che la storia cessi di essere usata per far politica e serva invece alla politica per non ripetere gli errori del passato.

Upload: franco-borgis

Post on 24-Jul-2015

98 views

Category:

Documents


0 download

DESCRIPTION

articolo illustrato sulla questione delle foibe jugoslave alla ricerca di un perchè con approfondita analisi storica di fatti e antefatti

TRANSCRIPT

Page 1: Foibe - l’orrore della vendetta

1

Foibe: l’orrore della vendetta

L’esposizione della semplice realtà dei fatti è sempre scomoda e dolorosa. Da una parte o dall’altra ci sarà sempre chi avrà qualcosa da obiettare e preferisce modellare più o meno spudoratamente l’accaduto per adattarlo alle proprie esigenze. La vicenda delle foibe istriane appartiene ad un passato ancora troppo vicino per superare l’esame della storia e la ricerca della verità su quei tragici avvenimenti continua ad incappare in ferite ancora aperte o non del tutto rimarginate. Ma non si può continuare a far finta che nulla sia successo, così come non si può continuare ad offendere la memoria dei caduti per vergognosi fini propagandistici. E’ accaduto, e questo è un fatto innegabile. Il perché ed in quali circostanze è quanto invece ci è dovuto sapere se veramente vogliamo rispettare il dolore e la sofferenza di chiunque, da qualunque parte del modo, è costretto a subire e cadere sotto i colpi del più forte.

Se ne è fatto un gran parlare negli ultimi tempi, ma quanti sanno rispondere alla più semplice delle domande: cosa sono le foibe? La risposta che si ottiene è quasi sempre univoca e tende a mettere molto semplicisticamente tutti i buoni da una parte (le vittime) ed i cattivi (i carnefici) dall’altra. Una risposta prevedibile, perché in tutti questi anni non si è fatto altro che alimentare, con plauso generale, un’opinione a senso unico. Ha senso individuare, in una tragedia come la seconda guerra mondiale, i morti nelle foibe come martiri della destra ed i morti nei lager come martiri della sinistra? Chi ha a dato ai rispettivi schieramenti il diritto di arrogare a sé gli uni o gli altri caduti mettendoli in concorrenza come fossero un trofeo di guerra da usare a fini propagandistici? Eppure è esattamente quanto è accaduto sinora e continua ad essere sotto gli occhi di tutti, come dimostrano le continue dispute (anche parlamentari) sull’opportunità o meno di effettuare retoriche commemorazioni o istituire giorni della memoria per le vittime delle foibe. E’ giunto il momento che la storia cessi di essere usata per far politica e serva invece alla politica per non ripetere gli errori del passato.

Page 2: Foibe - l’orrore della vendetta

2

Gli antefatti Solitamente si pensa alle foibe come a quelle aperture carsiche del terreno nelle quali i partigiani jugoslavi gettarono migliaia di italiani dopo la fine della seconda guerra mondiale. Preso così, il fatto non può che risuonare riprovevole a chiunque ne venga a conoscenza e ben si presta a facili schematismi. Ma ogni fatto preso isolatamente non dice nulla se non viene inserito nel contesto in cui si è verificato, non solo in quel momento, ma anche prima, a volte molto tempo prima. Perché per queste come per tutte le atrocità collettive il movente è sempre e solo uno: l’odio. E l’odio non fa parte del patrimonio genetico dell’individuo ma è sempre alimentato da qualche condizionamento esterno. Da cosa nasce, dunque, l’odio che ha provocato gli infoibamenti nella primavera del 1945 ? Se si ha la pazienza di ripercorrere a ritroso i fatti della storia, chiunque potrà giungere a conclusioni che allontaneranno definitivamente il desiderio di ricorrere a quei comodi schematismi che invitavano a separare i buoni dai cattivi, spogliando tutti gli attori di ogni etichetta per lasciar spazio solo ad un generico sgomento e a tanta amarezza per quanto è accaduto. Salvo poi rendersi conto che da allora l’umanità è riuscita a cadere ancor più in basso e non sembra avere nessuna intenzione di fermare la discesa verso il fondo.

Innanzi tutto pochi sanno che gli eccidi ebbero due momenti: il primo nel 1943, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, quando si scatenarono vendette e rancori mai sopiti dopo 20 anni di italianizzazione forzata; il secondo, con molte più vittime, nella primavera del 1945, quando le truppe jugoslave occuparono temporaneamente Trieste e la Venezia Giulia. Ignorando quasi del tutto le prime, è alle vittime della seconda ondata di violenza titina che si rivolge solitamente il pensiero quando si parla di foibe. Eppure si tratta dello stesso odio e degli stessi rancori la cui origine non va cercata in un passato troppo remoto ma nei primi decenni del XX secolo. È solo dopo la prima guerra mondiale, cioè quando i nazionalismi si affermarono fino a sfociare in razzismo di Stato, che il Regno d’Italia cominciò la sua politica di italianizzazione forzata delle “terre irredente”, gettando i germi dei primi risentimenti nei confronti degli italiani. Da ogni regione d’Italia giunsero funzionari ed impiegati pubblici per sostituire quelli locali e l’italiano divenne lingua ufficiale ed obbligatoria, limitando quanto più possibile l’utilizzo di ogni altra forma linguistica alla sola sfera privata. Se nelle città della costa, dove gli italiani erano già in maggioranza ed il bilinguismo piuttosto diffuso, l’effetto non fu particolarmente disastroso, nelle zone rurali dell’interno gli slavi (sloveni, croati, dalmati, cici), in gran parte contadini poco alfabetizzati, si ritrovano ad essere stranieri in patria. Le durissime condizioni imposte dal Regno si fecero ancora più rigide ed intolleranti con l’avvento del fascismo. Le scuole elementari slovene e croate furono definitivamente chiuse e con la riforma scolastica del ministro Gentile del 1° ottobre 1923 il sistema scolastico sloveno e croato in Istria subì il colpo definitivo. Negli stessi territori l'uso dello sloveno e del croato nell'amministrazione e nei tribunali, già fortemente limitato durante i primi anni di occupazione, scompare del tutto: nel marzo 1923 il prefetto della Venezia Giulia vietò l'uso dello sloveno e del croato nell'amministrazione, mentre per decreto regio il loro uso nei tribunali fu vietato il 15 ottobre 1925. L'attività delle società e delle associazioni croate e slovene era già stata vietata, ma con l'entrata in vigore della “Legge sulle associazioni” (1925), della “Legge sulle manifestazioni pubbliche” (1926) e della “Legge sull'ordine pubblico” (1926) la maggior parte degli esponenti più in vista del modo culturale, politico

Page 3: Foibe - l’orrore della vendetta

3

ed associativo sloveno e croato è mandato al confino in Sardegna o in altre località italiane. Nel 1923 si decise di cambiare tutta la toponomastica e qualche anno (1927) dopo la stessa sorte toccò ai nomi e cognomi delle persone: un vero e proprio atto di brutalità verso le identità personali. Le famigerate leggi razziali antiebraiche e genetiche del 1938 (che seguirono le meno famose leggi razziali del 1936-37 emanate nei confronti dei popoli di pelle nera e altri popoli “coloniali”) divisero ancor di più la cittadinanza in due categorie: gli “italiani puri” e gli inferiori. Ma era solo l’inizio. Il peggio doveva ancora venire e con la guerra non tardò ad arrivare.

Lo spostamento dei confini della Venezia Giulia dopo la I Guerra Modiale

Dopo il disastroso attacco italiano alla Grecia, non solo le “terre irridente” ma tutta la Jugoslavia finì sotto il giogo delle potenze nazi-fasciste diventando territorio di stragi e di crudeltà. Tanto che alla fine della guerra risulterà essere uno dei paesi che avrà pagato il più alto tributo in termini di caduti: circa 1 milione e mezzo di persone su 16 milioni di abitanti. E la responsabilità, anche se indiretta, fu tutta italiana: senza le mussoliniane velleitarie manie di grandezza, l’occupazione nazista e la conseguente brutale soggezione del popolo jugoslavo si sarebbe probabilmente limitata all’ultima fase del conflitto. Grazie agli italiani, il tragico destino si compì con qualche anno di anticipo e con molti morti in più. Nei primi anni di guerra la politica tedesca nei Balcani era infatti volta fondamentalmente a garantire il petrolio rumeno e le derrate alimentari ungheresi nonché, tramite un sistema di alleanze, la possibilità di attraversare liberamente il territorio per realizzare i programmati piani di espansione ed est. Tali equilibri furono però improvvisamente compromessi dall’avventata politica estera del partner italiano, illusosi di poter condurre una propria vantaggiosa guerra parallela. L’apertura di un nuovo fronte in Grecia aveva destabilizzato completamente l’area balcanica, portando il nemico proprio nel luogo meno opportuno e soprattutto nel momento sbagliato, quando il mosaico delle alleanze per poter dare tranquillamente il via all’ Oerazione Barbarossa non

Page 4: Foibe - l’orrore della vendetta

4

era ancora completato. Per garantire il libero movimento delle truppe al sicuro da ogni azione di disturbo, solo due paesi non avevano ancora aderito al patto tripartito (l’alleanza nazista per il nuovo ordine mondiale, inizialmente firmato da Germania Italia e Giappone): la Bulgaria e la Jugoslavia. Riuscire a convincerle con il nemico alle porte (in Grecia) e senza che la vicina Unione Sovietica ne venisse a conoscenza diventava difficile e la situazione sfuggì presto di mano. La Grecia, seppur governata da un regime nazionalista (guidato dal Primo Ministro Metaxas) ideologicamente molto vicino al nazionalsocialismo, era un paese tradizionalmente e storicamente molto legato alla Gran Bretagna che non tardò a correre in suo aiuto sia con mezzi e uomini che con pressioni su Belgrado affinché fornisse aiuti all'esercito greco.

