soluzioni alla crisi d'impresa

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1 LE SOLUZIONI ANTICIPATORIE ALLA CRISI D’IMPRESA Claudio Miglio www.studiomiglio.com 1. LE SOLUZIONI ANTICIPATORIE DELLA CRISI D’IMPRESA NEI PRINCIPALI ORDINAMENTI DI CIVIL LAW Lo studio degli ordinamenti più affini al nostro, in merito alle soluzioni anticipatorie adottate per la soluzione della crisi di impresa, offre lo spunto per una sana riflessione sulle modifiche e gli ammodernamenti normativi che potrebbero essere apportati alla nostra legge fallimentare e, in generale, anche al nostro diritto commerciale tenuto conto, per fare un esempio, della scarsa capitalizzazione delle nostre società di capitali. Analizzando i Paesi affini al nostro, nel complesso, il quadro che emerge mette in luce, in ambito di procedure concorsuali, una crescente sensibilità sviluppatasi nel tempo sul tema della prevenzione della crisi d’impresa, che va di pari passo con l’attenuazione dei profili sanzionatori e punitivi conseguenti al fallimento, anche facendo leva sul presupposto che la prevenzione è la miglior cura per la malattia prima che possa trasformarsi in patologia cronica irreversibile. Nell’ordinamento tedesco, che per cultura e tradizione rappresenta un riferimento naturale per il nostro, vi è un concetto differente del presupposto oggettivo del fallimento: la vera e propria insolvenza 1 (Zahlungsunfahigkeit), intesa come l’incapacità del debitore di poter adempiere alle obbligazioni scadute, che viene presunta in caso di cessazione dei pagamenti. Il rischio di insolvenza, definito come incombente incapacità di adempiere” (drohende Zahlungsunfahigkeit), che fonda la sola iniziativa del debitore, tanto commerciale che civile, e 1 L. GUGLIELMUCCI, La legge tedesca sull’insolvenza, Milano, 2000.

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LE SOLUZIONI ANTICIPATORIE ALLA CRISI D’IMPRESA

Claudio Miglio www.studiomiglio.com

1. LE SOLUZIONI ANTICIPATORIE DELLA CRISI D’IMPRESA NEI PRINCIPALI

ORDINAMENTI DI CIVIL LAW

Lo studio degli ordinamenti più affini al nostro, in merito alle soluzioni

anticipatorie adottate per la soluzione della crisi di impresa, offre lo spunto

per una sana riflessione sulle modifiche e gli ammodernamenti normativi

che potrebbero essere apportati alla nostra legge fallimentare e, in

generale, anche al nostro diritto commerciale tenuto conto, per fare un

esempio, della scarsa capitalizzazione delle nostre società di capitali.

Analizzando i Paesi affini al nostro, nel complesso, il quadro che

emerge mette in luce, in ambito di procedure concorsuali, una crescente

sensibilità sviluppatasi nel tempo sul tema della prevenzione della crisi

d’impresa, che va di pari passo con l’attenuazione dei profili sanzionatori

e punitivi conseguenti al fallimento, anche facendo leva sul presupposto

che la prevenzione è la miglior cura per la malattia prima che possa

trasformarsi in patologia cronica irreversibile.

Nell’ordinamento tedesco, che per cultura e tradizione

rappresenta un riferimento naturale per il nostro, vi è un concetto

differente del presupposto oggettivo del fallimento: la vera e propria

insolvenza1 (Zahlungsunfahigkeit), intesa come l’incapacità del debitore

di poter adempiere alle obbligazioni scadute, che viene presunta in caso

di cessazione dei pagamenti. Il rischio di insolvenza, definito come

“incombente incapacità di adempiere” (drohende Zahlungsunfahigkeit),

che fonda la sola iniziativa del debitore, tanto commerciale che civile, e

1 L. GUGLIELMUCCI, La legge tedesca sull’insolvenza, Milano, 2000.

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conduce alla presentazione di un piano finalizzato al recupero della

