la dissolvenza democratica. cronache nella crisi

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Damiano Palano

La dissolvenza democraticaCronache nella crisi

Indice

Introduzione 7

I. La crisi della «democrazia organizzata» 11

II. L’ombra di Cesare 47

III. Il rischio di una critica della critica 89

IV. Democrazia e default 109

V. Il mercato contro la democrazia 127

VI. A cosa serve un «sampietrino»? 149

VII. Democrazia senza potere 161

Nota ai testi 185

Introduzione

Per una serie di motivi piuttosto scontati, negli ulti-mi anni sono cresciute copiosamente le diagnosiche hanno riconosciuto nella ‘Seconda Repubblica’i sintomi di una vera e propria «crisi della democra-zia italiana». Secondo molte di queste letture, la«crisi» è determinata dalla concentrazione dei pote-ri nelle mani di un magnate della comunicazione,dal proliferare dei conflitti di interesse, dai ripetutitentativi di piegare le leggi a interesse di parte, e ingenerale dal logoramento delle garanzie dello Statodi diritto. Per quanto tali interpretazioni mettano inluce fenomeni reali, la cui gravità non può esseresottaciuta o sottovalutata, spesso esse finiscono colcedere – forse inconsapevolmente – alla vecchiatentazione di ritrovare la spiegazione dei fallimentidel sistema politico, o dei tanti tradimenti delle so-lenni promesse di riforma, nel carattere ‘ecceziona-le’ del «caso italiano». Non è dunque affatto casua-le che alcuni dei testi raccolti in questo volume siindirizzino polemicamente verso quelle interpreta-zioni che intravedono ancora oggi nel «caso italia-

no» soltanto l’ennesima ‘anomalia’, e che ritengonoche la personalizzazione politica, la concentrazionedi poteri o la proliferazione di retoriche demagogi-che testimonino la gravità della «crisi» della demo-crazia del nostro paese. La critica di queste posizio-ni non significa però che i fenomeni deteriori se-gnalati in questi anni da molte voce autorevoli nonsiano reali, e non mettano dunque seriamente a ri-schio la dinamica democratica. Più semplicemente,gli appunti raccolti in questo volume cercano dimostrare come – per quanto ‘anomala’ – la vicendaitaliana della ‘Seconda Repubblica’ si inscriva inuna traiettoria generale che coinvolge tutte le demo-crazie occidentali. Una traiettoria che – sotto ilmanto di un’apparente continuità nelle forme istitu-zionali – procede in realtà a una sostanziale modifi-cazione dei nostri sistemi politici e delle nostre so-cietà. E, soprattutto, una traiettoria che si inscrive –certo problematicamente – nel mutamento geo-poli-tico che segna la fine dell’«era americana», nellatrasformazione contemporanea del capitalismo, nel-la transizione verso Oriente dei nodi dell’economiaglobale, nello sgretolamento delle basi su cui il vec-chio assetto democratico si è retto a partire dallaconclusione della Seconda Guerra Mondiale.

Il quadro che ci consegna un’analisi realisticadel mutamento in atto non risulta per questo moltopiù rassicurante di quello che viene proposto daquanti ritrovano nell’Italia di oggi i sintomi della

«crisi» della democrazia. Perché quella che tendedelinearsi nel crepuscolo della ‘Seconda Repubbli-ca’ – in un’Unione Europea provata dalle turbolen-ze della crisi economica globale, dinanzi all’appros-simarsi delle incognite dell’«era post-americana»,nel pieno di una transizione geo-politica – sembrapiuttosto avvicinarsi a una sorta di lenta, malinconi-ca dissolvenza democratica. Una dissolvenza cheforse non cancella la democrazia. Ma che ne rendesempre più evanescente l’immagine, sempre piùinafferrabili gli ideali, sempre più sbiadite le pro-messe di eguaglianza e libertà.

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I

La crisi della «democrazia organizzata»

La lettera inviata dal Governatore della Banca Cen-trale Europea al governo italiano nell’agosto del2011 è diventata rapidamente una sorta di simbolodella condizione delle nostre democrazie, che ci ap-paiono, sempre di più, come democrazie tenute inscacco dai mercati internazionali e sorvegliate (senon addirittura ‘commissariate’) dalle istituzioni so-vranazionali. Così, sembra che ai governi spetti so-lamente l’esecuzione di decisioni prese altrove eche la volontà dei cittadini diventi solo un fastidio-so inconveniente con cui, ogni quattro o cinqueanni, ci si deve confrontare. Da questo punto di vi-sta, è quasi paradigmatico che il contenuto specifi-co della lettera inviata dal Governatore Trichet alPresidente del Consiglio italiano sia stato per lunghimesi tenuto segreto all’opinione pubblica. Le politi-che che quella lettera suggeriva erano piuttosto pre-vedibili, almeno nei loro contorni generali (dal mo-mento che non faceva che riformulare le indicazioni

che le istituzioni finanziarie internazionali prescri-vono periodicamente agli esecutivi più o meno ditutti i paesi occidentali). Ma il fatto che il testo del-la lettera sia rimasto a lungo celato – prestandosicosì a mille utilizzi, e destando molte sospettose re-criminazioni – è in fondo il simbolo più efficacedalla ‘trasparenza’ così spesso evocata dall’Ue, ecosì clamorosamente violata. E ancor più significa-tivo è che un organo ‘tecnico’ dell’Unione Europea– un organo ‘neutrale’ rispetto ai singoli governinazionali, e che dunque dovrebbe mantenersi estra-neo alle dinamiche politiche – abbia dettato (o sug-gerito) misure considerate vitali.

Al di là delle semplificazioni, l’idea di una de-mocrazia ‘svuotata’ dei propri poteri – e di uno Sta-to privato della propria «autonomia» (più o menorelativa) – coglie effettivamente almeno alcuni trattidelle trasformazioni che nell’ultimo trentennio han-no attraversato i sistemi politici occidentali, proprioperché si connette con le modificazioni dell’econo-mia globale, con la transizione geo-politica in atto econ il mutamento nel ruolo dello Stato: un muta-mento per nulla scritto nelle ‘leggi’ del determini-smo economico, ma in gran parte conseguenza didecisioni politiche, particolarmente evidenti nelVecchio continente e nei paesi coinvolti nel proces-so di integrazione europea. E, così, non è affattosorprendente che negli ultimi anni, per effetto diqueste trasformazioni radicali – e per molti versi ir-

reversibili – si sia consolidata nel dibattito l’idea diuna modificazione strutturale delle democrazie oc-cidentali che, sovente, sembra preludere ad unavera e propria ‘crisi’.

In un testo recente, Carlo Galli – accantonandola formula ‘crisi’ – ha definito «disagio della demo-crazia» la condizione in cui si trova oggi l’Occiden-te rispetto all’ideale della democrazia e alle istitu-zioni democratiche. Si tratta, secondo Galli, di undisagio duplice: da un lato, «si manifesta con unadisaffezione, con un’indifferenza quotidiana per lademocrazia che equivale a una sua accettazionepassiva e acritica, al rifiuto implicito dei suoi pre-supposti più complessi e impegnativi»1; dall’altro, èanche un disagio strutturale, un disagio che «nascedall’inadeguatezza della democrazia, dei suoi istitu-ti, a mantenere le proprie promesse, a essereall’altezza del proprio obiettivo umanistico, a dare aciascuno uguale libertà, uguali diritti, uguale digni-tà»2. A questo disagio – soggettivo e oggettivo –vengono date però risposte diverse, sia perché lalettura delle trasformazioni in atto è differente, siaperché la stessa concezione della democrazia – deisuoi obiettivi, dei suoi fondamenti, dei suoi caratteridistintivi – risulta tutt’altro che riconducibile a unmodello unanimemente condiviso. Tra gli osserva-tori più ‘pessiministi’, Colin Crouch, per esempio,

1 C. GALLI, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino, 2011, pp.3-4.

2 Ibi, p. 4.

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sostiene che ci troviamo ormai in una sorta di ‘post-democrazia’, o che comunque la democrazia occi-dentale abbia imboccato la fase discendente dellapropria parabola storica3. Massimo L. Salvadori de-finisce invece i regimi democratici contemporaneicome sostanzialmente oligarchici e dominati da«plutocrazie» compatte4, in cui soprattutto la di-mensione dell’eguaglianza sociale, grande obiettivodelle democrazie postbelliche, diventa sempremeno rilevante, come osserva per esempio N. Tran-faglia5. Una visione sostanzialmente simile emergeanche dal quadro delineato da Sheldon Wolin a pro-posito del sistema politico americano6, oppure dallalettura proposta da Wendy Brown, secondo cui neipaesi occidentali è in atto un processo di de-demo-cratizzazione che comporta, fra l’altro, la fusionedel potere economico con il potere statale7. Altri os-servatori, adottando una chiave di lettura meno pes-simista, certo riconoscono la realtà di alcune tra-sformazioni, ma non ritengono né che la fisionomia

3 C. CROUCH, Postdemocrazia, Laterza, Roma – Bari, 2003 (ed. or.Post-Democracy, Polity Press, Cambridge, 2003).

4 M.L. SALVADORI, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma– Bari, 2009.

5 N. TRANFAGLIA, La democrazia è ancora un’utopia?, in «l’Uni-tà», 31 agosto 2011, pp. 40-41

6 S. WOLIN, Democrazia Spa. Stati Uniti: una vocazione totalita-ria?, Fazi, Roma, 2011 (ed. or. Democracy Incorporated. ManagedDemocracy and the Spectre of Inverted Totalitarism, Princeton Univer-sity Press, Princeton – Oxford, 2008).

7 Cfr. W. BROWN, American Nightmare. Neoliberalism, Neocon-servatism, and De-Democratization, in «Political Theory», 2006, n. 6,pp. 690-714.

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distintiva della democrazia – ossia l’esistenza di al-cune fondamentali procedure – venga colpita inmodo rilevante, né che il venir meno di alcuni dirit-ti (in particolar modo dei diritti sociali) configuriqualcosa di più che il semplice riflesso di un muta-mento ideologico8. Ma, anche in quest’ottica, diffi-cilmente possono essere sottovalutate o negate ledimensioni delle sfide che oggi sono poste ai siste-mi democratici. Perché – come ha scritto per esem-pio Ernesto Galli della Loggia, un osservatoretutt’altro che incline a inalberare la bandiera di unademocrazia ‘tradita’ dalle promesse del liberismoeconomico – ciò che oggi appare messo in discus-sione, prima ancora delle singole politiche pubbli-che, o delle linee programmatiche portate avantidalle diverse coalizioni di governo, è la stessa capa-cità degli Stati democratici di ‘governare’ i molte-plici flussi che attraversano i confini nazionali, oche influiscono sulle risorse a disposizione. La glo-balizzazione – o, prima di tutto, la sua radice tecno-logica, che riduce gli spazi contraendo il tempo –innesca processi che sfuggono totalmente, o nellamassima parte, alla presa del controllo statale. Perutilizzare le parole di Galli della Loggia, la difficol-tà che oggi sperimentano le democrazie occidentali«è legata alla ridotta estensione dello spazio statale,

8 Cfr. in questo senso il recente fascicolo di «Paradoxa» Quelliche… la democrazia, a proposito del quale rimando alle osservazionicritiche svolte in Il rischio di una critica della critica, ora in questo vo-lume.

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al suo restringimento di fatto, dovuto principalmen-te alla velocità ormai fantastica di ogni genere dicomunicazione, vicino ormai al traguardodell’istantaneità»9. Proprio per questo, la democra-zia si trova – se non del tutto impotente – comun-que in larga parte disarmata dinanzi a queste sfide:

stretto come in una tenaglia dentro una spazialità da unlato dominata dall’immediatezza e dall’altro caratteriz-zata dalla lontananza, il regime democratico vede oltremodo indebolite le sue antiche possibilità di controllo edi autonomia. Per entrambi i versi vede assottigliarsi imargini della sua sovranità: e tanto più in quanto pro-prio le sue caratteristiche democratiche, la sua tuteladei diritti individuali e collettivi, rendono sempre piùproblematica la difesa di quella sovranità. La quale,lungi dall’essere ‘superata’ a favore di inesistenti e fan-tasmatiche sovranità sovra o internazionali – come cre-dono gli ottimisti – viene semplicemente messa in morada altre minisovranità al suo interno ovvero, dalle leggisenza volto della tecnologia, che operano nell’interesseesclusivo di sé medesime e/o degli incontrollabili inte-ressi economici (per esempio della finanza o dellagrande informazione commerciale globale)10.

Per comprensibili motivi, in Italia il dibattito teori-co sulle trasformazioni della democrazia si è peròintersecato con le discussioni sulle sorti della demo-crazia italiana, sulle «promesse non mantenute»della ‘Seconda Repubblica’ e del bipolarismo, oltre

9 E. GALLI DELLA LOGGIA, La democrazia non è in rete, in «Cor-riere della Sera», 13 settembre 2010, p. 1 e 34.

10 Ibidem.

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che sui molteplici conflitti di interesse che rendonoquasi inestricabile la trama del potere. Così, la ri-flessione sul ‘presente’ e sul ‘futuro’ della demo-crazia è stata spesso declinata in una direzione spe-cifica, che forse ha finito col rendere la matassa ul-teriormente intricata, proprio perché ha condottonel vicolo cieco dell’«anomalia italiana». Nel suoultimo libro, La democrazia è una causa persa?Paradossi di un’invenzione imperfetta, Alfio Ma-stropaolo cerca invece di sbrogliare la matassa diquesto dibattito, dipanando, uno per uno, i molti filiche si aggrovigliano nell’idea della ‘crisi’ della de-mocrazia, e, soprattutto, inquadrando le trasforma-zioni dei nostri sistemi politici in un’ottica di lungoperiodo, in grado per questo di sfuggire alle scor-ciatoie teoriche o retoriche e a una prospettiva ec-cessivamente ‘italo-centrica’11.

Inserendosi in un dibattito ormai piuttosto affol-lato, il libro di Mastropaolo ha alcuni grandi meriti.Il primo consiste nel rimettere la democrazia ‘con ipiedi per terra’, ossia nel ‘demitizzare’ il concettodi democrazia, distinguendo la storia dell’ideale –che percorre la vicenda occidentale con alterne for-tune e che si intreccia con le aspirazioni all’egua-glianza politica, giuridica e sociale – dalla concretarealtà delle istituzioni politiche rappresentative.Sotto questo profilo, Mastropaolo si limita per mol-ti versi a segnalare un punto che la retorica celebra-

11 A. MASTROPAOLO, La democrazia è una causa persa? Parados-si di un’invenzione imperfetta, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.

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tiva della «fine della Storia» ha finito con l’offusca-re, e da cui è stato contagiato – in modo purtropponon episodico – anche il campo di quanti, per me-stiere, studiano le trasformazioni dei sistemi politi-ci. Mentre rifiuta l’immagine che rappresenta la de-mocrazia liberale contemporanea come il punto diarrivo dell’evoluzione politica e ideologica del ge-nere umano, Mastropaolo non offre però soltantoun antidoto al profluvio retorico dell’ultimo venten-nio, perché consente anche di considerare la demo-crazia contemporanea come un ‘prodotto’ storico,risultato di scontri, di conflitti, di soluzioni nonsempre preordinate, oltre che come un’«invenzioneimperfetta». Ed è infatti proprio l’adozione di que-sta prospettiva analitica che spinge Mastropaolo acollocare la storia intellettuale e politica della de-mocrazia contemporanea in un quadro articolato,capace di tenere insieme dimensioni diverse.

Prima ancora di formulare previsioni sul futurodella democrazia, Mastropaolo invita infatti allacautela a proposito del modo di utilizzare la stessaparola «democrazia» e della tentazione di attribuireal regime democratico promesse che non può man-tenere. Benché sia una formula straordinariamenteevocativa, la «democrazia» – ricorda Matropaoloproprio nelle prime pagine – è un’«invenzione uma-na e un fatto storico»:

Anche se ne ha la pretesa, non è il sommo bene.Non è il destino della specie, né una necessità. Ha avu-

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to un’origine da qualche parte, donde si è largamentediffusa, modificandosi e adattandosi, ed è destinata adavere una fine. Come per tutti i fatti storici, un largomargine di casualità ne segna nascita, fortuna e traver-sie12.

Nel corso del tempo, soprattutto dopo la fine delblocco sovietico, la democrazia ha mostrato tutta lasua «smisurata ambizione», diventando «una parolamagica, che beneficia di un pregiudizio positivo re-sistente a qualsiasi riserva e che consacra tuttoquanto riveste, che annuncia addirittura l’impegno atrasformare i governati in governanti e quindi adabrogare il potere»13. Ma la democrazia non puòdavvero mantenere l’altisonante promessa di conse-gnare il potere al popolo e di trasformare i governa-ti in governanti (e anche per questo – come suggeri-sce Robert Dahl – sarebbe forse più appropriato de-finire i sistemi politici occidentali come «poliar-chie»). Al di là della retorica, ciò che chiamiamo«democrazia» è infatti – come scrive Mastropaolo –solo una «tecnologia del potere»:

Spogliata dei suoi sacri paramenti, la democrazia ènull’altro che una tecnologia del potere trattante, utile acoordinare, prescrivere, condizionare, orientare la con-dotta d’individui e gruppi sociali, quindi a regolare lavita collettiva e a dirimere i conflitti che la agitano.Storicamente si è rivelata in special modo appropriataalle società differenziate e pluralistiche proprie della

12 Ibi, p. 7.13 Ibidem.

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modernità, ma il nesso non è obbligato: tali società le siè governate anche reprimendo il pluralismo e imponen-do il conformismo14.

Mastropaolo non si limita però a spogliare la demo-crazia dei suoi abiti più solenni, perché mostra an-che come qualcosa nell’ultimo trentennio – a di-spetto di un’apparente continuità – sia effettiva-mente cambiato. In primo luogo, secondo il polito-logo, è infatti cambiato il nostro modo di concepirela democrazia. Se nel secondo dopoguerra, la de-mocrazia viene incardinata nei partiti e nelle orga-nizzazioni sociali, che hanno sia la funzione di ag-gregare e mediare gli interessi, sia quella di integra-re i gruppi nello Stato, a partire dagli anni Ottantala democrazia tende invece a essere concepita – nonsolo nel dibattito teorico – come la forma di regimein cui i cittadini designano i loro governanti in ele-zioni competitive, in modo analogo a quanto fannoi consumatori scegliendo il prodotto preferito traquelli che offre il mercato. Un simile passaggio –che ovviamene riflette una modificazione nelle re-lazioni sociali e nei rapporti di forza – viene in par-te testimoniato a livello teorico dal contrasto fra isostenitori di una ‘democrazia sostanziale’ e gli al-fieri di una concezione puramente ‘procedurale’della democrazia: un contrasto che ha radici profon-de e che si protrae fino a oggi. Scrive Mastropaoloa questo proposito:

14 Ibi, p. 26.

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Per quanti sforzi di conciliazione si compiano, in

sede politica come in sede teorica la controversia trademocrazia formale e sostanziale resta al momento in-solubile. Meglio: il proceduralismo prevale. Alla conte-sa sul significato sono palesemente sottesi un conflittodi valori e una lotta di potere, che sono la stessa cosa. Iregimi democratici sorti nel secondo dopoguerra coniu-gavano, nei loro stessi dettati costituzionali, le due di-mensioni, ma l’accordo era provvisorio ed è stato di-sdetto. I due significati della parola democrazia si sonoallontanati, addirittura entrando in collisione. Che nonconvegna contentarsi della convergenza attorno alla de-mocrazia procedurale, che dovrebbe almeno renderepacifico il confronto?15

Anche se, sotto un profilo strettamente teorico, lacontrapposizione fra visioni ‘sostanzialiste’ e visio-ni ‘proceduraliste’ non è risolvibile, Mastropaoloosserva però che la questione, dal punto di vistastorico, presenta un paradosso che non può esseresottovalutato:

Il paradosso è che, una volta ridotta la democrazia aprocedura, non è affatto scontato che alle sue politichenon sia prescritto alcun contenuto. Anche quando la sivorrebbe addirittura scheletrica, scarnificata da ogniimpedimento alla sovranità popolare, ridotta a pocheregole e a qualche minimo presupposto, essa è ben incarne. Se la democrazia – procedurale – è un modo perregolare la competizione politica, un contenuto è pre-scritto alle politiche democratiche anche quando ci sis’impunta a vietarne ogni altro. In teoria la democrazia

15 Ibi, p. 37.

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procedurale consente il welfare e può non consentirlo.Ma, se siamo realisti, la storia non passa invano. Dopouna lunga stagione di attenzione a un certo tipo di mi-sure politiche, rivendicare un proceduralismo sbrigati-vo e disseccato implica ufficializzare l’indifferenza del-la democrazia alle diseguaglianze. Definire democrati-camente illegittimo, dopo decenni di Stato sociale, chechi governa si astenga di fronte alla povertà, alla malat-tia, all’ignoranza, e affidare ogni intervento riparatorioai governanti in carica, implica riconoscere piena legit-timità alle diseguaglianze, non senza vantaggio per iceti abbienti16.

In altre parole, l’idea che la democrazia debba esse-re definita soltanto da una serie di procedure non ri-solve i problemi una volta per tutte, perché non sipossono sottovalutare i mutamenti che, nel corsodel Novecento, sono avvenuti proprio in ordine alleprocedure, e che hanno prodotto non poche conse-guenze sulle dinamiche delle democrazie occidenta-li. Proprio esaminando queste trasformazioni ‘nelle’procedure, Mastropaolo colloca il mutamento delledemocrazie occidentali in un quadro più ampio, checoinvolge i processi economici e gli assetti sociali.

Nel corso della sua analisi, Mastropaolo indivi-dua cinque grandi modificazioni ‘nelle’ procedure.Le prime – l’universalizzazione del suffragio el’intensificazione dei diritti – avvengono nelle pri-me stagioni della democratizzazione. Le altre – ilridimensionamento del potenziale di mobilitazionedei grandi numeri, la limitazione del campo di ap-

16 Ibi, p. 39.

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plicazione delle procedure democratiche più restrit-tive (per esempio, mediante l’istituzionalizzazionedelle procedure di governance, o l’introduzione diautorità indipendenti), l’adozione di procedure digoverno d’emergenza – risalgono invece agli ultimitre decenni, e accompagnano una trasformazioneche innesca la riduzione nella garanzia dei diritti.

A questa modificazione nel concetto di demo-crazia si accompagnano – e si affiancano – anchemutamenti profondi nella società e nei sistemi poli-tici. Ed è proprio a questo livello che è possibile ri-conoscere il secondo merito dell’operazione di Ma-stropaolo. La gran parte del dibattito politologicotende infatti a considerare la democrazia – le suetrasformazioni storiche, le tappe della democratiz-zazione, il rendimento istituzionale, o persino la«qualità» di un regime democratico – come il pro-dotto di circostanze che stanno ‘al di fuori’ del si-stema politico, e che possono riflettersi – più omeno direttamente – sulla dinamica e sull’efficien-za delle istituzioni. Per esempio, la «cultura politi-ca» o il «capitale sociale» possono favorire la stabi-lità o l’efficienza del sistema, una determinata con-figurazione dell’economia può determinare un as-setto economico-sociale che va a incidere positiva-mente o negativamente sulla vitalità della «societàcivile» e, dunque, sulle stesse istituzioni democrati-che o, infine, la presenza di fratture nel tessuto cul-turale di un Paese può rendere più difficile la for-mazione di esecutivi omogenei e stabili. In ognuna

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di queste ipotesi – che ovviamente continuano afornire contributi validi – la connessione fra ‘socie-tà’ e ‘politica’ appare – come nella metafora siste-mica – come il rapporto che si viene a creare fral’ambiente e una ‘scatola nera’ in cui si prendono ledecisioni politiche: si tende perciò a pensare allapolitica, al sistema politico e ai suoi attori, in termi-ni funzionali rispetto all’ambiente sociale e alle suemutevoli richieste. Col risultato che la ‘politica’ èpensata come un insieme di apparati che sono chia-mati a ‘rispondere’, con politiche più o meno ap-propriate, alle richieste provenienti dalla società, eche invariabilmente appaiono in ‘ritardo’ rispetto aimutamenti.

Molto probabilmente, è invece più utile adottareuno schema che, pur senza invertire l’ordine dei fat-tori (e dunque senza evocare l’idea di una politicacapace di plasmare la società a propria immagine esomiglianza), consideri i mutamenti del sistemaeconomico-sociale e del sistema politico in paralle-lo, come dimensioni differenti ma connesse dellerelazioni di potere che si producono nella società.Mastropaolo compie proprio un’operazione di que-sto genere, perché la sua analisi delle trasformazio-ni che avvengono ‘nelle’ procedure democratiche èinserita nel quadro di un grande processo, che il po-litologo descrive nei termini di un passaggio crucia-le dal «capitalismo organizzato» a un «capitalismodisorganizzato», e cioè all’assetto post-fordista.

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Per quanto le modalità con cui il dibattito hadato conto di questo insieme di processi siano mol-to differenti, gli elementi di fondo su cui Mastro-paolo di concentra sono tre: a) il processo di globa-lizzazione economica; b) la decadenza dell’azioneregolatrice dello Stato; c) la rottura del precedenteassetto di relazioni industriali e la modificazionedel profilo del lavoro dipendente17. Pertanto, la tra-iettoria seguita a partire dagli Ottanta appare segna-ta da una logica interna piuttosto coerente:

Inaugurato da una straordinaria rivoluzione tecno-logica, quella dell’informatica, il trentennio postfordi-sta è segnato da una manovra politica fondamentale. Daun lato lo Stato ha rinunciato a difendere l’occupazio-ne, pubblica e privata, e i servizi pubblici, a beneficodella crescita economica e dei profitti delle imprese. Dalato opposto, col pieno consenso delle autorità politichenazionali e sovranazionali, i frutti della crescita, i pro-fitti imprenditoriali, ma anche i risparmi delle famigliee gli accantonamenti pensionistici, sono stati dirottatinel gorgo della speculazione finanziaria globale. Nontutti i risparmi, ma in misura variabile, e con un gradodi consapevolezza diversa da parte degli attori, senzatuttavia sortire significative riduzioni della spesa pub-blica, perché altre esigenze erano insorte nel frattempo,né sempre si è ridotta la pressione fiscale, mentre è ingenere cresciuto il costo dei servizi. Di contro, tra atti-vità finanziarie e attività produttive si è aperto undrammatico contrasto, a tutto vantaggio delle prime. Aulteriore discapito degli investimenti, dell’occupazione,

17 Ibi, pp. 89-92.

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nonché del benessere dei cittadini e della stessa coesio-ne sociale18.

In parallelo al passaggio dal «fordismo» al «post-fordismo», la transizione alla stagione del «post-materialismo» scava in profondità sotto il terrenodei grandi soggetti della politica. In qualche misura,sembra prodursi un doppio movimento, perchél’azione ‘dall’alto’ – nei processi economici e poli-tici – trova un corrispettivo al livello delle relazioniinterpersonali. Così, mentre lo Stato e i partiti per-dono (anche per propria decisione) potere di inter-vento nella sfera economica e sociale, la stessa poli-tica – con i suoi grandi ideali e i suoi miti novecen-teschi – viene di fatto logorata da una costante azio-ne di ‘delegittimazione’, proveniente ‘dal basso’,dalla società.

A segnare la tappa di un passaggio d’epoca è –secondo Mastropaolo – il celebre La crisi della de-mocrazia, il rapporto alla Commissione Trilateralesteso da Michel Crozier, Samuel Huntington e JojiWatanuki, alla metà degli anni Settanta, perché pro-prio in quel rapporto il politologo intravede tanto isegnali di una lettura destinata a imprimersinell’immaginario dei decenni seguenti, quantol’anticipazione di una serie di linee di interventopolitico che, di lì a poco, tutti i governi occidentaliavrebbero adottato in modo più o meno coerente19.

18 Ibi, pp. 93-94.19 Cfr. ibi, pp. 140-141.

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Il rapporto scandiva, secondo Mastropaolo, «il tran-sito dal paradigma democratico di matrice kelsenia-na a quello postdemocratico, di cui Schumpeter èfondamentale – benché un po’ tradito –ispiratore»20. Nel rapporto si possono così trovare letracce originarie di quella trasformazione che inve-ste le democrazie occidentali: secondo Mastropao-lo, si registra una passaggio da un modello ‘kelse-niano’ di democrazia – in cui sono fondamentali leprocedure, ma in cui esse prevedono per esempio lacostante ricerca del compromesso fra le diverse par-ti della società, un ruolo cruciale da parte dei partitipolitici, la rappresentanza politica proporzionale – aun modello ‘schumpeteriano’, all’interno del qualela partecipazione popolare si risolve sempre piùnella semplice indicazione del leader, oltre che nel-la decisione delle sorti della competizione elettora-le. Un simile passaggio ha ovviamente i suoi effetti(oltre che alcune sollecitazioni) anche nel dibattitopolitologico, all’interno del quale la propostaschumpeteriana viene ulteriormente superata edestremizzata, in una combinazione fatale con gli as-sunti di un liberalismo economico spesso non im-mune da deformazioni biecamente ideologiche. E lericadute sul terreno dell’indagine della scienza poli-tica finiscono con l’incoraggiare spesso l’abbando-no di qualsiasi spirito critico e col produrreun’autentica rivoluzione lessicale, su cui Mastro-

20 Ibi, p. 142.

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paolo si sofferma, non senza una condivisibile iro-nia:

Tutto un dizionario di parole e concetti è caduto indesuetudine: le classi, lo Stato, la solidarietà, l’egua-glianza, il collettivo, il pubblico, l’interesse generale, ilbene comune, il collettivo, l’interesse generale, il benecomune, il partito, il lavoro, il compromesso. Al loroposto sono balzati in primo piano l’individuo, il merca-to, l’impresa, la governabilità, il profitto, il merito, laleadership, cui da ultimo, quando si sono cominciate adapprezzare le inefficienze, malgrado tutto, del mercato,e le manchevolezze del nuovo ordine democratico, sisono aggiunti, oltre all’ormai onnipresente società civi-le, l’identità, il capitale sociale, i legami deboli, i net-works, la trasparenza, l’accountability, la sussidiarietà,la governance, il nonprofit, il terzo settore e via di se-guito. Non li abbiamo citati neanche tutti, ma c’è di cheriempirne un dizionario21.

Se la «democrazia organizzata» postbellica si reg-geva su partiti e organizzazioni degli interessi (as-sociazioni imprenditoriali e sindacati), e se proprioper questo riusciva a ‘organizzare’ la vita collettiva,a partire dagli anni Ottanta proprio questi pilastri sisgretolano gradualmente. Si sgretolano per effettodei mutamenti economici, ma anche in seguito aquella modificazione ‘culturale’, che allontana i cit-tadini dai partiti e che favorisce invece la moltipli-cazione di mobilitazioni al di fuori dei canali istitu-zionali della rappresentanza. In realtà, nessuna dellegrandi promesse del neo-liberalismo è stata davvero

21 Ibi, p. 151.

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mantenuta, e Mastropaolo segnala per esempiocome il livello della spesa pubblica – a dispetto ditanta retorica – non sia diminuito negli ultimi de-cenni, ma abbia semmai fatto segnare un riorienta-mento. Inoltre, non è neppure corretto descriverequesto insieme di processi nei termini di una «spo-liticizzazione», perché – come scrive – «è politicoanche il diverso dosaggio di dispositivi regolativi,così come sono politici i processi di alienazione delsettore pubblico dell’economia, nonché le nuovegerarchie del potere stabilitesi nelle società demo-cratiche a seguito dei processi privatizzazione e de-regulation e della cessione di cospicue competenzealle autorità sovranazionali»22. Infine – e questo èun passaggio estremamente importante – l’apparen-te ‘declino dello Stato’ ha coperto, in realtà, la cre-scita della discrezionalità di autorità tecniche, buro-cratiche e anche politiche23, tanto che si è trattato diun processo, al tempo stesso, di ‘spoliticizzazione’e ‘politicizzazione’, come nel caso emblematico delNew Public Management:

La politicità della burocrazia weberiana è stata ne-gata, ma in compenso è cresciuta la sottomissione for-male dei suoi vertici al potere esecutivo. È quest’ultimoche detta gli obiettivi di gestione, che sceglie il mana-gement – secondo criteri fiduciari e non senza qualchesospetto di spoils system – e ne verifica i risultati, pro-iettando su di esso i suoi orientamenti politici. Allonta-

22 Ibi, p. 167.23 Cfr. ibi, pp. 167-171.

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nate le amministrazioni dai partiti, si è soprattutto ri-stretto il luogo a cui provengono le pressioni della poli-tica, potenziando tali pressioni con l’abbattimento diantiche barriere – il monopolio delle procedure e il ri-spetto delle norme – che proteggevano, seppur imper-fettamente, le ex burocrazie weberiane, oggi riconverti-te all’efficienza e alla discrezionalità del manage-ment24.

