sulla poesia di sylvia plath

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Che pensieri soavi,

che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

la vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

un affetto mi preme

acerbo e sconsolato,

e tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

Perché non rendi poi

quel che prometti allor? perché di tanto

inganni i figli tuoi?

GIACOMO LEOPARDI, “A SILVIA”

SULLA POESIA DI SYLVIA PLATH Danilo

Caruso

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INTRODUZIONE

ella “Repubblica” platonica, Socrate, parlando del bene, dice di stare per pagare gli interessi sull’argomento, omettendo il capitale (di conoscenza); sulla falsariga del maestro di Platone, in questo mio secondo saggio dedica-

to a Sylvia Plath, devo affermare una cosa analoga poiché il capitale (di studi che ho condotto) l’ho già depositato al fruitore nel precedente lavoro. “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere” è una mia opera critica sopra la poetica e la personalità della grandissima scrittrice americana. Costruito su un progetto analitico di matrice junghiana (che rigetta alternative vie d’esame d’ispirazione freudiana e gravesia-na); mirato a restituire alla poetessa bostoniana la sua autenticità interiore ed e-spressiva, dove l’archetipo della Grande Madre, la dialettica “anima/animus”, il “processo d’individuazione” e il concetto di “ombra” giocano ruoli centrali. La “luna plathiana” ad esempio è un simbolo archetipico che non va impastato col concetto di “Dea bianca”; e più in generale la produzione della musa di Boston è non frutto di nevrosi, ma il contrario (ossia via e strumento di elaborazione e solu-zione del di lei disagio). La cornice filosofica della monografia ha consentito inol-tre di indagare il rapporto onto-letterario tra l’Io dell’autrice e il resto della realtà (diviso dal dualismo “fenomenico/metempirico”). In questa nuova seconda sede di esposizione delle mie analisi non ripeterò la sostanza di spiegazioni fatte allora, non volendo essere ripetitivo, ma mi limiterò a utili richiami, dando per scontata la lettura dell’opera-capitale. Gli interessi saranno concernenti ad approfondimen-ti che la sintesi nello spazio precedente non ha reso possibili: si tratterà di temi biografici e di critica letteraria che sono naturale prosecuzione e migliore deluci-dazione (qualora potessi essere stato non sempre chiaro a sufficienza) di quel che ho sistemato in “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”. Mi pare necessario, prima di introdurci nella nuova navigazione, ricordare ancora e sottolineare la mia espressa posizione. Judith Kroll cerca di spersonalizzare la poesia di Sylvia Plath, di svuo-tarla della sua sostanza confessionale, vanificando questa a beneficio di schemi interpretativi che non riflettono più la matrice poetica plathiana. I vantaggi di una simile analisi consolidano la difesa della posizione di Hughes e dell’ambiente cri-tico-letterario inglese filoeliotiano. Alfred Alvarez ha patrocinato un’impostazione interpretativa della poesia plathiana minimalista che inquadra il suicidio della po-etessa a guisa di qualcosa di scontato nell’ambito della di lei personalità, la quale a suo avviso sarebbe stata animata da una vocazione negativa. Una presunta voca-zione della Plath che la Kroll fa rivolgere alla scrittrice in maniera nichilistica su tutto. Siffatta corrente critica ha il suo capostipite in Ted Hughes, attaccato a ra-gion veduta (assieme ad Alvarez e altri) da Robin Morgan in “Arraignment”.

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1. “WORDS”

“Words”, lirica plathiana del primo febbraio ’63 mi dà l’impressione di elaborare e presentare in fine modo figurato una lite verbale con Ted Hughes, risalente credo a non molto prima della redazione nel corso del soggiorno londinese di Sylvia.

I diari della Plath dell’ultimo periodo inglese, durato poco più di un trien-nio (dal ritorno dall’America, al termine del ’59, sino alla morte) sono scomparsi. E il principale sospettato di questa perdita è Hughes: può darsi non sia giunto alla materiale distruzione, e prima o poi ritorneranno alla luce. La prima strofa della poesia mi pare celare uno scontro animato da grida, il quale è motivo di tensione che si accumula e che si scarica in quelle lacrime di sfogo che sembrano nascoste nella seconda strofa, le quali riportano una quiete (che viene descritta).

I «them» che lei incontra per caso in strada potrebbero essere Assia Wevill e Ted: la poetessa è «senza cavaliere», in compagnia di «parole aride», martellanti «un instancabile ticchettio di zoccoli». Lo «stagno (pool; legato da paronomasia a “soul”)» è l’anima dell’autrice, le «stelle fisse» sono gli archetipi junghiani e i complessi della psiche, che «governano una vita», la sua. 2. “KINDNESS”

Altre due liriche accompagnano “Words” nella data di creazioni di quel primo febbraio: “Kindness” e “Mystic”. L’ordine presunto di redazione delle tre poesie penso sia questo adottato nella mia analisi. Alla rielaborazione poetica di quella lite segue la redazione di un testo di rilassamento, dove l’attenzione mette da par-te i precedenti termini fortemente negativi e fa volgere lo sguardo poetico e uma-no della poetessa sulla sua famiglia (ormai composta da lei e i figli).

Ciò ha luogo con immagini positive: nella prima strofa compaiono il blu al-chemico e il rosso di rubedo. Dalla seconda il tono cambia un po’ tramite profondi accenti esistenziali che creano un’atmosfera di colore. Possiamo percepire l’animo di Sylvia in quella mattinata, in cui il sole non è ancora sorto, assorta a pensare sul valore e sul significato della vita: l’essere umano ha quid superiore (l’anima, «soul») rispetto agli animali da cui differisce, che lei colora di vitalità autentica. «Il pianto di un bambino» cui accenna è un segno di vita toccante, autentico, a lei familiare. Di quella vita di cui ella coglie anche le sfaccettature pragmatiche.

Lo «zucchero» che la «Gentilezza» personificata afferma panacea è la gratifi-cazione che a lei mancava (v. 10). «Sugar» non è solo “lusinga”, nello slang ameri-cano indica anche il “denaro”. I vv. 14-15 riassumono la sua condizione di allora le sue seriche creazioni letterarie rischiano di essere rifiutate ed emarginate. Questi due versi hanno però un potere significanza molto più ricco poiché rievocano al-

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tresì la sua rottura matrimoniale: la Plath è una “japanese butterfly”, una “Mada-ma butterfly”, una donna abbandonata. I vv. 16-17 ci restituiscono Sylvia la quale fa colazione seduta davanti al suo caldo tè fumante: è un’aggraziata e affettuosa immagine di interno familiare, del ritiro notturno che va svanendo.

Il testo al successivo v. 18 instaura un’analogia con la ferita al costato di Ge-sù crocifisso di cui nel Vangelo di Giovanni: «Lo zampillo del sangue è poesia, / non c’è come fermarla [preferisco collegare «it» a «poetry» che non a «jet»; n.d.r.]». La lirica della Plath nasce da una lacerazione dell’animo, il quale in potente poesia converte i suoi stati, i pensieri, i ricordi, le sue esperienze. E tutto si chiude in “Kindness” con lo sguardo ai propri figli (v. 20), e con la mente alle preoccupazio-ni per loro («two roses»), le quali “Edge” – ultimo componimento plathiano, po-steriore di quattro giorni – affronterà con spirito risolutivo. 3. “MYSTYC”

Il titolo di “Mystyc” a primo impatto può sembrare incomprensibile. Se la parola fosse un sostantivo indicherebbe il “mistico” in generale, cosa che non ha grande pertinenza con il testo; meglio quindi intenderla nella veste di aggettivo: mistico, misterioso, occulto, magico. Ma quale il concetto di cui si predica?

Potrà apparire più evidente dopo l’analisi della lirica, assunta una visione completa dei suoi contenuti. La prima strofa della poesia mette in scena la Grande madre negativa, connotata dal nero («black») della nigredo. Gli «ami (hooks)» del «mulino» fenomenico servono a far abboccare meritevoli di morte spirituale. In inglese esiste un proverbio che parla del mulino di Dio (God’s mill grinds slow but sure) e una espressione arcaica legante Dio agli ami/uncini (to be off the ho-oks: essere fuori della grazia di Dio). Questo “Dio/nevrosi collettiva”, “mo-stro/ombra junghiana” è denunziato nella seconda e nella terza strofa.

«Qual è il rimedio» a questo cosmico multiforme nefasto progetto di perse-cuzione a danno del benessere che deriva dallo squilibrio? La risposta nella quarta e quinta strofa. Non il rifugio fideistico ulteriore nella forma liturgica cristiana (a co-minciare dall’assunzione dell’ostia consacrata; vedi i vv. 16-17), né tanto meno met-tersi a raccogliere briciole di speranza cristiana da altri, mansueti animali consumatori di marxiano oppio soddisfatti nelle loro bassezze e deformità spirituali dentro la gabbia della felicità degli idioti (vedi i vv. 18-20). Gli ultimi versi della lirica indicano la via: la verità sta nel profondo (vedi i vv. 25-27).

