winfried wehle, poesia sulla poesia. la "vita nova": una scuola d’amore...

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Winfried Wehle, Poesia sulla poesia. La Vita Nova: una scuola d’amore novissimo, traduzione di Christine e Dora Ott, Firenze, Franco Cesati Editore 2014, 155 pp.

È stato finalmente pubblicato in traduzione italiana aggiornata l’importante stu-dio di Winfried Wehle interamente dedicato alla Vita Nova di Dante la cui ver-sione originale, dal titolo Dichtung über Dichtung. Dantes ›Vita Nova‹: die Aufhe-bung des Minnesangs im Epos, apparve nel 1987 presso la casa editrice Fink. Come il titolo rende già perfettamente chiaro, il saggio adotta una prospettiva di lettura del testo ben precisa: la Vita Nova rappresenta primariamente una rifles-sione strutturata sulla poesia d’amore condotta nell’opera stessa con cui Dante prende posizione nel dibattito poetologico ed ›estetico‹ del suo tempo. Un’opera, quindi, esplicitamente e intenzionalmente metapoetica che marca con la sua autoriflessività un momento di crisi e costituisce la prima operazione in forma organica e compiuta di questo tipo nella tradizione europea in volgare. Il primo capitolo (»Del punto di vista«) è interamente volto a esplicitare e dimostrare tale carattere peculiare del libello dantesco, poi ripreso nelle pagine finali del libro con un’apertura verso attuazioni successive del paradigma fornito dal libello. Con le parole dell’autore, si può così sintetizzare: »con la Vita Nova la lirica cor-tese giunge a un apice di perfezione, ma proprio perciò anche ad un termine. E di questo scarto, Dante ha fatto la materia stessa della sua rappresentazione. È quindi un’opera di poesia, ma è al contempo poesia sulla poesia – poesia e poe-tica in uno« (p. 16). L’idea iniziale era già stata suggerita da Edoardo Sanguineti, tra alcuni altri, nella sua introduzione all’edizione Garzanti del libello, tuttavia la lettura della Vita Nova da questo punto di vista non era mai stata condotta in maniera così integrale e accurata, con tanta attenzione ai dettagli testuali e in quadro teorico generale sulla sua funzione.

Il prosimetro, per Wehle, non è tanto la storia di un amore giovanile, quanto la storia di una poesia d’amore. Esso elegge a propria materia la poesia composta su un amore. Nel vasto panorama di riferimenti e possibili modelli del libello offerto dalla critica, il secondo capitolo (»Un libro di canzoni«) segna le distanze da altri modelli (la confessione allegorica in prosa e versi della Consolatio di Boezio, l’autobiografia spirituale delle Confessioni di Agostino, le scritture agio-grafiche, i testi evangelici) per riportare la discussione sul terreno propriamente poetico e ai contatti con la lirica cortese e le sue vidas che restano, secondo il critico, il suo riferimento primario per quanto riguarda il genere. Nel libello l’Io mantiene la sua posizione centrale, è solo attraverso la sua testimonianza, attra-verso lo specchio del suo amore e del suo poetare, che il lettore conosce Beatrice e l’Io conosce se stesso. Esso agisce su tre livelli: quello dell’Io amante che vive la sua storia d’amore fornendo così materiale alla memoria, quello dell’Io »poe-

DOI 10.1515/dante-2015-0010

tante e ›poetizzato‹« (p. 27) del passato che traduce l’amore nei versi e, infine, quello dell’Io scrivente che parla nel presente della composizione del libello. Il libro è perciò »organizzato a partire dalla sua meta finale, il che gli conferisce, per così dire, una logica analitica. L’Io può trovarsi all’altezza della vicenda attuale e allo stesso tempo ripercorrerla«, così le poesie »diventano oggetto di un secondo discorso« (p. 28). Se da un lato ogni singola poesia testimonia una tappa che la prosa restituisce alla sua storia, dall’altro la prosa inserisce la poesia in un percorso più ampio mutandone o amplificandone il senso in un’interpreta-zione a posteriori. Dante porta a ben altri esiti le possibilità insite nelle razos dei trovatori provenzali e, in questo modo, il testo acquisisce maggiore autonomia e intelligibilità.