L’Europa nel 1940

La decisione di attaccare la Grecia fu presa da Mussolini sin dai tempi della conquista dell’Albania, nell’aprile del 1939, col chiaro intento di controbilanciare il peso sempre maggiore assunto dell'alleato tedesco rafforzando la presenza italiana nell’Egeo e nel Mediterraneo, che oltre al prestigio avrebbe aumentato anche la potenza offensiva dell’Italia in Nord Africa. Ma le cose non andarono come previsto e quella che doveva essere una dimostrazione della potenza dell'esercito italiano si tradusse sin dall’inizio in una tremenda disfatta. Duramente provati dall’inaspettata resistenza della popolazione e dalla controffensiva dell’esercito nazionale, i comandi italiani abbandonando posizioni su posizioni e nel novembre del 1940, dopo solo un mese di guerra, quasi un terzo del territorio albanese da cui partì l’offensiva era già finito nelle mani dei greci. Di fronte all’evidente sconfitta, Mussolini fu costretto a chiedere aiuto all’alleato tedesco, cui aveva

Page 5: Foibe - l’orrore della vendetta

5

sempre tenuto nascosto i suoi propositi per metterlo di fronte al fatto compiuto. La disfatta pose fine ad ogni illusione circa la possibilità di condurre una “guerra parallela” fascista, ma più che ferire l’onore e l’orgoglio nazionale stravolse i piani nazisti, che dovettero urgentemente correre ai ripari ed andare in soccorso dell'esercito italiano per evitare una estensione del conflitto a tutta l'area balcanica: l’apertura di un altro fronte per l'esercito tedesco avrebbe infatti compromesso definitivamente i piani di invasione dell'Unione Sovietica, prevista per la primavera del 1941. Per risolvere la spinosa situazione vennero ammassate in Bulgaria (che nel frattempo aveva aderito al Patto Tripartito) e in Romania diverse divisioni tedesche pronte ad intervenire, ma rimaneva l’incognita della Jugoslavia che ancora non si era ufficialmente allineata alla politica dell'Asse. Soltanto il 25 marzo 1941, dopo pesanti pressioni e la promessa del porto di Salonicco in Grecia, il reggente principe Paolo (che aveva assunto la reggenza del Regno di Jugoslavia nel 1934 dopo l’assassinio di Re Alessandro I) acconsentì a firmare l’adesione al Patto Tripartito, ottenendo specifiche garanzie che il territorio del suo Paese non sarebbe stato utilizzato dai nuovi alleati come campo di battaglia. Fu Hitler in persona a rassicurarlo che il territorio jugoslavo non sarebbe stato utilizzato per le operazioni militari in Grecia, poiché i suoi imminenti piani di attacco all'Unione Sovietica rendevano assolutamente necessaria la pacificazione dell'area danubiano-balcanica. Un evidente successo diplomatico per il principe, non sfruttabile però in nessun modo a fini politici in quanto le clausole del Patto, su esplicita richiesta del Fuhrer, dovevano per il momento rimanere segrete per non allarmare Mosca. Un segreto che gli costò molto caro: pochi giorni dopo, nella notte tra il 26 ed il 27 marzo, un gruppo di ufficiali serbi contrari all'intesa con la Germania nazista, istigati dal governo britannico, portarono a termine un colpo di Stato ai danni del principe filo-tedesco ponendo sul trono il giovane Pietro II Karageorgevic, figlio di re Alessandro, di cui erano noti i sentimenti filo-britannici. Al contrario di Hitler, per gli inglesi lo scoppio di complicazioni militari in Jugoslavia rivestiva un'importanza strategica ed andava alimentato in tutti i modi. Il nuovo governo jugoslavo, su consiglio di Londra, denunciò immediatamente l'adesione al Patto Tripartito e chiese aiuto a Mosca ma Stalin, ancora all’oscuro della sorte che l’attendeva, nel timore di irritare la Germania rifiutò di impegnarsi preferendo attendere l'evolversi della situazione. Hitler fu profondamente colpito dal voltafaccia di Belgrado che stravolgeva completamente i suoi piani e reagì nell’unico modo che riteneva possibile per non compromettere ulteriormente l’Operazione Barbarossa, ritardata di quattro settimane per risolvere la crisi balcanica. Ordinò quindi allo Stato Maggiore tedesco di predisporre le necessarie operazioni affinché nel più breve tempo possibile si procedesse ad una spedizione punitiva nei confronti della Jugoslavia, da occupare militarmente in funzione di una più rapida soluzione della questione greca. L'operazione contro la Jugoslavia da parte dell'esercito tedesco fu brutale ma efficace: nel giro di qualche giorno la Germania occupò l'intero paese, annientò la resistenza greca e salvò la faccia a Mussolini, con cui effettuerà la spartizione dei Balcani. Operazione sicuramente brillante per la macchina bellica tedesca, che però avrà (col senno del poi) conseguenze catastrofiche: quelle settimane ritardarono l'invasione dell’Unione Sovietica giusto di quel lasso di tempo che avrebbe permesso all’esercito tedesco di arrivare a Mosca prima dell’inverno e sconfiggere definitivamente l'Armata Rossa. Senza la spedizione punitiva in Jugoslavia l’esito della guerra sarebbe stato, forse, molto diverso. A nulla servì il cambiamento di atteggiamento da parte di Stalin quando, il 6 aprile 1941, iniziò l’occupazione della Jugoslavia da parte dei tedeschi. La firma di un trattato di amicizia (non ancora, quindi, di alleanza) in

Page 6: Foibe - l’orrore della vendetta

6

sostituzione del precedente meno impegnativo accordo di neutralità, cui Stalin fece apporre la data del giorno precedente l’inizio delle ostilità per dimostrare alle potenze occidentali la buona fede del governo sovietico, non ebbe effetti sulla sorte della Jugoslavia. L'attacco tedesco iniziò con un massiccio bombardamento sulla capitale jugoslava, che durò due giorni consecutivi e la rase completamente al suolo provocando la morte di oltre 20.000 civili.

Bombardamento di Belgrado

Provenendo da Austria, Romania e Bulgaria l’esercito avanzò molto rapidamente riuscendo ad occupare quasi tutta la Jugoslavia in pochissimi giorni. Con l'esercito Jugoslavo ormai in dissoluzione, anche l'Armata italiana si mostrò pronta a fare la sua parte ed entrò in Montenegro occupando dall'Istria e dall'Albania il litorale della Dalmazia. Anche l’Ungheria non volle sottrarsi al gioco, ed a partire dall’11 aprile iniziò ad occupare la Vojvodina e Novi Sad con la speranza di partecipare fruttuosamente alla imminente spartizione del bottino.

Offensiva tedesca nei Balcani - aprile 1941

Page 7: Foibe - l’orrore della vendetta

7

Il governo del Regno di Jugoslavia firmò la propria resa il 17 aprile e tre giorni dopo anche la Grecia capitolò, offrendo la propria resa nelle mani dei tedeschi rifiutandosi invece formalmente di firmare un armistizio con gli italiani dai quali non si sentivano affatto sconfitti. L’armistizio fu firmato il 23 aprile, ma per l’Italia, anche se ottenne il controllo della maggior parte del territorio (come indicato sulla cartina), si trattò di una vittoria umiliante, se si pensa che Mussolini si era addirittura personalmente raccomandato presso il Furher affinché, per ragioni di immagine, fosse l'Italia per prima ad assicurarsi una vittoria sul campo con le sue truppe provenienti dall’Albania.

La spartizione della Grecia nel 1941

In compenso l'offensiva di aprile nei Balcani fruttò all’Italia, come premio di consolazione, la partecipazione alla spartizione dell’ex regno di Jugoslavia. Con la fine delle ostilità, il paese slavo fu suddiviso tra coloro che lo avevano occupato, riservando a ciascuno pressappoco quei territori di cui avevano avuto maggiormente il controllo durante il conflitto. Il Reich tedesco si annesse formalmente solo la parte settentrionale della Slovenia alle porte dell’Austria ed il Banato, che venne posto sotto la sua amministrazione, mentre in quel che rimase della Serbia, che perse tutti i suoi territori periferici (annessi all'Ungheria, alla Bulgaria ed all'Albania, che faceva parte dell'impero italiano) fu creato uno stato fantoccio tedesco affidato da Hitler al Generale Milan Nedić, una specie di Pétain slavo il cui governo filonazista collaborò pienamente con la Germania sino alla liberazione congiunta della capitale da parte dell'Armata Rossa e dei partigiani jugoslavi nell'ottobre 1944. Gli ungheresi si riservano sostanzialmente i territori in cui erano penetrati con la loro offensiva, riprendendosi anche alcuni territori minori in Croazia persi alla fine della I guerra mondiale.

Page 8: Foibe - l’orrore della vendetta

8

La spartizione della Jugoslavia nel 1941:

Blu = germania - Verde = Itlaia – Rosso = Stato Indip. Croato – Marrone = Ungheria

All'Italia toccò tutto il resto, ovvero buona parte della costa Dalmata, parte del Montenegro, quasi tutta la Slovenia e la Croazia, sotto forma di protettorato. Ma si trattava di un magro bottino, perché di fatto l’effettivo dominio e lo sfruttamento delle risorse economiche andava condiviso coi tedeschi, che riservarono per sé tutte le principali risorse, soprattutto quelle minerarie. Per contro, i costi dell’occupazione militare ricaddero tutti sull’Italia, che fu così costretta a tenere impegnate nella penisola balcanica oltre 650.000 unità, pari a quasi la metà delle intere forze dell’esercito nazionale. La parte meridionale della Slovenia e quasi tutta la parte costiera della Dalmazia settentrionale (con i principali centri urbani, come Zara, Spalato e Sebenico) furono formalmente annesse al Regno d’Italia, diventando rispettivamente Provincia di Lubiana e Governatorato della Dalmazia. La restante parte della Dalmazia fu invece annessa al nuovo Regno di Croazia, uno stato indipendente retto formalmente da un membro di Casa Savoia (Aimone di Aosta, cugino di Vittorio Emanuele III, che accettò il trono ma non ne prese mai possesso) ma di fatto guidato da un governo fantoccio dominato dagli Ustascia di Ante Pavelić, un fascista feroce e sanguinario che finirà col creare molti problemi in tutta la regione posta sotto il controllo italiano. Il partito fascista e razzista croato degli Ustascia, formato da fanatici religiosi e nazionalisti, appoggiati dal vescovo di Zagabria e primate di Croazia Stepinac, intraprese fin da subito una vasta opera di pulizia etnica nei confronti dei Serbi (che costituivano più del 30% dell'intera popolazione del nuovo stato) e delle altre minoranze (ebrei e zingari in particolare), spesso spalleggiati dalle truppe italiane e

Page 9: Foibe - l’orrore della vendetta

9

tedesche. Mentre i musulmani bosniaci venivano considerati da Pavelic di "purissimo sangue croato" e trattati di conseguenza, per i serbi fu varato un complesso piano di eliminazione, che prevedeva il massacro di una parte di essi, la deportazione dei sopravvissuti o la loro forzata conversione al cattolicesimo.