liquidità nell’arco dei dodici mesi, grazie all’attestazione di un consulente

esterno con lo scopo di frenare iniziative strumentali, temerarie e dilatorie

dello stato di crisi. Infine, lo sbilancio patrimoniale, o da

“sovraindebitamento” (Uberschuldung), definito come la situazione per

cui “il patrimonio del debitore non copre più le obbligazioni esistenti”

anche tenendo conto della prosecuzione dell’attività di impresa: la

fattispecie, riferita alle sole persone giuridiche (ma anche per le società

personali nelle quali nessuno dei soci illimitatamente responsabili è una

persona fisica), prevede un vero e proprio obbligo dovere di attivarsi da

parte degli organi amministrativi e di controllo che in caso di omissione

sono perseguibili penalmente.

Come il nostro ordinamento anche quello tedesco è degno di

qualche critica, infatti è palesemente deficitario nel delineare i contorni

del “rischio di insolvenza”, non dando la giusta definizione del tempo di

osservazione e trascurando anche la discriminante qualitativa o

quantitativa relativa ai debiti che si prevede che il debitore in crisi non

riesca ad onorare con regolarità. Inoltre la procedura si applica sia agli

imprenditori sia agli insolventi civili, per i quali le asimmetrie informative in

danno dei terzi sono evidentemente accentuate, in modo tale da non

permettere una adeguata e puntuale informazione verso i terzi in merito

all’effettiva consistenza patrimoniale del debitore stesso.

L’ordinamento spagnolo, riformato di recente all’esito della Ley

Concursal n. 22 del 9 luglio 2003, ha previsto differenti profili di gradazione

dell’insolvenza ai fini dell’apertura del “concurso de acreedore”.

L’insolvenza, definita come la condizione per cui il debitore non possa

“adempiere regolarmente le obbligazioni esigibili” (art. 2 della L.C.), può

rilevare sia in forma di insolvenza imminente (confessata dallo stesso

debitore senza vincoli dal punto di vista probatorio: c.d. concurso

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volontario), o come insolvenza qualificata dal ricorrere di indici tipici (art.

2, 4° comma della L.C.), su segnalazione dei creditori (concurso

necessario) interessati.

Nel primo caso la norma prevede che si può accedere alla

procedura fallimentare non solo quando il debitore denuncia

un’insolvenza attuale, ma anche quando “prevede che non potrà

adempiere regolarmente e puntualmente le proprie obbligazioni” (art. 2,

3° comma della L.C.). La legge spagnola, a differenza dell’omologa

prevista dall’ordinamento tedesco, considera non solo la prevista

modalità, irregolare, dei futuri pagamenti, ma anche del tempo

dell’adempimento, sulla base di una “previsione di morosità”2

Infine per quanto riguarda l’ordinamento francese la legge di

riferimento è la Loi de sauvegarde des entreprises 845/ 2005 del 26 luglio

2005, in vigore dall’ 1 gennaio 2006, direttamente intervenuta all’interno

del Code de Commerce francese che prevede ora una nuova

procedura d’allerta per le società anonime, innescata dall’iniziativa dei

commissaires aux comptes (i nostri revisori legali e sindaci delle società di

capitali), i quali hanno obbligo di segnalare al presidente del consiglio di

amministrazione “fatti di natura tale da compromettere la continuità

dell’esercizio”. Nel caso di mancato adempimento da parte degli organi

sociali, adeguatamente sollecitati, la segnalazione della criticità rilevate

deve essere indirizzata al Tribunale competente il quale ha la facoltà di

“moral suasion”, fatta salva la possibilità, per la società in difficoltà, di

accedere volontariamente alle forme di salvaguardia concordate e

normativamente previste. Il diritto francese ha creato anche il modello dei

2 G. FALCONE, La riforma concorsuale spagnola, Milano, 2006, Giuffrè p. 96; G.

FAUCEGLIA, L’anticipazione della crisi d’impresa: profili di diritto comparato e prospettive

future, in Fallimento, 2009, p. 14.

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“groupements de prevention agréés”, ai quali possono accedere tutte le

imprese3.