Nel corso della redazione di tre poesie in quel primo febbraio ’63 è però giunta l’alba (v. 25), il mondo ha preso a vivere il giorno (vv. 23-24), e il travaglio creativo in siffatti pensieri è stato positivamente superato (v. 26). L’aggettivo “Mystic” del titolo pertanto credo sia da riferirsi a un concetto di itinerarium mentis

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come cammino di risoluzione. E da ciò è possibile ricollegarsi agli interessi per l’occultismo di Sylvia Plath che costituiscono una riprova di ritorno della mia in-terpretazione. 4. “WINTERING”

In “Wintering”, se i sei barattoli di miele della prima strofa alludono al periodo ma-trimoniale della Plath, questa luce di significato offre una chiave di interpretazio-ne del seguito di questa poesia (datata 9 ottobre ’62). Lo «svernamento» di cui par-la dunque tale lirica ha una dimensione esistenziale, e la «cantina (cellar)» assume ruoli simbolici di valenza negativa.

Oltre a rievocare il luogo del tentato suicidio del ’53, questa rappresenta il mondo fenomenico che contiene la poetessa di Boston, la realtà con la quale ha una sorta di rapporto di rifiuto reciproco (cui alludono i primi due versi della terza strofa). «Il nero [black; nigredo, depressione; n.d.r.] si è concentrato là a somi-glianza di un pipistrello», il nero è paragonabile a un vampiro che succhia il posi-tivo degli esseri umani. Di conseguenza ne resta «una nera asinità. Decadenza. Possesso [l’“avere frommiano”; n.d.r.]»; e gli uomini svuotati dell’essere (non solo nell’accezione frommiana) si trasformano per Sylvia in carcerieri «né crudeli né indifferenti, soltanto ignoranti».

Le api rappresentano le energie della scrittrice bostoniana che riflette sul suo futuro, con un’amara considerazione sugli uomini. “Wintering” era la lirica che nel progetto plathiano di “Ariel” avrebbe dovuto chiudere la raccolta, il suo ultimo verso recita: «Le api sono pronte a volare. Pregustano la primavera». 5. “THE NIGHT DANCES”

La seconda serie di strofe di “The night dances” (poesia plathiana del 6 novembre ’62) introduce all’attenzione del lettore un weiliano concetto di universo abbando-nato ai suoi automatismi (vv. 15-17) nei cui confronti Dio si è distaccato (v. 21): la «dimenticanza» divina produce quelle che appaiono all’autrice «nere amnesie del cielo». In tale regime fenomenico né Sylvia né suo figlio Nicholas (al centro della prima serie di strofe) rimangono però inghiottiti dal meccanicismo disumanizzan-te. Il piccolo bambino ha e offre il suo candore dinamico, tant’è che la madre dice: «... non interamente / starò seduta svuotata di bellezza».

Cosicché la Plath si chiede, in maniera retorica, nei versi finali con una do-manda priva del punto interrogativo (tipica di una riflessiva constatazione), il per-ché di queste «concessioni del favore divino» sopra di lei. E lo fa con delle espres-

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sioni ebraicizzanti (vv. 24-26): i cadenti esagonali bianchi fiocchi di neve (la cui strut-tura fisica richiama in questo contesto pure la stella di Davide) ricordano Isaia 55,10; questa discesa inoltre su occhi, labbra e capelli dell’autrice rievoca in qualche modo, in maniera oscura e contorta l’uso, inusuale per una donna, di un filatterio (Es 13,9). La pratica ebraica di tenere addosso due filatteri (sulla testa e su un brac-cio), in aggiunta a costituire un atto di osservanza, rappresenta un invito alla col-laborazione della facoltà razionale e di quella emotiva nell’agire personale: cioè a non disgiungere logos ed eros nella fase deliberativa delle umane decisioni; la po-sizione di equilibrio tra i due porta alla migliore soluzione.

Erich Fromm dal suo punto di vista di Ebreo laico sosteneva qualcosa del genere. Tutta l’atmosfera percepita dalla Plath in “The night dances” di uscita da un esilio (pensiamo alla sua particolare simpatia verso “The tempest” e alle vicen-de di Prospero e del suo servo Ariel), di modificazione esteriore della realtà empi-rica in direzione di un clima ideale, tuttavia, si disintegra subito, non appena la raggiunge (un po’ quel che accade la domenica del leopardiano “Sabato del vil-laggio”): «luogo inesistente», nella configurazione fenomenica dell’esistenza, è quello che non può accogliere una pienezza dell’essere, un completo ingresso del-la platonica Idea-del-Bene nel mondo. 6. “A BIRTHDAY PRESENT”

In “A birthday present” (lirica plathiana del 30 settembre ’62) ciò che si trova al di là del velo ha un presumibile aspetto femminile, nel modo in cui lascia intuire il v. 2. Questa personificazione fa una sorta di preludio di un’evangelica annunciazio-ne nei vv. 5-10, che sono più un’autoironica parodia esternata da Sylvia.

L’occasione del suo trentesimo compleanno, dopo la rottura matrimoniale, non è circondata da un’atmosfera felice, e questo è reso palese dai vv. 13-15. Ciò nonostante la sua evoluzione psichica marciava alla volta della junghiana indivi-duazione del Sé. Dal v. 20 l’ente oltre il velo e il soggetto cui Sylvia si rivolge ap-paiono distinti. A costui lei chiede in dono tale cosa (vv. 21-23). C’è un quid splendente attraverso un velo traslucido (vv. 16-19) rivelantesi in sé ingannevole: la sua tensione non è vitale («dead breath») e la sua apparenza di autenticità («as babies’ bedding») non è reale (ovverosia, non ha nobiltà ontologica), è illusione («O ivory!»). Il velo tramuta la visione del dono ambito in un fantasma (v. 19).

I simboli del velo e dell’avorio sono le chiavi concettuali che aprono la porta del significato di “A birthday present”. L’avorio richiama l’antica e mitologica “porta d’avorio”. Ne parlano Omero nell’“Odissea” e Virgilio nell’“Eneide”. Si tratta di una delle due immaginarie sorgenti dei sogni: dalla porta d’avorio proven-gono i sogni ingannevoli, dalla porta di corno quelli veritieri. Così spiega Penelope

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al termine del libero XIX dell’“Odissea” al non riconosciuto Ulisse. A proposito del rapporto tra Ulisse e la Plath è doveroso ricordare il tema dell’esilio personale affrontato da lei in “The decline of oracles”, una materia che qui viene ripresa.

Le analogie con l’eroe omerico sono allargate, oltre a ciò, con connotazioni di dettaglio particolareggiate: in quel libro dell’“Odissea” Ulisse viene ricono-sciuto dalla serva Euriclea grazie alla sua cicatrice sulla gamba, e pure Sylvia ave-va una cicatrice (ricordata al v. 6), anche se sul volto, procurata nella cantina di casa a Boston (conseguenza del tentato suicidio del ’53); lei a una gamba aveva subito una frattura in un incidente con gli sci. È dunque chiaro il suo identificarsi con le sventure dell’esule di Itaca: la zanna («tusk») del v. 19 potrebbe alludere an-che a quella del cinghiale che ferì il giovane Ulisse lasciandogli il segno della cica-trice mediante la quale sarà scoperto nel suo anonimato al ritorno in patria. Nel libro VI dell’“Eneide” al protagonista, pure lui esule, durante la traversata degli Inferi si presenta un olmo infernale su cui si depositano «Somnia vulgo / vana» (vv. 283-284): i sogni che più avanti (vv. 893-896) il di lui padre Anchise, defunto e meta di quel viaggio eccezionale, dirà passare dalla porta d’avorio, mentre quelli veraci, come detto escono dalla porta «cornea».

Quella d’avorio, dice Anchise al figlio, è «nitens»: una qualità che l’autrice di Boston più volte rileva nel suo desiderato, dai contorni indefiniti, oggetto di de-siderio (vv. 2, 11, 16, 24, 25). Non va trascurato lo strano dettaglio virgiliano, di fine libro in cui Anchise fa ritornare nel mondo dei vivi Enea e la sua accompagna-trice Sibilla cumana (Deifobe) facendoli passare dalla porta «eburna».

Rilevante inoltre la spiegazione del padre dell’eroe troiano di una teoria della metempsicosi di stampo platonico. “Elm” si intitola una significativa lirica plathiana1. Sebbene venga facile indulgere a riguardo di “A birthday present” ver-so un paragone con Amleto dialogante con l’anima del defunto genitore ucciso, sono del parere che questa via non sia corretta, e che la presenza di spunti e sug-gestioni shakespeariani sia da individuare all’interno di “The tempest” (una commedia al posto di una tragedia).

Al riferimento a “un’annunciazione” nel v. 9 ne segue uno a “un’ultima ce-na” nel v. 26, e il tono anche qui rimane sottilmente scanzonato. Sylvia si è dichia-rata pronta a ricevere ciò che desidera e che si manifesta in maniera nebulosa, ma che il suo interlocutore sembra restio a darle (vv. 20-23) il velo che lei ha dinanzi è quello di Maya: il velo dell’illusione prodotta dal mondo fenomenico, di cui parla Arthur Schopenhauer in “Die welt als wille und vorstellung”2. La realtà empirica è

1 Si veda “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, pag. 12: quanto dissi offre richiami di accostamento e collegamento con i contenuti esposti. 2 Nel mio saggio ho messo in evidenza l’asse: Schopenhauer / Böcklin / De Chiri-co / Plath.