La spartizione della Jugoslavia nel 1941

Le persecuzioni scatenate contro i serbi non soltanto dagli Ustascia, ma anche dagli ungheresi della Vojvodina, dai musulmani nella Bosnia-Erzegovina e dagli albanesi nel Kosovo, unite alla sempre più diffusa repressione da parte dei nuovi occupanti, misero in moto in tutta la ex Jugoslavia dei disperati tentativi di autodifesa che indussero un parte sempre più consistente della popolazione ad organizzarsi in bande armate per opporsi ai loro persecutori. Contro le atrocità commesse dai vari regimi si sollevarono sia la resistenza partigiana plurietnica capeggiata da Tito, sia varie fazioni nazionalistiche e monarchiche serbe (i cetnici). Ma la specificità di queste ultime era troppo marcata perché l’unità d’intenti potesse durare e condurre ad una vittoria comune. Diventato nel 1939 capo del partito comunista jugoslavo (PCJ), Josip Broz, meglio noto come Tito, si pose a capo di un’ampia coalizione in cui, indipendentemente dalla loro nazionalità, serbi e non serbi erano rappresentati su base paritaria e lottavano per un comune obiettivo di liberazione nazionale, seppur spinti da motivazioni molto diverse tra loro. Oltre a coloro che professavano un’ideologia manifestatamene antifascista, Tito riuscì ad attirare a sé gli Sloveni, desiderosi di riunificate il proprio paese frazionato dal Terzo Reich e dall'Italia fascista; i Serbi provenienti dalla Croazia e dalla Bosnia-'Erzegovina, minacciati di sterminio da parte del regime Ustascia; i Croati delle regioni meridionali annesse all’Italia; i musulmani della Bosnia, nonostante le allettanti offerte di collaborazione governative

Page 10: Foibe - l’orrore della vendetta

10

nella speranza di una futura autonomia bosniaca e come immediata protezione nei confronti dei cetnici, di orientamento fortemente antimusulmano; i macedoni, delusi dalla natura del regime bulgaro e attratti dalla promessa formulata da Tito della creazione di una repubblica macedone nell'ambito della federazione jugoslava che sarebbe emersa dal dopoguerra; gli albanesi del Kosovo, che auspicavano di potersi riunire allo stato albanese. Sarà questa grande coalizione a liberare il paese e gettare le fondamenta del futuro stato federale.

Formazioni partigiane guidate da Tito

I cetnici (così venivano chiamati in passato i ribelli ai turchi) fin dall'aprile 1941 erano invece una realtà molto più particolare e non stupisce che alla fine abbiano avuto un destino diametralmente opposto gettandosi a braccia aperte nelle mani dei loro nemici iniziali. In alcune aree serbe e montenegrine, soldati decisi a non accettare passivamente la sconfitta si coalizzarono attorno ad alcuni ufficiali dell'esercito regio sfuggiti alla cattura, formando un movimento di opposizione a sé stante, fortemente motivato dalla fedeltà alla tradizione, alla dinastia ed ai miti della propria storia che si pose sotto la guida del colonnello

Mihailovic e di Kosta Pecanac più per contrastare le ambizioni degli altri jugoslavi che per cacciare l’invasore straniero. Inizialmente il neonato “Esercito Jugoslavo in Patria” (JVUO), fedele al re Pietro II in esilio e pronto a combattere con ogni mezzo l'occupazione tedesca negoziò con Tito la possibilità di unire le proprie forze, ma la profonda differenza di obiettivi dei

due leader non solo fece naufragare qualsiasi possibilità di accordo ma fece nascere una fiera ostilità tra le due formazioni. I Cetnici erano monarchici ed i loro valori erano quello propri della destra conservatrice, incentrati sulla difesa della famiglia e della proprietà privata. La stessa bandiera di cui andavano fieri la dice lunga su quale fosse la loro vera natura: due ossa incrociate ed un teschio su sfondo nero con scritto "per il Re e la Patria

libertà o morte". Lottavano per la restaurazione della monarchia, ma in funzione del loro fanatico nazionalismo panserbo, ovvero per la creazione di una “Grande Serbia” dove non

Page 11: Foibe - l’orrore della vendetta

11

c’era spazio per altri popoli e altre nazioni. Non per nulla trovarono terreno molto fertile in Serbia, dove non esitarono ad allearsi col governo filonazista di Nedic in funzione anticomunista con la scusa di preservarlo da distruttive rappresaglie tedesche contro l’accanita resistenza partigiana. Strategia perfettamente condivisa dalla maggior parte dei serbi residenti in Serbia, i quali ritenevano che una politica temporeggiatrice, basata su un mix di collaborazione e di debole resistenza alle forze di occupazione, fosse più in linea con gli interessi nazionali e preferibile agli incauti tentativi rivoluzionari dei partigiani comunisti, che al contrario avrebbero potuto condurre a massicce rappresaglie da parte delle forze di occupazione ed alla distruzione incontrollata del territorio.

Serbia: manifesto di propaganda filonazista ed anticomunista

C’era poi la convinzione che, come avvenne durante la prima guerra mondiale, la Serbia sarebbe stata liberata dalla vittoriosa avanzata degli Alleati occidentali provenienti dalla Grecia o dalla costa adriatica, ai quali sarebbe andata molto più a genio una politica moderata, seppur collaborazionista, rispetto alla radicalità delle posizioni partigiane titine. Ma si sbagliavano. Dopo le entusiastiche reazioni ed i conseguenti aiuti dei primi tempi, gli alleati finirono col ricredersi sull’opportunità di sostenere un movimento che si dimostrava sempre meno utile, anzi addirittura dannoso, alla conduzione della guerra. Gli interessi inglesi nella regione erano soprattutto di tipo contingente e finalizzati allo scontro militare in corso. L’appoggio andava fornito a chiunque fosse disposto ad uccidere il maggior numero di tedeschi e per questo motivo non esitarono a scaricare i cetnici per fornire tutto l’aiuto possibile all’esercito di liberazione popolare di Tito. Al contrario, per quattro lunghi anni (1941-45) i cetnici, esercitarono il terrore sulla popolazione che aiutava le formazioni partigiane, massacrando migliaia e migliaia di persone, senza contare il vero e proprio genocidio perpetrato nei confronti dei musulmani serbi, croati e montenegrini, al pari, se non peggio, degli Ustascia che tanto si vantavano di combattere. Il 10 gennaio 1943 nel distretto di Prijeoplje furono bruciati 33 villaggi musulmani e uccise circa 1400 persone; il 3 agosto 1943 nel territorio di Ustikolina ne furono trucidati duemila e più di 10000 a Foca e nei dintorni; altri duemila musulmani furono trucidati il 23 ottobre nei dintorni di Prozor.

L'Italia fascista non combatté i cetnici, ma al contrario si alleò con loro sia in funzione antipartigiana che, segretamente, anti-ustascia.

Page 12: Foibe - l’orrore della vendetta

12

1944 Italiani e cetnici in Herzegovina prima di un’azione contro i Partigiani comunisti

Nelle coste dalmate questi ultimi, infatti, costituivano un problema. Il governo croato, seppur legato all’Italia da profondi vincoli militari ed ideologici, non si era fatto scrupoli a rivendicare i territori costieri strappatigli in Dalmazia che divennero, ironia della sorte, rifugio per le popolazioni dell'entroterra che fuggivano dalle persecuzioni e dalle atrocità commesse degli Ustascia. Gli scontri ed i massacri tra croati, serbi e mussulmani gettarono sin dalla fine del 1941 tutta la Dalmazia in una spaventosa e crudele guerra civile, che raggiunse livelli di massacro nell'estate 1942 creando non poche tensioni con le forze d'occupazione italiane, che non tolleravano intrusioni nei territori da loro direttamente amministrati. Nelle regioni meridionali sotto il controllo delle truppe italiane, verso il Montenegro, molti serbo-croati in fuga dal regime di Pavelic e nello stesso tempo ostili ai progetti comunisti di Tito avevano infoltito le schiere delle milizie cetniche che le autorità italiane non esitarono ad usare sia per contrastare la guerriglia partigiana che per tenere il più possibile gli Ustascia lontani dai territori italiani. Incorporati sin dal 1942 nella Milizia volontaria anticomunista (MVAC), i cetnici divennero una non indifferente componente aggiuntiva della forza repressiva fascista nei Balcani.

L’inaudita ferocia dei cetnici su partigiani comunisti

In tutti i territori jugoslavi la presenza militare italiana fu, a partire dal 1941, quella di truppe di occupazione, con una repressione sempre più dura e feroce, rappresaglie sulla

Page 13: Foibe - l’orrore della vendetta

13

popolazione civile, deportazioni e fucilazioni. Le province annesse subirono una brutale opera di italianizzazione forzata unita alla violenta propaganda razzista delle bande armate fasciste che usavano lo squadrismo per intimorire la popolazione e favorire l'esodo degli indesiderati. Non sempre la ferocia degli italiani è distinguibile da quella dei tedeschi, con cui in parte condividevano l’occupazione del territorio.