In questo modo, allora, il passaggio verso la ‘post-democrazia’ schumpeteriana non configura affattoquel ‘dimagrimento’ dello ‘Stato panciuto’ di cuihanno parlato molti osservatori – deviati da unoschema liberale, che contrappone meccanicamente‘Stato’ e ‘mercato’ – bensì una modificazione nellalogica di erogazione della spesa pubblica edell’intervento statale. Una modificazione che nonha certo ‘eliminato’ la politica, ma che ha piuttostospostato il potere decisionale in un ambito‘tecnico’:

Ridisegnando la stateness, si sono volute sottrarre aquest’ultima ampie porzioni di potere, per trasferirle aun’altra politica, fatta dalle authorities, dalle banchecentrali, dagli esperti, dagli attori del mercato. Con ciò,un’accanita – e cruciale – partita si è giocata proprio tragli addetti alla politica, la quale ha tra loro istituitonuove gerarchie e una nuova organizzazione del lavo-ro25.

24 Ibi, p. 171.25 Ibi p. 183.

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Le trasformazioni nella stateness sono ovviamentestrettamente correlate al mutamento che avviene nel«secondo fondamentale pilastro» della democraziaorganizzata, e cioè i partiti, oltre che nella composi-zione e nel ruolo della classe politica. A questo pro-posito, sintetizzando i risultati di una sterminata let-teratura, Mastropaolo ricostruisce le traiettorie di unprocesso che inizia a modificare il profilo del parti-to già a partire dagli anni Sessanta, da quando OttoKirchheimer prese a intravedere i contorni delcatch-all-party. Ma si tratta naturalmente di una di-namica che subisce un’accelerazione a seguitodell’impatto della logica mediatica, che d’altronde– e Mastropaolo lo sottolinea – i partiti stessi inco-raggiano, senza essere così del tutto passivi e disar-mati dinanzi all’incedere della mediatizzazione26. E,soprattutto, si tratta di un processo che si intersecacon quella ‘presidenzializzazione’ strisciante cheinveste i sistemi politici occidentali e che altera laclassica distinzione fra legislativo ed esecutivo.

A dispetto della reiterata critica mossa ai partiti– e alla «partitocrazia» – di essere soltanto latori diinteressi specifici, settoriali, ‘di parte’, la ridefini-zione del loro ruolo e della loro fisionomia ha con-dotto al paradosso di un ritorno in scena, da prota-gonisti, degli interessi frazionali. «Tra le accuse piùfrequenti rivolte ai partiti» – scrive Mastropaolo –«c’è quella di veicolare interessi parziali», e, «an-che a prenderla sul serio, e a credere nell’esistenza

26 Cfr. ibi, pp. 201-203.

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di un interesse generale, difficile è però negare chese non vi fossero stati partiti in grado di rappresen-tare gli interessi diffusi e di mobilitare i grandi nu-meri, alcuni interessi parziali – quelli degli ambien-ti economici – avrebbero ottenuto un ascolto predo-minante»27. Naturalmente, Mastropaolo si riferiscenon soltanto agli interessi economici, ma in genera-le agli ‘interessi concentrati’. Il punto è però che lapressione di tali gruppi sulle istituzioni di governonon può che crescere contestualmente all’erosionedel ruolo di linkage fra cittadini e istituzioni in pre-cedenza assolto dai partiti e dal sistema partitico nelsuo complesso.

Il politologo non esclude che la mobilitazionetorni in futuro a essere ‘incapsulata’ all’interno del-le organizzazioni partitiche, ma deve prendere attoche oggi non ci sono segnali rilevanti che paianopreludere a una simile eventualità. Anche perché –sottolinea Mastropaolo – i partiti stessi sembrano ri-manere soggiogati dal potere suggestivo della «de-mocrazia dello scontento», ossia di quel «raccontodi successo»28 che rappresenta i cittadini come in-soddisfatti, delusi, disincantati rispetto alla demo-crazia e alla politica. Segnali in questa direzioneprovengono dal calo della partecipazione alle con-sultazioni elettorali (benché non manchino contro-tendenze e nonostante molti studiosi non ritenganosimili dati rilevanti per valutare lo stato di salute di

27 Ibi, p. 217.28 Ibi, p. 220.

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una democrazia), dalle differenze fra astensione si-stematica e abituale, dall’aumento della volatilitàelettorale, o dalle rilevazioni sul clima di opinione,che più o meno in tutti i paesi occidentali fanno re-gistrare da anni un’altissima sfiducia nei confrontidella politica. Tutti questi segnali – avverte peròMastropaolo – sono a loro volta la conseguenza diquello stesso mutamento che è andato a colpire i pi-lastri della «democrazia organizzata». Non si tratta,cioè, esclusivamente di un cambiamento culturale,bensì anche di un cambiamento che gli stessi partitihanno più o meno implicitamente alimentato: ab-bandonando la funzione di canalizzatori del dissen-so sociale verso determinati obiettivi politici e ver-so il personale politico (e quantomeno verso unasua parte), gli stessi partiti hanno infatti contribuitoa radicare i sentimenti di insoddisfazione e discredi-to. «A osservare gli attori politicamente rilevantiche gareggiano nel classificare come malessere at-teggiamenti e gesti ben più articolati», scrive peresempio Mastropaolo, «appare legittimo il sospettoche la politica stessa si presti a recitare la parte delcapro espiatorio di quanto nella società non funzio-na e d’ogni sorta di malcontento»29. In sostanza, ilpersonale politico non solo non ha tentato di riget-tare l’accusa rivolta contro la politica, ma ha addi-rittura trasformato l’antipolitica in una preziosa ri-sorsa retorica. «Per questo, oltre ad abusare impru-dentemente dei media e dei sondaggi, senza posa ri-

29 Ibi, p. 250.

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petono imprudentemente il racconto del malessere,sebbene ne patiscano l’azione corrosiva», e, «inol-tre, verso la politica mostrano essi stessi un atteg-giamento non solo critico, ma irriverente, quandonon sprezzante»30.

Rispetto al quadro postbellico, anche la demo-crazia contemporanea si basa su un armistizio, ben-ché le clausole siano ben differenti rispetto a quelledel passato. «Se tuttavia nel corso del primo ciclo ilmondo del lavoro era ritenuto politicamente troppoforte per rischiare la collisione, nel secondo altret-tante energie sono state spese per disperderlo, pernaturalizzare le diseguaglianze e per riformularel’idea stessa di conflitto»31. Così, benché sotto ilprofilo formale non siano intervenute rotture, nellarealtà la dinamica appare come nettamente diversa:

L’armistizio postbellico presupponeva il conflittodi classe e provava a mediarlo. Nell’attuale situazioneil conflitto parrebbe scomparso, insieme alle classi so-ciali. Non ritenendolo più una risorsa politicamentespendibile – anche nelle forme più disciplinate che ave-va assunto – l’azione collettiva è stata screditata e ri-classificata come spreco e motivo di disturbo. Ma par-cellizzare e occultare il conflitto non basta a cancellar-lo. Ne mutano semmai forme e direzione. Il conflittoverticale tra classi superiori e classi subordinate nonprocede dal basso verso l’alto, ma dall’alto verso il bas-so. Inaspettatamente si è acceso un micidiale conflittoridistributivo all’incontrario. Il mondo imprenditoriale,

30 Ibi, p. 251.31 Ibi, p. 314.

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i manager pubblici e privati, le professioni autonome, iceti superiori – l’inventario è impreciso – hanno benefi-ciato di un’impressionante ridistribuzione di risorse,mentre una sorda conflittualità orizzontale si registrafra le altre classi, le cui stratificazioni interne si sonocomplicate32.

Per effetto dell’azione combinata di questi fattori,nella «democrazia disorganizzata» le oligarchie fi-niscono col conquistare un ruolo sempre più signifi-cativo, e i «piani alti» dei nostri sistemi democraticitendono a diventare sempre più distanti dai «pianibassi». Ai vertici, si assiste – a tutti i livelli di go-verno – a una presidenzializzazione che consegna ilpotere decisionale ai leader eletti, sempre menovincolati dal controllo delle assemblee rappresenta-tive. Alla base, invece, una molteplicità di associa-zioni e soggetti più o meno connotati politicamentesi contende lo spazio della partecipazione. Forse –osserva Mastropaolo – si tratta delle prime tracce diuna nuova «divisione del lavoro», e dunque dei pri-mi segnali di ciò che potrà diventare nel futuro lademocrazia, in cui le pratiche deliberative potrebbe-ro avere un ruolo significativo33. Ma non è neppureda escludere che si tratti di un’involuzione, e, anzi,l’intreccio di tutte queste tendenze è tale da sugge-rire quantomeno l’ipotesi che la divaricazione fra«piani alti» e «piani bassi» configuri una vera epropria rivincita delle oligarchie e una trasforma-

32 Ibi, p. 315.33 Cfr. ibi, pp. 335-337.

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zione radicale della dinamica democratica. Comescrive Mastropaolo a questo proposito:

Ciò invita a concludere chiedendosi se la mutazio-ne che ha investito i regimi democratici non sia percaso paragonabile per la sua portata a quella imposta airegimi rappresentativi dal suffragio universale, salvoche è di segno opposto. Che non sia in atto una rivinci-ta contro quest’ultimo, senza neanche prendersi il di-sturbo di revocarlo?34

Il quadro così delineato è quantomeno piuttosto fo-sco, ma la crisi economica che stiamo vivendo dal2008 getta un’ombra ancor più sinistra sul nostrofuturo. Tanto che Mastropaolo si chiede se davverola democrazia potrà sopravvivere al declino del be-nessere materiale, all’aumento delle diseguaglianzesociali, alla crescita del disordine, al mutamento de-gli equilibri internazionali che le trasformazionidell’economia mondiale sembrano portarci in dote.Mastropaolo non sposa interamente la tesi della‘crisi’ della democrazia, e tantomeno l’idea che lademocrazia si sia già trasformata in qualcosa di di-verso, in un regime autoritario o ‘plutocratico’ tra-vestito di abiti seducenti. Ma, al tempo stesso, rico-nosce che, dentro il guscio della democrazia con-temporanea, si è prodotta una modificazione cheautorizza almeno il sospetto che, dietro la continui-tà formale, dietro la conservazione delle ‘proce-dure’democratiche (o quantomeno dietro il rispetto

34 Ibi, p. 338.

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di procedure scheletriche), si nasconda di fatto unarottura:

Ciò, a quanto pare, non autorizza a parlare di lesademocrazia. La democrazia delle regole minime è tolle-rante e può farsi con tanti mezzi. Democrazia si chia-mava quella vigente in precedenza, democrazia seguitaa chiamarsi quella attuale. Se non che, cambiata la so-cietà, disperse di sicuro simbolicamente e politicamentele classi sociali, riaggiustate, senza bisogno di rumorosisommovimenti, le regole del gioco, i risultati – o le po-litiche – sono ben altri e altre le gerarchie statali. El’homo democraticus plasmato dalla cultura individua-lista e pro-market, nobilitata dai diritti o tempestatadalla società civile e dal comunitarismo Third way, èben diverso, sul piano normativo e su quello dei com-portamenti sociali, da quello forgiato dalle culture poli-tiche di marca solidarista – socialista e non solo – cheavevano contrastato in passato la differenziazione e ilpluralismo suscitati dalla modernità e dall’industrializ-zazione. C’è dunque da domandarsi se l’accanimentocon cui si difende l’impiego del medesimo termine ser-va volutamente a occultare una rottura anziché indicar-ne una continuità35.

In effetti, nella democrazia odierna, secondo Ma-stropaolo, si cela proprio il «privilegio di pochi»36,e inoltre l’attuale riconfigurazione degli equilibrimondiali fa presagire un’ulteriore abbassamento deilivelli di benessere delle società occidentali, conconseguenze non certo positive sui sistemi politicidemocratici. Così il politologo – formulando nelle

35 Ibi, p. 341.36 Ibidem.

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pagine conclusive una previsione segnata da un cer-to pessimismo – si chiede se la democrazia non siaormai una «causa persa», nel senso in cui ne parla-va Edward E. Said, ossia una causa nobile, ma percui è ormai del tutto inutile combattere:

se è consentito all’autore di queste pagine avanzare– alla luce dei valori equipaggiato dei quali anch’eglipartecipa al complicato gioco democratico, nonché de-gli strumenti interpretativi di cui dispone – qualche pre-visione sullo stato futuro del mondo, la sola che verreb-be di fatto di azzardare, è che la democrazia è una cau-sa persa. Anche se resta una causa nobile. I suoi princi-pi ispiratori – la libertà e il rispetto dell’altro – e la suaambizione di pacificare il conflitto, di contenere e civi-lizzare il potere e metterlo al servizio della collettività,sono di alto pregio. Purtroppo, le regole democratichesono quel che sono, cioè imperfette. Da esse, di per sestesse, è arduo cavare più di tanto. Il resto tocca allapolitica che, ultimamente, per gran parte dei governantisi è fatta molto avara37.

Mastropaolo non rinuncia a riconoscere – già nelnostro presente – i segnali di una possibile inversio-ne di rotta. «Se la condizione attuale delle societàdemocratiche – e del mondo intorno ad esse – ècome sempre instabile», scrive infatti il politologo,«come sempre non mancano uomini e donne chenon solo ragionano e discutono, ma che sono puredisponibili a incantarsi». A dispetto di tutti quei se-gnali che inducono a previsioni funeste, diventa

37 Ibi, p. 345.

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così possibile concedere almeno uno spiraglio allademocrazia. Anche perché, come conclude, «sel’ottimismo sovente è fatuo, il pessimismo ancorpiù spesso è ottuso»38.

L’immagine di una democrazia ‘commissariata’dalla Bce, o la sagoma scheletrica di una politica‘svuotata’ dal pervasivo potere dei mercati, dicononaturalmente solo una parte della realtà. Non tantoperché – come ha sostenuto per esempio BarbaraSpinelli39 – gli Stati del Vecchio continente abbianoeffettivamente e definitivamente rinunciato alla lorosovranità (a meno di non ‘reinventare’ il concetto disovranità, o di equiparare l’Unione Europea a unoStato sovrano). Quanto perché proprio una similerappresentazione finisce col costituire un’attenuantenei confronti dei governi occidentali, i quali – nelmomento in cui ritraggono se stessi come sempliciesecutori delle direttive delle istituzioni sovranazio-nali o della volontà un mercato onnipotente e in-controllabile – finiscono di fatto con lo scaricare sualtri soggetti ogni responsabilità politica, e prima ditutto la responsabilità di non avere compreso – néora, né dieci anni fa – la portata della modificazionegeo-politica e geo-economica in atto. Il fatto che larappresentazione di una democrazia ‘svuotata’ daimercati e di una sovranità insidiata dal poteredell’economia globale sia solo in parte adeguata a

38 Ibi, p. 353.39 Cfr. B. SPINELLI, L’irruzione della realtà, in «la Repubblica»,

10 agosto 2011, p. 1

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comprendere la realtà, non significa però chel’impotenza degli Stati e della politica sia oggi solol’effetto di una distorsione ottica. Piuttosto, i rap-porti fra Stato e mercato, fra politica ed economia,fra la democrazia e ‘globalizzazione’, vanno inseritiin un quadro più ampio, in cui i rapporti economici,gli assetti sociali, le dinamiche istituzionali sono ilrisultato delle relazioni di potere e del loro muta-mento storico. In altri termini – come rileva ancheMastropaolo – persino la democrazia contempora-nea può essere considerata come un «armistizio»,ma si tratta di un armistizio molto diverso da quellodel passato. L’ascesa della finanza e il passaggio aun regime di accumulazione trainato dalla finanzarichiedono infatti forme conflittuali radicalmentedifferenti rispetto alla stagione fordista. In questatransizione, la politica non gioca un ruolo seconda-rio, e non si limita a subire gli effetti della globaliz-zazione. Gli Stati – e dunque le democrazie occi-dentali – agiscono con un ruolo di primo piano neldestrutturare l’assetto fordista, e dunque nel supera-re l’«armistizio» postbellico, per il semplice motivoche questa strada consente – o almeno ha consentitofino a un certo momento – di superare la ‘stagna-zione’ e la ‘crisi’ degli anni Settanta. Oggi la fase diascesa del «post-fordismo» è probabilmente giuntaal termine, o quantomeno si sono esauriti i beneficiche la finanziarizzazione ha parzialmente consenti-to, e così si scopre quanto le speranze riposte in unanuova fase di accumulazione fossero in gran parte

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illusorie. Il punto è però che – dopo questa lungastagione – sul tappeto non rimane più alcun sogget-to capace di esercitare un potere di contrattazione einterdizione all’interno della contrapposizione capi-tale-lavoro. In altri termini, per quanto esista unnesso fra il lavoro e il capitale finanziario, e dunquefra ‘economia reale’ ed ‘economia finanziaria’, nonsi tratta di un legame che consente la strutturazionedi soggetti conflittuali, e perciò non esistono margi-ni reali per la regolazione delle tensioni sociali. Se,da un lato, il versante degli interessi imprenditorialiappare frammentato, dall’altro, la forza materiale diciò che rimane del lavoro organizzato, polo crucialedel vecchio assetto fordista, è inadeguata: inadegua-ta non tanto per pensare il conflitto o per impostaresingole vertenze, quanto per ipotizzare una struttu-razione del conflitto e una sua regolazione. Così, sel’armistizio che reggeva la democrazia di ieri appa-re ormai superato in mille direzioni, e se le condi-zioni interne e internazionali che resero possibile enecessario quell’assetto sono ormai definitivamentetramontate, diventa invece molto difficile ipotizzarese, come e quando si giungerà a un nuovo armisti-zio. Tanto che risulta impraticabile anche solo pen-sare quali soggetti potrebbero sedersi al tavolo dellatregua (a meno di non credere alle formule ritualidella concertazione).

Negli ultimi anni, il dibattito si è spesso soffer-mato sulle possibilità che offrono le pratiche delibe-rative. Nel suo recente Democrazie, Donatella della

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Porta propone una rassegna di queste posizioni, esoprattutto sostiene che si tratta, forse non diun’alternativa, ma comunque di uno strumento ingrado di rispondere alle sfide cui è sottoposta la de-mocrazia liberale rappresentativa40. Anche Mastro-paolo – come si è visto – prende in considerazionequesta ipotesi, e valuta persino l’eventualità chel’affermarsi di una sorta di ‘contropotere’ dal bassopossa prefigurare un’inedita forma di divisione deipoteri. Ma, se nel suo precedente volume La muccapazza della democrazia assegnava a questa ipotesiuna maggiore credibilità41, oggi pare invece abban-donare alcune delle precedenti speranze. E scriveper esempio che la proliferazione dei fenomeni di‘auto-organizzazione’ della società civile, mentreprocede verso la costruzione di spazi di partecipa-zione oltre i partiti, potrebbe addirittura legittimarel’approfondimento della separazione fra «piani alti»e «piani bassi»:

Nei regimi democratici tra piani bassi e piani alti ilrinnovamento delle procedure ha promosso un singola-re processo di dissociazione. Ai piani alti vige la presi-denzializzazione, o qualcosa di assimilabile. A lorovolta società civile, associazioni, movimenti, istanzedeliberative, stake-holders, si disputano accanitamentelo spazio della partecipazione: per la negoziazione spic-cia e per la protesta. Solo che ciò avviene prevalente-mente ai piani bassi, ma ai piani alti suscita non poco

40 Cfr. D. DELLA PORTA, Democrazie, Il Mulino, Bologna, 2011.41 Cfr. A. MASTROPAOLO, La mucca pazza della democrazia. Nuo-

ve destre, populismo, antipolitica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.

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imbarazzo. Potrebbe essere il segno di una divisionedel lavoro in via di perfezionamento. La presidenzializ-zazione semplifica all’estremo l’eterogeneità dei gover-nati intorno al leader da essi eletto. Dal canto opposto,la governance e tutto il resto permettono al popolo –seppur ridotto alle sue parti ritenute politicamente si-gnificative – di far sentire le sue tante voci. Il parla-mento e il governo locale fanno da riempitivo, seppurenon irrilevante, mentre l’atmosfera è impregnata damille retoriche in contrasto, tra cui quelle dedicate allatrascendenza del collettivo e al protagonismo della cit-tadinanza. In aggiunta, un po’ di eccitazione antipoliti-ca e pseudopolitica sembra ai governanti così conve-niente da promuoverla essi stessi42.

A ben vedere, è molto difficile non condividere ilpessimismo di Mastropaolo anche a questo proposi-to. Non certo perché la richiesta di partecipazioneda parte della società o la sperimentazione di prati-che deliberative siano fenomeni deprecabili. Maperché affidare a strumenti di questo tipo le residuesperanze di rivitalizzare la democrazia contempora-nea rischia di condurre a una disillusione quasi ine-vitabile. Per molti versi, sarebbe come pretendere dicombattere una guerra opponendo truppe male ar-mate di volontari a un esercito di professionisti benequipaggiati e dotati di ogni ritrovato tecnologico:forse può consentire una resistenza efficace, forsepuò persino dare la possibilità di spingere sulla di-fensiva le truppe avversarie, ma non può certo con-

42 A. MASTROPAOLO, La democrazia è una causa persa?, cit., pp.337-338.

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durre a uno stabile armistizio, non può portareall’affermazione di un reale equilibrio di poteri. E,soprattutto, non può ‘mettere in forma’ i magmaticiconflitti del XXI secolo e i soggetti frammentatiche nascono nelle reti e nei flussi del capitalismocognitivo.

Dinanzi a questa situazione non ci sono soluzio-ni facili, e cadere nella tentazione dell’anti-politicaè quasi inevitabile. Probabilmente, le ondate – com-prensibili e giustificabili – di sentimenti antipolitici,di disgusto nei confronti del ceto politico, di ‘indi-gnazione’ nei confronti delle istituzioni finanziarie,non possono dare una spinta reale alla definizionedi un ‘armistizio’, capace di dare sostanza alla dina-mica democratica, ma rischiano persino di legitti-mare (più o meno implicitamente) derive opposte.E, sotto questo profilo, Mastropaolo ha ricostruitoin modo esemplare gli effetti distruttivi che la sedu-zione dell’anti-politica ha prodotto sul sistema ita-liano, a partire dalla retorica del «nuovo che avan-za»43. L’unica soluzione – ancora una volta – passaper la ‘porta stretta’ della politica: non di una politi-ca che punti a conquistare posti di potere, ma di unapolitica che possa ‘esprimere’ potere, che sappia‘mettere in forma’ i conflitti poggiando sulle basidell’economia postfordista, prima ancora che di de-finire le condizioni di un nuovo armistizio.

43 Cfr. A. MASTROPAOLO, Antipolitica. All’origine della crisi ita-liana, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000.

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In questa prospettiva, il lavoro degli intellettualiforse non è proprio del tutto inutile come si èpensato in questi anni, in cui la funzioneintellettuale si è limitata allo sgomento commentodella «mutazione antropologica», della derivapersonalistica, del trionfo del più becero edonismoe della trivialità più oscena, quando non si è ridottaa una semplice funzione ornamentale e allacompiaciuta legittimazione di effimere modeculturali e di disastrose avventure politiche. Lademocrazia d’altronde – e Mastropaolo l’ha scrittoin molte occasioni – è anche il risultato delconfronto culturale, ossia dello scontro e dellacontrapposizione fra immagini diverse del ‘doveressere’ della democrazia, dei diritti e della dignitàumana. E proprio per questo – si potrebbe direutilizzando la formula gramsciana, ripresa daErnesto Laclau e Chantal Mouffe – la democrazia èin fondo una sagoma vuota, riempita dagli esitidella battaglia per la definizione dell’ordinesimbolico, e costantemente ridefinita dai conflittiper l’egemonia. Naturalmente, sarebbe fin tropposemplicistico pensare che gli intellettuali e il lavorosull’ordine simbolico possano davvero mutare gliassetti egemonici e gli equilibri di potere, senzatener conto delle forze materiali che si muovono nei‘piani bassi’ della società, nella vita quotidiana, neiluoghi e nei flussi del lavoro contemporaneo.Come, d’altronde, sarebbe una furbesca (o ingenua)semplificazione ritenere che la seduzione di

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qualche nuova ‘narrazione’ del presente possainvertire le sorti di una trasformazione radicale, oarrestare la marcia della «mutazioneantropologica». Ma la strada per ripensare allapossibilità di un nuovo armistizio democraticopassa anche dalla capacità di coniugare il pensierocon il potere, l’immaginario con l’organizzazione,la visione e la forza. Perché, forse, la salvezza dellademocrazia dei posteri richiede davvero una sortadi inedito «Principe postmoderno».

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II

L’ombra di Cesare

Negli anni Settanta la società italiana, o quantome-no una sua parte significativa, visse nella convin-zione che, dietro le quinte della scena politica, simuovessero forze oscure, formate dall’intreccioconfuso fra servizi segreti ‘deviati’, nostalgici delregime fascista, nuovi estremisti di destra, emissaridi potenze straniere, agenti provocatori, e capaci ditessere le trame di un golpe che avrebbe fatto preci-pitare la Repubblica verso un nuovo regime autori-tario. Naturalmente, non si trattava soltanto di unfenomeno di suggestione collettiva, e la scopertadell’inquietante coagulo che stava al margine dellapreparazione della strage di Piazza Fontana fud’altronde, per una parte rilevante dell’opinionepubblica italiana, una rivelazione sconcertante. Senon altro perché portava in superficie un eterogeneosottobosco di soggetti che parevano davvero punta-re alla preparazione di una svolta in senso autorita-rio, con una sequenza simile a quella che in Greciasi era conclusa con l’instaurazione del ‘regime deicolonnelli’. Nel corso degli anni, le inchieste giudi-

ziarie e la ricerca storiografica hanno mostratocome quelle forze esistessero davvero, e come pro-getti di colpo di Stato siano stati effettivamente ela-borati e persino portati avanti con una certa deter-minazione. Ma, nell’immaginario collettivo, questorischio reale divenne qualcosa di più, in qualchecaso addirittura un’ossessione. Intellettuali raffinatie forze politiche teoricamente attrezzate finironocol considerare la minaccia imminente del golpecome la priorità principale con cui la sinistra italia-na doveva fare i conti, prima ancora di avviarequalsiasi ipotesi di trasformazione sociale. Propriosulla scorta di una simile lettura, influenzata peral-tro dal colpo di Stato cileno dell’11 settembre 1973,Enrico Berlinguer elaborò per esempio la strategiadel «compromesso storico». Mentre – su un versan-te diametralmente opposto – l’editore Gian Giaco-mo Feltrinelli visse i suoi ultimi anni di vitanell’ossessione che il Putsch fosse ormai ad un pas-so, e che fosse indispensabile preparare formazioniparamilitari in grado di opporre una guerriglia alnuovo regime.

Anche nella cinematografia di quegli anni ri-mangono molte tracce di quella convinzione. Nelcinema di genere – indicativo di una sensibilità dif-fusa, proprio in quanto cinema popolare – l’ideache dentro il corpo sano delle istituzioni allignasse-ro componenti ‘deviate’, votate alla sovversionedello Stato democratico, offriva per esempio il car-

dine attorno a cui far ruotare storie di ‘commissaridi ferro’, traditi dai loro più stretti collaboratori,quando non dai loro superiori. Il modello cui attinsequesto cinema popolare fu, probabilmente, Z –L’orgia del potere (1968), il celebrato film di Con-statin Costa Gavras, ma le trame venute alla lucedopo la strage di Piazza Fontana alimentarono unalettura specificamente italiana di quello schema,una lettura forse non sempre dagli esiti strepitosi,eppure premiata da un notevole successo di pubbli-co. Nel capostipite di quel genere etichettato un po’semplicisticamente come «poliziottesco», La poli-zia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina, l’immagi-ne di un’organizzazione di ‘cittadini onesti’, che la-vora ambiguamente per finalità eversive è ancorapiuttosto sfumata, ma in produzioni successive di-venta sempre più esplicita. Tanto che in seguito – infilm come il celebre Milano trema: la polizia chie-de giustizia (1973) di Sergio Martino, La poliziasta a guardare (1973) di Roberto Infascelli, La po-lizia accusa: il servizio segreto uccide (1975) dellostesso Martino, La polizia interviene: ordine di uc-cidere (1975) di Giuseppe Rosati, Poliziotti violenti(1976) di Michele Massimo Tarantini – la sagomadi uno Stato parallelo e ‘deviato’, collettore di inte-ressi criminali e di progetti di sovversione dell’ordi-ne democratico, diventa qualcosa di più che il sem-plice pretesto per imbastire trame poliziesche. Per-sino Mario Monicelli, in una chiave ovviamentefarsesca, non rinunciò a dare una propria lettura dei

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progetti golpisti dei nostalgici del vecchio regime,anche se la conclusione di Vogliamo i colonnelli!(1973) sembrava suggerire che i rischi non prove-nissero affatto da quella direzione.

In modo certo un po’ schematico, quella cine-matografia rifletteva l’idea – diffusa soprattuttonell’opinione pubblica di sinistra, e in senso lato‘progressista’ – secondo cui la minaccia per la de-mocrazia proveniva proprio dall’interno dello Stato.In altre parole, la tesi – non sempre esplicitata chia-ramente – era che i rischi di un’involuzione autori-taria nascessero dalla presenza, dentro lo Stato re-pubblicano, di componenti che non avevano maipienamente accettato la transizione alla democrazia:componenti che, nella magistratura, tra le forzedell’ordine, nelle fila della burocrazia civile, nelleForze Armate, esprimevano una sostanziale conti-nuità con il regime autoritario, sia perché avevanoricoperto ruolo di rilievo ai tempi del fascismo, siaperché conservavano il retaggio di un’opposizioneideologica al nuovo ordine democratico (e al rischiodi una sua ‘deriva’ socialista). Anche per questo, leforze di sinistra puntarono alla ‘democratizzazione’di questi settori (soprattutto della magistratura edella Polizia). Ma, agli occhi dell’opinione pubblica‘progressista’, il principale antidoto a una svolta au-toritaria doveva essere cercato non certo nello Stato– in uno Stato percepito peraltro come non piena-mente affidabile – bensì nella società, nelle sue or-ganizzazioni sociali e politiche, nell’esercizio di

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una costante vigilanza, che non escludeva affatto lostrumento della mobilitazione di massa.

Benché sia ancora oggi difficile valutare l’effet-tiva gravità delle minacce golpiste che pesavano sulsistema politico italiano, è però scontato riconosce-re come l’attenzione ossessiva verso il rischio auto-ritario abbia offuscato la visuale di molti osservato-ri e di molte forze politiche. Mentre cercavano os-sessivamente di svelare le trame occulte che si ordi-vano dietro le quinte, e mentre invocavano l’unitàdelle forze democratiche, molti – e tra questi, ov-viamente, soprattutto il Pci di Berlinguer – non siresero conto che un mutamento ben più profondoandava a investire la società italiana. E che, forse,come scrisse in un pamphlet lungimirante e provo-catorio Gianfranco Sanguinetti, celato lo pseudoni-mo di Censor, gli obiettivi politici, economici, so-ciali di un ipotetico blocco autoritario potevano es-sere raggiunti, molto più efficacemente, con il coin-volgimento del Partito comunista nelle compaginidi governo, e, dunque, con una sorta di ‘democra-tizzazione’ del sistema stesso1. Ma, dopo gli anniSettanta, lo spettro del golpe ha continuato ancoraad agitare il sonno di una parte dell’opinione pub-blica italiana, che in questo modo ha potuto distrar-si ed evitato – forse non del tutto inconsapevolmen-te – di accorgersi di quanto avveniva nella società,delle trasformazioni che alteravano in profondità gli

1 Cfr. G. SANGUINETTI, Rapporto veridico sulle ultime possibilitàdi salvare il capitalismo in Italia, Mursia, Milano, 1975.

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equilibri più consolidati. E, così, ancora al principiodegli anni Novanta, nel crepuscolo della ‘Prima Re-pubblica’, proprio mentre venivano gettate le basidi una modificazione radicale delle relazioni socia-li, più di qualcuno lanciò grida di allarme sulle pre-sunte velleità golpiste coltivate dall’allora Presiden-te della Repubblica Francesco Cossiga e da settoridelle Forze Armate.