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per lui un sogno un po’ più prolungato, da prendere con le pinze. Schopenhauer si rifà nella sua riflessione all’antico pensiero religioso indiano, tuttavia non manca nel primo libro della sua maggiore opera citata di addurre altre testimonianze oc-cidentali a sostegno della sua tesi. Quest’immagine del sogno è da più parti riferita all’universo fenomenico, ed egli considera le note parole di Prospero nella prima scena del IV atto di “The tempest” particolarmente espressive e raffinate a questo merito3. Pertanto questo motivo del sogno (realtà / velo di Maya) traduce il signi-ficato concettuale che incarna “A birthday present”.

La predilezione plathiana nei riguardi di questa commedia shakespeariana mi offre il modo di chiudere il cerchio concettuale portato alla luce riguardante la tematica del sogno. Da non dimenticare è la già accennata dimensione dell’esilio (Enea, Ulisse, Prospero): il mondo respingeva Sylvia perché superiore alla aurea mediocritas, e quindi pericolosa (piano socio-ontologico). A questo suo sentirsi e-marginata si aggiungeva anche la percezione di un confino geografico oltre che spirituale (in Inghilterra, lontana da una Boston terrestre non molto simpatica, la quale avrebbe voluto rendere una Boston celeste: rifiutò infatti dopo la separazione matrimoniale la prospettiva di ritornare subito in America). Il “velo di Maya” di “A birthday present” è anche il “velo di Iside” poiché quest’altra metafora rappre-senta lo stesso concetto (naturalmente in contesti storici e religiosi diversi, e con sfumature di speculazione differenti). Iside rappresenta la realtà naturale contrap-posta alla sfera spirituale più autentica della prima. Iside è la Grande madre, è la personificazione del corrispettivo archetipo junghiano.

A lei è collegata l’immagine lunare, simbolo centrale nella poetica plathia-na. Ella in particolare può assumere connotazioni sia positive che negative, e quindi si rivela Grande madre junghiana nel senso completo (quello visto quando ho analizzato “Three woman”4): la sua dialettica interna “positivo/negativo” è la gamma esistenziale umana. Sylvia Plath nella lirica in esame si rivolge a lei, alla Grande madre (in veste junghiana ovviamente), chiedendo che si possa conclude-re il processo (o cammino) di individuazione del Sé: è questo il senso qui dell’attraversamento della porta eburnea (si veda Enea); oltre l’ipocrita velo del mondo il quale la circonda (e l’ipocrisia è pratica oltre che ontologica) si occulta

3 “The tempest”, atto IV scena I: «E al pari della struttura senza base di questa vi-sione, / le torri incappucciate dalle nuvole, i magnifici palazzi, / i solenni templi, lo stesso grande globo, / così, tutto ciò che esso riceve, si dissolverà / e come quest’insostanziale scena è scomparsa, / non lascerà un segno dietro. Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono i sogni; e la nostra piccola vita / è circondata da un sonno». 4 Riguardo a ciò e alla concezione della storia in Sylvia Plath si veda nella mia mo-nografia ricordata, alle pagg. 23-25.

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ciò che è verità e dà armonia (il Sé). Nei vv. 27-30 la Grande madre si mostra nella sua qualità negativa: in particolare il v. 30 rievoca con forza un’imago gorgonica su uno scudo. La poetessa americana rinfaccia a Medusa (Grande madre negativa) la di lei preoccupazione di essere sopraffatta e rovesciata nel governo della storia umana. A questo punto la lettura dei versi successivi di questa poesia risulta chia-ra. Sylvia vorrebbe quell’«it» anche a costo di starsene quieta perché avverte il mondo in forma oppressiva.

Nei vv. 44-47 rivolge una domanda leopardiana a “Medusa / natura matri-gna”: «... O macchina calcolatrice [colei che mette in atto forme di meccanicismo; n.d.r.] – / È impossibile per te lasciare andare qualcosa e ciò abbia un andare completo [autonomo, libero; n.d.r.]? ... Devi uccidere ciò che puoi?». Ambisce al risanamento interiore della sua psiche (processo d’individuazione), un obiettivo maturante nel cuore della sua lirica (vv. 48-51): «Respira dai miei fogli, il freddo centro morto / dove vite disarcionate si congelano e si irrigidiscono davanti alla storia». Sylvia anela a passare la porta dell’individuazione senza tanto ritardo (vv. 51-55). Non c’è nella Plath una vocazione alla morte; è nel mondo, nella Grande madre negativa la vocazione a farne olocausto.

La morte è sì la rottura definitiva (ontologica) del velo di Maya/Iside, però al-lorché la scrittrice dice di essa in relazione a sé dobbiamo intendere un senso lato, metaforico, retorico, del concetto: tutto questo lievito di pensieri in “A birthday present” troverà un approdo in “Edge”5. Cosicché quando si parla di suicidio al v. 15 o di morte nei vv. 56-57, ella sta dicendo qualcosa che è da comprendere nell’ottica illustrata, che inquadra e illumina lo stato di sconforto della poetessa a vantaggio di una migliore lettura del suo animo. Lei non ammira «death» in quan-to radicale conclusione-di-tutto, ma in quanto via mirante a oltrepassare il feno-menico («its timeless eyes»): fuori-del-tempo è quel frutto che lei vuol cogliere.

È questo il regalo di compleanno di cui discute. Il coltello del v. 60 è rivolto al velo, non verso Sylvia. E inoltre nel conclusivo v. 62 non c’è allusione a Gesù crocifisso: il movimento descritto scorre all’esterno: l’universo (fenomenico) si di-stacca, non fuoriesce. Il coltello separa, non provoca fuoruscita. La Plath aveva compreso, secondo un insegnamento di Jung, che ci sono problemi i quali non è possibile risolvere dal loro interno. E la realtà empirica è la madre-di-tutti-i-problemi. Pertanto al fine di una risoluzione si scopre necessaria un’uscita da quelle torbide acque e il porsi al di sopra di esse, in un punto di più quieta osser-vazione. Tale l’orizzonte offerto da “A birthday present”.

Sylvia non vuole morire-per-farla-finita, vuole in termini poetici morire-per-rinascere (si veda “Lady Lazarus”). Nei suoi casi reali di (tentato/effettivo) suicidio la poesia ha invaso la realtà in maniera inopportuna, spinta dal disagio

5 Nell’altra mia opera di critica plathiana parlo di “Edge” alle pagg. 14-15.

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che quest’ultima provoca nella poetessa: ci troviamo di fronte a quelle circostanze un meccanismo misterioso il quale ha funzionato, ai nostri occhi, non bene. Co-munque non è stata la poesia a voler male l’autrice bostoniana, anzi il contrario: era un suo strumento di crescita, recupero e salvezza (come ho spiegato nel mio precedente saggio). La realtà fenomenica ha un’impronta negativa (le varie sfuma-ture e sfaccettature del male) poiché essa è per struttura stabilita così. Il mondo empirico è il luogo dove l’anima compie la sua esperienza (formativa) del “limite” (peras, edge: si veda la mia analisi della plathiana lirica “Edge”). A parere di He-gel la Natura è Spirito fuori di Sé, momento negativo razionale dell’Assoluto.

Pur non accogliendo il suo impianto generale idealistico, interpreto e pongo il mondo fenomenico sotto tale categoria concettuale di “negativo razionale”: la Natura matrigna leopardiana. La quale è l’archetipo junghiano di Grande madre negativa, che ricorre nella scrittura della Plath. L’anima individuale preesiste alla realtà empirica in una sua fase tetico-astratta, potenziale: mirante a raggiungere la compiutezza, la perfezione, deve superare la sua posizione di forma vaga e inde-finita, passando attraverso un’esperienza del “limite” nel contenitore del “negati-vo razionale”, dove il suo obiettivo è conseguire una maturità allo scopo di rina-scere nell’area del positivo razionale.

Tutto ciò che si appalesa sotto la categoria di male ha un valore pedagogico e ontologico nei confronti dell’anima: esso serve a forgiarla (si veda la 23ma strofa di “Lady Lazarus”), a trarla fuori dal suo status di indefinito, a darle un contenuto per la sua evoluzione, perché l’indefinito connotantela nel tetico-astratto la fa ri-specchiare in un narcisistico isolato desiderio (brama) di infinito, che il vero male ontologico dell’anima. Questa inizia così il suo percorso giacché il suo destino è imparare a “essere”, inteso anche nel senso frommiano e non solo in una schietta accezione di maturità e compiutezza ontologica. Essa ha l’obiettivo di realizzarsi in forma di libera attività nel suo ambito, a imitazione di Dio.