Il modello francese, più affine al nostro modello del ’42,

sostanzialmente prevede in modo prevalente l’intervento giudiziario

anche nello stato di pre crisi dell’impresa ed è quindi un modello che

tende ad allontanarsi dal nostro recentemente riformato e che risente

maggiormente della logica diretta verso la de-giurisdizionalizzazione

della crisi di impresa, con una progressiva ed inesorabile emarginazione

del ruolo del Tribunale il quale partecipa attivamente solo nella fase della

tutela dei diritti dei terzi in sede contenziosa, ma che viene escluso, anche

a causa della sua naturale eccessiva complessità delle procedure, dal

ruolo di arbitro al momento della gestione della crisi fra il debitore in crisi

e i suoi creditori.

2. LE SOLUZIONI ANTICIPATORIE DELLA CRISI D’IMPRESA NEI PRINCIPALI

ORDINAMENTI DI COMMON LAW

Nei Paesi del common law l’obiettivo degli strumenti creati dal

legislatore nel corso del tempo è sempre stato quello di evitare la

disgregazione dell’impresa in crisi con la conseguente uscita dal mercato.

L’ordinamento britannico ha individuato nel tempo in tal senso delle

misure molto interessanti. Ciò grazie soprattutto al particolare tessuto

economico in cui sono collocate le aziende del Regno Unito con gli istituti

3 M. J. CAMPANA, L’impresa in crisi: l’esperienza del diritto francese, in Fallimento, 2003,

p. 978; M. J. CAMPANA, La prevenzione della crisi delle imprese. L’esperienza francese,

in AA.VV., La legislazione concorsuale in Europa, a cura di S. Bonfatti, G. Falcone, Milano,

2004, p. 233; M. GUERNELLI, La riforma delle procedure concorsuali in Francia e in Italia,

in Dir. Fall., 2008, I, p. 256.

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di credito votati maggiormente a finanziare le iniziative economiche che

sottopone il mercato.

La disciplina dell’insolvenza è attualmente regolata dal Companies

Act 2006 che offre al debitore due soluzioni per la crisi la prima

denominata Individual Voluntary Arrangement che è un vero e proprio

accordo tra società, soci e creditori dell’impresa che consente di

mantenere la gestione in autonomia dai beni propri e la seconda che

permette l’accesso alla procedura di liquidazione denominata

Bankruptcy. A prescindere dalle soluzioni adottate o dalle procedure

scelte, sono tutte soluzioni contraddistinte da un ruolo più o meno forte di

controllo del potere giudiziario fatto salvo per alcuni istituti

completamente privatistici disegnati dal legislatore. Nel caso in cui la

compagine dei creditori sia prevalentemente composta dagli istituti di

credito è stato previsto un vero e proprio meccanismo stragiudiziale

specifico denominato London Approach che, seppure meglio definito nel

1989 in modo formale, affonda le sue origini nelle prassi ormai consolidate

sorte negli anni ’70 e che si basa sul consenso, la persuasione e la

collegialità degli istituti di credito al fine di contemperare gli interessi di

tutti gli attori interessati all’accordo (debitore, creditori e soggetti terzi) e

al conseguente salvataggio dell’azienda in crisi. Con tale accordo

stragiudiziale le banche si impegnano a mantenere aperte le linee di

credito verso le aziende in crisi fino al completamento del piano di

risanamento e si impegnano anche a immettere nuova finanza nelle

casse dell’impresa in crisi facendosi carico, fra di loro, dei costi della

negoziazione dell’accordo. In tale contesto la stessa Bank of England

assume il ruolo chiave di mediatore che tende a convincere le banche

che non intendono sposare l’accordo o che hanno dubbi sul possibile o

probabile risanamento dell’impresa prospettato nel piano. Il ruolo

naturalmente degli istituti di credito è, in tal caso, anche di controllo sulla

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realizzazione effettiva del piano stesso nel corso del tempo, tenuto conto

che trattasi a tutti gli effetti di un accordo di natura esclusivamente

privatistica.