Nell’arco di circa un ventennio, e dinanzi a unquadro politico sensibilmente mutato, l’ombra mi-nacciosa del colpo di Stato ha perso oggi molta del-la propria vecchia capacità evocativa, e, nell’imma-ginario della sinistra italiana, quelli che negli anniSettanta erano percepiti come ‘corpi ostili’, annidatinel cuore della Repubblica, sono ora investiti delruolo di custodi della legalità democratica. Perquanto esasperato nei toni e provocatorio nelle in-tenzioni, è da questo punto di vista particolarmenteindicativo l’appello con cui Alberto Asor Rosa,nell’aprile del 2011, ha chiamato a una sorta di ‘sta-to di emergenza’ per salvare la democrazia.L’appello di Asor Rosa è infatti indicativo, sia peril modo in cui viene letta la situazione della demo-crazia italiana, sia per gli strumenti che vengono in-dicati per uscire da una situazione giudicata comeormai insostenibile. Sotto il primo profilo, l’autoredi Scrittori e popolo riconosceva nell’attuale dina-mica del sistema politico italiano «una crisi struttu-rale del sistema, uno snaturamento radicale delle re-gole in nome della cosiddetta ‘sovranità popolare’,

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la fine della separazione dei poteri, la mortificazio-ne di ogni forma di ‘pubblico’ (scuola giustizia, for-ze armate, forze dell’ordine, apparati dello stato,ecc.)», oltre che segnali che profilavano «la crea-zione di un nuovo sistema populistico-autoritario,dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ailimiti e oltre i confini della guerra civile) uscire»2.Probabilmente, ancora più interessante della dia-gnosi è però la prognosi. Sotto il secondo profilo,Asor Rosa riteneva infatti che la democrazia italia-na fosse giunta ormai prossima al punto di non ri-torno di una definitiva evoluzione in senso autorita-rio, e che fosse perciò urgente un intervento per im-pedire che il sistema democratico della ‘SecondaRepubblica’ – come già l’Italia del 1922 e la Ger-mania del 1933 – si tramutasse in un regime autori-tario, pur senza una evidente soluzione di continui-tà. Ma, in questo caso, Asor Rosa non chiamavaalla mobilitazione e alla vigilanza la società italia-na, le forze ‘progressiste’ e democratiche, i partiti ei sindacati, come avrebbe probabilmente fatto neglianni Settanta. Nel suo appello, l’intellettuale roma-no evocava invece i ‘corpi neutrali’ dello Stato, os-sia quelle componenti che negli anni Settanta eranopercepite come ostili (o almeno parzialmenteostili):

2 A. ASOR ROSA, Non c’è più tempo, in «il Manifesto», 13 aprile2011, p. 1.

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è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non siarresta il processo e si torna indietro, non resta che cor-rere senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio.Come? Dico subito che mi sembrerebbe incongrua unaprova di forza dal basso, per la quale non esistono lecondizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero aesiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana delpaese è un fattore indispensabile del processo, ma,come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostra-to, non sufficiente. Ciò cui io penso è invece una provadi forza che, con l’autorevolezza e le ragioni inconfuta-bili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinuncia-bili del sistema repubblicano, scenda dall’alto, instauraquello che io definirei un normale ‘stato di emergenza’,si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabi-nieri e della Polizia di Stato, congela le Camere, so-spende tutte le immunità parlamentari, restituisce allamagistratura le sue possibilità e capacità di azione, sta-bilisce d’autorità nuove regole elettorali, rimuove, ri-solvendo per sempre il conflitto d’interessi, le cause diaffermazione e di sopravvivenza della lobby affari-stico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedi-bile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restitui-sce l’Italia alla sua più profonda vocazione democrati-ca, facendo approdare il paese ad una grande, seria,onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone leregole. Le ultime occasioni per evitare che la storia siripeta stanno rapidamente sfumando. Se non sarannocolte, la storia si ripeterà, non ci resterà che dolercene.Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, soloquando ormai è diventato inutile farlo. Dio non vogliache, quando fra due o tre anni lo sapremo con definiti-va certezza (insomma: l’Italia del ’24, la Germania delfebbraio ’33), non ci resti che dolercene3.

3 Ibidem.

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Al di là della stessa praticabilità della soluzioneevocata da Asor Rosa, è piuttosto scontato che unascelta di quel tipo – il ricorso a una sorta di ‘stato diemergenza’ – aprirebbe scenari assai meno rassicu-ranti e molto più incerti rispetto a quelli odierno. Lo‘stato di emergenza’, pur operato dai ‘corpi neutra-li’, introdurrebbe infatti il precedente di una viola-zione dei vincoli costituzionali, che difficilmentepotrebbe preservare da una svolta autoritaria.D’altronde – e lo mostrano efficacemente gli stu-diosi degli autoritarismi novecenteschi – spesso imilitari intervengono come garanti dell’ordine, del-la pace sociale e persino della democrazia, ma, al-trettanto spesso, le promesse di pacificazione e iprogetti di rapido ritorno a una piena dinamica de-mocratica lasciano il posto a regimi autoritaritutt’altro che disponibili a uscire di scena.

Dinanzi alle polemiche sollevate dall’appello,non solo presso gli organi di informazione vicini algoverno di destra, ma anche fra intellettuali di sini-stra, Asor Rosa ha più volte ricalibrato la propriaproposta, definendola come una provocazione para-dossale. «La mia proposta è una forzatura e le for-zature servono a farsi capire meglio», ha affermatoper esempio4. Per quanto paradossale, l’appello diAsor Rosa a una sorta di ‘golpe costituzionale’ è in-

4 Cfr. La sparata di Asor Rosa. «Stato di emergenza per salvare lademocrazia», intervista di G. DE MARCHIS, in «la Repubblica», 14aprile 2011, p. 11.

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dicativo della trasformazione che ha investito ciòche oggi rimane della vecchia opinione pubblicaprogressista, e soprattutto dello schema di interpre-tazione della realtà che orienta quell’aggregato ete-rogeneo che spesso viene enfaticamente definitocome il «popolo della sinistra».

Benché i rimedi che propone siano diametral-mente opposti a quelli evocati da Asor Rosa, il re-cente pamphlet di Luigi Ferrajoli, Poteri selvaggi.La crisi della democrazia italiana5, non formulauna diagnosi della situazione odierna molto diffe-rente da quella dell’intellettuale romano, benchécerto più articolata e teoricamente solida. Ancheper Ferrajoli, infatti, la democrazia italiana attraver-sa un processo di crisi sempre più evidente, effettodi diverse tendenze che sembrano scaturire soprat-tutto dalla concentrazione di potere economico, po-tere mediatico e potere politico nelle manidell’attuale Presidente del Consiglio. Le ripetuteviolazioni della lettera o dello spirito della Costitu-zione da parte della maggioranza di centro-destrauscita dalle elezioni politiche del 2008 sarebberomanifestazione di un rifiuto dello stesso costituzio-nalismo, strettamente legato a una concezione se-condo cui l’investitura popolare attribuisce ai de-tentori delle cariche pubbliche una piena legittima-zione ad agire anche al di là dei vincoli sanciti dallaCostituzione. Ciò che è scaturito da questa trasfor-

5 L. FERRAJOLI, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italia-na, Roma – Bari, Laterza, 2011.

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mazione è «una forma di democrazia plebiscitariafondata sull’esplicita pretesa dell’onnipotenza dellamaggioranza e della neutralizzazione di quel com-plesso di regole, di separazioni e contrappesi, di ga-ranzie e di funzioni e istituzioni di garanzia che co-stituisce la sostanza della democrazia»6. La conce-zione plebiscitaria della democrazia non si limitaperò a determinare l’allentamento, o l’aggiramento,dei vincoli costituzionali, perché, parallelamente,innesca anche una dissoluzione della dimensionepolitica della rappresentanza, che viene di fattosvuotata dalla deriva populista, col risultato di defi-nire il quadro di una radicale crisi della democraziaitaliana:

Esiste infatti […] un nesso biunivoco tra forma rap-presentativa e dimensione costituzionale della demo-crazia e perciò tra la crisi dell’una e la crisi dell’altra,tanto che possiamo oggi parlare di una crisi della de-mocrazia tout court: della democrazia, per effettodell’involuzione populista della rappresentanza e dellamancanza di limiti per essa rivendicata; ma anche dellademocrazia politica, per effetto dei conflitti di interessial vertice dello Stato e dell’indebolimento delle regoledella democrazia costituzionale. I nemici della demo-crazia costituzionale, in breve, sono anche i principalinemici, mascherati da amici, della democrazia politica7.

In un panorama in cui il termine «democrazia» ap-pare logorato da usi contrastanti, e in cui le molte-

6 Ibi, p. VII.7 Ibi, p. IX.

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plici diagnosi sulla ‘crisi’ della democrazia mettonoin luce processi molto diversi (e qualche volta con-traddittori), la riflessione di Ferrajoli si distingueper il rigore teorico. Il giurista – richiamando la ri-flessione svolta, in termini ben più ampi, in Princi-pia iuris. Teoria del diritto e teoria della democra-zia8 – adotta infatti una visione della democraziache si allontana dalle nozioni procedurali, le quali siconcentrano puramente sulle procedure con cuivengono assunte le decisioni politiche. Mentre leteorie procedurali – cui possono essere ricondotte lediverse proposte di Joseph Schumpeter, Hans Kel-sen, Norberto Bobbio e molti altri – si soffermanosolo sulle regole ‘formali’, che stabiliscono chi deb-ba prendere le decisione e come si debba giungere atali decisioni, Ferrajoli avanza l’idea di una «demo-crazia costituzionale», che pone vincoli precisi an-che sul contenuto delle deliberazioni democratiche,ossia su ‘cosa’ viene effettivamente deciso in uncontesto democratico (e dunque su cosa ‘non’ puòessere deciso).

In estrema sintesi, i motivi che spingono Ferra-joli a elaborare l’idea della democrazia costituzio-nale sono due. In primo luogo, si tratta della realtàdel costituzionalismo rigido postbellico, una realtàin virtù della quale la volontà della maggioranza èlimitata da alcuni vincoli non aggirabili, rappresen-tati principalmente dai diritti stabiliti costituzional-

8 Cfr. L. FERRAJOLI, Principia iuris. Teoria del diritto e teoria del-la democrazia, Laterza, Roma – Bari, 2007, 2 voll.

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mente. Da questo punto di vista, allora, le democra-zie contemporanee sono contrassegnate dall’esi-stenza di una «sfera dell’indecidibile»: una sfera sucui le maggioranze non possono decidere, ma che sidevono limitare a rispettare. In secondo luogo, lademocrazia costituzionale si profila anche come«democrazia sostanziale», non perché si riferiscaall’eguaglianza sostanziale degli individui, ma per-ché attiene ai diritti fondamentali fissati dai testi co-stituzionali. «La costituzionalizzazione rigida deidiritti fondamentali, imponendo divieti e obblighi aipubblici poteri», scrive a questo proposito Ferrajoli,«ha infatti innestato anche nella democrazia una di-mensione sostanziale relativa a ciò che non può es-sere o deve essere deciso da qualunque maggioran-za, in aggiunta alla tradizionale dimensione politi-ca, meramente formale o procedurale, relativa alleforme e alle procedure»9. Fra questi diritti, Ferrajoliriconosce, inoltre, diritti formali di autonomia e di-ritti sostanziali, che autorizzano a qualificare il ga-rantismo in quattro diverse dimensioni: quella deidiritti politici, quella dei diritti civili, quella dei di-ritti liberali e, infine, quella dei diritti sociali. E pro-prio la garanzia costituzionale dei diritti fondamen-tali costituisce anche la garanzia della democrazia.

Naturalmente, Ferrajoli è ben consapevole chela propria idea di democrazia costituzionale defini-sce solo un modello normativo, e che ogni reale de-mocrazia presenterà sempre rilevanti margini di

9 L. FERRAJOLI, Poteri selvaggi, cit., p. 10.

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ineffettività delle garanzie fissate costituzionalmen-te. Ma, ciò nondimeno, ritiene che l’ineffettivitàraggiunga oggi in Italia livelli tali da mettere in di-scussione la stessa esistenza di vincoli costituziona-li all’esercizio del potere. In questo senso, Ferrajolipensa soprattutto a una serie di dinamiche che sisono prodotte ai vertici più elevati, e cioè a disposi-zioni che hanno ripetutamente tentato di aggirare ildettato costituzionale, di ‘forzarne’ alcuni puntispecifici, o addirittura di mutarne lo spirito di fon-do.

In termini sintetici, nella sistematica disaminacompiuta da Ferrajoli, le cause della decostituziona-lizzazione operante ai vertici del sistema democrati-co italiano sono principalmente quattro, peraltronon prive di interne connessioni. In primo luogo, la«verticalizzazione» e la «personalizzazione» dellarappresentanza, fenomeni non certi esclusivi delcontesto italiano, che però assumono una curvaturaparticolare in virtù dell’ideologia populista che leaccompagna. Secondo questa ideologia, scrive Fer-rajoli, «la democrazia politica consisterebbe, benpiù che nella rappresentanza della pluralità delleopinioni politiche e degli interessi sociali e nellaloro mediazione parlamentare, nella scelta elettora-le di una maggioranza di governo e con essa del suocapo, identificati con l’espressione diretta ed orga-nica della volontà e della sovranità popolare, sullequali soltanto si fonderebbe la legittimità dei pub-

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blici poteri»10. Questa ideologia – al tempo stessoanti-costituzionale, perché tende a fuoriuscire dagliargini costituzionali, e anti-rappresentativa, inquanto nega la funzione della rappresentanza parla-mentare – avvia, secondo Ferrajoli, un autenticomutamento di sistema:

non già semplicemente, come pure talora si sostiene,all’alterazione di fatto del sistema parlamentare in si-stema presidenziale, ma a qualcosa di assai più grave eprofondo. Il populismo, allorquando l’identificazionetra capo e popolo non è solo una tesi propagandisticama viene proposta come un connotato istituzionale ecome una fonte di legittimazione dei pubblici poteri,equivale a un nuovo e specifico modello di sistema po-litico11.

In secondo luogo, la crisi «dall’alto» della rappre-sentanza scaturisce da quella progressiva confusio-ne e concentrazione dei poteri – di cui il conflitto diinteressi è l’aspetto più evidente – che finisce coldeterminare «una forma singolare di regressionepremoderna allo stato patrimoniale, per di più con-trassegnata da connotati populisti»12. Il terzo fattoredi crisi è rappresentato invece dal mutamento delruolo dei partiti: un mutamento che è legato a quan-to avviene nella società, ma che si è soprattutto tra-dotto nella «crescente integrazione dei partiti nelloStato» e, dunque, nel venir meno della distinzione

10 Ibi, pp. 22-23.11 Ibi, p. 27.12 Ibi, p. 29.

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fra livello partitico e livello istituzionale. Semprepiù integrati dentro i meccanismi della gestione delpotere, i partiti diventano così «organi dello Statoorganizzati secondo la vecchia legge ferrea delleoligarchie», con una serie di ulteriori implicazioni,tra cui l’espansione di un ceto politico autoreferen-ziale, la proliferazione dei costi della politica, ilconsolidamento dei meccanismi di cooptazione, masoprattutto la dissoluzione della mediazione rappre-sentativa. Infine, il quarto fattore indicato da Ferra-joli nella sua analisi della crisi «dall’alto» della de-mocrazia costituzionale consiste nelle due «patolo-gie» del controllo politico e del controllo proprieta-rio dell’informazione: due patologie esistenti inmolti sistemi democratici, ma che assumono in Ita-lia un rilievo qualitativamente differente per la con-centrazione di queste due forme di controllo nellemani del leader dello schieramento di centro-destra.

Ferrajoli non si limita però a sottolineare la por-tata del processo di «decostituzionalizzazione» cheavviene ai vertici del sistema italiano, perché ritieneinfatti che – in parallelo a questo – si svolgano, «dalbasso», nella società, altre dinamiche, altrettanto di-struttive per la democrazia costituzionale. In questocaso, lo sguardo del giurista si rivolge a fenomeniinevitabilmente più evanescenti, che chiamano incausa la dimensione ‘culturale’ del mutamento poli-tico. Innanzitutto, attira l’attenzione su un dupliceprocesso di «omologazione dei consenzienti» e di«denigrazione dei dissenzienti», per cui «chi non si

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identifica con la volontà popolare espressa dal capoè un potenziale nemico: un comunista, un disfatti-sta, un anti-italiano, antidemocratico e antipatriotti-co, in ogni caso privo di legittimazione perché noneletto dalla maggioranza»13. Lo sfondo di una simi-le «omologazione» è quello di una «quotidiana di-seducazione di massa», i cui ingredienti invariabilisono «l’abbassamento della morale pubblica, l’esal-tazione e l’esibizione, nel linguaggio e nella praticapolitica, della volgarità, del turpiloquio, dell’igno-ranza e del maschilismo»14. Una paura alimentatastrumentalmente, che si rivolge principalmente con-tro gli immigrati, diventa un formidabile strumentodi polarizzazione e di conquista del consenso, maalla paura dello straniero si affianca anche la «pauradel futuro», ossia la convinzione che il futuro nonpossa che portare a un peggioramento delle condi-zioni di vita. Ed è proprio questa paura che fornisceun efficace sostegno alle politiche di «aggressioneal lavoro», le cui finalità secondo Ferrajoli sonopiuttosto chiare:

L’obiettivo di queste politiche è la divisione e il di-sarmo dell’insieme dei lavoratori: per l’indebolimentodelle tradizionali forme di solidarietà basate sul sensocomune di appartenenza alla medesima condizione; perla competizione nel mondo del lavoro innestata dalladisoccupazione crescente e dalla moltiplicazione dellefigure atipiche di lavoro precario; per la generale svalo-

13 Ibi, p. 42.14 Ibi, p. 47.

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rizzazione del lavoro provocata dalle possibilità di di-slocare le produzioni fuori dai confini nazionali; per laneutralizzazione del conflitto sociale e l’imposizione ailavoratori della rinuncia ai loro diritti sotto il ricatto deilicenziamenti, come negli stabilimenti di Pomigliano edi Mirafiori, dove la Fiat ha inaugurato un modello dirapporto di lavoro basato sul disprezzo di ogni regola,dalla Costituzione alle leggi e ai contratti collettivi, sul-la conseguente dissoluzione dell’intero diritto del lavo-ro e sul carattere apertamente assoluto e selvaggio ri-vendicato dai poteri imprenditoriali15.

Gli altri tre processi segnalati da Ferrajoli colgonogli aspetti specifici di un clima emotivo di cui non èdifficile ritrovare conferme nella quotidianità. E ciòè particolarmente evidente nel caso della «spoliti-cizzazione di larghi settori dell’elettorato, che simanifesta nell’astensionismo, nell’antipolitica, nelqualunquismo e, per altro verso, nella sollecitazionee nella legittimazione di tutti gli egoismi, individua-li e sociali»16; nel caso del «crollo della partecipa-zione dei cittadini alla vita pubblica – delle sue for-me, delle sue sedi e delle sue occasioni – determi-nato dal corrispondente fattore di crisi dall’alto,cioè dal crescente distacco dei partiti dalla società edalla loro perdita di rappresentatività e di radica-mento sociale»17; e, infine, nel caso della «trasfor-mazione dell’informazione, a causa del suo duplice

15 Ibi, p. 47.16 Ibi, p. 48.17 Ibi, p. 53.

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controllo, proprietario e politico, in una fabbrica delconsenso»18.

A una diagnosi così impietosa della situazioneitaliana, Ferrajoli non manca di far seguire l’indica-zione di alcuni rimedi che potrebbero, se non risol-vere la ‘crisi’, comunque arginare la tendenza alladecostituzionalizzazione. Si tratta di rimedi che toc-cano diversi nodi, dal ripristino di un sistema eletto-rale effettivamente proporzionale (che, soprattutto,elimini il collegamento fra coalizioni di liste e ilnome del candidato alla guida del governo),all’introduzione di vincoli più serrati ai conflitti diinteresse (anche relativi al cumulo fra incarichi dipartito e cariche istituzionali), alla definizione dicriteri che garantiscano la democrazia interna aipartiti, a una riforma del sistema informativo fina-lizzata a garantire la libertà di espressione, il plura-lismo, l’autonomia dai poteri economici e politici.

A dispetto di queste indicazioni, il giurista nonnasconde però a se stesso – e neppure ai lettori – néla complessità della situazione né la difficoltà diuna inversione di marcia, come peraltro non occultale proprie posizioni politiche. E, per esempio, allaconclusione del pamphlet, scrive:

Il superamento della crisi attuale richiede lo svilup-po, a livello politico e sociale, di una cultura costituzio-nale e di una concezione della democrazia come siste-ma fragile e complesso di separazioni e di equilibri trapoteri, di limite e garanzie, alternativa a quella della de-

18 Ibi, p. 55.

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stra, oggi purtroppo egemone perché in gran parte con-divisa anche da molti esponenti della sinistra. Richiede,in secondo luogo, che il nesso tra forma e sostanza del-la democrazia, che caratterizza il paradigma normativodella democrazia costituzionale, venga quanto più com-piutamente realizzato attraverso la costruzione di un si-stema di garanzie e di istituzioni di garanzie in grado dicolmare la divaricazione, in questi anni diventata pato-logica, tra il ‘dover essere costituzionale’ e l’‘essere’effettivo del diritto e del sistema politico. Sotto entram-bi questi aspetti, la battaglia per la democrazia è oggi,come sempre, una battaglia soprattutto culturale. In unduplice senso: nel senso che il nesso tra democrazie eCostituzione è un fatto naturale, oggi smarrito nel sen-so comune, e nel senso, più generale, che lo sviluppodella cultura è un fattore essenziale della costruzionedella democrazia19.

Naturalmente, sarebbe piuttosto semplice mettere inluce i punti deboli delle proposte di Ferrajoli. Nontanto in virtù del contenuto dei rimedi che il giuristapropone, e per le effettive conseguenze che esseprodurrebbero, quanto perché l’odierno sistema ita-liano appare del tutto privo di qualsiasi forza – chenon sia del tutto marginale – effettivamente dispo-sta a impugnare quelle proposte, anche solo parzial-mente, come strumento di battaglia politica. E ledifficoltà emergono, per esempio, già a propositodell’ipotesi di un ritorno al sistema elettorale pro-porzionale. Benché non abbia evidentemente pro-dotto risultati apprezzabili sotto quasi nessun profi-lo, l’attuale sistema elettorale trova infatti un soste-

19 Ibi, p. 85

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gno implicito non solo nel Pdl, ma soprattutto nelPd (che, grazie a questa legge elettorale è riuscito amettere fuori gioco le formazioni della sinistra radi-cale, e che non sarebbe probabilmente disposto a ri-nunciare alla posizione oligopolistica così ottenuta).Ma un discorso simile – relativo dunque alla reali-stica possibilità di tradurre in azioni concrete leproposte di Ferrajoli – vale anche per gli altri tre ri-medi.

L’elaborazione di una linea politica non è peròl’obiettivo di una critica intellettuale come quellaesercitata da Ferrajoli, o, quantomeno, non èl’obiettivo prioritario. Poteri selvaggi è infatti so-prattutto un pamphlet di denuncia, un libro che pun-ta ad attirare l’attenzione di un’opinione pubblicaassuefatta e anestetizzata da gossip, scandali e pole-miche, intorno alla gravità di una situazione giudi-cata come ormai insostenibile. E, da questo puntodi vista, è difficile non concordare con molti, e for-se con tutti, i punti dell’analisi di Ferrajoli, nel mo-mento in cui segnala la crisi del ruolo dei partiti, laloro vertiticizzazione, la lievitazione dei costi dellapolitica, ma anche la degenerazione del dibattitopolitico, o l’utilizzo strumentale della paura. Ciònonostante, ci sono alcuni passaggi nel discorso diFerrajoli che non convincono, non perché non col-gano aspetti reali della società italiana, bensì perl’idea del rapporto fra diritto e politica, e persinofra democrazia e cultura, che l’interpretazione ge-nerale sembra presupporre.

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Nella sua analisi, come si è visto, Ferrajoli nontrascura affatto di considerare la dimensione ‘cultu-rale’ del processo di ‘decostituzionalizzazione’ delsistema italiano. In diversi punti, infatti, sottolineala portata della decadenza dello spirito civico inne-scata non tanto dalle discussioni sui molti scandaliche hanno coinvolto di recente i leader politici ita-liani, quanto dai tentativi di giustificazione deicomportamenti illeciti, o al confine del lecito, che sisono avuti sia sul terreno politico, sia sul terrenogiuridico, sia nel dibattito pubblico. In questo sen-so, è infatti molto probabile che – come ritiene Fer-rajoli – non si tratti di eccezioni occasionali, ma dilacerazioni non facilmente rimarginabili, destinate alasciare tracce profonde. È, per un verso, l’effettodella marcia di quella che Massimiliano Panarari hadefinito l’«egemonia sottoculturale», e le cui radicirisalgono addirittura agli anni Ottanta20. Ma, per unaltro, è anche una trasformazione ‘culturale’ che haun peso politico, non tanto perché ‘deformi’ la ‘ve-rità’, quanto perché cambia la percezione che cia-scuno di noi ha di sé come ‘cittadino’, come sog-getto politico, come parte di una comunità (o di unpartito, di un gruppo sociale, di una classe), e dun-que la visione stessa della ‘politica’, dei suoi limiti,dei suoi compiti, dei suoi obiettivi ultimi. E una tra-sformazione che, proprio per questo, non può nonavere delle implicazioni sullo stesso concetto di

20 Cfr. M. PANARARI, L’egemonia sottoculturale. L’Italia daGramsci al gossip, Einaudi, Torino, 2010.

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«democrazia», ossia sul significato che noi attri-buiamo alla parola «democrazia».

Per quanto la democrazia sia senza dubbio unaquestione di regole e procedure, e la democrazia ri-chieda che esistano dei criteri ‘mimini’, la demo-crazia non si esaurisce infatti nelle regole, perché,inevitabilmente, è anche un ‘prodotto culturale’:non nel senso che la democrazia richieda determi-nate basi culturali per essere efficiente (come vole-vano i teorici americani della civic culture), ma nelsenso che il significato di «democrazia» è sempreun prodotto culturale, è sempre il risultato di unconfronto teorico, di conflitti sociali, di esclusioni edi inclusioni, di contrapposizioni e alleanze interna-zionali. Se la ‘cultura’ non è un dato ‘naturale’, nonè una sorta di ‘essenza’ sempre uguale a se stessa,ma un insieme di valori, significati, codici in co-stante trasformazione, così anche il significato della«democrazia» non può che riflettere il mutamentodella società, delle aspirazioni dei singoli individui,dei progetti delle forze organizzate. E, dunque, nonpuò che cambiare, più o meno rapidamente, più omeno impercettibilmente. Ovviamente, sarebbepiuttosto superficiale ritenere che la ‘cultura’ noninfluisca sui rapporti di potere, perché, a ben vede-re, intesa in un senso lato e non ‘essenzialista’, lacultura contribuisce a strutturare i rapporti di pote-re. Scomodando (impropriamente) la nozione gram-sciana, si potrebbe dire che l’«egemonia» non è unasorta di ‘sovrastruttura’, che sta ‘sopra’ al livello

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politico e al livello giuridico, ma contribuisce inve-ce a costruire i rapporti di potere. Per questo, nonpuò non incidere sulla formazione di nuove norme,in continuità o discontinuità con quelle precedenti,oltre che sulla stessa interpretazione delle norme(persino delle norme ‘fondamentali’). Pertanto, sipotrebbe dire, un mutamento nelle forze che eserci-tano una «egemonia» può determinare una rotturaradicale rispetto al precedente assetto politico, maanche un mutamento meno brusco, che si limita adagire sul quadro esistente, modificandone alcuniaspetti.

Al di là dell’opportunità di utilizzare una nozio-ne ingombrante (e qualche volta persino deforman-te) come «egemonia», è piuttosto evidente che, nel-la storia costituzionale della Repubblica, si è verifi-cato un mutamento graduale ma costante nel sensodi alcune norme. Un mutamento che, da un lato, si ètradotto anche in vere e proprie modifiche (comenel caso del Titolo V), mentre, dall’altro, ha riguar-dato solo l’ambito di estensione di alcuni diritti ri-conosciuti, in via generale, dalla Carta. La«dignità» umana, evocata in diversi punti del testo,è un concetto solo all’apparenza definito dei suoicontorni. All’indomani della Seconda guerra mon-diale, dopo il ventennio della dittatura fascista,dopo le leggi razziali e lo sterminio degli ebrei, ilriferimento alla «dignità» doveva ovviamente riflet-tere l’impegno a evitare che si potesse giungerenuovamente a simili derive, ma, anche tra le fila dei

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costituenti, non dovevano mancare divergenze sulmodo di concepire la «dignità» e il soggetto cuiessa veniva riconosciuta. Dopo più di sessant’anni,il campo della «dignità» si è invece sensibilmentemodificato per effetto di mutamenti culturali com-plessi, articolati e non sempre agevolmente ricon-ducili nell’alveo dello schema dell’egemonia. Così,ad avviso di alcuni, è necessario eliminare qualsiasiriferimento alla dignità umana nel momento in cuisi afferma la libertà di intrapresa, e per altri è indi-spensabile separare la dignità dalle condizioni so-ciali e dal lavoro svolto, arrivando per esempio aconsiderare la vendita di prestazioni sessuali comeun lavoro che non implica una violazione della di-gnità della persona, in quanto risultato di un liberoscambio fra acquirente e offerente. Per altri ancora,è invece necessario estendere la tutela della dignitàanche agli embrioni, perché, in quanto vita giàumana, non possono essere trattati come semplicemateriale biologico. Mentre infine, in un’ulterioreprospettiva, la garanzia effettiva della dignità ri-chiederebbe il riconoscimento a ciascun individuodi un reddito minimo di cittadinanza, capace di con-sentire anche ai cittadini più poveri un livello divita minimamente accettabile. Ognuna di queste in-terpretazioni è ovviamente legittima, anche se nonnecessariamente condivisibile. Inoltre, ciascuna diesse può convivere con l’assetto costituzionale esi-stente. Il punto chiave è, però, che una determinatadeclinazione della nozione di «dignità», ogni con-

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creto ‘contenuto’ di questo concetto generale, di-venta operativo dal punto di vista politico solo nellamisura in cui viene sostenuto da una base ‘politica’e ‘culturale’, che influisce, prima ancora che sullamodificazione della fisionomia della Costituzione,sulla dilatazione o nella restrizione dal suo campodi interpretazione e applicazione. Detto in altri ter-mini, si potrebbe anche affermare che l’etica condi-visa di un popolo – l’ethos – influisce sul significa-to che assegniamo ai termini e, dunque, alla sferadei diritti che riteniamo debbano essere garantiti. E,quando l’ethos inizia a divaricarsi dalla norma edalla sua interpretazione, è inevitabile che tale di-scrasia venga percepita come una violazione diprincipi considerati come giusti, e che prima o poisi arrivi a una modifica (o quantomeno a tentativi dimodifica). Naturalmente, non si tratta di processisemplici e lineari, sia perché i mutamenti ‘culturali’procedono lentamente (e impercettibilmente), siaperché tali mutamenti possono essere recepiti conmaggiore o minore rapidità dal sistema politico edal sistema giuridico, sia perché l’ethos non è affat-to omogeneo e sempre coerente. Ma può essere si-gnificativo il caso della Costituzione americana,che nel corso di più di due secoli ha offerto la cor-nice a mutamenti sostanziali nel campo dei diritticivili e a proposito dei poteri del governo federale:mutamenti che hanno rispettato la continuità forma-le della Costituzione, ma che, al tempo stesso, han-no modificato la sostanza del regime politico statu-

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nitense. Per molti versi, d’altronde, ciò che ha attra-versato le democrazie occidentali nell’ultimo tren-tennio è stato proprio un processo di questo tipo, incui – accanto alle politiche – sono cambiate leaspettative, le ‘visioni’ della politica, oltre che il si-gnificato della «democrazia».

In modo efficace, Alfio Matropaolo, nel suo re-cente La democrazia è una causa persa? Paradossidi un’invenzione democratica, affronta il dibattitoche, negli ultimi anni, ha opposto la tesi pessimistadi un logoramento della ‘democrazia’ e la tesi otti-mista di una sua sopravvivenza21. Secondo i ‘pessi-misti’ – tra cui Colin Crouch, Sheldon Wolin, Mas-simo L. Salvadori – le democrazie liberali occiden-tali si sarebbero ormai trasformate in ‘post-demo-crazie’, in sistemi che escludono una reale parteci-pazione da parte dei cittadini e in cui le decisioni ela competizione politica sono riservate a un’oligar-chia piuttosto compatta nei principi e nei program-mi22. Secondo gli ‘ottimisti’, lo stato odierno delledemocrazie occidentali non autorizza in alcunmodo l’idea che sia visibile una discontinuità ri-

21 Cfr. A. MASTROPAOLO, La democrazia è una causa persa? Pa-radossi di un’invenzione democratica, Bollati Boringhieri, Torino,2011.

22 C. CROUCH, Postdemocrazia, Laterza, Roma – Bari, 2004 (ed.or. Post-Democracy, Polity Press, Cambridge, 2004), S. WOLIN, De-mocrazia Spa. Stati Uniti: una vocazione totalitaria?, Fazi, Roma,2011 (ed. or. Democracy Incorporated. Managed Democracy and theSpectre of Inverted Totalitarism, Princeton University Press, Princeton– Oxford, 2008), M.L. SALVADORI, Democrazie senza democrazia,Laterza, Roma – Bari, 2009.