Il terzo capitolo (»Movente e movimento«) inizia mostrando come, dapprin-cipio, l’io adotti i moduli tradizionali dell’amore cortese nei confronti della sua donna per poi arrivare alla scoperta di un primo limite: »non si può raggiungere la Beatrice attraverso il consueto servizio d’amore«. Già al § 10 il »cerimoniale di galanteria cortese ha toccato i suoi limiti« (p. 36). La vicenda amorosa, però, non si è affatto conclusa. Dante porta il distacco dalla dama a un punto inaudito: la morte della donna; un distacco che non comporta affatto la fine dell’amore, bensì »lo spunto per un suo cambiamento qualitativo« (p. 37). La definitiva inac-cessibilità della donna all’amore dei sensi, infatti, porta con sé un irreversibile mutamento che dovrà condurre alla rinuncia al sistema poetico ed erotico cor-tese. Tuttavia tale cambiamento non è certo immediato, l’io si mantiene legato ai concetti della tradizione e, nello smarrimento in cui versa, ripiega sulla con-venzione e si rivolge a un’altra ›donna gentile‹. La Beatrice resta però il movente ultimo di tutta la vicenda e »il lavoro ermeneutico che Dante esige dal proprio ›eroe‹ prevede quindi una graduale sostituzione della tradizionale dottrina dell’amor cortese con il nuovo ideale di Amore della Beatrice. Il rigoroso procedi-mento teorico da lui applicato nella Vita Nova, fa sì che l’Io assuma precisamente il ruolo di ›homo hermeneuticus‹« (p. 43). In altre parole, l’Io deve farsi interprete della sua storia d’amore esattamente come deve farsi esegeta delle poesie che la testimoniano e, conclude Wehle, »Il suo faticoso progresso cognitivo possiede quindi valore esemplare. Raffigura un’evoluzione nella ›scienza‹ amorologica, che al contempo si concretizza in una scienza della parola poetica« (p. 44).

Il quarto capitolo (»Itinerarium amoris in Deum«) è volto a indagare non il ›senso sottile‹ che si cela dietro la facciata della storia d’amore (le cui varie declinazioni nella dottrina amorosa e poetica saranno riepilogate nell’ultimo capitolo), ma le modalità stesse con cui tale senso – »Amor-teologia« lo chiama Wehle – è discernibile oltre la superficie. Per cogliere il senso occorre seguire passo dopo passo il processo compiuto dall’Io che, senza esserne consapevole, è fin dal principio in possesso del vero amore ma deve giungere alla fine per impa-

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rare a riconoscerlo; infatti, »Tutto ciò che segue la scena d’apertura, in fondo non è altro che l’esplicazione graduale di quello che era iniziato nell’attimo dell’in-namoramento« (p. 46). Dopo le esperienze ancora tradizionali della sofferenza amorosa (la negazione del saluto, il ›gabbo‹), l’Io si risolve a non parlare più di se stesso perché si rende conto che dietro la consueta implorazione di pietà si nasconde in realtà un amore narcisistico che vuole soltanto attirare l’attenzione su di sé. Tale decisione, scrive Wehle, »equivale quindi a una critica della tra-dizionale dottrina amorosa: il suo sistema rivela uno squilibrio nel rapporto fra uomo e donna, in quanto anche la massima lode della donna scaturisce in fondo da un sottile autoriferimento« (p. 47). L’amore per la Beatrice non può essere spiegato nei termini convenzionali del Dolce Stil impiegati finora, il soggetto amante deve piuttosto »retrocedere dietro l’oggetto amato« (p. 48). Nelle poe-sie di lode, osserva acutamente Wehle, »la presenza dell’Io poetante diminuisce drasticamente« (p. 49). In »Negli occhi porta la mia donna Amore«, »Tanto gen-tile e tanto onesta pare«, »Vede perfettamente ogne salute«, l’Io amante e poeta »ha ceduto la sua posizione di soggetto« alla donna. In questo modo, »ha ogget-tivato l’effetto della Beatrice su di sé, elevando a misura universale il concetto d’amore che gli è scaturito dalla sua pena personale. Il suo parlare, non dovendo più servire all’esaudimento dei propri desideri, può in compenso dedicarsi mag-giormente alla natura dell’amore di lei« (p. 49). L’Io sperimenta un amore vera-mente disinteressato, nota l’autore, quando la Beatrice piangente per la morte del padre gli ispira una pietà che l’amante cortese tradizionale, invece, chiedeva per sé stesso. L’»inclinazione per l’altro« che l’Io scopre è ora »del tutto depurata di ogni eros egoistico« (p. 51).