È il mondo del negativo razionale che cerca di imporre all’anima lo status esistenziale frommiano dell’“avere”, il quale non è la via giusta nella crescita per-sonale. Chi cade o si tuffa in questo vortice non raggiungerà alla sua morte lo spa-zio del “positivo razionale”. L’essere-nel-mondo equivale a trovarsi nel grembo di una Grande madre, che, benché in prevalenza negativa, non ha la prospettiva leo-pardiana. Disagio, malattia, morte, sono esperienze necessarie: non tanto indivi-dualmente, a eccezione dell’ultima, quanto meno per la visione di apprendimento.

La morte, rammentando Heidegger, è sempre la propria morte, e nessuno può sostituirsi al morire di un altro. Riguardo alla scoperta del male nel mondo pensiamo al significativo racconto della storia di Siddhartha. Però anche il Buddi-smo, seguito negli esiti formali da Leopardi, ha sbagliato a caricare la realtà di un eccessivo peso negativo. Il fenomenico ha sì questo limite nell’esistenza del male, tuttavia nel modo in cui sosteneva Fichte nel suo idealismo (che tratto con il crite-

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rio citato su a proposito dell’Hegelismo) la meta dell’uomo è di protendersi sotto il profilo pratico al fine di spostarlo il più lontano possibile. E se avrà lavorato be-ne lo oltrepasserà sul serio alla sua morte: l’etica autonoma kantiana del dovere è lo strumento adeguato. Intendo il soggetto umano (l’anima) alla maniera di Berke-ley, Kant e Schopenhauer: pertanto se una realtà empirica esiste è solo in relazione a un Io individuale, spirituale, che attraversa la sua esperienza del e nel negativo razionale. Da questo contenitore Dio si allontana, come pensava Simone Weil, ab-bandonandolo alla sua meccanica di necessità. La libertà umana dirige il confronto fenomenico e determina il destino dell’anima. Aveva ragione Platone a immagina-re l’anima preesistente al suo ingresso empirico, il che fa capire meglio il momento di posizione tetico-astratto nella sua dialettica di elevazione verso la maturità (una junghiana, e poi metafisica, individuazione del Sé). Il male esiste solo nella Grande madre negativa6, il cui grembo si risolve nel sistema di relazioni umane, empiri-che, intersoggettive.

La morte individuale è rinascita al positivo razionale, a una realtà non spa-ziotemporale di beatitudine a beneficio di chi ha meritato ciò (quello che potrem-mo definire “paradiso” o grembo di una Grande madre positiva). Per chi non se ne è reso degno basta prevedere la reincarnazione: non c’è bisogno di un purgato-rio separato (un inutile doppione), né tanto meno di un inferno eterno (obiettivo dell’anima è crescere e formarsi nel giusto senso, ricadendo nel mondo fenomeni-co sin quando non sarà riuscita a liberarsi).

Parlare dunque della caduta dell’anima nel cosmo fenomenico è dunque un errore: l’anima si incarna dal momento tetico-astratto mirando a formarsi, non ca-de a causa di una colpa originaria, se mai si reincarna perché non è riuscita a meri-tare il paradiso. Si incarna, scissa dalla sua indefinitezza androginica, in un genere sessuale, e inizia quello che dovrebbe essere il suo processo di individuazione junghiano (con la pertinente specifica dialettica psicologica “anima/animus” di cui ha trattato Jung). Quindi anche il problema della cosiddetta “caduta” e quello connesso della “colpa originaria” si rivelano pseudoproblemi in cui sono incappati Platone e i neoplatonici (pensiamo a Plotino), e i Giudeocristiani.

Dice bene Simone Weil che Dio si allontana dall’universo empirico: questo è troppo impastato di negativo per potergli stare vicino senza aver voglia di ri-strutturarlo, però la Grande madre negativa è necessaria all’uomo e a Dio stesso (è la sua esperienza ontologica di perfezione: Dio non può disconoscere il male se vuole costituirsi in qualità di Bene Supremo, corrispondente al sommo archetipo androginico junghiano). Dio crea le anime di cui sopra in quanto ciò è suo motivo di felicità, la quale è il destino di ogni singola anima che ha superato il “negativo razionale” (imitando Dio). Dio produce le anime, non crea dal nulla: il divino e le

6 Si vedano le mie analisi delle liriche plathiane “Perseus” e “Three women”.

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anime così come non nascono dal nulla non periscono: la morte è un’illusione. L’idea di una divinità la quale muore e risorge è legata all’esistenza di disagio nel cosmo empirico, dalla paura dell’ignoto e della sofferenza, e dal desiderio di “op-pio marxiano” (si veda la plathiana poesia “Mystic”): certe favole religiose sono veri e propri antidepressivi, ma anche nefaste costruzioni nevrotiche. Nevrosi, de-pressione e ignoranza sono i tratti che distinguono la “cosiddetta normalità” di chi ha scelto la via del pascaliano “divertissement”: la distrazione da un senso e da una autentica pratica di vita umana. Tale condotta offre solo il lato animale dell’uomo: una bestia in un gregge guidata da più scaltri pastori. Dio anima momento tetico-astratto

crea

zion

e

momento negativo razionale

morte d

ecre

azio

ne

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liana

)

momento positivo razionale

realtà fenomenica

realtà noumenica

Grande madre negativa

Grande madre positiva

esperienza del limite

Jung considera l’inconscio collettivo un magmatico soggetto privo di una personale coscienza: il riferimento a un “io” dei suoi contenuti può avvenire solo nell’essere umano: il Dio junghiano è un po’ hegeliano, prende coscienza nelle sue creature più nobili (il che sarebbe l’intento stesso della produzione di un univer-so). Quando Simone Weil tratta di “impersonalità di Dio” mette in evidenza que-sta serie di manifestazioni e apparenze divine: indica chi può entrare in rapporto con Dio senza avere consapevolezza di poter trovarsi dinanzi a un Ente autoco-sciente e intelligente, e si comporta proprio come se avesse davanti l’inconscio col-lettivo. Dio tuttavia non agisce in maniera positivamente universale nella storia dell’uomo: non si può parlare di Provvidenza globale, semmai di una vichiana “storia ideale eterna” a cui tendere.

È, di solito, l’uomo libero l’artefice del suo destino. Riguardo a Dio sono propenso in direzione di una via intermedia tra Carl Gustav Jung e Ernst Ber-nhard (studioso junghiano), via in cui l’idea weiliana dell’allontanamento divino dal creato consente di conciliare la presenza di un divino personale e di un incon-

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scio collettivo che assume il ruolo di cosmo noetico della psiche individuale e del suo sistema di interrelazioni. Ho considerato sempre valido l’argomento ontologi-co di Anselmo d’Aosta: all’essere perfetto, in aggiunta all’esistenza, non può man-care un’intelligenza cosciente. Rimango distante però dalla visione religiosa di Bernhard (propenso a idealizzare Ebraismo e Cristianesimo in forme non perti-nenti alle loro reali radici storiche7). 7. “FULL FATHOM FIVE”

“Full fathom five” è una poesia plathiana dell’inizio del ’58: a quell’epoca, e ai me-si passati, risale la particolare prassi di Sylvia di trarre spunto da opere pittoriche (di Henri Rousseau, Klee e De Chirico) nella redazione di alcuni suoi componi-menti. Il caso della lirica in esame non offre un filo diretto con Frida Kahlo ma i suoi contenuti, mi presentano l’occasione di un appropriato accostamento con un dipinto kahloista: “Lo que el agua me dio”, datato 1938.

A prescindere dalla dichiarazione che la Plath fa nel suo diario l’11 maggio ’58 riguardo all’acqua in funzione di metafora dell’inconscio, mi era già parso chiaro questo orizzonte di significazione poiché trattando di Frida Kahlo avevo rilevato il valore di questo simbolo attraverso il confronto del suo quadro testé menzionato e di una mia poesia.

Pertanto il fatto che l’acqua sia l’immagine dell’inconscio, inteso da me nell’accezione junghiana, dà la chiave di lettura precisa sia dell’opera kahloista (in cui si notano vari complessi della psiche affiorati a galla nella vasca da bagno dove si trova la pittrice messicana) sia di questo componimento plathiano. E a proposito di vasca da bagno voglio ricordare quanto affermai in merito a tale rappresenta-zione in relazione a Esther Greenwood in “The bell jar”: essa è il grembo della Grande madre positiva dove rifugiarsi al riparo del mondo (che Frida Kahlo con-templa nel suo dipinto con quiete, di fronte ai propri complessi junghiani).

La situazione nella Plath è più movimentata e inquieta; però il suo esplicito richiamarsi all’Ariel shakespeariano8, ossia a quello che ho spiegato nell’altra mo-

7 In merito a tale divergenza di valutazioni invito alla lettura del saggio “Erme-neutica religiosa weiliana (2013)”, e di altri studi (“Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi”, “L’origine ideologica del Cristianesimo”, etc.) presenti all’interno di altri miei lavori saggistici: “Considerazioni letterarie (2014)”, “Con-siderazioni critiche (2014)”, “Note di studio (2016)”. 8 “The tempest”, atto I scena II: «A una decina di metri [full fathom five: alla lette-ra, a ben cinque braccia; n.d.r.] tuo padre giace; le sue ossa sono trasformate in co-

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nografia essere il suo animus junghiano positivo, dimostra una capacità di trattazio-ne del complesso paterno. Infatti nel diario, nel giorno citato sopra, la scrittrice di Boston parlava di un complesso non nocivo grazie alla figura del marito (in quelle modalità, in precedenza esposte da me, durante la fase non traumatica del suo matrimonio con Ted Hughes).