Questo tipo di istituto è quello che nel tempo ha ispirato l’analogo

nostro istituto, mutuato dall’ordinamento statunitense, predisposto

dall’A.B.I. ufficialmente nel 2000 e meglio denominato “Codice di

comportamento per affrontare i processi di ristrutturazione atti a superare

la crisi d’impresa”.

Il sistema normativo statunitense è senza dubbio quello più

innovativo rispetto agli altri Paesi. E’ infatti sufficiente prendere ad esame

i cosiddetti workout agreements, definiti come un accordo tra il debitore

in crisi e i suoi creditori che modifica le obbligazioni esistenti e permette al

debitore di poter restare sul mercato senza fallire, per meglio identificare

il carattere innovativo in materia di crisi d’impresa. Al pari degli omologhi

accordi del Regno Unito con le banche, anche essi si contraddistinguono

per la forte autonomia contrattuale fra le parti seppure sia prevista la

costituzione di un comitato dei creditori, il pagamento integrale di alcune

tipologie di crediti privilegiati rispetto ad altri e la postergazione del credito

rispetto ai nuovi crediti che sorgono con la prosecuzione dell’attività dopo

la sottoscrizione e la stipula dell’accorso. Il debitore, inoltre, dopo la stipula

del workout agreement può essere ammesso, negli Stati Uniti, alla

procedura di reorganization. Procedura che a norma del Chapter 11 da

al debitore la garanzia del divieto automatico dei creditori di soddisfarsi

al di fuori del concorso.

Appare evidente come nel sistema anglosassone in genere il

legislatore si sia posto da subito nell’ottica di valorizzare l’autonomia

contrattuale privata fra i vari soggetti coinvolti nella crisi d’impresa,

sempre senza la perdita di quelle garanzie pubbliche necessarie

dell’intervento dell’autorità giudiziaria la quale, una volta preso atto della

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buona fede del debitore, sarà l’autorità che concederà a quest’ultimo la

confirmation all’accordo. In caso contrario, qualora l’autorità giudiziaria

ravvedesse invece la cattiva fede del debitore sarà aperta senza indugio

la porta della procedura fallimentare.

3. LE SOLUZIONI CONCORDATE E STRAGIUDIZIALI DELLA CRISI D’IMPRESA IN ITALIA

L’impresa può entrare in uno stato di crisi a diversi stadi del suo ciclo

di vita, per cause di origine industriale o finanziaria. Lo stato di crisi

rappresenta un processo di deterioramento delle condizioni di equilibrio

gestionale dell’impresa che ha la sua manifestazione nella lenta

alterazione degli equilibri economico, patrimoniale e finanziario.

La diagnosi immediata di questa dinamica può portare all’arresto

di questa situazione di crisi che genera una progressiva distruzione di

valore e conduce l’impresa verso una situazione di dissesto il più delle

volte irreversibile, con la conseguenza che all’imprenditore non conviene

più intraprendere un percorso di risanamento e di ritorno al valore, di

contro, se il processo di alterazione degli equilibri economico, finanziario

e patrimoniale viene identificato nella fase iniziale e la crisi dell’impresa è

avulsa da fattori esogeni irreversibili, possono esistere adeguati margini di

manovra per mettere in piedi rapidamente ed in tempi rapidi un percorso

di risanamento.

Senza entrare nel merito del caso in cui la crisi dell’impresa dipenda

dal mutamento dell’ambiente competitivo che, naturalmente, se non

adeguatamente preventivato con appositi strumenti di analisi preventive

mette l’imprenditore nella condizione di non poter formulare adeguate

strategie aziendali finalizzate al reinserimento sul mercato dell’impresa

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ormai in dissesto, è opportuno analizzare come può l’imprenditore uscire

dalla crisi con un processo di risanamento dei debiti.

I modelli che hanno ispirato il nostro legislatore già diffusi da tempo

in altri Paesi hanno spinto sullo strumento della composizione concordata

della crisi d’impresa in accordo con il ceto dei creditori con il fine di

superare la crisi e scongiurare il dissesto che porta al fallimento e alla

chiusura inevitabile dell’impresa.