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spetto ai primi tre decenni seguiti alla Secondaguerra mondiale: in altre parole, benché le forze po-litiche e cittadini abbiano mutato le loro posizioniin merito a molte questioni, non vi sarebbero statemodificazioni nelle procedure ‘minine’ dei regimioccidentali, e tanto meno modificazioni tali da con-figurare una perdita dei caratteri indispensabili perdefinire ‘democratico’ un determinato regime poli-tico23. Esaminando queste due diverse posizioni, esoprattutto considerando in modo approfondito legrandi tendenze che attraversano i nostri sistemi po-litici, Mastropaolo giunge alla conclusione che en-trambe le visioni sono in fondo corrette. Ognunadelle due riflette, in effetti, una concezione diversadella democrazia, e il punto è che – nel corsodell’ultimo trentennio – si è determinato un passag-gio da una concezione ‘ambiziosa’ della democra-zia (in cui rivestivano un ruolo centrale gli obiettividella riduzione delle diseguaglianza e di una vastapartecipazione popolare), a una concezione ‘mini-ma’ della democrazia (in cui diventano centrali solole procedure e in cui la partecipazione si riduce almomento elettorale). In questo senso, si può alloralegittimamente affermare che le democrazie odiernesono democrazie, come pure erano democraziequelle degli anni Sessanta e Settanta. Ciò nondime-no, è altrettanto legittimo riconoscere tutti quei mu-

23 Per una discussione delle diverse posizioni nel dibattito sul «di-sagio della democrazia», si veda C. GALLI, Il disagio della democrazia,Einaudi, Torino, 2011.

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tamenti radicali segnalati dai ‘pessimisti’, e proprioper questo si può anche sospettare che l’enfasi sulla‘continuità’ della dinamica democratica finisca difatto col favorire l’occultamento delle reali dinami-che di potere:

La democrazia delle regole minime è tollerante epuò farsi con tanti mezzi. Democrazia si chiamavaquella vigente in precedenza, democrazia seguita achiamarsi quella attuale. Se non che, cambiata la socie-tà, disperse di sicuro simbolicamente e politicamente leclassi sociali, le regole del gioco, i risultati – o le politi-che – sono ben altri e altre le gerarchie sociali. El’homo democraticus plasmato dalla cultura individua-lista e pro-market nobilitata dai diritti o temperata dallasocietà civile e dal comunitarismo Third way, è ben di-verso, sul piano normativo e su quello dei comporta-menti sociali, da quello forgiato dalle culture politichedi marca solidarista – socialista e non solo – che aveva-no contrastato in passato la differenziazione e il plurali-smo suscitati dalla modernità e dall’industrializzazione.C’è quindi da domandarsi se l’accanimento con cui sidifende l’impiego del medesimo termine serva voluta-mente a occultare una rottura anziché indicare una con-tinuità. L’odierna sostanza della democrazia, che sivorrebbe fatta di sole procedure, sta nel privilegio dipochi. Definendo ormai insopportabile il condiziona-mento degli interessi particolari e quello degli elettori,si sono sì rinnovate le procedure democratiche, ma adanno degli interessi diffusi e a beneficio di quelli piùcircoscritti. Con un terribile paradosso collaterale. Neu-tralizzati gli interessi della gran parte dei governati, di

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questi ultimi non di rado si prova a stimolare gli istintipeggiori24.

Quando Ferrajoli si sofferma sulla disgregazionedel senso civico, sull’apatia, sul qualunquismo,sull’astensionismo e su altre componenti che con-trassegnano oggi il sistema politico italiano, segnaladunque degli elementi reali. E, così, quando attiral’attenzione sulla «decostituzionalizzazione» cheavviene «dall’alto», tutti gli aspetti che evidenziasono difficilmente contestabili. Ma il suo discorsotende invece a diventare meno convincente nel mo-mento in cui illustra le ‘cause’ di questa tendenza,e, soprattutto, quando tende a evadere le domandesulle radici profonde della «decostituzionalizzazio-ne». Non si tratta soltanto dell’enfasi che Ferrajolipone costantemente sulla presenza di un oligopoli-sta del settore radiotelevisivo, il cui ruolo e la cuipotenza economico-politica sarebbero all’originedella «decostituzionalizazione», perché è evidenteche un simile fenomeno, con tutti i ‘conflitti di inte-resse’ che produce, non può non imprimere una taraoriginaria sul codice genetico della ‘Seconda Re-pubblica’. Il punto è piuttosto che Ferrajoli pare as-segnare le responsabilità della trasformazione con-temporanea unicamente al governo di centro-destra,o, semmai, agli esecutivi di centro-destra che sisono succeduti, con una breve interruzione dei go-

24 A. MASTROPAOLO, La democrazia è una causa persa?, cit., p.341.

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verni presieduti da Romano Prodi, negli ultimi diecianni. E, in questo modo, finisce col sorvolare – unpo’ ambiguamente – sia sui molti elementi che, intermini di politiche, hanno accomunato i governi dicentro-sinistra a quelli di centro-destra, sia – maquesto è ancora più importante – sul processo di ra-dicale mutamento che ha investito la società italianaa partire dalla fase di transizione tra la ‘Prima’ e la‘Seconda Repubblica’.

Nonostante consideri il mutamento nella sensi-bilità collettiva e la ‘decadenza’ del civismo, Ferra-joli sembra infatti evitare di affrontare – nella suaeffettiva portata – una trasformazione che ha inveceeffettivamente cancellato le ‘basi politiche’ dellaCostituzione del 1948. In termini provocatori, Ser-gio Bologna ha scritto che, sebbene la Carta del ’48non sia stata modificata, nel biennio 1992-1993 si èrealizzato in Italia un vero e proprio mutamento diregime: «È cambiata la costituzione materiale delPaese con le privatizzazioni e sono cambiati i siste-mi di relazione industriale», «è cambiata la borghe-sia capitalista, è cambiato il ruolo del sindacato, illavoro non è più al centro dell’ordinamento repub-blicano»25. Se, come argomenta Bologna, «la pecu-liarità della democrazia italiana era data dall’esi-stenza di un tessuto di società civile organizzata alivello territoriale, che costituiva sia una forma,seppur blanda, di società parallela, sia un sistema di

25 S. BOLOGNA, Volantinare alle happy hours, relazione al Conve-gno «Il lavoro in frantumi», Università di Bologna, 25 novembre 2010.

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vigilanza sui permanenti tentativi di far retrocederei livelli raggiunti dalla nostra democrazia», questoassetto, questa «democrazia sostanziale» già piutto-sto logora, riceve il colpo di grazia proprio nel cor-so della ‘transizione’ dalla ‘Prima’ alla ‘SecondaRepubblica’, in un processo in cui i sindacati e glieredi del Partito Comunista giocano un ruolo di pri-mo piano. «Un toyotista lean party ha preso il postodi un partito di massa, un sindacato di funzionari hapreso il posto di un sindacato di militanti», mentre«gli accordi del luglio ’93 hanno spento il conflittosui luoghi di lavoro»; e proprio «da allora è iniziatauna lunga stagnazione dei salari del lavoro dipen-dente, la produttività del lavoro in Italia ha dato se-gni negativi, unica situazione in tutto il mondo in-dustrializzato», mentre, al tempo stesso, «l’organiz-zazione del lavoro postfordista riesce a rendere tec-nicamente impraticabili comportamenti che espri-mono un diritto riconosciuto e mai cancellato daldettato costituzionale, come il diritto di sciopero»26.

Ovviamente, la lettura di Bologna può essereconsiderata come una forzatura operata sulla basedi elementi reali, ma è molto difficile contrastareefficacemente l’idea che, a partire dal biennio1992-93, non abbiano iniziato a mutare, prima an-cora che il sistema politico, la società italiana e lasua struttura produttiva. Proprio allora, in corri-

26 Ibidem. Per un’articolazione ulteriore di questa lettura, si vedaanche S. BOLOGNA – D. BANFI, Vita da Freelance. I lavoratori dellaconoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano, 2011.

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spondenza con la crisi economica e con il trapassodalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’, inizia adelinearsi un mutamento profondo, in cui l’Italiaprende a registrare stabilmente una produttività dellavoro negativa, in cui cambia la strutturadell’impresa, in cui l’amministrazione viene ridefi-nita in base ai principi del New Public Manage-ment, in cui le strutture clientelari rivelano unastraordinaria capacità di adattarsi al nuovo contesto,e in cui, soprattutto, i soggetti del «capitalismo or-ganizzato» si trovano a perdere gran parte della loroconsistenza, solo provvisoriamente compensata dalriconoscimento di un loro ruolo politico. È proprioin questo quadro – esito anche di un contesto inter-nazionale economico e politico nettamente mutatorispetto al passato – che la società italiana viene at-traversata da costanti tendenze alla degradazionedel lavoro dipendente, alla svalutazione del lavorodella conoscenza, alla precarizzazione delle relazio-ni di lavoro, al declino economico e produttivo, allaconcentrazione nei settori a bassa qualificazione.Un simile mutamento – alimentato dal contestualeesaurimento delle culture politiche novecentesche edell’orizzonte progressista del «secolo breve» – noncomincia nel 2008 o nel 2001, ma proprio attorno al1992-93, anche se le sue anticipazioni risalgono giàagli anni Ottanta. E, dunque, è piuttosto scontato ri-levare che gli esecutivi di centro-destra, guidati pri-ma da Forza Italia e in seguito dal Popolo della Li-bertà, si sono limitati a operare all’interno di ten-

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denze già delineate, che vanno al di là di determina-zioni puramente politiche, e che pure risultano con-fermate a ogni mutamento delle compagini gover-native. È per effetto di queste trasformazioni che ilprocesso di ‘costituzionalizzazione’ può apparire –ben più che l’esito di un’azione prodotta dalla con-centrazione di potere al vertice del sistema politico– come il riflesso di una profonda divaricazione tral’impianto definito dalla Carta e gli assetti di poterereali.

Ovviamente, quando Ferrajoli ritiene che la Co-stituzione debba essere preservata parte da una vi-sione in cui il diritto, pur intrattenendo un rapportocostante con la politica, conserva – come in tutta latradizione del costituzionalismo – una propria so-stanziale autonomia. In questo senso, si tratta di unavisione che, per quanto innovi rispetto alla propostadi Kelsen, attribuisce comunque alle norme un ruo-lo cruciale, tanto che la democrazia sostanziale –come si è visto – viene a caratterizzarsi proprio perla presenza di norme e diritti «fondamentali». Il co-stituzionalismo e il garantismo di Ferrajoli si quali-ficano d’altronde in modo specifico proprio perché,assegnando un’autonomia rilevante alle norme,puntano a limitare l’esercizio del potere da parte dichi detiene una carica pubblica, e proprio perchédunque ritengono che il diritto possa, davvero, vin-colare seriamente la politica. Senza chiamare incausa i presupposti di questa concezione delle rela-zioni fra diritto e politica (e la stessa effettiva auto-

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nomia delle norme rispetto al potere), ci si puòchiedere però fino a che punto una Costituzione ri-gida possa resistere al mutamento delle sue basi so-ciali e alla divaricazione tra Konstitution e Verfas-sung, e fino a che punto una «democrazia costitu-zionale» possa riuscire a sopravvivere a un proces-so che modifica in profondità le strutture di un Pae-se e il suo quadro politico.

Da questo punto di vista, non si tratta di imma-ginare il mutamento solo nella forma di una rotturaviolenta dell’ordine costituzionale. Certo, un muta-mento netto dell’ordine costituzionale può sancire ilpassaggio a un altro assetto politico, e non è sconta-to che il nuovo regime così formatosi assuma carat-teri democratici. Ma un mutamento può prodursianche in seguito a una trasformazione della sensibi-lità politica, in grado di estendere per esempio ilterreno di applicazione dei diritti. Invocare la sensi-bilità dei costituenti per negare diritti che – oggi –vengono percepiti come vitali, giusti e indispensa-bili, sarebbe forse legittimo da un certo punto di vi-sta, ma piuttosto debole dal punto di vista politico,perché una norma priva di un sostegno, in sensolato, ‘politico’, difficilmente può resistere senza tra-sformarsi nell’oggetto di un’insofferenza diffusa esenza essere percepita come una ‘ingiusta’ violazio-ne di diritti fondati. In altri termini, per quanto sipossa ritenere doveroso che i principi fondamentalidelle costituzioni vengano preservati e rispettati,non si può affatto escludere che quei principi ven-

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gano addirittura modificati, senza che – in via ipo-tetica – non vi sia una transizione verso un regimenon democratico. E, soprattutto, non si può ipotiz-zare che quei principi – per quanto effettivamente‘al di sopra’ del conflitto politico – possano com-pletamente sottrarsi a un radicale mutamento politi-co, a una modificazione netta delle relazioni di po-tere e del contesto sociale.

È proprio in questo senso che – compiendo unaforzatura – si può accostare il volume di Ferrajoliall’appello di Asor Rosa. Per quanto il profilo deidue interventi sia notevolmente distante, non solodal punto di vista stilistico, entrambi insistono su unmedesimo punto, ossia sulla tesi che la democraziaitaliana sia ormai prossima a raggiungere un puntodi non ritorno: per Asor Rosa, la situazione italianaricorda quella immediatamente precedente la distru-zione della democrazia parlamentare da parte delfascismo e del nazionalsocialismo, e anche per Fer-rajoli la ‘de-costituzionalizzazione’ ha ormai assun-to un profilo tale da indirizzare il sistema italianoverso una democrazia plebiscitaria, populista e pa-trimoniale, tanto che proprio questa trasformazione– smantellando i diritti fondamentali alla basedell’edificio costituzionale – non farebbe altro chedissolvere il sistema di equilibri e controlli e creare«poteri selvaggi», del tutto liberi da vincoli. Ma –per quanto possa apparire paradossale – non è deltutto pretestuoso riconoscere qualche tratto comuneanche nei rimedi che sono indicati dai due intellet-

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tuali per arginare la crisi. Certo, Ferrajoli, sulla basedi un garantismo radicale, teoricamente fondato enon certo occasionale, non può seguire Asor Rosaquando evoca uno ‘stato di emergenza’ e l’interven-to degli apparati dello Stato, e, più semplicemente,indica rimedi che ristabiliscano lo spirito della Co-stituzione del ’48 e rendano effettivamente operati-vi i «diritti fondamentali» da essa sanciti. Sottoquesto profilo, è peraltro significativo che, per Fer-rajoli, sia oggi necessario, «in primo luogo, abban-donare ogni progetto di ‘grande’ riforma costituzio-nale e mettere al riparo la Costituzione da nuovicolpi di mano delle maggioranze»27. Entrambi –nella loro difesa dell’ordine democratico – sembra-no però ricorrere a elementi ‘extra-politici’, ossia aforze e norme capaci di porsi al di sopra del quadropolitico esistente e di imporre quei vincoli che lapolitica tende valicare. Ovviamente – è bene preci-sarlo ancora una volta – i due intellettuali pensano avincoli ben diversi: per Asor Rosa sono forze orga-nizzate, dotate per di più dell’arma della coercizio-ne fisica, mentre per Ferrajoli sono le norme fonda-mentali con cui i Costituenti vollero fissare un qua-dro di garanzie ‘rigido’, in grado di prevenire pro-prio quelle derive plebiscitarie e personaliste ancoracosì vive nella loro memoria. Come per l’appello diAsor Rosa, anche per quanto riguarda l’analisi diFerrajoli ci si può però chiedere se il ricorso ai vin-coli costituzionali sia di per sé uno strumento ade-

27 L. FERRAJOLI, Poteri selvaggi, cit., p. 84.

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guato per salvaguardare l’assetto democratico, o senon potrebbe determinare imprevisti effetti deleteri,come un’ulteriore polarizzazione delle posizioni ola trasformazione della competizione politica invera e propria conflittualità civile. Ma, soprattutto,ci si può chiedere se il ricorso a vincoli giuridici –pur di grado costituzionale – possa essere adeguato,o sufficiente, se non accompagnato dal sostegno diforze politiche organizzate, che si impegnino real-mente in una difesa dei principi fondamentali dellaCostituente. E infine – detto in termini brutali – cisi può chiedere se l’idea di rintracciare nelle normeil primo presidio della democrazia costituzionalenon rappresenti una scelta determinata dall’assenza– nella società e nel sistema politico – di forze chesiano disposte a garantire la vigenza del dettato co-stituzionale, e che siano effettivamente in grado difarlo.

Più che per il contenuto specifico della proposta,l’appello di Asor Rosa è d’altronde significativo perlo schema logico che lo sostiene, e che sembra ac-comunarlo alla lettura di Ferrajoli. Quando l’intel-lettuale romano osserva che «l’apprezzamento perla polizia e i carabinieri fa parte della maturazionequasi secolare di cui sono portatore»28, lascia in ef-fetti trapelare un radicale mutamento prospettico,non solo rispetto alle posizioni dell’Asor Rosa‘operaista’ degli anni Sessanta, ma anche rispetto auna sensibilità a lungo condivisa dalla sinistra ita-

28 La sparata di Asor Rosa, cit.

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liana del Novecento. Nel ragionamento di AsorRosa, infatti, non può passare inosservato il fattoche venga scartata del tutto l’ipotesi che, per difen-dere la Costituzione, si debba ricorrere a «una pro-va di forza dal basso». Più che l’appello agli appa-rati dello Stato, l’elemento qualificante del discorsoè proprio la presa d’atto che una simile prova diforza è impraticabile: una presa d’atto dietro cui sinasconde la convinzione, solo parzialmente esplici-tata da Asor Rosa, che le ‘masse’ cui appellarsi pervigilare contro le tentazioni autoritarie, le forze‘sane’ della società italiana in grado di difendere leistituzioni – in breve: quell’aggregato più o menostrutturato che invariabilmente comparivanell’armamentario retorico del Pci – non offronopiù un presidio sufficiente al rischio involutivo delsistema democratico. Non tanto per la forza messain gioco dal campo avversario, quanto, probabil-mente, perché quelle ‘masse’ – evocate retorica-mente mille volte – non esistono più, o, quantome-no, perché non sono più disponibili ad accorrere asimili appelli. Tanto che, allora, il presidio non puòche essere offerto da una sorta di ‘stato di emergen-za’.

Benché il discorso di Ferrajoli sia in quasi tutti isuoi aspetti ragionevole e condivisibile, il suo limi-te consiste allora nella prospettiva con cui le tra-sformazioni del sistema italiano vengono considera-te. Concentrandosi sul vertice del potere, Ferrajolinon può che riconoscere solo in parte la portata di

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un mutamento che ha modificato lo spirito civico,ma anche i vecchi rapporti di forza e gli stessi sog-getti che sono in grado di esercitare una forza di in-timidazione, di ricatto, di mobilitazione. Per questomotivo, l’appello alle norme fondamentali della Co-stituzione finisce con l’aggirare la necessità di con-frontarsi con tutti quei nodi che riguardano la ‘co-stituzionalizzazione’ dei nuovi centri di potereemersi nel corso dell’ultimo ventennio, con la ne-cessità di riconoscere i nuovi rapporti di forza, inuovi soggetti, le nuove domande, i nuovi diritti.Ma soprattutto – nel momento in cui individual’origine primaria del processo nella ‘concentrazio-ne’ di poteri economici, politici e mediatici nella fi-gura di una sorta di ‘tiranno’ postmoderno –l’appello di Ferrajoli allo spirito dei ‘Padri fondato-ri’ della Repubblica non può che rivelarsi un’armaspuntata anche nel fronteggiare gli esiti più allar-manti della «decostituzionalizzazione».

In fondo, lo spirito che alimenta l’appello diFerrajoli non appare d’altronde molto diverso daquello con cui Cicerone, all’indomani della mortedi Cesare, invoca il ritorno alle istituzioni repubbli-cane. Tornato precipitosamente dall’esilio, abban-donato il proposito di tenersi lontano dalla politica,l’ormai anziano oratore si getta a capofitto nel con-flitto politico apertosi dopo le Idi di marzo. Vincen-do lo sgomento seguito all’assassinio di Cesare, fi-nisce col giustificare la congiura di Bruto e col le-gittimare il tirannicidio. Invoca i congiurati a pren-

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dere il potere e a ristabilire la legalità, e infine siappella al popolo romano per restaurare la gloriosarepubblica. Il rischio che corre Ferrajoli è così dav-vero molto simile a quello cui si espone Cicerone.Dopo il primo entusiasmo, l’Arpinate guarda infattila scena che Roma gli offre, e si accorge improvvi-samente che nulla è più come lo ricordava, che laRoma repubblicana – con i suoi miti, i suoi eroismi,la sua coesione – è tramontata per sempre. Soprat-tutto, si rende conto che neppure l’uccisione di Ce-sare, neppure la soppressione del tiranno, neppurel’eliminazione di quel nemico giurato della libertà,può ridare la vita a una repubblica priva ormai dellesue stesse basi. Ma, una volta preso atto dell’impo-tenza, l’unica soluzione – per Cicerone, come Fer-rajoli – può consistere solo nel rimpianto dello spi-rito perduto e nella condanna moralistica dei tempinuovi. E, così, le parole con cui Stefan Zweig rivi-veva il tardivo risveglio di Cicerone, devono assu-mere al nostro orecchio un suono familiare:

Guarda i congiurati, di cui ancora ieri tesseva lelodi chiamandoli eroi, e vede soltanto dei pusillanimi,in fuga dalle ombre della loro azione. Guarda il popolo,e si rende conto che da tempo non è più l’antico popu-lus romanus, l’eroica stirpe da lui vagheggiata, ma soloplebe corrotta, alla ricerca esclusiva di privilegi e bene-fici, di panem et circenses, pronta a inneggiare oggi aBruto e Cassio, domani ad Antonio, che contro gli as-sassini chiama alla vendetta, il giorno dopo ancora aDolabella, che fa distruggere ogni effige di Cesare. Edeve ammettere che nessuno in questa città degenerata

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persegue onestamente l’idea di libertà. Rincorrono tuttiil potere o il benessere, l’assassinio di Cesare è statoinutile, tutti litigano e mercanteggiano e ambisconosolo ad accaparrarsene l’eredità, il denaro, le legioni, ilpotere, alla continua ricerca di vantaggi e profitti – masolo per se stessi, non per l’unica santa causa: la causaromana29.

29 S. ZWEIG, Momenti fatali, Aldephi, Milano, 2010, p. 270.

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III

Il rischio di una critica della critica

«La democrazia è una merce come un’altra. Perquanto sofisticato e complesso, resta sempre unprodotto dell’uomo. Come le derrate alimentari.Come le armi. Come il petrolio. Si può comprarla,come ha fatto il tuo miliardario ridens, si può ven-derla, si può distruggerla e si può esportarla. Nelmondo globalizzato l’unica democrazia possibile èquella che può essere esportata anche ai paesi chenon l’hanno mai conosciuta. […] Una democraziadi guerra. Una democrazia senza troppe garanzie,capace di adattarsi alle necessità del mercato globa-le. Che favorisca il libero movimento dei capitali esi attrezzi a contenere in ciascun paese le inevitabiliconseguenze dei disequilibri che ne derivano»1.Non è troppo sorprendente ritrovare una descrizio-ne tanto disincantata della democrazia fra le paginedi un romanzo di genere, sia pure firmato da un cul-tore piuttosto raffinato del noir italiano come Bruno

1 B. MORCHIO, Bacci Pagano. Una storia da carrugi, Fratelli Fril-li, Genova, 2005, p. 253.

Morchio. Non è troppo sorprendente perché, spen-tesi le speranze di quella sorta di belle époque se-guita alla dissoluzione dell’impero sovietico, l’ideache la democrazia stia attraversando una ‘crisi’, chela priva dei fondamenti valoriali e che intacca lestesse procedure liberali, è diventata ormai quasi unluogo comune. In Italia, la convinzione che la de-mocrazia sia in ‘crisi’ è stata però declinata in unadirezione specifica, perché molti osservatori hannopreso a considerare la ‘Seconda Repubblica’ comel’ennesima variante della vecchia ‘anomalia italia-na’. E molti si sono così persuasi che la nuova sta-gione della politica italiana, avviatasi con le lezionidel 1994, sia segnata da una tara genetica, destinataad alterare in profondità il tessuto democratico dellasocietà e le dinamiche istituzionali, costituita ovvia-mente dalla presenza, a capo di una delle due coali-zioni (nonché del principale partito politico), di ungrande imprenditore della comunicazione, il «mi-liardario ridens» cui con ogni probabilità allude ilpersonaggio del romanzo di Morchio. Negli ultimianni è emerso così un vero e proprio genere lettera-rio dedicato alla decadenza del costume, al declinodelle istituzioni politiche e, più in generale, alla di-scesa della politica – e soprattutto dei suoi verticipiù elevati – verso l’abisso. Ogni mese, i tavoli del-le librerie si arricchiscono di nuovi titoli, che si arti-colano in sotto-filoni fortunati, come quello direttoalla denuncia di una classe politica corrotta, inaugu-

rato dal best-seller La casta di Antonio Stella e Ser-gio Rizzo, o come quello dedicato alla ricostruzionedei retroscena più retrivi della politica-spettacolo,di cui sono esempi emblematici libri come La su-burra di Filippo Ceccarelli e Le cene eleganti diPiero Colaprico2. Accanto a questi testi di tagliogiornalistico, non sono mancate analisi sulla derivapersonalistica della politica italiana – come quelleofferte dal Partito personale di Mauro Calise, dalSuperleader di Federico Boni, dal Corpo del capodi Marco Belpoliti3 – o sulla trasformazionedell’immaginario politico, di cui costituisconoesempi differenti Politica pop di Gianpietro Mazzo-leni e Anna Sfardini e un testo come L’egemoniasottoculturale di Massimiliano Panarari, ricco di in-tuizioni e capace di indagare le radici (anche politi-che) più profonde del trash contemporaneo4. Ma unposto forse ancor più significativo è occupato dauna produzione pamphlettistica di taglio elevato eteoricamente avvertito, cui di recente hanno dato il

2 Cfr. G.A. STELLA – S. RIZZO, La casta. Così i politici sono di-ventati intoccabili, Rizzoli, Milano, 2007, F. CECCARELLI, La suburra.Sesso e potere: storia breve di due anni indecenti, Feltrinelli, Milano,2010, P. COLAPRICO, Le cene eleganti, Feltrinelli, Milano, 2011.

3 Cfr. M. CALISE, Il partito personale. I due corpi del leader, La-terza, Roma – Bari, 2010 (II ed), F. BONI, Il Superleader. Fenomenolo-gia mediatica di Silvio Berlusconi, Meltemi, Roma, 2008, e M.BELPOLITI, Il corpo del capo, Guanda, Parma, 2009.

4 Cfr. G. MAZZOLENI – A. SFARDINI, Politica pop. Da Porta aporta a L’isola dei famosi, Il Mulino, Bologna, 2009, e M. PANARARI,L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, Einaudi, To-rino, 2010.

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loro contributo, fra gli altri, Luigi Ferrajoli, EzioMauro e Gustavo Zagrebelsky, Nadia Urbinati eMaurizio Viroli, per non citare che alcuni tra gli au-tori più noti5.

Per quanto le conseguenze dell’«anomalia» sia-no piuttosto evidenti – e sebbene i segnali di allar-me siano più che giustificati dal decadimento dellospirito pubblico, dal ricostituirsi di circuiti di corru-zione tutt’altro che colpiti dalle inchieste di ‘Tan-gentopoli’, dalla concentrazione del potere mediati-co, e da tutti quegli altri fenomeni che contrasse-gnano l’odierno panorama politico italiano – è peròprobabile che questo specifico angolo visuale offrauna prospettiva limitata per considerare le trasfor-mazioni della democrazia. E, così, è comprensibileche la ‘critica della democrazia’ contemporanea –definita, di volta in volta, come populista, plebisci-taria, autoritaria – possa generare una sorta di ‘criti-ca della critica’, come quella che viene proposta daun recente fascicolo di «Paradoxa», curato da DinoCofrancesco e dedicato a un esame non certo sim-patetico delle letture formulate, negli ultimi anni, daMichelangelo Bovero, Luciano Canfora, Paul Gin-

5 L. FERRAJOLI, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italia-na, Laterza, Roma – Bari, 2011, E. MAURO - G. ZAGREBELSKY, La fe-licità della democrazia. Un dialogo, Laterza, Roma – Bari, 2011, N.URBINATI, Liberi e uguali. Contro l’ideologia individualista, Laterza,Roma – Bari, 2011, e M. VIROLI, La libertà dei servi, Laterza, Roma -Bari, 2011.

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sborg, Massimo L. Salvadori, Nadia Urbinati, Mau-rizio Viroli e Gustavo Zagrebelsky6.

Nell’aprire il fascicolo, Cofrancesco avverte chele motivazioni – teoriche, ma evidentemente anchepolitiche – alla base di una simile operazione scatu-riscono dalla necessità di contrastare una sorta di«pensiero unico», che identifica la democrazia conuna concezione specifica, una concezione che privi-legia i ‘diritti sociali’, e che ritiene che una sempli-ce ‘democrazia formale’ sia del tutto insufficiente.In questo modo, scrive Cofrancesco:

la political culture oggi egemone in Italia non riescepiù a comprendere che, in una società aperta e rispetto-sa delle ‘visioni del mondo’ di tutti i cittadini, nellacassaforte dei ‘diritti costituzionali’, dovrebbero riporsisoltanto quelli che trovano tutti d’accordo – i diritti ci-vili e i diritti politici7.

Per questo, quegli intellettuali che non si rassegna-no all’esistenza di visioni che non considerano i di-ritti sociali come fondamentali «vorrebbero ostra-cizzare (idealmente, beninteso) dalla polis quellaparte numerosa del popolo portata a credere che ivalori politici (i ‘diritti’ da lui sopra enunciati) sia-no talora inconciliabili», e che dunque, proprio perquesto, «dovrebbero essere le urne a decidere quali

6 Cfr. Quelli che… la democrazia, fascicolo monografico di «Para-doxa», 2011, n. 2.

7 D. COFRANCESCO, Perché un fascicolo su «Quelli che… la de-mocrazia», in «Paradoxa», 2011, n. 2, p. 17.

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far passare, di volta in volta, in secondo piano»8. Laconseguenza di una simile visione – sempre secon-do il ragionamento di Cofrancesco – è un attaccoall’«uomo della strada», dipinto come una massagregaria, dominata da leader capaci di manipolarele menti più semplici, di strumentalizzare ai proprifini i peggiori istitnti aquisitivi, gli eterni egoismi diun popolo inetto, la ricorrente tendenza degli italia-ni a curare il ‘particulare’ senza riguardo alcuno perla causa comune. Ma, «dietro le frasi altisonanti, leprefigurazioni di esaltanti cosmopoli giudiziarie,c’è solo il pugno nello stomaco dell’uomo dellastrada – l’eterno qualunquista, bestia nera di tuttal’intellighentsia passata e presente»9. E, così, i criti-ci sottoposti al vaglio critico di «Paradoxa», pur ar-ticolando proposte specifiche,

teorizzano un’idea di ‘democrazia’ in cui c’è spazio perogni sorta di ‘diversità’ – sociale, etnica, di genere,‘culturale’ – tranne quella ‘politica’ nel senso forte deltermine, se per ‘diversità politica’ si intende, per fareun esempio significativo, che, nel contesto italiano, nonci si riconosce in una costituzione che non si limita aregolare il traffico sociale, ma prescrive agli automobi-listi in quale direzione debbono andare per essere buonicittadini10.

Non è certo difficile scorgere nell’impianto del fa-scicolo curato da Cofrancesco un intento politico

8 Ibidem.9 Ibidem.10 Ibi, p. 18.

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piuttosto scoperto, ma ciò non significa che i diver-si contributi alla ‘critica della critica’ non presenti-no più di qualche motivo di interesse. Per esempio,si può concordare con Mario Quaranta, quandomette in luce le debolezze dell’analisi della globa-lizzazione al fondo (o a margine) del discorso sulla«democrazia che non c’è» di Paul Ginsborg11, o conMaurizio Griffo, quando intravede nel severo giudi-zio di Maurizio Viroli sullo spirito servile degli ita-liani di oggi non solo un «estremo pessimismo», maanche una condanna moralistica che rifiuta di com-prendere le motivazioni di un cambiamento politi-co, sociale, culturale12. E si possono anche condivi-dere alcuni dei rilievi che Tarcisio Amato indirizzaalla ‘storia dell’ideologia democratica’ svolta daCanfora13, anche se – a ben vedere – il discorso inquesto caso fuoriesce un po’ dal tema oggetto delfascicolo, quantomeno perché la polemica condottadal grande antichista – una polemica peraltro riccadi spunti – si pone su un piano storico ben più gene-rale (in cui l’«anomalia italiana» è in fondo piutto-sto marginale). Nel suo intervento, Daniele Rolan-do riesce inoltre a mettere in rilievo le ‘forzature’che spingono Salvadori a intravedere nelle demo-

11 M. QUARANTA, La democrazia nell’analisi di Paul Ginsborg, in«Paradoxa», 2011, n. 2, pp. 40-55.

12 M. GRIFFO, Inclinazione alla servitù o difficoltà a metabolizzareil cambiamento? A proposito di una tesi di Viroli, in «Paradoxa», 2011,n. 2, pp. 82-93.