Tale complesso paterno plathiano riaffiora allorché il livello di guardia inte-riore è basso (vv. 1-4), e il di esso potere di condizionamento poi è diffuso (vv. 4-11). «L’antico mito delle origini / inimmaginabile...» fa pensare alla cosmogonia egizia9 dove dal disordine delle acque, costituente la Grande madre poi identifica-ta con Iside, viene fuori il mondo al di qua del velo isiaco.

Queste acque del mito hanno una duplice valenza semantica: una psicolo-gica junghiana (e si riferiscono all’inconscio collettivo), e una ontologica (che allu-de alla cosmogonia e all’antica sapienza accennate). Il complesso paterno di Sylvia si manifesta alla sua coscienza a guisa di un iceberg provenuto da una zona oscura (della psiche), e quindi non si mostra rassicurante, anzi minaccioso (vv. 11-16). Nonostante ciò – in quella fase esistenziale in cui la poetessa bostoniana scrisse “Full fathom five” – tenendolo d’occhio e trattandolo con adeguatezza ella riesce a disinnescare il di esso meccanismo eversivo nei confronti del suo equilibrio inte-riore (vv. 16-20): «l’alba/albedo alchemico-junghiana (dawn)» risolve il «groviglio (ravel)» affettivo negativo di questa struttura psichica. Il ricordo della morte del padre da parte di Sylvia è evanescente, e il ripresentarsi del suo complesso alla di lei mente in modo intenso ne mette in dubbio la scomparsa (vv. 21-24). Lo sgrade-vole mostrarsi di siffatto complesso va a scontrarsi con la vita del mondo empirico (vv. 25-26), la quale si proietta a sua volta sull’inconscio (vv. 27-29). Quest’urto, nella sua impetuosa dinamica, può far crollare agli occhi della scrittrice americana il confine tra mondo fenomenico e metasensibile (vv. 29-32). Il v. 33 è molto dante-sco: «waist dawn [(dalla) cintola in giù; n.d.r.]» ha uno speculare «da la cintola in sù» nel v. 33 del X canto dell’“Inferno” (qui si dice del fiero eretico Farinata degli Uberti, paragonabile a Otto Plath; il personaggio della “Divina Commedia” ha pu-re in veste di contraltare Cavalcante dei Cavalcanti, un padre ammiratore del fi-glio poeta Guido, mentre “Farinata / Otto Plath” ha avuto solo viva passione ver-so i personali interessi); «you may wind [tu hai il potere di avvolgere; n.d.r.]», il resto del v. 33, ricorda invece il v. 6 del V canto dell’“Inferno” (Minosse «giudica e manda secondo ch’avvinghia»).

rallo; / ciò che erano i suoi occhi sono quelle perle; / niente di lui si dilegua / ma subisce un mutamento marino [sea-change; n.d.r.] / in qualcosa di ricco e strano». 9 In relazione a questo tema suggerisco la lettura del mio studio intitolato “Radici egizie”, contenuto nell’opera “Danilo Caruso, Ermeneutica religiosa weiliana (2013)”.

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Minaccioso e misterioso, il complesso paterno, vuole al pari di Minosse a Dante, a Sylvia «impedir lo suo fatale andare» nel processo di individuazione del Sé (vv. 33-38). Le «domande (questions)», che questa sfida e a cui resiste, sono re-lative al libero passaggio rivendicato dalla poetessa, e lo stesso atteggiamento esso mostra nei riguardi de «l’altra divinità [goodhood indica condizione divina, non personificazione; n.d.r.]» la quale è costituita dal resto dell’inconscio e che è la Grande madre. Per questo motivo Sylvia si è sentita emarginata in uno stato di di-sagio (vv. 41-42), prodotto da quell’inquietante complesso (v. 43).

Lo «shelled bed [letteralmente: letto a forma di conchiglia; n.d.r.]» è la bara di Otto Plath, la «pesante aria omicida» del v. 44 localizza la dimensione fenome-nica quotidiana dell’esistenza in cui, e a causa di cui, l’autrice vive il suo malesse-re. L’acqua che vorrebbe respirare non è indicativa di una volontà suicida, l’acqua ci rinvia al piano della Grande madre: la Plath vuol dire che desidera superare l’ostacolo allo scopo di introdursi in un livello superiore di crescita, alla volta del proprio junghiano Sé. Quest’acqua è come il liquido amniotico in relazione al feto nella fase di gestazione prenatale, quel grembo è quello della Grande madre: è un luogo dove nessuno muore, soffre, separato-dal-mondo-sensibile.

I due complessi condizionanti la vita della Plath sono quello materno e quello paterno. Dalla dialettica fra di loro, e dal confronto con essa della poetes-sa scaturisce l’insieme magmatico che ha pervaso la sua anima. Nelle annotazioni del diario, all’11 maggio ’58, Sylvia parla pure di un padre (il suo) che muore e risorge in Ted Hughes. Ho chiarito nella mia menzionata monografia queste dinamiche junghiane “anima (plathiana) / animus”.

Qui voglio puntualizzare che il complesso paterno in lei ha cercato di scac-ciare la Grande madre negativa, senza riuscirci di per sé: se la Plath è riuscita in seguito a raggiungere una maturità di controllo e gestione psichica personale più alta, sarà perché avrà posto sui due complessi (negativi) la sua mano ferma, e non perché uno dei due ha prevalso sull’altro presentandosi vincitore agli occhi di lei. In ultima istanza è la scrittrice di Boston a sottometterli, raggiungendo il Sé.

Nel periodo in cui elabora “Full fathom five” il complesso paterno mira a cancellare e assorbire la Grande madre, a sembrare esso il “creatore”, il Dio: ed ec-co un altro lato, sempre non freudiano, di quell’essere di Sylvia figlia-di-Dio. Que-sto tentato colpo di mano del complesso del padre assume connotazioni maschili-stiche bibliche, e mitologiche egizie.

Il padre è un Osiride usurpante la Grande madre. Egli appare un «sea-father Neptune», un Dio che risorge dalla morte (imitando in ciò Cristo), ricompa-rente nelle vesti di Hughes. La Grande madre tuttavia non scompare, è Iside, è co-lei che la poetessa vorrebbe assurgere a essere: una Grande madre, la quale, se in virtù del suo statuto è superiore, qui si trova in posizione di subordine. La cosa è complicata: se lei dà a Ted il ruolo di un compagno in una coppia divina, Hughes,

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definito «mate (compagno, aiuto, assistente)» sembra scadere all’inizio al livello di un equivalente di Eva (prodotta dall’androgino Adamo, mediante scissione, al fine di essergli di sostegno10).

Quando la Grande madre riprende il sopravvento, lei si trova a disagio di-sorientata (paragonabile alla Maddalena al sepolcro di Gesù), poiché è la faccia negativa a mostrarsele. La Plath cade nella depressiva dimensione dell’olocausto, e si definisce Ebrea (vittima). In “Full fathom five” è però ancora il complesso pa-terno a spingerla contro la Grande madre: il primo vorrebbe distruggere questa del tutto, ma l’autrice americana si renderà conto che ciò non è né lecito né possi-bile. Comunque qui ha voglia di raggiungere quello spazio che «dalla sabbia on-nipresente del dolore e dalla monotona abitudine meccanica [brano dal diario cita-to; n.d.r.]» tira fuori qualcosa di positivo («pearls sea-changed»: perle menzionate da Sylvia nel diario e anche da Ariel come visto).

La dialettica junghiana “anima/animus” in Sylvia Plath si caratterizza nei panni di una dialettica tra il complesso materno e quello paterno, i quali cercano di prendere il sopravvento l’uno sull’altro e sulla poetessa. Tutte queste dinamiche interiori sono state materia trattata nella mia opera precedente.

complesso materno

complesso paterno

anima animus

Iside Grande madre +

Madonna [Sophia]

[Ted I] Perseo

Ariel Osiride

Grande madre - Medusa (Maya)

Otto Plath [Ted II]

Cristo

Questo schema offre una mappa sinottica del mio impianto analitico e dei suoi ri-sultati: la cosa che si nota, non solo attraverso di esso, è che l’elaborazione plathia-na in “Full fathom five” e nei testi che richiama per analogie tematiche, ha ancora un piede nella sfera negativa. Sembrerebbe paradossale dirlo, ma, sulla base di quanto mi è dato osservare, il venir meno di Ted Hughes presso la Plath sarà la causa di una sua notevolissima crescita in quanto la mancata alimentazione del circuito (su illustrato) farà spegnere la vis negativa dei due complessi. Non più

10 A proposito di questo argomento invito a leggere una mia analisi (“Antropogo-nia e androginia nel Simposio e nella Genesi”) inserita nel saggio “Danilo Caruso, Considerazioni letterarie (2014)”.