Partigiani jugoslavi uccisi dai soldati italiani

Alla responsabilità diretta delle truppe di occupazione italiana sono da attribuirsi almeno 250 mila morti, di cui solo una minima parte in combattimento. La stragrande maggioranza delle vittime riguarda repressioni, saccheggi e brutalità di ogni genere commesse nei confronti della popolazione civile, azioni in cui la II Armata Italiana al comando del generale

Roatta si distinse in modo particolare soprattutto nella Jugoslavia meridionale, dove si aprì una vera e propria caccia al serbo. Spedizioni italo-croate partivano alla volta dei villaggi e delle cittadine serbe, dove, in un’orgia di violenze di ogni tipo, centinaia di uomini, donne e bambini venivano torturati e uccisi. Sono oltre 250 i villaggi distrutti dagli italiani, nei quali

mutilazioni, stupri ed accecamenti erano all’ordine del giorno e non rari erano i casi in cui gli indifesi abitanti venivano bruciati vivi assieme ai partigiani su roghi di fascine o all’interno delle chiese ortodosse. Sebbene fosse nelle coste e sulle isole annesse che si concentrò maggiormente la repressione della II armata, non diversa fu la sorte che toccò alla Slovenia dove più massicce furono invece le deportazioni della “inferiore razza serba” verso la vicina Risiera di San Sabba o direttamente verso i campi di sterminio nazisti. Gli stessi campi di concentramento costruiti dagli occupanti italiani, seppur non predisposti scientificamente allo sterminio, furono causa di migliaia di morti e di infinite sofferenze. Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, Rab in

Jugoslavia, così come Gonars e Monigo in Italia furono solo alcuni dei campi dove vennero internati quasi 30.000 sloveni e croati. In un incontro avvenuto a Gorizia il 31 luglio 1942

Page 14: Foibe - l’orrore della vendetta

14

gli alti comandi militari discutono con Mussolini il trasferimento forzato di tutti gli abitanti di Lubiana ed in una lettera spedita al Comando supremo in data 8 settembre 1942 il generale Roatta propone addirittura la deportazione in massa dell’intera popolazione slovena. Solo per quel che riguarda la piccola Slovenia, nei lager italiani morirono 13.606 persone, di cui oltre 2500 nel solo lager di Arbe (sull’isola di Rab).

Campo di concentramento di Arbe

Nel campo di Gonas, vicino a Udine, sono migliaia i bambini, soprattutto croati, lasciati morire letteralmente di fame. I civili ed i partigiani fucilati sul posto durante azioni belliche furono più di 2500, cui se ne devono aggiungere altri 1.500 trattenuti come ostaggi e fucilati in seguito come ritorsione contro azioni verso i militari italiani. Chiunque si addentri nel cuore montano dell’Istria non potrà non imbattersi nel piccolo villaggio di Vodice (in italiano Vodizza, situato in linea d’aria a non più di 20 km dal confine friulano) che si presenta ancor oggi con macerie e abitazioni distrutte. Una lapide sul palazzo principale ricorda come nel 1944 il paese fu prima attaccato dalle camice nere e dall’esercito repubblichino (che massacrarono più di 400 vecchi, donne e bambini) e, subito dopo, raso completamente al suolo dall’aviazione tedesca, che, con un’operazione combinata, si fece scrupolo di bombardare anche i dintorni per annientare gli eventuali scampati alla strage. L’unica colpa di questa inerme popolazione era di essere di etnia cicik, ovvero istriani non latini.

Le rappresaglie dei soldati italiani sui civili

Page 15: Foibe - l’orrore della vendetta

15

Dopo l’otto settembre, alla ritirata elle truppe regie, subentrano i tedeschi e i repubblichini di Salò. La parte italiana della Dalmazia, ad eccezione di Zara dove il Governatorato di Dalmazia rimase vigente fino all'occupazione partigiana della città nel 1944, fu occupata dall’esercito tedesco ed annessa allo Stato Indipendente di Croazia, che con grande soddisfazione vide così riunificato il suo territorio. Le “terre irredente” furono precipitosamente abbandonate: le autorità civili, composte in gran parte da ferventi fascisti, quasi tutti meridionali, fuggirono verso le loro città natali lasciando quelle terre, che evidentemente non avevano mai sentito come loro, nella più totale anarchia. Le autorità militari consegnarono alle poche centinaia di tedeschi presenti non solo l’intera regione, ma anche migliaia di soldati e carabinieri, che furono in gran parte uccisi o deportati in Germania. Crollato il regime fascista, nella Venezia Giulia e nella Slovenia i partigiani slavi, ai quali nel frattempo si erano uniti anche migliaia di soldati italiani sbandati, intensificano le loro azioni ed assieme alla popolazione, com’era logico aspettarsi dopo decenni di repressione e violenze, insorgono contro tutto ciò che poteva essere riconducibile al fascismo, identificato purtroppo molto semplicisticamente con tutto ciò che era italiano. Sebbene il leader del partito comunista sloveno, Kardelj, avesse dato precise disposizioni affinché l’epurazione avvenisse non sulla base della nazionalità ma sulla base dell’adesione o meno al fascismo, inevitabilmente furono gli italiani a patire le peggiori persecuzioni, anche perché per forza di cose i posti del potere economico e politico erano tutti in mano italiana. Nel caos generale di quei mesi furono oltre 300 gli italiani giustiziati ed infoibati dai partigiani o dal popolo in rivolta, ma è impossibile determinare il loro numero con certezza. Rapporti ufficiali parlano di 355 salme esumate, molte delle qual non riconosciute (e quindi non attribuibili con certezza a vittime italiane), ma la conta dei dispersi risulterebbe molto più alta, almeno stando alle segnalazioni della popolazione locale. Certo è che subito dopo l’occupazione dell’Istria da parte delle truppe germaniche furono iniziate le ricerche per recuperare i cadaveri, prontamente usati come strumento di propaganda antislava ed antipartigiana dai nuovi occupanti. Le macabre immagini dei ritrovamenti vennero diffuse e pubblicizzate tra la popolazione italiana di confine per alimentare timori ed insicurezze che facilitassero l’accettazione del nuovo regime se non come la miglior soluzione almeno come il male minore di fronte alla barbaria proveniente dall’est.

Foibe alcune immagini dei ritrovamenti del 1943

Ed effettivamente buona parte della comunità italiana della Venezia Giulia aveva una certa predisposizione ad assimilare in modo efficace tale propaganda. Per molta gente, nata e cresciuta imbevendosi dell’antislavismo fomentato da un particolare fascismo nazionalista di confine, l’esperienza vissuta nei mesi di settembre ed ottobre del 1943

Page 16: Foibe - l’orrore della vendetta

16

suonava come il preludio di una possibile definitiva opera di slavizzazione del territorio contro la quale l’occupazione tedesca rappresentava concretamente una valida garanzia in funzione antislava. Seppur consapevoli che tale occupazione avrebbe comportato una completa assimilazione in vista di una programmata annessione allo stato tedesco, con un conseguente ridimensionamento della propria identità nazionale, era convinzione diffusa che ciò costituisse davvero il male minore perché in fondo, soprattutto per più abbienti, meglio essere tedeschi che slavi. In città come Trieste e Gorizia, così come in generale nell’Istria, le truppe tedesche sono viste quasi come liberatrici dal pericolo slavo e dal terrore comunista. In particolare, a Trieste sono i ceti alto borghesi delle dinastie industriali e finanziarie dell’ex impero austro ungarico a dimostrarsi particolarmente sensibili verso una progressiva germanizzazione, fiduciose che ciò avrebbe comportato un sicuro rilancio economico dopo la delusione della politica fascista degli ultimi vent’anni. E certo non persero tempo a stringere alleanze ed accordi più o meno occulti con i nuovi padroni, come dimostreranno poi le lucrose amicizie con i massimi vertici nazisti della costituenda amministrazione del “Litorale Adriatico”.

Foibe altre immagini dei ritrovamenti del 1943

E’ da ritenersi perlomeno disgustoso che le stesse raccapriccianti immagini diffuse nel 1943 siano ancora oggi ampiamente usate per gli stessi scopi propagandistici in molte pubblicazioni sia locali che nazionali, rimescolando la storia del 1943 con quella del 1945 al solo fine di suscitare maggior disgusto nell’ignaro lettore e quindi, con molta probabilità, maggior predisposizione ad accettare verità di parte sfruttabili politicamente. Ciò che invece non viene mai ricordato è che contestualmente alla violenta reazione di quei giorni verso tutto ciò che sembrava ricordare il passato, la stessa popolazione che si dimostrò capace delle più sanguinarie vendette in altri casi aiutò e protesse centinaia di soldati italiani allo sbando, salvandoli da una sicura deportazione nei lager tedeschi. Molto probabilmente il risentimento nazionale era più diffusamente indirizzato verso i carabinieri, i gerarchi, le camicie nere ed i funzionari dell’amministrazione pubblica che non verso i militari dell’esercito regolare, trasformatisi improvvisamente in vittime al pari della popolazione locale con cui finì per condividerne le sorti. Molti di loro si unirono ai partigiani, altri si mimetizzarono in mezzo alla popolazione, alcuni riuscirono a tornare in patria dalle proprie famiglie, ma la maggior parte fu catturata dai tedeschi e deportata nei campi di lavoro in Germania.