Nello sviluppo del macrotesto, Wehle coglie perfettamente l’esigenza di mutamento, che raggiunge il massimo grado con la morte della donna, non tanto delle parole impiegate, quanto della funzione che esse sono chiamate ad assolvere. Dalla parola veicolo di un eros che richiede una comunicazione per-suasiva nei confronti dell’altro si raggiunge gradualmente una parola ›in morte‹ che, avendo rinunciato a ogni intenzione persuasiva, permette di cogliere l’altro come soggetto autonomo che chiede di essere riconosciuto. Per compiere tutti i passi del percorso ascensionale verso la visione finale della gloria della donna (dall’amor sui, attraverso l’amor proximi, fino all’amor Dei), per cogliere la Bea-trice come immagine riflessa di Dio e per comprendere così il senso della (pro-pria) storia – cioè che l’amore »può svelare le massime verità, a patto che sia esplicato dall’idea giusta« nelle parole di Wehle (p. 58) – occorre anche riconsi-derare in profondità le funzioni del linguaggio e della poesia.

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Sulla scia dello studio di Francesco Tateo,1 il quinto capitolo (»Amare vuol dire poetare«) si concentra sulla reciprocità dell’amare e del poetare e su come Dante nel libello rinnovi le premesse della lirica cortese. Nella Vita Nova, afferma Wehle, »quando l’Io poetante parla di ›donna‹, l’Io retrospettivo può intendere al medesimo tempo ›poesia‹!«; l’originalità del libello risiederebbe, quindi, nell’i-dea che »la lirica cortese potesse essere adoperata sistematicamente anche per rappresentare se stessa« (p. 63). Se al principio l’Io poeta si rivolge al Dolce Stil (il sonetto »A ciascun’alma«) per trattare del proprio amore, l’oscuro discorso di Amore rivela immediatamente limiti di quella poesia e presenta nuove possi-bilità di sviluppo. La poesia dovrà percorrere lo stesso processo di ascesa com-piuto dall’amore verso una dimensione più elevata. Anch’essa insomma, nell’ot-tica retrospettiva dello scrivente, rientra fin dal principio in quel piano segreto che, misterioso all’inizio, si chiarirà solo progressivamente. Come per l’amore anche per la poesia lo sviluppo prevede tre fasi, che Wehle vede profetizzate nella triade iniziale composta dalla donna schermo, la Beatrice e la Regina della gloria, perché in fondo »Come solo l’amore rende possibile la poesia, l’evolu-zione poetica dell’Io si nutre della sua evoluzione amorologica« (p. 69). Nel lungo capitolo successivo (»L’ascesa a un’altezza epica della parola«) si approfondisce l’indagine sull’evoluzione della poesia con una ricca analisi testuale, iniziando con il rintracciare le allusioni alla genealogia che ha contribuito alla formazione dell’Io poeta (Guittone, Guinizzelli, Cavalcanti), quella tradizione che l’Io deve superare abbandonando il Dolce Stil per abbracciare lo ›stilo de la loda‹ e un più alto amore. È nella scena del ›gabbo‹ che si porta a compimento il duplice distacco dall’atteggiamento amoroso tradizionale e dalla poesia che lo verbaliz-zava nella sua narcisistica richiesta di pietà.