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immersa nell’“ipocrisia matrimoniale” sarà libera di raggiungere il Sé junghiano, lasciandosi alle spalle i due mostri della psiche: cosicché la Grande madre si rivelerà positiva e lei potrà riflettervisi (si veda “Edge”).

psiche plathiana complesso materno complesso paterno individuazione del Sé Sylvia animus anima

Nel cammino esistenziale di Sylvia il suo complesso paterno grava sopra la sua relazione col proprio animus (su cui quello si innerva a guisa di un vampiro), men-tre l’altro complesso materno opera a un livello superiore a quello della junghiana individuazione del Sé. I due complessi sono in competizione fra loro nel campo psichico plathiano in vista del predominio, però il primo avrà la peggio nei con-fronti del secondo e di Sylvia (si veda ad esempio “Daddy”). La poetessa riuscirà all’ultimo a prevalere anche sull’ostilità del complesso materno nel completamen-to della sua parabola formativa. 8. “I AM VERTICAL”

“I am vertical”, lirica plathiana del 28 marzo ’61, è una poesia che può suscitare a primo impatto l’impressione di un auspicio di morte verso di sé della scrittrice. Un’attenta lettura smentisce tutto ciò e fa trasparire come non ci sia una vocazione all’autodistruzione, bensì un positivo desiderio di crescita spirituale, di armonia col mondo, sebbene frustrato, il che dà al lettore superficiale quella parvenza ne-gativa (il risultato di una fuorviante interpretazione del testo).

Tutta la lirica ruota attorno al «motherly» del v. 3: può essere aggettivo (materno), oppure avverbio (maternamente), o anche – secondo me – mantenere entrambi i livelli semantici di un ingegnosissimo e raffinatissimo gioco linguistico strutturato sull’ambiguità di lettura. Io credo che la Plath voglia dire due cose allo stesso tempo in questo verso: 1) ella è insoddisfatta di sua madre (livello semanti-co dell’aggettivo), e inoltre, poiché sopra di lei si proietta quest’egida negativa dell’archetipo junghiano della Grande madre, si sente a sua volta delusa nella sua veste materna (livello semantico dell’avverbio). In parole povere è «verticale» schiacciata dentro una morsa. L’«essere orizzontale» non è la posizione del morto:

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l’autrice, più avanti al v. 17, ribadisce che questo «giacere giù» è per lei «più natu-rale». «Lying dawn» è un calco di “lying-in”: degenza delle partorienti in clinica. E inoltre “lying in hospital” indica la clinica ginecologica. “I am vertical” ruota at-torno al tema della “maternità”, inteso in ampi sensi: 1) l’avere una madre di Sylvia, 2) il suo stesso essere una mamma; e il tutto è contenuto nella Grande ma-dre fenomenica con cui la poetessa si relaziona e si confronta (ne sono esempi i due casi testé citati). L’«albero» del v. 2 è il cosmo empirico, nel quale ella si tro-va a disagio (vv. 4-10).

Lei lamenta il fatto di non essere stata posta nelle migliori condizioni esi-stenziali (v. 4) e di non ricevere la meritata attenzione (vv. 5-6: gli «Ahs» sono inte-riezioni di compassione). Lo «unknowing» all’inizio del v. 7 non ha senso riferirlo alla scrittrice: è assurdo dire che non sa una cosa affermata subito dopo. Mentre assume un senso preciso allorché collegato ai soggetti degli «Ahs»: costoro igno-rano che la Plath non sarà sempre di persona petalosa davanti a loro; stanno cioè perdendo l’opportunità offerta del contatto in vita, giacché nessuno vive in eterno come «l’albero» cosmico (v. 8). Una persona comune («flore-head») non è migliore di lei («tall»), potrà tutt’al più essere appariscente, dare nell’occhio, ingannare.

La poetessa bostoniana sottolinea altresì con ironia che le mancano un tem-po considerevole allo scopo di cercare di rimettere le cose a posto e la temerarietà dei mediocri (v. 10). La vita appare a Sylvia una notte-nigredo («tonight») illumi-nata dagli archetipi junghiani («stars»), una notte in cui rientrano i vari mondi-epoche e le persone («trees and flowers»). Si veda a quest’ultimo riguardo la mia spiegazione della concezione plathiana della storia in qualità di dialettica interna della Grande madre. E lei passa in modo ingiusto inosservata: in questi vv. 11-13 c’è un che di Gv 1,5.11 a testimoniare qui agente nella riflessione poetica di Sylvia l’animus-Cristo, che è il promotore di un fraintendimento generale sul reale oriz-zonte di questa lirica (cosa già sopra spiegata, e nella quale non è difficile incappa-re). Nei vv. 14-16 la Plath chiarisce che il sonno dogmatico (della ragione) è la prero-gativa dei mediocri, di chi vuol restare asservito nell’ignoranza.

Ma non è il suo caso: lei non è un’idiota «verticale»; a lei si addice la posi-zione della partoriente (della Grande madre positiva), ossia quella «orizzontale». La morte (dell’anima) sta nella verticalità, la vita invece risiede nell’orizzontalità. Ed è in questo secondo momento che l’autrice bostoniana e il cielo (al di là del quale sta l’iperuranio) si trovano faccia a faccia (v. 18): l’architettura concettuale di tutto ciò è analoga a quella del platonico mito della caverna. Avvicinandosi, quin-di, ella al modello orizzontale, positivo di una Grande madre, può perciò sostene-re di poter «essere utile», a sé e agli altri, i quali nella sua superiorità potranno trovare più una risorsa che non spunto di ostilità (vv. 19-20).

“I am vertical” è uno sprone a non sprecare le nostre vite, a sfuggire da tutti gli adescamenti che allontanano l’essere umano dal realizzare la sua individua-

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zione dentro alla realtà in cui vive, e a non lasciarsi passare innanzitutto il mondo addosso a guisa di una bestia da soma. Il verbo to suck up utilizzato al v. 3 vuol di-re nello slang fare il leccapiedi: penso che anche qui la Plath faccia delle allusioni al successo (effimero) dei mediocri, i quali alla fin fine nella loro audacia (v. 9) si tramutano in collaboratori della junghiana “ombra” a scapito di un migliore be-nessere collettivo. 9. “DIALOGUE OVER OUIJA BOARD”

Il “Dialogue over ouija board” del ’57 è uno dei più bei componimenti plathiani, esso sta alla Plath come “La ginestra” a Leopardi o il carme “Dei sepolcri” a Fosco-lo. Va letto alla maniera platonica allo scopo di scoprire il significato che si cela dietro le sue figurate parole. E dunque saremo in grado di cogliere la plathiana dialettica “anima/animus” al di là delle interazioni tra le maschere protagoniste.

Sibyl rappresenta l’anima (junghiana) della poetessa, Leroy e Pan sono quelle forme di animus (junghiano) che Sylvia ha prima individuato nel padre, e poi in Ted Hughes (la figura del marito che avrebbe dovuto scacciare la prima, in-combente sul cielo esistenziale della scrittrice in modo sinistro e concorrente ri-spetto alla Grande madre negativa, la quale in questo dialogo rimane fuori, taglia-ta dalla preponderanza di queste due forme di animus). L’insicurezza iniziale di Sibyl, che Leroy cerca di disinnescare, è l’espressione di un processo di individua-zione junghiano ancora aperto e con i suoi problemi. Sylvia Plath rivela anche il suo scetticismo sulla durata dell’amore con Ted. Quando ai vv. 1-3 della strofa 9 dice: «immagino che quando siamo / fuori di esso [amore; n.d.r.] ci sarà tempo e abbondanza per noi / di corteggiare il rimorso. O qualcun altro.», vede già qual-cosa di Hughes che lei vuol rimuovere pro bono – pro tempore – pacis animae.

Molto profonda, molto espressiva l’autrice ai successivi vv. 5-6: «Io consi-dero / meno temibile il mondo dell’aldilà che il nostro». E di una simile idea ho già parlato nelle mie analisi. Leroy, alter ego, nella realtà sub specie di Ted (pseu-dopositivo animus), del complesso paterno (tendente a identificarsi radicalmente, in una prima fase di vita della Plath, col termine per lei polare dell’animus) cerca di rassicurarla in modo ambiguo inducendola a credere nell’esistenza di un «in-ferno» oltremondano come una delle dimensioni di provenienza di Pan (il com-plesso paterno vero e proprio).

Non c’è letterale evocazione di uno spirito nel “Dialogue…”, c’è sottile tra-ma psicoanalitica: si sta discutendo di dinamiche psicologiche, una soggettiva (quella della poetessa) e una intersoggettiva (o possiamo anche definirla collettiva, dove l’inconscio minaccia l’io che duella con l’“ombra junghiana”, riproponentesi con l’abito infernale). L’interrogare Pan sulla vita ultraterrena e sulla sorte del geni-

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tore ha per la scrittrice di Boston pure un significato metafisico che tocca il dialogo in più punti. Si veda, oltre al chiedere sul destino dell’anima, la detta miscredenza di un inferno metasensibile. Si combina in questi casi una schietta materia psicolo-gica con temi filosofici, il che non è contraddittorio o d’intralcio in una costruzio-ne, e nella sua lettura, junghiana.