13 T. AMATO, Luciano Canfora e la democrazia, in «Paradoxa»,2011, n. 2, pp. 29-39.

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crazie odierne dei regimi a «legittimazione popola-re passiva» delle «quasi-democrazie»14. E altrettan-to interessanti sono anche gli articoli di DanielaColi e di Alberto Giordano. Le dense pagine di Colisu Nadia Urbinati hanno in particolare il merito dievidenziare i limiti di una proposta teorica che ten-de a criticare le derive della democrazia odiernasulla base di un’immagine puramente ‘filosofica’della democrazia ideale, senza dunque confrontarsicon la realtà dei processi storici, delle trasformazio-ni economiche, dei mutamenti internazionali. «Vie-ne da chiedersi» – scrive Coli al termine del suocontributo, formulando un’osservazione che vale ingenerale per un certo modo di fare filosofia politicaconsolidatosi a partire dagli anni Ottanta – «se nonsia più serio conoscere i filosofi nel loro contesto,abbandonando la pretesa platonica del filosofo-re enon sia più utile riservare alla politica l’analisi em-pirica fondata sulla ricerca storica, l’economia e lasociologia come hanno fatto elitisti come Schumpe-ter, la bestia nera di Nadia Urbinati»15. Giordanoesamina invece Contro il governo dei peggiori.Una grammatica della democrazia di MichelangeloBovero, uno tra i principali allievi di Norberto Bob-bio16. Nella riflessione di Bovero, viene certo rinve-

14 D. ROLANDO, Il paradosso di Salvadori: democrazie senza de-mocrazia, in «Paradoxa», 2011, n. 2, pp. 56-69.

15 D. COLI, Nadia Urbinati. «Lost in translation», in «Paradoxa»,2011, n. 2, pp. 70-81.

16 Cfr. M. BOVERO, Contro il governo dei peggiori. Una gramma-tica della democrazia, Laterza, Roma – Bari, 2000.

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nuto l’influsso del maestro, ma sono colte anche letracce di una diversione rispetto alla linea indicatadall’autore di Politica e cultura, almeno a propositodel rapporto fra il principio della libertà economicae i diritti civili, politici e sociali17. In verità, però,sebbene Giordano tenda a discostarsi dalla visionesenz’altro positiva della Costituzione italiana, e no-nostante sottolinei come la tendenza contemporaneaalla kakistocrazia (una perversa combinazione ditutte le forme degenerate di governo di cui parlava-no i classici: tirannide, oligarchia, demagogia) nonsia eslcusiva del ‘caso italiano’, la critica indirizza-ta a Bovero rimane piuttosto sfumata. Anzi, Giorda-no concorda in fondo con Bovero, quando scrive:

senza la rinascita di una vigile opinione pubblica, e delsenso di indipendenza che essa suscita negli individui,è davvero vano sperare di riaccendere la fiammella diquello spirito democratico che costituisce – ce lo hannoinsegnato i classici – il più sicuro baluardo contro il ri-sorgere di qualsiasi forma di tirannia18.

Se tutti questi contributi alla ‘critica della critica’colgono senza dubbio dei nervi scoperti, gli obietti-vi – culturali e politici – dell’operazione tentata da«Paradoxa» si delineano in modo particolarmentechiaro nell’articolo dedicato da Confrancesco a Za-grebelsky. In questo caso, infatti, il giudizio è molto

17 A. GIORDANO, La «grammatica della democrazia» di Michelan-gelo Bovero, in «Paradoxa», 2011, n. 2, pp. 19-27.

18 Ibi, p. 28.

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più severo che negli altri saggi, perché Cofrancescoritrova nella polemica politica svolta da Zagrebel-sky non soltanto l’eredità dell’azionismo, che giàaveva indirizzato la riflessione di Bobbio19, ma an-che un’ulteriore modificazione di quell’impiantooriginario. Una modificazione che incide sullo stes-so profilo della battaglia intellettuale: per Bobbio ilchiarimento concettuale, un lavoro in cui riversògran parte delle proprie energie intellettuali, eraun’operazione preliminare che serviva anche ad al-lestire un campo di confronto e dibattito con gli av-versari politici; per Zagrebelsky – questa è almenola tesi di Confrancesco – gli stessi concetti sonoarmi della polemica, nel senso che la stessa costru-zione degli strumenti concettuali è finalizzata adescludere una determinata parte politica come ‘in-degna’ e costitutivamente anti-democratica. In altreparole, se Bobbio rimane «in cattedra» anche negliinterventi giornalistici, Zagrebelsky anche quandosi produce nell’analisi specialistica – secondo Co-francesco – non cessa di esercitare la propria propa-ganda: «una propaganda, beninteso, legittima […]ma che come tutte le propagande che si rispettino èportata a scambiare l’opinione di uno schieramentoideologico con le tavole della legge dettate all’uma-nità errante dall’imperativo categorico»20. Ma

19 Si vedano a questo proposito i motivi esposti in D.COFRANCESCO, Gramsciazionismo e dintorni, Marco, Lungro di Co-senza, 2001.

20 D. COFRANCESO, Gustavo Zagrebelsky. Il Maestro (di democra-zia) di color che sanno…, in «Paradoxa», 2011, n. 2, p. 94.

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l’attacco di Confrancesco non si limita a rilevare unuso improprio dei concetti da parte di Zagrebelsky,perché ritiene anche che il pensiero del giurista siconfiguri come un anti-liberalismo fondato su quat-tro pilastri:

a. un pluralismo solo di facciata; b. una concezionedella democrazia sostanziale portata a delegittimareuna democrazia soltanto formale e a ignorarne le buoneragioni; c. l’abbattimento dei confini tra politica, etica ediritto; d. l’imposizione di un ‘pensiero unico’ antifa-scista, che pone forti vincoli alla libertà di ricerca21.

La responsabilità principale che Cofrancesco impu-ta a Zagrebelsky è, così, la trasformazione di unavisione specifica della democrazia – quella che con-sidera l’uguaglianza sociale come un presupposto eun obiettivo del regime democratico – nell’unicaconcezione legittima. Come scrive in questo senso:

La novità della teorica giuridico-politica di Zagre-belsky consiste nella giuridizzazione della ‘rivoluzionedemocratica’: la tesi che senza uguaglianza la demo-crazia è un regime non è più la bandiera della rivolta,dei repubblicani risorgimentali desiderosi di abbatteregli staterelli autoritari e assolutistici della penisola enon meno avversi pure alle carte octroyées del 1848,ma, legalizzata e legittimata, è divenuta l’anima dellaCostituzione italiana22.

21 Ibi, pp. 94-95.22 Ibi, p. 99.

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Per effetto di questa trasformazione, «la divisionetra fautori della democrazia formale e della demo-crazia sostanziale non ha più senso», perché«l’ideologia del regime repubblicano antifascistaesclude, infatti, ogni altra filosofia della cittadinan-za e dello Stato, che nella democrazia veda ‘il siste-ma politico degli uomini così come sono, non cosìcome dovrebbero essere»23. La realizzazione dellademocrazia – come viene intesa da Zagrebelsky,ma anche da Ferrajoli – si inscrive così, secondo lalettura polemica di Cofrancesco, nella linea di unprogresso sostanzialmente inevitabile, col risultatoche tutti quanti sostengono una visione differentevengono a configurarsi come alfieri della reazione,più che semplicemente della conservazione:

A volerne individuare la natura più profonda, l’ideadi democrazia, che hanno in mente Zagrebelsky e i filo-sofi del diritto e della politica che in lui si riconoscono,è quella di una locomotiva, senza freni e senza marciaindietro, che corre sui binari del progresso dei popoli: ilmacchinista può, tutt’al più decelerare – di qui il rico-noscimento della funzione talora utile svolta dai rifor-misti e dai ‘moderati’ – ma non deve mai dimenticareche ‘chi si ferma è perduto’ e che ‘indietro non si tor-na’. Ne deriva, implicitamente, una delegittimazionesostanziale della destra e del pensiero conservatore: icittadini sono tenuti a partecipare per innovare, per ‘an-dare avanti’, per arricchire il catalogo di diritti ma qua-lora intendessero ritornare su certe decisioni: alleggeri-re, ad es., il carico di prestazioni sociali dello Stato oproporre l’abolizione di certe festività (come il 25 apri-

23 Ibidem.

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le) troverebbero la strada sbarrata dalle ‘norme prima-rie’ non del legittimo e diverso volere del Parlamento24.

Mentre rappresenta la Costituzione italiana come ilpiù saldo argine a una ‘autentica’ democrazia, ementre la ritiene ovviamente non modificabile, senon al prezzo di rinunciare in modo sostanziale allademocrazia, Zagrebelsky non farebbe però che de-clinare, in un senso specifico, i presupposti di fondodel pensiero azionista. Sulla scorta di questo im-pianto – sostiene Cofrancesco – le prospettive e ivalori differenti, che puntano a una modificazionedel quadro costituzionale, vengono semplicementeintesi come anti-democratici, come una minacciaalla stabilità e allo spirito di un’autentica democra-zia. Ma il risultato di questa operazione – conclude– non può che distorcere la dinamica di una societàrealmente democratica e liberale:

segnarli sulla lavagna dei buoni e dei cattivi significaignorare i contrasti reali e drammatici che animano ildibattito pubblico sui valori. La censura del pensiero èsempre pessima ma lo è soprattutto nella condizione diincertezza in cui ci troviamo. Mai come oggi, la libertàdi ricerca dev’essere riconosciuta in maniera incondi-zionata, guardandosi dall’attribuire il dissenso a ottusi-tà reazionaria o a biechi, inconfessabili, interessi diclasse o di ceto. Dispiace dirlo, ma i tempi di NorbertoBobbio sono finiti. I produttori di analisi concettuali,storiche e sociologiche che, gettando viva la luce suifatti e sulle loro motivazioni, finiscono per essere utili

24 Ibi, pp. 99-100.

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non solo alla propria pars ma anche a quella avversaria,sono ormai una razza in via di estinzione. Siamo entratinell’epoca dei profeti che vogliono infiammare gli ani-mi ma non aprire le menti a una visione realistica e pa-cata del mondo nel quale ci è toccato di vivere.

Per quanto la critica sviluppata da Confrancesco siaevidentemente animata da uno spirito polemico cheva al di là del semplice livello teorico, sarebbe dif-ficile sostenere che i rilievi che indirizza a Zagre-belsky – o quantomeno molti di questi rilievi – sia-no privi di fondamento. E, in particolare, sarebbesemplicistico liquidare l’attacco contro l’azionismocome il riflesso di un’avversione politica, perché ilpensiero azionista ha davvero lasciato un’ereditàpesante, su cui non si è probabilmente ragionato asufficienza. Non tanto perché l’azionismo abbia ge-nerato uno schema ‘manicheo’ di interpretazionedella lotta politica, quanto perché ha consolidatouna lettura della storia d’Italia in cui le divisioni po-litiche fra destra e sinistra si sovrappongono linear-mente alla contrapposizione fra ‘tradizione’ e ‘mo-dernità’, o, meglio, fra ‘reazione’ e ‘progresso’. Sein questo modo si possono effettivamente squalifi-care gli avversari politici come fautori di una rea-zione anti-storica, si perdono però, inevitabilmente,intrecci ben più complessi, che attraversano peresempio il campo liberale o lo stesso regime fasci-sta. E, soprattutto, si finisce col deformare – inmodo non secondario – la storia d’Italia.

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Più in generale, e al di là dunque della specificapolemica rivolta all’azionismo da Confrancesco,Quelli che… la democrazia riesce a puntare l’indicesu una serie di pregiudizi prospettici, che limitanonotevolmente il potenziale di molte analisi sulla‘crisi’ della democrazia. Effettivamente, come mo-stra Coli, Nadia Urbinati rischia spesso di confon-dere i reali regimi liberaldemocratici con la demo-crazia ideale di cui i filosofi hanno tracciato i con-torni, con modalità peraltro spesso tutt’altro checoerenti, e perciò è inevitabile che la sua celebra-zione di una democrazia partecipativa ed egualitarianon possa che apparire come una perorazione vena-ta da forti tratti moralistici e del tutto disinteressatadelle dinamiche reali del potere, dei rapporti fraeconomia e politica, delle dinamiche internazionali,dei conflitti sociali25. E a un risultato non troppo di-verso arriva anche Zagrebelsky, sebbene il percorsosia spesso più problematico di quanto Cofrancescosia incline a mostrare. Per quanto il giurista sia in-fatti ben consapevole della complessità dei percorsidemocratici e delle concezioni della democrazia, ilsuo discorso appare sovente imboccare una deriva‘moralistica’ nel momento in cui – come avvieneper esempio nel recente dialogo con Ezio Mauro –tende a trascurare l’insieme dei processi storici, po-litici, economici, che costituiscono la cornice dello

25 Ho cercato di mettere in luce alcuni di questi limiti in D.PALANO, Quale ethos per la democrazia? I limiti dell’individualismodemocratico, in «Notizie di Politeia», 2011, n. 102, pp. 27-38.

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sviluppo delle democrazie occidentali, e che incido-no sulla loro presente trasformazione26. Un discorsoinvece piuttosto differente potrebbe essere svoltoper un’analisi come quella condotta da Luigi Ferra-joli, ma non tanto perché non colga molti dei feno-meni degenerativi che colpiscono oggi il sistemapolitico italiano e che vanno a inficiare l’equilibrioe la distinzione fra i poteri, quanto perché vengonoimplicitamente assegnati alla «democrazia costitu-zionale» (e, dunque, ai principi e ai vincoli previstidalla Costituzioni del ’48) un valore e una forza cheessa non può evidentemente conservare, in presenzadi una profonda, duratura, dirompente trasformazio-ne del quadro politico e delle forze sociali, senzache intervenga un supporto effettivamente ‘politi-co’27.

Se tutti questi limiti sono evidenziati dal fasci-colo di «Paradoxa», e se dunque gli autori dei con-tributi di Quelli che… la democrazia hanno buongioco nel portare alla luce i pregiudizi moralistici diquanti sostengono che la democrazia italiana sia incrisi, è chiaro però che anche un’operazione del ge-nere ha delle controindicazioni. Per quanto la criti-ca dei critici sia in parte motivata, non si può infattinegare che qualcosa nelle nostre democrazie – nelledemocrazie occidentali, e nella democrazia italiana

26 Cfr. D. PALANO, La democrazia dei buoni sentimenti, ora ripro-dotto in questo volume.

27 Cfr. D. PALANO, L’ombra di Cesare. La crisi della democraziaitaliana nell’analisi di Luigi Ferrajoli, ora riprodotto in questo volume.

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– non stia cambiando realmente (e non sia cambiatonegli ultimi decenni). In altre parole, per quanto laprospettiva dei critici sia spesso deformata morali-sticamente, per quanto l’analisi che essi propongo-no sia insufficiente, per quanto i loro pregiudizi po-litici conducano talvolta a confondere l’effetto conla causa, ciò non può indurre a un sereno ottimismosulle sorti delle nostre democrazie. Perché – col ri-schio di eccedere sul versante di un pessimismoapocalittico – le liberal-democrazie occidentali ap-paiono davvero sul piano inclinato dell’era «post-americana», perché il declino egemonico statuni-tense (per quanto lento o fulminante possa essere)non potrà non avere conseguenze sulla fisionomiadei nostri sistemi politici e delle nostre società, eperché lo spostamento dei poli geo-economici al difuori dell’Occidente (o del suo cuore) non potrànon indurre più di qualche lieve modificazione su-gli assetti più consolidati. Ciò non significa ovvia-mente che il destino sia già scritto, e che i nostri ni-poti guarderanno alla liberal-democrazia come a unrelitto di un’età irrimediabilmente trascorsa, ma si-gnifica soltanto che non si può negare che le tra-sformazioni in atto incideranno sulla nostra conce-zione della democrazia e sulla realtà dei nostri si-stemi politici. E un problema ulteriore – forse se-condario, ma non del tutto irrilevante – è che ci tro-viamo per molti versi privi di strumenti teorici ca-paci di comprendere questo mutamento ‘nelle’ de-mocrazie, per il semplice motivo che la teoria della

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democrazia elaborata negli ultimi sessant’anni, a di-spetto degli abiti realistici che ha ostentato, si èspesso risolta in una (esplicita o implicita) celebra-zione della democrazia esistente, dipinta – secondole parole di Francis Fukuyama – come il punto diarrivo dell’evoluzione ideologica del genere uma-no. Non è allora casuale, che molte letture della‘crisi’ debbano apparire come segnate dalla nostal-gia moralistica per una democrazia che non esistepiù (e che forse non è mai davvero esistita). Ma se icritici delle derive personaliste, patrimonialiste epopuliste cedono al moralismo o alla nostalgia per iperduti ‘costumi dei padri’, ciò non vuol dire chealcune trasformazioni non ci siano effettivamente, eche di queste trasformazioni non debbano esserecomprese le motivazioni profonde e ricostruite letraiettorie. O che, addirittura, le più deleterie derivedella politica contemporanea debbano essere legitti-mate o celebrate come normali dinamiche di unademocrazia liberale.

Il titolo del fascicolo di «Paradoxa», Quelliche… la democrazia, riprende il titolo di una vec-chia canzone di Enzo Jannacci che negli ultimi anniha registrato un tardivo successo. Pochi ricordanoche quella canzone fu inserita da Lina Wertmüllernella colonna sonora originale di uno dei suoi filmpiù famosi, Pasqualino Settebellezze, la storia di unviscido guappo napoletano, opportunista, sfruttatoredi donne, che, con mille sordidi sotterfugi e squalli-de furbizie, riesce a scampare ogni pericolo, persino

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in un campo di concentramento nazista, per ritro-varsi alla fine in un’Italia in cui ogni dignità è per-duta e in cui il commercio di se stessi è diventata laprassi.

Forse, lo sguardo con cui Zagrebelsky osserva lademocrazia italiana è distorto, e forse i suoi giudizisono orientati da una preconcetta ostilità neiconfronti degli avversari politici. Ma lo‘smascheramento’ del moralismo non può implicareuna negazione la realtà. Se non al prezzo – moltopiù caro di quanto possa apparire – di appiattireogni modello teorico e ogni solenne proclamazionedi valore sulla legittimazione di una condizione difatto. E di trasformare la squallida figura diPasqualino Settebellezze nel nobile simbolo di unamatura democrazia liberale.

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IV

Democrazia e default

Il pubblico? Il pubblico non ci pensa, digerisce sol-tanto. Tutto quello che noi, prima, abbiamo premastica-to, preruminato, per lui. […] Dove credevi di essere ca-pitato? Questo è il tempio dell’opinione pubblica, non èmica un posto perbene. Vedi, in fondo noi facciamomolto per il progresso. Non sembra, ma è così. Prepa-riamo l’affondamento del genere umano nell’idiozia.Un futuro senza pensiero. Senza idee nuove. Il nirvana,supercultura, super concentrata. Dormire, bere, mangia-re e fare all’amore. E quattrini. Fare all’amore, mangia-re, bere e dormire. E quattrini1.

Più di mezzo secolo fa, in quello che rimane forseuno dei primi ‘gialli all’italiana’, era già moltochiaro, almeno per il grande Sergio Donati, qualivette di cinismo potesse toccare il mondodell’informazione. Da allora, ovviamente, non sipuò dire che la situazione sia migliorata. E la provanon va ricercata tanto – o soltanto – nella marea dipettegolezzi, scandali e immondizia che popola lepagine di quotidiani, settimanali e rotocalchi popo-lari. La testimonianza più evidente del decadimento

1 S. DONATI, Sepolcro di carta, Mondadori, Milano, 1956, p. 48

del mondo dell’informazione va individuata piutto-sto nel profilo del dibattito ‘alto’, nelle letture pro-poste dagli ‘esperti’, o nelle solenni sentenze som-ministrate ogni giorno da legioni di opinionisti.

Naturalmente – e fortunatamente – i fiumi di in-chiostro che scorrono sui nostri giornali sono quasisenza eccezioni destinati a essere dimenticati nelgiro di qualche ora, così come tutti quegli editoriali,di volta in volta definiti ‘autorevoli’,‘fondamentali’, ‘chiarificatori’, condannati a nonlasciare alcuna traccia. Ai fini di una fenomenolo-gia dell’informazione contemporanea sarebbe inve-ce opportuno classificare sistematicamente editoria-li, interviste, interventi televisivi e radiofonici di al-cuni tra i principali ‘esperti’ che, in Italia o nelmondo, si esercitano ogni giorno a stilare diagnosi– ovviamente ‘impietose’ – e a dettare ricette, pre-vedibilmente centrate su drastiche ‘terapie d’urto’(cui fortunatamente nessuno dà veramente retta).

Come è noto, la schiera degli esperti beneficiasoprattutto del prezioso apporto dei cultori dellescienze economiche, che – in Italia, come altrove –detengono infatti un ruolo quasi egemoniconell’indirizzare il dibattito pubblico, nel censuraredecisioni politiche, nell’indicare ricette, oltre chenella difficile arte della ‘previsione’. Quale sial’esatta dose in cui nei pareri dei più noti espertieconomici si combinino presunzione, arroganza einettitudine è una questione su cui molti critici di-

scutono da tempo. E, per quanto gli attacchi ricevu-ti negli ultimi tempi da questo eterogeneo gruppoprofessionale appaiano (e siano) probabilmente in-generosi, una simile ostilità è ampiamente giustifi-cata dalla scarsa lucidità mostrata dai più noti edito-rialisti economici.

In un volumetto di alcuni di anni fa, Marco Co-bianchi ha raccolto alcuni degli editoriali apparsinei mesi precedenti l’esplosione della crisi globale2.Come noto, solo pochi osservatori avevano effetti-vamente previsto la crisi dei mutui americani, an-che se alcuni economisti avevano chiaramente mes-so in luce le dimensioni assunte dalle attività finan-ziarie e i rischi cui una simile bolle esponeva. Ma,tra questi, ovviamente non si collocava nessuna del-la firme economiche che campeggiano sulle primepagine dei nostri quotidiani. Per esempio, AlbertoAlesina, commentatore del «Sole 24 Ore», docentenella prestigiosa Università di Harvard e paladinodi un radicale liberismo economico, scrivevanell’agosto del 2007, quando la crisi dei mutui sub-prime aveva già iniziato a emergere:

Non ci sarà nessuna crisi del 1929 come dice Tre-monti: quella in atto è una correzione come ce ne sonostate tante altre, e le Banche centrali stanno reagendo inmaniera appropriata. Inoltre, anche se non è possibileprevederne l’andamento giorno per giorno, i mercatiquando scendono, scendono in fretta, perciò non mi

2 M. COBIANCHI, Bluff. Perché gli economisti non hanno previstola crisi e continuano a non capirci niente, Orme, Milano, 2009.

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stupirei se fossimo già vicini alla fine della caduta. No,non vedo in arrivo lo scoppio di una bolla come quelladella New Economy. I mercati hanno i loro alti e bassi,le pause sono fisiologiche. Ultimamente si era esagera-to in po’ a prestare denaro grazie a tassi d’interessetroppo bassi, ora è in atto una forte correzione, tuttoqui3.

E circa un mese dopo ribadiva: «Finora non è acca-duto nulla di catastrofico, né a mio parere accadrà.È straordinariamente difficile prevedere quali sa-ranno le conseguenze sulla crescita dell’instabilitàdei mercati finanziari. Nessuno sa bene cosa succe-derà nei prossimi mesi. Quasi sicuramente nulla didisastroso»4. Francesco Giavazzi, vero e propriomaître à penser del liberismo italiano, si mantenevasulla stessa linea di Alesina, in collaborazione colquale ha d’altronde firmato diversi best-seller sullanecessità per l’Italia di liberalizzare e di fare piazzapulita di caste e corporazioni che immobilizzanol’economia: «La crisi del mercato ipotecario ameri-cano è seria, ma difficilmente si trasformerà in unacrisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l’econo-mia continua a crescere rapidamente. La crescitaconsente agli investitori di assorbire le perdite edevita che il contagio si diffonda» («Corriere dellaSera», 4 agosto 2007). Nei mesi in cui la crisi muo-veva i primi passi, anche un altro autorevole com-mentatore economico del «Sole 24 Ore» non fece

3 «La Stampa», 20 agosto 2007.4 «Sole 24 Ore», 27 settembre 2007.

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mancare al coro la propria voce, scrivendo,nell’agosto del 2007: «Nelle prossime settimane,una volta superata l’emergenza, si potranno valuta-re anche le conseguenze reali di questa crisi» («IlSole 24 Ore»). E diversi mesi dopo, contrastando lefosche previsioni di alcuni analisti (tra cui soprat-tutto Nouriel Roubini), replicava il medesimo moti-vo:

Io non sono pessimista come Roubini né per gliUsa né per l’Europa e tantomeno per l’Italia. Grazie aldollaro debole, come sempre fanno, gli Stati Uniti stan-no esportando un po’ dei loro problemi. Per questo, laloro recessioni non sarà così grave. Di questa situazio-ne tuttavia, per forza di cose, l’Europa ne risente. Maanch’essa sta spalmando i contraccolpi della crisi ame-ricana in tutto il mondo. L’Italia, a sua volta, ereditaquesti scompensi e dovrà tirare un po’ la cinghia. Sisentono tanti allarmi, tanti bla-bla. Ma se i nostri fon-damentali sono buoni – e sono buoni – che importa seper un anno, questo, ci sarà crescita zero? Ripeto: ionon sono pessimista. Al massimo, vorrà dire che noitutti soffriremo un po’ di più5.

È naturalmente difficile capire per quale motivoesperti così stimati e autorevoli abbiano sbagliato inmodo così clamoroso, non su un piccolo dettaglio,ma su uno degli eventi economici più importantidegli ultimi centocinquanta anni, e non a distanza didecenni, ma solo di alcuni mesi (o pochesettimane). Le spiegazioni che sono state fornite

5 «La Repubblica», 29 febbraio 2008.

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chiamano in causa la deriva ‘tecnicista’ della scien-za economica, che si affiderebbe ormai soltanto amodelli matematici, ripetitivi, senza contatto con larealtà dei processi economici, e perciò incapaci diprevedere l’irrompere sulla scena del ‘cigno nero’,ossia dell’evento imprevisto – e imprevedibile –che muta la direzione della storia. In questo modo,forse, si finisce con l’investire un immenso campodisciplinare di tutte colpe, e probabilmente vengonocoinvolti in questa critica anche economisti seri eresponsabili. Ma, soprattutto, si finisce col pensareche davvero quelle previsioni, così solennementepronunciate dagli esperti citati, abbiano alle spalleuna meditata riflessione, e non siano invece l’esitodi convinzioni ideologiche – sempre quelle, a benvedere – declinate, semplificate, deformate, stirac-chiate fino al punto da poter diventare un abito buo-no per ogni stagione e per ogni situazione. D’altrocanto, più ancora delle previsioni clamorosamentesmentite, appaiono formidabili – nell’esemplifica-zione di una presunzione esaltata da una protervianichilista – le giustificazioni elaborate all’esplosio-ne della crisi. E addirittura proverbiale è diventataquella proposta sulle pagine della «Repubblica» daTito Boeri e Luigi Guiso, a proposito della crisi deimutui subrime negli Usa: «Tre fattori contribuisco-no alle difficoltà dei mercati finanziari indotte dai(temuti) defaults sui muti subprime negli Stati Uni-ti: i) la bassa alfabetizzazione finanziaria delle fa-miglie; ii) l’innovazione finanziaria insista nella

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massiccia cartolarizzazione di attività illiquide e iii)la politica dei bassi tassi d’interesse seguita dallaFed dal 2001 al 2003»6.

Se i clamorosi errori di valutazione accumulatinegli ultimi anni rimangono un mistero, gli storicidi domani probabilmente non si chiederanno perchégli economisti non abbiano previsto l’irromperedella crisi, bensì perché il mondo occidentale abbiariconosciuto (e continui ancora oggi a riconoscere)un prestigio sociale tanto elevato a osservatori lecui capacità divinatorie si sono rivelate così dram-maticamente e palesemente inferiori a quelle di tan-ti cartomanti da trivio. Ma, prese nel loro comples-so, queste posizioni confermano almeno due cose:in primo luogo, il carattere ‘ideologico’ che lascienza economica – come ogni scienza sociale –porta inscritto nel proprio codice genetico, nell’uti-lizzo di categorie che – come avviene per concettiall’apparenza più evanescenti, come ‘democrazia’,‘politica’, ‘Stato’, ‘nazione’, ecc. – ‘incorporano’un determinato assetto delle relazioni di potere; insecondo luogo, il fatto che da questa distorsione‘originaria’ scaturiscono una serie di errori fonda-mentali e una lettura del tutto deformata della realtàcontemporanea delle nostre economie (come, peresempio, l’idea che sia effettivamente possibilescindere l’economia reale dall’economia finanzia-ria, e che, dunque, sia davvero utile guardare ai

6 «La Repubblica», 22 agosto 2007.

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«fondamentali», come se fossero qualcosa che nonha nulla a che vedere con l’economia finanziaria).

La risposta al quesito sui motivi che stanno allabase degli sconcertanti abbagli di molti osservatorinon è, a ben vedere, così misteriosa. Nella logicadell’informazione, gli esperti non servono effettiva-mente a ‘comprendere’, ma solo a proporre qualco-sa di ‘premasticato’ e ‘preruminato’, se non addirit-tura soltanto a riempire con qualche commento equalche provocazione uno spazio altrimenti destina-to a restare bianco. Nelle loro acrobazie, non fannoche esercitarsi sul filo di quelle convenzioni che –come ha sostenuto Francois Orléan – sono il verometro che gli operatori finanziari adottano perorientarsi7. E il pubblico, in questo gioco delle par-ti, sembra condannato a ‘digerire’ tutto, e a proce-dere spedito – come scriveva Donati – verso«l’affondamento del genere umano nell’idiozia».

Anche in questi giorni, gli editoriali di osserva-tori, economisti ed esperti finanziari non fanno chegirare attorno all’orlo di un pozzo che non vienemai nominato, se non per escludere l’eventualitàche ci si possa cadere, o per agitare questa possibi-lità come formidabile arma di ricatto politico. Ma,nonostante tutte le rassicurazioni, è ormai chiaroche l’eventualità di una fuoriuscita dall’euro da par-te dei cosiddetti Piigs è assai più probabile che la

7 Vedi in particolare i contributi raccolti in F. ORLÉAN, Dall’eufo-ria al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi, a cura di An-drea Fumagalli e Stefano Lucarelli, Ombre corte, Verona, 2010.

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loro permanenza, così come la prospettiva del de-fault da parte di Grecia, Italia (e forse Spagna) ap-pare molto più realistica – e opportuna – di impro-babili ‘riforme strutturali’, in grado, al tempo stes-so, di tagliare la spesa pubblica, aumentare le tassee far ripartire l’economia. Ovviamente, di tutto que-sto trapela ben poco sulle pagine dei nostri quoti-diani, e il rischio dei prossimi mesi sarà quello diimporre a Italia e Spagna sacrifici drammatici, madel tutto inutili, come quelli che sono stati impostiai cittadini greci nell’ultimo anno. E con prevedibi-le puntualità, gli esperti non faranno mancarel’indicazione di ricette per tornare a crescere (unesempio si può trovare sul «Corriere della Sera» del24 ottobre 2011, dove Alesina e Giavazzi, proprioquelli che non avevano previsto nulla della crisi fi-nanziaria in arrivo nel 2008, stilano addirittura undecalogo di riforme in grado di ‘rilanciare’ l’econo-mia italiana).

