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STATO, ESERCITO E CONTROLLO DEL TERRITORIO Studi a cura di Livio Antonielli 11

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STATO, ESERCITO E CONTROLLO DEL TERRITORIOStudi a cura di Livio Antonielli

11

La polizia del lavoro:il definirsi di un ambito

di controllo

[Seminario di Studi, Messina, 30 novembre-1 dicembre 2007]

a cura diLivio Antonielli

Rubbettino

Il volume è pubblicato nel quadro del progetto PRIN 2007“Controllare il territorio: uomini e istituzioni in Italia tra antico regime e Unità”

(unità di ricerca coordinata da Livio Antonielli)

© 2011 - Rubbettino Editore88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - Tel. (0968) 6664201

www.rubbettino.it

Livio Antonielli

Introduzione

Si presentano qui gli atti dell’omonimo incontro di studi svoltosi aMessina il 30 novembre e 1 dicembre 2007.

Sono ormai trascorsi molti anni da quando, nel 1998, ho lasciatol’Università di Messina, dopo quattro anni di intensa attività. Nel feb-braio di quello stesso anno, pochi mesi prima del mio trasferimento, sisvolgeva, in quella sede, il seminario di studi «La polizia in Italia nell’etàmoderna», primo incontro su tematiche poliziesche che mi arrischiavo aorganizzare, costruito con una formula del tutto particolare, giocata sul-l’ampio spazio lasciato alla libera discussione tra studiosi della materia,appositamente invitati.

Tutto mi immaginavo tranne che a questo primo appuntamento nedovessero seguire tanti altri e che ancora se ne stiano progettando. Il te-ma di partenza di questo primo incontro di studi, centrato sulla polizia, èandato via via declinandosi nella forma del controllo del territorio, vale adire dell’indagine a tutto campo sui modi e sulle forme attraverso i qualigli aggregati umani, comunque strutturati istituzionalmente, cercano digarantire e garantirsi la sicurezza nell’area in cui vivono e svolgono leproprie attività. Apertura di campo che anno dopo anno si è accompa-gnata a una parallela apertura cronologica, dal medioevo all’età contem-poranea. Nonostante un’impresa del genere portasse con sé non pochirischi, gli esiti sono stati assolutamente positivi: da quel primo appunta-mento del 1998, tutti gli anni la consuetudine di questi incontri è prose-guita e non si avvertono ancora segnali di stanchezza o di esaurimentodel filone. La sede, tranne in due occasioni nelle quali questi seminari so-no stati ospitati nel castello Visconti di San Vito di Somma Lombardo,ha continuato a essere Messina, segnale anch’esso di un legame, conl’allora Dipartimento di storia e comparazione degli ordinamenti giuridi-ci e politici (oggi Dipartimento di studi europei e mediterranei), che nonsi è mai interrotto.

L’incontro del 2007 sulla polizia del lavoro era il primo di una serievolta a indagare gli aspetti del controllo in uno specifico contesto. Nel

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2008 sarebbe seguito il tema della polizia sanitaria, nel 2009 quello dellapolizia militare. L’idea che mi stimolava era, lo ammetto, ancorata allamia formazione di studioso, in primo luogo, dell’antico regime. Ciò chemi interessava non era vedere come la polizia, intesa come attività dotatadi una propria specificità istituzionale, si specializzasse per operare inspecifici contesti e ambienti. Ciò che mi attirava era verificare come que-sti diversi ambiti fossero in grado di generare e produrre strumenti dicontrollo, spesso germinati da consuetudini e istituti antichi. Non a casoil sottotitolo che faceva seguito a «La polizia del lavoro» era «il definirsidi un ambito di controllo».

In particolare il tema della polizia del lavoro, nella scheda che ac-compagnava gli inviti all’incontro, era stato preparato in questi termini.Si metteva in evidenza come, unendo i termini della polizia e del lavoro,gli studi si fossero in prevalenza «concentrati a partire dalla società indu-striale e nella prospettiva dell’intervento statale, con finalità regolativo-repressive, contro le nascenti forme organizzate di difesa dei lavoratori econtro le rivolte, più o meno politicizzate, del mondo del lavoro». Per-tanto si chiedeva ai partecipanti di «portare in primo luogo l’attenzionealle forme di controllo che in antico regime lo stesso mondo delle corpo-razioni teneva costantemente attive», in base alla considerazione che«spesso gli studi sulle corporazioni di mestiere (quanto meno sulle piùimportanti e organizzate) hanno messo in luce l’esistenza di apparati dipara-polizia attivi al loro interno, impegnati nel controllo dei lavoranti edelle complesse procedure che regolavano l’attività di questi corpi».

In seconda battuta la proposta era di indagare «quelle figure di magi-strati o di esecutori attivi nel territorio con finalità di controllo esteso amolti ambiti della vita sociale: figure, queste, che naturalmente spingeva-no la loro indagine alle multiformi discipline del lavoro, che come si saera rigidamente e capillarmente regolamentato. Valga come esempio, ri-facendosi all’esperienza inglese, la figura del giudice di pace, che nelventaglio delle sue ampie attribuzioni aveva come centrali proprio quellerelative al mondo del lavoro».

Quanto alla stagione industriale, si chiedeva espressamente ai parteci-panti di approcciare il tema in modo tale che «lo studio della polizia dellavoro sfugg[isse] alla prospettiva ormai consolidata della repressioneportata dallo stato liberal-borghese, attraverso le sue forze di polizia, con-tro il mondo del lavoro e le sue forme organizzative», suggerendo invecedi indagare «in che misura la polizia nei confronti del lavoro e dei lavora-tori sia stata anche altro, come ad esempio si va rilevando per il secondoottocento italiano, relativamente al quale primi sondaggi hanno messo inluce l’attivo ruolo di mediazione svolto dalla polizia, in difficoltà nell’ap-plicare nella loro rigidità disposizioni di legge che faticavano a recepire leesigenze di un mondo del lavoro in rapidissima trasformazione».

Questo taglio mi pare abbia prodotto esiti del tutto positivi. Come illettore potrà verificare, gli studi qui presentati si caratterizzano quasisempre per forte personalità interpretativa e per originalità, alla ricerca diconnessioni tra polizia e lavoro secondo angolazioni diverse e mai sconta-te. Anche la discussione, della quale si pubblica nella parte finale dei vo-lume la trascrizione, sviluppa in quantità idee interpretative e spunti di ri-cerca utili per indirizzare nuovi studi sull’argomento. Emergono prepo-tentemente come protagoniste le corporazioni di mestiere (o la mentalitàcorporativa, laddove si tratta di mestieri non corporati), non tanto, e nonsolo, per il disciplinamento delle maestranze e della produzione, ma so-prattutto come strutture nel cui ambito e verso le quali si articolano mol-teplici e specifiche forme di controllo. Ma il lavoro esercitato diviene an-che strumento per la qualificazione sociale delle persone, dunque per unaselezione individuale da proiettare sulle metodiche del controllo e dellapericolosità. Oppure ancora, collocandosi in età industriale, viene colta lalentezza con cui il mondo del lavoro comincia a essere individuato e per-cepito come pericolo per la stabilità sociale, e dunque l’incertezza con laquale vengono mossi i primi passi verso l’adozione di politiched’intervento repressive. Bastino queste piccole note per accennare a qual-cuno dei molti stimoli offerti dai saggi e dalla discussione.

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Paolo Grillo

Alcune note su associazioni di mestiere e compiti di «polizia» nei Comuni dell’Italia settentrionale

(secoli XIII-inizi XIV)

La scarsa attenzione al problema del mantenimento dell’ordine pub-blico nei comuni italiani contrasta con il fiorire di ricerche dedicate ai se-coli dell’età moderna1. Si tratta di una questione di rilievo, poiché taledisattenzione contrasta singolarmente con la larga diffusione che negliultimi anni ha avuto lo studio delle pratiche di giustizia nelle città2, quasiche possa essere possibile studiare l’agire dei tribunali urbani prescin-dendo dalla valutazione delle effettive capacità coercitive a disposizione

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1 Fra le poche eccezioni: G. Caminiti, Problemi di difesa e di sicurezza interna a Ber-gamo alla fine del Duecento, in «Nuova rivista storica», 76 (1992), pp. 149-178. Per latarda età comunale, si vedano inoltre H. Manikowska, «Accorr’uomo». Il «popolo» nel-l’amministrazione della giustizia a Firenze durante il XIV secolo, in «Ricerche storiche»,XVIII (1988), pp. 533-555, e A. Zorzi, Ordine pubblico e amministrazione della giustizianelle formazioni politiche toscane tra Tre e Quattrocento, in Italia 1350-1450: tra crisi, tra-sformazione, sviluppo, Centro italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia 1993, pp. 419-474. Una breve messa a punto problematica di ambito francese, non priva però di con-sonanze con la situazione italiana, è fornita da C. Gauvard, La police avant la police, lapaix publique au Moyen Age, in M. Auboin, A. Teyssier, J. Tulard (a cura di), Histoire etdictionnaire de la police. Du Moyen Age à nos jours, Robert Laffont, Lonrai 2005, pp. 3-146, alle pp. 36-45. Per l’età moderna basti il rinvio a L. Antonielli, C. Donati (a curadi), Corpi armati e ordine pubblico in Italia (XVI-XIX sec.), Rubbettino, Soveria Mannelli2001, e L. Antonielli (a cura di), La polizia in Italia e in Europa: punto sugli studi e pro-spettive di ricerca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.

2 Per limitarsi ad alcune fra le ricerche più recenti: C. Wickham, Legge, pratiche econflitti. Tribunali e risoluzione delle dispute nella Toscana del XII secolo, Viella, Roma2001; G. Guarisco, Il conflitto attraverso le norme. Gestione e risoluzione delle dispute aParma nel XIII secolo, Clueb, Bologna 2005; A. Zorzi, La legittimazione delle pratichedella vendetta nell’Italia comunale, in «E-Spania», IV (2007) (www.e-spania.revues.org);M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, il Mulino, Bologna 2005; N. Covini, La«balanza drita». Pratiche di governo, leggi e ordinamenti nel ducato sforzesco, Franco An-geli, Milano 2007; T. Perani, Pluralità nella giustizia pubblica duecentesca. Due registri dicondanne del comune di Pavia, in «Archivio storico italiano», CLXVII (2009), pp. 57-89.

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delle autorità pubbliche3 o assiomatizzando una pretesa incapacità daparte di queste ultime di mantenere l’ordine e di garantire l’esecutivitàdelle sentenze e sopravvalutando il peso e il ruolo della contumacia nel-l’amministrazione della giustizia4. In tal modo, è evidente il rischio di re-legare le esigenze di ordine e di pacificazione espresse dalle collettivitàcittadine in generale e dai partiti di Popolo in particolare al semplice am-bito dell’ideologia o dei linguaggi politici, escludendo a priori che essepotessero tradursi in reali politiche di governo5.

Nell’ordinamento policentrico dei comuni italiani6 le funzioni di re-pressione del crimine e di mantenimento dell’ordine pubblico erano at-tribuite a una molteplicità di soggetti7. Innanzitutto, i podestà forestieriportavano di norma con sé un gruppo di armati (sbirri, militi o berrovie-ri), che negli ultimi decenni del Duecento si accrebbe da poche unità adalcune decine di uomini8. Esistevano poi uffici ancora tutti da indagare,

3 Un’eccezione in questo senso, per l’attenzione prestata contestualmente ai muta-menti negli apparati giudiziari e in quelli di «polizia» è fornita da A. Zorzi, Politiche giu-diziarie e ordine pubblico, in M. Bourin, G. Cherubini, G. Pinto (a cura di), Rivolte urba-ne e rivolte contadine nell’Europa del Trecento. Un confronto, Firenze University Press,Firenze 2008, pp. 381-419.

4 Il tema dell’efficacia della giustizia medievale è uno degli snodi storiograficamentepiù dibattutti. Per una prima messa a punto del problema basti qui il rimando a F. Bou-gard, La justice dans le Royaume d’Italie. De la fin du VIIIe siècle au début du XIe siècle,Ecole Française de Rome, Roma 1995, soprattutto alle pp. 341-346.

5 Ha giustamente invitato a valutare il peso ideologico, più che quello effettivo, del-la rivendicazione della «pace» interna da parte dei movimenti popolari A. Zorzi, Politicae giustizia a Firenze al tempo degli ordinamenti antimagnatizi, in V. Arrighi (a cura di),Ordinamenti di giustizia fiorentini. Studi in occasione del VII centenario, Ministero per iBeni culturali e ambientali, Firenze 1995, pp. 105-147.

6 Per l’articolazione della società cittadina del medioevo in diversi corpi e la loro fu-sione in un organismo politico composito: G. Chittolini, Il «privato», il «pubblico», loStato, in G. Chittolini, A Molho, P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di for-mazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, (Annali dell’Istituto storico italo-germanico, 39), il Mulino, Bologna 1994, pp. 554-608; Id., Il tardo Medioevo, una «so-cietà corporata», in «Annali dell’Istituto italo-germanico in Trento», XIX (1993), pp.437-447, anche in riferimento a P. Prodi, Il sacramento del potere: il giuramento politiconella storia costituzionale dell’Occidente, il Mulino, Bologna 1992.

7 La molteplicità dei corpi che avevano diritto a gestire l’ordine pubblico rimased’altro canto una caratteristica di tutta l’epoca antecedente alle riforme sette-ottocente-sche. Basti qui il rimando ai saggi raccolti in Antonielli (a cura di), La polizia in Italia e inEuropa, cit.

8 Mancano studi dettagliati sulla composizione delle familie podestarili e sul lororuolo nel mantenimento dell’ordine pubblico. A Firenze, nella seconda metà del Duecen-to, era comunque normale la presenza di alcune decine di berrovieri al servizio dei pode-stà e dei capitani del popolo: A. Zorzi, I rettori di Firenze. Reclutamento, flussi, scambi(1193-1313), in J.C. Maire Vigueur (a cura di), I podestà dell’Italia comunale, parte I, Re-clutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec.-metà XIV sec.), Istituto sto-rico italiano per il Medioevo, Roma 2000, vol. I, pp. 443-594, qui a pp. 465-466.

alle dirette dipendenze delle autorità civiche, come quello dei «custodidi notte», che nelle diverse città italiane potevano impiegare svariate de-cine di guardie nella sorveglianza notturna delle strade e delle mura9.

Nonostante la presenza di tali forze, che più si avvicinano a ciò cheoggi propriamente si definirebbero «corpi di polizia»10, un ruolo fonda-mentale era affidato alla partecipazione collettiva al mantenimento del-l’ordine, in particolare con il coinvolgimento delle circoscrizioni locali – le vicinie e le contrade in città, le comunità rurali nelle campagne –che erano responsabili dell’arresto dei criminali che agivano nel loroterritorio11. A fianco di queste, responsabilità precise venivano affidateanche alle molteplici associazioni che coinvolgevano a vario titolo la po-polazione cittadina: confraternite, società d’armi, associazioni rionali e,ovviamente, corporazioni di mestiere12. Su queste ultime, nell’ambito diquesto convegno dedicato alle «polizie del lavoro», vorrei incentrareora l’attenzione, presentando una prima messa a punto, in prevalenzacondotta sulla letteratura e su fonti edite, soprattutto al fine di gettareuno sguardo su un problema – il ruolo delle corporazioni quali forze dipolizia interna – finora praticamente trascurato dagli studiosi dell’etàcomunale13.

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9 Si pensi per esempio ai 96 custodi bene armati previsti dallo statuto duecentescodei «Signori di notte» veneziani: Capitolare dei signori di notte, in M. Roberti, Le magi-strature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, R. Deputazione veneta di sto-ria patria, Venezia 1911, vol. III, pp. 3-100, in particolare p. 25. Su tale magistratura, G.Ruggiero, Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo rinascimento, il Mulino,Bologna 1982, pp. 20-21 e 66-79.

10 Sulla profonda differenza fra «polizie» di antico regime e «polizia» di età contem-poranea: L. Antonielli, Introduzione a Id. (a cura di), La polizia in Italia e in Europa, cit.,pp. 5-10; T. Simon, Cambiamenti nella concezione della sicurezza e origine della poliziamoderna nel XVIII secolo, ivi, pp. 65-86.

11 Oltre a Caminiti, Problemi di sicurezza, cit., mi si permetta di rimandare a P.Grillo, Strade, pascoli e castelli. Il controllo del territorio da parte del comune rurale diChiavenna alla fine del Duecento, di prossima pubblicazione in Extra moenia. Il con-trollo del territorio nelle campagne e nei piccoli centri, Atti del convegno, Messina, 18-19 novembre 2005.

12 Per un caso particolare, si veda A. Barbero, La violenza organizzata. L’Abbazia de-gli Stolti a Torino fra Quattro e Cinquecento, in «Bollettino storico-bibliografico subalpi-no», LXXXVIII (1990), pp. 387-453.

13 In generale, dopo un periodo di vivace interesse, le corporazioni di mestiere nonhanno riscosso negli ultimi due decenni particolare attenzione da parte dei ricercatori.Punti di partenza ancora fondamentali sono: A.I. Pini, Città, comuni e corporazioni nelmedioevo italiano, Clueb, Bologna 1986; R. Greci, Corporazioni e mondo del lavoro nell’I-talia padana medievale, Clueb, Bologna 1988; D. Degrassi, L’economia artigiana nell’Ita-lia medievale, Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, pp. 119-152. Un recente aggiorna-mento in chiave europea è fornito da Tra economia e politica: le corporazioni nell’Europamedievale, Ventesimo convegno internazionale di studi (Pistoia, 13-16 maggio 2005),Centro italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia 2007.

Anche a seconda dell’importanza acquisita dalle associazioni di me-stiere nelle diverse città e del differente ruolo politico da esse ricoperto,si possono distinguere tre principali attività di polizia esercitate da arti ecorporazioni: in primo luogo esse svolgevano quella che oggi si defini-rebbe «polizia del lavoro» più propriamente detta, volta dunque alla sor-veglianza dei comportamenti dei membri della corporazione e dei lorodipendenti, al fine di controllare che rispettassero le regole stabilite.Non meno importanti erano poi la tutela garantita a tutti gli aderenti allacorporazione contro aggressioni esterne e la persecuzione dei criminicompiuti contro di loro. Infine, soprattutto (ma non esclusivamente)laddove il governo cittadino era diretta espressione delle arti, esse svol-gevano attività di «polizia politica» per il mantenimento dell’ordine pub-blico e la repressione dell’opposizione.

1. Polizia del lavoro

Le corporazioni avevano innanzitutto il compito di verificare la qualitàdel lavoro dei loro aderenti, per la quale di norma venivano stabiliti stan-dard ben precisi. La correttezza dell’operato dei membri, il rispetto deigiorni festivi, l’astensione da forme di concorrenza sleale, la sorveglianzasui pesi e le misure, la buona amministrazione delle infrastrutture comunirappresentavano i principali ambiti d’azione delle arti14, attentamente re-golati dagli statuti, per la violazione delle cui norme erano previste esclusi-vamente pene pecuniarie, anche se il Breve della Società dei mercanti (laMercanzia) di Pavia prevedeva esplicitamente la possibilità che i suoi retto-ri facessero arrestare i multati finché non avessero pagato il dovuto15.

Non esistevano norme e forze di polizia volte alla sorveglianza dei di-pendenti dei maestri, prassi che invece si diffuse a partire dal XIV secoloe divenne comune nella prima età moderna, né sono attestati luoghi dicarcerazione a disposizione dei rettori delle corporazioni16. Una punizio-ne diffusa, per chi commetteva mancanze particolarmente gravi o nonpagava le ammende inflitte era l’espulsione dall’associazione, che in mol-ti casi implicava il divieto di lavorare. Significativo era il calco effettuatoda alcune arti, che riprendevano nei loro statuti quel lessico dell’esclu-

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14 Degrassi, L’economia artigiana, cit., pp. 140-143.15 R. Crotti Pasi, C.M. Cantù (a cura di), Breve mercadantie mercatorum Papie: la più

antica legislazione mercantile pavese, 1295, Camera di Commercio, Pavia 1995, p. 184,cap. 50.

16 Il caso più noto è quello dell’arte di Calimala, a Firenze, i cui ufficiali potevanonon solo arrestare, ma addirittura sottoporre a tortura e a mutilazioni i sottoposti ina-dempienti: si veda per tutti A. Stella, La révolte des Ciompi. Les hommes, les lieux, le tra-vail, Editions de l’Ecole des hautes études en sciences sociales, Paris 1993, p. 62.

sione che nella seconda metà del Duecento si era affermato come parteessenziale del linguaggio politico comunale17: a Biella si parla di «ribelli»all’arte dei sarti18, a Bologna e a Pavia di «banditi» delle corporazioni19 ein un caso, con una piena assimilazione terminologica, di «banditi delcomune del Cambio» di Bologna20.

Di solito la giustizia corporativa procedeva in seguito a esposti o de-nunce, ma molte arti prevedevano un’attiva opera di sorveglianza da par-te di ufficiali appositamente eletti o nominati al fine di condurre control-li e ispezioni. Gli statuti dei mercanti di Bologna prevedevano esplicita-mente il diritto dei rettori di «inquirere et procedere contra delinquen-tes»21, e altre raccolte normative stabilivano addirittura la periodicitàdelle ispezioni: a Bologna i ministrali dell’arte del cotone dovevano circa-re una volta al mese le violazioni allo statuto22; con eguale periodicità, aParma i consoli dei fornai dovevano visitarne le botteghe «per corezerliet admonirli»23 e a Pavia i consoli della mercanzia erano tenuti a visitarele abitazioni di cardatori e misurare le pezze di fustagno24. In altri casi,siamo a conoscenza per via indiretta di tale attività: era vietato ai macel-lai biellesi opporsi alle ispezioni delle bestie condotte dai consoli25, cosìcome i tessitori di pignolato veronesi non potevano impedire ai fideius-sori dell’arte di cerchare le pezze non rispondenti agli standard26 e i pro-duttori bolognesi di lana bisella non potevano impedire l’ingresso in casadegli aderenti ai «cercatores vel ministrales» dell’arte27. Ovviamente,erano oggetto di particolare sorveglianza le infrastrutture fisse, come imulini o i forni da pane. Si noti che solo nel caso di Pavia ci si trova difronte a un rapporto gerarchico (i consoli dei mercanti dovevano ispe-zionare la qualità del lavoro compiuto dai tessitori di fustagno), mentrenegli altri casi, era l’assemblea dei consoci a voler garantire una qualitàomogenea ai prodotti.

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17 G. Milani, L’esclusione dal Comune: conflitti e bandi politici a Bologna e in altre cit-ta italiane tra XII e XIV secolo, Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 2003.

18 P. Sella, Statuta comunis Bugelle et documenta adiecta, Tipografia G. Testa, Biella1904, I, p. 252, cap. 21.

19 Crotti Pasi, Cantù (a cura di), Breve mercadandie, cit., p. 166, cap. 26.20 A. Gaudenzi (a cura di), Statuti delle società di Popolo di Bologna, II: Società delle

arti, Tipografia del Senato, Roma 1896, p. 79, cap. 46 (arte del cambio).21 Gaudenzi (a cura di), Statuti delle società di Popolo di Bologna, cit., p. 141, cap. 31.22 Ivi, p. 402, cap. 11.23 G. Micheli, Le corporazioni parmensi d’arti e mestieri, in «Archivio storico per le

province parmensi», V (1896), pp. 1-137, a p. 72.24 Crotti Pasi, Cantù (a cura di), Breve mercadandie, cit., p. 284, cap. 191.25 Sella, Statuta comunis Bugelle, cit., p. 277, cap. 59.26 L. Simeoni (a cura di), Gli antichi statuti delle arti veronesi secondo la revisione

scaligera del 1319, R. Deputazione veneta di storia patria, Venezia 1914, p. 124, cap. 25.27 Ivi, p. 375, cap. 40.

L’attenzione ai luoghi di lavoro sembra talvolta essersi tradotta inun tentativo di farne una sorta di isola giurisdizionale, sulla quale lecompetenze delle arti si estendevano anche a campi esterni a quelli deirapporti professionali. Era evidente, ad esempio, la cura peculiare riser-vata alla sede della corporazione. Gli statuti duecenteschi dei mugnaidi Piacenza vietavano di portarvi armi e punivano le risse che si svolge-vano nell’edificio28, così come quelle dei fabbri e dei fattori di lana bi-sella bolognesi sanzionavano le risse scoppiate «ubi societas congrega-retur»29. Nei luoghi di riunione i membri dell’arte dei tessitori di Vero-na non potevano portare armi proibite30. A Pavia, sotto le volte del pa-lazzo, nella piazza della Mercanzia e pure nelle strade che la circonda-vano non era lecito venire alle mani o altercare: si ritagliava in tal modouna vera e propria «area di rispetto» sulla quale si esercitava l’autoritàdella società31.

Anche le botteghe e le altre infrastrutture erano talvolta oggetto diattenzione particolare: a Piacenza erano sanzionate dalla corporazione lerisse scoppiate nelle case dei fornai; nei mulini, invece, era vietato gioca-re ai dadi o alle carte32; lo stesso avveniva nei banchi dei beccai diBiella33. A Verona i cimatori di panni punivano chi avesse ferito un con-socio «ad discos vel ad stationes»34. Peculiare, ancora una volta, il casodi Pavia, dove la mercanzia rivendicava una precisa giurisdizione sullevie di comunicazione e doveva collaborare con il podestà anche per farpunire i banditi di strada35.

È però evidente il rischio di sovrapposizione con le competenze delleautorità comunali: gli statuti corporativi, in linea di massima, non per-mettono di verificare se l’intervento delle autorità delle arti fosse aggiun-tivo rispetto alle eventuali sanzioni stabilite dalla curia podestarile o,piuttosto, alternativo e forse in esplicita concorrenza con quest’ultimo36.

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28 C. Pancotti, I paratici piacentini e i loro statuti, Piacenza 1925 (Biblioteca storicapiacentina, XII), p. 237, cap. 54; p. 255, cap. 105; p. 269, cap. 160; p. 272, doc. 168; p.294, doc. 240.

29 Gaudenzi (a cura di), Statuti delle società di Popolo di Bologna, cit., p. 182, cap.11; p. 362, cap. 9.

30 Simeoni (a cura di), Gli antichi statuti delle arti, cit., p. 77, cap. 13.31 Crotti Pasi, Cantù (a cura di), Breve mercadandie, cit., p. 272, capp. 178-179.32 Pancotti, I paratici piacentini, cit., cap. 54; p. 255, cap. 105; p. 269, cap. 160; p.

272, doc. 168; p. 294, doc. 240.33 Sella, Statuta comunis Bugelle, cit., p. 274, capp. 42-43.34 Simeoni (a cura di), Gli antichi statuti delle arti, cit., p. 34, cap. 40.35 Crotti Pasi, Cantù (a cura di), Breve mercadandie, cit., p. 190, cap. 57.36 A un quindicennio di distanza, con pochissime eccezioni, rimane valido quanto

affermato da Donata Degrassi, ossia che «è ancora tutto da analizzare, nel concreto, ilrapporto fra giustizia pubblica e giustizia corporativa»: Degrassi, L’economia artigiana,cit., p. 151.

Soltanto a Parma pare esserci stato uno sforzo di razionalizzazionedelle competenze: così, da un lato, la normativa comunale attribuiva altribunale della mercanzia la competenza sull’ordine pubblico nei merca-ti e nelle fiere, dall’altro escludeva «ratione materie», le vertenze privatefra gli aderenti, degenerate in insulti o risse, riservate alla giurisdizionecittadina37. Sempre a Parma, uno dei pochi statuti corporativi duecente-schi, quello dei fornai, affermava esplicitamente che i membri rei di furtodovevano venir cacciati dall’arte e essere denunziati al podestà, affinchéquesto li perseguisse38, testimoniando nella città emiliana un’eccezionaleattenzione alla definizione delle giurisdizioni, frutto forse anche dell’esi-stenza in loco di una vivace scuola giuridica, attenta alla prassi più che al-la dottrina39.

2. La tutela degli aderenti

I problemi di giurisdizione emergono ancora più evidenti nel casodella tutela dei soci vittime di aggressioni o di altri reati. Competenze intal senso erano infatti rivendicate da un buon numero di associazioni dimestiere, soprattutto, ma non solo, in quei comuni nei quali le arti riusci-rono ad assumere un ruolo di rappresentanza nel governo cittadino40.

Le corporazioni medievali non erano semplici associazioni di mestie-re, ma anche società di mutuo soccorso, gli aderenti alle quali si doveva-no aiuto e solidarietà in caso di bisogno. Esse facevano parte di quel reti-colo di «parentele artificiali» nelle quali i membri del popolo trovavanoquella tutela e quell’appoggio, anche in caso di conflitti, che i nobilichiedevano invece alle loro ampie e ramificate casate41. Quasi ovunquevigeva l’obbligo di far visita ai consoci (che alcuni statuti veronesi chia-mano, significativamente, «confratelli») ammalati, di partecipare ai lorofunerali e di aiutare quelli in difficoltà economiche42. È probabile che il

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37 A. Ronchini (a cura di), Statuta communis Parmae digesta anno MCCLV, Ex offici-na Petri, Parma 1856, pp. 187-191; cfr. Guarisco, Il conflitto attraverso le norme, cit., pp.28 e 31-32.

38 Micheli, Le corporazioni, cit., p. 72.39 Sull’Università di Parma nel medioevo, si veda R. Greci, Sulle tracce di una pole-

mica superata: Gualazzini, Cencetti e le origini dell’Università di Parma, in G. Barone, L.Capo, S. Gasparri (a cura di), Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, Viella, Roma2000, pp. 279-315, e la bibliografia ivi citata.

40 Sul problema del ruolo delle corporazioni nei governi di popolo si veda oltre, nota49.

41 S. Bortolami, Le forme «societarie» di organizzazione del Popolo, in Magnati e po-polani nell’Italia comunale, Quindicesimo convegno di studi (Pistoia, 15-18 maggio1995), Centro italiano di storia ed arte, Pistoia 1997, pp. 41-79.

42 Simeoni (a cura di), Gli antichi statuti delle arti, cit., passim.

reciproco appoggio fra i soci si estendesse anche a coloro che fossero ri-masti vittime di crimini, anche se le menzioni esplicite di tale prassi sonorelativamente poche.

A Bologna, gli statuti corporativi tacciono, ma la normativa unitariadel Popolo emanata nel 1248 prevedeva che «si quis est vel erit in socie-tatibus armorum vel arçium et in suo iure petierit adiutorium et consil-lium sibi dari ab ançianis seu ministrallibus ver corporallibus societa-tum... teneantur dare ei adiutorium et consilium et eum manutenere insuo iure, ad honorem communis Bononie»43. Anche alla luce del riferi-mento all’onore del comune di Bologna è in questo caso difficile stabilirese la norma si riferisse al semplice ambito della tutela giudiziaria o a undiretto intervento armato delle società coinvolte.

Molto più eloquente è il caso di Pavia, dove la Mercanzia a fine Due-cento assunse un’importanza politica di primo piano nell’ambito del co-mune popolare; qui i rettori dell’arte dovevano difendere nei beni e nellepersone i soci, contro qualunque persona o collettività e a tal fine, a lorovolta, tutti i mercanti erano tenuti a prestare «forciam, auxilium et favo-rem»44. Ciò, esplicitamente, doveva avvenire «cum armis et sine armis, inavere, personis et rebus, contra quemlibet hominem et universitatem»:in caso di bisogno, su precetto del podestà o del vicario della mercanzia,ogni socio era tenuto a «venire cum armis ad palacium dicte mercationisvel alibi occaxione manutenendi et iuvandi aliquem vel aliquos de dictamercatione vel de paraticis supradictis seu occasione faciendi vel fieri fa-ciendi vindictam de qualibet iniuria seu offensione»45.

Dalla cronaca di Parma veniamo a sapere come, de facto, si agiva inun caso del genere. L’interessante episodio è già stato oggetto di atten-zione da parte di Gabriele Guarisco46, ma vale la pena di soffermarcisirapidamente. Nel marzo del 1294 un notaio parmigiano fu assassinato daalcuni abitanti di un villaggio. Saputa la cosa, gli anziani del collegio ar-marono cento soci e marciarono sull’abitato arrestando due dei respon-sabili, che poi furono condannati rispettivamente all’impiccagione e alcarcere perpetuo, devastandone poi le terre, assieme a quelle di altricomplici che furono banditi. È da notare come, in questo caso, i notaiabbiano agito in pieno accordo con il podestà, visto che gli assassini ven-nero consegnati «in forcia comunis», che furono le autorità civiche apronunciare le condanne e che, per la durata della vindicta, il palazzo delcomune rimase chiuso, per evidenziare la solidarietà espressa ai notai47.

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43 Gaudenzi (a cura di), Statuti delle società di popolo di Bologna, cit., p. 515, cap. 27.44 Crotti Pasi, Cantù (a cura di), Breve mercadandie, cit., p. 288, capp. 194, 195.45 Ivi, p. 292, cap. 199.46 Guarisco, Il conflitto attraverso le norme, cit., pp. 140-141.47 G. Bonazzi (a cura di), Chronicon Parmense ab anno 1038 usque ad annum 1479,

Lapi, Città di Castello 1902 (RIS2. IX/9), p. 66.

Come dimostrano i casi di Parma e di Bologna, la difesa dei membripoteva quindi assumere rapidamente connotati politici, sovrapponendo-si, nella forma e nella sostanza, a quella che le società di Popolo garanti-vano ai propri aderenti vittime di aggressioni o di prepotenze da parte dinobili e magnati48.