Allorché nella strofa 20 al v. 6 la Plath definisce Pan «psychic bastard» (si veda il riutilizzo del secondo termine in “Daddy”) mostra con chiarezza il fatto che sta parlando della sua relazione “anima/animus” in rapporto al complesso paterno, cui aggiunge l’indicazione di una (pseudo)sizigia alchemico-junghiana denotata dal parlare di «nozze (wedding)» nel verso successivo. In queste strofe 20 e 21 viene esternato il disappunto plathiano sul frutto di questa “coniunctio”, la quale sovrappone nel processo di individuazione della scrittrice il nuovo animus hughesiano sul precedente a impronta del complesso paterno. Questo però non è stato rimpiazzato in simile contesto del tutto poiché il nuovo animus non è in toto positivo, a causa di difetti di Ted e perché costui ha natura ambigua nell’essere un sostituto paterno che non riesce a portare un’originalità definitivamente risanatri-ce (questa coabitazione non tanto facile è evidente tra le strofe 26 e 27, e nella 38). Questi fattori insani sono tematizzati nel “Dialogue…”, ma come già detto subito dopo sotterrati a difesa di un momentaneo equilibrio che lo stesso Hughes poi spingerà con la sua pessima condotta in altre direzioni. A posteriori Leroy appare un ipocrita. Un’altra cosa che si nota in questa opera plathiana è l’attingere imma-gini dalla tradizione ebraica (strofe 23, 25 v. 3, 29 v. 6).

Non si rivela curiosa, anzi tutt’altro, l’attribuzione, nella strofa 24 di un fat-tore di razionalità a Leroy giacché la componente del logos corrisponderebbe al lato psichico soggettivo dell’animus: è Sylvia in questa tensione a mostrarsi più razionalizzante della sua controparte narrativa, la cui irrazionalità è più ipocrisia.

I primi tre versi della strofa 31 ricordano il fenomenismo di Prospero da “The tempest”11. La Plath fa dire a Leroy di Pan, l’“animus/complesso paterno”, paragonato a un vampiro alla fine della strofa 37, all’inizio, una verità obiettiva (te-rapeutica): «è buono / a sondare sillabe che noi non abbiamo ancora / portato alla luce in noi stessi». In parole povere costui è un termine di sprone psicologico.

Le strofe 41 e 42 sono centrali nell’evoluzione di tali dinamiche. Viene a gal-la una disarmonia triangolare “Sylvia / il padre / Ted”, a cui quest’ultimo vor-rebbe replicare candidandosi come fattore di una albedo alchemico-junghiana prontamente da lei smentita, la quale vorrebbe smarcarsi dal complesso paterno. Un circolo vizioso questo confronto delle due forme di animus “Ted / il padre”, al momento, in Sylvia Plath: il primo ha bisogno del secondo per offrirsi come alter ego, mentre il secondo ha bisogno del primo per reincarnarsi, e tutti e due sono

11 V. nota 3.

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legati da vicendevole rapporto di appoggio con la poetessa. Ma lei vuol voltare pagina, chiudere con simili meccanismi che le generano disagio, perciò nella strofa 43 rompe il bicchiere, figurato medium paterno diretto: è questo il significato del so-gno ricordato da ella poco dopo.

La percezione plathiana delle macerie di una nigredo è contenuta nella stro-fa 45, dove altresì lo spettro dell’ombra junghiana è in maniera inequivocabile ri-portato («shadow»). La strofa 46 rappresenta un punto di vista analitico hughesia-no: egli stesso (Leroy) rimane turbato dalla sua rivalità coll’analogo animus pater-no plathiano, sino al punto di cogliere lo smarrimento di Sylvia. La strofa 47 parla del processo di individuazione della Plath: «l’immagine di te [the image of you; n.d.r.]» è l’animus che attraversa le vicende su descritte. Anche Ted Hughes vive-va un siffatto cammino psichico, come del resto ogni essere umano; e infatti Leroy confessa di nuovo il suo trauma maturato nel confronto col complesso paterno plathiano: ma la volontà di Sylvia di allontanarsene, alla fine, gli giova pure in questo scontro di lui con quello. Cosicché lei può proclamare una sizigia.

L’archetipo della Grande madre positiva e il blu alchemico compaiono nella strofa 49, benché la prima non abbia giocato nessun ruolo in precedenza nel dialo-go. La razionalità di Leroy adesso si fa trascinare dalla femminilità di Sibyl. Comple-tata questa prima analisi testuale, un ulteriore esame dei nomi attribuiti ai tre pro-tagonisti del “Dialogue…” apre le porte di un significativo approfondimento. Cominciamo da Pan, il quale rivela un’ascendenza plutarchiana. Plutarco fu auto-re di un dialogo sugli oracoli delle divinità pagane che vengono a mancare nel momento in cui il Cristianesimo lievitando comincia a estromettere le tradizionali pratiche religiose. Il Pan plutarchiano è un essere mortale (un demone) poiché fi-glio di una divinità (Ermete) e di una donna.

La prima tangenza Plutarco-Plath rientra nel merito di un oracolo difettoso: il Pan plathiano, oltre che irriverente, è impreciso nelle sue predizioni. La seconda tangenza trova la sua motivazione nell’origine egizia del culto panico, che costeg-gia, imita e si inserisce in quello di Osiride, la tradizione di un Dio che muore e risorge appartenente a un più vasto campo di credenze diffuse. Il totalitarismo sincretistico cristiano avrà pure modo di schiacciare Pan (“buon pastore”) sulla figura di Gesù (si vedano i casi letterari di Rabelais, Spenser e Milton). Il Pan di Sylvia è dunque l’evoluzione, una maschera scenica, di quel che, nel mio saggio precedente, ho definito “animus-Cristo”, il quale nel “Dialogue…” mostra la sua dialettica con quell’altro “animus Perseo”, che qui è Leroy (ossia Ted Hughes, the hero, heroic). Il nome Sibyl ha una forte impronta wildiana: non voglio dire che sia profezia di suicidio a causa di un eroe ambiguo, ma che si tratti dell’espressione del disagio plathiano. Dorian Gray peraltro è uno che non invecchia, e un procla-ma di questa sostanza sarà fatto nel (e dal) “Gigolò” della Plath (la cui mia analisi

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invito a leggere nell’altra monografia: qui mi limito a dire l’essenziale, e cioè che il “gigolò / Dorian Gray” è l’ormai conclamato fedifrago Hughes).

10. “TOTEM” E “BRASILIA”

In “Totem”, poesia plathiana del 28 gennaio ’63, il mondo fenomenico è visto co-me un feticcio, falso idolo di sprovveduti esseri che non differiscono dagli animali (v. 5). Il loro meccanico ossequio a cicliche bestiali forme alla base dell’agire quo-tidiano converte ognuno in un sacrificabile (e sacrificato come apparirà nel finale) Isacco, un soggetto contento e gabbato nella sua arida piccolezza: la sorte della le-pre sarà la sua. La coppia “Platone/Cristo” (vv. 15-16) denota gli estremi della struttura bipolare dell’animus junghiano con cui Sylvia si confronta.

Questo rappresenta inizialmente l’altro-da-sé per lei da esperire: il mangia-re la lepre indica lo scoprire il mondo. Esso allora le appare ingannevole (vv. 18-19), costruito su una speculazione falsa («serpente simulato») inerente al meccani-cismo riprodotto a «bacchetta [di direttore d’orchestra]». I vv. 20-27 mi danno tut-ta l’impressione di essere un’allegoria negativa cosmico-sessuale. Il serpente con un occhio solo è un’espressione denotante il membrum virile (ne ho parlato a proposi-to di “Mad girl’s love song” nell’altro saggio12), mentre monte di Venere è una parte anatomica femminile soprastante all’ingresso vaginale (v. 21): l’actus coeundi, da intendersi in senso lato (anche in quello junghiano-alchemico liberatorio, di cui ho detto trattando di “The Bell Jar”13, che può far paura come la Plath dice riguardo a sé nel v. 20), è reso dal v. 22.

Quest’imago del mondo a mo’ di vagina a cielo aperto ha coloritura esteriore evoliana: ci ripropone un mondo in cui il “maschile” (attivo; per Sylvia: animus “Ted/il padre”) prevarica sul femminile (passivo; per Sylvia: la sua anima), ma al contempo testimonia la ricerca (non fruttuosa beninteso in questa maniera) di una dimensione del passato più affidabile e rassicurante di quella moderna.

L’alba, allora, non è universale “albedo”, ma sterile (distopico) flusso me-struale (vv. 23-24): un ciclico, non finalistico, ripetersi invade il cosmo, a ogni livel-lo, e colpisce tutti (vv. 25-28).

