le stelle, le lucciole e i fuochi a sant’antonio (1999)

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Giovanni Mascia Le stelle, le lucciole e i fuochi a Sant’Antonio Da Calvino a Cirese: la poesia della notte, tra inquinamento luminoso e riti popolari rivisitati Sandro Nazzario Un fuoco in Viale San Francesco (Toro, 13 giugno 2008) È del grande scrittore il fiuto per piccoli e meno piccoli problemi in gestazione e perciò non ancora avvertiti dal volgo: il carisma del vaticinio sempre esibito e, purtroppo, spesso misconosciuto, cui si accompagna la capacità di fissare i termini del discorso una volta per tutte. Si fa insistente la denuncia da parte di astronomi e astrofisici italiani di quel fenomeno dilagante che essi definiscono “inquinamento luminoso”. A causa del quale le indagini telescopiche dei corpi celesti riescono sempre più difficili. Gli scienziati denunciano, ma già lItalo Calvino del Marcovaldo di trentacinque anni fa aveva sparato a zero (pur con la finezza e lumorismo che lo contraddistinguono) contro la tracotanza del neon e degli impianti di luce fosforescente, che allora velavano solo le stelle delle città grosse e ora arrivano a offuscare anche le stelle dei piccoli paesi. Per non dire del riverbero che si stende senza pietà a lambire i cieli della campagna più remota. Gli astrofisici hanno il loro bel penare. Fanno bene a denunciare l inconveniente. Però, anche gli uomini di tutti i giorni, come il povero

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Giovanni Mascia

Le stelle, le lucciole e i fuochi a Sant’Antonio

Da Calvino a Cirese: la poesia della notte,

tra inquinamento luminoso e riti popolari rivisitati

Sandro Nazzario Un fuoco in Viale San Francesco

(Toro, 13 giugno 2008)

È del grande scrittore il fiuto per piccoli e meno piccoli problemi in

gestazione e perciò non ancora avvertiti dal volgo: il carisma del vaticinio

sempre esibito e, purtroppo, spesso misconosciuto, cui si accompagna la

capacità di fissare i termini del discorso una volta per tutte. Si fa insistente

la denuncia da parte di astronomi e astrofisici italiani di quel fenomeno

dilagante che essi definiscono “inquinamento luminoso”. A causa del quale

le indagini telescopiche dei corpi celesti riescono sempre più difficili. Gli

scienziati denunciano, ma già l’Italo Calvino del Marcovaldo di

trentacinque anni fa aveva sparato a zero (pur con la finezza e l’umorismo

che lo contraddistinguono) contro la tracotanza del neon e degli impianti di

luce fosforescente, che allora velavano solo le stelle delle città grosse e ora

arrivano a offuscare anche le stelle dei piccoli paesi. Per non dire del

riverbero che si stende senza pietà a lambire i cieli della campagna più

remota. Gli astrofisici hanno il loro bel penare. Fanno bene a denunciare

l’inconveniente. Però, anche gli uomini di tutti i giorni, come il povero

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Marcovaldo di Calvino, devono lamentare la possibilità sempre più limitata

di uscire fuori a riveder le stelle.

Il racconto del grande scrittore ligure, Luna e Gnac, è tenuto sul filo

di un umorismo struggente. Vale la pena di rileggerlo. Per quanto i molisani

hanno a disposizione echi di canti antichi per evocare la magia di un cielo

stellato. Hanno i versi di Cirese per ricreare almeno sulla carta l’incanto

della volta trapunta di luci tremule, ora che di quell’incanto spezzato dal

neon (come, nell’orto del poeta, il mandorlo tutto in fiore, poi ucciso dal

gelo) restano solo tre stelle incerte in cima in cima.

Almeno sulla carta, i bimbi molisani possono tornare a numerare le

stelle che i loro padri e i padri dei padri riconoscevano a una a una con il

naso all’insù:

Ecche a la luna, ecche a la Stella,

ecche a Maria la picculella;

ecche ru Lupe ncatenate...

È il Lupo della costellazione, che i bambini di Fossalto minacciavano di

botte in testa e poi graziavano per non commettere peccato. Così la stella

con la lettera maiuscola, la stella per antonomasia, è la Stella Polare. E

ancora, secondo la rivisitazione di Cirese alla canzoncina infantile:

Le Gallenelle stanne ammasciunate,

e la Speranze

lùceca appena pe la luntananze.

Una, du, tre e quattre,

Patre, Figlie e Spirete Sante.

Chella è la Croce

che ze l’abbraccia a tutte quante.