3. Polizia politica

Nei comuni dove il Popolo era prevalentemente organizzato sullabase delle associazioni di mestiere – comuni che, è opportuno ricordar-lo, erano solo una parte del totale, dato che spesso le società popolari sibasavano in tutto o in parte sulle circoscrizioni territoriali49 – l’attività dipolizia delle corporazioni poteva assumere anche i caratteri di poliziapolitica, destinata al sostegno del regime vigente e alla repressione deitentativi di sovvertirlo, da parte dell’aristocrazia nel suo complesso op-pure di questa o di quella fazione.

In generale, la maggior parte degli statuti corporativi prevedeva chegli aderenti alle arti collaborassero con le autorità cittadine nel manteni-mento dell’ordine. Così, i consoli dei mugnai di Piacenza, nel Duecento,giuravano che avrebbero fornito al podestà cittadina «opera, forza, aiutoe consiglio per mantenere la città e il distretto in buono stato, in pace e inconcordia»50, i formaggiai e lardaroli di Bologna che avrebbero aiutato emantenuto in ogni modo il podestà e il capitano del popolo51; il podestàdella Mercanzia di Pavia, si impegnava a dare ai consoli e al podestà «for-tiam et adiutorium» per difendere il «bonum et honor Papie»52. Si notiche i rettori di questa società dovevano essere iscritti alla parte di Popo-lo53, dunque la connotazione politica della Mercanzia risulta evidente54.

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48 Sulla parziale sovrapposizione di compiti fra società d’armi e società di mestiere aBologna, si veda A.I. Pini, Magnati e popolani a Bologna nella seconda metà del XIII seco-lo, in Magnati e popolani, cit., pp. 371-396, alle pp. 387-388.

49 L’osservazione, in opposizione alla schematica applicazione del modello fiorentino,basato esclusivamente sulle arti, a tutte le città italiane, fu principalmente di G. De Vergot-tini, Arti e «popolo» nella prima metà del sec. XIII, in Id., Scritti di storia del diritto italiano,Giuffrè, Milano 1977 (Seminario giuridico dell’Università di Bologna, LXXIV), I, pp. 387-467 (ed. or. 1934); per un aggiornamento del modello dei rapporti fra popolo e corporazio-ni, si vedano: Greci, Corporazioni e mondo del lavoro, cit., pp. 93-128; E. Artifoni, Corpora-zioni e società di «popolo»: un problema della politica comunale nel secolo XIII, in «Quader-ni storici», 74 (1990), pp. 387-404; Bortolami, Le forme «societarie» di organizzazione, cit.

50 Pancotti, I paratici, cit., p. 240, cap. 61. Il corsivo è mio.51 Gaudenzi (a cura di), Statuti delle società di Popolo di Bologna, cit., p. 163.52 Crotti Pasi, Cantù (a cura di), Breve mercadandie, cit., p. 149, cap. 1.53 Ivi, p. 206, cap. 80.54 Sulla Mercanzia pavese, si veda ora L. Bertoni, In artibus cunctis industries. Con-

In realtà, in molti casi il ruolo militare delle arti sembra essere rima-sto in secondo piano rispetto a organizzazioni popolari specificamentedestinate allo scopo. A Parma, nel 1284, dopo diversi torbidi, le arti era-no state assunte nella difesa del bonum statum della città e negli anni suc-cessivi gli aderenti ai mestieri si schierarono in armi a difesa delle portecittadine o del palazzo comunale a difesa del regime popolare55, ma lamaggior parte degli interventi repressivi di violenze magnatizie fu com-piuta dai mille fanti della «società della croce» istituita appositamentenel 1266 e rimasta in auge fino agli inizi del Trecento56.

A Bologna, sin dal 1248 gli statuti del popolo prevedevano che «qui-libet homo societatum armorum vel arçium civitatis Bononie» dovesseandare al podestà «cum armis et sine armis» quando fosse opportuno,«pro aliqua rixa vel rumore»57. Anche qui, però, il maggior peso della re-pressione e del controllo dell’ordine ricadeva sulle società rionali di fan-ti, ovviamente più attrezzate allo scopo. Vi era però un’eccezione, rap-presentata dalla corporazione dei macellai, che in un suo saggio ValeriaBraidi ha definito il «braccio armato del Popolo bolognese»: essi costi-tuivano infatti una forza militare di tutto rispetto, tanto da essere anno-verati anche fra le società delle armi nella partizione degli anziani del po-polo. I macellai bolognesi furono in prima linea in molti tumulti antima-gnatizie e fornivano la scorta personale del Bargello, il capo delle miliziepopolari58. In generale, in effetti, i beccai rappresentavano una forza darispettare per il loro peso militare e ebbero un ruolo di rilevo in molticonflitti, sia per il loro peso economico, sia per le loro capacità militari,fatto che diede loro un ruolo di preminenza fra le corporazioni in diversicentri urbani59.

Forse la città in cui più compiutamente si espresse l’utilizzazione del-le arti come milizia politica fu Verona, sulla quale vale la pena di soffer-marsi brevemente60. Qui, dopo la caduta di Ezzelino da Romano e

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giuntura economica e dinamiche sociali a Pavia nella seconda meta del XIII secolo, tesi didottorato di ricerca in storia medievale, XXI ciclo, Milano 2009.

55 Bonazzi (a cura di), Chronicon Parmense, cit., pp. 45 e 53.56 Se ne veda la narrazione in Bonazzi (a cura di), Chronicon Parmense, cit., passim.57 Gaudenzi (a cura di), Statuti delle società di Popolo di Bologna, cit., p. 518, cap. 38.58 V. Braidi, Il braccio armato del Popolo bolognese: l’arte dei beccai e i suoi statuti

(secc. XII-XIV), in T. Lazzari, L. Mascanzoni, R. Rinaldi (a cura di), La norma e la memo-ria. Studi per Augusto Vasina, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 2004(Nuovi studi storici, 67), pp. 441-469.

59 Pini, Città, comuni e corporazioni, cit., p. 281.60 Per una messa a punto degli eventi politico-istituzionali e dell’affermazione del regi-

me di Popolo, basato a Verona sulle arti, G.M. Varanini, Istituzioni, società e politica nel Ve-neto dal comune alla signoria (secolo XIII-1329), in A. Castagnetti, G.M. Varanini (a curadi), Il Veneto nel Medioevo. Dai comuni cittadini al predominio scaligero nella Marca, Bancapopolare di Verona, Verona 1991, pp. 268-422, soprattutto alle pp. 335-344.

l’affermazione del regime di popolo, nel 1260, «gli statuti delle arti del1260 obbligano i guadiati dei mestieri ad accorrere armati ad vexillum incaso di disordini»61. La norma prevedeva che

chiunque sia membro della corporazione, debba accorrere al suo vessillocon le armi quando la campana del comune di Verona suonerà a stormo per di-fendere il podestà del comune di Verona, per l’onore e il buono stato del comu-ne e della società dei mercanti di Verona. E chi non vi andrà, sia espulso in per-petuo dalla corporazione, a meno che non sia rimasto per un impedimento cherisulti giusto davanti a Dio62.

Nel 1277, con l’elezione di Alberto della Scala a capitano e rettoredelle arti di Verona, le funzioni militari di queste vennero esplicitamenteinserite nello statuto del comune, con una particolare attenzione ai«compiti difensivi di polizia interna»63, il cui segno esplicito era il per-messo ai membri dei mestieri di portare sulle armi le insegne della loroarte64. La normativa cittadina disegna un quadro preciso, nel cui ambitole milizie delle corporazioni venivano poste alle dirette dipendenze delloscaligero, il quale doveva detenere presso di se il «vexillum misteriorumVerone et populi Veronensis»65, grazie al quale aveva il diritto di convo-care tutti i gastaldi e i membri delle arti «cum armis vel sine armis» a suadiscrezione con pubblica grida66.

Solo due degli statuti corporativi redatti nel 1260 ci sono giunti. Lanormativa delle arti fu invece sottoposta ad ampia revisione e sistema-tizzata nel 1319, sotto il controllo di Cangrande della Scala67. La dispo-sizione del 1260 si presenta quasi omologamente nella gran parte deglistatuti: gli aderenti dell’arte, quando la campana del comune avessesuonato a stormo, avrebbero dovuto radunarsi attorno al loro vessillo eagire a tutela del podestà e del comune. Chi fosse stato assente senzagiustificazione sarebbe stato espulso: solo in quest’ultimo ambito vi era-

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61 S.A. Bianchi, Fanti, cavalieri e stipendiarii nelle fonti statutarie veronesi, in G.M. Va-ranini (a cura di), Gli Scaligeri. 1277-1386, Mondadori, Verona 1988, pp. 157-166, a p. 158.

62 Simeoni (a cura di), Gli antichi statuti delle arti, cit., p. LVIII, cap. 64: «De homi-nibus misterii qui debent stare et ire ad vexillum misterii. Et quilibet vuadiatus huius mi-sterii debeat ire ad vexillum suum cum armis cum tintinabulum comunis Verone pulsa-verut ad strennamad manutenendum potestatem comunis Verone, ad honorem et statumcomunis Verone et domus mercatorum Verone: et qui non iverit ammittat misterium inperpetuum, nisi iusto Dei impedimento remaneret». Il testo è riproposto quasi letteral-mente nello Statuto dei sarti: Gli antichi statuti delle arti, cit., p. LVIII, cap. 43.

63 Bianchi, Fanti, cavalieri e stipendiarii, cit., p. 158. 64 Simeoni (a cura di), Gli antichi statuti delle arti, cit., p. 52, cap. 53.65 G. Sandri (a cura di), Gli statuti veronesi del 1276 colle correzioni e le aggiunte fino

al 1323, R. Deputazione di storia patria per le Venezie, Venezia 1940, I, cap. 294, p. 231.66 Ivi, p. 232, cap. 296.67 Varanini, Istituzioni, società e politica, cit., pp. 342-343.

no piccole variazioni, poiché alcune norme prevedevano una cacciataperpetua, altre solo temporanea68. È curioso, però, che in alcuni statutiil capitolo sia del tutto assente69: si trattava forse di societates inaffidabi-li, che il signore di Verona aveva preferito disarmare? Non vi sono, pur-troppo, indizi evidenti in questa direzione, anche se questa questioneinsoluta può essere utile a ricordare lo strettissimo nesso fra realtà poli-tica e funzioni di polizia.

Per concludere, l’ampiezza delle prerogative corporative in tema di«polizia» era strettamente legata al peso delle arti nella costituzione deidiversi comuni e ai mutevoli rapporti di forza politici. In generale, eracomunemente attribuita alle arti la sorveglianza sul lavoro degli aderen-ti e la verifica qualitativa. Fino al termine del XIII secolo, tale prassi so-lo in pochi casi si concretizzava in un rapporto gerarchico, in base alquale i mercanti e i committenti sorvegliavano l’operato dei loro dipen-denti o fornitori70: nella maggior parte delle città, il controllo era per co-sì dire «orizzontale» e doveva garantire, tramite l’operato di appositi uf-ficiali, il mantenimento di alcuni standard produttivi e l’assenza di con-correnza sleale.

In circostanze politiche favorevoli, la sorveglianza sul lavoro potevaessere occasione per ampliare le prerogative giurisdizionali anche a reaticomuni, purché commessi in luoghi lavorativi, così come la tutela degliaderenti verso aggressioni esterne poteva mutarsi in uno strumento dipressione e di lotta dalle esplicite connotazioni popolari.

Infine, il diretto coinvolgimento delle corporazioni come milizia po-litica a sostegno dei regimi popolari sembra essere stato, nel Settentrio-ne, relativamente limitato, a favore di corpi armati specificamente for-mati a tal fine. Soltanto le corporazioni dei beccai, per le capacità belli-che dimostrate, avevano in tale direzione un ruolo particolare, sicura-mente a Bologna e forse anche in altri centri, come Como. Fa eccezionea tale quadro complessivo il caso di Verona, dove i Della Scala – fami-glia di estrazione cittadina e popolare – sfruttarono al massimo il loro

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68 L’espulsione era ad esempio perpetua nel caso dei battilana, dei tintori di guado,dei tessitori di lana, dei garzatori, dei garzatori di pignolato [Simeoni (a cura di), Gli anti-chi statuti delle arti, cit., p. 48, cap. 59; p. 57, cap. 36; p. 72, cap. 55; p. 116, cap. 31; p.154, cap. 39], mentre i filatori avrebbero perso la possibilità di lavorare soltanto per iltempo in cui sarebbe rimasto in carica il gastaldo corrente dell’arte: ivi, p. 180, cap. 56.

69 Per esempio, il capitolo già citato dell’arte dei radaroli fu cancellato nella redazio-ne del 1319: sopra, nota 62. Il capitolo è assente anche negli statuti dei lanaioli, degli sca-vezzatori, follatori, vetturai, tintori di drappi, pignolatori e cuoiai.

70 Oltre al caso di Pavia, esaminato sopra (cfr. testo corrispondente alla nota 24), lasottomissione delle corporazioni artigianali a quelle dei mercanti si riscontrava soprattut-to nei grandi centri commerciali del Mediterraneo, come Genova, Pisa e Venezia: Greci,Corporazioni e mondo del lavoro, cit., p. 138.

legame con il mondo del lavoro per garantirsi un appoggio armato con-tro gli eventuali oppositori all’interno delle mura, da affiancare a quellofornito prima dall’esercito cittadino e poi dai mercenari contro i nemiciesterni71.

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71 Sull’evoluzione degli eserciti scaligeri si vedano: G.M. Varanini, La signoria scali-gera e i suoi eserciti. Prime indagini, in Id. (a cura di), Gli Scaligeri, cit., pp. 167-179; S.A.Bianchi, Gli eserciti delle signorie venete del Trecento fra continuità e trasformazione, in A.Castagnetti, G.M. Varanini (a cura di), Il Veneto nel Medioevo: le signorie trecentesche,Cassa di Risparmio, Verona 1995, pp. 163-200.

James Shaw

Interessi privati e polizia dei mercati a Venezia, secc. XVI-XVII*

I mercati dell’Europa della la prima età moderna sono stati ritratti co-me soffocati da una pesante mole di legislazione pubblica e corporativa,che avrebbe dovuto essere smantellata per permettere la nascita del capi-talismo1. Il modello tradizionale del capitalismo vedeva quindi il mercatoemergere da un oscuro passato di soffocanti controlli e regolamentazioni.La teoria contemporanea dell’economia del libero mercato, frutto dellamodernizzazione, aveva bisogno di un termine di paragone negativo persostenersi; così l’economia mercantile regolata da leggi è diventata l’em -blema stesso dell’arretratezza economica. Eppure esistono pochi studi sucome queste leggi venivano messe in pratica. La storia del crimine nel -l’Eu ropa moderna ha concentrato la sua attenzione sui crimini più sensa-zionali – omicidio, stupro, sodomia, eresia – trascurando quelli che carat-terizzavano la quotidianità, come ad esempio vendere uova senza licenza,comprare burro per manipolarne il prezzo, fabbricare scarpe di domeni-ca, contravvenzioni raramente considerate veri e propri crimini.

Questo studio su Venezia è basato sull’analisi della documentazioneprodotta da una delle più antiche magistrature della città, la Giustizia,fondata nel 11732. I suoi uffici si trovavano sopra le Beccarie nella zonadi Rialto (dove attualmente vi è mercato del pesce)3. La Giustizia si oc-

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* Tutti i fondi archivistici citati nel testo sono conservati presso l’Archivio di Statodi Venezia. Sono state utilizzate le seguenti abbreviazioni: GV: Giustizia Vecchia; QCR:-Quarantia Criminale; b.: busta; r.: registro. Dove è stato mantenuto il calendario vene-ziano, è indicato con l’abbreviazione: mv: more veneto

1 L. Vardi, The Abolition of the Guilds during the French Revolution, in «FrenchHistorical Studies» 15, n. 4 (1988), p. 705.

2 G. Monticolo, L’ufficio della Giustizia Vecchia a Venezia dalle origini sino al 1330,(Monumenti della Deputazione Veneta di Storia Patria, Miscellanea, 12) Vicentini, Ve-nezia 1892, pp. 5-6.

3 D. Calabi, P. Morachiello, Rialto: le fabbriche e il Ponte. 1514-1591, Einaudi, Tori-no 1987; 13. GV, b.1, r. 2, 31 gen 1565 mv.

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cupava della protezione dei consumatori, della regolamentazione dellearti cittadine e del mercato urbano. Con l’aumentare della mole di la-voro, alcune arti divennero oggetto dell’attività di nuove magistraturespecializzate, come quella delle Beccarie (carni, macellai), e delle Biave(frumento, fornai). Dopo la creazione nel 1261 della Giustizia Nuova,responsabile per il commercio del vino e la sorveglianza delle taverne,la magistratura originale («Giustizia») cambiò nome in Giustizia Vec -chia4. Durante la prima età moderna il cambiamento più importante ful’aggiunta di una magistratura superiore nel 1565, i Provveditori soprala Giustizia Vecchia5. Questa magistratura formulava e applicava la le-gislazione per il mercato urbano, agiva come unica corte d’appello perle decisioni della Giustizia Vecchia, e sorvegliava le attività della corteinferiore. L’intera responsabilità dell’amministrazione quotidiana dellagiustizia fu lasciata invece alla Giustizia Vecchia, il cui compito era quel lodi far rispettare le leggi6. Per fare questo, aveva un proprio corpo dipolizia, un gruppo di venti fanti, il cui mandato era di pattugliare lestrade7. La creazione dei Provveditori istituì allora una gerarchia, che sidistingueva per la diversa composizione socio-politica delle due magi-strature: i Provveditori erano eletti dagli stessi membri del Senato, iGiustizieri dal Maggior Consiglio; costoro di solito erano nobili per ti-tolo, ma dotati di pochi averi, in cerca di un pubblico impiego che pro-curasse loro un reddito rispettabile8.

Il registro di processi criminali datato 1615, uno dei pochi sopravis-suti, contiene un totale di 155 denunce, pari a una media di più di undicialla settimana, ovvero 572 all’anno9. Ciò che emerge in primo luogo èche la sua attività giudiziaria era estremamente efficiente, in confrontoalle procedure lente delle corti superiori. In mano alla Giustizia Vecchia iprocessi venivano smaltiti velocemente: di solito il verdetto veniva pro-nunciato entro una settimana dalla denuncia, talvolta il giorno stesso, edè raro che un caso durasse più di un mese. Circa il 70% delle denuncesfociavano in un verdetto, pari a una media di 402 all’anno. Si può con-frontare questa cifra, prodotta da una magistratura «bassa», con quella

4 Monticolo, L’ufficio, cit., p. 9.5 GV, b.1, r. 2, 11 nov 1565 e 25 nov 1565.6 J.E. Shaw, The Justice of Venice: Authorities and Liberties in the Urban Economy,

1550-1700, Oxford University Press, Oxford 2006, p. 28.7 Monticolo, L’ufficio, cit., p. 77; i fanti della Giustizia Vecchia si chiamavano pueri

nel medioevo.8 G. Cozzi, Giustizia «contaminata»: Vicende giudiziarie di nobili ed ebrei nella Vene-

zia del Seicento, Marsilio, Venezia 1996; R. Finlay, Politics in Renaissance Venice, ErnestBenn, London 1980.

9 GV, b. 87, r. 103, contiene denunce dal 19 mag 1615 al 25 ago 1615. L’unico altroesempio sopravvissuto è GV, b. 87, r. 102, che contiene denunce dal 1528.

di una magistratura più importante, ad esempio quella degli Esecutoricontro la Bestemmia, che durante la metà del Seicento, con una procedu-ra sommaria relativamente efficiente, produsse una media di solo 90 ver-detti l’anno. A livelli più alti della giustizia criminale, per esempio laQuarantia Criminale, si pronunciavano soltanto 20 o 30 verdetti l’anno10.A proposito della relativa rapidità della Giustizia Vecchia bisogna consi-derare il livello delle procedure da essa adottate, profondamente diversedagli altri sistemi di giustizia.

Il registro processuale del 1615 copre pochi mesi, ma il suo valorecome fonte risiede soprattutto nel fatto che rivela l’attività quotidianadella corte. I processi dimostrano che la polizia concentrava la sua atti-vità su specifici crimini e in specifici settori del mercato. Dedicava parti-colare attenzione al commercio alimentare (quasi due terzi delle denun-ce), per esempio di pesce, formaggio, salumi, frutta e verdura, probabil-mente perché questo era il settore in cui più alta si manifestava la per-centuale di proteste sociali.

In primo luogo, si processavano diversi crimini collocabili sotto il ti-tolo di «inchieta» o «assedio», in tutto quasi il 30% dei casi. Questi ter-mini si riferivano al tentativo di controllare la fornitura di un bene, far-ne incetta per poi manipolarne il prezzo, per esempio comprando tutti ipesci prima che arrivassero sul mercato pubblico11. Ad esempio, l’accu -sa contro Francesco Marinello era che fosse andato fuori città a com-prare in anticipo la produzione di cipolle: «hà ap[p]altado tutte le cevo-le di quelle parte et ne [h]à portado parte à Venetia et il restante è re-statto in detto locco per suo conto per farle poi condur à Venetia»12.Nella suddetta categoria si trovano molte accuse contro i venditori am-bulanti, accuse che però andavano mosse con cautela per distingueretra coloro che compravano i prodotti alimentari per rivenderli, gli sbase-gai, e i contadini e i pescatori locali che venivano a Venezia per venderei loro prodotti onestamente. Per esempio nella prima categoria rientraun gruppo di venditori di pollame trovato a vendere in piazza San Mar-co; costoro, colti in flagrante, cercarono di dimostrare che erano solopoveri contadini: «io non son[o] sbasegaro mà ne hò comprato et anco

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10 R. Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel ’500-’600. Gli esecutori contro la be-stemmia, in G. Cozzi (a cura di), Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), Jouvence, Roma 1980.

11 I veneziani usavano inchieta ò assedio nel Cinquecento e Seicento, e monopolio nelSettecento per descrivere questo tipo di crimine. Marc’Antonio Tirabosco, Ristretto diprattica criminale che serve per la formatione de processi ad offesa, Pinelli, Venezia 1636, p.9; A. Barbaro, Pratica Criminale, Giuseppe Bortoli, Venezia 1739, p. 241; J.E. Shaw, Re-tail, Monopoly and Privilege: The Dissolution of the Fishmongers Guild of Venice, 1599, in«Journal of Early Modern History», 6, n. 4 (2002).

12 GV, b. 87, r. 103, fol. 125r.

ne haveva del mio cortiero di detti pol[l]ami», «io no[n] son[o] sbase-garo et son[o] povero Padoan», «ne ho’ comprato parte et parte alleva-di in cortillo»13. Allo stesso modo, un gruppo di donne di Mestre, trova-to a smerciare pesche sotto i portici delle Fabbriche Nuove (un postomolto frequentato dai venditori ambulanti), cercò di dimostrare che leavevano coltivate14.

Un ulteriore crimine riguardava l’uso inappropriato di pesi e misure(17% delle denunce), a danno dei consumatori. Per esempio la vedovadi un luganegher fu denunciata per possesso di una bilancia mal tarata:quando infatti si tolsero i pesi, la bilancia «andava giù in furia dalla ban-da dove si mette la roba»15. Tutti i venditori dovevano presentare pesi emisure alla Giustizia Vecchia per farli controllare. Nel 1615 un bazariotto(venditore ambulante) fu denunciato per aver venduto formaggio alponte di Canareggio una domenica mattina, con una bilancia non «bol-lata»16. Queste pratiche erano considerate un sopruso nei confronti delconsumatore, giacché pregiudicavano il giusto prezzo.

Un altro campo d’azione della polizia si concentrava sul rispetto deigiorni considerati sacri, durante i quali era proibito il commercio, cosìcome sulla protezione degli spazi davanti alle chiese. Il 21% delle de-nunce concernevano la violazione di questi limiti, per esempio nel casodi uno sbasegaro trovato a vendere pere davanti alla chiesa del Reden -tore, o in quello di un fruttarol che vendeva meloni dalla sua barca du-rante un giorno di festa17. Coloro che venivano a Venezia da fuori cerca-vano di difendersi affettando ignoranza, come nel caso del venditore dipollame trovato a vendere nella piazzetta di San Marco il giorno dell’As-sunzione: «io son solito à venir doi hò 3 volte à l’han[n]o io no[n] sapevache fusse giorno di festa». Le scuse accampate dai bottegai locali, che co-stituivano la maggior parte degli accusati, erano meno convincen ti18. Unfruttarol accusato di mettere un «cesto di ceriesi» (ciliegi) fuori dalla suabottega la domenica disse che non c’era abbastanza spazio dentro il ne-gozio19. Un calegher (calzolaio), accusato di vendere scarpe durante la fe-sta dell’Assunzione, si giustificò dicendo che la porta della sua bottegaera aperta perché era anche la porta di casa sua20.

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13 GV, b. 87, r. 103, fol. 136r: «io non son sbasegaro mà ne hò comprato et anco nehaveva del mio cortiero di detti polami»; fol. 136v: «io no[n] son sbasegaro et son poveroPadoan»; fol. 137r: «ne ho’ comprato parte et parte allevadi in cortillo».

14 GV, b. 87, r. 103, fols. 140r-140v, fol. 133r, fols. 141r-141v, fol. 147r.15 GV, b .87, r. 103, fol. 46r.16 GV, b. 87, r. 103, fol. 113v.17 GV, b. 87, r. 103, fol. 81r, fol. 97r.18 Nel registro ci sono 32 denunce di questo tipo, e la maggior parte (20) erano con-

tro botteghieri residenti in città (e la metà di questi erano fruttaroli).19 GV, b. 87, r. 103, fol. 47v.20 GV, b. 87, r. 103, fol. 130v.

Per quanto riguarda il resto delle merci, la mancanza di risorse pub-bliche fece sì che l’applicazione delle leggi venisse demandata alle arti(corporazioni) della città, che si assunsero così la responsabilità di far ri-spettare i propri statuti. In pratica, gran parte dell’economia urbana eradivisa in tanti settori, ognuno sotto il controllo di una corporazione. Learti organizzavano e finanziavano le proprie pattuglie di controllo, cheovviamente miravano più al proprio interesse che al bene pubblico. Perlegge, tali pattuglie dovevano essere sempre accompagnate da un ufficia-le pubblico, normalmente un fante della Giustizia Vecchia, ma questocontrollo risultava poco efficace, dato che i suoi servigi erano retribuitidalle corporazioni stesse. Si possono considerare le pattuglie come esem-pi di un public-private partnership, dove gli interessi pubblici e corporati-vi coincidevano, ma in cui il ruolo del pubblico ufficiale si riduceva a uncontrollo puramente formale della legalità.

La presenza delle corporazioni non è immediatamente evidente nelregistro processuale, perché nella maggior parte dei casi la denuncia erapresentata a nome del fante, che in questo modo si assicurava la sua par-te sull’eventuale multa inflitta; ma il ruolo degli ufficiali della corpora-zione traspare da una lettura attenta dei processi. In alcuni casi, la de-nuncia descrive come il crimine fosse scoperto in presenza sia del fantesia della corporazione, come nel caso di un uomo trovato a vendere uovae pollame sotto i portici delle Fabbriche Nuove dal fante «insieme co[n]l’Arte di Galineri»21. Di solito, questi ufficiali apparivano agli atti in se-guito, come testimoni dell’accusa22. Talvolta, il gastaldo (il capo dell’arte)veniva in tribunale durante il processo per rappresentare gli interessidella corporazione, come fece il gastaldo dei galineri nel caso di un casa-rol (venditore di formaggi) che importava uova e burro23. Si può anchededurre la presenza degli ufficiali dell’arte nella fraseologia della denun-cia, quando il crimine è descritto come commesso «in grave danno dipuoveri fra[te]lli di detta Arte»24.

Lo scopo principale delle corporazioni nell’organizzare tali pattuglieera quello di proteggere i loro privilegi. Molte delle denunce presentatealla Giustizia Vecchia riguardano offese contro il diritto corporativo – co-me nel caso di una donna processata perché vendeva minestre di fagioliin casa sua senza esser iscritta all’arte dei luganegheri 25, o in quello diPiero Cavalieri, che fu accusato di lavorare come carpentiere senza esse-re iscritto all’arte dei marangoni 26. Si potevano anche denunciare perso-

27

21 GV, b. 87, r. 103, fol .53r, fol. 110r.22 GV, b. 87, r. 103, fol. 115r.23 GV, b. 87, r. 103, fol. 10r, fol. 128r.24 GV, b. 87, r. 103, fol. 7r25 GV, b. 87, r. 103, fol. 50r.26 GV, b. 87, r. 103, fol. 172v.

ne che facevano da sé, senza l’ausilio delle corporazioni preposte a unadata attività, come l’uomo trovato a scaricare le proprie «casse di mer-cantia» al Fontego dei Tedeschi senza usare i piateri ufficiali27. Talvolta ledenunce erano fatte contro persone non appartenenti alle arti, ma vi era-no anche casi che riguardavano il limite di competenza fra un’arte eun’altra, come quello di un salumier (venditore di pesce salato) trovato asmerciare candele nel suo negozio28, o l’accusa mossa contro un occhiale-re che vendeva articoli di vetro29. Questo tipo di disputa poteva poten-zialmente finire in appello presso i tribunali più alti, qualora stabilisse unimportante principio per le corporazioni. Gli archivi delle arti corporati-ve contengono molti esempi di questo tipo di disputa, ma bisogna ricor-dare che casi del genere erano rari e non rappresentano la giustizia eco-nomica quotidiana30.

Dalle denunce emerge che la polizia corporativa regolava anche le at-tività economiche dei propri membri, per esempio quando un maestroaveva troppi apprendisti, troppi negozi o troppi mezzi di produzione(più di un telaio, fornace ecc.). Una delle maggiori preoccupazioni dellearti era di distribuire equamente il commercio fra i membri e limitare lapossibilità di espansione economica individuale. Il tagliapietra Melchisa-dech venne denunciato per aver cinque garzoni (apprendisti) al suo ser-vizio invece dei tre consentiti per legge31. Lo stesso gastaldo degli spec-chieri (fabbricatori di specchi) venne accusato di aver tre garzoni invecedell’unico permesso dallo statuto dell’arte32. Similmente, talvolta i mae-stri erano accusati di non aver registrato i loro apprendisti né pressol’arte né presso la magistratura33. In tali casi troviamo conferma alle criti-che tradizionali mosse alle corporazioni dal punto di vista economico.Anche in questo caso, bisogna ricordare che tali contravvenzioni rappre-sentavano solo una porzione limitata delle denunce (pari al 6% del tota-le), e che l’imporsi di tali controlli spesso rifletteva una lotta di potere al-l’interno dell’arte corporativa stessa34.

Leggendo gli statuti delle arti e le leggi imposte dalle magistratureemerge l’immagine di una giustizia severa, che prevedeva pene dure an-che per i crimini minori. La pena per chi cercava di manipolare il prezzodelle uova era la perdita della merce, una multa, un mese in prigione e la

28

27 GV, b. 87, r. 103, fol. 7r.28 GV, b. 87, r. 103, fol. 88r.29 GV, b. 87, r. 103, fol. 23r.30 Shaw, The Justice of Venice, cit., cap. 4.31 GV, b. 87, r. 103, fol. 54r.32 GV, b. 87, r. 103, fol. 74r.33 GV, b. 87, r. 103, fol. 27r.34 I. Archer, The Pursuit of Stability: Social Relations in Elizabethan London, Cam-

bridge University Press, Cambridge 1991, p. 127, per Londra.

frusta35. La pena per un gondoliere che chiedeva più della tariffa previstaerano due ore alla berlina a Rialto e un mese in prigione36. Ma bisognachiedersi se e come le pene statuite erano poi applicate in pratica. Che ti-po di giustizia forniva questa magistratura minore?

Il registro del 1615 dimostra che un’alta percentuale di denunce siconcludeva con un verdetto (circa il 70%). Di questi contravventori però,circa un terzo venivano condannati a un’ammenda (il 35%), di solito unalieve multa o soltanto il rimborso delle spese; un terzo venivano assolti condiffida (il 28%) e un altro terzo assolti completamente (il 30%).