La Grande madre negativa (Natura matrigna leopardiana) mostra il suo gorgonico volto nei sublimi versi finali (vv. 29-34). L’inconscio collettivo viene di-pinto con i tratti di un ragno che tesse l’universo fenomenico, il quale alla fine cat-tura i suoi ingenui componenti («bambini blu»), distruggendoli attraverso le sue leggi applicate a «bacchetta [di direttore d’orchestra]». Tali conclusivi versi mi

12 V. pag. 16 13 “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, pag. 30.

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hanno colpito in virtù dell’analogia che essi hanno con una mia lirica intitolata “De anima”. In verità non è l’unica che ho avuto modo di trovare, l’altra riguarda però Frida Kahlo e “Lo que el agua me dio”.

De anima (versi endecasillabi sciolti) L’anima mia è come un lago: molte sono le cose galleggiantevi, il cielo è la maglia di un ragno: il suo fondo rimane insondato.

In “Brasilia”, poesia di Sylvia Plath del primo dicembre ’62, viene tematizzato l’orizzonte utopico/distopico del reale quotidiano.

L’autrice richiamando l’attenzione sull’edificazione della nuova capitale brasiliana ci invita a scorgere la “Boston celeste” dietro alla “Boston terrestre”, l’utopia positiva al di là di quella negativa: dove un oltreuomo («super-people») maturi il senso di un mondo rigenerato, non antiutopico, e costui sia il paladino di un nuovo umanesimo (con parità di genere, diverso da quello evoliano). Sylvia Plath dunque ci appare nella sua grandezza, nell’essere un’oltredonna, una super-woman. Si eleva al rango di una Madonna/Iside, una Grande madre positiva che si contrappone alla negativa (strutturale del fenomenico).

Il pensiero è al piccolo Nicholas, che morirà suicida nel 2009, come se la se-conda parte di “Brasilia” volesse rappresentare un auspicio diverso rispetto a que-sto atto tragico, come se lei sapesse già l’iter di sofferenza che porterà a ciò il figlio paragonato a Gesù (si veda in particolare il riferimento all’«annichilazione della colomba»). Se Sylvia è un’oltredonna, quelle che non lo sono degradano la natura umana (al pari degli uomini simili), e per costoro il “totem” che dà titolo alla lirica precedentemente esaminata assume la foggia di un fallico feticcio in una fallimen-tare sizigia nella quale c’è solo bestialità: essendo compagne di totemici «maiali» la femminile junghiana anima muore, resta solo il fisiologico che se isolato squalifica.

11. IL “DESTINO” DI SYLVIA PLATH

“Destino” è un cortometraggio animato realizzato nel 2003, ma il cui progetto risa-liva al 1945-46, all’iniziativa maturata tra Salvador Dalí e Walt Disney (è stato un nipote di quest’ultimo a riprendere i frutti di quel felice connubio artistico rimasti, prima del suo intervento nel ’99, senza esito conclusivo a causa di questioni di op-

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portunità). Il testo in inglese che accompagna le immagini è di Ray Gilbert (“My destiny in love”), voltura per il cortometraggio di un brano del Messicano Ar-mando Dominguez (“Destino”, da cui scaturì il titolo dell’opera animata).

Questo filmato non ha mai avuto un filo diretto con Sylvia Plath, tuttavia guardato con attenzione si rivela un’allegoria della dialettica junghiana “ani-ma/animus” che calza pressoché alla perfezione al caso della scrittrice di Boston. Sembra una rappresentazione animata del processo di individuazione plathiano, motore della poetica della poetessa bostoniana.

La scena di apertura mostra delle analogie con i temi che ho evidenziato a proposito di “Conversation among the ruins”, la poesia plathiana che si ispira a un dipinto dechirichiano (“Conversazione tra le rovine”)14. La ballerina protagoni-sta del video disneyano rappresenta l’io femminile che va alla ricerca del proprio animus junghiano.

E la piramide che costei si trova di fronte raccoglie una considerevole serie di simboli che rinviano a relativi contenuti del mio precedente saggio dove ho spiegato il loro legame con la Plath. Innanzitutto la piramide raffigura la tetrattide e il mondo fenomenico (quello spaziotemporale) dentro a cui l’autrice di Boston, e ogni altro essere umano, si trova a vivere: una realtà distopica, disagevole per chi ha una comprensione dell’essere di ampiezza maggiore rispetto alla consuetudine quotidiana, dove la vocazione negativa (frommiana) dell’avere non lascia margine di sviluppo positivo all’altra potenzialità di crescita creativa. Questi sono i limiti che hanno imprigionato Sylvia e le persone di talento, rigettate da un sistema che appiattisce le intelligenze (questo è il tema di “The bell jar”).

Scendendo oltre nel dettaglio di “Destino” ritroviamo i due complessi pla-thiani che hanno condizionato la psiche di Sylvia: quello paterno incombente du-rante la fase di ricerca dell’animus (la figura maschile sulla facciata frontale della piramide), e quello materno (la maschera gorgonica, rinviante all’archetipo di Grande madre, in questo caso negativa). Quest’ultimo complesso psichico agiva lungo il cammino di individuazione junghiano su un gradino superiore in con-fronto dell’altro, il quale gli contendeva un primato di attenzione (entrambi, in ogni caso, rimanevano motivi di malessere) presso l’Io plathiano. Quando la dan-zatrice prende e disintegra la piramide inizia il proprio percorso di elevazione nel-la dialettica “anima/animus”, dato che ha superato l’ingannevole facciata del rea-le guardando oltre nel surreale (costellato di tutti quei simboli intravisti non solo dall’analisi junghiana). Il giocatore di baseball rappresenta l’animus, ma subito compare la luna plathiana, guastafeste, simbolo archetipico della Grande madre (ancora negativa). La quale vanifica un approccio immediato, e mette in moto un

14 Mia op. cit., pagg. 27-28.

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cammino dell’anima rappresentato dall’ascesa sopra questo abbozzato corpo femminile posto sopra una torre di Babele). Tale ultimo aspetto richiama alla me-moria il salire dantesco sulle balze del purgatorio.

Il viaggio di Dante è in fin dei conti un viaggio dell’animus verso l’anima (Beatrice) culminante con l’individuazione (la visione di Dio).

Gli occhi alla sommità ricordano il fenomenismo di Arthur Schopenhauer, e precisamente quel passo di “Die welt als wille und vorstellung” dove egli dice che il cosmo è sorto allorché si è aperto un occhio che percepisse l’empirico. Siffatti oc-chi costituiscono anche lo sguardo malevolo sistemico, lo sguardo che dal fondo del-la foresta insegue Sylvia (vedi la mia analisi di “Pursuit”15): tali globi oculari imi-tano le fiere che insidiavano Dante nel I canto dell’“Inferno”.

Rifugiarsi nel cavo di una conchiglia ha quei significati che ho evidenziato riguardo alla ricerca di un rifugio dalla realtà matrigna: la danzatrice, al pari di Sylvia, ambisce a (ri)entrare in un rassicurante grembo materno offerto da una Grande madre positiva. Questo per la Plath studentessa è un momento critico, è quello del tentato suicidio del ’53, da cui risorgerà (Lady Lazarus). La forma d’occhio verso cui cade la ballerina non la risucchia, spoglia dell’equivalente delle P dantesche salta su delle cornette telefoniche (pensiamo alla scoperta della tele-fonata di Assia Wevill al marito fedifrago di Sylvia), le quali cornette si accompa-gnano a un momento di visione dell’animus intrappolato nella piramide (questo rappresenterebbe l’ambiguo Ted Hughes, versione dell’animus in relazione alla Plath legata al nocivo complesso paterno).

Nonostante tutto l’individuazione prosegue per il meglio alla fine, e la dan-zatrice/Sylvia va al di là della campana (pneumatica, si veda quanto ho scritto a tal riguardo su “The bell jar”), una campana fatta di ombra che lei annienta.

L’“ombra” è un concetto junghiano che riassume il negativo della psiche, negativo qui ormai superato. L’armonia interiore si fa danza. E la petalosa Sylvia raggiunge un animus genuino.

Nel corso della scena finale viene ribadito un risalto dato all’ethos spirituale greco antico, familiare a De Chirico e alla Plath, e antitetico alla industrializzata distopica modernità (una testa di Zeus era già apparsa prima).

A conclusione di questo mio secondo saggio di critica plathiana rammento lo spirito con cui è stato applicato qua il mio modello analitico junghiano: esso è stato utilizzato nella lettura di alcuni componimenti di Sylvia Plath scelti, per così dire, a titolo di significativo esempio. Il valore del modello, come avevo in passato affermato, è generale, e offre spazio a possibili nuovi approfondimenti e puntua-lizzazioni.

15 Ibidem, pagg. 17-18

INDICE

INTRODUZIONE pag. 1

1. “WORDS” pag. 2

2. “KINDNESS” pag. 2

3. “MYSTYC” pag. 3

4. “WINTERING” pag. 4

5. “THE NIGHT DANCES” pag. 4

6. “A BIRTHDAY PRESENT” pag. 5

7. “FULL FATHOM FIVE” pag. 12

8. “I AM VERTICAL” pag. 16

9. “DIALOGUE OVER OUIJA BOARD” pag. 18

10. “TOTEM” E “BRASILIA” pag. 21

11. IL “DESTINO” DI SYLVIA PLATH pag. 22

Palermo

luglio 2016