Le soluzioni concordate, proprio perché incentrate sul consenso dei

creditori, devono essere, veloci nel tempo ed indirizzate

fondamentalmente verso la garanzia degli interessi di questi ultimi senza

imporre vincoli o limiti rigidi ed insormontabili e soprattutto devono essere

tali da convincere tutti gli attori interessati che l’azienda sarà risanata e

che sarà in grado effettivamente di assolvere gli impegni assunti con

l’accordo con il ceto dei creditori, lasciando l’azienda al riparo da

eventuali iniziative individuali di autotutela dei singoli creditori,

garantendo al contempo la conservazione dei valori patrimoniali,

assicurando protezione agli atti compiuti per la messa a punto del piano

e per la sua puntuale esecuzione.

Il mutamento del contesto sociale ed economico nel quale si

confrontano le imprese del nostro Paese, il grave insuccesso delle soluzioni

della crisi d’impresa rimesse fino al 2005 a modelli predeterminati

rigidamente da parte della pubblica autorità, ha sollecitato e imposto al

legislatore la ricerca di soluzioni alternative che già nella prassi erano state

individuate negli accordi stragiudiziali di salvataggio delle imprese in crisi

ma che non erano dotati, essendo il loro carattere esclusivamente di

natura privatistica, delle tutele necessarie per giungere al successo.

Negli anni la principale procedura concorsuale, il fallimento, si è

dimostrata inadeguata al mutare dei tempi, al mutare della realtà

economica e al mutare del mercato e le sempre più forti spinte verso una

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riforma della ormai vecchia e superata legge fallimentare del 1942 hanno

condotto il legislatore a introdurre nuovi strumenti concorsuali (il piano

attestato stragiudiziale di risanamento e gli accordi di ristrutturazione dei

debiti) oltre che ad innovare in modo sostanziale il concordato

preventivo, introducendo nella Legge fallimentare anche il nuovo

concordato fallimentare.

Era dunque necessario stravolgere la fisionomia originaria e le

principali caratteristiche delle procedure concorsuali al fine di fornire

nuove e più attuali modalità di gestione della crisi d’impresa, alternative

alla liquidazione concorsuale che, così come impostata dal legislatore del

1942, era ormai sostanzialmente superata. Il fine che si è dato il legislatore

attuale è quello di anticipare la crisi irreversibile, privilegiare la tutela della

”continuità aziendale” e rimettere sul mercato l’impresa in crisi. Con le

riforme normative del legislatore dal 2005 ad oggi la nuova legge

fallimentare privilegia in primis gli strumenti di risanamento in un’ottica

conservativa, ove possibile, dell’azienda in crisi. Strumenti indirizzati verso

il risanamento dell’impresa e volti a scongiurare l’insolvenza, quindi il

fallimento.

Il legislatore attuale ha previsto a più riprese l’utilizzo di strumenti

negoziali e concordatari di risoluzione della crisi d’impresa che sono stati

costruiti nell’ottica anticipatoria della declaratoria di insolvenza e di

fallimento. Il legislatore ha finalmente preso coscienza che in taluni casi e

con determinate condizioni, salvare un’impresa in crisi e,

conseguentemente, mantenerla sul mercato, rappresentasse l’unica

modalità per far sì che la crisi non investisse, oltre l’imprenditore e i

creditori, anche le altre situazioni soggettive di tutti coloro che sono

coinvolti con la stessa impresa, imponendo una valutazione di volta in

volta sugli effetti che una liquidazione forzata e definitiva, con fuoriuscita

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dal mercato, contro la salvaguardia dell’impresa, comporterebbero sulle

posizioni di tutti i soggetti coinvolti.

Una legislazione concorsuale deve fornire ai soggetti coinvolti una

serie di strumenti che possano anche prevenire e risolvere le crisi

d’impresa lasciando alle parti stesse la scelta di quello più conforme al

caso specifico.