La riscossa popolare non fu altro, però, che una breve parentesi: nel giro di poche settimane l’esercito tedesco assunse il completo controllo di tutto il territorio sostituendosi con molta più ferocia ai precedenti invasori. Per molti mesi la popolazione jugoslava fu

Page 17: Foibe - l’orrore della vendetta

17

costretta a subire, grazie anche al volontario contributo di molti irriducibili fascisti, sofferenze ancora più grandi di quelle sino ad allora patite. La preoccupazione di mantenere sotto stretto controllo quel corridoio tra l’Italia ed il fronte balcanico temporaneamente caduto in mano ai resistenti jugoslavi dopo la dissoluzione delle truppe di occupazione italiane, indusse , i tedeschi ad adottare una politica di feroce repressione senza mezzi termini. L’Istria e le terre di confine andavano definitivamente bonificate dalla presenza partigiana e per raggiungere lo scopo si applicò il “Bandenkampf in der Operationzone Adriatisches Küstenland” una variante locale della direttiva emanata da Hitler il 18 agosto 1942 per la lotta contro le bande nel territori orientali dopo l'invasione dell'Unione Sovietica. Un vero e proprio prontuario per le truppe tedesche sulle tecniche d'applicazione della guerra di sterminio secondo il quale i rastrellamenti, le distruzioni dei paesi e le rappresaglie sulla popolazione civile non sono che il primo livello di un efficiente sistema di terrore di cui l'apparato di polizia ed i luoghi di detenzione e tortura costituiscono le principali istituzioni permanenti. Tutta l'Istria venne letteralmente messa a ferro e fuoco: nei soli primi due mesi, tra l'ottobre ed il novembre 1943, si parla di oltre 2000 partigiani eliminati e più di 5000 persone inermi uccise o arrestate per essere con molta probabilità avviate verso i campi di sterminio.

Fucilazione di civili da parte dei tedeschi

Il destino dei prigionieri politici jugoslavi nei lager nazisti

Un altro terribile incubo si prospettava inoltre all’orizzonte: quello dei bombardamenti alleati sulle città occupate dai nazisti, che da soli faranno in due anni, a partire dal 1944, migliaia di vittime innocenti.

Page 18: Foibe - l’orrore della vendetta

18

I fatti Con il crollo della Germania le formazioni jugoslave si gettarono in una corsa contro il tempo verso le coste adriatiche per impedire agli anglo-americani di prendere il controllo di quelle terre di cui rivendicavano il possesso. Il 30 aprile del 1945 il CLN (di cui non faceva parte il PCI per contrasti con gli altri partiti sull'atteggiamento da tenere verso i partigiani slavi) proclamò l'insurrezione e riuscì a impadronirsi di molti importanti edifici pubblici. Ma non a liberare definitivamente la città, dove ancora resistevano alcune postazioni fortificate tedesche che preferirono arrendersi alle truppe anglo-americane arrivate il giorno successivo quando ormai i partigiani di Tito, molto più numerosi di quelli italiani, si erano già impadroniti della città, iniziando senza perdere tempo la caccia a tutti coloro che potevano essere accusati di collaborazionismo. Per circa quaranta giorni tennero sotto controllo tutta la fascia adriatica scatenando una violenta epurazione per creare uno stato di fatto che spianasse la strada all’annessione. Tutti coloro che potevano essere considerati per un motivo o per l’altro ostili al progetto vennero arrestati, deportati o addirittura uccisi. Le stesse giunte partigiane del CNL formatesi nelle varie città dopo la liberazione furono disarmate, destituite ed in certi casi arrestate. Per chi è messo in condizione di vendicarsi per la politica antislava del fascismo e per le repressioni subite durante l'occupazione italo-tedesca in Jugoslavia non è facile distinguere chi veramente sia colpevole e chi no. Chiunque indossasse una divisa, sia esso carabiniere, finanziere o miliziano, è necessariamente considerato parte del sistema e quindi da condannare. Nelle altre zone occupate dell’Istria e della Dalmazia la distinzione è ancora più sottile e la complicità di collaborazionismo può essere facilmente estesa a tutta l’etnia italiana presente sul territorio. Odio razziale e odio politico si fondono in un’unica sete di vendetta, che come conseguenza porterà oltre 150 mila italiani (su un totale di 187 mila) ad abbandonare l'Istria e la Venezia Giulia (da Pola se ne andò praticamente quasi tutta la popolazione) e circa un migliaio ad essere uccisi e gettati, spesso dopo umiliazioni e tormenti, nelle foibe carsiche. In quei giorni si vive un clima di autentico terrore, ma non ha senso paragonarlo con quello precedente appena lasciato alle spalle. Diverso è il contesto, diverse le motivazioni e soprattutto diversi sono i numeri. Ma pur sempre di terrore si tratta e chi l’ha vissuto sulla propria pelle non è certo disposto a declassarlo a fenomeno marginale. Un terrore che ha coinvolto un po’ tutti. A Fiume, ad esempio, i primi ad essere eliminati furono i fautori dello Stato Libero, cioè coloro che negli anni a cavallo tra il 1919 e il 1925 si erano opposti alla annessione italiana. A Gorizia, al contrario, furono soprattutto i partigiani italiani non comunisti ad essere additati come pericolosi concorrenti da neutralizzare, e come tali furono quasi tutti fatti prigionieri. E’ però nella cruciale Trieste che si raggiunse l’apice della violenza. In città operavano l’esercito popolare jugoslavo, l’Ozna (la polizia segreta jugoslava) e numerose bande irregolari croate, serbe e slovene, ciascuno come una scheggia impazzita che procedeva per proprio conto ad arresti, confische, torture e soprattutto uccisioni sommarie. Nel mirino finivano soprattutto gli ustascia, i cetnici, i collaboratori, le spie, i delatori, i corrieri e tutti quelli che si riteneva appartenessero a formazioni armate al servizio del nemico. Ma non solo. Una completa violenta anarchia che sfuggì immediatamente di mano alle autorità militari e politiche jugoslave, costrette sin dal 6 maggio ad ammettere che “ci sono stati troppi arresti e fucilazioni arbitrarie” e che ”bisognava riprendere rapidamente il controllo della situazione poiché tali errori avrebbero potuto compromettere seriamente l’allargamento

Page 19: Foibe - l’orrore della vendetta

19

della federazione a questi territori, la cui ostilità si sarebbe prestata a equivoche interpretazioni nella imminente conferenza internazionale di pace che doveva definire i nuovi confini della sconfitta Italia”. Nonostante le preoccupazioni, le esecuzioni si susseguirono ad un ritmo impressionante ed i cadaveri ammucchiati in fosse comuni o gettati nelle foibe. Chi non cadde fucilato sul posto nella generale mattanza del momento fu avviato verso inumani campi di prigionia (come quello di Borovnica, alle porte di Lubiana), dove ad attenderli c’erano fame, fatica e maltrattamenti che in molti casi furono il preludio per una fine solo ritardata ma scontata. Pochi di loro, infatti, fecero ritorno.

Trieste maggio 1945: deportazione di finanzieri e arresto di civili

Furono però le foibe le protagoniste indiscusse del terrore titino. Per le popolazioni dell’entroterra giuliano, la foiba costituiva una specie di discarica naturale, il luogo dove si era soliti buttare ciò che non serviva più e di cui era difficile liberarsi altrimenti.

Schema di una foiba Ubicazione principali foibe giuliane

Scaraventare un uomo in una foiba era quindi qualcosa di più che celarne i resti in un luogo praticamente inaccessibile, significava, nella mentalità corrente, trattare quel uomo alla stregua di un rifiuto. Tali erano considerati, infatti, i nemici dei nuovi persecutori. Molte testimonianze hanno purtroppo confermato le voci secondo cui anche persone

Page 20: Foibe - l’orrore della vendetta

20

ancora vive sarebbero state infoibate legate ai cadaveri, seguendo quella che era diventata una prassi abbastanza comune: legare tra loro i malcapitati posti sull’orlo della foiba uccidendo i primi in modo tale che, cadendo, trascinassero anche gli altri. I racconti e le testimonianze dei pochi miracolosamente sopravvissuti, probabilmente proprio perché infoibati ancora vivi, sono a dir poco raccapriccianti. Servano però da monito per l’umanità e non per scatenare nuovo odio e nuovi rancori facendo degli infoibati dei martiri di parte. Le dimensioni di una tragedia, inoltre, non si dovrebbero mai misurare solo con il numero delle vittime, perché l’indegno balletto di cifre che si scatena a fini propagandistici per confrontarli con i morti degli altri quasi sempre distoglie l’attenzione dall’essenza del problema. Accanto alla destra che per anni ha sbandierato esorbitanti cifre di alcune decine di migliaia di vittime, ci sono le centinaia sfoggiate dalla controparte per minimizzare la tragedia. La realtà è che non si sa né si saprà mai quante siano state le vittime degli infoibamenti, anche perché, salvo rare occasioni, non si è mai riusciti a riesumarne i cadaveri. Sinora sono stati solo cinquecentosettanta i casi accertati, ma tale cifra non può e non deve essere usata come pretesto di scontri politici buoni solo a falsificare la storia. Nulla giustifica i bilanci di fantasia stilati a puro scopo di propaganda perché si sa, le cifre sono sempre di forte impatto. Né ha senso contare i morti degli altri per fare paragoni. Ma un chiarimento è doveroso per chi tende ad esasperare gli animi insistendo nel mettere il dito nella piaga di questa ferita amplificandone, a volte a dismisura, la gravità. Cinquecento o cinquemila, epurati oppure “meritatamente” giustiziati, questi morti vanno considerati purtroppo per quello che in realtà sono, cioè l’ultimo capitolo di una tragedia collettiva le cui proporzioni non trovano eguali nella storia dell’umanità. Non ha alcun senso speculare sul loro numero, se si pensa che, anche nella peggiore delle ipotesi, tele numero non si avvicina neppure lontanamente ai caduti civili dei bombardamenti di pochi mesi prima. Qualcuno si ostina a definirle vittime del comunismo, come se le vittime, chiunque esse siano, debbano per forza avere un colore. Al dolore di chi ha dovuto piangere quelle vittime, cosa avrebbero dovuto raccontare le migliaia e migliaia di famiglie che pochi giorni prima hanno dovuto piangere i loro cari caduti innocentemente sotto i colpi dei bombardamenti anglo-americani, vittime di una morte letteralmente “piovuta dal cielo”? Dovrebbero forse chiamare i loro cari “vittime del capitalismo” solo perché a sganciare le bombe sono state le potenze occidentali e non gli aerei russi? La stragrande maggioranza delle perdite italiane durante la seconda guerra mondiale deriva da quei bombardamenti, come i 20 mila morti (documentati) di una piccola città come Foggia o di Isernia, che perse un terzo dei suoi abitanti sotto gli attacchi aerei. Oppure della stessa Triste, dove da solo il bombardamento del 10 giugno 1944 (effettuato come rappresaglia per l’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia) fece più di 400 morti e migliaia di feriti. O della piccola Zara, l’ultimo baluardo fascista a restare in mano italiana dopo la disfatta dell’8 settembre, che subì ben 54 bombardamenti con oltre 4.000 caduti su 38 mila abitanti. Per i professionisti della cantilena anticomunista, questi corpi dilaniati, straziati e bruciati dagli ordigni caduti dal cielo non contano, come non contano tutte le vittime jugoslave delle atrocità perpetrate dagli occupanti italiani e tedeschi sino a poco prima. Sono vittime di un nemico che non esiste più, che devono cedere il passo ai nuovi martiri di un nuovo nemico che si accinge a distruggere la civiltà occidentale e con essa ogni possibilità di benessere futuro. Per contro, in Italia nessun generale, nessun comandante di armata, nessun ufficiale che si fosse macchiato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Jugoslavia fu mai processato o anche solo destituito. Gerarchi, federali, comandanti fascisti non solo evitarono punizioni ed