In questo mare di omertoso silenzio e di furoreideologico, il nuovo pamphlet di Loretta Napoleoni,Il contagio, benché fornisca una visione un po’troppo apologetica degli indignados (e un po’ trop-po indulgente nell’appoggiare l’inclinazione ‘impo-litica’ di questa protesta), ha almeno il merito difornire una onesta analisi dell’attuale crisi europea8.La tesi di fondo di Napoleoni è che le rivolte della‘Primavera araba’ sono destinate a contagiare anche

8 L. NAPOLEONI, Il contagio. Perché la crisi economica rivoluzio-nerà le nostre democrazie, Rizzoli, Milano, 2011.

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la sponda settentrionale del Mediterraneo, e che lepopolazioni di Grecia, Italia, Spagna, Portogallo eforse della Francia si troveranno a combattere unapacifica rivolta contro élite corrotte e incapaci, lacui miopia ha condotto alla situazione attuale. Inquesto senso, Napoleoni considera gli indignadosdella Puerta del Sol come un’anticipazione dei mo-vimenti che, nei prossimi mesi, costringeranno leleadership europee ad abbandonare il campo a nuo-ve leve e, soprattutto, ad adottare nuove linee di in-tervento in campo economico. Forse Napoleoni sot-tovaluta le attitudini trasformistiche della classe po-litica mediterranea, ma il punto è che secondol’economista – come scrive nel Prologo, scoperta-mente apocalittico – siamo alla vigilia di un muta-mento radicale, forse persino ai primi passi di unarivoluzione pacifica:

Un virus micidiale aleggia sul Mediterraneo. DalNordafrica viaggia verso l’Europa, apparentementeinarrestabile. A maggior rischio è la parte più giovanedella società civile, ma anche i meno giovani possonoinfettarsi. È la peste democratica. La pandemia rivolu-zionaria minaccia persino l’America, il cuoredell’Impero occidentale globalizzato. È lo spauracchiodi tutti, ma proprio tutti i politici del mondo: il conta-gio. Per questo virus infatti non esistono anticorpi néantibiotici, è un’infezione atipica, nuova frutto dellaconfluenza di due epidemie: la crisi del debito sovranoe quella di istituzioni politiche ormai fuori tempo e fuo-ri uso. La prima fiacca la ricchezza, ovvero il sistemaimmunitario dei Paesi, la seconda ne attacca gli organidi governo. Se non contrastato, il contagio potrebbe di-

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struggere a Nord gli agonizzanti sistemi democraticieuropei con la stessa forza e determinazione con la qua-le a Sud si fa strage delle dittature arabe. La domandaè: sarebbe un male?9.

L’analisi di Napoleoni sviluppa l’analogia fra le ri-volte della ‘Primavera araba’, che si sono indirizza-te contro oligarchie corrotte, e le prossime rivoltedell’indignazione, che in Europa stanno iniziando amettere sotto accusa le leadership del Vecchio con-tinente. Ma il focus della sua rilettura si rivolge so-prattutto sulle origini (e sui probabili sviluppi) dellacrisi dell’euro. E l’inizio è individuato proprio nelfatale passaggio dei primi anni Novanta, quando sipongono le basi della moneta unica. L’entratanell’euro viene considerata come un’opportunitàpositiva per Paesi ricchi e scarsamente indebitaticome Germania e Francia, perché una moneta ‘de-bole’ (più debole del vecchio marco) può renderepiù competitive le esportazioni dei loro prodotti (einfatti la Germania è oggi il secondo esportatoremondiale dopo il colosso cinese). A Paesi comel’Italia, l’adozione della moneta unica può invececonsentire di accedere al mercato dei capitali inmodo più agevole, ossia a tassi di interesse più bas-si (dal momento che con l’euro non saranno piùpossibili svalutazioni delle monete nazionali). Perrispettare i parametri fissati dal Trattato di Maastri-cht, tutti i governi impongono una disciplina ai loro

9 Ibi, p. 13.

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conti. Ma – come si scoprirà diversi anni dopo –spesso questa apparente disciplina nasconde unarealtà ben diversa, anche perché non viene neppureintaccata la spirale di corruzione, evasione fiscale egestione clientelare della spesa pubblica. Il caso ita-liano da questo punto di vista è emblematico: nelperiodo dal 1993 al 2000, la spesa pubblica dimi-nuisce in termini reali del 5,14%, ma nel periodosuccessivo – dal 2001 al 2008 (e cioè prima dellacrisi) – torna a crescere del 20%10. Naturalmente,questo può stupire chi ha creduto che le riformedell’amministrazione pubblica, le privatizzazioni, leesternalizzazioni, la riforma del titolo V, l’equipa-razione dei pubblici dipendenti a quelli privati, lemisure efficientistiche potessero produrre realmenteuna razionalizzazione della spesa dello Stato. Manon stupisce affatto chi ha visto, nelle misure dellapretesa ‘razionalizzazione’, una realtà opposta: per-ché si sono semplicemente aumentati i margini didiscrezionalità della classe politica, si sono creaticentri di spesa totalmente fuori controllo e si sono‘legalizzati’ i legami clientelari, col risultato para-dossale che a uscire rafforzata da un ventennio di‘riforme’ e ‘liberalizzazioni’ (vere o solo proclama-te) è stata soltanto quella ‘casta’ pletorica e parassi-taria verso cui si indirizza – ormai quasi in modounanime – il disprezzo dei cittadini italiani.

La crescita della spesa pubblica segue peraltro,dopo il 1993, sentieri spesso occulti. Come ormai è

10 Ibi, pp. 57-58.

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risaputo, la Grecia opera sulla propria contabilitàuna serie di operazioni finalizzate a mascherarel’effettivo superamento della soglia del 3% del Pilfissato dal Trattato di Maastricht, e altri Paesi fannosostanzialmente la stessa cosa. Oltre a questo mec-canismo, i governi nazionali riescono ad evitare ilcontrollo sulla spesa mediante i cosiddetti cur-rency-swaps, un tipo di derivati che nascondono unprestito trasformando un debito presente in una pas-sività futura. Inoltre, enti locali e regioni accedonoalla ‘cartolarizzazione del debito’, senza che similioperazioni vengano inserite nella contabilità nazio-nale. Questo meccanismo – che è stato adottato datutti i Piigs – è il motivo principale per cui, comescrive Napoleoni, le dimensioni reali del debito gre-co rimangono sostanzialmente sconosciute:

Il debito greco come quello degli altri Piigs è inge-stibile soprattutto perché […] nessuno ne conosce le di-mensioni reali. E vale la pena di elencare i futuri atti diquesta moderna tragedia greca. Ufficialmente, ad ago-sto del 2011, Atene deve ripagare 6 miliardi di euro,che non ha e che l’Unione europea le ha anticipato. Nel2012, poi, ci sono altri 14,4 miliardi da restituire entromarzo, 8 entro il 18 maggio e ulteriori 7 ad agosto, perun totale di quasi 30 miliardi di euro. Quante nuovescadenze compariranno nel corso del tempo? Da dovearriveranno tutti questi soldi se il Paese è a crescita ne-gativa e non ha più accesso al mercato del credito? Larisposta è il cosiddetto Piano Marshall europeo. Trenta-cinque miliardi di euro!11

11 Ibi, p. 67.

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Il punto chiave del pamphlet di Napoleoni consisteperò nelle strategie di uscita da questa situazione. Insostanza, si tratta di una crisi simile a quella in cuisi trovò l’Argentina nel 2001, anche perché alcunedelle cause sono analoghe. Anche l’Argentina ave-va infatti agganciato la propria moneta al dollaro,privandosi così della possibilità di svalutare, maevitando il rischio dell’inflazione. Inoltre, il Paeselatino-americano aveva adottato una serie di rifor-me strutturali, come la privatizzazione delle pensio-ni. Per alcuni anni, gli effetti furono positivi, ma,dopo la crisi asiatica, l’impennata degli acquistidelle obbligazioni argentine fece esplodere la bollaspeculativa, mentre la crisi economica brasiliana in-flisse il colpo di grazia, determinando un rallenta-mento della crescita e, dunque, la difficoltà da partedello Stato di onorare il debito. L’economia argen-tina si disgregò nel giro di poche settimane, e la si-tuazione politica divenne ingovernabile. A questopunto, la bancarotta argentina innescò un’inversio-ne di marcia, e, dopo un periodo di difficoltà, ilPaese adottò una formula fondata su inflazione ecrescita (e dunque una formula completamente di-versa da quella prescritta dal Fmi). Ed è proprioquesta la strada che Napoleoni – pur con le inevita-bili differenze – ritiene debba essere imboccata daiPiigs.

In effetti, oggi le economie dei Piigs si trovanostrette in una tenaglia: per rispondere alle richieste

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della Bce e dei Paesi ‘forti’, i Piigs dovrebberoadottare riforme ‘draconiane’, volte ad aumentarel’imposizione fiscale e a tagliare la spesa pubblica(riducendo il personale delle pubbliche amministra-zione o tagliando i salari); queste misure avrebberoperò effetti depressivi su una crescita peraltro giàestremamente esile, e così la riduzione degli introitifiscali aggraverebbe ulteriormente lo stato dei contipubblici. Ma, ovviamente, il vero scopo di questemisure non consisterebbe tanto negli effetti reali suiconti pubblici, quanto negli effetti ‘psicologici’. Ef-fetti che consistono nell’introduzione di ‘privatizza-zioni’ e ‘liberalizzazioni’, oltre che nella ‘rassicu-razione’ (temporanea) dei mercati.

Se la soluzione per Napoleoni non passa per iltaglio della spesa pubblica, non può che passare in-vece dalla svalutazione. Ma una simile soluzione ri-chiederebbe ovviamente l’uscita – almeno tempora-nea – dei Piigs dall’area dell’euro e, soprattutto, ladichiarazione della propria insolvenza. La prospet-tiva della bancarotta dello Stato viene presentata intermini catastrofici in modo quasi unanime. E, ineffetti, ripensando al fallimento della Germania diWeimar – rievocato da Adam Fergusson, in Quan-do la moneta muore, Neri Pozza, 2011, precedutoperaltro da una prefazione della stessa Napoleoni –è chiaro che il default può comportare elevatissimicosti sociali (anche se è bene ricordare che il casotedesco nasceva da una condizione opposta di siste-matico ricorso alla svalutazione e di inflazione to-

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talmente fuori controllo). Napoleoni – esaminandoil caso dell’Argentina e dell’Islanda – punta invecea mostrare come l’ipotesi del default non sia néapocalittica, né necessariamente disastrosa per lapopolazione. Sono da questo punto di vista da leg-gere con attenzione i passaggi conclusivi del pam-plhet:

Le esperienze dell’Argentina e dell’Islanda ci inse-gnano che un default pilotato attuisce l’impatto negati-vo sull’economia nazionale. Se si riesce a garantire ildebito interno l’economia non precipita nell’abisso. Perfarlo, un Paese come l’Italia deve trovare circa 800.000miliardi, un po’ più della metà del debito pubblico,quella fetta insomma che hanno sottoscritto banche ecittadini. L’unico modo è una tassa secca, una tantumsul patrimonio. E dato che l’un per cento della popola-zione detiene il 45 per cento della ricchezza, è già chia-ro chi dovrà pagare. Diverso è il discorso per il debitopubblico nelle mani degli operatori esteri, con i qualibisognerà negoziare una ristrutturazione. E qui entra ingioco l’effetto domino. Dato che una grossa fetta è sta-ta acquistata dalle banche francesi e tedesche, sarannoqueste a incassare il colpo. Se anche il resto dei PaesiPiigs scegliesse la strada del default pilotato, allora si-curamente una buona parte di queste banche rischiereb-be il fallimento. Dunque è possibile che il default pilo-tato dei Paesi deficitari trascini nella stessa melma an-che quelli ricchi. Ciò che Germania e Francia voglionoevitare a tutti i costi12.

Naturalmente, Napoleoni è ben consapevole delledifficoltà che uno scenario del genere presenta, per-

12 Ibi, p. 169.

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ché la svalutazione rischierebbe di alimentare letensioni fra gli Stati dell’Ue, e perché una decisionedi questo tipo avrebbe conseguenze dirompenti a li-vello politico. Ma, con ogni probabilità, è proprioquesto lo scenario verso cui l’Ue si muoverà nelleprossime settimane.

Dinanzi alle ricette che vedono nella ‘liberaliz-zazione’ la panacea capace di risolvere la crisi, sa-rebbe forse opportuno ricordare che la costante fles-sibilizzazione del mercato del lavoro, l’aumento de-gli orari di lavoro, la ‘rivoluzione tecnologica’ deglianni Novanta e l’ascesa del modello Walmart nonhanno condotto negli Stati Uniti a un rilancio so-stanziale e continuativo della crescita, e che la strut-turale ‘finanziarizzazione’ nasce proprio da questastrisciante e perdurante crisi di profittabilità, cosìcome scaturisce da questo contesto anche la vertigi-nosa crescita fatta registrare dal debito pubblicoamericano negli ultimi anni.

Oggi bisogna forse riconoscere – come sostienepersuasivamente Napoleoni – che la prospettiva deldefault (di un default pilotato) è probabilmenteinevitabile. Che si tratta di una prospettiva checerto imporrà molti costi, a livello interno e alivello internazionale, e che avrà ricaduteimprevedibili per lo stesso futuro dell’UnioneEuropea. Ma che, in ogni caso, una simile soluzionecomporterà sacrifici molto meno gravi di quelli chesarebbero richiesti da un ormai sempre piùimprobabile salvataggio dell’euro, e che

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colpirebbero in modo drammatico – e duraturo – legiovani generazioni, il profilo industriale dell’Italiae l’insieme dei ‘beni comuni’. Forse è meglioiniziare a pensarci seriamente, con realismo e senzainfingimenti. Per evitare di seguire la Grecia su unsentiero di drammatici sacrifici, che non condurràad alcun risultato.

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V

Il mercato contro la democrazia

It’s the economy, stupid! Questa frase, adottatacome slogan elettorale da Bill Clinton nella sua pri-ma campagna presidenziale, è diventata, nel corsodi un ventennio, ben più che familiare a chiunquesegua – persino un po’ svogliatamente – i dibattitipolitici e giornalistici. In effetti, proprio a partiredagli anni Novanta è divenuto abituale riferirsi allaquotidiana pressione esercitata dai mercati sul pote-re degli Stati nazionali, e lo slogan clintoniano fis-sava, in modo senza dubbio efficace, proprio laconvinzione che le strutture economiche, le transa-zioni finanziarie, il ruolo della imprese multinazio-nali siano ‘vincoli’ sostanzialmente immodificabilie inaggirabili (oltre che solo parzialmente ‘addome-sticabili’) da parte della politica, e che pertanto ledemocrazie siano costrette a prendere atto che – aldi sopra del loro potere ‘sovrano’ – stanno altri at-tori, forse non propriamente ‘sovrani’, ma comun-que capaci di influenzare le scelte politiche e di sot-trarsi al controllo degli Stati. Anche la percezionedel ruolo ‘sovrano’ del mercato è diventata più omeno un luogo comune, così come l’idea che i mer-

cati agiscano sui singoli Stati nazionali e sulle scel-te delle leadership democraticamente elette, mentrela convinzione che la democrazia risulti ‘svuotata’dell’economia globale e dai suoi attori è ormai di-ventata quasi triviale, da non apparire sorprendenteper nessuno. Ciò nonostante, molti osservatori han-no individuato nelle dinamiche della crisi finanzia-ria contemporanea un vero e proprio salto di quali-tà, che va ad approfondire quello squilibrio fra poli-tica e mercato che le dinamiche della ‘globalizza-zione’ hanno consolidato da più di un ventennio.

Intervenendo per esempio pochi giorni dopol’invio della lettera del Governatore della BancaCentrale Europea al Governo italiano, nell’agosto2011, Roberto Esposito ha intravisto nella crisiodierna i tratti di una sfida cruciale posta dai merca-ti alla politica: «Mai la politica è apparsa così indi-fesa rispetto all’andamento delle borse, o addiritturaa bande di speculatori che scommettono sul falli-mento di interi Stati, rischiando di fatto di provo-carlo. Che ciò possa accadere attraverso un insiemedi dispositivi finanziari capaci di aggredire unobiettivo sensibile in maniera simultanea da molte-plici parti, è un ulteriore sintomo della debolezzadella politica, non solo rispetto all’economia, maanche all’apparato tecnologico che ormai fatutt’uno con essa. Stretta in tale morsa, la sovranitàstatale appare ridotta ai minimi termini, se persinola prima potenza mondiale è soggetta a spinte che

mostra di non saper controllare adeguatamente. Inalcuni casi si direbbe che gli Stati non siano in gra-do di decidere neanche i tempi della propria resa»1.

C’è d’altronde un fatto sicuramente nuovo nellasituazione di questi ultimi anni: un fatto che investein particolare il ruolo delle istituzioni europee e so-prattutto la convinzione riposta nella loro possibileazione. Negli anni Novanta (e almeno fino al 2005),alle letture dedicate alla globalizzazione e alla (piùo meno lineare) conseguenza dello ‘svuotamento’della democrazia, facevano seguito, quasi invaria-bilmente, ferme dichiarazioni di fiducia rivolteall’Unione Europea, considerata come l’àncora ca-pace di dare stabilità ai piccoli e traballanti Stati delVecchio continente anche nei mari tempestosidell’economia globale. Legioni di economisti, giu-risti e politologi hanno così continuato, per circadue decenni, a spalmare la melassa della retoricaeuropeista sulla realtà dei meccanismi istituzionalidell’Ue: meccanismi evidentemente molto lontanidal configurare l’ombra di una democrazia (e chesolo generosamente qualcuno ha avuto il coraggiodi definire come una «democrazia composita»), ol-tre che molto lontani dal garantire una reale effi-cienza e una reale coerenza al governo dell’Unione.Neppure la più robusta corazza ideologica può peròriuscire oggi a mascherare una realtà evidente achiunque: una realtà in cui gli Stati membri – e so-

1 R. ESPOSITO, Non rassegnarsi al mercato sovrano, in «la Repub-blica», 13 agosto 2011, p. 1.

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prattutto le principali potenze dell’area dell’euro –assumono il ruolo di un autentico ‘Direttorio’, men-tre la Commissione arretra sempre più verso lequinte di un palcoscenico dove si alternano i tonidella farsa a quelli della tragedia. E in cui la sospi-rata governance europea si ‘dissolve’ nell’aria, in-sieme a tutte le formule costruite in vent’anni dascienziati sociali entusiasticamente accorsi a indos-sare l’abito di vestali della ‘tecnocrazia’ di Bruxel-les. Oggi – per usare le parole di Guido Rossi, nelmomento per ora più critico della crisi europea,quello compreso fra la cancellazione del referen-dum greco sugli aiuti comunitari e il varo, in Italia,dell’esecutivo ‘tecnico’ guidato da Mario Monti – èdiventato chiaro cosa si nasconda davvero dietro leimmagini più confortanti della governance europea:

La tragedia dell’Europa è che tale governance nonesiste e che le istituzioni dell’Unione non godono disufficiente autorevolezza, sicché il risultato è che lesingole parti urlano, impongono e l’insieme tace e subi-sce. Il deficit dei meccanismi istituzionali ha il suopunto massimo nello sconcertante ruolo che ha assuntola Bce, divenendo il vero strumento di politica econo-mica non solo dell’Unione bensì anche dei singoli Sta-ti, se è vero che nessuno si vergogna di dire che la ma-novra italiana è stata dettata da una lettera della stessaBce. Si tratta tuttavia di una superpotenza non legale,senza contare che l’intero degrado del meccanismo isti-tuzionale dovrebbe vedere competente la Corte di giu-stizia europea.2

2 G. ROSSI, Il deficit di democrazia fa più danni del debito, in «Il

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Ma, in questa crisi, non emergono solo i ritardi e leinsufficienze delle istituzioni comunitarie, perché –in modo ancora più netto – emerge l’insufficienzadella politica e dei suoi strumenti dinanzi alla realtàdelle dinamiche economiche. Il contrasto fra le lo-giche prioritarie dell’Unione e il carattere democra-tico delle decisioni europee ha assunto proporzionidrammatiche nel caso del referendum greco sul pia-no della Bce, prima indetto dal governo di Atene ein seguito cancellato per diretto intervento di Fran-cia e Germania, per i timori della «vendettadell’agorà» contro il «cieco governo tecnocra-tico-finanziario» (G. Rossi, L’Europa tecnocratica,la ‘vendetta dell’agorà’, in «Il Sole 24 Ore», 6 no-vembre 2011). E, come ha scritto Frank Schirrma-cher sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung»: «Èsempre più chiaro che quello che l’Europa sta vi-vendo al momento non è un episodio, bensì un con-flitto di potere fra il primato dell’economia e il pri-mato della politica. Il ‘politico’ ha già perso mas-sicciamente terreno, e ciò è indicato dal fatto chetutti i concetti politici che sono stati associatiall’Europa unita, sono sparsi al vento come cenere»(Demokratie ist Ramsch, in «Frankfurter Allgemei-ne Zeitung», 1 novembre 2011). In modo ancorapiù radicale, Vittorio Parsi ha scritto che la cancel-lazione del referendum greco sugli aiuti dell’Uepuò essere paragonata alla Conferenza di Monaco

Sole-24 Ore», 11 settembre 2011, p. 1.

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del 1938, con cui le grandi potenze imposero allaCecoslovacchia di cedere i Sudeti alla Germania diHitler per salvaguardare la pace mondiale. Allostesso modo, oggi, i ‘grandi’ della comunità inter-nazionale impongono ai greci di rinunciare alla loro‘sovranità, o quantomeno alla loro democrazia.L’alternativa – sostiene invece Parsi – non è fra lasalvaguardia del mercato, da un lato, e, dall’altro, ladifesa della democrazia:

o riusciamo a salvare insieme mercato e democrazia,politica ed economia, oppure in seguito e a causa delleferite e umiliazioni che imponiamo alla democrazia fi-nirà con il morire anche il mercato: ma non gli specula-tori, ovviamente, che sanno fare i propri interessi inqualunque sistema economico, tanto in pace quanto inguerra3.

Dopo l’ennesimo – forse definitivo – attacco sferra-to dall’Ue contro la Grecia in queste ultime settima-ne, è davvero difficile non concordare con tuttequeste diagnosi, sia nel momento in cui si sofferma-no sui limiti strutturali dell’Ue, sia nel momento incui segnalano la necessità di difendere la democra-zia dal ricatto dei mercati e dalle decisione dellegrandi potenze. Ma – è bene dirlo – l’idea di difen-dere la democrazia dal potere distruttivo del merca-to va a confliggere con quella ‘grande narrazione’che ha dominato il dibattito politico e intellettuale

3 V.E. PARSI, Ma non sia un altro ’38, in «Avvenire», 6 novembre2011, p. 1.

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post-bipolare. Una ‘grande narrazione’ che – comescrive Aldo Schiavone – «pretendeva che l’anarchiacapitalistica globale che abbiamo sperimentato ne-gli ultimi decenni fosse l’unica risposta possibile, eche l’assoluta anomia dei mercati coincidesse con ilmigliore mercato pensabile»; quasi che – continuaSchiavone – «la globalizzazione dovesse inevitabil-mente portare con sé, quale conseguenza inevitabi-le, una totale assenza di regole, e un ritrarsi sconfit-to della politica da ogni luogo che contasse per dareuna forma alle nostre vite»4. Ma, se il fascino diquella narrazione appare quantomeno offuscato, ri-sulta in realtà piuttosto complicato comprendere se,quando e in che modo la ‘politica’ possa davverotornare a esercitare un ‘governo’ sul mercato globa-le. In questo senso, per quanto si possa senz’altroconcordare (almeno in parte) con Schiavone quan-do scrive che «la rivoluzione tecnologica ha trasfor-mato le basi sociali delle nostre democrazie», e chesi è dissolto il tessuto democratico che «aveva alsuo centro il vecchio lavoro produttivo di mercimateriali» e che «aveva come punto di riferimentoun capitale poco mobile, fortemente radicato nelterritorio e nella sua storia demografica e sociale»,diventa molto più difficile seguirne il discorsoquando evoca la realtà del nuovo lavoro: un lavoro«ad alta intensità tecnica e conoscitiva» e che ri-chiede per svilupparsi «una relazione strettissima

4 A. SCHIAVONE, Se il crollo dei mercati trasforma la democrazia,in «la Repubblica», 21 agosto 2011, p. 1.

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fra innovazione tecnologica e trasformazione finan-ziaria dell’economia», fra «lavoro e capitale finan-ziario», e su cui diventa possibile far leva per pen-sare un nuovo governo sul mercato. Tanto che chia-mare – come fa Schiavone – la politica a «disegnarelo scenario che ci aspetta»5, finisce col suonare solocome un motivo rituale, non molto diverso in fondoda quella che faceva da immancabile corollario allacelebrazione del ruolo dell’Ue. Soprattutto perchénon si capisce bene quali possano essere oggi i sog-getti politici realmente in grado di «disegnare loscenario che ci aspetta» (dal momento che persinoquella che fino a pochi anni fa veniva descrittacome l’unica e incontrastata «superpotenzaglobale» appare come quasi totalmente priva di ri-solutivi strumenti di azione).

In effetti, evocare la ‘politica’ come strumentocapace di regolare l’economia, come strumento per‘controllare’ i mercati, o per mettere un freno al pa-nico finanziario (o all’azione degli «speculatori»),rischia di diventare poco più di un vano esercizioretorico. Perché significa trascurare la portata delletrasformazioni che sono avvenute a livello econo-mico negli ultimi trent’anni, e che ovviamente han-no massicce ricadute sulla realtà delle nostre demo-crazia. Per comprendere alcune componenti di que-ste trasformazioni risulta per molti versi imprescin-dibile il lavoro svolto in questi anni dallo studiosofrancese André Orléan, directeur de recherche al

5 Ibidem.

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Cnrs (Centre National de la Recherche Scientifi-que), di recente insignito del prestigioso premioPaul-Ricœr per il suo libro L’Empire de la valuer.Refonder l’economie6. Una delle tesi principali diOrléan – di cui è stata pubblicata dall’editore Om-bre corte di Verona una raccolta di interventi pro-prio sulla crisi finanziaria7 – consiste nell’idea se-condo cui il mercato finanziario non si regge subasi ‘oggettive’, ma solo su ‘convenzioni’, che glioperatori adottano per compiere le loro scelte e chela ‘scienza economica’ considera fondate. Ciò haovviamente una serie di conseguenze di non pococonto sulla dinamica della crisi contemporanea esullo stesso tipo di rapporti che intercorrono fraStato e mercato. In effetti, il problema dello strapo-tere dei mercati tende a essere considerato in termi-ni impropri, se si immagina il ‘mercato’ nei terminiin cui ne parlavano, per esempio, Adam Smith oFriedrich von Hayek. Come osserva in questo sensolo stesso Orléan in un’interessante intervista rila-sciata a Frédéric Joignot e pubblicata sull’insertoculturale di «le Monde»:

Quando si dice ‘i mercati’, non si parla affattodell'economia di mercato, né del mercato dei beni. Siparla dei mercati finanziari. Se ne parla come se riassu-messero l'intera economia, e come se fossero razionali

6 F. ORLEAN, L’Empire de la valuer. Refonder l’economie, Seuil,Paris, 2011.

7 Cfr. F. ORLEAN, Dall’euforia al panico, a cura di Andrea Fuma-galli e Stefano Lucarelli, Ombre corte, Verona, 2010.

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e stabili. Se fossero in grado di produrre stime accuratedei valori e dei prezzi, il loro ruolo sarebbe utile. Il pro-blema è che non lo sono. Sono, da questo punto di vi-sta, molto diversi dai mercati dei beni. Questi si occu-pano di beni reali, con un’utilità che i consumatori pos-sono giudicare, mentre i mercati finanziari si basano sudelle valutazioni soggettive, altamente speculative. Sitratta di mercati di promesse. Si comprano e vendono leaspettative. La loro logica è di natura mimetica: ogniinvestitore si posiziona in funzione di quello che gli al-tri faranno. Sono molto simili a quei media che cercanodi scoprire non le informazioni importanti, ma quellesuscettibili di essere apprezzate dal pubblico. Per que-sto motivo, un mercato finanziario è per sua natura mo-bile, instabile, pieno di deviazioni incontrollate. Cosìproduce inevitabilmente delle bolle che esplodonoquando lo scarto rispetto alla realtà diventa troppogrande per essere negato. La teoria liberale vorrebbefarci credere che i mercati finanziari forniscono valoripertinenti, dei prezzi obiettivi, e che alla fine l’autore-golazione riuscirà a imporsi. È così che la finanziariz-zazione è stata venduta alle popolazioni. Questo edifi-cio è stato completamente smentito dalle crisi che sisono succedute, dopo il 1987 fino allo tsunami finan-ziario del 2007 e alla crisi odierna8.

Questa stessa lettura viene ripresa, oltre che negliscritti teorico-analitici di Orléan, anche nelManifeste d’économistes atterrés, apparso inFrancia nel 2010 e pubblicato in italiano proprio inquesti giorni9. Nel manifesto – steso da un gruppo

8 Le marché gouverne, in «culture&idees - le monde», 21 gennaio2012, p. 1.

9 Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi,minimum fax, Roma, 2011.

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di economisti di cui, oltre a Orléan, fanno partePhilippe Askenazy, Thomas Coutrot, HenriSterdyniak – vengono innanzitutto smontate alcunedelle «false certezze» sulla crisi, la prima dellequali è proprio che i mercati finanziari sianoefficienti, ma alla quale se ne accompagna unaseconda, forse ancora più rilevante sotto il profilopolitico, ossia la convinzione che i mercatifinanziari favoriscano la crescita economica. Infatti,l’integrazione finanziaria ha modificato la stessalogica d’impresa, schiacciando la prospettivatemporale sul breve periodo con cui l’azionistavaluta la redditività del proprio investimentofinanziario. Come scrivono gli ‘economistisgomenti’:

L’integrazione finanziaria ha aumentato notevol-mente il potere della finanza perché ha unificato e cen-tralizzato a livello globale la proprietà dei capitali. Essadetermina oggi gli standard di redditività che vengonorichiesti all’insieme dei capitali. Il progetto iniziale erache i mercati finanziari avrebbero sostituito le banchenel finanziare gli investimenti, ma tale progetto è falli-to, al punto che oggi, nel complesso, sono le imprese afinanziare gli azionisti e non il contrario. La governan-ce aziendale è stata profondamente trasformata per sod-disfare gli standard di redditività imposti dal mercato.Con l’affermazione del concetto di creazione di valoreazionario si è imposta una nuova visione dell’impresa edel suo management, in cui l’impresa viene concepitacome un’entità al servizio degli azionisti. L’idea di uninteresse comune tra i diversi partecipanti all’impresa èscomparsa. I dirigenti delle imprese quotate in borsa

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perseguono oggi il principale ed esclusivo obiettivo disoddisfare il desiderio di arricchimento degli azionisti.Di conseguenza, essi cessano di essere dei dipendenti,come mostrano gli aumenti eccessivi delle loro retribu-zioni. Come sostenuto dalla teoria dei rapporti di agen-zia, l’obiettivo è quello di far sì che l’interesse dei ma-nager converga con quello degli azionisti10.

Ciò ha inevitabilmente degli effetti dirompenti sottoil profilo politico e sociale:

Di fronte a questo potere, gli interessi dei salariati,così come la sovranità politica, sono stati messi ai mar-gini. Tale squilibrio ha condotto a un’irragionevole ri-chiesta di profitti che ostacola la crescita economica ealimenta un aumento delle disuguaglianze di reddito.Da una parte, l’esigenza di una redditività elevata frenail livello degli investimenti: maggiore è il rendimentorichiesto, più difficile diventa trovare progetti che sianoabbastanza competitivi da soddisfare tali esigenze.Così, i tassi di investimento rimangono storicamentebassi in Europa e negli Stati Uniti. Dall’altra parte,queste esigenze causano una costante pressione al ri-basso sui salari e sul potere d’acquisto, cosa che non fa-vorisce certo la domanda. La frenata simultanea degliinvestimenti e dei consumi porta a un livello di crescitae a una disoccupazione endemica. Questa tendenza èstata contrastata nei paesi anglosassoni attraverso unaumento del debito delle famiglie e attraverso bollespeculative che, creando una ricchezza illusoria, favori-scono l’aumento dei consumi senza aumento dei salari,ma si concludono con un crollo dell’economia11.

10 Ibi, pp. 16-17.11 ibi, p. 17.

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L’elenco delle «false certezze» messe in fila dagli«economisti sgomenti» è piuttosto lungo, e,sebbene i loro rilievi non siano certoparticolarmente eterodossi, si tratta proprio delle‘convinzioni’ che vengono quotidianamentepropalate, sia dagli osservatori ‘imparziali’ sia daglistessi operatori politici, e, soprattutto, delle‘certezze’ che ispirano gli interventi volti afronteggiare la crisi. Più precisamente, alcune«false certezze» riguardano i debiti pubblici el’origine della loro crescita, un tema che si èprestato – e si presta tuttora – a una serie di letturequantomeno deformate, che attribuiscono lacrescita del debito (soprattutto nell’Eurozona)all’incremento sproporzionato della spesa sociale.In realtà, le cose stanno diversamente, almeno se siconsidera l’andamento della spesa pubblicadall’inizio degli anni Novanta. Come scrivono inquesto senso i quattro studiosi:

l’aumento del debito pubblico, in Francia come inmolti altri paesi europei, era inizialmente moderato e,prima della recessione, non dipendeva da un aumentodella spesa pubblica – dato che al contrario, in propor-zione al Pil, la spesa pubblica in Europa si è mantenutastabile, se non in calo, a partire dai primi anni Novanta– ma dall’erosione delle entrate pubbliche. Quest’ulti-ma era dovuta a una debole crescita economica e allacontrorivoluzione fiscale condotta da molti governi ne-gli ultimi venticinque anni. Nel lungo termine, la con-tro-rivoluzione fiscale ha alimentato la crescita del de-bito passando da una recessione a un’altra. Considerato

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che nel frattempo nessuna armonizzazione fiscale haavuto luogo, in Europa gli stati hanno avviato una con-correnza fiscale fra di loro, abbassando le imposte sulleimprese, sui redditi elevati e sui patrimoni12.