E l’Io, afferma giustamente Wehle, »accetta la sfida«: rinuncia alla poesia tradizionale, a quel Dolce Stil che ha mostrato i propri limiti, per »occuparsi della donna in se stessa« (p. 86). Non si può più coltivare la propria auto-rappresenta-zione; al centro del dire poetico deve esserci lei, le sue altissime qualità spirituali e la sua bellezza intellettuale. Non più, quindi, un parlare a lei, ma di lei. Se la rinuncia alla presenza fisica e alla bellezza esteriore della donna poteva portare, nel contesto cortese, alla fine del servizio d’amore, per Dante essa »diventa il punto di partenza di un consistente ampliamento dello spazio poetico« (p. 87). D’ora in poi, il lavoro dell’Io si concentrerà non tanto sul significante, con quella cura verbale così ricercata dalla poesia cortese, quanto sul significato: è »la

1 Francesco Tateo, »La ›nuova matera‹ e la svolta critica della V. N.«, in: Studi di filologia ro-manza, offerti a Silvio Pellegrini, Padova 1971, pp. 629–653.

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forma che deve adeguarsi al contenuto affidatole« (p. 88). Il pubblico diverso che si delinea per il nuovo discorso, le ›gentili donne‹, è più interessato alla ›verità‹ delle parole che a quel valore artistico posto al centro dell’interesse dai ›fedeli d’Amore‹. In questa nuova poesia, sintetizza Wehle, »più importante dell’ade-guatezza alle norme è l’adeguatezza all’oggetto« (p. 89). Tutto ciò, naturalmente, deve comportare anche un innalzamento dello stile: »Nell’effetto da lei prodotto sull’Io poetante (›mirabile‹) si esprime il suo generale diritto a un linguaggio di ammirazione (›admiratio‹)«. Queste considerazioni portano il critico a riaffer-mare la sua tesi centrale: »La Beatrice incarnava dunque fin dal principio un concetto poetico. Ma soltanto a questo punto l’Io, e con lui il lettore, la compren-dono finalmente come tale« (p. 91).

Lo ›stile de la loda‹, però, »non era ancora il traguardo, ma solo una tappa dell’itinerario additato«; l’Io ancora non si distacca completamente dalla poesia dell’amore cortese e dalla comunità dei ›fedeli d’Amore‹, sì è soltanto posto al vertice di questa tradizione (p. 95). Con la morte della donna terrena, e la perdita di ogni mediazione materiale verso l’idea d’amore, la poesia entra in una nuova crisi. Solo dopo il riconoscimento di un’ulteriore insufficienza, la visione interio-rizzata della donna può diventare un’immagine completamente spiritualizzata, la vicenda amorosa inserirsi in un contesto escatologico e la poesia farsi davvero ›inno‹. La meta della nuova poesia trascende perfino la Beatrice: »La signora, che finora era tutto per l’Io, viene di colpo relativizzata. Si rivela a sua volta come mera prefigurazione di un concetto ancora più alto del poetare« (p. 100). L’Io scopre che l’essenza di colei che aveva fatto oggetto di lode consiste a sua volta in una lode ancora più alta: l’elogio della Regina celeste. Ma tale consapevo-lezza intellettualmente raggiunta non è facilmente traducibile in poesia: »Ciò che manca all’Io è una poetica che consenta di esprimere l’invisibile e l’indici-bile; e per di più in una lingua volgare […]«. E, afferma Wehle, da questo punto in poi il libello dovrà, sia pure con ampie ricadute nel repertorio tradizionale (il lamento luttuoso e la nuova ›donna gentile‹), cercare una poesia propriamente allegorica che sia adeguata alle somme verità verso cui la Beatrice guida l’Io (p. 100). La Vita Nova non cela i tentativi falliti di cercare un sommo grado stili-stico nella lingua volgare, anzi li esibisce al pubblico, dopotutto »Nulla meglio di questa messa in scena di difficoltà linguistiche potrebbe dimostrare in via formale il fallimento dell’espressione coltivata finora. Dinanzi al grado celeste della Beatrice, tutta la lirica cortese appare un abbozzo« (p. 103). Per superare l’impasse poetica e ritrovare la possibilità della parola, occorre comprendere con la ragione »la scissione della Beatrice in essere corporeo ed essere spirituale come manifestazione di un unico, ininterrotto desiderio«, superare il trobado-rico amore visivo per un’immagine esteriore a favore di quel ricordo interiore che trasforma la percezione in pensiero (pp. 103–104).