Page 21: Foibe - l’orrore della vendetta

21

epurazioni, ma furono lasciati ai più alti gradi di comando. Mentre nel resto dell’Europa altri paesi subivano mutamenti territoriali tali da provocare trasferimenti forzati di milioni di persone (come gli otto milioni di tedeschi che dovettero abbandonare la Prussia, dove vivevano da generazioni), in Italia ci si scandalizzava per le clausole del trattato di pace di Parigi, presentato come un affronto alla Patria, dimenticando non solo di essere uno dei paesi che hanno perso e non vinto la guerra ma anche uno dei paesi maggiormente responsabili di averla provocata ed alimentata. Nessuno vuole negare né disconoscere il dramma dei 250 mila profughi istriani e dalmati che dovettero abbandonare le loro terre in conseguenza della revisione dei confini orientali dell’Italia, ma attribuirne le responsabilità solo alla ferocia persecutrice delle armate comuniste è decisamente un po’ troppo semplicistico. Prima ancora di essere comunisti, i nuovi padroni di casa erano slavi, desiderosi di riappropriatisi di terre che consideravano loro e che in effetti geograficamente poco o niente avevano in comune col resto della penisola italiana, trovandosi esattamente sul lato opposto del mare da cui sono naturalmente separate. Eppure ancora oggi c’è chi rivendica le terre dalmate e istriane perdute come antica culla di italianità sin dal tempo dei romani, come se bastasse aver conquistato un territorio in tempi remoti per fare di diritto patrimonio nazionale. E’ come se i greci rivendicassero diritti sulle nostre coste adriatiche e ioniche per il solo fatto di averle colonizzare 2000 anni fa.

Il 10 febbraio del 1947 l’Italia ratifica il

trattato di pace e la fascia costiera dell’Istria (Capodistria, Pirano, Umago e Cittanova ) passa sotto amministrazione jugoslava (zona B); il resto dell’Istria, Fiume e Zara passano in maniera definitiva sotto sovranità jugoslava. La fascia costiera da Monfalcone a

Muggia va sotto amministrazione alleata (zona A) mentre Gorizia e il resto della Venezia Giulia tornano sotto la sovranità italiana.

5 ottobre 1954 con il "Memorandum

d'intesa” la parte amministrata dagli Alleati (la

cosiddetta zona A) viene restituita all'amministrazione dell'Italia. E’ l'atto che permetterà, il 26 ottobre dello stesso anno, il ritorno definitivo di Trieste alla madrepatria.

Il 10 novembre 1975 con il trattato di

Osimo, nelle Marche, il’allora Ministro degli Esteri

Rumor firmò la cessione in via definitiva della zona B

alla Jugoslavia.

I confini politici, si sa, non sempre seguono logiche strettamente geografiche per dividere popoli e nazioni. Mentre per le terre giuliane diventa piuttosto difficile stabilire cosa debba stare da una parte e cosa dall’altra, per le coste istriane e dalmate ed il relativo entroterra non vi sono dubbi che geograficamente costituiscano parte integrante della penisola balcanica e non di quella italiana. Il sogno panslavista di Tito per una grande Jugoslavia non poteva che realizzarsi a spese di quella che era l’unica minoranza etnica non contemplata nel progetto in quanto estranea e, non dimentichiamolo, sino a poco prima anche ostile. Non bisogna quindi scandalizzarsi troppo se un radicato odio razziale prima

Page 22: Foibe - l’orrore della vendetta

22

ancora che politico ha prodotto nuove violenze in aggiunta a quelle della guerra appena conclusa. Odio e violenze che la nuova Italia liberata non ha mai cercato di fermare ed ha, al contrario, continuato ad alimentare. Ignorando deliberatamente, ad esempio, la lista dei criminali di guerra fascisti presentata dalle autorità jugoslave a quelle italiane, le cui richieste di estradizione furono respinte. O addirittura aiutando i peggiori criminali jugoslavi a mettersi in salvo, trovando in Italia protezione ed aiuti per la fuga in Sud America (come Ante Pavelic, il più sadico dei dittatori d’Europa, rifugiatosi in Vaticano per poi imbarcarsi verso l’Argentina assieme a molti gerarchi nazisti). La lista completa dei nomi è disponibile presso gli archivi ufficiali di molti paesi e mostra chiaramente come nessuno di loro abbia mai risposto delle

proprie azioni di fronte alla giustizia. Anzi, in molti casi ha potuto addirittura continuare per anni ad occupare i vertici dei posti di comando sia civili che militari. Il Gen. Mario Robotti comandante dell’XI corpo d’armata, il grande deportatore di Lubiana che sintetizzò gli ordini del suo superiore (il Gen Roatta) nella frase diventata proverbiale «qui si ammazza troppo poco», è stato congedato e letteralmente dimenticato sino alla sua morte, avvenuta nel 1955. Il Gen. Gastone Gambara, comandante a Lubiana e della piazza di Fiume (succeduto a Robotti nel frattempo promosso Comandante Generale per la Slovenia-Dalmazia), da

convinto fascista fu un degno successore del suo predecessore, tanto da riuscire a dire, in merito alle miserevoli condizioni degli internati, che “campo di concentramento non significa campo d'ingrassamento” formulando l’equazione “individuo malato uguale individuo che sta tranquillo”. Fedele al fascismo sino all’ultimo, aderì incondizionatamente alla Repubblica di Salò dove ricoprì l’incarico di Capo di Stato Maggiore. Il Gen. Taddeo

Orlando, comandante della 21 Divisione Granatieri di Sardegna alle dirette dipendenze di Robotti e Gambara, è diventato dopo l’armistizio sottosegretario nel governo Badoglio e nel dopoguerra comandante dell’Arma dei Carabinieri. L’unico a finire nelle mani della giustizia fu il Gen. Mario Roatta, comandante della II Armata in Croazia, processato e condannato non

per crimini di guerra ma per l’assassinio dei fratelli Rosselli. Evaso il 4 maggio 1945 con la complicità dei carabinieri (al cui comando in quel periodo si trovava, guarda caso, il Gen. Taddeo Orlando) si rifugiò in Vaticano per partire poi con la moglie verso la Spagna franchista, da dove ritornerà, amnistiato, nel 1966. Mentre in Germania si celebravano i processi di Norimberga (a quello principale contro i massimi

responsabili nazisti ne seguirono negli anni successivi molti altri contro responsabili minori), in Italia le responsabilità della guerra e delle sue atrocità vennero per anni ignorate e nascoste, se non addirittura negate. Solo recentemente, con la scoperta del famoso “armadio della vergogna“, sono saltate fuori e rese pubbliche le prove di decine e

Page 23: Foibe - l’orrore della vendetta

23

decine di massacri compiuti nell’Italia centro-settentrionale da tedeschi e repubblichini. E solo recentemente sono diventati di dominio pubblico anche i crimini fascisti compiuti in Jugoslavia durante gli anni di occupazione.

Le rappresaglie dei soldati italiani sui civili

Si contesta molto frequentemente il fatto che tutti, fin dall'immediato dopoguerra, sapevano che qualche migliaio di italiani era finito nelle foibe del Carso durante i quaranta giorni dell'occupazione jugoslava di Trieste e dintorni. Sapevano, ma hanno taciuto per anni. Ciò che non viene quasi mai contestato è che gli stessi sapevano anche dei massacri precedenti, quelli fatti dagli italiani in camicia nera contro le popolazione slave di Istria e Slovenia. Anche su questi hanno taciuto, lasciando che ognuno si creasse una propria verità ritrovando memoria e sdegno solo per le vittime del comunismo, ignorando tutte le vittime slave che rimangono sepolte sotto una pietra di silenzi,omissioni e falsità. La storia della pulizia etnica italiana che precede quella slava è una storia rimossa, che riemerge a fatica dalle pieghe della memoria. Dopo più di 60 anni molti non riescono ancora ad accettare l’idea che un popolo civile come si vanta di essere quello italiano abbia potuto, tra il 1942 e il 1943, internare e ridurre in schiavitù sino alla morte migliaia di persone al solo fine di ripopolare le regioni conquistate con abitanti italiani in sostituzione della popolazione locale, riparandosi dietro l’alibi che in fondo si trattava solo di operazioni di guerra e la guerra, si sa, è crudele. Eppure è esattamente quanto è successo e pertanto non c’è da stupirsi se, alla prima occasione, quelle popolazioni prima umiliate poi massacrate abbiano ripagato le loro sofferenze con la stessa moneta. Un’attenuante più che comprensibile, ma non una giustificazione perché lo spargimento di sangue non è mai giustificabile, in nessun caso. Non ci può essere assoluzione per i carnefici, solo comprensione. L’attenuante storica non basta però da sola a spiegare le atrocità commesse dopo la liberazione, perché, per quanto la sete di vendetta possa aver animato la mano di quei carnefici, rimane comunque il dato di fatto che all’epoca era in atto un indiscutibile tentativo espansionista jugoslavo ai danni dell’Italia che escludeva ogni possibilità di opposizione. Una prospettiva che metteva d’accordo tutte le anime della Jugoslavia di allora: non solo l’esercito di liberazione di Tito ma anche il governo filonazista degli Ustascia (che per conto suo già aveva proclamato subito dopo l’8 settembre l’annessione di Fiume e dell’Istria allo stato indipendente della Croazia), il governo monarchico jugoslavo in esilio a Londra e l’OF, il fronte di liberazione sloveno che ambiva ad una Slovenia indipendente (seppur federata al resto della Jugoslavia) che includesse sia i territori austriaci che quelli italiani, sino all’Isonzo. Ricostruire la memoria facendo perno solo su queste istanze sarebbe però un’operazione sterile, poiché anche la componente