TOTALE 155 (100%)

Nessun risultato 46 (30%)

Verdetto 109 (70%) 109 (100%)

Assolto 65 (42%) 65 (60%)Assolto totalmente 33 (30%)Assolto con diffida 30 (28%)Assolto, ma con pena per resistenza alla giustizia 2 (2%)

Condannato 38 (24%) 38 (35%)Condannato 30 (28%)Condannato, ma soltanto a pagare spese 8 (7%)

Altro 6 (4%) 6 (6%)‘Pro nunc’ 4 (4%)Respinto 2 (2%)

Si trattava dunque di una giustizia sommaria, ma che non penalizza-va gli accusati. Malgrado il tono severo degli statuti, la Giustizia Vecchiaera estremamente mite nella pratica37. Tale propensione dipendeva inparte dalla condizione sociale degli accusati, per la maggiore parte ven-ditori ambulanti, spesso immigrati. Davanti ai giudici, la povertà e l’i -gno ranza erano un argomento di difesa efficace. Lorenzo Cappeller im-plorò i giudici in questi termini: «no[n] so che dir altro se no[n] chequello [h]o fatto da vender quelli capelli è stato per neses[s]ita et biso-gnio et prego sue ss[ignori]e cl[arissi]me haver mi miser[cordi]a»38. Bat-

29

35 GV, b. 5, r. 12, 19 lug 1577.36 GV, b. 5, r. 13, fol. 7v, 27 mag 1578.37 C.B. Herrup, Law and Morality in Seventeenth-Century England, in «Past & Pre-

sent», n. 106 (1985), per simili conclusioni sulla giustizia «bassa» in Inghilterra.38 GV, b. 87, r. 103, fol. 12r: «no[n] so che dir altro se no[n] che quello [h]o fatto da

vender quelli capelli è stato per nesesita et bisognio et prego sue ss[ignori]e cl[arissi]mehaver mi miser[cordi]a».

tista, trovato a vendere fichi in piazza San Marco, si difese dicendo chel’aveva fatto «per [g]vadagnar qualcosa qual son povereto»39. I giudici, ilcui salario non dipendeva dalle multe imposte, erano poco incentivati acondannare tali accusati. I Provveditori quindi tolsero loro anche la facoltàdi mitigare le pene, nella speranza di far rispettare meglio le leggi, ma il ri-sultato fu che i Giustizieri infliggevano meno condanne40. Anche una lievemulta avrebbe infatti potuto mandare il criminale in prigione se questinon l’avesse pagata. Un altro modo di evitare di pronunciarsi in merito alcaso era di assolvere i criminali «pro nunc», una pratica che nel 1615 si ri-scontrò in pochi casi (4%) ma che sarebbe aumentata col tempo41.

Tutto sommato, il registro processuale suggerisce che la funzionedella magistratura non era di punire, ma di disciplinare42. Di solito i cri-minali alla prima condanna non erano puniti se dimostravano la dovutaumiltà davanti ai giudici. Le diffide e gli atti rituali di sottomissione da-vano alle magistrature un modo di imporre l’ordine, ma allo stesso tem-po di dimostrare grazia. Una sentenza tipica era di accendere una cande-la davanti all’immagine della Madonna che presiedeva il tribunale. Unostrazzarol (rigattiere) che era stato imprigionato per aver rifiutato di farentrare la polizia, «dicendo[g]li che no[n] à Autorita di andar drento inbot[t]ega», fu condannato a bruciare 8 lire di cera davanti alla Madon -na43. Similmente, il galiner Battista, imprigionato per aver rotto un bolloufficiale posto sulla sua «caponera» per tirare fuori il pollame, un crimi-ne che in teoria comportava la pena di 25 ducati e diciotti mesi in galea,fu invece condannato a pagare una multa di 25 lire per il commercio ille-cito di pollame e a bruciare 5 lire di cera davanti alla Madonna per la suadisubbidienza44.

Punizioni esemplari si infliggevano solo occasionalmente, di solito aicriminali recidivi. Le accuse contro Donna Marietta, che vendeva mine-stre di fagioli, specificavano che «non ho stante che più volte sii stata de-nontiata am[m]onita et condan[n]ata continua à far manestre et quellevender contra la forma delle leggi de l’Arte di luganegheri»45. La sua re-cidività capitolò a fronte di una multa pesante e la perdita dei suoi at-

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39 GV, b. 87, r. 103, fol. 89r: «io li ho tolti da una hortolana li detti tre cesti di fig[h]iper [g]vadagnar qualcosa qual son povereto».

40 Shaw, The Justice of Venice, cit., pp. 34-38.41 GV, b. 91, 29 nov 1631; ivi, pp. 41-42.42 D. Hay, Property, Authority and the Criminal Law, in D. Hay, P. Linebaugh, J.

Rule (a cura di), Albion’s Fatal Tree: Crime and Society in Eighteenth-Century England,Penguin, Harmondsworth 1975, per Inghilterra.

43 GV, b. 87, r. 103, fol. 135r, fol. 149r, fol. 150r.44 GV, b. 87, r. 103, fol. 190r.45 GV, b. 87, r. 103, fol. 50r: «non ho stante che più volte sii stata denontiata amonita

et condanata continua à far manestre et quelle vender contra la forma delle leggi de l’Ar -te di luganegheri».

trezzi di cucina. Allo stesso modo, le scuse presentate da Piero, un frut-tarol accusato di vendere di domenica, non essendo la prima volta glivalsero a ben poco, e venne condannato a una multa di 50 lire46. Si trattatuttavia di eccezioni in confronto al normale corso della giustizia. Una si-mile mitezza si trova anche nei registri degli Esecutori contro la Bestem-mia degli anni 1640-50, dove il 44% degli accusati furono assolti, e il20% ricevettero soltanto condanne simboliche come la diffida, portareuna candela a un altare, pagare le spese giudiziarie o una lieve multa daversare ai fanti 47. Poco più di un terzo delle denunce portava alla con-danna, una cifra simile a quella della Giustizia Vecchia. Malgrado le peneminime stabilite per legge, la giustizia criminale in pratica era molto mitee bisogna valutare la sua funzione di conseguenza.

Come si è visto sopra, il 30% delle denunce non arrivarono alla sen-tenza. Ciò era in parte dovuto alla mancanza di prove sufficienti (soprat-tutto di testimoni), ma la denuncia poteva essere anche solo il primo pas-so verso un processo di accomodamento fra gli accusati e la polizia. Nonè sempre chiaro in questi casi se si trattasse di corruzione o concussione.

Come ho dimostrato in precedenza, la polizia era infatti assai poco af-fidabile, in gran parte a causa del sistema che regolamentava la proprietàdell’ufficio e la gestione dello stesso. I poliziotti non ricevevano nessunsalario, e traevano di che vivere dai pagamenti che ricevevano dal pubbli-co per ciascuna operazione eseguita, come assistere alle riunioni delle articorporative, o pattugliare con i loro ufficiali. In teoria, la magistratura im-poneva una tariffa sui servigi prestati dai poliziotti, ma le varie indaginirealizzate rivelarono che questo listino dei prezzi era poco attendibile. Iltariffario doveva essere chiaramente esposto nel tribunale a informazionedel pubblico48, ma quando Zupponi, uno degli scrivani assistenti dellaGiustizia Vecchia, fu interrogato dagli Inquisitori sopra gli uffici, su questopunto rispose: «dicono quelli Ministri che vi è la tariffa e in fatti la è ve-ram[en]te se ben mai l’hò veduta»49. Invece, testimoniava che «quan do siviene all’esped[itio]ne de processi le dimandiamo che ne diano quello lepiace […] non li astringemo à cosa alcuna»50. Gli inquisitori riportavanoche «il buon ministro che non v[u]ol tuor piu di quello la spetta per con-cessione del Prencipe hà sempre sotto gl[i] oc[c]hi la tariffa»51. Allo stes-

31

46 GV, b. 87, r. 103, fol. 47v.47 Derosas, Moralità, cit., pp. 469-471.48 GV, b. 1, r. 2, fols. 40r-40v, 29 mag 1567.49 QCR, b. 409, n. 1: «dicono quelli Ministri che vi è la tariffa e in fatti la è ve-

ram[en]te se ben mai l’hò veduta».50 QCR, b. 409, n. 1: «quando si viene all’esped[itio]ne de processi le dimandiamo

che ne diano quello le piace ... non li astringemo à cosa alcuna».51 QCR, b. 409, n. 1: «il buon ministro che non v[u]ol tuor piu di quello la spetta

per concessione del Prencipe hà sempre sotto gl[i] oc[c]hi la tariffa».

so modo, tutti i pagamenti in guisa di «regalie», «donativi», «buonaman» o altre definizioni erano espressamente proibiti, anche quelliper pretese «fatiche estraordinarie»52. I bilanci delle arti rivelano tut-tavia che tali pagamenti straordinari oltre alla tariffa erano praticacorrente, talvolta registrati sotto la voce di buona man versata al per-sonale della Giustizia Vecchia. Nel 1636, i sindici, il cui compito eracontrollare la contabilità delle corporazioni, in questo caso quella deifabbri, scoprirono più di quattro ducati «contadi al fante per caminarper la terra tre giorni à scoder luminarie», quando la tariffa stabilitaera di un solo ducato al giorno53. La contabilità dell’arte dell’acquavi-te registrò 8 lire e 10 soldi spesi in cibo e vino condivisi dal fante e da-gli ufficiali dell’ar te54. I continui tentativi di eliminare simili pratiche,come i Provveditori ammisero nel 1724, si rivelarono vani: «Li Fantihanno Tariffa, mà chi mai può sapere, quanti, e quali utili si procura-no costoro oltre la Tariffa…?»55.

La documentazione sul reclutamento dei poliziotti non rivela alcunriferimento alla loro idoneità; l’ufficio era di solito concesso vita naturaldurante a persone considerate meritevoli (come i veterani militari e le lo-ro vedove), che poi potevano subaffittare la carica di poliziotto a terzipur continuando a detenerne la proprietà. Il risultato era che la magi-stratura non poteva sapere in un dato momento chi lavorava per suoconto. La pratica diffusa di privatizzare e subaffittare gli uffici faceva sìche gli ufficiali fossero indotti a ricoprire la carica dalla necessità di pa-gare questi affitti, piuttosto che per compiere un servizio pubblico. Larendita di tali uffici aveva un proprio mercato privato, che portò a un au-mento degli affitti tale da obbligare gli ufficiali affittuari a cercare fontidi guadagno illecite. In teoria gli affitti erano limitati per legge, fissati ametà del Cinquecento a 16 o 24 ducati all’anno (secondo il grado), chesalirono a 30 o 36 ducati negli anni 1620-3056. Nel 1628 tutti i fanti furo-no obbligati a giurare che non pagavano più di quanto stabilito legal-mente57. In realtà, gli affitti erano molto più alti: in un caso del 1622, un

32

52 CL, ser. 1, b. 64, 10 giu 1679: «sotto pretesto d’usi, consuetudini, tanse, donativi,regalie, fatiche estraordinarie».

53 Arti, b. 110, Libro delle Sinication (1608-64), 27 lug 1636: «per contadi al fanteper caminar per la terra tre giorni à scoder luminarie».

54 GV, b. 77, 6 gen 1670 mv.55 SI, b. 3, 19 ago 1724: «Li Fanti hanno Tariffa, mà chi mai può sapere, quanti, e

quali utili si procurano costoro oltre la Tariffa…».56 CdL, b. 17, Magistrato dei Proveditori sopra la Giustizia Vecchia. 1780 7 Ag.to letta

a SS CC, 13 lug 1554; CdL, b. 17, Notizie ritratte dal Sommario delli Capitolari intitolatiAntico, Rosso, Rosa et Orsa, voce «Fanti», 1 set 1627. Dei venti posti di fante, 12 erano didentro e 8 di fuori. Quelli «di dentro» valevano di più perché potevano assistere alle riu-nioni delle arti.

57 GV, b. 23, 16 feb 1627 mv.

fante pagò 120 ducati all’anno, oltre ad altri regali58. Nel 1628, dopo l’in -troduzione del giuramento, molti fanti testimoniarono che prima paga-vano di più (in un caso 120 ducati)59. Tali pratiche facevano della corru-zione un problema strutturale – i poliziotti erano praticamente obbligatia diventare corrotti per poter pagare gli affitti e al contempo guadagnarsida vivere. Una denuncia segreta del 1621 attribuiva al prezzo eccessivodegli affitti la causa degli abusi: «per causa delli grandi et eccessivi affittiche pagano alli principali di dette fanterie, che si vogliono vivere et pa-gar li loro affitti, convengono a viva forza tor in golla»60.

La polizia era dunque incentivata a moltiplicare le denunce perchériceveva una percentuale su qualunque multa imposta, ma, come abbia-mo visto, la Giustizia Vecchia ne approvava ben poche. L’alta percentualedi denunce registrate, ma non culminate in verdetto nel registro del1615, suggerisce che talvolta queste erano usate dalla polizia, in compli-cità con gli scrivani della magistratura, come mezzo per arrivare a uncompromesso con gli accusati. In alcuni casi la denuncia era apposita-mente fabbricata a scopo di concussione, tuttavia molti trasgressori pre-ferivano pagare direttamente i fanti anziché andare in tribunale. I Prov-veditori descrivevano come i fanti

non contentandosi delli honesti guadagni che da esso off[ici]o cavano […]quando denontiano li contrafat[t]ori delle leggi nell off[ici]o della G[iustizi]aV[ecchi]a, subito si accordano con li rei, non facendo piu le formationi delliprocessi, ne citando li rei a difesa, cosi che essi processi restano inespediti […]co[m]e si puo vedere in esso off[ici]o essendovi li centeniara di processi daespedir61.

Tali pratiche facevano salire i costi a danno di chi operava sul merca-to nero, piuttosto che indurre al rispetto delle regole. Il basso tasso dicondanne e la clemenza dimostrata dalla Giustizia inducevano a loro vol-ta la polizia a cercare di accordarsi con gli accusati, vista la bassa proba-bilità di ottenere una condanna o una multa considerevole.

Un buon esempio è il caso del fante Francesco Brugna, che durantel’indagine del 1628 risultò aver pagato 120 ducati all’anno per affittare ilsuo ufficio. A quel tempo si lamentava che «haveva pensiero di abando-

33

58 GV, b. 76, 16 feb 1621 mv.59 GV, b. 23, 16 feb 1627 mv.60 GV, b. 76, 21 lug 1621.61 GV, b. 21, pagine sciolte, s.d.: «non contentandosi delli honesti guadagni che da

esso off[ici]o cavano […] quando denontiano li contrafatori delle leggi nell off[ici]o del-la G[iustizi]a V[ecchi]a, subito si accordano con li rei, non facendo piu le formationidelli processi, ne citando li rei a difesa, cosi che essi processi restano inespediti», checontinua in margine, «co[m]e si puo vedere in esso off[ici]o essendovi li centeniara diprocessi da espedir».

nar l’off[ici]o perche non poteva vivere a pagar tanto affitto»62. Nel 1633lo incontriamo di nuovo. Dopo aver denunciato il marangon di nave(carpentiere) Vicenzo Penzo alla Giustizia Vecchia, Brugna gli disse cheper cinque ducati poteva essere assolto e Penzo accettò63. Dopo che Pen-zo fu assolto, però, non riuscì a pagare e la disputa degenerò subito, fuo-ri dall’aula del tribunale, concludendosi con l’imprigionamento del Bru-gna. In sua difesa Brugna disse che era solo un fante e che spettava algiudice punire gli accusati: «non son senon fante, et aspetta poi alGiud[ic]e assolvere ò condannar»64. Ammetteva però che avrebbe gradi-to un compenso per aver facilitato la difesa dell’accusato: «è ben veroche per le fatiche fatte nel citar molti test[imon]i à sua deffesa, doppoche fù assolto disse voler mi usar cortesia»65.

Da questo e altri casi si comprende uno dei motivi per cui artigiani,commercianti affermati e membri delle arti apparivano raramente pressola magistratura. Gli artigiani più affermati potevano evitare le attenzionidella polizia tramite «bustarelle», a cui ci si riferiva con l’eufemismo del-la «buona man». Quando apparivano in corte, erano chiaramente a loroagio: sapevano come presentare scuse efficaci, criticare i testimoni perl’accusa, produrre testimoni per la difesa, ed erano rappresentati da av-vocati. Per esempio il casarol Bortolo presentò una lunga lista dei suoi«nemici mortali» (e dei loro parenti) che bisognava escludere dai testi-moni dell’accusa66. I membri delle arti corporative erano i più importanticlienti del tribunale, nel senso che spesso assumevano gli stessi ufficiali,collaborando con essi, per processare i trasgressori degli statuti dell’arte.Era raro che finissero anch’essi sotto processo e anche se il verdetto eraloro contrario, di solito erano in grado di pagare qualunque multa senzadifficoltà; in alternativa andavano in appello. Con le risorse finanziarie el’appoggio dell’arte, era possibile portare il caso nei tribunali più alti del-la Serenissima. Di solito ciò accadeva soltanto quando vi era un princi-pio importante da difendere, quando un giudizio contrario poteva insi-diare i privilegi dell’arte.

I documenti evidenziano un alto livello di interazione fra le forzepubbliche e quelle private che regolamentavano i mercati, interazioneche va contestualizzata all’interno di un modello più allargato di Stato

34

62 GV, b. 23, 16 feb 1627 mv: «haveva pensiero di abandonar l’off[ici]o perche nonpoteva vivere a pagar tanto affitto».

63 GV, b. 76, 6 apr 1633.64 GV, b. 76, 6 apr 1633: «non son senon fante, et aspetta poi al Giud[ic]e assolvere

ò condannar».65 GV, b. 76, 6 apr 1633: «è ben vero che per le fatiche fatte nel citar molti te-

st[imon]i à sua deffesa, doppo che fù assolto disse voler mi usar cortesia».66 GV, b. 87, r. 103, fol. 10r: «nemici mortali».

della prima età moderna, nell’ambito di un sistema che operava princi-palmente tramite gruppi d’interesse locali. Gli ufficiali pubblici eranopoco affidabili come strumenti di comando della classe nobile dirigente,grazie al fitto intreccio di interessi privati espressi in termini di recluta-mento, lealtà e pagamento. Questi interessi privati erano sia leciti (trami-te i pagamenti delle arti) che illeciti (tramite corruzione e concussione).La pratica di accettare (o richiedere) una «considerazione» per alterare ilcorso della giustizia era considerata opera di corruzione dell’élite patri-zia, ma, dal punto di vista strettamente funzionale, rendeva la giustiziapiù propensa a rispondere agli interessi privati. In particolare, tale vuotodi autorità permetteva agli interessi delle corporazioni e dei privati didominare il mercato. Tradizionalmente, le arti veneziane sono state con-siderate deboli, senza alcun vero potere, mentre nel loro settore specificogiocavano invece un ruolo chiave, grazie al controllo materiale dell’ap-plicazione della giustizia. Ponendo maggiore enfasi sul piano della prati-ca anziché della teoria, sulla polizia piuttosto che sulla legge, arriviamo auna comprensione maggiore dello Stato in quest’età, e ad una miglioreconsapevolezza di come le leggi pubbliche potevano essere strumentaliz-zate dagli interessi privati. Se la giustizia veneziana del mercato puòquindi apparire mite e debole ai nostri occhi, dobbiamo tuttavia tenerpresente quali fossero le conseguenze di un tale stato di cose: la corruzio-ne degli ufficiali pubblici faceva sì che il popolo sopportasse i costi dellaconcussione e che, al contempo, venisse penalizzato dall’incapacità delloStato veneziano di applicare quelle leggi che avrebbero invece dovutoproteggere l’interesse pubblico e il consumatore ordinario (per esempiosulla frode alimentare).

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Mariaconcetta Basile

Consolati stranieri e ordine pubblico nella Sicilia del Settecento

La documentazione conservata nel codice che raccoglie «I privilegidel consolato di Genova» consente di riconsiderare sia i temi connessialle istituzioni proprie dei mercanti e di gruppi qualificati di stranierioperanti in Sicilia, sia il loro atteggiarsi verso le istituzioni locali, in unarco temporale che va dal XIII al XVII secolo1. L’accuratezza con la qua-le il manoscritto è stato vergato induce a ritenere che possa trattarsi diuna silloge ufficiale fatta eseguire dalla natio per raccogliere, in un unicoregistro, la cospicua documentazione (si tratta di 187 documenti) relati-va al consolato ligure. Tale fonte aggiunge taluni elementi di conoscenzautili per una migliore definizione dell’istituzione consolare e della suagiurisdizione, con specifico riferimento ai suoi rapporti con l’Universitaspalermitana2.

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1 I privilegi del consolato di Genova, codice cartaceo del XVIII secolo, depositatopresso il Dipartimento di Storia e Comparazione delle istituzioni giuridiche e politiche,Università degli Studi di Messina, si legge edito in M. Basile, Una «natio» straniera nellaSicilia medievale e moderna. I privilegi del Consolato di Genova a Palermo, Rubbettino,Soveria Mannelli 2007.

2 Sulla giurisdizione dei mercanti stranieri in Sicilia si veda in particolare: M. Tan-gheroni, Commercio, finanza, funzione pubblica: stranieri in Sicilia e Sardegna nei secoliXIII-XV, Liguori, Napoli 1989; A. Romano, Stranieri e mercanti stranieri in Sicilia nei se-colo XIV-XV, in Id. (a cura di), Cultura ed istituzioni nella Sicilia medievale e moderna,Rubbettino, Soveria Mannelli 1992, pp. 83-109; Id., La condizione giuridica di stranieri emercanti in Sicilia nei secoli XIV-XV, in M. Del Treppo (a cura di), Sistema di rapporti edélites economiche in Europa (secoli XII-XVII), Liguori, Napoli 1994, pp. 113-132; P. Cor-rao, Mercanti stranieri e Regno di Sicilia: sistema di protezioni e modalità di radicamentonella società cittadina, in ivi, pp. 87-112; M. Basile, A proposito della condizione degli stra-nieri in Sicilia. Note su una raccolta di privilegi del consolato genovese di Palermo, in A.Iglesias Ferreiros (a cura di), El dret comú i Catalunya. Actes del XI Simposi Internacio-nal. Barcelona (20-22 de maig de 2004), Associació Catalana d’História del Dret «Jaumedel Montjuïc», Barcelona 2005, pp. 305-317; Ead., Mercatores exteri e cives regni. La pre-senza genovese in Sicilia, in «Atti della Accademia Peloritana dei Pericolanti. Classe diScienze Giuridiche Economiche e Politiche», vol. LXXV, anno 2006.

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Nella capitale siciliana funzionava, infatti, dal 1463, un consolato ge-novese avente giurisdizione su tutti gli altri consoli liguri presenti nel Re-gnum3. L’officio del Consolato era di rilievo sia per quel che riguardava«l’honoranza e reputatione pubblica» che il governo genovese godevanel Regno «sia per il gran bisogno che di detto officio» aveva la natio ge-novese4. Con la concessione sovrana di un consolato e la connessa attri-buzione ad esso di talune prerogative giurisdizionali, la natio veniva, in-fatti, ad acquisire un valido riconoscimento politico-istituzionale, utileanche a limitare gli effetti dell’estraneità all’Universitas. Scopo del con-solato non era solo la tutela degli interessi politico-giurisdizionali e la di-fesa dei privilegi fiscali. La sua esistenza era giustificata anche da ragionidi prestigio e di salvaguardia dell’identità nazionale. Il console era, infat-ti, investito dell’amministrazione della giustizia fra i connazionali, concompetenza nelle vertenze civili e penali, e a lui erano riconosciute fun-zioni politiche5, esecutive6 e giudiziarie7.

3 Nel Quattrocento, Palermo era menzionata tra i maggiori centri della Sicilia nonsolo come importante piazza-mercato, ma anche in quanto emporio e sicuro punto dismercio e commercializzazione dei prodotti. La presenza di mercanti stranieri testimo-niava questa nuova vivacità commerciale, attestata anche dalle logge delle diverse nazioniintorno al porto della Cala [M. Giuffrè, La città verso il mare, in H. Bresc, G. Bresc-Bau-tier (a cura di), Mosaico di popoli, nazione ribelle: l’origine della identità siciliana, Rubbet-tino, Soveria Mannelli 1996, pp. 170-171]. Scrive il Di Giovanni: «I Genovesi han loggiabassa in un piano, con suo pavimento di pietra intagliata, con sedili e ferri dall’una parte,per riposarse la gente che negoziano, e dall’altra parte aperta, con una fonte, che versaacqua da dieci canali di bronzo» (V. Di Giovanni, Il quartiere degli Schiavoni nel sec. X ela loggia dei catalani in Palermo nel 1771, Tipografia dello Statuto, Palermo 1887, p. 19).Denominata in principio «Amalfitania», tale zona veniva, in seguito al Vespro, chiamataQuarterium Logiae. Vincenzo Auria ricorda un privilegio del 27 febbraio 1437 con ilquale Re Alfonso cedeva ai Catalani la loggia dei Genovesi, costringendo quest’ultimi acontinuare la trattazione dei loro affari nella medesima piazza, ma all’aperto (V. Auria,Notizie storiche di Sicilia, ms. Palermo, Biblioteca Comunale, Qq. C. 2 f. 367). A confer-ma di ciò gli atti del Senato dell’anno 1545 in cui si ritrovano annotate «suppliche et attiquando la Città dirrupao le case per fare la loggia et estime» nonché «una lettera iceregi-na di fare la Loggia et potere tasciare le nationi et li vicini» (V. Auria, Notizie storiche diSicilia, ms. Palermo, B.C. Qq. E. 15).

4 C. Federico, I mercanti genovesi in Sicilia e la chiesa della loro nazione in Palermo,Graf. Luigi Cappugi, Milano 1958, pp. 31-32.

5 Tra le funzioni politiche: tutelare l’onore della corporazione che rappresentavano,proteggere i connazionali da qualsivoglia offesa, aiutandoli specialmente se citati in giu-dizio innanzi a tribunali diversi da quello consolare (A. Lattes, Il diritto commerciale nel-la legislazione statutaria delle città italiane: studi, Hoepli, Milano 1882, p. 38).

6 Tra le funzioni esecutive: osservare e far osservare gli statuti, gli usi mercantili, ledeliberazioni dei consigli, provvedere all’elezione degli ufficiali e vigilare su di essi perpunire i negligenti, amministrare il patrimonio della corporazione curandosi che non siutilizzassero pesi, misure e monete false (Lattes, Il diritto commerciale nella legislazionestatutaria, cit., p. 38).

7 Tra le funzioni giudiziarie: giudicare in prima istanza sulle cause commerciali, ci-

Le sentenze consolari, non ammettendo l’eccezione di nullità o la re-stituito in integrum o il remedium gravaminis, erano inappellabili e, per-tanto, esenti dal sindacato di altra autorità laica o ecclesiastica che fosse8.Spettava al console l’amministrazione delle eredità giacenti dei connazio-nali deceduti nel Regno, come anche l’esazione delle pene pecuniarie,comprese quelle comminate dai predecessori. Riguardo a queste ultimenon aveva però potere di revoca o di annullamento9. Non è un caso che,nella seconda metà del secolo XVI, lo Stracca riferendosi alla giurisdizio-ne consolare sottolineasse come, per consuetudine, questa si estendesseanche al di fuori delle controversie consolari10. Al console ligure a Paler-mo era, altresì, riconosciuta la facoltà di eleggere il cappellano della cap-pella dei Genovesi sita nella Chiesa di San Francesco11, nonché di prov-

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vili e, in rari casi, anche penali (Lattes, Il diritto commerciale nella legislazione statuta-ria, cit., p. 38).

8 Come ricorda Carmelo Trasselli, è da tener presente che i consoli non erano giuri-sti e che, pertanto, essi giudicavano «soprattutto in base al buon senso e all’equità, la-sciando probabilmente al notaio le formalità della procedura»; C. Trasselli, Il consolatodei messinesi e il consolato del mare in Trapani (secc. XV-XVII), in «Archivio Storico Sici-liano», 2, 1947, p. 241.

9 Nel 1536, su istanza di Girolamo Risico, console genovese «in terra Corleonis», laMagna Regia Curia ordinava a tutti gli ufficiali «quod nullatenus habeant se intrometterein bonis genuensium mortuorum ab intestato», in quanto tale officio era competenza delconsole genovese in virtù dei privilegi concessi alla natio in Sicilia (I privilegi del consola-to di Genova, ff. 149r.-149v.; 326r.-326v.).

10 B. Straccha, Tractatus de mercatura seu mercatore, in De mercatura decisiones ettractatus varii, Ex typographia Bonaventurae Nugo, Lugduni 1592 (rist. an. Bottega d’Era -smo,Torino 1971), pp. 369-418.

11 La posizione eminente raggiunta nella città di Palermo dalla natio genovese, nonchéla sua integrazione nel tessuto socio-economico urbano del XV secolo risulta comprovatadalla costruzione di una sontuosa cappella nella chiesa di San Francesco che sappiamo esi-stente «tempore quo effodiebantur fundamenta maramme novi dormitorii dicti conventusSancti Francisci», ovvero già nel 1473 (F. Rotolo, La basilica di San Francesco d’Assisi in Pa-lermo, Scuola Tip. Salesiana, Palermo 1952, p. 91). Sappiamo, però, che la concessione diun formale privilegio per la costruzione della cappella era stata data da Sisto IV il 23 marzo1480, con provvedimento esecutoriato dal viceré Gaspare de Spes (Palermo, Archivio diStato, Protonotaro del Regno, vol. 95 ad annum 1479-80, f. 191). Circostanza suffragata dal-le dichiarazioni rese nel 1485 da Cristoforo da Como di aver costruito «certa arca et aliamaragmata conventus S. Francisci» e nel 1488 da Gabriele de Battista e Andrea Mancinodi aver fornito una colonna in marmo per la cappella dei Genovesi [Id., L’Oratorio di S.Giorgio e i Genovesi nella Basilica di San Francesco a Palermo, in Atti del Seminario di Stu-dio sulle interrelazioni tra il Regno di Sicilia e i Comuni di Genova e Pisa nell’Età di EnricoVII di Lussemburgo (Palermo 15-16 dicembre 1987), Istituto Storico Siciliano, Palermo1988, p. 90] e confermata da un documento in cui il console ed i massari della nazione ge-novese, nel 1589, informavano che «già sono anni cento et oltre che la detta natione havestato assolutamente padrona della cappella sub titulo di Santo Georgio essistente nell’in-claustro dello venerando convento di Santo Francesco» (I privilegi del consolato di Genova,ff. 321r.-324r.). Il Paterna-Baldizzi nota che il 18 dicembre 1480 Giacomo Leo, priore dellachiesa di San Francesco, concedeva al console genovese Umberto Spinola la licenza di desi-

vedere all’amministrazione della Chiesa di San Giorgio12 dove aveva luo-go l’elezione dei consoli, cui partecipava chi esercitava la mercatura in

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gnare, tra i frati della stessa, il cappellano per il servizio religioso (G. Cosentino, La Chiesadi San Giorgio dei Genovesi in Palermo, in «Archivio Storico Siciliano», 2, 1878, pp. 226-250). Lombardo riteneva che tale concessione fosse, invece, elargita dal Ministro del Con-vento di San Francesco al medesimo console nel 1486 (I privilegi del consolato di Genova,ff. 9r.-12r.; ASP, Fondo San Francesco d’Assisi, vol. 264, f. 724; Cosentino, La Chiesa di SanGiorgio, cit.). Nel 1682, in un’interlocutoria del giudice ecclesiastico designato dal vicerécon il voto della Regia Corte Criminale si disponeva che il console aveva facoltà, oltre chedi eleggere, anche di rimuovere dall’esercizio della propria funzione il cappellano (I privile-gi del consolato di Genova, ff. 357r.-357v.). Da un altro documento si ricava che fino al 1690il console della natio «solia eligere uno de monaci di detto convento per cappellano per ilculto di detta cappella» (ASP, Fondo San Francesco d’Assisi, vol. 264, f. 730).

12 Sulla cappella genovese nella Chiesa di San Francesco e sulla Chiesa di San Gior-gio si veda in particolare M. Basile, I luoghi di un’identità. La cappella dei genovesi e lachiesa di San Giorgio a Palermo, in «Atti della Accademia Peloritana dei Pericolanti.Classe di Scienze Giuridiche Economiche e Politiche», vol. LXXV, anno 2006.

La posizione della natio veniva rafforzata nel XVI secolo quando fu edificata la chiesadi San Giorgio. I Genovesi «procurarono fabbricare a loro spese una chiesa sotto titulo diS. Giorgio vicino alla porta pure nostra di S. Giorgio di questa città e cominciarono a fre-quentare in essa Chiesa» (I privilegi del consolato di Genova, f. 354r.). Nel XV secolo, iconfrati di San Luca non erano più in grado di assicurare la manutenzione del tempio sitoin prossimità della Porta di San Giorgio, che necessitava di urgenti restauri e, pertanto,cedevano, con atto del 9 luglio 1576, a «Giovanni Battista Iustiniani Console sostituto del-la nazione genovese in Palermo, in luogo di Agostino Ruvolo console ordinario, nonchéallo stesso Giovanni Battista Giustiniani ed Andrea De Nigro, massari, l’antica chiesa conl’atrio e le cose circostanti, allo scopo di fabbricarvi una chiesa in onore del glorioso mar-tire S. Giorgio ed uno Spedale pei genovesi», riservandosi il diritto di avere una cappelladedicata a San Luca ed un locale per la sepoltura sotto la cappella (ASP, Fondo notai de-funti, Notaio Barnaba Bascone, reg. 7459, f. 491r.). Nel 1602, un atto della Magna RegiaCuria stabiliva che l’«administratio ecclesiae Sancti Georgii spectet ad consulem nationisgenuensium» (I privilegi del consolato di Genova, ff. 279v.-281r.; 332r.-334r.). A seguitodella collocazione di una lapide da parte di Antonio Semeria nella Chiesa di San Giorgio«sine ordine» e consenso del console, la Magna Regia Curia ricordava che l’amministra -zione della Chiesa «et omnium ad eius aedificationem et decorem ac fundamentum et fa-bricationem monumentorum seu sepulchorum» era competenza del console della natio (Iprivilegi del consolato di Genova, ff. 279v.-281r.; 332r.-334r.). Un esempio significativo del-la funzione consolare si evince ad esempio da un documento del 17 gennaio 1683, in cuil’Arcivescovo Monsignor Palafox, impedito dal visitare la Chiesa di San Giorgio, ordinava«alli sudetti consule, massaro, rettori e cappellano» di far trovare la chiesa aperta «fra ter-mine d’hore 24» ed intimava di procedere «contro li rebelli e contumaci a sentenza discommunica disponendo che fossero segregati dal commercio, a communione de fedeli edel grembo di nostra Santa Chiesa e privi dell’uso delli Santi Sacramenti» quanti vi si op-ponessero. Una sentenza del Tribunale della Regia Monarchia ricordava che la Chiesa diSan Giorgio era esente dalla giurisdizione della Curia Palermitana e «non si ha potuto inconto alcuno procedere a detto asserto e nullo monitorio per non potere detto Reveren-dissimo Arcivescovo obligare detto consule, massaro, rettori e cappellano a permetterliche li visiti la sudetta Chiesa di San Giorgio e si ordinava al mastro notaro di detta visitache sotto pena di onze 100 d’applicarsi al fisco di questo tribunale habbii detto monitorioa cancellare» (I privilegi del consolato di Genova, ff. 358r.-360r.).