Anche le fanciulle, almeno sulla carta, possono tornare a numerare le tredici

stelle che le loro madri e le madri delle madri contavano a giugno per tutte e

tredici le sere della “Tredicina” di Sant’Antonio, con la speranza poi di

conoscere in sogno il nome e il volto dello sposo riservato loro dal destino.

Soprattutto, i molisani possono tornare a lasciarsi rapire dalla suggestione

delle prime due strofe della Serenatella del poeta di Fossalto:

È notte e iè serene

dentr’a ru core e ‘n ciele.

Le stelle

fermate

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vicine,

a cocchia a cocchia

o sole,

com’a pecurelle

stanne pascenne

l’aria de notte

miez’a ru campe

senza rocchie e senza fine.

Sponta la luna

e pare lu pastore

che guarda e conta

la mandra sparpagliata,

e z’assecura

che nisciuna

ze spierde

miez’a ru verde.

Canta nu rasciagnuole

la litania d’amore

dentr’a na fratta.

Almeno sulla carta l’incanto è ricreato. Basterebbe un improvviso black–

out, magari solo di una manciata di secondi e accolto non con la solita

bestemmia ma come un dono inaspettato, per riaffidarlo alla finestra, da

dove godere lo spettacolo impareggiabile della notte stellata.

Eugenio Cirese

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***

Insieme alle stelle, i lampioni fosforescenti hanno inghiottito anche le

misteriosi annunciatrici e vestali del mese di giugno, le lucciole. Le

lucecabelle di Eugenio Cirese, che le dice stelle della terra:

Lùceca, lùceca, lucecabella... –

tutte la terre relucecheiave

e me sembrave pur’essa nu ciele...

Tutte ru ciele

ze ne calave dentre a ru ciardine.

Non ci sono più lucciole, secondo la gente. Forse, meno drammaticamente,

è vero solo che non se ne vedono più. Di sicuro non danno più loro la caccia

i bambini. Non si sentono più risuonare le canzoncine ammaliatrici, come

questa di Fossalto:

Lucecabella viene qua

ca te voglio maretà;

te voglio dà nu belle marite,

rusce, bianche e culurite.

O come questa di Montagano, truculenta e gentile allo stesso tempo:

Lùcina e cappella,

zzoppa lu nase ‘n terra,

anna che me

ca te facce na bella gunnella

chiena de nocche e zacarelle.

O come quest’altra, pure di Montagano, che esibisce la grazia tipica del

nonsense:

Lùcine calla calla,

mitte la sella a lu cavalle;

e nen ce la mitte no,

àcule, spìngole e pimmadò,

(aghi, spille e pomodori).

Le lucciole non vengono più esibite come trofei di luce. I bambini non ne

fanno più strisce fosforescenti (il cinema) sulle pietre o sulle fronti di

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persone compiacenti, come nel ricordo–rimpianto dell’anziano Cirese che

sogna ancora di

Pigliarla a vule na lucecabella,

stritarla com’allora ‘n front’a te.

Aresentì la voce che chiamava:

– Ugè, Ugè.

“Risentire la voce che chiamava: / – Eugè, Eugè”. La lucciola e la madre, E

niente chiù. Un sogno lontano, non più sognato. Né i bambini nascondono

lucciole in attesa dell’evento magico notturno, cui fa riferimento Nicola

Iacobacci:

Che posso dirti se credi al miracolo

di lucciole mutate in perle

sotto il mortaio capovolto, all’aurora...

Si fanno sempre più rari i depositari di questa fede. L’inquinamento

luminoso rende più pungente e ormai disperato il rimpianto di Cirese:

Putesse aresentì da ‘n copp’all’ara

de chella ninnanonna lu resuone:

– Duorme bellezza mé’, duorme serene

nu suonne luonghe quant’a la nuttate. –

Pe cùnnula n’acchione,

attuorne attuorne

festa de grille e de lucecabelle

e come a na cuperta trapuntata

nu ciele tutte stelle.

Nella lucecabella (che dà il titolo alla sua ultima raccolta di versi)

Eugenio Cirese vede molto di più della perla sperata dai bambini. Dopo

averle cantato le lodi:

Lucecabella,

nasciuta da na lacrema de mèle,

na stella te facette da cummara,

e te mettette n’angele ru nome,

il poeta le confessa:

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Tu me fai crede che le munne è buone,

i’ pe té sacce come ze sta ‘n ciele.