Gli strumenti che il nostro legislatore ha messo a disposizione della

disciplina delle procedure concorsuali dal 2005 in poi per gestire in modo

negoziale e pattizio la crisi d’impresa in ambito preconcorsuale, sono i

piani attestati e gli accordi di ristrutturazione dei debiti.

Entrambi sono strumenti che danno la possibilità di instaurare un

percorso finalizzato alla salvaguardia della “continuità aziendale”. Sono

strumenti, fondamentalmente, innovativi, flessibili e soprattutto finalizzati

ad esaltare l’autonomia negoziale fra le parti, con il risultato che la

volontà dell’imprenditore di proseguire la propria attività e risanare la

propria posizione debitoria si sposi con l’interesse dei creditori di

raggiungere il miglior soddisfacimento delle proprie aspettative di

recupero del credito rispetto all’estrema soluzione del fallimento,

garantendo nello stesso tempo la prosecuzione del rapporto con il cliente

a protezione anche del mantenimento del mercato nel tempo.

Con il primo intervento di riforma della legge fallimentare del 2005

è stato introdotto nel nostro ordinamento, seppure collocato in modo

singolare, l’istituto del c.d. ance piano attestato di risanamento o piano

stragiudiziale di risanamento. La nozione del nuovo istituto si ricava dalla

lettura dell’art. 67, comma 3 lettera d) della Legge fallimentare che

invece è una parte dedicata alla disciplina di una specifica ipotesi di

esenzione dalla revocatoria fallimentare.

Si tratta nel caso di specie di un vero e proprio strumento

stragiudiziale che riprende lo strumento analogo privatistico che utilizzava

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il settore bancario e che sostanzialmente era contenuto nelle convenzioni

bancarie definite dal protocollo d’intesa sottoscritto da gran parte degli

associati ABI. Con questa novità è stato introdotto nel nostro ordinamento

uno strumento di tutela del risanamento aziendale dando validità

normativa al piano di risanamento stragiudiziale in modo tale da garantire

i creditori e l’imprenditore dai rischi civili e penali derivanti dall’insolvenza

e dal dissesto. Sotto l’aspetto penale infatti quando il piano è attestato in

modo idoneo, da un professionista qualifica ed individuato secondo la

norma, fa venir meno l’elemento soggettivo che configura la

responsabilità penale per dolo o colpa.

Lo strumento, seppure fortemente innovativo e richiesto dai giuristi,

quando è stato introdotto non ha accolto il favore degli operatori del

diritto fallimentare e solo negli ultimi tempi, essendo l’unico finalizzato alla

conservazione sul mercato delle aziende inizia ad essere meglio

apprezzato ed utilizzato.

Nel 2012 il legislatore ha inteso superare le perplessità e le criticità

sorte in sede di prima applicazione della norma ed ha introdotto le novità

richieste dal sistema sociale.

Il 2005 è, in ogni caso, l’anno fondamentale per il passaggio da un

approccio indirizzato verso il fallimento delle imprese in crisi ad un

approccio che, seppure abbia come procedure fondamentale il

fallimento, vede la crisi d’impresa più votata verso un accordo con i

creditori piuttosto che verso la liquidazione “forzata”.

In quell’anno sono stati introdotti anche gli “accordi di

ristrutturazione dei debiti” di cui all’art. 182 bis della Legge fallimentare. La

spinta ad introdurli normativamente giungeva dal mercato ed in

particolare da Confindustria, ABI e Banca d’Italia. Gli accordi di

ristrutturazione dei debiti sono sostanzialmente dei concordati

stragiudiziali che diventano efficaci per legge nei confronti dei creditori

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solo se sono presentati al Tribunale di competenza nelle forme codificate