Palermo e, nel contempo, apparteneva alle 28 famiglie iscritte nei ruolidella nobiltà genovese13. Da un documento del 13 giugno del 1708 ap-prendiamo, inoltre, che il console genovese Giovanni Maria Spinottoveniva designato come capitano della fanteria per la «custodia y defen-sa de este fidelissima ciudad» e «para industriar la gente de dicha com-pania en el manejo de las armas». Al console veniva così concesso ilcompito di creare «alferes, sargente y cabos de esquadra […] con loshonores, gracias, preheminencias y todo lo demas que os toca y perte-nece y tienen las personas que son del fuero de la guerra»14. Riunita lanazione nella Chiesa di San Giorgio in Palermo, il console stesso, «fat-ta scielta de migliori soggetti», sorteggiava gli ufficiali che «dovevanoservire alla sua compagnia» e nominava 18 genovesi «per granatiericon tutte le loro baionette e folgarole con li armi della nazione, cappellibianchi con penne nere […] essendo il restante della compagnia nume-roso di più di 260 soldati fra pannieri genovesi e loro figli»15. Questodocumento contribuisce a dare una valutazione più completa della co-munità genovese nel Regno, nonché della rilevante funzione che la na-tio aveva ancora all’inizio del Settecento nel controllo e nella difesadell’ordine pubblico cittadino16.

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13 «È il cognome – nota l’Airaldi – il vero blasone di una storia genovese» (A.M.G.Scorza, Le famiglie nobili genovesi, Fratelli Frilli Editore, Genova 2003, p. 12). È interes-sante osservare come la formazione e l’organizzazione del consolato fossero strettamenteconnesse dalla storia delle famiglie nobili genovesi. Il legame di sangue costituiva, infatti,il nucleo fondamentale intorno al quale si organizzava la natio. Studiare il consolato ge-novese nel Regno di Sicilia significa, quindi, approfondire l’analisi dei gruppi familiariche gestivano il potere nel Regnum e più in particolare nel contesto cittadino palermita-no. Le funzioni che la famiglia mercantile era chiamata ad assolvere non rispondevano,infatti, soltanto ai rapporti con i consanguinei ma comprendevano anche l’affermazionee la difesa del prestigio della casata e la non meno rilevante gestione delle attività econo-miche che, richiedendo la disponibilità di grandi capitali, rendeva necessario mantenereuniti i patrimoni familiari (E. Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, in «Mélangesde l’École Française de Rome», 87, Roma 1975, pp. 241-302; D. Owen Hughes, UrbanGrowth and Family Structure in Medieval Genoa, in «Past and Present», 66 (1975), pp. 1-66; Id., Ideali domestici e comportamento sociale: testimonianze della Genova medievale,in Ch.E. Rosenberg (a cura di), La famiglia nella storia: comportamenti sociali e ideali do-mestici, Einaudi, Torino 1975, pp. 147-183).

14 I privilegi del consolato di Genova, ff. 403-405.15 I figli dei genovesi godevano nel regno della stessa esenzione dei nazionali nativi,

come si evince da un provvedimento del 1594 in cui, ad istanza del console Enrico deFranchis, si disponeva che i «genuenses et eorum filii non molestentur a capitaneis quarte-riorum in eundo ad museras et vigilias urbis sed pro supradictis causis accedere teneantursub ditto eorum consule nationis praedictae» (I privilegi del consolato di Genova, f. 407).

16 Già nel 1552 il Pretore palermitano aveva ingiunto al console genovese, in occa-sione della temuta invasione dei Turchi, di partecipare alla difesa militare della città (V.Vigiano, L’esercizio della politica. La città di Palermo nel Cinquecento, Viella, Roma2004, p. 14).

Sappiamo altresì che, ancor prima, il 14 dicembre 1628, il secretarioDon Agostino Daza scriveva al guardiano del porto di Palermo rappresen-tando la situazione di quanti «de noche van con peligro» e di quanti «pue-den fingir ser ministros de justiçia», chiedendo «que los tales no bayan denoche por esta execuçion sin la presençia del guardian del puerto». MarioSbriccoli ha osservato come delle attività messe in essere nella notte, iden-tificata come il tempo della mala praesumptio, si occupassero «gli statuticittadini e legislazioni degli stati, governanti e magistrature, polizie e con-fessori: i pericoli e i disordini che della notte erano l’implicito, esigevanodifese, disciplina, regole e, soprattutto, divieti»17. L’esistenza di norme con -suetudinarie, ovvero sociali e comportamentali assieme, fondavano la basegiustificativa per la presenza di una sorveglianza notturna. Il girare di not-te senza lume era, infatti, considerato segno di ostilità, connotando la pre-sunzione di dolo. Qualunque fossero le intenzioni, si riteneva, infatti, cheoffrisse un’occasione per i malintenzionati. Occorreva, pertanto, ancheuna sorveglianza notturna utile anche come intimidazione.

In talune evenienze, la natio extera veniva ad assumere funzioni para-militari, atteggiandosi a corporazione armata, pur non potendo essereassimilata ai corpi dell’esercito, in quanto priva di una professionalitàspecializzata. In tale funzione, quel qualificato gruppo di stranieri rap-presentava un’istituzione formalmente e socialmente integrata nel tessu-to cittadino, cui era affidata una funzione di polizia non priva di risvoltipolitici, pur permanendo sempre assolutamente autonoma. La conces-sione gratuita del porto d’armi, entrando nella logica dei privilegi, riba-diva il ruolo politico assunto dalla natio genovese, sottolineando un fat-tore di selezione sociale e – prendendo a prestito le parole di Livio Anto-nielli – era «connotazione dell’appartenenza a una funzione pubblica,con tutto quello che da ciò conseguiva in termini di status, di rispettabi-lità e, in genere, di importanza per la persona che ne era investita»18. Peri Genovesi residenti in Palermo, in una società dove le distinzioni forma-li marcavano corpi e istituzioni, il godimento di privilegi e immunità co-stituiva sia un’importante legittimazione del ruolo sociale che uno stru-mento d’integrazione socio-politica nel tessuto cittadino19.

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17 M. Sbriccoli, Nox quia nocet. I giuristi, l’ordine e la normalizzazione dell’immagina-rio, in Id. (a cura di), La notte. Ordine, sicurezza e disciplinamento in età moderna, Pontealle Grazie, Firenze 1991, p. 9.

18 L. Antonielli, Le licenze di porto d’armi nello Stato di Milano tra Seicento e Sette-cento: duttilità di una fonte, in L. Antonielli, C. Donati (a cura di), Al di là della storia mi-litare: una ricognizione sulle fonti, Seminario di studi (Messina, 12-13 novembre 1999),Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, p. 112.

19 L. Pezzolo, «Le armi proprie» in Italia, nel Cinque e Seicento: problemi di ricerca, inF. Fanfani (a cura di), Saggi di storia economica. Studi in onore di Amelio Tagliaferri, Paci-ni, Pisa 1998, pp. 55-72.

Con la concessione del porto d’armi, oltre al compito di controlloterritoriale, la natio, espletando i servizi di picchetto in occasione di cele-brazioni pubbliche, processioni religiose o anche di solenni esequie, ac-quisiva un’importante funzione di rappresentanza sociale20. Il protocollodel cerimoniale osservato in quelle funzioni serviva, infatti, alla legittima-zione dell’ordine, con un simbolismo che stabiliva differenze e gradi,rappresentando una società gerarchicamente articolata. Non a caso, il 13ottobre del 1645, il doge e i governatori della Repubblica di Genova or-dinavano al console Francesco Oldovino che il cerimoniale per l’uscitadella compagnia genovese nella città di Palermo avvenisse osservando unrigido cerimoniale, «non obstante qualsivoglia altro uso che vi fosse statosin’hora in contrario». In particolare, si disponeva che l’insegna della na-zione dovesse «stare appresso dell’alfiere», che l’uscita di tutta la compa-gnia in ordinanza «debba farse dalla casa del capitano di dove anco ha-verà da uscire l’insegna che anticipatamente vi si doverà portare da casadell’alfiere accompagnata, eccetto che dal capitano, da tutti gli officialidella compagnia et de una squadra di numero competente di soldate-sca». Si stabiliva, quindi, che al rientro della compagnia «con istessa in-segna debba andare a parare a casa di detto capitano e quindi, senza es-so, che doverà restare a sua casa, il resto d’ufficiali e buona parte di sol-dati accompagnarla a casa dell’alfiere» dove si dovrà conservare il mede-simo ordine21.

Non può destare meraviglia che la natio genovese, come pare potersiricavare dall’insieme della raccolta dei privilegi, presenziasse alle perio-diche manifestazioni che coinvolgevano l’intera communitas civiumPanhormi con un apparato simbolico fortemente ritualizzato che coin-volgeva le distinte gerarchie. Non a caso, nel citato documento del 1708,si legge che il console, «considerandosi esso ministro d’un potentato fo-rastiere» riteneva non dover «star soggetto» al magistrato della città, «at-

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20 Si veda la partecipazione della natio genovese nel 1571 all’arrivo di Giovannid’Austria in Palermo (I privilegi del consolato di Genova, ff. 297v.-298r.); nel 1575 allaprocessione in onore della Beata Cristina (ivi, f. 298r.); nel febbraio del 1666 al funeraledi Filippo IV (ivi, ff. 339v.-340v.); all’acclamazione dell’Imperatore Carlo VI il primo ot-tobre 1713 (ivi, ff. 413-417); all’ingresso di Vittorio Amedeo di Savoia in Palermo il 13ottobre dello stesso anno (ivi, f. 415); in occasione dei funerali del Principe VittorioAmedeo Filippo di Piemonte il 3 e 4 giugno 1715 (ivi, ff. 410-413); o anche per la ricor-renza del centenario del ritrovamento delle reliquie di Santa Rosalia, padrona della cittàdi Palermo (ivi, ff. 420-422). A testimonianza dell’importanza che la nazione genovese ri-vestiva nel regno il fatto che, nel 1623, al funerale del genovese Giovanni Battista Castel-lo oltre al console Camillo Pallavicino intervenivano «non solo il Reverendissimo Vicariodell’Illustrissimo Signor Cardinal d’Oria», Arcivescovo di Palermo, «ma anco li signorimarchesi Della Rocca, Sibillina e Delia e Fra Don Carlo Valdina ricevitore della religionedi Malta» (ivi, ff. 298v.-299r.).

21 Ivi, ff. 348r.-349r.

teso che, essendovi in città il sudetto Eccellentissimo Signor Viceré, vole-va immediatamente ricevere li comandi del medemo come capitan gene-rale». Il capitano della fanteria riteneva che il console non dovesse per-mettere che la compagnia della nazione andasse «a levare di guardia lacompagnia della Corte del Grande Almirante» e «ad essere levata diguardia da una compagnia di quartiere», sostenendo che fosse più con-sono sostituire la compagnia del Tribunale del Santo Officio venendo so-stituita, a sua volta, da quella della Curia del Grande Almirante, «attesoche, considerava che detta compagnia della nazione era la più degna siper intervenire alla detta guardia come auxiliaria, portando bandiere edinsegne genovesi, e per esser il capitano di essa ministro di principe, fo-rastiere, capo e principale della sua corte del contato»22.

Da un altro documento del 1718, emerge, inoltre, come, in occasionedi guerra, «riduttisi a fronte li due esserciti in questa piana di Palermo, ilCesareo sotto il comando dell’Eccellentissimo Signor Conte Mercy e ilspagnolo dell’Eccellentissimo Signor Marchese di Lede», il pretore diPalermo, Conte di S. Marco, ordinava a Giovanni Maria Spinotto, con-sole della natio, «di presentarle il rollo de suoi nattionali per farli uscirein custodia della quiete della città. Dal qual rollo esso pretore ne cavòdue sole squadre di quaranta soldati», la prima delle quali fu assegnata alcomando dello stesso console «per la custodia del piano di San Onofrio»e la seconda a Giovanni Battista Scasso e Colli «per la custodia del pianodella Loggia. Le dette quadre uscirono in guardia molti giorni» fino al-l’armistizio del 2 maggio 1720, in cui «fu stabilito di dare l’esecutione al-l’evacuatione de spagnoli»23.

Pochi esempi, quelli citati, dai quali mi sembra però possa ricavarsiche la natio genovese, attiva a Palermo e istituzionalmente raccolta intor-no al consolato, s’impegnava a svolgere un duplice ruolo: la difesa dellacittà dai pericoli esterni e la tutela dei costumi, con funzioni sostanzialidi polizia, costituendo, almeno nel Settecento, una componente urbanaattiva all’interno della vita cittadina, al di là della non appartenenza poli-tica all’Universitas.

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22 Ivi, ff. 403-409.23 Nel 1625 il cardinale Gioannettino Doria, ad istanza del console Orazio Lomelli-

no, disponeva che lo stesso console ed i suoi successori «ex nunc in antea semper, quan-docunque et in perpetuum, in omnibus et quibuscunque negotiis publicis et privatis»potessero liberamente avvalersi della presenza di «missum seu nuncium nationis praedic-tae cum eis massa, cum armis». Privilegio questo concesso anche alla natio catalana (I pri-vilegi del consolato di Genova, ff. 335v.-336r.).

APPENDICE

1645, ottobre 13

Il doge ed i governatori della Repubblica di Genova ordinano al conso-le genovese Francesco Oldovino che l’alfiere Serravalle sia rilasciato e cheper l’avvenire il cerimoniale per l’uscita della compagnia genovese dallacittà di Palermo si svolga secondo un rigido protocollo.

Lettera della Republica del modo d’osservarsi nell’uscire la compagnia della natione genovesa

di questa città di Palermo.

Duce e governatori della Republica di Genova.Molto magnifico nostro console, intesimo con sentimento la settima-

na a dietro della nostra de 10 d’agosto passato l’incontro che nell’occa-sione dell’uscita della compagnia della natione in l’occorrenza avisata viseguì con l’alfiere Serravalle l’attione del quale si come è stata da noi di-sapprovata cossì sopra quanto ci ha riferito il magistrato nostro di guerraal quale didimo a considerare questo negotio habbiamo risoluto che inl’avvenire in simili occorrenze l’insegna debba /f. 348 v/ bonissimo stareappresso dell’alfiere et in sua casa però l’uscita di tutta la compagnia inordinanza debba farse dalla casa del capitano di dove anco haverà dauscire l’insegna che antecipatamente vi si doverà portare da casa dell’al-fiere accompagnata eccetto che dal capitano da tutti gli officiali dellacompagnia et de una squadra di numero competente di soldatesca e chepoi al retorno tutta detta compagnia con istessa insegna debba andare aparare a casa di detto capitano e quindi senza esso che doverà restare asua casa il resto d’ufficiali e buona parte di soldati accompagnarla a casadell’alfiere dove haverà da conservarsi quest’ordine. Dunque farete cheregistrato hora bisogna si osservi inviolabilmente per l’advenire non ob-stante qualsivoglia altro uso che vi fosse stato sin’ hora in contrario nonsi saria lasciato imprevisto l’accesso di detto Serravalle quando non gliel’havessimo attribuito più a trascorso d’ignoranza che a difetto di mali-tia che perciò condonandoli per hora il meritato castigo attesa massimela mortificatione che haverà havuto di carcere vi ordiniamo lo facciaterelasciare quando non sia per anco seguito aspettando da voi a suo tem-po aviso del seguito et caetera. Genova, 13 ottobre, 1645.

Giovan Mattheo Durazzo.

Al molto magnifico Francesco Oldoino nostro console.Palermo. /f. 349 r/ La sudetta lettera fu scritta a caussa che nell’anno

13a indictione 1645 nel mese d’agosto d’ordine dell’Illustrissimo et Ex-

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cellentissimo Signor Marchese de Los Veles, vicerè in questo Regno, sibuttò bando di mostra generale e perché le nationi furono ammesseconforme al solito d’andare sotto li loro consoli. Per ciò di ordine delspettabile Francesco Oldoino, console generale dell’inclita natione geno-vesa in questa città di Palermo, foro da notar Mario Taranto, mastro no-tario di detta natione, raccolti tutti li Genovesi e figli di Genovesi perdover uscire ad ogni comandamento di detto spettabile signor consolecon loro armi alla mostra generale.

Spettabile Francesco Oldoino capitano.Marco Aurelio Serravalle alfiere.Antonio Borgisi sergente.Ambrosio Cova sergente.Francesco Buagni sergente.Signorino de Orlando sergente.Oltre delli sopradetti officiali si notarono e rollarono li detti Genove-

si e figli di Genovesi al numero di setticento e sei come si leggono nel li-bro antico nero delli privileggi antichi fol. 242 e nella mostra di questa fudato l’ordine sudetto dalla Serenissima Republica di Genova per regolaper altre occasioni. /f. 349 v/

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Vincent Milliot

La police des métiers ambulants et des métiers non corporés de Paris au 18e siècle

Comment la police de Paris, au Siècle des Lumières, obtient-elle lapaix sociale, la subordination des catégories les plus nombreuses de lapopulation parisienne, celle des salariés et du monde du travail? Elle agitschématiquement dans trois directions1. Elle veille, tout d’abord, à assu-rer la régularité et le volume de l’approvisionnement pour les denrées depremière nécessité (les grains, farine et viandes), ce qui détermine l’im -portance de ses interventions préventives et régulatrices sur le marché etl’accumulation réglementaire sur ces domaines2. Elle conserve ensuiteune attitude malthusienne à l’égard d’une croissance de la population ju-gée excessive, ce qui conduit à la dilatation d’un périmètre urbain deve-nu par contrecoup difficile à gérer. Les arguments de Delamarre en 1702lors du découpage des quartiers de police, sont encore ceux de Lenoirdans les années 1780 au moment de la construction de la muraille desFermiers généraux qui suppose l’extension du périmètre de la capitale3.Les autorités de police produisent tout un arsenal réglementaire visant àcontrôler la mobilité des populations, notamment centré sur la sur-veillance des lieux d’accueil4. L’entreprise est pratiquement vaine (la po-lice en convient), mais elle est essentielle pour expliquer la mise en place

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1 D. Roche Le peuple de Paris. Essai sur la culture populaire au XVIIIe siècle, Aubier,Paris 1981, pp. 278-286; S. Kaplan, Réflexions sur la police du monde du travail, 1700-1815, «Revue Historique», CCLXI, n. 1, janvier-mars 1979, pp. 17-77.

2 S. Kaplan, Les ventres de Paris. Pouvoir et approvisionnement dans la Franced’Ancien Régime, Fayard, Paris 1988; R. Abbad, Le grand marché. L’approvisionnementalimentaire de Paris sous l’Ancien Régime, Fayard, Paris 2002, pp. 58 et suiv.; sur le lienentre approvisionnement et conflits du travail, H. Burstin, Conflitti sul lavoro e protestaannonaria a Parigi alla fine dell’Ancien Régime, «Studi storici», 1978-4, pp. 735-775.

3 J.-C.-P. Lenoir, Mémoires, Titre 13, «De la police administrative», MédiathèqueOrléans, fonds ancien, Mss 1422, fol. 896.

4 D. Roche (dir.), La ville promise. Mobilité et accueil à Paris (fin XVIIe-début XIXe

siècle), Fayard, Paris 2000.

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de dispositifs bureaucratiques et pratiques de contrôle des populations.Enfin, le troisième front est celui de la défense et de la valorisation dutravail, conçu à la fois comme une obligation morale et religieuse (il fautracheter le péché d’Adam et ne pas se soustraire à sa condition d’hom -me), mais également, de plus en plus au 18e siècle, comme obligation so-ciale parce que le travail a des vertus intégratrices et confère une placedans la hiérarchie des états. L’évolution des discours et des représenta-tions sur la pauvreté et le vagabondage l’atteste suffisamment: le «refus»de travail (paresse, fainéantise du mendiant forcément vicieux) est assi-milable à un acte séditieux, à un crime anti-social5.

À lire le Mémoire sur la police de Paris en 1770 du commissaire Le-maire, les papiers du Lieutenant de police Lenoir, ou encore le Diction-naire de la Police de Nicolas Des Essarts, il ressort que le but principal dela police du travail, c’est le maintien de la subordination des bassesclasses du peuple6. Dans l’idéal, cette subordination est obtenue par la re-production d’un modèle de sujétion domestique, fait de paternalisme etde déférence, celui de l’autorité qui lie le serviteur à son maître7. L’expres -sion institutionnelle majeure de cette police, ce sont les communautés demétiers qui inculquent aux apprentis et aux compagnons le sens de la hié-rarchie tout en assurant la formation professionnelle, qui moralisent leséchanges et la production en garantissant, par leurs règlements, la qualitédes produits et la régulation de la concurrence, qui contrôlent la mobilitéouvrière en tenant des bureaux de placements et en délivrant certificats etcongés. Les statuts de corporations délivrent à la fois une vision de l’or -dre social et soulignent le rôle actif, préventif que doivent jouer les corpo-rations en contrôlant les recrutements et les conditions de travail, en pré-venant les conflits. On peut donc considérer que dans l’esprit de la poli-ce, les corporations constituent des «auxiliaires naturels». Mais ce systè-me qui repose sur une forte limitation (ou volonté de limiter) la libertéd’action des salariés (liberté de s’embaucher chez le maître de son choix,liberté de négocier son salaire, d’organiser son temps de travail) est rongépar le manque de solidarité effective entre les maîtres et par l’existence devastes secteurs du salariat, non-corporés8.

5 B. Geremek, La potence ou la pitié. L’Europe et les pauvres du Moyen Age à nosjours, Gallimard, Paris 1986.

6 Sur le mémoire de Lemaire, S. Kaplan, V. Milliot, La police de Paris, une «révolu-tion permanente»? Du commissaire Lemaire au lieutenant de police Lenoir, les tribulationsdu Mémoire sur l’administration de la police (1770-1792), C. Denys, B. Marin, V. Milliot(dir.), Réformer la police. Les mémoires policiers en Europe au XVIIIe siècle, Presses uni-versitaires de Rennes (PUR), Rennes 2009, pp. 69-116.

7 V. Milliot, Paris en Bleu. Images de la ville dans la littérature de colportage (XVIe-XVIIIe s.), Parigramme, Paris 1996, pp. 106-124, et P. Minard, Typographes des Lumières,Champ Vallon, Seyssel 1989, pp. 77-84.

8 S. Kaplan, Les corporations, les «faux ouvriers» et le faubourg Saint-Antoine au

Quel type de contrôle s’exerce alors et pour conjurer quels risques?Comment la police d’Ancien Régime concile-t-elle sa vision organique del’ordre social avec la mobilité constante, «l’inorganisation» structurelle desmétiers de la rue, des salariés sans corps et sans état? Quels dispositifs in-vente-elle pour contrôler cet univers «non-corporé»? Dans quelle mesureceux-ci n’offrent-ils pas une ressource au moment de la tentative d’abo -lition des corporations par Turgot en février 1776, voire au-delà au momentde leur «refondation» en août de la même année9? Comment pourrait-onqualifier l’attitude de la police, sans doute plus nuancée, que ce que cer-tains discours et représentations sur les «sans état» laisseraient supposer?

Les périls de la liberté : la nécessité de policer les métiers non-corporés

Au sein d’une population parisienne en constante augmentation etqui est traversée par de grands mouvements de flux et de reflux – possi-blement 100.000 entrées annuelles dés le milieu du 18e siècle – le mondedu travail «inorganisé» est majoritaire10. Tous ceux qui font partie de cetunivers ne font pas l’objet d’une méfiance identique, ne présentent pasles mêmes risques. La frange la plus inquiétante est celle des métiers sansaucune qualification, colporteurs de marchandises diverses, regrattiers,gagne-deniers, les métiers de la première ou de la dernière chance quimobilisent les migrants de fraîche date, les chômeurs, les veuves, les es-tropiés. Ce groupe existe structurellement parce qu’il se nourrit de tousceux qui sont frappés par les difficultés de l’existence, par tous ceux quisont en marge du marché du travail stabilisé. Mais il existe aussi parcequ’il témoigne des opportunités de survie que la ville offre, à conditiond’être débrouillard, et parce qu’il est adapté aux conditions de vie et auxmodes de consommation du plus grand nombre qui trouve auprès descolporteurs et marchands de rue, en petite quantité et à bas coût, cedont il peut avoir besoin. La police est donc prise entre la reconnaissan-ce pragmatique d’un phénomène qu’elle ne peut endiguer et le souci deparer à certains risques.

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XVIIIe siècle, «Annales ESC», 1988-43, pp. 353-378, et La fin des corporations, Fayard,Paris 2001; H. Burstin, Conditionnement économique et conditionnement mental dans lemonde du travail parisien à la fin de l’Ancien Régime: le privilège corporatif, «History ofEuropean Ideas», Vol. 3, 1982-1, pp. 23-29.

9 Kaplan, La fin, cit., chap III.10 J. Kaplow, Les noms des rois. Les pauvres de Paris à la veille de la Révolution, Mas-

pero, Paris 1974; Roche (dir.), La ville promise, cit., chap. IV; H. Burstin, Unskilled Laborin Paris at the End of the Eighteenth Century, dans T.M Safley, L.N. Rosenband (dir.),The Workplace before the Factory. Artisans and Proletarians, 1500-1800, Cornell Universi-ty Press, Ithaca and London 1993, pp. 63-72.

«Les risques du (petit) métier»

Les représentations sociales et les sources normatives délivrent unmessage clair: «Il n’est pire profession que n’avoir aucune profession»,c’est-à-dire d’être agrégé au magmas indistinct des êtres sans état. Dansson Traité des Ordres et des Dignitez (1607), le juriste Loyseau exprimefort bien cette méfiance: «il y a des métiers qui gisent plus sur la peinedu corps, qu’au trafic de la marchandise, ni en la subtilité de l’esprit, etceux là sont les plus vils»11. A près de deux siècles de distance, les obser-vateurs moraux comme Rétif ou Mercier font écho. Le portrait que Rétifbrosse du chanteur de rue dans les Nuits de Paris est éloquent: «j’ai tou-jours abhorré les chanteurs de rue, et en général tous les colporteurs; cesont des misérables sans moeurs, des fainéants, des inutiles»12. La formu-le de Rétif concentre une part des griefs que l’on peut faire à tous ceuxqui appartient à groupe sans cadre, sans règles, sans police.

La première crainte est morale et sociale, car rien ne lie ces salariés,rien ne leur impose l’obéissance. Ils sont mal connus dans la mesure oùnombre de migrants se retrouvent parmi eux. L’assimilation au vaga-bond est rapide; les temps de guerre ou d’épidémie ravivent dans la lé-gislation l’image du «sans aveu», pourvoyeurs de miasmes et de faussesnouvelles, du mendiant surnuméraire risquant de devenir une chargepour la collectivité. L’absence d’encadrement et de contrôle fait de cetunivers l’antichambre de la délinquance. S’il existe un colportage demarchandise bien inséré dans un commerce structuré, au long cours,aux réseaux organisés et qui mobilise des capitaux non négligeables, lecolportage dans les rues des villes est bien pour une part le résultat d’unprocessus de marginalisation, d’une insertion ratée13. Le recours peutêtre temporaire ou définitif et fixer un individu aux frontières de la men-dicité. Antoinette Meunier, 45 ans, décrit devant un commissaire pari-sien, ce qui pousse son mari à chercher sa survie dans les rues à l’entréede l’hiver 1748: «s’étant trouvé sans un sol, et n’ayant pas occasion detravailler pour gagner de l’argent, il a proposé de prendre quelques me-lons pour les revendre et pour avoir du pain […] C’est l’extrême misèrequi l’a obligé». François Jacquot, aubergiste demeurant Place des PetitsCarreaux, à proximité des Halles, décrit ce basculement, le moment quiconduit au vol et à la fuite l’un de ses clients. «Le Sieur Ponsard ne cou-

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11 Cité par V. Milliot, Le travail sans le geste. Les représentations iconographiques despetits métiers parisiens (XVIe-XVIIIe siècles), «Revue d’Histoire Moderne et Contempo-raine», 41-1, janvier- mars 1994, pp. 5-28.

12 N. Rétif de la Bretonne, Les nuits de Paris ou le spectateur nocturne, Editionsd’aujourd’hui, Paris 1974 (Londres 1788), p. 158.

13 L. Fontaine, Histoire du colportage en Europe, XVe-XIXe siècle, Albin Michel, Pa-ris 1993.

chait plus depuis quelques temps chez lui […] [Il] cherchait à gagner savie de différente façons, soit à décrotter, soit à vendre des petits pâtés».L’aubergiste Jacquot dépose «qu’il se souvient bien qu’il le pria de bienvouloir répondre pour lui au pâtissier du faubourg Saint-Denis d’unetrentaine de sols pour fourniture de petits pâtés, et que c’est depuis cetemps que Ponsard n’est plus venu coucher chez lui». Les archives poli-cières, judiciaires ou hospitalières disent bien la destinée ordinaire de ces«gibiers de potence». Mais l’assimilation, systématiquement faite par lesobservateurs moraux entre ce monde et celui de la dépravation morale etdélinquante, a ses limites. Les prostituées parisiennes du XVIIIe sièclesont majoritairement des migrantes et appartiennent au monde du tra-vail, mais les petits métiers des rues ne constituent pas le groupe profes-sionnel le mieux représenté14.

Le deuxième risque est socio-économique. Il recoupe la crainte desmaîtres de boutique et d’ateliers de voir se développer une concurrencesauvage à leurs portes. Ces derniers dénoncent des activités qui se déve-loppent dans des espaces, à des moments propices à la fraude. Ils sus-pectent toujours l’honnêteté des transactions – la revente fait craindrele recel –, la qualité des produits vendus sans la garantie du règlementcorporatif. Et la police parisienne emboîte le pas. Les marchandsd’oublies ou les marchands d’huîtres à l’écaille, tous ceux qui exercentleur activité à la tombée du jour son étroitement surveillés. En Dé-cembre 1710, une ordonnance de Police du Lieutenant d’Argenson in-terdit «à peine de 300 livres d’amende et de punition corporelle», decrier, vendre et débiter des huîtres à l’écaille après huit heures du soir.Ce colportage occasionne le rassemblement «de soldats travestis et genssans aveu» qui crient les jours maigres «depuis huit heures du soir jus-qu’à minuit […], ce qui donne lieu à quantité de débauches qui se fontà des heures indues dans les cabarets et autres lieux, troublent la tran -quillité publique et sert de prétexte à quantités de vols»15. Les oublieurs,ces apprentis pâtissiers, compagnons ou domestiques de maîtres pâtis-siers qui débitent des gâteaux, se heurtent aux mêmes restrictions. En1678, le Châtelet dénonce les occasions de débauche, de jeu et de fai-néantise occasionnées par le colportage, comme autant de temps perdupour l’apprentissage. Confron tés à des vagabonds qui crient des oublieset en profitent, une fois introduits dans les maisons, pour commettredes larcins, la communauté des pâtissiers impose aux marchands d’ou -blies de porter désormais un certificat délivré par un maître16.

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14 E.-M. Benabou, La prostitution et la police des moeurs au XVIIIe siècle, Perrin, Pa-ris 1987, pp. 276-320.

15 N. Des Essarts, Dictionnaire universel de police…, Paris 1786, III, pp. 460-461.16 N. Delamare, Traité de la police…, Paris 1719-1738, III, Livre V, pp. 476 et suiv.

Enfin, le risque sanitaire prend au 18e siècle le relais du risque épidé-mique devenu moins présent. Louis-Sébastien Mercier ne cache pas sondégoût devant les «mets hideux» proposés par certains regrattiers17. Lecontrôle du petit commerce alimentaire et des marchandises recycléess’inscrit dans un combat pour une meilleure santé publique, pour unemeilleure gestion des flux de l’immondice, pour le cantonnement etl’expulsion des activités polluantes qui mobilise médecins des Lumières,moralistes et administrateurs18. Ainsi les chiffonniers susceptibles «d’in -fecter l’air» ne peuvent-ils travailler qu’à la pointe du jour.