Page 24: Foibe - l’orrore della vendetta

24

nazionalista, da sola, non basta a spiegare l’accaduto Che piaccia o no, la componente ideologica è fondamentale per interpretare complessivamente il fenomeno. I territori contesi oltre che slavi dovevano diventare socialisti e, come lo stesso Lenin insegna, non esiste rivoluzione comunista (come qualsiasi altra rivoluzione) senza un minimo di terrore iniziale che elimini progressivamente ogni manifesta forma di dissenso verso il nuovo ordine. Un movente che più di tutti gli altri si è prestato ad ogni sorta di manipolazione. Un movente innegabile, condizione forse necessaria ma certo non sufficiente a scatenare una simile catena di atrocità. Ciò che più offende la verità storica è che tutti, indistintamente, hanno cercato di riesumare quelle vicende enfatizzando una o l’altra componente interpretativa per pura opportunità politica. La sinistra stessa, in preda ad un eccesso vittimismo, sembra essersi indirizzata verso un revisionismo mascherato da autocritica che non solo non rimedia alle lacune informative che si sono create nel tempo, ma insiste nell’offrire risposte che non devono e non possono essere solo ideologiche. Il grande sciopero generale proclamato nel 1947 dal sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio contro il trattato di pace che assegnava gran parte dei territori contesi alla Jugoslavia non può certo essere definito un atto di complicità della sinistra e di sottomissione alla volontà titina o di Mosca. In fondo quelle terre “fortunate” sarebbero entrate a far parte del “grande mondo del socialismo reale”, c’era da gioirne, non da protestare. Ma gran parte della sinistra invece protestò ed insistendo nell’addossarsi colpe che le competono solo in parte, la sinistra di oggi non contribuisce certo a far luce su quella triste pagina della storia italiana. Se veramente si vuole rendere omaggio a quei caduti e rispettare la loro memoria, non vi è altra strada che imparare ad attribuire pari dignità a tutte le componenti corresponsabili dell’accaduto, guardando alla realtà dei fatti nella loro interezza senza voler ad ogni costo attribuire maggior peso ad una spiegazione piuttosto che ad un’altra. In caso contrario qualsiasi ricorrenza o giorno della memoria sarà solo un insulto all’intelligenza umana.

Giorno della memoria: le disgrazie altrui al servizio della propaganda politica

Page 25: Foibe - l’orrore della vendetta

25

Percorrendo la strada che da Basovizza conduce a S. Lorenzo, si intravede sulla destra un’area recintata piuttosto curata che invita a fermarsi. Nessuno si accorgerebbe si essere in prossimità di una foiba se non leggesse i cartelli, perché effettivamente di quella che tutti immaginano essere una cavità naturale del terreno rimane ben poco. Niente in quel giardino ben curato sembra tradire l’evidenza se non numerose lapidi commemorative ed uno strano gigantesco monumento. Una specie di enorme carrucola posta ad indicare che in quel punto, sotto la grande piattaforma di acciaio che ne ricopre l’apertura, si trovava una tra le più grandi foibe carsiche usate come tomba per centinaia di persone uccise durante e dopo la seconda guerra mondiale.

Monumento e copertura della foiba di Basovizza

Contrariamente a tutte le altre, quella di Basovizza non è però un’apertura naturale del terreno creata da fenomeni di carsismo, ma un pozzo artificiale scavato all’inizio del ‘900 per lo sfruttamento della lignite picea e presto abbandonato per improduttività. Una

Page 26: Foibe - l’orrore della vendetta

26

voragine di oltre 300 metri di profondità in cui per anni si sono accumulati detriti di ogni tipo prima di diventare tristemente famosa come fossa comune per centinaia di salme. Un documento allegato a un dossier sul comportamento delle truppe jugoslave nella Venezia Giulia presentato dalla delegazione italiana alla conferenza di pace di Parigi del 1947 descrive molto dettagliatamente come nel maggio del 1945 quel vecchio pozzo divenne un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili, da parte dei partigiani di Tito. Condotte sul posto con appositi autocarri dopo essere stati prelevati nelle loro case di Trieste, le persone incriminate, legate tra loro a catena col filo di ferro con le mani dietro la schiena, venivano sospinte a gruppi verso l'orlo dell’abisso dove una scarica di mitra li faceva precipitare. Sul fondo, dopo un volo di 200 metri, chi non trovava subito la morte continuava ad agonizzare tra gli spasmi per le ferite e le lacerazioni riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia. Alcune di quelle salme sono state recuperate, ma le difficoltà del recupero e la convenienza a lasciare spazio alla libera immaginazione sulla quantificazione delle vittime hanno indotto le autorità a chiudere la foiba considerandola la tomba definitiva per tutti i corpi rimasti. Nessuno sa certezza quanti corpi vi siano sepolti, ma c’è chi ha azzardato un calcolo: considerando la profondità del pozzo prima e dopo la strage, si è giunti a stabilire approssimativamente una differenza di una trentina di metri corrispondente ad uno spazio volumetrico di circa 500 metri cubi (poi ridotti a 300) che consentirebbe di contenere oltre 2000 salme di infoibati.

Schema della foiba usato per il calcolo degli infoibati

Il problema è che in quella enorme voragine assieme ai cadaveri è finito di tutto. Dopo la battaglia di Basovizza del 30 aprile 1945 la gente del posto vi gettò dentro i corpi dei militari tedeschi caduti, le carcasse dei cavalli morti durante i raid aerei britannici, ogni tipo di materiale militare raccolto nei terreni circostanti. Diventa quindi difficile calcolare anche solo approssimativamente le profondità da prendere come unità di misura e pertanto tale calcolo è da considerarsi del tutto inattendibile.

Page 27: Foibe - l’orrore della vendetta

27

Già nel settembre e ottobre 1945 gli anglo-americani recuperarono quanto poterono dal pozzo utilizzando la benna e nel loro rapporto del 13 ottobre 1945 si trovano elencati sommariamente i risultati delle esumazioni effettuate. “Le scoperte effettuate – si legge nel rapporto – si riferiscono a parti di cavallo e cadaveri di tedeschi, e si può dedurre che ulteriori sopralluoghi potrebbero eventualmente rivelare cadaveri di italiani”». Complessivamente furono infatti estratti dal pozzo otto corpi umani interi (di questi due presumibilmente tedeschi ed uno di sesso femminile), alcuni resti umani (per lo più arti) ed alcune carcasse di cavallo. Pochi corpi smembrati e irriconoscibili non sembrarono però un risultato soddisfacente per confermare le voci che insistentemente stavano circolando circa il massacro e conseguente infoibamento di centinaia di civili e alcuni militari alleati. Si preferì così di sospendere i lavori: agli alleati sembrava infatti improbabile che corpi di italiani uccisi verso il 5 o 6 maggio potessero trovarsi sotto i corpi dei tedeschi morti una settimana prima durante la battaglia, pertanto, una volta trovati i tedeschi, si giunse alla conclusione che probabilmente nella foiba non potessero esserci né italiani né neozelandesi. La questione, per loro, era quindi da ritenersi chiusa.

Tutto era cominciato il 29 luglio 1945, quando era apparsa la notizia (pubblicata su Risorgimento Liberale, organo del Partito Liberale), che «grande e penosa impressione ha destato in tutta l’America la notizia, proveniente da Basovizza presso Trieste, circa il massacro di oltre 400 persone da parte dei partigiani di Tito, le cui salme sono state scoperte dalle autorità alleate nelle cave di quella zona. Particolare rilievo viene dato al fatto che ivi compresi si trovano otto cadaveri di soldati neozelandesi e si temono di conseguenza complicazioni internazionali». Notizia prontamente smentita sullo stesso giornale dopo soli due giorni: “Smentita alleata sul pozzo di cadaveri a Trieste. Il Comando generale dell’Ottava Armata britannica ha ufficialmente smentito oggi le notizie pubblicate dalla stampa italiana secondo cui 400 o 600 cadaveri sarebbero stati rinvenuti in una profonda miniera della zona di Trieste. Alcuni ufficiali dell’Ottava Armata hanno precisato inoltre che non si hanno indicazioni circa i cadaveri degli italiani ma per quanto riguarda l’asserita presenza di cadaveri di soldati neozelandesi essa viene senz’altro negata». Sin dai primi mesi dopo l’occupazione jugoslava ci fu infatti chi si premurò di sfruttare sin da subito la situazione, gettando le basi affinché si creasse nell’opinione pubblica quel “immaginario” delle foibe che tanto contribuirà ad alimentare il balletto delle cifre negli anni a venire. Per prima cosa si tirò fuori la notizia di una cifra enorme di infoibati per destare immediatamente orrore per l’accaduto, presentandola come se negli Stati Uniti non si parlasse d’altro. Poi, per creare tensione tra il governo jugoslavo e quello britannico da sfruttare politicamente, si pensò di colorare ancor di più la vicenda aggiungendo tra gli infoibati anche otto soldati neozelandesi, manifestando, in conclusione dell’articolo, non poche “preoccupazioni per possibili complicazioni internazionali”. Più di recente un altro articolo (pubblicato sul settimanale Epoca nell'aprile 1995) cercò nuovamente di estendere gli infoibamenti ai militari alleati, raccogliendo come risposata un’ulteriore smentita direttamente dal Ministero della difesa neozelandese. In una lettera pubblicata dal periodico “Novi Matajur” il 25 aprile 1996, il Ministro Crawford smentì infatti la supposta presenza di soldati neozelandesi nel pozzo di Basovizza dichiarando che in passato anche loro avessero indagato approfonditamente sui fatti verificando la completa infondatezza della notizia.