In realtà, sempre a proposito del debito pubblico,viene smentita anche un’altra «certezza», anch’essadi enorme impatto emotivo: l’idea che la crescitadel debito pubblico implichi un trasferimento diricchezza a danno delle generazione, e che perquesto – come avviene in una famiglia in cui ilpadre si sia indebitato fino al collo per sostenere untenore di vita dissoluto – sia necessario prendereatto che ‘abbiamo vissuto al di sopra delle nostrepossibilità’. Ma la dinamica macroeconomica nonfunziona come l’economia domestica, e iltrasferimento di ricchezza realizzato con il debitopubblico – un trasferimento che pure esiste – nonavviene dai padri ai figli, bensì da alcuni stratisociali ad altri: e cioè, dai contribuenti, ossia dailavoratori e dalle imprese che pagano le tasse, agliazionisti, ossia a coloro che prestano soldi allostato. Questo meccanismo in Italia ha avuto unafunzione formidabile, perché, se si volesseesaminare in modo approfondito la storia del nostropaese nel corso degli ultimi trent’anni, proprio ildebito pubblico – a partire dalla fine degli anniSettanta e per tutti gli anni Ottanta – harappresentato non solo un formidabile strumento di

12 Ibi, pp. 22-23.

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redistribuzione della ricchezza (di cui hanaturalmente beneficiato anche il vecchio ‘botpeople’ dell’era craxiana), ma anche un eccezionalemeccanismo che ha consentito alle imprese (allegrandi imprese in particolare), uscite indebolitedalla crisi degli anni Settanta, di recuperaremediante la rendita finanziaria quella redditivitàpersa sul mercato dei beni. In termini storici, comeosservano gli «economisti sgomenti», la radice diquesto meccanismo può essere ritrovata nella svoltacon cui gli Stati Uniti decisero, a partire dagli anniOttanta, di incentivare la crescita riducendol’imposizione fiscale. Anche gli Stati europei, nellaconvinzione (raramente confermata dalle evidenzeempiriche) che la diminuzione delle tasse favoriscala crescita, hanno imitato la politica americana. Mail risultato è stato che, per finanziare la spesapubblica, si sono dovuti rivolgere al mercato:

Tali politiche hanno costretto i governi a prendere aprestito denaro dalle famiglie più ricche e dai mercatiper finanziare i deficit così creati. Si potrebbe a questoproposito parlare di ‘effetto jack-pot’: con i soldi ri-sparmiati sulle tasse, i ricchi hanno potuto acquistare ititoli del debito pubblico emessi per finanziare il deficitcausato dalla riduzione delle tasse. È sorprendentecome i leader politici siano riusciti a convincere che ilavoratori, i pensionati e i malati siano responsabili deldebito pubblico. […] Nel complesso, si è messa inmoto una forma di redistribuzione verso l’alto, dalleclassi più povere alle più ricche, attraverso il debito

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pubblico, la cui controparte è sempre la rendita priva-ta13.

Da questa dinamica deriva un’ulterioreconseguenza, che aiuta quantomeno a smontareun’altra «falsa certezza», ossia che la riduzione deldebito richiede un taglio della spesa pubblica: inrealtà, infatti, se il debito pubblico dipende da unlato dal livello dei deficit primari, dall’altro dipende– soprattutto in questa fase storica – dalladifferenza tra il tasso d’interesse e il tasso dicrescita dell’economia. Ed è evidente che unsensibile rallentamento della crescita – o addiritturauna vera e propria ‘recessione’, come quella chel’Italia ha vissuto negli ultimi anni, e come quellache si appresta a vivere nel 2012, non può cheridurre gli introiti fiscali, aumentando così lo scartorispetto ai costi del debito. E, dato che una brusca eradicale riduzione della spesa pubblica può (moltoprobabilmente) determinare effetti recessivi(soprattutto se attuata contemporaneamente in tutti ipaesi di una zona fortemente integrata e per moltiversi ‘chiusa’ al proprio interno), la previsione suglieffetti di una misura del genere non è certo positiva:«L’unico effetto di una massiccia e simultaneariduzione della spesa pubblica in tutti i paesieuropei sarebbe così una recessione ancora più fortee un ulteriore aumento del debito pubblico»14.

13 Ibi, p. 28.14 Ibi, p. 25.

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Naturalmente, il debito pubblico ha radiciprofonde e non è causato dall’introduzionedell’euro. Ma, senza dubbio, la creazionedell’Eurozona ha modificato, nel corso di diecianni, la situazione in cui si trovavano molti paesidel Vecchio continente. I motivi per cui la monetaunica è stata considerata dalle leadership europeecome uno strumento prezioso sono noti. Per unverso, i paesi forti – come principalmente laGermania – vedevano nell’euro un modo perridurre il peso del marco e, così, per attenuare laconcorrenza ‘sleale’ di quei paesi che potevanoricorrere alla svalutazione delle loro monetenazionali; dall’altro, paesi come l’Italia, con undebito pubblico molto elevato, vedevano nellamoneta unica la possibilità di accedere al mercatodel credito con tassi molto più bassi rispetto alpassato, e così l’occasione per riuscire a mettereordine nei conti pubblici. Se queste erano leprospettive con cui si guardava all’Eurozona, non sipuò dire che non si siano effettivamente realizzate,almeno fino al momento dell’esplosione della crisi.Ma, a un decennio di distanza, è però necessarioriconoscere che non tutti i paesi europei si sonoavvantaggiati allo stesso modo del nuovo quadroeconomico e che, anzi, l’ago della bilancia delpotere reale ha iniziato a pendere sempre di più inuna direzione. I motivi sono naturalmente molti, maprobabilmente alla base di questa situazione stannosia le diverse strategie che le leadership nazionali

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hanno adottato per rispondere alla creazione dellamoneta unica, in una condizione di crescita moltobassa (in cui si trova l’Europa dalla fine degli anniNovanta), sia soprattutto il profilo economico diciascun paese. Se le politiche adottate nei singolipaesi sono andati più o meno nella medesimadirezione, gli effetti sono stati molto diversi, esoprattutto quei paesi che, come l’Italia, sono statipenalizzati dalla rigidità monetaria e fiscale, si sonodovuti rivolgere, per riconquistare competitività, alfattore lavoro, senza che questo abbia prodottorisultati positivi. Perché questa competizione haavuto, sostanzialmente, un unico vincitore:

È stata promossa la flessibilità del lavoro e la mo-derazione salariale, ridotta la quota dei salari sul reddi-to totale e accresciuto il livello delle disuguaglianze.Questa corsa al ribasso è stata vinta dalla Germania,che è stata capace di ottenere importanti surplus com-merciali a spese dei suoi paesi vicini e, in modo parti-colare, a spese dei suoi lavoratori, imponendo un bassocosto del lavoro e delle prestazioni sociali e garanten-dosi un vantaggio commerciale sui suoi vicini, incapacidi trattare i propri lavoratori altrettanto duramente. Ilsurplus commerciale della Germania è ottenuto a disca-pito della crescita degli altri paesi. Deficit commercialie di bilancio di alcuni paesi non sono altro che la con-troparte inevitabile dei surplus di altri… gli stati mem-bri non sono stati in grado di definire una strategiacoordinata15.

15 Ibi, p. 37.

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Benché non tutte le misure proposte dai quattroeconomisti possano risultare pienamenteconvincenti, e nonostante anche alcuni aspetti delloro discorso possano apparire contestabili, èdifficile negare che il quadro generale chedescrivono non sia efficace e non colga la sostanzadi una crisi che, naturalmente, non è soltantoeuropea, ma che investe soprattutto l’Europa e leistituzioni dell’Unione. Ciò che però è piùsorprendente, a più di un anno dal momento in cui èapparso il Manifesto, è che – sebbene molte diquella certezze che erano contestate dagli«sgomenti» vengano ormai riconosciute come‘false’ da parecchi osservatori e, persino, da diversioperatori politici – le misure adottate continuano aessere le stesse. In altre parole, benché molti ormaitendano a riconoscere che l’origine della malattianon sta, per esempio, nell’elevato costo del lavoro onella crescita della spesa sociale, ma semmaiproprio negli effetti innescati dall’eccesso diflessibilità sul mercato del lavoro, le linee d’azionecontinuano a essere indirizzate sulle medesimecoordinate che hanno guidato le politiche europeenegli vent’anni. Anzi, gli «economisti sgomenti»erano addirittura facili profeti nel momento in cuiprevedevano che la crisi avrebbe offerto «alle èlitefinanziarie e ai tecnocrati europei l’opportunità dimettere in opera ‘la strategia dello shock’,radicalizzando l’agenda neoliberista»16. E, in effetti,

16 Ibi, p. 42.

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le misure adottate negli ultimi dodici mesi sonoandate proprio nella direzione che i quattroeconomisti temevano, ossia verso un inasprimentodel Patto di stabilità e crescita, come nel caso dellarichiesta di introdurre la clausola del pareggio dibilancio nelle carte costituzionali dei paesi membri,o nel caso della volontà della Commissione europeadi giungere alla riduzione del debito al 60% del Pil.Ma queste misure – segnalano gli «sgomenti» - nonhanno molte probabilità di successo, per cinquemotivi principali: a) la riduzione della spesacompromette gli investimenti in settori cruciali perla crescita europea (per esempio la ricerca el’istruzione); b) la riduzione della spesa pubblicadestinata alle famiglie determinerà una riduzionedella domanda effettiva, con un ulterioreaggravamento della crisi; c) i singoli Stati nonhanno una reale intenzione di procedere versoun’effettiva armonizzazione fiscale, indispensabileper esercitare un controllo sui flussi finanziari (oltreche sui redditi elevati); d) per effetto delle politichedi bilancio restrittive, il gettito fiscale diminuirà, ilrapporto fra il debito e il Pil aumenterà (o nondiminuirà) e, così, i mercati non saranno affatto‘rassicurati’; e) la ferrea disciplina di Maastrichtpotrebbe innescare, oltre a un indebolimento dellacoesione sociale, risposte nazionaliste nei singolipaesi, mettendo a rischio persino la medesimacostruzione europea.

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Queste previsioni vengono riprese e aggiornatein Changer d’economie! Nos propositions pour2012 (in uscita per Les Liens qui libèrent), ma èpiuttosto evidente che proprio i rischi segnalati unanno fa dagli «atterrés» sono destinati a segnare inostri prossimi mesi17. Perché, trascorsa la ‘luna dimiele’ con il governo presieduto da Mario Monti, esempre che il timore di essere soppiantati dai‘tecnici’ non spinga i politici professionisti a‘staccare la spina’, magari lasciando cadere nelfango la bandiera della ‘rivoluzione liberale’ perinalberare il vessillo (meno compromesso) del‘popolo’ strangolato dai ‘poteri forti’, i nodi nonpotranno che tornare a incastrarsi fra i denti delpettine. Per effetto della recessione, il rapporto frail debito e Pil non potrà che crescere, e non potràche aumentare ulteriormente il bisogno dello Statodi ricorrere al prestito, e così la sua esposizione agliattacchi speculativi, alle convenzioni aleatorie degliinvestitori, alle valutazioni delle agenzie di rating.Tutto questo renderà sempre più chiaro anche alfatidico uomo della strada che l’Europa non si trovadi fronte a una situazione di crisi temporanea ocongiunturale, ma dinanzi a una guerra, che,ovviamente, non va combattuta con strumentiordinari, ma con gli strumenti ‘straordinari’ chesono richiesti da un conflitto di portata globale. E

17 Si veda a questo proposito anche l’intervista ad Askenazy sui ri-schi delle politiche di austerità, in «culture&idees - le monde», 28 gen-naio 2012.

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compiendo quei sacrifici ‘straordinari’ che unaguerra impone a ogni cittadino. Ciò che forsescopriremo troppo tardi è però che in questa guerral’Europa combatte contro se stessa, e non contro unnemico esterno. E che ciò che il conflitto lascerà sultappeto sarà proprio il cadavere della nostrademocrazia. O almeno di quella forma politica cheabbiamo chiamato per qualche decennio con questoantico nome, e che ha almeno parzialmente – e inmodo imperfetto – realizzato l’ambizione di tenereinsieme libertà politica, diritti sociali e benessere eeconomico.

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VI

A cosa serve un «sampietrino»?

«Ultimo mohicano / sampietrino in mano / solo quinella via / e la barricata dove l’han portata? / nonc’è proprio più. / Ultimo mohicano / sampietrino inmano / non c’è più polizia / ora a chi lo tiro?». Ilsampietrino cui alludeva Gianfranco Manfredinell’Ultimo mohicano – contenuto nel suo classicoLp Zombie di tutto il mondo unitevi – non era ov-viamente soltanto una componente dell’arredo ur-bano. Nel gioco parodistico che reggeva l’album, ilmohicano era ovviamente il reduce del «maggiostrisciante» italiano, e il sampietrino che stringevamalinconicamente tra le mani rimandava a ormailontane battaglie urbane, in cui la pavimentazionedelle strade italiane aveva fornito armi improprie aimanifestanti impegnati in scorribande più o menoimprovvisate contro le forze dell’ordine.

Con ogni probabilità, non è a questo peculiareutilizzo che ha pensato Bollati Boringhieri, nel mo-mento in cui ha deciso di battezzare la sua nuovacollana «i sampietrini». L’intento dell’editore è

d’altronde illustrato dal trafiletto che accompagnal’uscita del volume di apertura:

I sampietrini sono i blocchetti di basalto tradizio-nalmente usati per lastricare le strade e le piazze. Comei sampietrini, le idee non stanno in cielo ma sono labase che ci permette di orientarci e camminare per ilmondo. Anni di propaganda ideologica e mediaticahanno reso malferma quella base e confuso i punti di ri-ferimento della conoscenza e dell’impegno civile. Conquesto libro Bollati Boringhieri inaugura una nuovacollana che, affidando ad autori di fama internazionalela spiegazione di concetti basilari, si propone di rico-struire le strade di un sapere efficace e di un libero con-fronto pubblico per il XXI secolo.

Naturalmente l’accostamento fra i sampietrini e leidee non può che suscitare qualche ironia, se nonaltro perché il dibattito culturale contemporaneo –ben più che assomigliare a una piazza lastricata dipreziosi sampietrini – sembra piatto e uniformecome il manto di un’autostrada asfaltata da poco.Ma l’altezza della ambizioni della collana, compo-sta di agili volumetti intesi quasi come voci di unasorta di enciclopedia del sapere per il XXI secolo (èannunciato fra l’altro, tra le prossime uscite, Futurodi Marc Augé), è confermata dal primo «sampietri-no», dedicato al tema Democrazia e firmato daGherardo Colombo1.

1 Cfr. G. COLOMBO, Democrazia, Torino, Bollati Boringhieri,2011.

Può destare forse qualche perplessità che su untema così impegnativo, su cui in Italia negli ultimidecenni si sono esercitati studiosi come NorbertoBobbio, Giovanni Sartori, Luciano Canfora, Miche-langelo Bovero o Gustavo Zagrebelsky, sia chiama-to un ex-magistrato – senza dubbio colto e raffinato– come Colombo, e qualcuno non mancherà di rin-tracciare in questa scelta una conferma della ten-denza di una parte del mondo intellettuale italiano avedere nella magistratura una sorta di ‘governo dicustodi’ e ad assegnare proprio ai giudici un ruolopolitico di garanzia dell’ordine democratico. Ma ilprofilo specifico dell’autore di Democrazia costitui-sce in realtà un motivo di interesse in più, che nonviene peraltro smentito dalla lettura del «sampietri-no», quantomeno perché la riflessioni si discostadalle più celebri discussioni intorno ai caratteri del-la liberal-democrazia, per seguire una pista interes-sante.

In effetti, Gherardo Colombo imposta il volumecome una sorta di lezione di educazione civica, incui non mancano i toni accorati e le perorazioniall’impegno e alla tolleranza, soprattutto perchéparte dalla convinzione che sia necessario spiegarela democrazia non a chi già la conosce, ma a quantine ignorano le forme, la sostanza, i principi e le di-namiche. In altre parole, scrive Colombo nell’intro-duzione, «è essenziale capire davvero cos’è, la de-mocrazia, non da parte di coloro che già la cono-scono, e ne discutono, approfondiscono, analizzano,

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pronosticano il suo futuro». Il pubblico a cui tendea rivolgersi è infatti ben diverso:

È essenziale […] parlare di democrazia con chi nel-la vita si è occupato di altro, svolge una professione, unlavoro per i quali il modo di organizzare la società nonfa parte dei ferri del mestiere e ne ha quindi notizie in-dirette, vaghe, approssimative, che gli arrivano magaridagli slogan ascoltati distrattamente nei talk show tele-visivi o dalla affrettata lettura del titolo di un giornale.È essenziale perché la democrazia è un modello orga-nizzativo della società che coinvolge indistintamente lepersone, e non è possibile che funzioni se queste nonl’hanno capito, non sanno per davvero cos’è2.

Per sbrogliare la matassa dei molteplici significatidella parola democrazia, e per chiarire quali siano idelicati equilibri che rendono effettivamentedemocratico un sistema politico, Colombo struttural’argomentazione in tre sequenze principali – laforma, la sostanza e l’esercizio della democrazia –per concludere infine con una celebrazione delruolo attivo dei singoli cittadini. In primo luogo,Colombo prende le mosse dal dibattito classicosulle forme di governo, un dibattito le cui originipiù remote possono essere ritrovate nelle Storie diErodoto e nel confronto fra Otane, Megabizio eDario sulla migliore forma di governo. Ma ladefinizione che in questo modo emerge dellademocrazia – la forma di governo in cui governanoi ‘molti’, in opposizione alla monarchia e alla

2 Ibi, p. 11.

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oligarchia – non può che fornire solo una primasuggestione, e per questo Colombo introduce iconsueti ‘correttivi’ all’idea della democrazia comegoverno dei molti: l’impossibilità ‘tecnica’ che imolti esercitino il governo (tutte le funzioni digoverno) in grandi unità politiche come sono gliStati: «è certamente impensabile che centinaia dimigliaia, o milioni di persone possano, tutteinsieme, amministrare la società o svolgere lafunzione giudiziaria», ed è allora «necessario intutti questi casi incaricare qualcuno che operi pertutti»3. Ma c’è un passaggio concettualmente piùsignificativo nel discorso di Colombo, nel qualeviene esplicitato il legame fra democrazia e libertà.A questo proposito, osserva:

la democrazia è il sistema di governo attraverso il qualei membri della società creano, applicano e verificanol’osservanza delle regole attraverso le quali tutti possa-no essere liberi tanto quanto gli altri (e cioè vi sia ugua-glianza di fronte alla legge, vi sia isonomia). La demo-crazia, quindi, è lo strumento indirizzato a realizzare lasocietà a opportunità pari, libertà concorrenti e nonconflittuali. Libertà di ciascuno in concordia con le li-bertà di chiunque altro4.

L’assegnazione alla democrazia di un obiettivo cosìambizioso fa già evidentemente trapelare glielementi del ritratto dipinto da Colombo, e forseanche intuire alcune delle riserve che potrebbero

3 Ibi, p. 23.4 Ibi, pp. 37-38.

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essere rivolte a un simile quadro. La libertà è infattiun tassello cruciale del mosaico democratico, untassello che ritorna ampiamente nel momento in cuil’ex-magistrato passa a considerare la «sostanza»della democrazia. E a questo proposito, scrive:«Massima espansione della libertà è […] lasostanza della democrazia», e «la sostanza, lalibertà di scegliere nelle situazioni pratiche econcrete dell’esistenza, si persegue attraverso ilriconoscimento della libertà di scegliere i modi perattuare tale libertà»5. Da questo derivano anche unaserie di doveri, nel senso che, in democrazia, idoveri sono finalizzati all’obiettivo della libertà. E,soprattutto, da ciò deriva la logica della separazionee dell’equilibrio dei poteri, che pongono ‘limiti’all’esercizio del potere anche da parte della‘maggioranza’.

Il problema principale che Colombo deveaffrontare emerge però a proposito dell’«esercizio»della democrazia, perché in corrispondenza diquesta sequenza che si trova a esplicitare il ruoloche – effettivamente – svolge il ‘popolo’ nellarealtà dei sistemi democratici. Per Colombo lapartecipazione non è infatti marginale, e –rivisitando il primo articolo della Costituzioneitaliana – sostiene che la democrazia è fondata sul‘lavoro’ che i cittadini svolgono quotidianamenteaffinché la democrazia si realizzi:

5 Ibi, p. 43.

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È necessario che i cittadini agiscano per compierela democrazia, perché questa possa attuarsi. In casocontrario, e cioè se tutti loro, o gran parte di loro, rima-nessero inerti, evidentemente non governerebbero, e lademocrazia si trasformerebbe necessariamente in mo-narchia o in oligarchia (perché governerebbero soltantogli attivi, che potrebbero essere ipoteticamente soltantouno o estremamente pochi). La trasformazione si verifi-cherebbe di fatto, senza necessità di cambiare nemme-no una legge6.

In sostanza, benché in ogni democrazia esistanodelle regole, le regole da sole non sono sufficienti:

nella democrazia le regole prevedono la possibilità dicontribuire all’indirizzo della vita propria e di quelladella collettività, ma se la possibilità non è usata, semanca cioè l’impegno, la democrazia svanisce. Nonsono sufficienti le regole, perché le regole consentonodi partecipare al governo: se manca l’impegno, la parte-cipazione, il governo va ad altri7.

Ma l’impegno non si limita alle varie forme dipartecipazione, perché comprende – ed è unpassaggio ovviamente importante – anche il rispettodelle regole da parte dei cittadini. Per questo,Colombo scrive che partecipare al governosignifica soprattutto rispettare le regole formali esostanziali della democrazia (per esempio nonsollecitare e non permettere favoritismi), anche neirapporti privati (per esempio evitando di ledere la

6 Ibi, p. 74.7 Ibi, p. 76.

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libertà altrui)», e «rispettare anche le regole chehanno relazione indiretta con la democrazia (sipotrebbe paradossalmente sostenere che larealizzazione della democrazia inizia dal rispettodelle strisce pedonali»8.

È seguendo proprio questo filo che l’exmagistrato individua il rischio principale di ognidemocrazia – ma in particolare della democraziaitaliana – nella cultura degli stessi cittadini, unacultura non ancora adeguata alle forme e agliobblighi che richiede una democrazia reale. Ed èper questo che, nell’accorato epilogo che concludeil volume, considera in fondo l’educazione dellepersone come il pilastro più robusto con cuisostenere l’edificio democratico, e come la bussolapiù efficace per orientarsi in un viaggio che rimanecomunque sempre accidentato e affollato di insidie:

Aiuta il cammino – scrive nella conclusione – con-siderare che oggi la pratica della democrazia è difficilee faticosa perché la cultura, il comune modo di pensareè ancora per molta parte basato sugli schemi passati,quelli del dominio, della sopraffazione, della sottomis-sione e della discriminazione. La pratica della demo-crazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffu-so a sufficienza l’apprezzamento per la parità delle op-portunità e per la diffusione della libertà. Per troppi de-mocrazia significa conquista dell’uguaglianza con chiha maggiori possibilità, ma mantenimento della disu-guaglianza con coloro che di possibilità ne hannomeno. È necessario che si modifichi questo atteggia-

8 Ibi, p. 91.

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mento mentale. E, come sempre è successo, via via chele persone prenderanno consapevolezza di quanto es-senziale sia il rispetto della dignità e dell’uguaglianza(che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro menodifficile impegnarsi e partecipare per attuare e conser-vare quotidianamente la democrazia9.

La ‘lezione’ di educazione civica di GherardoColombo non può che essere salutare, specie in unPaese che sembra avere inciso nel proprio codicegenetico un’inguaribile predisposizione all’arbitrio,al clientelismo, al nepotismo e alla prevaricazionedel forte sul debole (una prevaricazione che siritrova naturalmente anche nell’amministrazionedella giustizia). Ma certo alcuni tratti del discorso –di cui sono evidenti e dichiarate le finalitàdidattiche – non mancano di generare qualcheperplessità. In questo senso, la ripresa delsignificato classico del termine democrazia e,soprattutto, la sua contrapposizione con lamonarchia e l’oligarchia – una scelta che impostal’intera riflessione di Colombo – creano più diqualche problema. Sulla base della concezionegreca, difficilmente si potrebbero infatti definire icontemporanei sistemi occidentali come‘democratici’, mentre, osservato con l’otticaodierna, il sistema ateniese non potrebbe esserecerto definito come una democrazia. Colombo èben consapevole del problema, per esempio quandoricorda che alcuni regimi oligarchici o monarchici

9 Ibi, p. 92.

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si qualificano come democrazie, mentre altri chesono formalmente delle monarchie seguono leregole della democrazia. E proprio per questoinvoca una certa cautela:

Non bisogna lasciarsi fuorviare, insomma, dall’usodelle parole. Sia quando queste non nascondono unarealtà diversa dall’apparenza (come succede appuntoper le monarchie costituzionali), sia quando, invece,l’uso dei termini è consapevolmente diretto a proporreuna apparenza divergente dalla realtà. Così, alcuni pae-si che si presentano ufficialmente come democraziepossono avere i caratteri della monarchia o dell’oligar-chia (come accadeva per esempio per la Repubblica de-mocratica tedesca fino alla caduta del Muro di Berli-no)10.

Il problema che affiora dalle parole di Colombonon è però affatto secondario, ed è d’altronde ilnodo attorno al quale la scienza politica degli ultimisettant’anni si è arrovellata senza giungere a unasoluzione del tutto convincente. Quanti hannocercato di fissare l’analisi all’àncora di unadefinizione ‘realistica’ della democrazia si sonoscontrati con difficoltà inaggirabili, che rimandanoin fondo al carattere dei concetti politici. La parola«democrazia» – come tutti i più densi concettipolitici – deve probabilmente la sua longevità e ilsuo successo anche alla sua indeterminazione, allasua costitutiva polisemia. Se la parola haattraversato più di duemila e cinquecento anni, non

10 Ibi, p. 31.

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possiamo mai dimenticare che nel corso di questolungo viaggio il concetto ha subito trasformazioniradicali. Soprattutto, non possiamo trascurare ilfatto che la pressoché unanime riprovazione dei piùgrandi pensatori del passato è stata sostituita da unatteggiamento opposto, in virtù del quale lademocrazia è diventata un valore politicoindiscutibile, tanto che persino i più agguerriti rivalidel regime democratico ne inalberano ufficialmentele insegne. Un simile rovesciamento rende ilcompito della definizione della democrazia, sepossibile, ancora più difficile. E, inevitabilmente,non può che rappresentare un ulteriore ostacolo allacomprensione realistica dei mutamenti cheavvengono ‘dentro’ le nostre democrazie.Probabilmente, l’unica soluzione è riconoscere checiò che chiamiamo solennemente come‘democrazia’ è ‘soltanto’ una configurazionespecifica assunta dallo Stato moderno: unaconfigurazione in cui vengono approfonditi eirrobustiti i meccanismi rappresentativo-elettivi e legaranzie dello Stato di diritto, e che riflette imutamenti nel sistema internazionale e nell’assettoeconomico delle nostre società. In altre parole, unmodo per uscire dall’impasse è forse ‘demitizzare’la democrazia, o meglio demitizzare quelle teorieche hanno raffigurato i nostri sistemi politici comel’incarnazione ‘definitiva’ dell’ideale democratico,se non addirittura come il punto estremodell’evoluzione ideologica della storia umana.

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Forse, in questo modo perderemo la soddisfattacertezza di vivere nel migliore dei mondi possibili,e cesseremo di credere in una quella sorta dipostmoderna religione civile che ha fatto dellademocrazia esistente un inattaccabile ‘Dio mortale’.Ma potremo scoprire nella polisemia dellademocrazia anche la traccia di nuove speranze.Perché, in fondo, i molti significati dellademocrazia – e i molti modi di concepire lademocrazia – non sono altro che una conseguenzadella pluralità degli esseri umani e dell’unicità diciascun essere umano. Per questo, nonostante il suoabuso contemporaneo, la democrazia continueràrappresentare aspirazioni e realtà molto differenti, econtinuerà ancora a lungo ancora a lungo aincarnare le aspettative, le rivendicazioni e i sognidei ‘governati’. E così – proprio come ilsampietrino – continuerà ad essere utilizzata tantodai potenti come strumento di legittimazione,quanto dai ‘senza potere’, come arma d’attaccocontro il privilegio, l’arbitrio, la diseguaglianza.

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VII

Democrazia senza potere

Abbiamo una costituzione che non emula le leggi deivicini, in quanto noi siamo più d’esempio ad altri cheimitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti ci-vili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza,essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, perquanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta unpiano di parità, mentre per quanto riguarda la conside-razione pubblica nell’amministrazione dello stato, cia-scuno è preferito a seconda del suo emergere in un de-terminato campo, non per la provenienza da una classesociale ma più che quello che vale1.

Nel 2003, la Convenzione presieduta da Valéry Gi-scard d’Estaing scelse di utilizzare un piccolo fram-mento di questo brano della Guerra del Peloponne-so per aprire il progetto di Trattato costituzionaleper l’Unione Europea. Alcuni anni dopo, i referen-dum popolari in Francia e Olanda diedero un primocolpo alle ambizioni del Trattato costituzionale, e,nel giro di alcuni mesi, alle difficoltà politiche siaggiunsero i problemi della crisi economica globa-

1 TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, Rizzoli, Milano, 1985, I,p. 325.

le, destinati a coinvolgere progressivamente tutti iPaesi del Vecchio continente. Ciò nonostante, i la-vori della Convenzione segnarono probabilmente ilpunto più elevato del progetto di integrazione, per-ché proprio in quei mesi parve che i leader del Vec-chio continente guardassero con reale convinzionea un salto di qualità, e forse anche a una autenticademocratizzazione dell’assetto comunitario. Quelleambizioni giustificavano dunque la scelta di porrein epigrafe il piccolo frammento sulla democrazia,tratto dall’orazione funebre per i caduti ateniesi cheTucidide attribuì a Pericle. Ma, al di là della scarsafortuna del progetto elaborato dalla Convenzione,quel riferimento era inopportuno per diversi motivi.Innanzitutto, richiamarsi alla costituzione di Ateneera quantomeno inappropriato nel caso di un testocosì macchinoso come quello predisposto dallaConvenzione. In secondo luogo, quel discorso si ri-feriva a una concezione della democrazia che nonaveva sostanzialmente nulla a che vedere né conquella forma di regime che oggi definiamo come«democrazia», né, tanto meno, con l’architetturaistituzionale dell’Unione Europea. Ma, soprattutto,quell’elogio della democrazia aveva obiettivi e con-notazioni che non possono essere dimenticati, senon al prezzo di cancellare le peculiarità della for-ma politica di Atene, della sua economia, del suoruolo internazionale. Ed è invece questo l’aspetto

che, negli utilizzi più disinvolti dell’orazione di Pe-ricle, tende a smarrirsi del tutto.

In un intervento recente, apparso sull’«Alma-nacco del bibliofilo» e anticipato parzialmente su«la Repubblica», Umberto Eco ha sottolineatocome le operazioni che trasformano il discorso diPericle in una celebrazione della democrazia e dellesue più elevate ambizioni rimangano vittime di unaserie di insidie tutt’altro che secondarie. Innanzitut-to, la concezione che Pericle aveva della democra-zia era fortemente connotata in senso ‘populista’, eil suo abile uso della retorica ne era un riflesso evi-dente. Ma, al di là di questo, Eco osserva come il ri-tratto della democrazia di Atene, centrato sull’egua-glianza dei cittadini dinanzi alla legge e sulla possi-bilità di ciascuno di accedere alle cariche pubbli-che, fosse del tutto parziale:

Pericle non menziona il fatto che in quei tempi adAtene c’erano accanto a 150.000 abitanti, 100.000schiavi. E non è che fossero solo barbari catturati nelcorso di varie guerre, ma anche cittadini ateniesi. Infattiuna delle leggi di Solone stabiliva di togliere dallaschiavitù i cittadini diventati servi a causa dei debitiverso i latifondisti. Segno che erano servi anche altricittadini, caduti in schiavitù per altri motivi2.

Infine, il discorso di Pericle – che era un’orazionefunebre per dei caduti in battaglia – aveva anche un

2 U. ECO, Pericle il populista. Il suo discorso agli ateniesi comeesempio di malafede, in «la Repubblica», 14 gennaio 2012, p. 57.