Une incorporation à la marge

Mais rien ne serait plus faux que d’imaginer la «police» de ces mé-tiers comme s’exerçant uniquement à travers des interdictions sur ununivers de professionnels totalement inorganisés et sans lien. Le Livredes métiers du prévôt Étienne Boileau évoque, dés le XIIIe siècle, descolporteurs de rue plus ou moins subordonnés aux métiers établis. Lesstatuts de métiers tentèrent très tôt d’en limiter le nombre afin d’éviter laconcurrence sauvage; le plus souvent, ils limitaient le nombre de colpor-teur à un seul par atelier et réservaient le droit de colporter des marchan-dises aux maîtres appauvris ou aux veuves, par exemple dans le domainede la librairie19. En fait ce qui frappe, c’est que sans être directement liésà l’atelier ou à la boutique, certains métiers ambulants finissent par adop-

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17 «Au détour de cette rue, dans cette étroite échoppe, qu’aperçois-je sur ces as-siettes mutilées? Quels sont ces restes où la moisissure a déjà déposé sa première em-preinte? Ces restes, rebut des valets, après avoir touché la bouche d’un évêque quis’est arrêté par réflexion pour donner la préférence à un autre morceau, ont été dédai-gnés des marmitons; ils sont destinés à descendre dans l’estomac des pauvres, aussimaigres que les marmitons sont gras. Ceux-ci les ont ramassés pêle-mêle, et les ontvendus à des regrattiers qui les exposent à l’air»; L.-S. Mercier, Le Tableau de Paris,CDXXXII, «Mets hideux», sous la direction de J.C. Bonnet, Le Mercure de France,Paris 1995, I, p. 1183.

18 La pathologie urbaine a tôt fait de rejoindre la pathologie physique et moralede ceux qui exercent ces activités et qui préfigurent les traits prêtés aux classes dange-reuses; L. Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses, Plon, Paris 1958, XX-VIII, p. 566 (rééd. Le Livre de poche, Paris 1978); A. Faure, Classe malpropre, classedangereuse? Quelques remarques à propos des chiffonniers parisiens au XIXe siècle et deleurs cités, dans L. Murard, P. Zylberman (dir.), L’haleine des faubourgs. Ville, habitatet santé au XIXe siècle, «Recherches», n. 29, 1977, pp. 79-102; S. Barles, La ville délé-tère. Médecins et ingénieurs dans l’espace urbain, XVIIIe-XIXe siècle, Champ Vallon,Seyssel 1999, et L’invention des déchets urbains, France, 1790-1970, Champ Vallon,Seyssel 2005.

19 H.-J. Martin, Livre, pouvoirs et société à Paris au XVIIe siècle, Droz, Genève 1969(rééd. 1999), I, p. 356.

ter une organisation proche de celui des jurandes. C’est le cas exception-nel des marchands de vieilles ferrailles, érigés en corps de métier en 1681à Paris, mais qui n’ont pas d’apprentissage à effectuer, ni de chef d’oeu -vre à réaliser. Les crieuses de vieux chapeaux et de vieux habits, elles,«ne composent point de communauté, mais observent entre-elles une es-pèce de discipline et ont des usages qui leur tiennent lieu des statutsqu’ont coutume d’avoir les corps les mieux réglés», comme le note Sava-ry des Bruslons20.

L’emprise du modèle corporatif s’exerce sur les métiers non organi-sés d’abord parce que c’est une façon de se voir reconnaître une dignité,de nouer des formes d’entraide et de solidarité entre les membres d’unemême profession, en particulier dans les cas d’adversité. Une contesta-tion survenue en mars 1773, entre les chanteurs et vendeurs ambulantsde livrets de chansons Portier, Meunier et Deshaye et l’imprimeur-li-braire Valleyre l’aîné est de ce point de vue éloquente21. Dans leur lettreau lieutenant général de Police Sartine, ils se plaignent de la «nomméeTruchau, dite la Jeunesse, aussy vendeuse de chansons», qui est l’épou -se de Valleyre. Ils l’accusent de concurrence déloyale et de contrefaçoncar elle débite des livrets imprimés par son mari, moins onéreux etmoins volumineux que ceux de douze pages consacrés par l’usage. Lemémoire que Valleyre adresse en retour à Sartine exprime la morgue etle mépris du métier organisé à l’égard des ambulants, agrégat d’indivi -dus indistincts:

Voicy la première fois que les chanteurs du Pont-Neuf ont imaginé qu’ilsformaient un corps. Il faut bien que cette chimère les abuse puisque c’est encorps qu’ils citent un libraire devant le tribunal du magistrat. Cependant la Li-brairie n’a jamais reconnu l’existence de cette prétendue société: c’est beaucoupmême si elle croit devoir placer les chanteurs de rue dans la classe des colpor-teurs…

L’attitude de la police s’avère dans les faits, nuancée et pragma-tique, comme si elle mettait en place ou accompagnait, au cas par cas,une sorte d’incorporation «tacite». Les Forts des Halles ou plumets enfournissent un bon exemple. Supplétifs des porteurs et mesureurs degrains – ces petits officiers de la police économique dépendant duChâtelet pour la Halle et de l’Hôtel de ville pour les ports –, ils sontchargés de procéder aux opérations de déchargement et de charge-ment des grains ou des farines et sont recrutés parmi la foule des jour-

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20 J. Savary des Bruslons, Dictionnaire universel de commerce…, Copenhague 1759-1765, I, p. 1614.

21 Bibliothèque nationale de France (BnF), coll. A. Duperron, Mss fr. 22116, fol. 82à 88 bis.

naliers non qualifiés22. Longtemps non reconnus comme groupementprofessionnel ayant une place dans la structure corporative, ces gagne-deniers se sont en fait organisés officieusement pour faire valoir leursdroits face aux acheteurs et aux vendeurs, pour réguler la concurrenceentre-eux. Illicites et interdites, les «bandes de forts de la Halle» sont to-lérées dès les années 1720 et les autorités de police leur fournissent desrèglements, ayant valeur de statuts, pour organiser les modalités de leurrecrutement et de leur identification – un médaillon numéroté, commedans le cas des colporteurs de livres. À charge pour ces bandes, dotés de«syndics» nommés par la police, intermédiaires possibles pour trans-mettre «en corps» d’éventuels griefs, de maintenir l’ordre en leur sein.Mais puisque toutes les activités fourmillantes de la rue ne peuvent êtreforcément policées sur ce modèle, force est pour les autorités de conce-voir des dispositifs plus universels.

Les formes du contrôle

Pour la police parisienne au 18e siècle, rien n’est finalement pire quel’opacité, l’anonymat, l’absence de «traçabilité» des marchandises et deshommes. Cette police est littéralement obsédée par la dissimulation, letravestissement d’identité dans une société de circulation où les formesanciennes d’inter-connaissance deviennent de moins en moins opéra-toires23. Se cacher, ou simplement se soustraire au regard des autoritésest un indice sérieux de suspicion, voire une preuve de malfaisance24. Lapolice, le «magistrat» doivent «quand il [leur] plait» savoir, «où Pierre,où Jacques couche, depuis quand, ce qu’il est, d’où il vient, ce qu’il fait,ce qu’il est devenu, s’il existe ou non dans la ville, et dans le cas qu’il ysoit, où (ils pourront) le trouver»25.

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22 S. Hamdi, Les officiers de la police économique à Paris sous le règne de Louis XIV,sous la direction de R. Descimon, Doctorat de l’EHESS, 2007; S. Kaplan, Les ventres deParis. Pouvoir et approvisionnement dans la France d’Ancien Régime, Fayard, Paris 1988,pp. 464-467.

23 G. Noiriel, Les pratiques policières d’identification des migrants et leurs enjeuxpour l’histoire des relation de pouvoir. Contribution à une réflexion en «longue durée»,dans M.C. Blanc-Chaleard et al., Police et migrants, France 1667-1939, PUR, Rennes2001, pp. 115-132; D. Garrioch, Neighbourhood and community in Paris, 1740-1790,Cam bridge University Press, Cambridge 1986, et The people of Paris and their Police inthe Eighteenth Century: reflections on the introduction of a «modern» Police force, «Euro-pean History Quaterly», t. XXIV, 1994, pp. 511-535.

24 Kaplan, Réflexions, cit., pp. 17-77.25 J. Seznec (éd.), Mémoire sur la réformation de la police de France… par M. Guillau-

té (1749), Hermann, Paris 1974, p. 47.

Registres et inventaires

Ce programme, ici idéalement présenté et résumé par l’exempt de lamaréchaussée Guillauté, par ailleurs collaborateur de l’Encyclopédie, estabsolument récurrent tout au long du XVIIIe siècle, tant à travers des do-cuments qui témoignent de l’activité quotidienne de certains auxiliairesdu Châtelet que dans des réflexions plus en surplomb. Le Précis que lesinspecteurs de police adressent en 1756 au procureur du Roi au Parle-ment, Joly de Fleury, traduit par exemple l’importance de cette activitéd’enregistrement et de vérification de ce type de documents qui incom-bent à ces agents de «police active»26. Le registre que tient l’in specteurPoussot, du quartier des Halles, vers 1750, montre à la fois l’importanceprise par l’écrit bureaucratique dans la pratique policière et le lien quiexiste entre l’enregistrement et le contrôle de certains métiers – les fortsdes halles, dans le cas présent – qu’il suit et inventorie27. L’arrêt du conseilroyal du 23 août 1767, qui ordonne à «tous marchands vendant par poidset mesures et tous autres faisant profession de quelque trafic de marchan-dises, arts ou métiers, soit en boutiques ouvertes, magasins chambres, ate-liers ou autrement, ou exerçant des professions qui intéressent le com-merce, ou qui concernent la nourriture, logis, vêtements et santé des ha-bitants», non membres des corporations de s’inscrire sur les registres duChâtelet dans un délai de trois mois, traduit cette volonté d’enregistrerpour connaître, de connaître pour mieux contenir28.

Le registre et l’inventaire répondent aux divers risques véhiculés parles professions «libres» (sanitaires, sociaux, etc.). L’écrit est un principed’ordre, l’enregistrement se substitue à l’incorporation parce qu’il donneà la police le moyen de contrôler professionnels et activités. La réorgani-sation du Bureau des nourrices sous Sartine en 1766 traduit la volontépolicière d’organiser et de contrôler un marché de services29. Elle suppo-se l’enregistrement des nourrices candidates à un emploi, la vérificationde leur situation sanitaire pour éviter la propagation du mal vénérien etla mise en relation des candidates et des parents. Les logeurs et les pro-fessionnels de l’accueil, qui ne furent jamais organisés en corporation,doivent obligatoirement déclarer leur activité et la signaler dans l’espace

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26 Précis des représentations faites à Monseigneur le Procureur général par la compa-gnie des Inspecteurs de police, 1756, BnF, Mss coll. Joly de Fleury 346, fol. 152-170.

27 Registre de l’inspecteur Poussot, Quartier des Halles (1738-1754), Bibliothèquede l’Arsenal (BnF), Ms 10140.

28 Kaplow, Les noms, cit., pp. 86-91.29 J.-C.-P. Lenoir, Mémoires, cit., Mss 1421, titre III, fol. 371-372; P. Galliano, Le

fonctionnement du bureau parisien des nourrices à la fin du XVIIIe siècle, dans Actes du93e Congrès national des Sociétés savantes, Tours, 1968, Section d’Histoire Moderne etcontemporaine, CTHS, Paris 1971, t. II, pp. 67-93.

par une enseigne30. Le lieutenant de police Lenoir récapitule parfaite-ment ce qui tient lieu de politique au Châtelet au moins depuis le milieudu siècle à l’égard des ouvriers non-corporés:

Les manouvriers ne pouvaient être également gouvernés. Occupés de tra-vaux plus communs, plus grossiers, les règlements de police qui les concer-naient étaient très coercitifs, et, néanmoins, il fallait dans l’administration de lapolice employer beaucoup de mesures pour contenir et réprimer cette autreportion du peuple ou de la populace de Paris.

Quelques-uns d’entre eux qui n’avaient pas de métiers avaient été classifiés.Tels étaient les forts de la halle, les cochers de place etc… etc… Ils étaient par làplus immédiatement // sous l’inspection de la police; ils étaient enregistrés parla police, ainsi qu’ils le disaient eux-mêmes, qui leur assignait des places.

Il n’y avait pas de corporations, pas de maîtres parmi les manouvriers à Pa-ris; ils y faisaient en quelque sorte des bandes à part. Ceux travaillant habituelle-ment dans les halles et marchés, étaient partagés par bandes. Il avait été établiparmi eux et entre eux, un ordre de discipline ; ils se distribuaient les travaux,mais il fallait qu’ils y fussent admis par les commissaires et inspecteurs dechaque quartier. Ils étaient obligés de se répartir de manière qu’il ne put y avoirde grands rassemblements d’hommes que la force de leur bras avait fait réputer.

La police assignait aussi des places dans les divers quartiers de la ville etdes faubourgs, aux portefaix, aux revendeurs, aux revendeuses, aux regratiershabitués à Paris. Les manouvriers ne pouvant être conduits par les mêmes me-sures d’administration et de discipline propres aux ouvriers qui faisaient partiedes corps et communautés, la police les avait ainsi séparés pour (les) mieux dis-cipliner31.

Il faut remarquer un aspect du raisonnement de Lenoir. Si l’en -registrement est une manière d’assigner aux métiers non-corporés uneplace dans la hiérarchie sociale, il s’agit aussi de les rendre visible dansl’espace urbain en leur attribuant un emplacement déterminé et recon-nu. Cette remarque va au-delà d’un désir de transparence de l’espa ce,certaines conséquences de la réforme des corporations en 1776 le mon-trent.

1776: et après?

Le débat qui se noue en 1776 autour de la suppression des corpora-tions montre très bien que l’abolition libérale des corps de métiers ne si-

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30 V. Milliot, La surveillance des migrants et des lieux d’accueil à Paris du XVIe siècleaux années 1830, dans Roche (dir.), La ville, cit., pp. 21-76.

31 J.-C.-P. Lenoir, Mémoires, cit., Mss 1422; titre X, fol. 637 et 661.32 Kaplan, La fin, cit., pp. 100-104.

gnifie nullement une absence de contrôle sur le monde du travail32. Ladécorporation va clairement de pair avec la mise en place d’un systèmede contrôle territorialisé qui se substitue à un ancien système de relationsverticales, sur la base de ce qui se pratiquait pour les revendeurs de rue.Et ce sont les auxiliaires de la lieutenance de police qui en sont les ac-teurs principaux. Ce sont les solutions expérimentées pour la police desmétiers non-corporés qui fournissent le nouveau cadre susceptible de sesubstituer aux défuntes corporations. En mars 1776, le lieutenant géné-ral de police Albert, partisan de la politique libérale de Turgot et éphé-mère successeur de Lenoir, entreprend une «Nouvelle division de la villede Paris et de ses faubourgs» en arrondissements regroupant chacun en-viron trois cents artisans et marchands divers, administrés par de nou-veaux syndics. Dans le quartier du Louvre, Chenon, le commissaire «an-cien», se montre par exemple un exécutant zélé de ce découpage en ar-rondissements et en cantons, effectué à l’intérieur des quartiers de poli-ce, cadre de cet enregistrement des métiers33.

Le débat entre les «libéraux» et un magistrat «réglementariste» com-me Lenoir ne porte en fait pas sur la nécessité d’enregistrer. L’accord surl’enregistrement des hommes et des choses est assez général et ancien.Les divergences entre les économistes libéraux et les autres portent moinssur les méthodes que sur le périmètre d’action de la police et donc surles domaines qui directement ou indirectement sont placés sous sa tutel-le. Mais paradoxalement la réforme libérale de février 1776 tend à ren-forcer le pouvoir d’encadrement de la police.

Le rétablissement d’un système corporatif réformé en août 1776 nechange rien aux principes et aux pratiques policiers. Peut-être même aucontraire, puisque les brèches ouvertes et non colmatées par la réformeet ses avatars ont ouvert un espace nouveau que les hommes du lieute-nant général investissent. Pour le moment, seules des notations ponc-tuelles sont à notre disposition. Mais il semble qu’une part croissante del’activité effective de certains commissaires et, plus encore, des inspec-teurs, pourrait être consacrée à ces opérations d’enregistrement ou àleur vérification dans les années 1780. Les papiers des commissairesdans la série «Y» recèlent ces inventaires de logeurs, de revendeurs etpetits marchands étalants dont on tient les listes, dont on cartographieles emplacements. Les papiers du commissaire J.B Dorival offrent ainsiun inventaire nominatif des marchandes d’oranges du Pont-Neuf en1784, depuis «la rue Dauphine jusqu’à la Samaritaine» et un inventairede la distribution, avec nom et demeure, des décrotteurs du pont Notre-

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33 AN Y 11403, cité par J. Berlière, Un commissaire en quêteur au Châtelet. L’exem -ple de Pierre Chenon dans le quartier du Louvre, 1751-1791, Mémoire de Master recher -che 2, Université de Caen, Caen 2007, t. 1, p. 24.

Dame34. Tous les subordonnés du lieutenant de police ne mettent pas for-cément le même zèle dans ce type d’activité mais l’injonction est forte35.

Contrôle et protection

Pour autant, le contrôle policier exercé sur les métiers non-qualifiés,en butte à la suspicion et aux discours dépréciateurs des moralistes, nes’exerce pas sous une forme prioritairement coercitive, loin s’en faut.

Tous policiers? Les auxiliaires de la police

Le précis des inspecteurs de 1756 comme les papiers Lenoir àl’extrême fin du siècle lèvent le voile sur ceux que l’ancien lieutenant géné-ral désigne comme les «auxiliaires naturels» de la police. À lire le Mémoiresur la police de Paris du commissaire Lemaire qui inspire pour une part Le-noir dans sa démarche, on peut également avoir le sentiment que la popula-tion parisienne se réparti en deux groupes: ceux qui tiennent registresconformément à la réglementation et aux exigences de l’administration etceux qui sont destinés à être enregistrés. Ces textes montrent une fouled’individus et de professions engagés dans des activités d’enregistrement etde surveillance. Toutes ne relèvent pas, il s’en faut de beaucoup, du mondecorporations. Les fripiers et autres revendeurs doivent tenir un registre desarticles usagés qu’ils achètent afin de faciliter la lutte contre le recel. Les au-bergistes et autres logeurs doivent inscrire les noms et d’autres informa-tions concernant toute personne passant une nuit chez eux36. La liste n’estpas ici exhaustive et la réglementation est pléthorique, attachée à réitérerdes consignes et à normer toujours davantage, à uniformiser les instru-ments du contrôle. Pour Lenoir, les hôteliers et les logeurs, les mères ma-querelles, les propriétaires de maison de jeux, représentent des informa-teurs naturels de la police. On pourrait élargir leur cercle aux responsablesde clubs et de lieux de sociabilité en général, dont l’autorisa tion d’exercerpeut être soumise à l’engagement de fournir des informations37.

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34 État des marchandes d’oranges qui ont obtenu la permission de vendre des orangessur le Pont- Neuf à commencer du mois de décembre 1784 pendant une année, et Noms, de-meures et distribution des décrotteurs placés sur le pont Notre-Dame et qui ont obtenu lapermission, AN Y 12528.

35 Le commissaire Fontaine se fait, par exemple, régulièrement admonester pour sesretards, à la fois par Sartine et par Lenoir, Lettre de Sartine du 11 octobre 1769 et de Le-noir du 27 février 1779, AN Y 13613.

36 Kaplan, Milliot, La police de Paris, cit.; et V. Milliot dans Roche (dir.), La ville, cit.,pp. 21-76.

Si l’activité policière et la surveillance prennent à l’égard de certainsgroupes à risques – les mendiants, les prostituées – un tour assez nette-ment répressif dans la seconde moitié du 18e siècle, le registre en matièrede police du monde du travail est plus nuancé38. Celle-ci repose assezlargement sur la collaboration des professionnels eux-mêmes. La colla-boration avec la police n’est pas, seulement et par principe, le fait desmaîtres d’ateliers soucieux de maintenir leurs salariés dans la subordina-tion ou de défendre leurs intérêts. La connivence intéressée qui nourritles relations du commissaire Pierre Chenon avec les revendeuses duquartier du Louvre et des environs du Pont-Neuf en fournit une belleillustration. Les revendeuses fréquentent assidûment l’étude du commis-saire à partir des années 1760. Leurs témoignages lors de la rédaction deprocès-verbaux traduit leur acculturation progressive au vocabulaire et àla rhétorique juridico-policière. Mais l’essentiel est le rôle d’informatri -ces qu’elles remplissent constamment dans les espaces de la fripe et de larevente, n’hésitant pas à dénoncer les suspects de vol ou à les attirer dansdes guets-apens organisés pour faciliter leur capture. Leurs services sontrémunérés par la police qui a conscience de l’atout que représentent detelles auxiliaires, «spécialistes» du marché de la fripe. Un témoin perçoit40 sols pour une information au milieu du siècle, puis 20 sols le plus sou-vent sous Sartine39. Marguerite Pignan, femme de cocher, qui exerce unesorte de magistère sur ses consoeurs des quais, est tenue informée lorsdes interrogatoires de suspects et se charge de prévenir les victimes devol pour qu’elles viennent reconnaître leurs effets40. Rendre compte de lamotivation des revendeuses par le simple appât du gain, du fait de la ré-tribution de leur témoignage, est sans doute réducteur. Car pareille col-laboration assure aux revendeuses la protection et la bienveillance de la

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37 Autorisation par Lenoir, au sieur Robert de rouvrir son club, à condition «de ren -dre compte de ce qui se passera chez lui, et d’ailleurs on n’y jouera pas», AN O1 488, fol.568, 17 septembre 1777; voir aussi AN O1 489 fol. 106, Lettre du secrétaire d’État Ame-lot au sujet du tenancier du «Rendez-vous de la République des Lettres et des Arts» quiespionne pour la police, 22 février 1778; J.-L. Gay, L’administration de la capitale entre1770 et 1789. La tutelle de la royauté et ses limites, dans Mémoires de la fédération histo-rique de Paris et de l’Ile-de-France, Fédération historique de Paris et de l’Ile-de-France,Paris 1961, pp. 135-218.

38 C. Romon, Mendiants et policiers à Paris au XVIIIe siècle, «Histoire Economie So-ciété», 1982, n. 2, pp. 259-295; Benabou, La prostitution, cit., pp. 60-96. Ce qui n’empê -che pas la surveillance active de certains lieux comme les cabarets ou des compagnon-nages, ni la hantise des cabales, Kaplan, Réflexions, cit.

39 AN Y 13728, lettre de Sartine aux syndics de la compagnie des commissaires, 11juillet 1767.

40 J. Berlière, Un commissaire, cit., t. 1, pp. 127-129. Cette revendeuse est particuliè-rement assidue dans l’étude de Chenon entre 1758 et 1779. Sur les revendeuses, D. Ro -che, La culture des apparences. Une histoire du vêtement, XVIIe-XVIIIe siècle, Fayard, Pa-ris 1989, pp. 316-318.

police, notamment lorsque leur espace économique est menacé par desconcurrentes venues d’ailleurs, par des revendeuses occasionnelles, «nonclassifiées», qui sont tentées de casser les prix pour mieux écouler leurmarchandise.

La police protectrice et régulatrice

En pratique, la police est donc loin de regarder le monde des métiersinorganisés comme un magmas informe, même si elle conserve une atti-tude prudente, voire suspicieuse. Elle s’ingénie clairement à exercer surcet univers sa tutelle, directement ou moins directement; elle se substi-tue ou crée un cadre de substitution lorsque la structure corporativen’existe pas officiellement et sait associer la réglementation, potentielle-ment coercitive, au compromis et à la protection. Cette substitutions’exerce dans deux domaines qui sont du ressort des communautés demétiers pour ceux qui relèvent de leur juridiction et compétences, celuide l’accès au marché du travail, puisque le travail intègre, fixe, stabiliseet moralise, et, dans les période de crise ou de difficultés, celui des poli-tiques d’assistance et de redistribution, puisque l’enregistrement faciliteles secours. Cet interventionnisme est clairement énoncé par Lenoirdans ses papiers, à l’égard des manouvriers:

[…] si la police eut cessé de s’occuper de leur procurer de l’ouvrage, ilsn’eussent été que des hordes de malfaiteurs. Comme étant nécessairement utilesau service public, la police devait s’appliquer en multipliant les moyens de lesfaire subsister parleurs travaux et services, à les bien diriger.

Cette position éclaire ce qui peut passer pour d’apparentes contra-dictions dans l’action des forces chargées du maintien de l’ordre etd’assurer la meilleure des circulations possibles dans la ville. En 1776, lescommissaires généraux de la Voirie de la capitale reçoivent l’ordre de neplus autoriser les marchands à dresser des échoppes, à l’exception despauvres maîtres qui pourraient «étaler» si le lieutenant de police les y au-torisait dans des endroits indiqués. Trois ans plus tard, chargé de prépa-rer une ordonnance de police sur la question, le lieutenant de police Le-noir demande aux commissaires des vingt quartiers de Paris de dresserl’inventaire des échoppes avec leurs observations sur celles «qui peuventêtre tolérées ou qui embarrassant la voie publique doivent être suppri-mées». L’ordonnance du 31 juillet 1779 s’avère assez restrictive pour lespetits métiers. En fait, l’attitude de la police du Châtelet est ambiguë etsa tâche difficile face au risque d’émeutes que représente le petit peupleprompt à s’assembler pour défendre ses moyens de survie. Alors que la

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garde de Paris et le chevalier du guet s’empressent de faire appliquer laconsigne de dispersion des étalages portatifs au début des années 1780,le lieutenant général de police, auquel on semble avoir un peu forcé lamain, est plus circonspect et porté à la tolérance, tant la contrainte ri -sque d’être dommageable à l’ordre public. En outre Lenoir fait aussi va-loir que ce petit commerce vaut mieux qu’une mendicité généralisée ets’avère adapté aux facultés de la plupart des consommateurs parisiens41.

Quelques mois après le départ de Lenoir de la lieutenance généralede police, la grève des gagne-deniers parisiens de janvier 1786, qui mani-festent alors jusqu’à Versailles, illustre les perturbations qui peuvent sur-venir lorsque les modes de régulation du monde du travail, lentementnégociés et mis en place sous la tutelle de la police, ne sont pas respectés.La mise en régie du portage des marchandises légères avec le soutien dusecrétaire d’Etat à la Maison du roi, le baron de Breteuil, au profit de lacompagnie Duvallon qui dispose désormais d’un privilège, prive brutale-ment d’activité, en plein hiver, les «bandes» de portefaix parisiens. Cesdernières réagissent et tentent de fédérer autour d’eux d’autres commis-sionnaires et porteurs42. A bien comprendre Lenoir qui exprime sous laRévolution, le point de vue de la haute administration policière, la liber-té abstraite et sans principe des réformateurs libéraux «à esprit de systè-me» en 1776, comme le monopole confiscatoire en 1786, se paient duprix du désordre social, du tumulte et de la révolte.

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41 BnF, mss Joly deFleury 2100, fol. 107-110, et J. Chagniot, Paris et l’armée auXVIIIe siècle. Etude politique et sociale, Economica, Paris 1985, pp. 151-152.

42 Kaplan, Réflexions, cit.; M. Rouff, Une grève de gagne deniers en 1786 à Prais,«Revue historique», sept.-dec. 1910, a. 35, t. 105, pp. 332-347.

Peter Becker

Reading the signs of work on the body: the police facing people on the move

Maintaining order and providing security was the main objective of19th century German policing1. In order to comply with this task, repre-sentatives of state, regional, and local authorities had to engage in socialinteractions with locals and strangers. Regular contact with the citizensestablished trust and provided the police agents with a rather randomset of information about localities and persons. This information was ofcrucial importance to single out a group of «dangerous», suspicious peo-ple2. They were the functional equivalents of the lepers and the plaguesufferers, which Foucault described as the main target of exclusion anddiscipline in his study on Discipline and Punish3. In order to exclude theprotagonists of the «dangerous classes» from social circulation and espe-cially from the market place, they had to be detected with an experi-enced, analytical gaze. This gaze was directed mainly at dress andlifestyle, at social networks and patterns of salutation, and, finally, at per-formance at work and conformity with role expectations4.

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1 Cf. the codification of police objectives in the Prussian legal code: AllgemeinesLandrecht für die Preußischen Staaten (1794), Tl. II, tit. 17, § 10. On its institutional andpolitical implementation see A. Funk, Polizei und Rechtsstaat. Die Entwicklung des staat-lichen Gewaltmonopols in Preußen 1848-1918, Campus, Frankfurt/Main 1986; A. Lüdt-ke, «Gemeinwohl», Polizei und «Festungspraxis». Staatliche Gewaltsamkeit und innereVerwaltung in Preußen, 1815-1850, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1982; R. Jes-sen, Polizei im Industrierevier. Modernisierung und Herrschaftspraxis im westfälischenRuhrgebiet 1848-1914, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1991.

2 Cf. the recommendations for the training of criminal police agents in G. Zimmer-mann, Die Deutsche Polizei im neunzehnten Jahrhundert, Vol. 3, Schlüter, Hannover1849, p. 1159.

3 M. Foucault, Discipline and Punish. The Birth of the Prison, Vintage Books, NewYork 1995, pp. 195-200.

4 Cf. P. Becker, Randgruppen im Blickfeld der Polizei. Ein Versuch über die Perspekti-vität des «praktischen Blicks», in «Archiv für Sozialgeschichte», 32, 1992, pp. 283-304,esp. pp. 284-288.

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Police observation was both an individual task and an institutional-ized project. In its institutional dimensions, observation was organizedaround new bureaucratic tools such as a printed form developed by thepolice expert Johann Friedrich Karl Merker from Erfurt and policegazettes as the most important communication infrastructure within theres publica criminalistica. Merker’s form offered the opportunity toshare observations on individuals within a police organization, the po-lice gazettes organized the flow of information among a wider group ofexperts and police departments. Both followed the logic of Foucault’spanoptical, disciplinary observation. Merker’s form can be linked in ad-dition to the example of early census forms with its topographic organi-zation. Each suspicious person was recorded according to the districtand street where he or she lived in. Sufficient place was left to accumu-late relevant observations on these individuals during several years.With Merker’s innovation, the Erfurt police had available a tool to reor-ganize the flow of information while still using the ‘natural order’ of citytopography5.

In their interaction with the local population, police agents reliedand still rely on «finely grained cognitive maps of the social world, sothat they can readily predict and handle the behavior of a wide range ofothers in many different contexts without losing authority in any en-counter»6, as the British criminologist R. Reiner argues. These maps arebased on widely shared expectations, which define fields of respectabili-ty depending on gender and age, but also on the social and, to some ex-tent, spatial position of subjects. The main criteria for locating peoplewithin or outside of these fields of respectability were their social andwork performance. Information of this kind was available in small townand villages through many different channels – direct observation, gos-siping, but also complaints by neighbors and employers7.

This kind of information was not available for strangers, whichpassed in remarkable numbers through smaller and bigger cities of the18th and 19th centuries. As strangers, they could not be easily locatedwithin a social or biographical frame. Citizens and local magistrates hadto orient their interaction with these people on the basis of circumstan-tial evidence to differentiate between foreign beggars as a nuisance, trav-eling salesmen and craftsmen as business partners or workforce, the rich

5 Cf. J.F.K. Merker, Handbuch für Polizey-Beamte im ausübenden Dienste, Maring-sche Buchhandlung, Erfurt 1818, pp. 143-148.

6 R. Reiner, The Politics of the Police, 2nd ed. University of Toronty Press, Toronto1992, p. 115.

7 Mental maps are of key importance to the work of street-level bureaucrats until to-day. Cf. M. Lipsky, Street-Level Bureaucracy. Dilemmas of the Individual in Public Services,Russel Sage Foundation, New York 1980, pp. 140-156.

and famous as chance for business, and, finally, the professional crimi-nals as substantial risk for property and health8.

Already the early modern state thought up schemes to help local au-thorities to clearly distinguish between these different groups ofstrangers. These schemes were based on travel documents and their reg-ular scrutiny9. In case of irregularities the travel document would revealthe dangerous character of its carrier to the authorities. The scheme wastheoretically convincing, but very poorly executed. The passport was on-ly theoretically a proxy for respectability, as, in practice, it was not unam-biguously linked to its carrier and the most dangerous criminals were be-lieved to travel always with valid papers on them10. Therefore, a differentkind of proxies was required for the classification purpose: the body ofthe stranger. The body carried signs of respectability if read with suffi-cient skill – a reading, which was based on tacit assumptions about re-spectable behavior and its imprints on face, body, and habits. This was atleast the expectation of police experts at the end of the 18th and the be-ginning of the 19th centuries, as we can learn from the remarks of GustavZimmermann, a police expert from Hanover. He claimed in his guide-lines as late as in the mid-19th century, that posture, forms of limbs andface give away a person’s trade11.

In my following remarks, I would like to situate Zimmermann’s am-bitions to decipher the bodies of strangers within the wider cultural con-text of that time, where physiognomy and phrenology were widely de-bated and utilized practices for a semiotics of personality. Then I willlook at the role of work and especially of the crafts for the mental map ofthe police agents in two different instances: the handbooks of the Ger-man police of the early 19th century and the search warrants from the

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8 On deception and the artful play with identities by 19th century professional cri-minals cf. R. J. Evans, Szenen aus der deutschen Unterwelt. Verbrechen und Strafe, 1800-1914, Rowohlt, Reinbek 1997, pp. 199-239; P. Becker, Verderbnis und Entartung. EineGeschichte der Kriminologie des 19. Jahrhunderts als Diskurs und Praxis, Vandenhoeck &Ruprecht, Göttingen 2002, pp. 220-254.

9 On the role of passports for the control of movements cf. J.C. Torpey, The Inven-tion of the Passport: Surveillance, Citizenship, and the State, Cambridge University Press,Cambridge 2000, esp. pp. 4-92; H. Burger, Passwesen und Staatsbürgerschaft, in W. Heindl,E. Saurer (eds.), Grenze und Staat. Paßwesen, Staatsbürgerschaft, Heimatrecht, und Frem-dengesetzgebung in der österreichischen Monarchie (1750-1867), Böhlau, Wien 2000, pp.1-172, esp. pp. 3-87.