considerato che è il Tribunale stesso l’organo che li omologa. Il nuovo

istituto, poi migliorato nel tempo dal legislatore con successivi interventi

negli anni, è disciplinato dall’art. 182 bis della legge fallimentare e,

relativamente agli effetti prodotti, dall’art. 67 comma terzo, lett. e) della

Legge fallimentare. Insieme ai “piani attestati di risanamento” sono

fondamentalmente il vero tentativo di dare una veste normativa alla

figura del concordato stragiudiziale. Così quando l’impresa insolvente

raggiunge un accordo negoziale con una parte qualificata del ceto

creditorio la norma prevede una serie di protezioni finalizzate alla

risoluzione della crisi. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti

rappresentano a tutti gli effetti uno strumento di risanamento per l’impresa

in crisi al quale si può ricorrere per ridurre la propria esposizione debitoria

e tentare di recuperare la “continuità aziendale” e si sostanziano in una

serie di accordi di natura privatistico / negoziale basati su un piano di

ristrutturazione che l’impresa in crisi raggiunge con tanti creditori

rappresentanti almeno il 60% dei crediti in totale e si basa, come

nell’istituto del piano attestato di risanamento, sulla relazione di un

professionista esperto che attesti la veridicità dei dati aziendali espressi nel

piano oltre che l’attuabilità dell’accordo e l’idoneità ad assicurare il

pagamento integrale dei creditori che non hanno sottoscritto l’accordo.

Anche l’istituto del “concordato preventivo” è stato

opportunamente modificato dal 2005 ad oggi con il fine di incentivare

anche l’uso di questo strumento di risoluzione della crisi d’impresa. Esempi

di modifiche apportate di recente sono la possibilità di anticipare la

protezione contro iniziative giudiziarie dei creditori dando la possibilità

all’impresa in crisi di presentare in Tribunale una semplice domanda di

concordato preventivo corredata dai bilanci degli ultimi tre esercizi per

poi riservarsi di presentare successivamente la domanda completa del

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piano e della documentazione necessaria dando la possibilità all’impresa

di compiere atti di ordinaria amministrazione.

L’introduzione di questi nuovi istituti rispondono all’esigenza di

contemperare la stabilità dei rapporti negoziali con l’evento

dell’insolvenza dell’impresa al fine di comporre, preventivamente

all’intervento del Tribunale, il conflitto fra tutti gli interessi diversi in gioco di

cui sono naturalmente portatori i vari soggetti coinvolti.

L’interesse perseguito con questi strumenti innovativi non è limitato

alla protezione del debitore, nel senso di aiutarlo a tornare in bonis sul

mercato, bensì anche del ceto creditorio e dei portatori in genere di

interessi che possono valutare la convenienza di ottenere con tali

strumenti maggiori vantaggi anche futuri (continuazione del rapporto con

il cliente per esempio) rispetto alla soluzione estrema liquidatoria forzata

che prevede l’istituto del fallimento anche nell’ottica della tutela

dell’interesse pubblico, dei posti di lavoro e del mantenimento delle

imprese, ove possibile, sul mercato a protezione anche dell’intero sistema

economico del Paese.

La ratio di questi istituti è anche quella di evitare con inutili

formalismi, con lunghe procedure autorizzative, con costi eccessivi e con

tempi lunghi, la liquidazione forzata dell’impresa in difficoltà mediante il

fallimento.

In estrema sintesi potremmo distinguere gli istituti che sono stati

analizzati in base alla loro natura (negoziale o giudiziale) e possono essere

classificati come segue:

- gli strumenti negoziali: che sono interamente rimessi

all’autonomia contrattuale delle parti, ma che risultano privi

della certezza e protezione che la legge riserva agli istituti

tipizzati;

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- gli strumenti negoziali “qualificati”: che sono rimessi

all’autonomia negoziale delle parti per quanto attiene al

contenuto, ma che sono sottoposti a precisi vincoli di validità e

fra questi troviamo i piani attestati di cui all’art. 67 c. 3 lett. d)

della Legge fallimentare e gli accordi di ristrutturazione dei debiti

di cui all’art. 182 bis della Legge fallimentare;

- le procedure concorsuali: che sono rimesse al coordinamento e

al controllo dell’Autorità Giudiziaria competente e fra queste

troviamo il fallimento con o senza concordato fallimentare e il

concordato preventivo.

Claudio Miglio (2014)