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risvolto internazionale: «A che cosa mira questoelogio della democrazia ateniese, idealizzata almassimo? A legittimare l’egemonia ateniese, suglialtri suoi vicini greci e sui popoli stranieri». In ef-fetti, «Pericle dipinge in colori affascinanti il mododi vita di Atene per giustificare il diritto di Atene aimporre il proprio dominio sugli altri popolidell’Ellade»3. E, d’altronde, non si può dimenticareche, in un altro passaggio celebre della Guerra delPeloponneso, proprio gli ambasciatori di Atene – lapatria della democrazia celebrata da Pericle – im-partiscono agli abitanti di Melo la più classica e se-vera lezione di una Realpolitik che tende a confon-dersi con la legittimazione del dominio del forte suldebole:

Noi crediamo infatti che per legge di natura chi èpiù forte comandi: che questo lo faccia la divinità locrediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini,lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questalegge senza averla istituita noi per primi, ma perchél’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo validaper tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste com-portati nello stesso modo se vi foste trovati padroni del-la nostra stessa potenza4.

Gli utilizzi a cui viene piegata l’orazione di Periclenon sono in realtà così sorprendenti. Ma non devo-no suggerire l’impressione che la lezione dei classi-

3 Ibidem.4 TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, cit., II, p. 945.

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ci sia del tutto inutile per comprendere la realtà. Alcontrario, le pagine di Tucidide, di Platone, di Ari-stotele, rimangono fondamentali anche per chi vo-glia considerare i problemi della politica contempo-ranea, così come la riflessione sul potere condottadai grandi – e talvolta persino dai ‘piccoli’ – pensa-tori politici dell’età moderna. Naturalmente, benchéle questioni cruciali con cui ci si trova alle prese inogni società e in ogni periodo siano straordinaria-mente simili – come quella sul fondamentodell’obbedienza, quella sui vincoli del potere, quel-la sul rapporto fra la legge e la giustizia – è neces-sario non perdere mai di vista il quadro in cui ognispecifica riflessione viene formulata. E, soprattutto,è indispensabile non cedere alla tentazione di tra-sformare i classici in una sorta di super-market delpensiero, dai cui scaffali si può attingere disinvolta-mente, prelevando citazioni, formule, idee, masmarrendo inevitabilmente il senso del quadro com-plessivo.

Se nel passato recente Norberto Bobbio è statoforse uno dei più coerenti assertori dell’utilità chela ‘lezione dei classici’ continua ad avere anche di-nanzi ai problemi della politica contemporanea,oggi non è difficile ritrovare la medesima convin-zione anche alla base della riflessione e degli inter-venti di Nadia Urbinati. Docente di Teoria politicaalla Columbia University di New York e autrice dinumerosi volumi sulla dottrina della democrazia

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rappresentativa e sul pensiero politico americano5,Urbinati utilizza infatti i classici del pensiero politi-co anche nei suoi interventi giornalistici su «la Re-pubblica», di cui ora è raccolta un’ampia selezionein Prima e dopo. La brutta china della democraziaitaliana6. Molti di questi interventi – relativi al pe-riodo compreso fra i primi mesi del 2008 e l’autun-no del 2011 – sono dedicati al governo presiedutoda Silvio Berlusconi, in cui Urbinati intravede i se-gni della degenerazione della democrazia italiana.Se un simile motivo non è certo inusuale nel dibat-tito degli ultimi anni, ciò che invece caratterizza ildiscorso di Urbinati – e che lo distingue dalle vociche affollano il coro dei critici del governo di cen-tro-destra – è invece l’ampio ricorso ai grandi clas-sici del passato, ai maestri greci, al pilastri del libe-ralismo, ai cardini del pensiero democratico.

Nell’Introduzione Urbinati chiarisce quali sianoi riferimenti teorici principali da cui muove l’analisidella situazione critica della democrazia italiana:

Ispirandosi ai classici del pensiero democratico mo-derno, da Hans Kelsen a Norberto Bobbio a GiovanniSartori, le mie considerazioni critiche presumono una

5 Cfr., per esempio, N. URBINATI, Individualismo democratico.Emerson, Dewey e la cultura politica americana, Donzelli, Roma,2009, ID., Ai confini della democrazia. Opportunità e rischi dell’uni-versalismo democratico, Donzelli, Roma, 2007, ID., Lo scettro senza ilre, Donzelli, Roma, 2009, e ID., Democrazia rappresentativa, Donzelli,Roma, 2010.

6 N. URBINATI, Prima e dopo. La brutta china della democraziaitaliana, Donzelli, Roma, 2011.

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definizione minima: il diritto dei cittadini di parteciparedirettamente o indirettamente alle decisioni collettiveattraverso il voto e la formazione delle opinioni e deiprocessi politici, decisioni che sono prese secondo laregola della maggioranza e, quando si tratti di elezionedei rappresentanti, sono frutto di alternative reali tra lequali scegliere. I diritti di libertà, di espressione dellapropria opinione politica e di associazione sono fonda-mentali tanto quanto il diritto di voto individuale e se-greto7.

Una simile definizione non fornisce però a Urbinatisolo un riferimento teorico, ma diventa anche il me-tro con cui misurare la realtà della democrazia ita-liana. O, per meglio dire, della ‘degenerazione’ del-la democrazia, perché la valutazione che formula ladocente dalla Columbia University non è certo po-sitiva. Il problema non consiste tanto nel ‘tradimen-to’ delle grandi ambizioni che i teorici ottocenteschiaffidavano alla democrazia, quanto proprio nella si-stematica violazione delle regole procedurali delgioco democratico. «Nell’Italia del XXI secolo, sia-mo messi nella necessità di difendere l’abbiccì dellademocrazia, non da nemici esterni o da nemici in-terni che si dichiarano anti-democratici, ma da cit-tadini e associazioni politiche che competono per ilpotere e si dichiarano democratici»8. E, a essere mi-nacciati, sono soprattutto i diritti che pertengonoalla formazione dell’opinione.

7 Ibi, p. IX.8 Ibidem.

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Ovviamente, anche se l’analisi di Urbinati in-quadra in generale la situazione italiana, il suosguardo – come gli articoli pubblicati nel volume –si concentra in modo specifico sulla maggioranzauscita vincitrice dalle elezioni politiche del 2008:una maggioranza che era già stata al governo nelquinquiennio 2001-2006, ma che ritorna a conqui-stare l’esecutivo priva del sostegno delle formazio-ni centriste, e da cui, gradualmente, si distacca an-che il gruppo di Futuro e Libertà. Proprio la nuovamaggioranza – che, in virtù della sua distribuzionenelle aule parlamentari, sarebbe opportuno definiresemplicemente di ‘destra’ (più che di ‘cen-tro-destra’, come invece si usa dire nel dibattito po-litico e giornalistico per edulcorare quella connota-zione destrorsa che risulta ancora inquietante perbuona parte della stessa opinione pubblica modera-ta) – è all’origine, secondo Urbinati, di un’ulteriorederiva verso una democrazia «plebiscitaria» e «po-pulista». Una democrazia plebiscitaria principal-mente «perché improntata sulla centralità della po-litica come teatro, inscenata con una quotidiana si-stematicità fino a trasformare i cittadini in una au-dience passiva che segue, ammira, applaude e ‘tifa’– una politica della passività e della docilità deimolti, ottenuta per mezzo dell’attivismo mediaticodei pochi»9. E, in secondo luogo, una democraziapopulista per il messaggio, lo stile e gli strumenti:

9 Ibi, p. XI.

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Populista perché fondata sulla sostituzione di una‘parte’ (un partito) al tutto (il popolo sovrano), come ilrecita il nome stesso scelto per la coalizione (‘Popolodella Libertà’) e perché, senza troppo celate intenzioni,ha messo in atto quella che i liberali chiamano la ‘tiran-nia della maggioranza’. Inoltre, populista nello stile:per la protervia e la violenza verbale introdotte nelladialettica politica, televisiva e istituzionale, un fatto cheha mutato profondamente il carattere del confronto po-litico nel nostro paese, mettendo in secondo piano icontenuti e il dialogo ragionato ed esaltando l’invettivapersonale e la polemica virulenta e vuota perché piùspettacolare10.

Se la maggioranza composta da Pdl e Lega Nordsembra unificata solo dalla leadership di un magna-te della comunicazione, in realtà a rendere coerentequella forza apparentemente magmatica è anche –secondo Urbinati – una ben precisa ideologia:un’ideologia costituita dall’intolleranza contro le‘minoranze’ e da una componente anti-nazionale eanti-solidaristica; un’ideologia finalizzata a legitti-mare l’asservimento delle istituzioni pubbliche a in-teressi privati e a una logica neo-patrimoniale, incui termini come ‘privato’ e ‘pubblico’ finisconoper perdere il loro significato. In sostanza, la dia-gnosi è molto più che severa: «dal 2008», secondoUrbinati, «l’Italia è stata governata da una demo-crazia populista e plebiscitaria con una propagandaorchestrata da un centro proprietario-governativo,senza pluralismo dei mezzi di comunicazione tele-

10 Ibi, pp. XII-XIII.

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visivi privati e in parte pubblici»11. E la conseguen-za è che le basi della democrazia procedurale – os-sia della versione meno esigente di democrazia in-dividuata in sede teorica – vengono a mancare:

Procedura è norma e sostanza: l’Italia è un esempiodi democrazia violata in maniera grave. La prima e piùdeleteria violazione è quella del pluralismo delle fontidi informazione, un vulnus della sfera dell’opinionepubblica, che è così trasformata in un affare privatonon solo perché un grande proprietario tiene in manotre reti televisive nazionali e, in maniera diretta o indi-retta, alcune testate nazionali, ma anche perché la for-mazione dell'opinione è un mezzo pubblicitario al ser-vizio della maggioranza. Mentre l’opinione pubblicadovrebbe funzionare non solo da unità del corpo socia-le attorno ad alcuni valori condivisi, ma anche comeocchio che vede, controlla e critica chi svolge funzionipubbliche. In Italia, questo potere di sanzione dell’opi-nione è fortemente menomato. L’opinione è uno stru-mento usato per rendere docili i cittadini o farne, ap-punto, una massa di spettatori che segue e approva acri-ticamente coloro che si sono assunti il compito di agi-re12.

È piuttosto scontato che il lettore delle pagine diUrbinati sia destinato a valutare un’analisi così cri-tica non solo sulla base di una vicinanza teorica almodello della «democrazia procedurale» (o allaspecifica versione che adotta l’autrice del volume),ma anche – o forse soprattutto – in virtù della mag-

11 Ibi, p. XVII.12 Ibi, pp. XVII-XVIII.

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giore o minore vicinanza alle sue posizioni politi-che. E, così, è piuttosto scontato che un certo pub-blico allineato alle posizioni del quotidiano «la Re-pubblica» – su cui d’altronde Urbinati ha pubblica-to gli editoriali raccolti in Prima e dopo – tenda aritrovarsi fedelmente nella negativa valutazione del-la democrazia italiana e a concordare pienamentecon la tesi di un’involuzione in senso prebiscitario epopulista. All’opposto, i simpatizzanti del Pdl, o ilettori di quotidiani come «Libero» o «il Giornale»,non avranno difficoltà a liquidare le parole di Urbi-nati come l’ennesimo tentativo di travestire di abititeorici l’odio nei confronti di un leader giudicatocome un grande statista, uno straordinario impren-ditore, un formidabile comunicatore, e dunque a ri-gettare l’analisi di Prima o dopo come paccottigliaideologica. Ma questa duplicità di atteggiamentinon impedisce certo solo una meditata lettura e unapacata valutazione del libro di Urbinati, perché, difatto, proprio il costante riemergere di una similepregiudiziale contrapposizione rende pressoché im-possibile sottrarre qualsiasi studio della ‘SecondaRepubblica’ alle deformazioni più o meno consape-volmente determinate dalle appartenenze. Questoeffetto presumibilmente ci accompagnerà per parec-chio tempo, forse anche dopo che il fondatore di‘Forza Italia’ avrà concluso la sua avventura terre-na. Ma, se si cerca di uscire dalla trappola delloschema dicotomico che ha dominato il dibattito po-litico degli ultimi diciotto anni, diventa forse possi-

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bile considerare in modo meno impressionistico laprospettiva di Urbinati.

A ben vedere, infatti, benché il ‘clima di con-trapposizione’ abbia spesso offuscato la lucidità dimolti osservatori, è difficilmente negabile che alcu-ne ‘anomalie’ abbiano influito sulla ‘geografia’ delpotere reale in Italia. Ed è difficilmente contestabileanche che sia stato fatto un uso quantomeno disin-volto della carta stampata (come, per esempio, conil famigerato «metodo Boffo») e dell’informazionetelevisiva, pubblica e privata. Certo non si può attri-buire la ‘degenerazione’ della democrazia italiana –se questa espressione ha realmente un senso – ‘sol-tanto’ a questi fenomeni, ma l’esistenza di questaanomalia ha comunque contribuito a ‘legittimare’,in ogni campo, le violazioni di regole, prassi, diritticonsolidati. Da questo punto di vista, dunque, sipuò riconoscere che molti articoli di Urbinati affon-dano il coltello in una ferita ancora sanguinante, elo fanno inoltre con il sostegno offerto da un’indi-scutibile competenza nel campo del pensiero politi-co. Così, anche gli editoriali più ‘militanti’ di Urbi-nati – soprattutto quelli raccolti nelle sezioniL’antidemocrazia al potere e Dissenso, tolleranza epotere dei media – sono sempre anche delle piccolelezioni, sempre preziose, quantomeno per le solleci-tazioni che suggeriscono. Ma, a ben vedere, gli arti-coli ripubblicati in Prima e dopo non offrono unarappresentazione a senso unico. Perché, per esem-pio, la studiosa della Columbia non manca di svol-

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gere un’analisi piuttosto critica anche dell’evoluzio-ne politica e culturale della sinistra italiana, accusa-ta di essere «nichilista», «invertebrata», di aver ab-bandonato qualsiasi visione positiva del conflitto innome di una esasperata ricerca del compromesso, diaver definitivamente accantonato non solo le ideo-logie del passato, ma l’esigenza stessa di un’ideolo-gia, intesa come la visione di una società più giusta,capace di mobilitare e di orientare l’azione quoti-diana.

Negli editoriali di Urbinati, affiora d’altronde untema molto importante, che non riguarda solo ilcaso italiano, ma che può aiutare a inquadrarlo inun contesto più generale: senza negare che qualche‘anomalia’ esista, eppure senza considerare una si-mile dinamica come un dato in clamorosa e patentecontro-tendenza rispetto a un Occidente rappresen-tato in termini acriticamente lusinghieri. In diversiinterventi, Urbinati si sofferma infatti su ciò che de-finisce come la «deriva oligarchica» delle democra-zie occidentali: una deriva che non contraddistinguecerto solo l’Italia, ma che si inscrive in una tenden-za ben più generale, e proprio per questo ben più in-quietante. In relazione ai primi disordini in Grecia,nel dicembre 2008, evidenzia per esempio come lacrisi faccia emergere una crescente frattura fra leistituzioni e i cittadini:

Questa frattura fra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, fra lo Sta-to e la società, è l’aspetto più allarmante che la crisi

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economica sta mettendo in luce. L’erosione della politi-ca come azione libera di aggregazione delle idee e degliinteressi e di controllo del lavoro dei rappresentanti, ela sua trasformazione in una professione che dà lavoroa pochi: questa è una degenerazione molto preoccupan-te anche perché a essa non c’è purtroppo alcuna rispo-sta immediata che sia anche democratica. […] Il gover-no democratico può diventare nemico dei suoi cittadini,a dimostrazione dell’esistenza di due società, quelladentro lo Stato e quella fuori; due società che si cono-scono sempre meno e interagiscono con sempre più fre-quenza in maniera conflittuale e violenta. L’erosionedelle democrazie in oligarchie elette non rappresentauna soluzione di stabilità, soprattutto in un tempo dicrisi economica profonda. Rappresenta semmai un pe-ricolo alla stabilità13.

Più di recente, in un articolo originariamente pub-blicato il 22 novembre 2010, sempre a propositodelle sfide poste dalla crisi globale alla democrazia,Urbinati osserva come la crescente collusione dipotere economico e potere politico – una collusioneche subisce un’accelerazione, negli Usa, con la pre-sidenza di Jimmy Carter – suggerisca proprio l’ideadi una trasformazione in senso oligarchico dei no-stri sistemi politici:

all’aumento della diseguaglianza sociale fa seguito ildeclino delle opportunità politiche per la grande mag-gioranza dei cittadini di contare o avere voce. Un indi-catore di questa trasformazione oligarchica sta

13 N. URBINATI, Gli scontri in Grecia e le democrazie oligarchi-che, in «la Repubblica», 11 dicembre 2008, ora con il titolo Le demo-crazie oligarchiche, in ID., Prima e dopo, cit., pp. 77-79.

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nell’impiego di quantità sempre maggiori di denaro pri-vato sia nelle campagne elettorali sia nella politica or-dinaria sia, come sappiamo fin troppo bene, nei sistemid’informazione: per persuadere i rappresentanti a favo-rire o ostacolare proposte legislative, e per controllarel’opinione pubblica in modo tale da riuscire a orientareil comportamento elettorale dei molti verso politicheche favoriscono i pochi14.

Questa trasformazione non è – come spesso si so-stiene – il frutto di un arretramento della politica di-nanzi al mercato, bensì, la declinazione di un certomodo di intendere la politica, di cui Urbinati imputabuona parte delle responsabilità intellettuali al «li-beralismo conservatore». Un liberalismo di segnoovviamente opposto a quello cui guarda Urbinati, eil cui elemento distintivo consiste nella riduzionedello Stato e della politica a strumenti in grado diservire efficacemente – e con il supporto crucialedella coercizione – un mercato sempre più privo diregole:

Il neo-liberalismo è la politica di oggi. Ma è politi-ca. È comunque un uso del potere dello Stato per attua-re piani e progetti che hanno committenti e scopi speci-fici e razionali. E la sua dottrina è la seguente: tutti ibeni che le società producono e dai quali si può estrarreun profitto devono essere lasciati al mercato – se neces-sario anche la coercizione […]. Ciò che si chiama de-clino della sovranità degli Stati sembra dunque rasso-

14 N. URBINATI, Le nuove sfide della democrazia nell’era dellacrisi economica, in «la Repubblica», 22 novembre 2010, ora con il tito-lo Il rischio oligarchico, in ID., Prima e dopo, cit., p. 98.

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migliare più a un riassestamento del rapporto tra Statoe sfera economica in una direzione che va verso unoStato socialmente irrilevante e coercitivamente forte.Lo Stato non scompare, né la sua sovranità si erode, siridefinisce invece in funzione di un ruolo solo che è es-senzialmente quello di gestire l’uso della violenza.Come aveva ben visto Norberto Bobbio, la sfera del di-ritto penale si espanderà in proporzione diretta al re-stringimento delle politiche sociali. È lo Stato minimodel quale parlavano liberali antichi come Herbert Spen-cer o il barone von Hayek; uno Stato al servizio di unasocietà che è libera nella misura in cui è capace di auto-regolarsi con minimo dispendio di potere coercitivo,ma il cui potere coercitivo è ben funzionante e arcignoe duro se necessario15.

Prevedibilmente, il liberalismo ‘esigente’ di Urbi-nati – un liberalismo che si richiama a Bobbio eKelsen, ma di cui la studiosa nei suoi lavori accade-mici ha rinvenuto le tracce nell’«individualismo de-mocratico» proprio di una certa cultura politicaamericana16, oltre che nella teoria della rappresen-tanza democratica17 – è destinato a non piacere aicultori del liberalismo di von Hayek, la cui schierasi è quantomeno infoltita negli ultimi anni, fino adiventare un vero e proprio esercito agguerrito.Agli occhi di un simile liberalismo, la posizione diUrbinati non può infatti non apparire rischiosa, per-

15 N. URBINATI, La vittoria del neo-liberalismo, in «laRepubblica», 15 agosto 2011, ora in ID., Prima e dopo, cit., p. 108.

16 Si veda in particolare N. URBINATI, Individualismo democratico,cit.

17 Cfr. N. URBINATI, Democrazia rappresentativa, cit.

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ché, concedendo un po’ troppo alla democrazia(all’eguaglianza, e dunque al compito dello Stato dipreservarla), tende a insidiare quel mercato liberoin cui riposa la garanzia della libertà individuale e,quindi, della stessa democrazia liberale. Un esem-pio efficace di questo tipo di critiche è offerto da unrecente fascicolo della rivista della FondazioneNova Spes «Paradoxa», intitolato Quelli che… lademocrazia18, in cui vengono presi di mira alcunidei critici della situazione in cui si trova la demo-crazia italiana, tra cui, oltre a Bovero, Viroli, Za-grebelsky e altri, la stessa Urbinati19. In particolare,Daniela Coli, in un intervento non privo peraltro dielementi interessanti, accusa Urbinati di considera-re la democrazia ‘reale’ sulla base di un’immaginepuramente filosofica. Ma, oltre a questo, evidenziacome la traduzione italiana di Representative De-mocracy20 sia emendata dell’introduzione, e questoper Coli sarebbe indice della volontà di ‘depurare’il testo eliminando un riferimento alla democraziaassembleare degli anni Settanta, originariamente di-retto alla passione ‘esotica’ degli intellettuali libe-ral americani, ma un po’ troppo imbarazzante per ilpubblico italiano. Ora, un nuovo fascicolo di «Para-

18 Quelli che… la democrazia, fascicolo monografico di «Parado-xa», 2011, n. 3.

19 Sui meriti e sui limiti di questa operazione mi sono soffermatoin D. PALANO, Il rischio della critica della critica, ora in questo volu-me.

20 N. URBINATI, Representative Democracy, Chicago, ChicagoUniversity Press, 2006.

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doxa» pubblica in appendice, oltre a un dibattito frai critici e alcuni degli autori criticati, anche unoscambio polemico proprio fra Urbinati e Coli. SeUrbinati imputa alla traduzione infelice gran partedei limiti, Coli rilancia su un piano ancora diversola sua critica, perché, a suo avviso, la teoria dellademocrazia rappresentativa di Urbinati sarebbeniente di meno che una surrettizia riproposizionedella «democrazia progressiva» di Palmiro Togliat-ti, e dunque dell’ideologia bifronte che ha partoritotanto una politica riformista, quanto il terrorismo:

La revisione della democrazia rappresentativa pro-posta qui da Urbinati è la riedizione modernizzata della‘democrazia progressiva’ di Togliatti. Nel settembredel ’44 Togliatti dichiarò che il Pci abbandonava laprospettiva di ‘fare come in Russia’ e intendeva assu-mere una funzione dirigente nella costruzione della de-mocrazia italiana. È chiaro che nel settembre ’44, es-sendo in corso la guerra in Italia, i comunisti nonavrebbero potuto diventare alleati degli angloamerica-ni, se avessero dichiarato di avere come modellol’Urss, perché stava per iniziare la guerra fredda. Dopoil ’45, il Pci, pur schierato con l’Urss e il Patto di Var-savia, dichiarò sempre di accettare la democrazia elet-torale e, insieme, di ritenerla insufficiente a raggiunge-re l’obiettivo dell’uguaglianza sociale, fine ritenuto ne-cessario anche da Urbinati perché una democrazia pos-sa definirsi tale. Il Pci dichiarò sempre di considerare lademocrazia elettorale insufficiente e di volere realizza-re una democrazia, nella quale, come afferma Urbinatinello Scettro senza il re, «il potere supremo fosse nellemani dei nati liberi, i quali sono in maggioranzapoveri» e asserì che l’obiettivo era quindi «democratiz-

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zare» la democrazia rappresentativa attraverso il con-flitto sociale e politico. Il Pci ebbe una doppia politicae se la provincia di Reggio Emilia ha dato Prodi, il cat-tolico approdato alla sinistra dopo la fine dell’Urss, ilPci di Reggio Emilia ha prodotto il gruppo di terroristipiù importante delle Brigate Rosse. Due facce oppostedella teoria della «democrazia progressiva», ripresa conretorica diversa da Nadia Urbinati in RepresentativeDemocracy ed eliminata da Democrazia Rappresenta-tiva, perché negli anni ’90 l’impegno principale del Pdse del Pd è stato di rimuovere il Pci dalla sua cultura po-litica21.

Per quanto la concezione della democrazia propostada Urbinati possa non essere condivisibile da chiun-que, e per quanto la componente normativa nellasua riflessione sia molto marcata, l’argomentazionedi Coli appare quantomeno deviata da un eccesso divigore polemico. Se non altro perché, prima e dopoTogliatti, l’idea che la democrazia debba anche pro-muovere l’eguaglianza, o quanto meno impedireche la diseguaglianza cresca a dismisura, è un po’più diffusa di quanto Coli sembri ritenere, non solonel Vecchio Continente, ma persino negli Stati Uni-ti. Ma c’è un altra nota, nel discorso di Coli, chesuona piuttosto stonata, e che sembra rivelare, an-cora una volta, come le contrapposizioni della ‘Se-conda Repubblica’ abbiano inquinato persino i piùelevati dibattiti teorici. Ad un certo punto, ripren-

21 N. URBINATI – D. COLI, Botta e risposta, in «Paradoxa», 2011,n. 4, p. 137.

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dendo un motivo già sviluppato nel suo precedenteintervento, Coli scrive:

Forse se Nadia Urbinati, oltre ai suoi Machiavelli,Rousseau, Kant, Sièyes, Paine, Condorcet & C. legges-se Schumpeter, la sua bestia nera, si renderebbe contoche la democrazia è la formula politica del capitalismo,che non persegue affatto l’eguaglianza sociale, ma la li-bertà, perché il capitalismo non è mai stazionario e at-traverso la scienza cambia continuamente metodi diproduzione, forme di organizzazione, fonti di approvvi-ginamento, cerca nuovi mercati e alterna fasi di benes-sere e fasi di crisi: la disoccupazione è ciclica e non èquindi eliminabile la povertà. Però, anche nelle piùdrammatiche fasi della distruzione creatrice, perfino ilpiù modesto operaio di Detroit ha un water e una doc-cia con l’acqua calda che il re Sole si sarebbe sognato22.

Per quanto Coli rimproveri forse correttamente aUrbinati di non confrontarsi con il «realismo demo-cratico», di cui Schumpeter può essere consideratoil fondatore, è anche piuttosto evidente che l’utiliz-zo cui piega l’economista austriaco è piuttosto sin-golare e quantomeno disinvolto. È difficile dire sead autorizzare una simile deformazione sia l’ecces-so polemico o forse addirittura la «ginnasticad’obbedienza» cui la ‘Seconda Repubblica’ ha abi-tuato l’intelligentzia italiana, ma certo è difficilenon riconoscere come il ‘realismo’ di Schumpetervenga qui piegato e trasformato in una semplice di-fesa dello status quo, in una pura e semplice legitti-

22 Ibi, p. 139.

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mazione dell’esistente. A ben vedere, infatti,Schumpeter, benché celebri con strenua convinzio-ne il capitalismo, la distruzione creatrice e il ruoloche gli imprenditori svolgono nel trainare lo svilup-po capitalistico, non afferma mai – come scrive in-vece Coli – che «la democrazia è la formula politicadel capitalismo». D’altro canto, sarebbe sufficientela storia per smentirlo, perché di economie capitali-stiche sviluppate ma prive di democrazia ne sonoesistite – e ne esistono ancora oggi, come tutti san-no – parecchie, e Schumpeter, che ne era ben con-sapevole, non si sarebbe mai spinto ad affermareuna cosa simile. Per imputare a Schumpeter una po-sizione del genere, bisogna quantomeno trasformar-lo in una caricatura di Milton Friedman. Anche per-ché, a ben vedere, in Capitalism, Socialism and De-mocracy, il testo in cui svolge la riflessione sullademocrazia competitiva, Schumpeter afferma sicu-ramente che la concezione «classica» della demo-crazia è del tutto irrealistica, e che è invece neces-sario considerare la democrazia solo come un «me-todo» per assegnare il potere a leadership fra loro incompetizione, ma sostiene anche altro: in primoluogo, che il capitalismo è destinato (molto proba-bilmente) a tramontare e a lasciare il posto al «so-cialismo», ossia – secondo la sua concezione – aun’economia sempre più pianificata; che ciò non si-gnifica che i paesi occidentali siano condannati adabbandonare la democrazia e a diventare autoritari;infine, che la democrazia è un solo un «metodo», il

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quale può essere compatibile con i più diversiobiettivi, dalla garanzia della proprietà privata allosterminio di una minoranza religiosa, dalla tuteladella libertà personale al raggiungimento di unamaggiore eguaglianza sociale. Naturalmente – sipotrebbe obiettare – le previsioni ‘disfattiste’ diSchumpeter non si sono realizzate, e il capitalismoappare ancora in discreta salute, a dispetto dei costiumani, sociali e politici della crisi globale. Ma ciònon è un buon motivo per utilizzare Schumpetercome se fosse un alter ego di Friedrich von Hayek,o per ‘emendare’ il suo contributo delle componentiche appaiono meno glamour in un mondo intellet-tuale dalla creatività rinsecchita e dal conformismoelevato a unica regola di condotta. Perché, altrimen-ti, varrebbe la pena di trasformare la maieutica so-cratica nell’anticipazione dei quiz di Mike Bongior-no, o Machiavelli nel precursore del «catenaccio».

Forse, se si vuole davvero guardare in profondi-tà la ‘realtà’ della democrazia e delle sue trasforma-zioni, è necessario riconoscere che la democrazia –quella di ieri, come quella di oggi – ha sempre,quantomeno, due volti. Ha il volto affabile ed enfa-tico del Pericle dell’orazione funebre, ma anche ilvolto assai meno rassicurante degli ambasciatori diAtene. Perché ogni democrazia è anche una formadi organizzazione del potere, che non può aggirare– ma semmai solo ‘addomesticare’, entro limiti bendefiniti – le ‘regolarità’ della politica. Solo osser-vandola con un’ottica effettivamente ‘realistica’,

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possiamo riconoscere che ogni democrazia si basasu un equilibrio di forze, del tutto provvisorio,come ogni artificio umano. E che questo equilibriodi forze, nelle democrazie che abbiamo di fronte,non può che riflettere anche – se non soprattutto –le trasformazioni del capitalismo. Anche per que-sto, Vittorio Parsi, chiudendo il dibattito di «Para-doxa», attira l’attenzione su due fenomeni cruciali:«uno squilibrio di forze gigantesco tra democrazia emercato, con il conseguente, radicale svuotamentodei diritti politici che, a mio avviso, è assai più gra-ve e radicale dello svuotamento dei diritti sociali, dicui per lo più si parla; la tendenza ad estendereenormemente l’ambito in cui pretendiamo di legife-rare, nonostante la consapevolezza sempre più acu-ta dei limiti procedurali»23. Proprio questi nodi cipongono di fronte a una dinamica che forse non èproprio una ‘crisi’ della democrazia – perché fraqualche decennio potremmo addirittura chiamare«democrazia» una forma di regime simile a quelleimmaginate da Philip Dick, o a considerare pilastridella vita democratica organizzazioni come laSpectre dei film di James Bond – ma che comunquecambiano i rapporti di potere, rendendo del tuttoinadeguato il sistema di pesi e contrappesi elaboratodal costituzionalismo.

Per capire tutti questi mutamenti, bisognerebbericominciare a studiare seriamente il capitalismo,magari riprendendo Marx, Weber, Schumpeter, e

23 Cfr. «Paradoxa», 2011, n. 4, p. 133.

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lasciando perdere le storielle di Hayek e Friedman,che ormai – e l’hanno capito quasi tutti – sembranodavvero troppo simili alle favole che i nonniraccontano (o raccontavano) la sera ai nipotini perfarli addormentare sereni e per metterli in guardiacontro i rischi che corrono i monelli. Ma, forse,dovremmo anche prendere atto che, per capire letrasformazioni che stiamo vivendo, il liberalismo –tanto il liberalismo ‘progressivo’, cui sembraguardare Urbinati, quanto il liberalismo‘conservatore’, cui tende a rivolgersi invece«Paradoxa» – serve davvero a poco.

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Nota ai testi

I testi raccolti in questo volume sono apparsi sul blog«maelstrom» (www.damianopalano.com) con i seguenti titoli:La crisi della «democrazia organizzata». A proposito di «Lademocrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzioneimperfetta», un libro di Alfio Mastropaolo (10 ottobre 2011);L’ombra di Cesare. La crisi della democrazia italiananell’analisi di Luigi Ferrajoli (12 settembre 2011); Il rischio diuna critica della critica. «Quelli… che la democrazia» in unfascicolo di «Paradoxa» (3 ottobre 2011); Verso il default.Il fallimento dei Piigs non sarà una catastrofe: «IlContagio» di Loretta Napoleoni (26 ottobre 2011); Ilmercato contro la democrazia. A proposito di André Orlèan edel «Manifesto degli economisti sgomenti» (23 febbraio 2012);A cosa serve un ‘sampietrino’? «Democrazia» di GherardoColombo (30 ottobre 2011); Democrazia senza potere. Aproposito di «Prima e dopo» di Nadia Urbinati (e della crisidel liberalismo) (5 febbraio 2012).