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Wehle rintraccia i segni del nuovo modello poetico nel pensare per immagini disegnando figure d’angeli della prosa del § 23; nell’»apertura spaziale e tempo-rale« ai pellegrini romei del § 29 che »trasferiscono la sua vicenda personale in una trama di significati di più vasta portata« che supera la »città dell’amore cortese« e il servizio alla dama in vista della »città dell’amore divino« e di un servizio molto più elevato (p. 106); e, infine, nella riflessione condotta nella »pic-cola antologia poetica« (p. 110) costituita dagli ultimi tre sonetti in cui si riper-corrono le tappe dell’evoluzione poetica per arrivare alla proposta esplicita di »Oltre la spera«. Nel sonetto finale l’Io intuisce pienamente la necessità di espri-mere l’inesprimibile, quel che non può essere del tutto compreso, e per farlo, »Ora che [la donna amata] si era tramutata del tutto in bellezza spirituale, biso-gnava in primo luogo renderla sensibile« (p. 133). Occorre quindi produrre delle forme che servano »da appoggio sensibile all’immaginazione umana, quando questa si confronta con gli inconcepibili misteri della fede« (p. 113). Sul limitare del libello, l’Io non soltanto ha compreso la natura divina del suo amore, ma ha anche »riconosciuto nel parlare allegorico un procedimento per interpretare le cose terrene, ossia la propria vicenda, come una parabola poetologica« (p. 113). A questo punto l’Io »è finalmente in grado di qualificare questa discrepanza tra l’intuizione del cuore e il linguaggio del cuore! In fondo, il progresso poetologico della Vita Nova è tutto qui« (p. 114).

Wehle legge quindi tutta la parte finale della Vita Nova, e non soltanto l’ac-cenno dell’ultimo paragrafo, come annuncio del ›poema sacro‹ a venire, un poema della Roma cristiana pensato sul grande modello offerto dall’Eneide vir-giliana: »Come la Roma pagana si era pienamente compiuta soltanto in quella cristiana, il preliminare antico avrebbe raggiunto la perfezione solo in un epos della Roma nuova« (p. 108). La poesia che si annuncia dovrà saper ›trattare filo-soficamente‹, con competenza scientifica, la sua sublime materia; dovrà esser composta con lo stile del genere letterario più elevato, quello epico, per poter ›bene dire‹ il suo altissimo argomento; dovrà, infine, suscitare ›admiratio‹ esat-tamente come la Beatrice esercita tale effetto sull’Io. Al poeta non resta che rac-cogliersi in un temporaneo silenzio in attesa di avviare la stesura del poema uni-versale che coronerà il percorso intrapreso nella Vita Nova o, più precisamente, che attraverso il libello è stato compreso visto che, in nuce, era segnato fin dal principio. Il poema a venire porterà il poeta all’esito finale e più alto della suc-cessione poetica tracciata nel libello: Omero, Virgilio, Dante.

Francesco Giusti (Frankfurt)

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