La lucciola è elevata a realtà metafisica, la sola cui spetta di fare da

tramite tra terra e cielo, non in senso astronomico. Cirese nel Repuote, nel

compianto per la perdita della madre, la chiama a testimoniare del tempo in

cui “tutte la terre relucecheiave/ e me sembrave pur’esse nu ciele”. Ora,

invece, sospira: “Mamme, te ne scié iuta tu/ e nen lùceca niente chiù”. E

non può che affidarla alla lucciola, la lacrima per il fratello morto:

Quacche lucecabella, Nicolì,

chi sa, pò èsse ca tè luce e vule

capace a rrarrivarte addò scié iute.

Può quande vè l’estate

te porte nu salute

da dentr’all’uorte mieze a lu stellate.

Così, fa capolino la lucciola nel “tempo d’addio” di Nicola Iacobacci

e la madre morente.

Dal vetro brunito della finestra

lampeggia la prima lucciola;

tante lucciole tra i fili della memoria

impigliati a tarda sera

nei cespugli fioriti della costa.

Con il poeta che, subito dopo, è colto da un momento di pessimismo

razionalistico, e la lucciola diventa “il segno dell’età/ felice perché passata”.

Laddove, forse e più semplicemente, in essa va cercato il segno dell’età

felice, proprio perché felice.

***

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Paolo Cardone, Fuoco a Sant’Antonio a Toro (Anni ’90)

Stelle o non stelle, lucciole o non lucciole, torna giugno. Tornano i fuochi a

sera sulle alture del Molise: i fuochi a Sant’Antonio. Ma più radi che in

passato. Sempre più radi.

In troppi luoghi non si è saputo resistere alle nuove sirene che, in

nome di un malinteso senso del progresso, hanno relegato nell’ombra del

dimenticato cerimonie e riti genuini, espressioni di cultura e storia

plurisecolari, spacciandoli per ciarpame di cui bisogna liberarsi per essere al

passo con i tempi. Neppure le Pro–Loco, impegnate spesso a ideare fasulle

sagre paesane, sono riuscite a mantenerli o a richiamarli in vita.

In qualche sparuta realtà, a Oratino per esempio, ci si è mossi in

direzione diversa. L’Amministrazione comunale e la Pro–Loco hanno inteso

valorizzare il rituale antico della Faglia (enorme torcione di canne, alto una

dozzina di metri per oltre uno di diametro, issato e posto a bruciare in piazza

la notte di Natale) dapprima con il convegno dell’8 agosto 1987, che ha

visto la partecipazione di studiosi italiani ed esteri, e quindi con la

pubblicazione dell’aprile dell’anno dopo di alcuni contributi al citato

convegno, tra i quali quello veramente notevole della prof. Viviana Paques,

docente di Etnologia alla Sorbona di Parigi. L’iniziativa oratinese inquadra

il rituale della Faglia e altri simili in tempi remotissimi quando l’uomo si

poneva di fronte alla natura, intesa in senso animistico, in posizione di

rispetto e di paura, con il solo bagaglio di pratiche e riti magici cui attribuiva

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capacità d’incidere su forze e fenomeni arcani. Lungo il corso dei secoli,

questi rituali sono venuti a svuotarsi delle motivazioni originarie per

assumerne altre (per lo più di carattere cattolico–devozionale) o per

conservarne la forma esteriore e pochi relitti fonico–verbali (come il

“Maruasce e maichentò” di Santa Croce di Magliano) cui non si è più in

grado d’assegnare alcun significato. Di qui alle popolazioni il compito di

non disperdere i riti e agli studiosi quello di decifrarli.

A Toro, si verifica un fenomeno interessante. Anziché lasciar morire

la tradizione dei fuochi a Sant’Antonio, da qualche anno la si sta portando a

nuovi splendori. E questo per moto spontaneo dell’uomo della strada, senza

mediazioni di alcun genere. Non con la valorizzazione “scientifica”, tipo

Oratino, ma con la più o meno inconscia rimozione del motivo devozionale,

ormai fuori moda, che lascia il posto a spinte di natura edonistica. Senza

formulare giudizi etici, va rilevato e preso atto che la cosa funziona. Grazie

a una spinta giovane e vitale e, soprattutto, genuinamente popolare, si assiste

così al pieno recupero di un’usanza, che si poteva credere in estinzione.

Sandro Nazzario, Bambini toresi davanti all’altarino di Sant’Antonio (2008)

Accendere fuochi a Toro in onore di Sant’Antonio di Padova (in altri

centri il Sant’Antonio dei fuochi è l’Abate, che si festeggia a gennaio) è

usanza antica. E fuochi non solo il 13 giugno, la sera della festa del Santo,

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ma anche nelle precedenti sere del mese, per tutta la “tredicina”. Tocca a

frotte di ragazzi maschi incaricarsi della questua di sterpaglie tra le famiglie

del vicinato e scorrazzare per le ripe di tufo a far razzie di ceppi di ginestre

(retaggio di un’ancestrale iniziazione alla guerra, o almeno alla rapina?). A

sera, arderanno una dozzina di falò, distribuiti per l’intero abitato.