Per tutti gli anni in cui la città di Trieste rimase sotto l’amministrazione del governo militare alleato, la foiba di Basovizza venne usata come discarica di materiale militare.

Page 28: Foibe - l’orrore della vendetta

28

Forse per verificare di non aver lasciato dietro di se materiale d’archivio o altre cose compromettenti, prima di lasciare Trieste, nel 1954, gli alleati decisero di procedere allo svuotamento del pozzo, autorizzato dal comune di Dolina-S. Dorligo della Valle con delibera di giunta n. 854/54 del 23 febbraio 1954. Gli operai addetti arrivarono fino alla profondità di 225 metri, sui 254 totali ed estrassero residui di armi, materiale bellico e rifiuti vari. Ma non v’era traccia di resti umani. Dopo lo svuotamento, il sindaco Gianni Bartoli autorizzò l’uso del pozzo come discarica di rifiuti e tale fu l’uso che se ne fece fino alla fine degli anni Cinquanta. La cosa potrebbe apparire del tutto normale se a concedere tale autorizzazione fosse stato un qualunque altro soggetto. Gianni Batoli, segretario della Democrazia Cristiana triestina nel dopoguerra e sindaco di Trieste dal 1949 al 1957, era infatti un personaggio che aveva costruito la propria immagine pubblica sulla base della nostalgia per le terre perdute dell’Istria e sul ricordo dei martiri delle foibe, in particolare sulle “centinaia infoibati di Basovizza”. Che un uomo con un animo così sensibile alle disgrazie della sua gente, come lui stesso amava definirsi, potesse autorizzare lo scarico di tonnellate di immondizia sopra i resti di corpi umani è davvero difficile da credere. Potrebbe sorgere il sospetto, invece, che sapesse benissimo come lì dentro non ci fossero tutti quei corpi che lui stesso, nei suoi libri e nei suoi discorsi, dava per certi. Tra l’altro può non sembrare una coincidenza che a sovrintendere all’operazione di svuotamento lo stesso sindaco avesse posto un certo Griselli (allora capo del settore Nettezza Urbana), un ex squadrista fascista, commissario civile a Novo Mesto nella nuova provincia di Lubiana occupata militarmente dagli italiani, processato ed assolto proprio a Basovizza, sotto la tettoia dell’attuale farmacia nei primi giorni di maggio del 1945 per mancanza di testimoni a suo carico.

Stando ai documenti ufficiali, le stesse testimonianze utilizzate per accreditare le esecuzioni di Basovizza sembrerebbero dimostrare esattamente l’opposto. Si tratta delle deposizioni di due preti incluse in un documento stilato dagli Alleati nell’ottobre 1945 (una copia di questo, in lingua inglese, è conservata anche presso l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste): don Malalan, prete di S. Antonio in Bosco-Boršt e don Virgil Šček, parroco di Coronale, paesini a pochi chilometri da Basovizza. Don Malalan non riferisce di aver assistito personalmente ai processi ed alle esecuzioni ma le da per scontate basandosi su un colloquio avuto con don Šček, sufficiente secondo lui per affermare che “i prigionieri erano quasi tutti agenti di polizia ed hanno ben meritato la fine che hanno fatto”. Per quanto riguarda la seconda testimonianza, quella di don Šček, nel rapporto si legge: «Il 2 maggio egli andò a Basovizza... mentre era lì aveva visto in un campo nelle vicinanze circa 150 civili che erano riconoscibili dalle loro facce quali membri della Questura. La gente del luogo voleva fare giustizia in modo sommario ma gli ufficiali della IV Armata erano contrari. Queste persone furono interrogate e processate alla presenza di tutta la popolazione che le accusò. (...) Quasi tutti furono condannati a morte (...) Tutti i 150 civili furono fucilati in massa da un gruppo di partigiani. I partigiani erano armati con fucili mitragliatori, e poi, poiché non c’erano bare, i corpi furono gettati nella foiba di Basovizza». Alla domanda esplicita se il parroco fosse stato presente all’esecuzione o avesse solamente sentito gli spari, questi rispose che non era stato presente né aveva sentito gli spari. Quindi don Šček fu testimone oculare sì, ma dei processi e non delle uccisioni e degli infoibamenti. Il documento prosegue ancora: «Il 3 maggio don Šček andò di nuovo a Basovizza e vide nello stesso posto circa 250-300 persone (...) queste persone furono anche uccise dopo un processo sommario. Erano per lo più civili arrestati a Trieste dopo i primi giorni dell’occupazione. Don Šček dichiara che erano quasi tutti membri della Questura». Ma neanche in tale occasione

Page 29: Foibe - l’orrore della vendetta

29

don Šček li vide materialmente uccidere. Cosa accadde dunque in realtà? Claudia Cernigli, giornalista e scrittrice triestina, in un saggio intitolato “Operazione foibe a Trieste” (Edizioni Kappa Vu - 1997), tenta di ricostruire l’accaduto in questo modo. «Come risaputo, nei primi giorni di maggio i partigiani jugoslavi arrestarono molte persone, ma indiscriminatamente come si pensa. Avendo con sé precisi elenchi in cui erano segnalati i nomi dei criminali di guerra e dei collaborazionisti, arrestarono per lo più agenti di polizia, militari, e noti collaboratori dei nazifascisti. Il fatto che fossero in abiti civili non esclude che potesse trattarsi di poliziotti o militari in borghese: nessuna persona intelligente si sarebbe tenuta addosso la divisa dopo l’arrivo dei partigiani e chi abitava a Trieste aveva la possibilità di cambiarsi. I prigionieri venivano portati a Basovizza, dove aveva sede il “Tribunale del Popolo”, così chiamato perché era proprio la popolazione triestina a decidere sostanzialmente, con le proprie testimonianze, la sorte degli imputati. I processi si svolgevano infatti di fronte alla gente, che aveva diritto di intervenire e testimoniare pro o contro gli accusati, che in alcuni casi furono assolti e librati, non esistendo testimonianze dirette a loro carico. Come ad esempio nel caso di Griselli, futuro capo del servizio di nettezza urbana del Comune di Trieste, oppure di Remigio Rebez, l’efferato boia della caserma di Palmanova, poi riprocessato ad Udine nel 1946 come criminale di guerra, condannato e successivamente amnistiato come molti altri. Sembra probabile che la IV Armata jugoslava, che secondo lo stesso rapporto degli alleati era contraria alle esecuzioni sommarie se non altro per motivi di immagine ed opportunismo tattico (come riscontrabile in alcune direttive impartite dai vertici del Partito alla polizia segreta), avesse effettivamente condannato a morte i prigionieri per calmare gli animi della popolazione inferocita, ma abbia preferito condurli verso l’interno della Slovenia per eseguire la sentenza o a Lubiana per essere riprocessati regolarmente».

Nessuno è però in grado di confermare come effettivamente si siano svolti i fatti. Quel che è certo è che rimangono fondati dubbi che la foiba di Basovizza contenga effettivamente quel gran numero di cadaveri che si vorrebbe attribuire ad altrettante uccisioni sommarie, mentre al contrario è certo che i campi di concentramento jugoslavi in quegli stessi giorni si popolarono di internati italiani, molti dei quali non fecero più ritorno. Non ci si stupisca, quindi, se a qualcuno potrà sembrare paradossale che proprio Basovizza, una foiba che in realtà non lo è e che costituisce il caso più emblematico di ambiguità con cui viene affrontato l’argomento prestandosi alle più fantasiose interpretazioni, sia diventata il simbolo del martirio degli infoibati e come tale dal 1992 monumento nazionale. Se non si riaprirà quel buco per vedere cosa effettivamente contenga, esiste la seria possibilità che in tutti questi anni si siano portati fiori solo su un mucchio di immondizia.

Page 30: Foibe - l’orrore della vendetta

30

NOTE DELL’AUTORE:

Il presente lavoro viene pubblicato esclusivamente per finalità divulgative al fine di mantenere viva nelle

nuove generazioni la memoria delle atrocità compiute ne passato ed in nessun caso potrà mai essere

utilizzato a scopi commerciali. Tulle le informazioni contenute in questo articolo sono il frutto di una

ricerca personale condotta confrontando tesi e testimonianze contrapposte desunte dalle principali

pubblicazioni sull’argomento, dai numerosi articoli circolanti sul web e dalla documentazione raccolta in

occasione delle visite effettuate sul posto nel corso del 2006. Ogni considerazione e commento in

merito a fatti esaminati sono da ritenersi strettamente personali e non riconducibili a nessuna delle fonti

utilizzate. Per la ricostruzione storica degli antefatti si è fatto ricorso ai principali testi sull’occupazione

italiana e tedesca in Jugoslavia reperibili in commercio o nelle biblioteche, nonché ai numerosi articoli

disponibili sul web. Tutte le immagini e le fotografie storiche provengono dal pagine web facilmente

individuabili tramite i principali motori di ricerca. Le fotografie più recenti provengono dal mio archivio

personale. Qualora i proprietari detentori dei diritti delle fotografie utilizzate ritengano che esse debbano

essere tolte o che si debba aggiungere una dettagliata citazione della fonte da cui sono tratte, sono

pregati di contattarmi affinché possa celermente provvedere in merito.

AUTORE: FRANCO BORGIS - mail: [email protected]