10 The magistrate of the city of Nienburg emphasized in his report to the provincialauthority in 1823 that the most dangerous criminals went out of their way to furnishthemselves with valid passports (Hauptstaatsarchiv Hannover, Hannover 80, HannoverI, A, 623). Cf. also G. Zimmermann, Die deutsche Polizei im neunzehnten Jahrhundert,Vol. 2, Schlüter, Hannover 1845, p. 446f.

11 Zimmermann, Die deutsche Polizei, cit., p. 417.

18th and 19th centuries. It would be misleading to understand policingexclusively as normatively regulated and bureaucratically structured lo-cal practice. In order to trace the links between local connoisseurship indeciphering hidden criminal propensities and a specialized discourse oncriminals and their appearances, I will present some thoughts about theorganization of police gazettes. The conclusion will pinpoint, finally, therelevance of the traditional order of economic production for the mentalmaps of the police.

1. The practical gaze at the bodies of suspects

«Instead of undressing prisoners upon their arrival in order torecord all their distinguishing marks, some officials still leave this task totheir clerks and ushers who do not know on what this task mainly de-pends…»12.

An anonymous police practitioner published these critical remarksabout the incompetence and negligence of his colleagues in 1841. Hisvoice was not the only one to reprimand police officers for their habitualcarelessness and indifference. Ambitious practitioners in the field of«crime control»13 saw themselves exposed to the rapidly expanding threatof an organized criminal subculture, against which only the combinedefforts of all authorities seemed likely to offer any hope.

From this perspective, professional property criminals (Gauner) andtheir tightly knit network of support were particularly damaging to soci-ety. The successful thefts and frauds carried out by these professionalsexacted a heavy toll from common people and especially from the prop-ertied class. By exploiting the new forms of commerce for their fraudu-lent schemes, they even seemed to evoke anxieties about the mechanismsof the marketplace itself. The fight against Gauner was therefore regard-ed as a crucial task, and it was exactly this task to which the anonymousauthor was referring in his remarks. To accomplish it, police expertstried to elaborate strategies aimed at defeating the Gauner’s expertise indisguise and deceit. Police experts reminded their colleagues over andover again that they had to employ more elaborate tools and schemes forcatching the Gauner than for pursuing escaped servants, deserters, anditinerant traders.

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12 Anonymous: «Ueber die Unvollständigkeit der Signalements», in «AllgemeinerPolizei-Anzeiger», 12, 1841, p. 108.

13 Under this heading, a rather dispersed group of people is brought together, whoshare a work experience in crime control agencies, i.e. police, criminal courts, prisons,and workhouses, and who showed an interest to exchange ideas about the best possibleways to organize their fight against crime and deviance.

Many of these projects started with the objective to improve the po-lice practitioners’ gaze at suspects. To combat the cleverness and experi-ence of the Gauner, a specialized and differentiated knowledge had to bedeployed in their observation and description. As the anonymous authorindicated, this kind of knowledge was only fully available to bettertrained officials, and not to their clerks and assistants. Clerks or officeworkers regarded it as sufficient to record the personal details of dress,physical size, hair and eye color, the shape of the nose and mouth.Trained officials, on the other hand, studied the whole body of the pris-oner, above all in order to detect «unusual characteristics». Only trainedand highly motivated personnel understood their significance for identi-fication purposes. «Scars, warts, burn marks, deformities, tattoos etc.»had particular value for this purpose, as the author argued14.

Contemporary police experts did not call the cognitive basis of theirinterpretative approach to the social world mental maps. They referredto this approach in its entirety as practical gaze meaning the use of tacitknowledge built through practical experience, communication withtheir peers, and the wider cultural knowledge of their time. The policeexperts were not the only ones to claim a practical gaze. Also physiciansreferred to their elaborate diagnostic tools with the same term before thephysiological turn furnished them with a more firm ground for theiranalysis of the body. To penetrate analytically the surface of bodies, bothpolice experts and physicians of the late 18th century used a kind ofknowledge, which Barbara Stafford characterized as «practical, non-quantifiable and nondiscursive»15.

The practical gaze used «dividing practices» as described by MichelFoucault16. Police experts divided facial features, the body and its per-formance into significant elements. The meaning of these particulars re-

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14 For a contemporary discussion of the need to record particular characteristics aspart of personal descriptions see L. Aloys Pfister, Merkwürdige Criminalfälle mit beson-derer Rücksicht auf die Untersuchungsführung, Vol. 5, Hermannsche Buchhandlung, Frank-furt/Main 1820, p. 624f. He directed the gaze of police experts on the imprints of corpo-ral punishment on the body of suspects. A systematic, but rather awkward classificationof particular characteristics was suggested by the police expert Rademacher. He lumpedtogether physical and psychological anomalies in the same categories: Under category I(corporal), A (visible), a (natural), 1 (stable), Greek Delta (lack of organs, senses, andbody parts), Greek Beta-Beta (complete lack) should be classified: deaf-mute and one-armed by birth: Rademacher, Zur Theorie der besonderen Kennzeichen; nebst einemVorschlage zu deren vollständigeren Benutzung in der Polizey-Praxis, in «AllgemeinerPolizei-Anzeiger», 4, 1837, p. 238.

15 B.M. Stafford, Body Criticism. Imaging the Unseen in Enlightenment Art and Med-icine, MIT Press, Cambridge 1991, p. XVII.

16 M. Foucault, Afterword, in Id., Beyond Structuralism and Hermeneutics, ChicagoUniversity Press, Chicago 1982, pp. 208-226, esp. p. 208.

sulted from an interpretative approach, in which the learned gaze of thepolice read a specific facial or bodily feature as the outcome of a processof corporeal adaptation to a particular work routine – only in this re-spect could physiognomic observation provide helpful clues about a per-son’s social identity17.

2. Search Warrants and Mental Maps

Description of a fugitive CriminalJoseph N. aka Gaberl Josl, belonging to the Wildbach dominion in Schröt-

ten […] is a man of about 17 years of age, long bodied, medium sized, redfaced, brown haired, low voice, and slow movements. His clothes are in thestyle of the farmers from southern Styria (traget sich auf bäurische Unter-Steyrische Art) with a white jacket and a black-hanging hat18.

The man in charge for the production of this search warrant wasmost likely an experienced magistrate. He used a series of mental im-ages to better depict the fugitive. First, there are implicit anatomical as-sumptions about height and weight of men and women in the Styrianprovince. The reference system was not yet formally established, as itwill be hundred years later under the influence of the French criminalpolice reformer Alphonse Bertillon19. The lack of formalization cannothide that fact that these references existed in an implicit way, as the ex-pression medium sized («mittlerer Dicke») indicates. The author of thesearch warrant had at least a faint idea about a certain range of possiblebodies, where the fugitive was positioned in the center. To be effective,this point of reference had to be shared. The search warrants of thistime bespeak a community of local actors rather than one of specializedpolice experts.

This can be learned from the reference to a second set of mental im-ages, which referred to the way in which the fugitive was dressed. In-stead of describing in detail the clothes, the author of the search warrant

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17 Cf. Zimmermann, Die Deutsche Polizei, cit., pp. 416-418.18 Search Warrant from June 1757, Styrian Provincial Archive, Search Warrants

1750-1760.19 Cf. I. About, V. Denis, Histoire de l’identification des personnes, La Découver-

te, Paris 2010, p. 77; M. Kaluszynski, Republican Identity: Bertillonage as GovernmentTechnique, in J. Caplan, J. Torpey (eds.), Documenting Individual Identity. The Deve-lopment of State Practices in the Modern World, Princeton University Press, Princeton2001, pp. 123-138, esp. p. 125f; P. Becker, Dem Täter auf der Spur. Eine Geschichte derKriminalistik, Primus, Darmstadt 2005, p. 129f; M. Vec, Die Spur des Täters. Metho-den der Identifikation in der Kriminalistik (1879-1933), Nomos, Baden-Baden 2002,pp. 31-47.

limited himself to the use of a code, which could easily deciphered onlywithin the local and regional community. Outside of Styria or even Aus-tria, the reference to this particular regional, i.e. southern Styrian, andsocial, i.e. peasant, way of dressing was certainly not helpful to generatea mental image of the targeted individual.

In more general terms, search warrants of the 18th century are notdifferent from the ones produced a century later. They all contain basicinformation about a person’s physical features and his/her dress. Thetwo main differences of the search warrants of the later period regardcontent and standardization. In the 19th century, printed forms requirethe authors of search warrants to present information on a standard setof features. The use of these bureaucratic tools should guarantee theavailability of basic information and their use in regional, national, andeven international communication networks. Intensified cooperationhad an effect on the selection of descriptors as well. Their point of refer-ence shifted during the second half of the nineteenth century to the ex-pert community, as the recommendation of police experts to use anatomi-cal and physiological terms suggests20.

Compared to the new standards, the search warrants of the 18th cen-tury appear wanting in two respects. The lack of standardization couldyield a higher amount of information for some spectacular cases, butusually resulted in the poor recording of basic features. The examplegiven above is instructive in this respect. We are not even informedabout the color of the culprits’ eyes, an eventual beard, and particularcharacteristics of his body. These omissions are not characteristic for allsearch warrants of this time. The amount of information depended onthe clerk or magistrate who was in charge of compiling them. The quoteabove, which introduces the section on the practical gaze, is an interest-ing case in point. Presenting the voice of an anonymous author from the1840s, the quote at the same pinpoints the shortcomings of non-stan-dardized descriptions and indicates the persistence of this problem wellinto the mid nineteenth century.

The lack of standardization affected not just the organization of thewarrant but also its content. Being dressed like a peasant from the south-ern part of Styria, like a butcher from the northern part of Styria or halfway like a burgher – all these references made sense only within a verylimited local-regional system of communication. Within this system,these references can be even more precise as they trigger more effective-

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20 Cf. P. Becker, The Standardized Gaze. The Standardization of the Search Warrant inNineteenth-Century Germany, in J. Caplan, J. Torpey (eds.), Documenting IndividualIdentity. The Development of State Practices in the Modern World, Princeton UniversityPress, Princeton 2001, pp. 138-163, esp. p. 141f.

ly a mental image of a dress code. In our case, and most likely also in thecase of magistrates outside of the region, the reference remains void andno mental image can emerge from it.

In the 19th century, we find no longer references to regional-socialstyles of dressing. It is not very difficult to guess, why they simply disap-peared without leaving a trace in the critical assessments of police ex-perts. The concurrence of the availability of cheaper garment on themarket and higher wages for agricultural personnel resulted in a shift inclothing practices. This was bemoaned from conservative authors whoidentified in the disappearance of traditional styles of dressing the realcauses of disobedience, crime, and revolution21. References such asdressing like a butcher from the northern part of Styria lost their signify-ing potential and therefore their meaning in personal descriptions22.

Dress in 19th century Germany was fraught with a multiplicity ofmeanings derived from social, regional, professional, gender, and age dif-ferentiation. Reading the dress in an analytical way required the police toovercome both the multiple distractions of meanings within a heteroglos-sic world and to identify the fraudulent enactment of pretended mean-ings23. The Mecklenburg magistrate Wennmohs reflected on this predica-ment, when he outlined his «semiotics of professional crime» (Semiotikdes Gaunerthums)24, in which only the ensemble of various bodily charac-teristics and specific forms of acting would allow an interpretation of

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21 On the critique of changing dress styles in the 1830s and 1840s, cf. P. Becker, Le-ben und Lieben in einem kalten Land. Sexualität im Spannungsfeld von Ökonomie undDemographie. Das Beispiel St. Lambrecht 1600-1850, Campus, Frankfurt/Main 1990, p.67. Transgressions of status boundaries were a common complaint in the political debateon crime. Just to give one example, I would like to refer to the reflections of the vice pre-sident of the higher regional court of Königsberg, v. Baehr. He was concerned with thesteady weakening of visible boundaries between servants and masters. This manifesteditself in salutation, dress and educational aspirations. Cf. Report from Königsberg, 18.4.1837, Geheimes Staatsarchiv Berlin-Dahlem, H.IA Rep. 84a, 8188. Transgressions ofstatus boundaries were discussed not just with regard to women. Also young men see-med to be endangered by their social aspirations. See the example in L. Sch., Fragmentaus dem Tagebuch eines Reisenden, in «Gnothi Sauton. Magazin zur Erfahrungsseelen-kunde», 6, 1788, pp. 242-265, esp. p. 43. See also G. Zull, Das Bild vom Dienstmädchenum die Jahrhundertwende. Eine Untersuchung der stereotypen Vorstellungen über denCharakter und die soziale Lage des städtischen weiblichen Hauspersonals, Tuduv, Mün-chen 1984, p. 81ff; A. Bennholdt-Thomsen, A. Guzzoni, Der «Asoziale» in der Literaturum 1800, Athenäum, Königstein/Ts. 1979, p. 100f.

22 Cf. Search warrant from June 1760, Styrian Provincial Archive, Search Warrants1750-1760.

23 I follow here Deborah Durham’s reading of Bakhtin: D. Durham, The Predica-ment of Dress: Polyvalency and the Ironies of Cultural Identity, in «American Ethnologist»,26, 1999, pp. 389-411, esp. p. 390.

24 F.A. Wennmohs, Ueber Gauner und über das zweckmäßigste, vielmehr einzige Mit-tel zur Vertilgung dieses Übels, Ebert, Güstrow 1823, p. 322.

someone’s social and professional identity. The ensemble was, however,not the given appearance but rather the combined particulars of dressand bodily posture after their analytical isolation. Deciphering the profes-sional criminal was obviously not an easy task. Wennmohs emphasizedtherefore the importance of tact, experience, a trained practical gaze, andeducation for a successful fight against professional crime25.

3. Competing narratives

[…] the visible signs in which the different classes of civil society can bedistinguished and, in addition, those visible signs, which support the suspicionof a person’s belonging to the class of police objects […]26.

Gustav Zimmermann was one of several police experts who pub-lished their reflections on the proper education of the policeman’s practi-cal gaze. I do not want to elaborate on the highly differentiated conceptof observation, developed by him27. My focus will be rather on the role ofmental maps in his practical suggestions for the reading of strangers. Thequote above ascribes a prominent role to the teaching of a semiotics ofprofessions including the activities of organized crime.

At first sight, it might appear strange that Zimmermann lumped to-gether corporeal signs of work and of crime. It was not unheard of inthe mid 19th century, when differences between liberal and conservativeconceptualizations of work were articulated with respect to a possibleunderstanding of professional crime as «work». Conservative thinkersand police practitioners insisted on a moral-ethical connotation ofwork. This is well expressed in Wilhelm Heinrich Riehl’s treatise onGerman Work from 1861, where he identifies the ethical underpinningof activities as the main difference between the honest worker and thebusy felon28.

The semiotic approach to the imprints of honest trades and illegalcrafts on the bodies was based on mental maps of bodies and their per-formances, as we can learn from Zimmermann’s further argumentation.

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25 Ibidem.26 Zimmermann, Die Deutsche Polizei, cit., Vol. 3, p. 1134.27 Cf. P. Becker, Vom «Haltlosen» zur «Bestie». Das polizeiliche Bild des «Verbre-

chers» im 19. Jahrhundert, in A. Lüdtke (ed.)‚ «Sicherheit» und «Wohlfahrt». Polizei, Ge-sellschaft und Herrschaft im 19. und 20. Jahrhundert, Suhrkamp, Frankfurt/Main 1992,pp. 97-132, esp. pp. 115-123.

28 Cf. W.H. Riehl, Die deutsche Arbeit, Cotta, Stuttgart 1861, p. 248. See also W.Conze, Art. Arbeit, in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck (eds.), Geschichtliche Grund-begriffe, Vol. 1., Cotta, Stuttgart 1979, pp. 154-215, esp. pp. 193-196.

Taken together, these signs served as indicators about the true socialidentity of a person under scrutiny. The rationale of this semiotics wasno longer the perfection of search warrants. They omit any links be-tween bodies, dress, and occupation. To Zimmermann and Wennmohs,the social identity of honest citizens and professional criminals could on-ly be deciphered with an analytical look at the ensemble – the totality ofperformance and appearance.

A learned, experienced gaze at suspects should provide a new, objec-tified basis for reconstructing the social identity of suspects. The needfor this semiotics was argued with reference to the frequent use of de-ceptive and evasive strategies by criminals and outcasts in order to avoididentification. In order to penetrate this wall of deception, police ex-perts were in desperate need of a tool – the practical gaze at the bodies ofsuspects was one of them.

It was mainly used to quickly differentiate between respectable andsuspicious strangers. Suspicion was called by two different results of thissemiotic operation. The first result was the identification of the ensem-ble of those signs, which characterized the bodies and habits of profes-sional criminals directly29. The second result was the incoherence be-tween the story presented by the stranger about his social identity andhis profession on the one hand and the story told by his body and hishabits on the other hand. Competing stories of this kind called for fur-ther scrutiny by senior police officials and magistrates. This could takeseveral weeks, in complicated cases even several months, in which localauthorities tried to uncover the truth about the whereabouts of a suspect– not often with a positive outcome30.

Looking closer at this semiotics we can identify three different class-es of signs. Dress played only a minor role within them. The first class ofsigns relates to the social dimensions of an occupational role. Craftsmenwere socialized not only into a specific mode of working but also into apeculiar lifestyle. Outsiders would often not share the cultural codes ofthe individual crafts. Zimmermann would thus proud himself of beingable to recognize an itinerant journeyman’s craft from watching him en-ter the city. Entering the city required specific routines from them. Tai-

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29 Cf. Wennmohs: Ueber Gauner, p. 319f. He commented on the long list of signs,which should have identified the professional criminal, that none of them could be regar-ded as an unambiguous sign.

30 I have traced the efforts of the Hannover and Hamburg police departments in theregional police gazette to access the ‚true’ identity of a young man, who was imprisonedunder the pseudonym of Carl Schmidt. The defendant was tough enough to face theanomical situation of a refuted biographical narrative and was therefore released after abrief imprisonment. He was identified as an escaped inmate of a workhouse only muchlater and by chance: Becker, Verderbnis, cit., pp. 226-229.

lors would shoulder their bags differently than shoemakers; builderswould carry their stick in a particular way, etc. Part of these cultural con-ventions was the presence of some peculiar clothes. The policeman hadto be familiar with all these conventions, as to Zimmermann – not to po-lice contraventions against them, but rather to identify imposters31.

Zimmermann and his peers were well aware that it was not the privi-lege of the police to get acquainted with the social conventions of differ-ent crafts. Journeymen met many different people on their move. Manyof them were willing to share the details of these conventions with newacquaintances. Professional criminals who wanted to pass as craftsmenhad ample opportunities to familiarize themselves with the cultural codeof the trade – even more opportunities than the ordinary policeman.Zimmermann urged therefore to use a second class of signs, which weredeception-free. These were the imprints, which every physical routineleft on the body after a certain period of time. Bending over the work-bench in a particular way, stacking needles in the mouth, using the toolsin a specific mode – all these routines became embodied in the sense thatthe bodies would reflect this particular usage. A closer look at the teeth,at the hands, the back, the movements, etc. would then reveal the trueidentity of the suspects.

A closer look at the body for identification purposes was rather fash-ionable at that time. It was long before Bertillon that police expertsstarted to exploit physical characteristics for identification purposes.Scars, tattoos, and other peculiarities were registered and even used forindexing the monthly and yearly compilations of search warrants. Thiswas, however, a different tradition of looking at the bodies of suspects,involving no semiotic operation. The semiotics, to which Zimmermannrefers, can be related to the physiognomy debate of the late 18th and ear-ly 19th centuries. Lavater, the Swiss theologian, was quite famous at thattime for his assertion that everybody’s character would show in his fea-tures. In opposition to his argument, the Göttingen intellectual Lichten-berg developed a different line of reasoning – in line with the reflectionspublished by Kant on this subject. Lichtenberg and Kant did not look atthe cranial structure of the head but rather on the malleable features ofthe face. As to them, individual character has its performative aspects,which then leave imprints in the face. On this basis, it was possible to tella person’s moral orientation by looking at the face32.

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31 Friedrich Christian Benedikt Avé-Lallemant emphasized even the dualistic char-acter of the professional criminal – consisting of a pretended social role on the one handand the criminal identity on the other hand (Das Deutsche Gaunerthum in seiner social-politischen, literarischen und linguistischen Ausbildung zu seinem heutigen Bestande, Vol.2, Brockhaus, Leipzig 1858, pp. 382-387).

32 A brief summary of this debate can be found in Becker, Verderbnis, cit., pp. 248-254.

Zimmermann positioned himself within this tradition of a pathog-nomic reading of the body. He saw himself, however, at a turning point.Many of the signs, with which his semiotics operated, were about toloose their discretionary potential. This was the result, as he argues him-self, of the social and economic transformations of the mid-nineteenthcentury. With many people unemployed over and extended period oftime, with craftsmen forced to look for work outside of their profession– the imprints of work routines on the body lost their significance to de-cipher a person’s social and professional identity. How should even themost skilled observer distinguish between the bricklayers, who were un-employed and forced to take to the roads for a long period of time, andvagrants, who voluntarily and happily wandered around working everynow and then as bricklayers33.

This was not the only transformation, which altered the ways inwhich police experts were reading the bodies of suspects. Equally im-portant was the better quality and increasing standardization of informa-tion available on individuals, the introduction of new technologies suchas photographs, and the use of basic biometric data for identificationpurposes. These changes in police technology provided new tools forquestioning the stories presented by strangers about their social and pro-fessional identities. The imprints of work on the body moved in thebackground, but they did not vanish within the experts’ discourse.

At the turn of the centuries a new group of experts – coming fromforensic medicine – took on this challenge anew and reconstructed theanatomical and physiological imprints of routine activity on the body.New publications on this theme emerged in the early 20th century – fea-turing illustrations of deformations of the teeth, of peculiar modes ofwalking, etc. This new scientific knowledge did no longer contribute tothe mental maps of policemen. It was rather relegated to the increasingscientific knowledge about crime and criminals, which was fed by differ-ent disciplines and used by scientific experts in their expert opinions34.

4. Communication and Control

He, who diverts from the path of honesty, has to accept that he will be givena due place in the general police gazette35.

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33 Zimmermann, Die Deutsche Polizei, cit., p. 416f.34 Cf. Becker, Dem Täter auf der Spur, cit., pp. 144-152.35 F. Eberhardt, Vorwort, in «Allgemeiner Polizei-Anzeiger», 10, 1840, III-IV, III:

«Wer von der Bahn der Ehrlichkeit abweicht, mag sich auch gefallen lassen, daß ihm dergebührende Platz im allgem[einen] Pol[izei]-Anz[eiger] angewiesen werde».

Police experts were not only concerned with the choice of propercharacteristics for the description and identification of criminals. Theyworried equally about the procedures to be adopted for the recording ofthese features. Negligence and indifference undermined the efforts ofthe res publica criminalistica to combat professional crime. Police ex-perts blamed the lack of discipline, experience, and knowledge for themisrepresentation of reality in protocols36.

There was no want of examples to illustrate poor police perfor-mance. Carl Falkenberg quoted one of the most evident cases of negli-gence in his handbook for police practitioners (1816/1818). He referredto a veteran from the Napoleonic wars, who lost his passport whencrossing the Rhine. In order not to waste time with the application foranother travel license, he used a coupon, which soldiers received inParis. Modeled by a passport, this document asked brothel owners andprostitutes to be supportive to its holder; it was issued by the Empired’Amour. Falkenberg informed his readers with strong reprehensionthat several German municipal police administrators accepted andstamped this document as a valid travel license37.

The governments responded to these deficiencies with an effort toimprove and standardize police performance. Suggestions for normativechange, which authorities received from zealous practitioners and high-spirited philanthropists during the first half of the 19th century, weremostly ignored. Police experts identified the main reason for securityproblems not in a lack of rules but rather in the lack of a thorough im-plementation of existing regulations. They were particularly concernedwith the performance of municipal police forces, which were under thecontrol of local communities. To improve their standards of operation,experts opted for more control through the establishment of better com-munication networks38.

These networks were intended to complement the advance of cen-trally directed state agents, such as the Gendarmerie, into the more re-

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36 Cf. P. Becker, «Recht schreiben». Disziplin, Sprachbeherrschung und Vernunft. ZurKunst des Protkollierens im 18. und 19. Jahrhundert, in M. Niehaus, H.-W. Schmidt-Han-nisa (eds.), Das Protokoll. Kulturelle Funktionen einer Textsorte, Peter Lang, Frankfurt/Main u.a. 2005, pp. 49-76, esp. pp. 73-76.

37 C. Falkenberg, Versuch einer Darstellung der verschiedenen Classen von Räubern,Dieben und Diebeshehlern, mit besonderer Hinsicht auf die vorzüglichsten Mittel sich ih-rer zu bemächtigen, ihre Verbrechen zu entdecken und zu verhüten. Ein Handbuch für Po-lizeibeamte, Criminalisten und Gensd’armen, Vol. 2, Duncker und Humblot, Berlin1818, pp. 66-68.

38 In a report to the regional government, dated December 4th 1823, the Hanoverpolice department conceded that the main reason for the pressing security problem wasto be found in the negligence of local officials (State archive Hanover, Hannover 80,Hannover I, A, 623, 1823-1841).

mote areas of the state. This put pressure on local police forces as a re-port from Gendarmerie Commander Hermann from Hameln in 1845 il-lustrates. Hermann, knowing about the indolence of local Hanoverianadministrators, controlled the market of a local community, where hefound a number of Jewish professional thieves. Even though they werealready searched with warrants, they had been furnished with travel li-censes. A list of negligent officials and a copy of the incriminated pass-ports provided the Hanoverian authorities with evidence and ammuni-tion for their future actions39.

The problem of indifferent local administrators appeared to Hanover-ian and also to Prussian police experts not just as a local problem. Toolong existed, in their views, the irresponsible practice of sending suspi-cious subjects quickly away40. A new, generalized strategy was neededand it should have been oriented towards the common good of the en-tire realm and not just of one single community. This strategy had to bebased on efficiently transmitted intelligence and on a tighter system ofcontrol. Search warrants, information about new regulations, reflectionson the security problem, and communications about advances in policetechnique had to reach every single administrator. The solution wasfound with the creation of Police Gazettes in the early 19th century.

Many of these gazettes were established during the first half of the19th century and provided a new basis for information exchange41. Theyreplaced both search warrants in book form, published in the secondhalf of the 18th century, and the insertion of warrants in newspapers witha broader circulation. In Germany, police gazettes were pioneered by Jo-hann Friedrich Karl Merker in Prussia, who started a police periodicalspecialized on search warrants and stolen goods in 1819.

Gazettes like Merker’s Mitteilungen had to attract subscriptionsfrom officials and laymen to cover the costs of its publication. At thesame time, they had to establish a network of collaborators. The core ofnews was collected within the police departments, to which the editor ofthe journal belonged. Even as private initiatives, they relied on the tacitor open support of their superiors. Indeed, the Prussian Home Office

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39 Cf. Appendix of the report of the Hameln police department to the regional gov-ernment, dated November 26th, 1845 (State archive Hannover, Hannover 80, HannoverI, A, 611, 1845-1871).

40 Cf. a critical comment on the contemporary practice of expediting the suspectsto the neighbouring states in K.A.Ch. Heinrich von Kamptz, Ueber das Verfahren beiTransporten und Landesverweisungen der Verbrecher und Landstreicher, in C. Paul(ed.), Allgemeine Criminalordnung für die Preußischen Staaten, Vol. 1, Quedlinburg1836, pp. 6-58.

41 Cf. L. Lucassen, Zigeuner. Die Geschichte eines polizeilichen Ordnungsbegriffes inDeutschland, 1700-1945, Böhlau, Wien u.a. 1996, pp. 122-139.

welcomed this initiative because the financial risk of the production anddistribution had to be shouldered by the editor. Merker received in turninformation and support through the purchase of subscriptions42.

The highly fragmented character of the German Empire called forbetter transnational communication. This need was particularly felt insmaller states, where criminals could easily evade prosecution throughtheir escape into a neighboring state. Searching for them required end-less correspondence with foreign authorities. The Saxon police expertFriedrich Eberhard responded to this challenge by founding his own po-lice gazette – the Polizei-Anzeiger – in 1836. He wanted to establish acommon platform for the entire German «res publica criminalistica» toexchange information about wanted persons and goods across state bor-ders, and to discuss and propagate criminalistic innovations:

Our joint effort in combating professional crime and in reducing criminali-ty can only then carry positive results if all police experts join their forces, pur-sue a common goal, and publish their experiences in the Allgemeine PolizeiAnzeiger43.

Eberhard’s «private» initiative provided a platform for highly moti-vated experts, but could not reach the less zealous administrators in thecountryside. Even ambitious policemen had to overcome financial ob-stacles as the expenses for subscriptions to foreign police gazettes couldhardly be paid from their budget. These two problems – the voluntarynature of the subscription and the difficulty of finding a sufficiently widedistribution outside of the editor’s own state – created severe problemswith regard to the structure and range of the distribution network. Thisearly experience with innovation shows that the police activists werecrucial for the development of new standards, but not sufficient for theirimplementation. To move beyond the narrow confines of a rather smallgroup of enthusiasts, a differently structured network was required. It

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42 The Prussian ministry of police encouraged local police departments to subscribeto Merker’s police gazette in circular letters: the first one was issued in April 1st, 1819,another one in March 21st, 1820. Foreign subscribers were financially important. Theeditors approached the Home Offices of neighbouring countries to find their support inadvertisement campaigns. Cf. the letter of the editors of Merker’s Mitteilungen to theHanoverian Home Office, dated September 17th, 1840 (State Archive Hannover, Han-nover I, Des. 80, A, 627).

43 F. Eberhardt, Aufforderung zur Beförderung der gemeinnützigen Zwecke des all-gem. Polizey-Anzeigers für Thüringen, Franken und Sachsen, in «Allgemeiner Polizei-Anzeiger», 3, 1836, pp. 94-96, p. 95: «Only when all public security officers join forces tofurther their common goals and when they […] publish their experiences in this policegazette, can we hope for a positive result, for an elimination of professional crime and fora reduction of crime in general».

was established with the creation of the Hanoverian Police Gazette as anofficial enterprise.

It is no coincidence that the director of the Hanover police, Wer-muth, crafted a bureaucratically controlled tool only accessible tostate authorities. His prominent role in defending the traditional post-Napoleonic order informed the specific character of his police gazette44.Different from the structure chosen by Eberhardt, where police officialsand philanthropically minded citizens collaborated45, Wermuth trustedonly centrally controlled police initiatives. He suspected citizens to leakpolice secrets to the outside world. Even foreign police departmentswere regarded with suspicion46.

The two different modes of communication within the official andsemi-official police gazettes had at least one common feature: the highmobility and the constant changing pseudonyms of the most dangerouscriminals required the creation of a clearinghouse, where search war-rants and other relevant data on suspects – their appearance, habits, andparticularities – were collected. Wermuth could rely on the bureaucraticstructure and on his authority to request continuous communicationsabout suspects from local police officers to Hanover. Not surprisingly,the Hanover police succeeded quickly in building an efficient and well-equipped centralized unit. Browsing through the thousands of pages ofthe Hanoverian police gazette, one easily discovers that this apparatuswas less apt to resolve the mysteries of suspects than to control the per-formance of local police administrators47.

Conclusion

In this chapter I argue that the social, cultural, and institutional or-ganization of work mattered for the police. It mattered not just in terms

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44 Cf. W. Siemann, «Deutschlands Ruhe, Sicherheit und Ordnung». Die Anfänge derpolitischen Polizei, 1806-1866, Niemeyer, Tübingen 1985, pp. 202-206. Wermuth was ea-ger to create centralized communication networks also fort he control and prosecutionof political opposition.

45 Friedrich Eberhardt wrote in one of his editorials that «the “Allgemeine Polizei-Anzeiger”, to which so far only offices and officials held subscriptions, should be read al-so by many citizens» (F. Eberhardt, Den allgemeinen Polizei-Anzeiger betreffend, in «All-gemeiner Polizei-Anzeiger», 14, 1842, pp. 219-220, p. 219).

46 Report of the Hannover police department to the regional government, dated July31st, 1847. Cf. also Siemann, «Deutschlands Ruhe, Sicherheit und Ordnung», cit., 210, onthe restrictive distribution of the Hanoverian police gazette.

47 The Hanoverian police gazette publicly criticized negligent officials: K. GeorgWermuth, Untitled editorial, in «Hannoversches Polizeiblatt» 16, 1862, pp. 1-6, 5. Cf.Becker, Verderbnis, cit., pp. 225-227.

of securing this organization as part of the political and social fabric butalso rather in terms of their mental maps. When they tried to read thesocial world and particularly the strangers entering their domain, the se-curity personnel used mental maps to classify these strangers for furtherprocessing. The most important distinction, which had to be established,was the one between respectable and suspicious foreigners.

As the better part of the respectable population was involved in reg-ular work with all its physical, social, and cultural implications, the po-lice used the outer signs produced by these occupations to decipher thesocial and professional identity of people. The corresponding mentalmaps could be used in many ways. One of them was the abbreviated de-scription used in search warrants. The reference to regional-professionalmodes of dress was widespread during the 18th century and disappearedat the beginning of the 19th century.

The change in mental maps, which can be deduced from this new or-ganization of search warrant reflected changes of the police as institutionand changes in the social, economic, and cultural environment. The dis-appearance of the stereotypical reference to clothing habits of regional-professional groups did not force references to occupation out of themental maps. On the contrary! Guided by normative expectations to-wards the embodiment of occupation, the gaze of the police expert casta fresh look at the bodies of suspects.