Paolo Cardone, Fuoco a Sant’Antonio a Toro (Anni ’90)

Soprattutto le donne, giovani, meno giovani e anziane, ne

approfittano per stare un po’ insieme. Sedute attorno al fuoco (è giugno ma

le sere sulle nostre colline sono ancora fresche), non biascicano più i rosari

d’un tempo. Cicalecciano. Solo quando si scade in pettegolezzi, qualche

anziana bigotta sente il dovere di richiamare le altre alla pretesa sacralità del

momento. Ottiene il risultato opposto e il pettegolezzo dilaga. Al giorno

d’oggi neppure i bambini cantano più le canzoncine a “sant’Antonio

piccolino con la veste turchinella” un tempo ripetute fino all’ossessione:

Sant’Antonio, giglio giocondo,

è nominato per tutto il mondo,

chi lo tiene per avvocato

da Sant’Antonio sarà aiutato.

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Paolo Cardone, Fuoco a Sant’Antonio a Toro (Anni ’90)

I fuochi della sera della festa, poi, hanno pretesa di grandiosità.

Reverberi di fiamma, fumo e crepitio di ginestre ovunque. C’è grande

animazione. Al di sopra del cumulo di sterpi, sospesa con filo di ferro, viene

issata la “bamboletta”. Non è che un fantoccio confezionato dalle ragazze

con stracci, paglia e carta colorata, forse semplice emblema della

“Tredicina”, che brucia sotto l’incalzare della grande estate, ma la cui

valenza iconografica, saltando l’interpolazione cristiana, potrebbe rimandare

in qualche modo all’Axura, la festa che nel Moghreb celebra la canicola e il

matrimonio della Terra (la bambola) e il Cielo (il fuoco), dal quale nacque il

sole. Seducente, secondo Viviana Paques, sarebbe il parallelo tra la

“bamboletta” e la “teslit” (la sposa) del rito moghrebino. Però, avverte la

studiosa parigina, “non dovremmo contentarci di rilevare le somiglianze

aneddotiche, dato che, troppo spesso, rituali che paiono presso a poco

analoghi, ricoprono sostanze e simboli ben diversi”. Comunque sia, le

fiamme, che dapprima lambiranno la veste della bamboletta e poi

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l’abbrancheranno tra “oh” di meraviglia ingenua dei presenti, suggelleranno

la fine della tredicina dei fuochi a sant’Antonio. Nel più o meno rapido

divampare qualcuno leggerà presagi. Chissà...

Paolo Cardone, Pane di Sant’Antonio a Toro (Anni ’90)

Certo l’aggancio religioso è sempre più labile. Lo si direbbe sparito con le

stelle e le lucciole, inghiottito anch’esso dalla luce fosforescente dei

lampioni. Relegato per sempre tra le spire dei ricordi e dei versi di

Iacobacci:

Un cestino di pane benedetto

sul capo d’ogni ragazza

e un giglio nella mano: un pane e un giglio.

Cento fuochi sulla soglia di giugno

biondo come il fanciullo

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della statua di Sant’Antonio;

così gli anni cambiano

soltanto negli occhi dei bimbi che nascono

o nei nodi della mazza piegata sul fuoco

in cerchio, quando la speranza è certezza di spighe.

Gli anni cambiano, invece. E non solo negli occhi dei bimbi. Ormai pochi

cestini di pane ondeggiano solo su teste bianche di vecchie devote. La

novità non ha punti di contatto con il giglio e con i pani del Santo e della

carità. Ha preso piede l’uso di banchettare, dopo la grande fiammata

dell’ultima sera. Emulazione, rivalità. Si vuole fare di più e meglio degli

altri. Il menù, a base di cavatelli e salsiccia, ovviamente alla brace, prevede

variazioni sul tema. Ognuno al posto suo, davanti al fuoco del vicinato di

appartenenza, a mangiare, bere, fare festa. Solo a gruppi di giovanotti è

permesso di fare la spola tra fuoco e fuoco per mettersi in mostra agli occhi

delle ragazze, assaggiare le pietanze e stuzzicare le cuoche, denigrandone i

piatti e vantando quelli preparati dalle cuoche del fuoco rivale.

Articolo pubblicato in «Utriculus», n. 27, luglio/settembre 1999