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Simona Mori

Dal benservito al libretto di scorta. Mobilità del lavoro e pubbliche discipline

nella Lombardia preunitaria

La polizia del lavoro costituisce una delle categorie più antiche e piùstrutturate del controllo sociale e una delle primarie ragioni di esistenzadel mondo corporato urbano fra l’evo medio e quello moderno1. Lo sfran-giarsi e il successivo venir meno di quel mondo, nella seconda metà delXVIII, fu effetto e causa a un tempo dell’emergere di spinte destabilizzan-ti, che l’universo dei produttori di manifatture non riuscì più governare in-teramente da sé. Si levò in conseguenza una domanda di polizia che dovet-te per forza di cose essere articolata in un linguaggio nuovo e che rese ne-cessaria l’apertura di una lunga fase interlocutoria con i poteri pubblici, lacui mediazione prese ad apparire sempre più opportuna. Tali poteri dalcanto loro coltivavano all’epoca disegni di patronage dell’economia, che lirendevano assai sensibili alle istanze provenienti dal mondo produttivo.

Mettere a punto strumenti nuovi di governo delle manifatture nonera tuttavia impresa agevole: eterogenei erano infatti sia i soggetti, sia glielementi che chiedevano di essere tenuti presenti in un sistema che, pro-prio a motivo di quella complessità, continuò a privilegiare la dimensio-ne statica e a mostrarsi nel complesso incline alla conservazione. Segna-tamente, l’innovazione normativa nel campo economico, pure ritenutaauspicabile, fu sempre considerata con estrema cautela nella tradizionedello Stato amministrativo in versione lombarda, del quale in specificomi occuperò, e ciò dalla maturità del riformismo asburgico in poi. Si te-meva infatti che la modifica degli assetti dati, per quanto razionale, scon-volgesse i delicati equilibri del mercato e della produzione, tanto da ren-derli irrecuperabili2.

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1 Si vedano sul punto le note generali di P. Napoli, Naissance de la police moderne.Pouvoir, normes, société, La Découverte, Paris 2003, pp. 108 e ss., oltre che i saggi in que-sto volume.

2 A proposito del maturare di prudenti orientamenti liberali nella politica economi-

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Un secondo ordine di problemi era di natura istituzionale, ed è suquesto versante che l’attenzione delle pagine che seguono si focalizzeràdi preferenza.

Seguire la trasformazione della funzione di polizia in un campo tantosegnato dalla consuetudine, e nondimeno dinamizzato dalle trasforma-zioni in atto nel secolo successivo alla pace di Aquisgrana, appare perqueste ragioni un compito stimolante. Come si vedrà, il percorso non fuper nulla lineare e le posizioni assunte di volta in volta dai soggetti politi-camente rilevanti nella determinazione delle regole in materia furono as-sai variabili e finanche sorprendenti, mai facili da prevedere applicandoparadigmi di lettura elaborati per il lungo periodo3.

La ricognizione qui proposta sul caso lombardo prende in esame unsolo segmento del campo che identificava la polizia del lavoro in anticoregime, vale a dire la disciplina della mobilità della manodopera artigia-na. Questo profilo è ben presente nella documentazione locale sette-ot-tocentesca proprio perché coincide con una delle linee di tensione del-l’universo economico urbano nel periodo prescelto. Esso fu oggetto, aopera dei successivi governi, di vari atti normativi, ai quali si accompa-gnò un dibattito che si accese a più riprese nel ciclo secolare, oscillandofra richiami alla consuetudine pre-moderna ed elaborazioni progettualisollecitate dalle emergenze nuove e dagli esempi stranieri. Alcune auto-revoli ricerche si sono già soffermate su singole articolazioni della vicen-da, per lo più muovendo da ipotesi storiografiche di ordine politico-so-ciale4. Nel tornare a visitare il tema, sulla scorta di tali studi e di una con-

ca lombarda, a partire dagli anni Settanta del XVIII secolo, vedi C. Capra, La Lombardiaaustriaca nell’età delle riforme (1706-1796), UTET, Torino 1987, pp. 325-326.

3 Su questa mutevolezza tattica, che spiazza i modelli interpretativi deterministici,sono assai calzanti le osservazioni proposte per il caso francese ancora da Napoli, Nais-sance de la police, cit., p. 112.

4 Mi riferisco specificamente ad A. Forti Messina, La «disciplina degli operai» in Lom-bardia dopo la soppressione delle corporazioni (1787-1796), in «Società e storia», 1978, 1,pp. 481-500; V. Hunecke, Classe operaia e rivoluzione industriale a Milano 1859-1892(1978), il Mulino, Bologna 1982; A. Carera, Minori, apprendisti e «libretti di scorta»: sog-getti e segmenti del mercato del lavoro nella Lombardia austriaca del XIX secolo, in Lodo-vico Pavoni e il suo tempo, Àncora, Milano 1986, pp. 97-124, del quale è utile anche I li-miti del tentato decollo dopo il ritorno degli austriaci, in S. Zaninelli (a cura di), Storia del-l’industria lombarda, 1: A. Moioli, A. Cova, A. Carera, L. Trezzi, Un sistema manifatturie-ro aperto al mercato. Dal Settecento all’Unità politica, Il Polifilo, Milano 1988, pp. 199-248 (part. p. 243). Più in generale, L. Dal Pane, Storia del lavoro in Italia: dagli inizi delsecolo diciottesimo al 1815, Giuffrè, Milano 1944. Sulla legislazione sabauda, che saràestesa alla Lombardia dopo il 1859, vedi in A. Agosti, G.M. Bravo (a cura di), Storia delmovimento operaio, del socialismo e delle lotte operaie in Piemonte, 1: Dall’età preindu-striale alla fine dell’Ottocento, De Donato, Bari 1979, i saggi di N. Lisanti, La nascita delmovimento operaio. 1815-1861, pp. 219-267, E. De Fort, Mastri e lavoranti nelle univer-sità di mestiere fra Settecento e Ottocento, pp. 89-142, A. Lonni, Controllo sociale e repres-

sultazione diretta delle fonti, mi propongo di riconsiderare il percorsonel suo complesso, ponendo attenzione ai criteri culturali che orienta-rono di volta in volta proposte e scelte legislative e alle questioni di na-tura istituzionale che la volontà di dare una disciplina pubblica all’og-getto in questione sollevò, in relazione al mutare del quadro di riferi-mento. Laddove le fonti lo consentono, per il vero non molto, terròpresente anche la prassi amministrativa, mentre per quella giudiziariaalcune testimonianze indirette consentiranno di segnalare per sommicapi come l’auto rità competente sopperisse ai vuoti, all’obsolescenza oalle discrasie della norma.

È certamente possibile rintracciare, sull’esempio degli studi dedicatifra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta alla questione operaia, una traiet-toria protesa, dalla metà del Settecento al primo decennio post-unitario,verso livelli crescenti di coercizione della manodopera, a beneficio diun’industria ancora fragile e perciò incline a costruire le proprie fortunesullo sfruttamento del lavoro con la complicità dei pubblici poteri. Tut-tavia i reperti documentari registrano movenze più complesse e tensioniche è utile considerare da ulteriori angolature5.

Sotto il profilo istituzionale la vicenda, apertasi, lo si è detto, al tra-monto degli assetti corporativi, esemplifica un percorso attraverso ilquale il legislatore, sollecitato da settori dell’universo manifatturiero,prese in carico una specifica domanda di governo dei rapporti di lavoro.Nel far ciò egli si appoggiò a due modelli di risposta, a turno preferiti,che si rivelarono entrambi di difficile applicazione e di incerto esito. Al-l’ingrosso si può dire che ad alcune soluzioni di marca esecutivo-polizie-sca se ne alternassero altre di impronta giurisdizionale, tutte egualmentesegnate da una notevole distanza della prassi dai profili assiologici e nor-mativi. La sequenza, inoltre, lungi dal polarizzarsi sui due estremi, fu re-sa più uniforme dal persistere di consuetudini pregresse, maturate in au-tonomia dall’universo delle arti.

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sione di polizia delle classi subalterne da Vittorio Amedeo II a Carlo Alberto, pp. 143-184.Questi temi sono ripercorsi, in una prospettiva aggiornata, nei primi capitoli di G. Mai-freda, La disciplina del lavoro: operai, macchine e fabbriche nella storia italiana, BrunoMondadori, Milano 2007.

5 Per il periodo in esame, del resto, occorre tenere presente la fluidità degli assettiproduttivi e la debolezza dei rapporti gerarchici che caratterizzano questo primo stadiodello sviluppo dell’economia industriale, il quale presenta un quadro ben diverso daquello del tardo Ottocento. Cfr., oltre che, specificamente, Forti Messina, La «disciplinadegli operai», cit., p. 484; i rilievi di G. Berta, Dalla manifattura al sistema di fabbrica: ra-zionalizzazione e conflitti di lavoro, in Storia d’Italia. Annali, 1: Dal feudalesimo al capitali-smo, Einaudi, Torino 1978, pp. 1088 e ss., e, relativamente all’importante caso del setifi-cio comasco, P. Cafaro, Dalla città manifatturiera al distretto industriale: il caso della tessi-tura serica comasca nel XIX secolo, in G.L. Fontana (a cura di), Le vie dell’industrializza-zione europea. Sistemi a confronto, il Mulino, Bologna 1997, pp. 897-922 (904 e ss.).

1. L’età asburgica e l’editto del 1764

Un nuovo corso nella regolazione dei rapporti di lavoro si aprì inLombardia poco dopo la metà del Settecento, mentre erano ancora in vi-ta le corporazioni di mestiere. All’origine vi fu l’istanza di un gruppo diinteressati, insoddisfatti del modo in cui si dava applicazione ad alcunenorme statutarie. Si trattava di operatori milanesi del settore tessile cheavevano denunciato al governo asburgico la concorrenza sleale insortafra i fabbricanti per l’acquisizione di manodopera, risorsa assai contesain tutto il periodo considerato. Poiché essi domandavano una disciplinagenerale delle prestazioni di lavoro subordinato nelle manifatture, ivicompresa la condotta e la mobilità degli operai, la sovrana accolse la ri-chiesta, emanando nel 1764 un editto che andò a costituire un durevoleriferimento normativo6. Esso intendeva essere al contempo un dispositi-vo di protezione delle imprese e di tutela dell’operaio.

In origine gli statuti delle corporazioni di mestiere avevano prescrittoal capo-bottega il rilascio di un «benservito» allo scadere del contratto,documento che il lavoratore avrebbe dovuto produrre per accedere a unnuovo impiego. Ora, parte del mondo mercantile riteneva opportunoche quel regime fosse rinforzato con la previsione di un passaggio piùmarcatamente pubblicistico. Felice Clerici, proprietario di un lanificioincentivato su fondi pubblici, aveva significativamente proposto «uneditto o un precetto a tutti li fabbricatori presentanei e futuri che alcunonon potesse ammettere al proprio serviggio persona dell’uno e dell’altrosesso, se non avrà presentato il benservito da chi viene a restarne senza, onon abbia giusto motivo di licenziarsi, che dovrà essere conosciuto dalgiudice, o cavaliere delegato»7. Sicché, raccogliendo l’istanza, l’editto del1764 sovrappose al dispositivo meramente corporativo un atto di certifi-cazione/autorizzazione per parte dell’autorità regia, nella forma di una«licenza» comprovante l’adempimento degli obblighi contrattuali daparte del lavoratore, pur sempre in virtù del benservito emesso dal dato-re di lavoro. La norma vincolava tutte le parti: l’operaio che cambiassepadrone avrebbe dovuto presentare l’attestazione, per dimostrare di ave -

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6 Editto 30 maggio 1764, una copia del quale si trova in Archivio di Stato di Milano(ASMi), Commercio, parte moderna (p.m.), busta (b.) 176. Il carteggio in merito ivi,Commercio, parte antica (p.a.), b. 3. La vicenda è attentamente ricostruita da Forti Mes-sina, La «disciplina degli operai», cit., a cui si rinvia anche per un quadro puntuale degliassetti produttivi che le fanno da contesto.

7 Relazione del marchese Carlo Maria Crivelli de’ Cavalli, delegato sopra le nuovefabbriche, al ministro plenipotenziario Firmian, 31 gennaio 1764, in ASMi, Commerciop.a., b. 3, ove si traccia anche un buon quadro del regime del benservito. Sul lanificioClerici, B. Caizzi, Industria, commercio e banca in Lombardia nel XVIII secolo, BancaCommerciale Italiana, Milano 1968, pp. 64-67.

re saldato ogni pendenza con l’ultimo datore di lavoro, il quale peral-tro non avrebbe potuto negare il documento al dipendente solvente; néal nuovo titolare sarebbe stato consentito assumere in assenza del re-quisito imposto per legge. Il lavoratore era sanzionato con il carcere incaso di abbandono prematuro o di mancato ripianamento dei debiti, ei maestri con multe.

Se la prassi del benservito era ricaduta interamente nella sfera di au-togoverno delle corporazioni, che includeva pure la competenza sulcontenzioso di lavoro, l’editto teresiano andava a sovrapporsi a quellasfera, chiamandola a cooperare con la politica economica tardo-mer-cantilista adottata dagli Asburgo sin da Carlo VI. Politica che Maria Te-resa aveva rilanciato al termine della guerra di successione, con il ripri-stino a Milano della Giunta regia per il commercio già istituita dal pa-dre8. L’intromissione del governo nella disciplina tradizionale, sullascorta di precedenti francesi e sabaudi, fu motivata nel preambolo conla volontà di tutelare la specie delle manifatture poste sotto protezioneregia9. Queste ultime erano di fondazione recente e si collocavano tuttefuori dal sistema corporativo, per cui, nel loro caso quantomeno, l’in -ter ven to del potere centrale non sarebbe andato a incidere sui privilegidelle arti. Usate queste cautele in ossequio all’ordinamento giuridico vi-gente, nella parte dispositiva l’editto manifestava tuttavia una chiara vo-cazione al controllo generalizzato della circolazione della manodopera,tanto che istituiva l’obbligo della licenza senza più operare distinzionidi status fra le categorie10.

L’esecuzione era affidata, per la medesima ratio, all’ufficiale già dele-gato, nel seno della Giunta del mercimonio, alla tutela delle fabbriche dinuova fondazione, attività che per un principio di contiguità poté rite-nersi estesa a tutte le aziende, a configurare una generale potestà arbitra-le sulle controversie insorgenti in qualsiasi contesto fra operai e capi-fab-brica. Questa funzione, azionabile su istanza delle parti, andava a incu-nearsi nelle crepe del sistema corporativo, che da tempo stentava a farvalere il dettato degli statuti presso gli associati, intanto che cresceva sul-

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8 L. Trezzi, Ristabilire e restaurare il mercimonio: pubblici poteri e attività manifattu-riere a Milano negli anni di Carlo VI, Franco Angeli, Milano 1986, p. 209; M. Romani,L’economia milanese nel Settecento, in Id., Aspetti e problemi di storia economica lombar-da nei secoli XVIII e XIX, Vita e pensiero, Milano 1977, pp. 122-206 (166).

9 Sulle quali Caizzi, Industria, commercio e banca, cit., pp. 63 ss., e L. Trezzi, Gover-no del mercimonio e governo della città, in C. Mozzarelli (a cura di), Economia e corpora-zioni: il governo degli interessi nella storia d’Italia dal Medioevo all’età contemporanea,Giuffrè, Milano 1988, pp. 133-159 (146 e ss.).

10 Cfr. il parere dell’avvocato fiscale Fenaroli: «plurium universitatum statuta senatuad probante edita et observata idem fere prescribunt. dignus ergo est si universali legeprescriptum fiat, maxime dum pro bono publico augendo suae maiestatis suprema inter-cedit voluntas» (30 aprile 1764, in ASMi, Commercio p.a., b. 3; corsivo mio).

la piazza il numero degli operatori non ascritti alle Università11. Il dele-gato regio, privo naturalmente di giurisdizione, avrebbe svolto compitiispettivi e di polizia, fra i quali anche la facoltà di agire a tutela della li-bertà dell’operaio, sciogliendolo d’ufficio dall’obbligo di produrre il ben -servito dell’ultimo maestro, qualora ve ne fosse l’indicazione. Il conten-zioso generato dall’editto sarebbe rientrato nelle competenze del Senato,suprema corte di giustizia dello Stato: a garanzia di terzietà esso era per-tanto sottratto agli abati delle Università.

Trascorso un anno, un’importante riforma istituzionale nelle materiedi finanza, censo ed economia, effetto di una volontà normativa sovranapiù liberamente dispiegata, sostituì il delegato unico con agenti nomina-ti, a coppie, ovunque si trovassero corpi mercantili12. Questi «capi di piaz -za» furono investiti di funzioni amministrative per gli oggetti di commer-cio e di manifattura e del giudizio in appello, in luogo del Senato, sullecause promosse presso gli abati e i consoli delle locali corporazioni, ov-vero in primo grado laddove le arti non fossero attive. Il loro operato erasubordinato al nuovo Supremo Consiglio d’economia, imponente orga-no proto-amministrativo del governo asburgico dotato, fra le altre cose,di «una generale ispezione sul mercimonio»13.

Per il tramite di queste figure il regime delle licenze di mobilità de-gli operai fu iscritto in un apparato più solido di quanto non fosse lavecchia Giunta, caratterizzato da profili autoritativi assai più marcati,sia pure ancora radicati in un terreno commisto di giustizia e di ammini-strazione. Per altri aspetti, il medesimo regime rimaneva agganciato almondo corporativo, dal momento che lo statuto dei capi di piazza nonera su quel versante privo di ambiguità, poiché alla delega dall’alto asso-ciava una residuale rappresentanza corporativa, con la riserva della can-didatura al corpo mercantile locale e un assetto retributivo giuridica-mente incerto14.

Con la soppressione del Supremo Consiglio d’economia, intervenutanel settembre 1771, i capi di piazza furono a loro volta rimossi e la poli-zia del lavoro tornò a essere esercitata nel seno delle Arti, ora sotto ilcontrollo del dipartimento di commercio, annona e polizia del nuovo

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11 Trezzi, Governo del mercimonio, cit., p. 143.12 Sulla riforma del 1765, Capra, La Lombardia austriaca, cit., p. 225. L’ufficio dei ca-

pi di piazza è messo a fuoco da C. Mozzarelli, La riforma politica del 1786 e la nascita del-le Camere in Lombardia, in Id. (a cura di), Economia e corporazioni, cit., pp. 163-192 (inspecifico pp. 168-171).

13 Ivi, p. 166.14 Nei sei anni di vigenza, i capi di piazza furono presenti in 27 centri, dei quali 4

città, Milano, Pavia, Como e Lodi, e numerosi borghi manifatturieri (ivi, p. 170n.). Altro-ve possiamo ipotizzare che il dispositivo dell’editto del 1764 fosse almeno parzialmentedisatteso, essendovi assente il soggetto erogatore delle licenze di mobilità.

Magistrato Camerale15. Si trattava di una soluzione transitoria, giacché leuniversità andavano frattanto sciogliendosi su impulso governativo, men-tre sin da subito, laddove erano già in essere, furono coinvolte le Cameremercantili, organi rappresentativi che superavano la frammentazionemerceologica degli antecedenti soggetti corporativi16. L’assetto si definìcompletamente nell’età giuseppina, fra 1786 e 1787, allorché le anticheUniversità scomparvero completamente, sostituite dalle nuove Camere dicommercio in tutti i luoghi di traffico17. Queste, è noto, erano sì compo-ste di mercanti, titolari delle imprese più cospicue nei settori di rilievo,ma la matrice statuale e generalizzante del loro ordinamento, la riservadel primo giro di nomine degli abati all’autorità sovrana, l’esalta zio ne deicompiti consultivi in ausilio della regia amministrazione e l’ap pel labilitàdelle loro sentenze ne facevano, piuttosto che organi di autogoverno del-l’economia, enti subordinati al potere centrale. «Per le funzioni […] di-pendenti dalla potestà politica» furono previsti al loro interno anche unoo due «commissarj periti per le manifatture e disciplina degli operarj»,nominati dalla rispettiva Camera con l’approvazione del Governo18. Aqueste figure furono dunque attribuite l’esecuzione dell’editto 30 maggio1764 e la conciliazione delle vertenze di lavoro19. Il contenzioso in primogrado fu invece assegnato agli abati, i quali erano autorizzati ad avvalersidella nuova polizia regia per l’esecuzione delle sentenze.

Il legislatore asburgico aveva esitato a lungo prima di abbandonare lamediazione istituzionale delle università nell’esercizio del controllo sullamanodopera20. Dopo il delegato regio e i capi di piazza, il primo tuttosommato debole e semplicemente sovrapposto alle Arti, i secondi solosuperficialmente agganciati al nascente apparato amministrativo, i com-missari delle Camere, pur sempre ascritti al mondo mercantile sotto di-versi profili, erano ormai la manifestazione di una forma nuova di gover-no della sfera economica, procedente dall’autorità sovrana e applicata auna realtà ormai disaggregata21.

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15 In generale su questa decisiva tornata di riforme amministrative, vedi ancora Ca-pra, La Lombardia austriaca, cit., pp. 224 e ss. e 280.

16 Cfr. quanto richiamato dall’editto governativo 13 aprile 1778, in ASMi, Commer-cio, p.m., b. 176.

17 Mozzarelli, La riforma politica, cit., che trascrive in appendice il testo dell’edittoistitutivo, datato 24 luglio 1786 (pp. 187 e ss.). La fine delle Arti fu disposta nel 1787(Capra, La Lombardia austriaca, cit., p. 330).

18 Editto 24 luglio 1786, cit., artt. XIII e XV. I commissari erano stipendiati dallaCamera, che li selezionava fra artigiani con esperienza nel setificio (cfr. Forti Messina, La«disciplina degli operai», cit., p. 486n.).

19 Ibidem.20 Su queste esitazioni, vedi più in generale le notazioni di Trezzi, Governo del merci-

monio, cit., p. 153.21 Mozzarelli, La riforma politica, cit.

I commissari furono attivi per poco più di otto anni. Quanto sappia-mo dell’opera dei due milanesi consente di riconoscere all’editto del1764 un discreto livello di effettività. Nella città furono rilasciate nel pe-riodo oltre 1.200 licenze all’anno, con un’incidenza nell’ordine del 5%sul totale dei lavoranti e dei garzoni censiti dalla storiografia22. Laddovel’obbligo della licenza fosse stato disatteso, i fabbricatori danneggiati ri-corsero in buon numero all’istanza commissariale, e di seguito, nei raricasi di fallimento della conciliazione, alla giurisdizione mercantile. Com-plessivamente i procedimenti di composizione infragiudiziale furonoquasi 650 l’anno nello stesso arco temporale, a dire che un altro 2,5% dioperai, per la gran parte della manifattura serica, fu coinvolto, per lo piùcon l’accusa di avere abbandonato il lavoro anzitempo.

Ciononostante, sul finire del regime asburgico si levarono proteste cir-ca la scarsa applicazione della disciplina delle licenze e l’affievolimentodell’efficacia preventiva dell’editto teresiano23. A questi rimarchi non an-darono disgiunte pressioni affinché si adottassero misure più stringenti. Sen’era già incaricato per tempo l’intendente provinciale di Milano, con l’o -biettivo di far pesare la propria competenza «politica», senza riuscire a ot-tenere alcun appoggio né dalla Camera mercantile, né dal Consiglio di go-verno, che si era allineato al parere del suo relatore in materia, Cesare Bec-caria24. Entrambe le istituzioni si erano dichiarate contrarie ad accrescerel’intervento pubblico e il livello di coercizione nei rapporti economici, pertimore che ciò generasse flussi migratori verso contesti meno vincolati.

Restava la persuasione che il mercato del lavoro, a Milano in specie,avesse perduto ogni regola, come da ultimo furono forzati ad ammetteregli stessi commissari periti della Camera di commercio. Nel 1794 essi sidichiararono impotenti a ottenere l’osservanza della normativa, «in oggiormai fattisi quasi tutti gli operaj incorreggibili» e del tutto insubordinatiall’autorità pubblica25. All’origine stavano, a parer loro, per un verso lacrescita quantitativa della forza lavoro, che ne rendeva i movimenti in-controllabili, e per l’altro il proliferare di nuove ditte di filatura e di tessi-tura, che si adoperavano per sottrarre manodopera alle vecchie senza

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22 Forti Messina, La «disciplina degli operai», cit., p. 487. Una stima riguardante lasola città di Milano, proposta da Capra, La Lombardia austriaca, cit., p. 430, sulla scortadi C.A. Vianello, quantifica in 23.300 il numero degli operai, lavoranti, giornalieri e gar-zoni per il 1770 circa.

23 Vedi quanto riferisce a posteriori il commissario di polizia di Crema, 4 settembre1818, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.

24 La consulta dell’intendente data 1787 e si trova, con il resto del fascicolo, inASMi, Commercio, p.a., b. 6. Su quel dibattito, che riguardò poi anche la realtà comasca,cfr. Forti Messina, La «disciplina degli operai», cit., pp. 495-497. Al disinteresse della Ca-mera milanese verso il tema della disciplina degli operai fa cenno Mozzarelli, La riformapolitica, cit., pp. 183-184.

25 Relazione del 20 febbraio 1794, fascicolo 269, in ASMi, Commercio, p.a., b. 6.

preoccuparsi delle licenze. Pesava inoltre la scarsa formalizzazione deirapporti contrattuali, fondati in larga misura su accordi verbali, di arduaesigibilità in sede giudiziaria. Infine, e questo è l’aspetto più rilevantesotto il profilo che qui interessa, contava la debolezza dell’ufficio com-missariale, privo di poteri sanzionatori di qualunque entità26.

Facendo propria l’analisi e mutando perciò orientamento, anche ilcollegio mercantile milanese domandò per sé attribuzioni più penetrantiper sostenere l’applicazione del sistema delle licenze, a condizione chequesto fosse snellito da alcuni vincoli27. Il Magistrato camerale accolse lapetizione nell’istruttoria per la formazione di un nuovo regolamento ge-nerale, che non vide la luce per il sopravvenire del cambio di regime28.Di fatto, entro la fine della prima età asburgica ci si limitò ad apportarealcuni ritocchi, volti piuttosto a rafforzare l’azione giudiziale nei casi diviolazione dell’editto, continuandosi in fin dei conti a far leva sull’effettodeterrente del potere magistratuale29.

La volontà di controllo preventivo sul mondo delle arti in forme ese-cutive e poliziesche, manifestato dalle regie autorità nell’età asburgica,aveva dunque trovato il maggior limite nella difficoltà di reperire agentiistituzionali idonei. Questa debolezza sul versante organizzatorio si era asua volta ripercossa sulla norma, che era parsa agli interessati poco effi-cace, alimentando la tendenza del sistema a rifluire verso le vie del con-tenzioso giudiziario. Ciò tuttavia era avvenuto in un quadro in cui le ca-pacità di autoregolazione dello spazio economico erano saltate, per cui lasoluzione meramente giurisdizionale che da ultimo si era prospettata,mai sperimentata in precedenza disgiuntamente dalla polizia esercitatadalle arti, si era dimostrata incapace di assicurare livelli accettabili di go-vernabilità del sistema stesso.

2. La parentesi francese

Il regime rivoluzionario e napoleonico manifestarono un’attitudinepiù radicale, ponendo mano sul piano normativo una de-regolazione, in

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26 Lettera della Camera al Magistrato camerale, 3 aprile 1794, ivi.27 Ibidem. Si chiedeva che l’emissione della licenza non fosse più subordinata alla li-

quidazione dei debiti, per ottenere la quale il padrone creditore avrebbe potuto agire perle vie ordinarie (cfr. Forti Messina, La «disciplina degli operai», cit., p. 498, che ritienelungimirante e moderna la proposta).

28 Allegato ai verbali della sessione 18 aprile 1794, ASMi, Commercio, p.a., b. 6.29 Vedi il parere del consigliere relatore Assandri reso in Magistrato camerale, 18

aprile 1794, ivi. Analogie si riscontrano nelle posizioni caute, sia pure più decisamenteorientate alla conservazione del regime corporativo, espresse dal governo sabaudo in Pie-monte, su cui vedi De Fort, Mastri e lavoranti, cit., pp. 113-127.

virtù della quale i rapporti economici furono assimilati alla generalità deirapporti civili, e, parallelamente, alla pubblica autorità fu riconosciuta inmateria la sola funzionalità giudiziaria su istanza di parte. Questo nitidodisegno si rivelò tuttavia poco praticabile alla prova dei fatti e vennecompensato con la conservazione, poi con il rafforzamento della giuri-sdizione speciale per gli oggetti di commercio, fra i quali restarono inclu-se le relazioni di lavoro in essere nelle officine.

Nel periodo i profili istituzionali subirono alcune lievi modifiche. LeCamere di commercio giuseppine operarono sino all’avvento della Re-pubblica italiana, per esser poi sostituite da collegi omonimi, simili nel-l’impianto, ma più nettamente concepiti come istanze di giudizio30. Poi-ché la loro organizzazione non contemplava più i commissari periti, ilcontrollo dei lavoranti ricadde direttamente sull’organo principale, fra icompiti di polizia di settore previsti dal Regolamento camerale del180431. È facile immaginare le difficoltà di un corpo collegiale a esercita-re quel tipo di attribuzioni, senza l’ausilio di forme di delega a soggettimonocratici rivestiti di adeguata autorità.

Sul piano delle norme sostanziali non fu ovviamente adottata alcunamisura specifica, in linea con quanto anticipato in premessa, per cui ivincoli risultarono alleggeriti dal fatto che in via di principio gli ordina-menti previgenti poterono essere considerati decaduti, ove non espressa-mente riconfermati. Dal 1806 i profili legislativi della disciplina del lavo-ro manifatturiero furono quelli delineati generalmente dal Codice civilein materia di contratti, con alcune esili integrazioni previste per la speciedella locazione d’opera «all’altrui servigio»32. Sul versante processuale, ilCodice di commercio promulgato nel 1808, che pure non elencava espres -samente questa declinazione del contenzioso negli oggetti posti sotto lagiurisdizione dei tribunali commerciali allora istituiti, lasciò aperta la pos -

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30 L. Antonielli, Le Camere di commercio napoleoniche, in Mozzarelli (a cura di),Economia e corporazioni, cit., pp. 193-236 (sul punto pp. 194-195).

31 Ivi, p. 209. Una copia del Regolamento per le Camere primarie e sussidiarie di com-mercio della Repubblica italiana, 30 aprile 1804, è consultabile in ASMi, Commercio,p.m., b. 21.

32 Sui contratti in generale, Codice di Napoleone il grande pel Regno d’Italia, RealeStamperia, Milano 1806, Titolo III: Dei contratti o delle obbligazioni convenzionali in ge-nere, artt. 1101 e ss.; sulla locazione d’opera, ivi, Titolo VIII, Capo III, Sezione I: Dellalocazione delle opere de’ domestici e degli operaj, artt. 1780 («Nessuno può obbligare isuoi servigi che a tempo, o per una determinata impresa») e 1781 («Si presta fede al pa-drone sopra la sua giurata asserzione, per la quantità delle mercedi; per il pagamentodel salario dell’annata scaduta; e per le somministrazioni fatte in conto dell’anno cor-rente»). Sull’indisponibilità della cultura franco-napoleonica a riconoscere il lavoro co-me campo di specialità giuridica vedi in generale G. Cazzetta, Lavoro e impresa, in M.Fioravanti (a cura di), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 139-162 (143).

sibilità per i maestri di adire quella magistratura, ove essa fosse operante,in alternativa alla ordinaria33.

Nelle maglie larghe del nuovo diritto codificato non tardò tuttavia ainsinuarsi il vecchio armamentario corporativo, che, venuto meno con ilcambio di regime, rimase operante a titolo di consuetudine attraverso lagiurisprudenza delle Camere prima e dei Tribunali commerciali poi.Neppure questi ultimi furono in grado di prescindere interamente dallenorme corporative, recuperate più spesso nelle forme in cui le avevanorecepite nei diversi territori italici alcuni recenti atti dispositivi sovrani.Così, mentre la Camera bergamasca aveva reso le sue sentenze ai sensi diun’ordinanza della Repubblica di Venezia, a Como l’editto del 1764 eraapplicato dal Tribunale locale «qual legge amministrativa»34. Questo aconfermare, se ve ne fosse bisogno, la distanza che non di rado separavala prassi dell’amministrazione dalla cultura giuspolitica professata dalloStato franco-napoleonico.

L’allentamento dell’attenzione del centro, per effetto del prevaleredella via giudiziaria e del ritrarsi dello Stato dall’amministrazione dellasfera economica, rispetto all’attitudine proto-poliziesca manifestata dagliAsburgo, generò del malcontento. Settori importanti del mondo commer-ciale lombardo presero a lamentare la scarsa solerzia delle Camere nell’o-pera di prevenzione e di correzione degli illeciti lievi, che pareva lorotroppo sacrificata all’attività giudiziaria35. Ciò contribuì a indebolire la po-

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33 Il Codice di commercio di terra e di mare per il Regno d’Italia, Reale Stamperia, Mi-lano, 1 settembre 1808, non si occupa di rapporti di lavoro interni alle imprese commer-ciali. A una competenza dei tribunali di commercio napoleonici su tali rapporti fa riferi-mento una relazione del delegato provinciale di Mantova, 25 settembre 1818, in ASMi,Commercio, p.m., b. 176. Il foro camerale aveva dapprima conosciuto le controversie inoggetti commerciali nelle quali entrambe le parti fossero dotate dei requisiti soggettivi diappartenenza alla classe dei mercanti, secondo la definizione che ne aveva dato la rifor-ma delle Camere del 1802 («Sono mercanti tutti li fabbricatori, banchieri e negozianti al-l’ingrosso e al minuto…», e «Tutte le cause, che sopra affari di commercio insorgono framercante e mercante, sono cause mercantili»; cfr. G. Paletta, La Camera di commercio diMilano dal 1786 al 1920: un profilo storico-istituzionale, in Guida agli Archivi della Came-ra di commercio di Milano, Rubbettino, Soveria Mannelli 1998, pp. 13-67, a p. 21). Algiudice speciale si rivolgeva dunque il fabbricatore che intentava causa contro un pro-prio pari, il quale gli avesse sottratto un operaio senza pretendere il benservito. Dal Co-dice di commercio fu invece adottato un requisito oggettivo, che allargò il ventaglio deisoggetti abilitati ad adire il tribunale speciale, qualora la causa riguardasse un oggetto dicommercio (ibidem).

34 Vedi rispettivamente la relazione del delegato provinciale di Bergamo, 18 settem-bre 1818, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176, e quella del consigliere Luigi Crespi, per lasessione del Consiglio di governo 3 gennaio 1834, in ASMi, Commercio, p.m., b. 177, fa-scicolo 517.

35 Cfr. la documentazione conservata in ASMi, Commercio, p.m., b. 176, che si esa-minerà più avanti, e quanto osserva Antonielli, Le Camere di commercio, cit., p. 211.

sizione di quelle istituzioni, che di lì a poco, come accennato, furono spo-gliate sia della giurisdizione mercantile, trasferita a tribunali di commerciostatali, sia dell’ufficio di conciliazione, assegnato ai giudici di pace36.

Il passaggio avveniva in una fase particolarmente delicata. Mentreper un verso il mondo delle manifatture lombarde andava facendosi piùarticolato, per l’altro la mobilità del lavoro propendeva ormai a scavalca-re i confini comunali e provinciali. La concorrenza si giocava più spessosu scala regionale, coinvolgendo non solo singole ditte, ma interi centrimanifatturieri. In quello scenario Milano si imponeva come polo capacedi attivare cospicue migrazioni regionali, sottraendo manodopera allecittà vicine37. Con l’intensificazione e l’estensione del movimento dellamanodopera, saltarono ovviamente le strategie locali incentrate sull’au-toregolazione nell’ambito delle singole categorie merceologiche. Si feceperciò più acuta l’esigenza non tanto di dispositivi giuridici, quanto diprofili organizzativi specificamente finalizzati alla polizia del lavoro, chefossero sostenuti da un’adeguata competenza territoriale.

È sintomatico che proprio negli anni napoleonici aumentassero lepetizioni rivolte al Governo a tale proposito. Nel 1809 due fabbricantimilanesi di drappi di seta domandarono un «piano disciplinare deglioperai», invocando la reintroduzione di figure commissariali, se possibi-le ricalcate su quelle ch’erano state attive presso le Camere di commerciogiuseppine38.

Di maggior momento fu un’iniziativa intrapresa dalla Direzione ge-nerale di polizia nel 181339. Stimolata da alcune denunce provenienti dalcomasco, essa presentò un progetto per l’introduzione del sistema fran-cese del libretto di scorta, prospettando l’attribuzione dei compiti esecu-tivi ai propri uffici centrali e periferici. La disciplina della mobilità deglioperai sarebbe stata così assorbita in toto nella sfera di competenza dellapolizia, la quale avrebbe avuto così «il mezzo d’esercitare un’immediatanecessaria vigilanza sopra questa classe d’individui». La proposta, comeprevedibile, non piacque alla Camera di commercio di Milano, per cui ilministro dell’interno Vaccari lasciò cadere il dossier 40.

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36 Ivi, pp. 213 e ss. Cfr. Attribuzioni dei giudici di pace nelle materie correzionali, cri-minali, e di polizia a norma delle leggi vigenti e del Codice di procedura penale, MoliniLandi, Firenze 1808.

37 Vedi la relazione del Commissariato di polizia di Crema, 4 settembre 1818, inASMi, Commercio, p.m., b. 176, e quella del delegato provinciale di Como alla Direzionegenerale di polizia, 5 luglio 1821, ivi. Sulla concentrazione geografica in atto nell’indu-stria serica agli inizi della Restaurazione B. Caizzi, L’economia lombarda durante la Re-staurazione (1814-1859), Banca Commerciale Italiana, Milano 1972, p. 81.

38 A questa prima «rappresentanza» fa riferimento una seconda petizione degli stessirichiedenti, in data 31 luglio 1818, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.

39 Progetto senza data, ma, come si evince dal contesto, 20 novembre 1812, ivi.40 Relazione 5 marzo 1813, ivi. Il ministro argomentò la bocciatura appigliandosi al-

Per il momento una sola categoria di lavoratori fu sottoposta a con-trolli di stampo poliziesco: dal 1810 i domestici di entrambi i sessi furonoobbligati a documentare il proprio curriculum attraverso un libretto, cheil datore di lavoro avrebbe tenuto in custodia per la durata del servizio41.Il certificato era rilasciato da un Ufficio della servitù aperto presso la Pre-fettura di polizia di Milano. La misura era stata prevista in origine soltan-to per la capitale, dato l’elevato numero di servitori che vi risiedeva, conrisvolti di ordine pubblico potenzialmente significativi42. In seguito la suavalidità fu estesa a tutte le maggiori città del Regno, vale a dire a Venezia,a Bologna, a Brescia e a Verona. Dopo la Restaurazione l’Ufficio della ser-vitù sarebbe stato annesso alla Direzione generale di polizia e il decretoitalico sarebbe rimasto in vigore a Milano, dove fu applicato sino al prin-cipio degli anni Trenta. A Brescia, dove pure era stato formalmente con-servato, esso cadde rapidamente in obsolescenza con l’avallo del governo,restio a infliggere noie burocratiche al notabilato locale43.

La disciplina dei domestici introdotta in età napoleonica prefiguravaun sistema di controllo destinato a estendersi in età successive, per il mo-mento riservato a un settore che non era soltanto particolarmente fitto diaddetti, ma anche assai mobile, percorso da reti relazionali molto attive etroppo prossimo alla sfera proprietaria privata per non sollecitare gli im-pulsi repressivi dei poteri pubblici44. Al confronto gli operai manifattu-rieri, per quanto presenti in ordini di grandezza non dissimili, appariva-no ancora innocui all’élite sociale e politica.

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la diversità degli assetti produttivi fra Francia e area italica e alla dubbia affidabilità dellibretto come strumento di certificazione. Su questi aspetti, vedi Carera, Minori, appren -disti, cit., p. 114.

41 Decreti 16 ottobre e 7 novembre 1810, in «Bollettino delle leggi del Regnod’Italia», 1810, II. Sull’applicazione cfr. anche la consulta del Governo lombardo al vi-ceré, 29 gennaio 1830, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.

42 Per l’età napoleonica, vedi O. Faron, La ville des destins croisés. Recherches sur lasociété milanaise du XIX siècle, École française de Rome, Rome 1997, p. 205, che riportale seguenti cifre: 11.620 domestici per il 1804 e 14.665 per il 1805, pari rispettivamente al22 e al 24% della popolazione milanese attiva. Nel 1838 erano censiti nella capitale quasi12.000 domestici (F. Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica 1814-1915, Franco Angeli,Milano 1987, p. 12), tenendo conto soltanto dell’area interna, esclusi i Corpi Santi. Suuna popolazione complessiva di 145.000 persone circa, si trattava dell’8,3% (dati demo-grafici in M. Romani, L’economia milanese nell’età della Restaurazione, in Storia di Mila-no, XIV, Sotto l’Austria (1815-1859), Fondazione Treccani degli Alfieri, Milano 1960, pp.673-740, a p. 708). All’epoca i lavoranti nelle manifatture urbane erano 9.700 (ivi, p.712), impiegati per 1/3 abbondante nel tessile.

43 Relazioni al Consiglio di governo 6 novembre 1830 e 1 febbraio 1831, in ASMi,Commercio, p.m., b. 176.

44 L’allarme per i furti domestici, per esempio, era molto elevato nella città, divenuta«un vero bosco di ladri» secondo una nota fonte coeva [cfr. E. Pagano, Il Comune di Mi-lano nell’età napoleonica, 1800-1814, Vita e pensiero, Milano 2002 (rist.), p. 180].

3. I dibattiti della Restaurazione

Con la restaurazione del regime austriaco, si prospettarono ben pre-sto novità rilevanti per il governo delle manifatture, sia sul fronte del di-ritto, sia su quello dell’organizzazione.

La disciplina del lavoro subordinato urbano, già provvista dal Codicecivile generale promulgato da Francesco I nel 1815 con una norma di ge-nere più stringente del precedente napoleonico, trovò accoglienza anchenel nuovo diritto penale45. Essa fu dunque consacrata una volta per tuttecome oggetto di polizia quanto ai profili giuridici: nella seconda partedel Codice dei delitti e delle gravi trasgressioni politiche, al Capo VI, dedi-cato alle «gravi trasgressioni politiche contro le disposizioni e gl’istitutipubblici spettanti alla sicurezza comune», il paragrafo 79 disponeva che

un maestro artigiano, il quale accetta un lavorante non provveduto del soli-to attestato o certificato in regola, verrà punito la prima volta con una multa difiorini cinque, la seconda col doppio, la terza con arresto sino alla durata d’unmese; a misura poi che vi saranno delle circostanze equivoche, egli perderà il di-ritto di poter esercitare l’arte46.

Questa norma severa rappresentava un passo rilevante sul piano con-cettuale, in quanto trasformava la violazione dell’obbligo di certificazio-ne in contravvenzione, rendendola perseguibile dalla cosiddetta «giuri-sdizione politica». Tale passo non segnò tuttavia una svolta radicale nel-l’effettività del quadro legislativo. Il Codice infatti presupponeva il persi-stere del vecchio sistema dell’attestato (o benservito), o del certificato (la

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45 Codice civile generale austriaco, Regia Cesarea Stamperia, Milano 1815, § 1160:«Le persone che hanno locato l’opera loro per un tempo determinato, o sino al compi-mento del lavoro determinato, non possono senza un legittimo motivo abbandonare illavoro, né essere congedate prima che sia scorso il tempo e portata l’opera al suo termi-ne. Se il lavoro viene interrotto, ciascuna delle due parti è risponsabile per la propriacolpa, ma nessuno nel caso fortuito». Nel Regolamento generale del processo civile, §398, era pure previsto che il giudice obbligasse il lavoratore a portare a compimentol’opera, anche applicando pene corporali, a meno che l’attore non optasse per il risarci-mento pecuniario.

46 Codice dei delitti e delle gravi trasgressioni politiche pel Regno Lombardo-Veneto,Regia Cesarea Stamperia, Milano, 1 ottobre 1815. A carico dei garzoni e degli operai erainvece disposto, ai sensi del § 229 della Seconda parte, il divieto di «colludere» contro ilmaestro allo scopo di ottenere migliori condizioni salariali o altro (Capo undecimo, Dellegravi trasgressioni politiche contro la sicurezza della proprietà). Per l’applicazione di que-ste norme vedi la puntuale relazione della Camera di commercio di Mantova, 25 settem-bre 1818, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176. A proposito della seconda parte del Codicepenale austriaco, per tutti S. Tschigg, La formazione del Codice Penale Austriaco del 1803,in Codice penale universale austriaco (1803), ristampa anastatica, Cedam, Padova 1997,pp. LI e ss. (LXI).

licenza nel contesto lombardo) dell’autorità pubblica, vale a dire, in en-trambi i casi, dei corpi di mestiere. In Lombardia, dove questi erano datempo venuti meno, ciò portò all’ennesima riattualizzazione dell’edittoteresiano a opera di alcune Camere di commercio, che seguitarono a rila-sciare licenze, e dei giudici di commercio, che la applicarono a titolo diconsuetudine in sede processuale, per integrare il dettato lacunoso delCodice47. Ma già sappiamo che l’efficacia di quell’assetto era assai tenue.

Il nuovo ordinamento penale modificò pure il disegno istituzionale,con la previsione di un’ulteriore istanza di giudizio, attivabile dalle partiin concorrenza con il Tribunale commerciale, che sussisteva dall’epocaprecedente a vantaggio però dei soli datori di lavoro48. In forza del § 79infatti i reati connessi alla mobilità dei lavoratori furono inclusi nellacompetenza delle già menzionate «giudicature politiche», ovvero deigiudici di pace dapprima, e poi delle preture, che sostituirono i priminella medesima funzione a partire dal 1818. La competenza delle pretureurbane a giudicare «delle pretensioni delle persone di servigio verso i lo-ro padroni» fu confermata di lì a poco da una Notificazione, che ricevetteun’interpretazione estensiva, la quale consentì ai lavoranti di esigerel’applicazione del Codice nel proprio interesse49.

La risposta ai problemi in discorso restava insomma di carattere emi-nentemente giudiziale, come tale ex post e per sua natura lenta. Insuffi-ciente, secondo una parte degli operatori coinvolti, a ben governare uncontesto in pieno fermento50. Sicché nel giro di qualche anno, tornati al-la carica i medesimi promotori della petizione del 1809, il Governo do-vette prenderne le istanze in seria considerazione51. Com’ebbe a notare il

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47 Il consigliere Crespi, nella già citata relazione 3 gennaio 1834, testimoniava di un casoverificatosi a Como nel 1829, in cui la violazione dell’editto 1764 era stata denunciata comegrave trasgressione politica ai sensi del § 79 del Codice penale, e punita come tale con tregiorni di arresto. Il rilascio delle licenze da parte della Camera di Como è attestato invece dauna relazione del delegato provinciale, 5 luglio 1821, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.

48 Sul sistema giudiziario del Regno Lombardo-Veneto, cfr. N. Raponi, Il RegnoLombardo-Veneto (1815-1859/66), in Amministrazione della giustizia e poteri di poliziadagli Stati preunitari alla caduta della Destra, Istituto di Storia del Risorgimento, Roma1986, pp. 93-164. Il regime austriaco conservava la giurisdizione sul commercio in capo aspeciali tribunali statali, mentre le Camere mercantili, nonostante le richieste da esseavanzate, continuarono a esercitare la sola funzione consultiva e arbitrale [M. Meriggi,Le Camere in Lombardia dal 1814 al 1859, in Mozzarelli (a cura di), Economia e corpora-zioni, cit., pp. 237-269, a pp. 243 e ss.].

49 Alla notificazione, datata 15 settembre 1820, fa riferimento la relazione Crespi del3 gennaio 1834, cit.

50 Ibidem.51 Lettera di Francesco Gallarini e Giuseppe Antonio Osnago, fabbricanti di stoffe

di seta, 31 luglio 1818, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176. La ditta Osnago, localizzatafra Milano, Como e Cavenago, era una delle maggiori per numero di addetti (Caizzi,L’economia lombarda durante la Restaurazione, cit., pp. 85-86).

consigliere Benedetto Broglio, «la necessità di supplire ai vuoti che le in-novazioni dei metodi e sistemi precorsi lasciano sussistere si fa giornal-mente conoscere; le Camere mercantili vanno chiedendo provvidenze,ed una sistemazione su questo articolo di pubblica economia chiama lasuperiore benefica attenzione»52.

Nel 1818 si procedette perciò a un giro di consultazione dei delegatiprovinciali, per accertare le esigenze di tutti i rami di manifattura, senzapiù limitarsi al tessile53. Il nodo della questione risiedeva a giudizio deifunzionari più avvertiti nella

parte di giurisdizione da esercitarsi in via economico-amministrativa che puòriferirsi alla coattiva, onde le norme prescritte, [tanto per] la sopraveglianza de’commercianti, quanto per la disciplina de’ manifatturieri e degli operai ed artisti,fossero rigorosamente osservate indipendentemente dal ricorrere perciò alle rigi-de e lente forme di un regolare giudizio presso i Tribunali di commercio54.

Le risposte delle Delegazioni evidenziarono la forte disomogeneitàdegli assetti produttivi sul territorio lombardo e l’esistenza presso le Ca-mere di commercio di viste assai difformi sul controllo del lavoro ope-raio. Nelle province di Lodi e di Sondrio le imprese artigiane e industria-li erano così rare da escludere del tutto il problema dall’agenda locale.Ma in quelle ove le aziende erano fitte, vale a dire Bergamo, Como e Bre-scia, il tema era bene al centro dei dossier, così come le implicazioni delproblema sul versante dell’ordine pubblico, talora enfatizzate dai com-missariati di polizia annessi alle amministrazioni provinciali. Milano fa-ceva, al solito, parte a sé, e certo non per caso la sua Camera di commer-cio si dichiarava ancora una volta contraria a ogni riforma55.

Quanto alle soluzioni, alcuni regi delegati reputavano necessariorafforzare il controllo preventivo coinvolgendo gli organi di polizia equalche Camera era dello stesso avviso56. Altre suggerivano che gli stru-

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52 Relazione inclusa nel fascicolo dell’istruttoria per la sessione del Consiglio di go-verno 13 agosto 1818, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.

53 Circolare 19 agosto 1818, ivi, con il fascicolo delle risposte.54 Relazione del Governo alla Cancelleria aulica, 5 novembre 1819, in ASMi, Com-

mercio, p.m., b. 23, già citata in Meriggi, Le Camere in Lombardia, cit., p. 243.55 Cfr. sopra, n. 53. Sugli orientamenti della Camera milanese, vedi anche Paletta, La

Camera di commercio di Milano, cit., passim.56 Relazioni dei delegati di Bergamo, Torriceni, 18 settembre 1818, di Lodi, Giusep-

pe Casati, 4 ottobre, di Como, Dossi (vicario), 6 gennaio 1819, in ASMi, Commercio,p.m., b. 176. Sulle istanze dei fabbricanti di seta del comasco, che attraverso l’organomercantile locale domandarono con insistenza discipline più strette della manodopera,nei primi due decenni della Restaurazione e oltre, vedi Maifreda, La disciplina del lavoro,cit., p. 55, che rinvia a Cafaro, Dalla città manifatturiera al distretto industriale, cit., p.907. La manifattura serica del centro brianzolo risentiva ancora negli anni Cinquanta

menti «correzionali» fossero restituiti agli organi mercantili, prospettan-do un ritorno all’antico ordine corporativo. Riferendosi ai ventilati nuoviregolamenti, asseriva la Camera mantovana che

queste disposizioni non diventerebbero […] una vera provvidenza, sennonemancipassero le controversie dalle formalità giudiziarie, per cui si rende indi-spensabile il commetterle ad un’autorità economica (questa incombenza era af-fidata alle Camere di commercio), che giudichi stante pede, salvo il beneficio delricorso, pendente il quale per altro si abbia ad obbedire a quanto venga statuito,salvo in caso di riforma, il reintegro tra le parti come di diritto57.

Se le Camere, mosse da intenti repressivi, potevano guardare con fa-vore all’intervento in via amministrativa, magari preferendogli il ripristi-no tout court dell’autogoverno corporativo, i delegati vedevano nell’uffi-ciale di polizia prestato al governo delle manifatture una garanzia sì diordine, ma anche di terzietà. Premeva a qualcuno di essi che agli operaifosse data facoltà di ricorrere a un soggetto istituzionale non interessato,«nel caso che per parte dei loro padroni venisse irragionevolmente dene-gata l’accennata dichiarazione»58. Per questo motivo era da escludereche tale compito potesse essere svolto dalle Camere di commercio, nellequali una sola parte in causa era rappresentata.

L’inchiesta diede modo di esaminare con più attenzione i profili diresponsabilità. L’editto teresiano aveva previsto il concorso dell’operaioe del nuovo datore di lavoro, per quanto con sanzioni di natura diversa.Il codice penale austriaco chiamava in causa il solo padrone, vietandoglidi assumere operai privi del benservito, senza far riferimento agli obbli-ghi di questi ultimi, che restavano soggetti al solo Codice civile59. Ora daalcune Camere venivano proposte che in modo surrettizio deresponsabi-lizzavano il fabbricante, accrescendo per contro le sanzioni all’operaioinadempiente. Diversamente, due belle relazioni delegatizie insistevanoperché anche sotto questo aspetto si tutelassero maggiormente glioperai60. La prima, proveniente da Milano, si opponeva all’istituzione diun’autorità di polizia, in sintonia con le posizioni liberiste della Cameralocale, ma anche al rafforzamento dei vincoli per i lavoranti, suggerendodi puntare a una maggiore efficienza dei procedimenti giudiziari. La se-conda, da Pavia, esaltava per contro i benefici dell’amministrazione «po-

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dell’«ordinamento in molte parti rudimentale delle sue fabbriche e […] dell’ibrida ac-cozzaglia delle sue maestranze» (ivi, pp. 908-909), dotate nel complesso di larga autono-mia e di elevato potere negoziale.

57 Mantova, 25 settembre 1818, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.58 Delegato di Bergamo, 18 settembre 1818, cit.59 Cfr. sopra, nn. 45 e 46. Lo rilevava acutamente il delegato di Milano Carlo Del

Mayno, 21 ottobre 1818, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176. 60 Ibidem; Pavia, 19 febbraio 1819, ivi.

litica», chiedendo però punizioni più severe per il datore di lavoro chenegasse il benservito all’operaio senza motivo o che in altro modo lo trat-tenesse forzatamente con sé. Pur muovendo da posizioni opposte, i duefunzionari reputavano necessaria una figura equidistante, come si dicevapoc’anzi, rivestita di conveniente autorità.

«È quasi unanime l’opinione delle I.I. R.R. Delegazioni sulla neces-sità e convenienza di richiamare in vigore le discipline già in corso in talemateria», riassumeva il protocollo del Consiglio di governo, senza tutta-via arrivare a una chiarificazione del punto più controverso: chi dovesseessere incaricato dei compiti esecutivi61. Comunque fosse, queste lunghediscussioni molto contribuirono a tematizzare la questione nel contestoregionale, senza tuttavia riuscire ad attivare proficue sintonie con il cen-tro della Monarchia.

Nella capitale asburgica ci si stava muovendo su altre piste per predi-sporre un regime di controlli adeguato alla pluralità dei domini e si guar-dava con occhi assai interessati al sistema che era stato fissato in Franciadalla normativa consolare. All’altezza del 1820 il Governo lombardo fuconsultato circa la praticabilità dell’introduzione del libretto di scortasul modello francese, nel quale si vedeva una versione aggiornata di unatradizionale pratica di certificazione delle prestazioni di lavoro artigiana-le vigente negli Stati tedeschi62. La forma del libretto offriva garanzie piùsicure riguardo all’attestazione dell’identità, necessaria per ovviare all’a-buso del cambio di mano cui erano spesso soggette le Kundschaften do-mestiche, così come, al di qua delle Alpi, le carte di benservito e le licen-ze. Il ministro Stahl aveva maturato, con la lettura delle opere di Costaz edi Chaptal sulla fioritura dell’industria francese, la convinzione «dell’uti-le di queste organizzazioni di polizia riguardo ai mestieri, quantunque vifu introdotto il libero esercizio dei mestieri»63.

La risposta che il consigliere Broglio si incaricò di redigere per contodel Governo fu però assai tiepida. Il tenore del riscontro mostra quanto,all’epoca, la questione dei flussi migratori di operai a cavallo dei confini

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61 Protocollo 26 marzo 1819, con parere del consigliere Benedetto Broglio, ivi. Il fa-scicolo passò nelle mani della Commissione mista incaricata di esaminare i progetti per ilCodice di commercio, la quale, dopo avere man mano acquisito tutto l’incartamento,avrebbe interrotto le sedute nell’estate dell’anno successivo (cfr. risposta di Broglio aTorresani, Milano, 29 aprile 1822, ivi)

62 Tale certificato era detto Kundschaft. Cfr. lettera del presidente dell’aulica Com-missione di commercio Stahl al presidente del Governo lombardo Strassoldo, Vienna 25gennaio 1820 (ivi, in tedesco, con traduzione allegata).

63 C.A. Costaz, Mémoire sur les moyens, qui ont améné le grand développement del’industrie française, Paris 1816; J.-A. Chaptal, De l’industrie française, Paris 1819. Sulleorigini del modello francese, vedi S. Kaplan, La lutte pour le contrôle du marché du travailà Paris au XVIIIe siècle, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 1989, Juillet-Septembre, t. XXXVI, pp. 362-412 (391 e ss.).

nazionali fosse estranea alle preoccupazioni delle autorità milanesi64. Econ quale favore i ministri nazionali vedessero la Lombardia del tuttoaliena dagli ordinamenti fortemente ascrittivi che appartenevano alla tra-dizione storica austro-boema e che ora a Vienna si pensava di aggiorna-re, prendendo a prestito i moduli della police francese:

Sotto il cessato governo né si conobbero, né vennero applicate in questeprovincie le disposizioni dei decreto 1 dicembre 1803 e 1 marzo 1804, portantile organizzazioni adottate in Francia sulle norme suggerite dai due scrittori poli-tici […] Qualunque possano essere li buoni effetti prodotti in Francia dalla cita-ta organizzazione di polizia in riguardo […] le massime vigenti ora nelle provin-cie lombarde relativamente a siffatti esercizi non permetterebbero di assoggetta-re li garzoni o lavoranti a riportare il certificato di emigrazione contemplato nel-l’organizzazione suddetta, che malgrado la libertà di esercizio dei mestieri, fapresupporre dei vincoli e delle discipline non sussistenti in queste provincie,nelle quali la libertà del commercio e delle arti vige in tutta l’estensione65.

Ciò bastò perché da Vienna si desistesse. Nel 1822 la questione fu ri-proposta dalla Direzione generale di polizia, che intendeva farsi carico diun’istanza congiunta della Camera di commercio e della delegazioneprovinciale di Como66. L’ufficio centrale faceva rilevare il vuoto normati-vo che rendeva inapplicabile il paragrafo 79 del Codice penale e insiste-va sulla necessità che il rispetto delle regole fosse imposto da un’autoritàamministrativa, prima che si arrivasse in giudizio. Argomentava l’inade -gua tez za delle Camere al compito con motivazioni inedite: esse, oltre cheprive di poteri, erano limitate nella competenza territoriale alla sola pro-vincia, mentre ormai, e la realtà comasca lo dimostrava chiaramente, iflussi degli operai avevano assunto una dimensione regionale.

E perché la suaccennata prescrizione [del certificato, ai sensi del paragrafo79] ottenga poi il suo pieno effetto, sarebbe d’uopo che l’autorità esercente lapolizia locale venisse autorizzata a costringere quei lavoranti che avessero ab-bandonata una bottega e preso servizio in un’altra, senza essersi meritati il certi-ficato in discorso, a ritornare al loro primo padrone; e ciò oltre alla prescrittapena ai capi fabbrica che li avessero accettati, da applicarsi in via ordinaria dallagiudicatura politica67.

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64 «Sembra al relatore che non possano qui applicarsi le pratiche dell’organizzazionedi polizia adottate a tal riguardo in Francia» (proposta di deliberazione per la seduta 16febbraio 1820, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176).

65 Minuta di lettera, per mano di Broglio, a Stahl, Milano 10 marzo 1820, ivi. 66 Direzione generale di polizia al Governo, Milano 13 aprile 1822, ivi.67 Cfr. in proposito anche il rapporto del delegato di Como alla Direzione, 5 luglio

1821, cit., che chiedeva l’intervento della polizia per obbligare alcuni lavoranti del setifi-cio a saldare i debiti e a tornare a Como dal legittimo datore di lavoro, visto che essi ave-vano cambiato ditta, trasferendosi a Milano, senza avere ottenuto il benservito.

La proposta della Direzione indusse il Governo a sentire nuovamen-te i delegati provinciali, nonostante il parere contrario di Broglio68. Daquesto carteggio si desume con chiarezza che ormai il punto centrale deldibattere concerneva il ruolo della polizia: a riguardo è utile tenere pre-sente che si era all’indomani dei fatti del 1820, nel periodo in cui si svol-sero i processi contro i Federati lombardi e che, al di là di quegli eventistraordinari, proprio allora l’apparato guidato dal trentino Torresani ini-ziava a imporre il suo pesante controllo sulla vita civile, destando unacrescente avversione man mano che la società locale si faceva politica-mente avvertita69. Le posizioni espresse in merito dalle Camere, a partequella comasca che aveva, si può dire, promosso l’iniziativa, variavano inrelazione a numerosi fattori, fra i quali la capacità di impatto locale degliistituti e il grado di sviluppo manifatturiero di ciascun territorio, ma an-che, come si desume dalle incoerenze rispetto alla precedente tornata diconsultazioni, gli equilibri politici interni ai vari universi mercantili, sem-pre piuttosto instabili.

La novità più interessante che emerse dai pareri resi in quella circo-stanza, sulla scorta del progetto della Direzione, fu l’idea che l’attivitàdi certificazione che si voleva introdurre fosse affidata o alle Congrega-zioni municipali, o, più specificamente, all’autorità di polizia locale,rappresentata nei capoluoghi dalle Delegazioni e in subordine dai Com-missariati provinciali, e negli altri comuni da un delegato comunale70.

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68 Decisione del Governo, 4 maggio 1822, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176. Il fa-scicolo con le relazioni dei funzionari periferici ivi, con documenti datati fra giugno e lu-glio dello stesso anno.

69 Per i processi del 1820-1823, M. Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, UTET, Tori-no 1987, p. 315. Sulla polizia lombardo-veneta basti qui rinviare ai lavori più recenti: Ra-poni, Il Regno Lombardo-Veneto, cit.; Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, cit., pp. 89-93;M. Berengo, Appunti sulla polizia austro-veneta agli inizi della Restaurazione, in M.L. Betri,D. Bigazzi (a cura di), Ricerche di storia in onore di Franco Della Peruta, 2 voll., Franco An-geli, Milano 1996, 2, pp. 136-146; E. Tonetti, Tra polizia e amministrazione: gli anni venetidi Carlo Giusto Torresani di Lanzfeld (1814-1822), in L. Antonielli, C. Capra, M. Infelise (acura di), Per Marino Berengo. Studi degli allievi, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 730-742;D. Laven, Venice and Venetia under the Habsburgs. 1815-1835, Oxford University Press,Oxford 2002, pp. 208 e ss.; A. Arisi Rota, Il processo alla Giovine Italia in Lombardia(1833-1835), Franco Angeli, Milano 2003, pp. 40 e ss.; S. Mori, La polizia fra opinione eamministrazione nel Regno Lombardo-Veneto, in «Società e storia», 2004, 105, pp. 99-141.

70 Per la prima opzione, cfr. la relazione del delegato di Lodi, 8 novembre 1823; perla seconda, il rapporto del delegato di Milano, che riassume anche le opinioni della Came-ra di commercio, 24 luglio 1822, e altro del delegato di Brescia, 17 settembre 1823 (inASMi, Commercio, p.m., b. 176). Sull’organizzazione territoriale della polizia, cfr. Mori,La polizia fra opinione e amministrazione, cit., e sulla funzione in ambito locale, Ead., Ilcontrollo locale: l’impianto della polizia comunale in Lombardia (in corso di pubblicazionenel volume degli atti dell’incontro di studi Forme e pratiche di polizia del territorio nell’Ita-lia del primo Ottocento, Università degli studi di Bergamo, Bergamo 28-29 gennaio 2010).

Insomma, man mano che l’amministrazione territoriale andava ar ti co -landosi fun zionalmente, diventava più agevole individuare soggettiistituzionali a cui affidare i compiti preventivi e repressivi che si vole-vano attivare, ignorando le opzioni ormai inservibili indicate dalla tra-dizione.

Poiché l’iniziativa della Direzione generale non produsse in effettil’adozione di alcun nuovo provvedimento, la lunga riflessione che abbia-mo sin qui seguito conobbe un’ulteriore puntata nel 1825, allorché lepressioni del mondo mercantile ripresero a opera dei titolari di una dittamilanese produttrice di bronzi dorati, i quali si rivolsero addirittura allaCamera aulica71. Nuova, e significativa del ciclo espansivo in atto, era laprovenienza da un settore merceologico del tutto estraneo al tessile, am-bito all’interno del quale si era mosso per lo più il dibattito dei decenniprecedenti.

Il Governo reagì inizialmente come se la questione si ponesse per laprima volta, a segno, ripetiamo, della marginalità che il tema mantene-va, ancora a metà degli anni Venti, nell’orizzonte d’attenzione dei pote-ri pubblici. I richiedenti dal canto loro, facendo mostra di miglior me-moria, avevano recuperato i progetti presentati dalle Direzioni generalidi polizia italica e lombarda, e conformemente invocavano l’introdu -zione del libretto di lavoro al modo francese, rilanciando la soluzionepiù orientata nel senso del controllo esecutivo statale che sino a quelmomento fosse stata concepita. La Camera di commercio della capitaleoppose un netto rifiuto, tornando alle antiche posture anti-interventi-ste, dopo che nel 1822 aveva sposato con inusitato fervore la sceltapolizie sca72. L’impianto argomentativo della sua consulta si articolò co-me di consueto attorno alla difesa dell’autonomia e della separatezzadella sfera commerciale, e, quanto alle regole, attorno alla bontà dell’e-ditto del 1764, ancora «in verde osservanza». Di esso continuava a con-cepirsi un’ap plicazione in via giudiziaria, secondo la tendenza sino adallora prevalente. E lungo quel profilo si finiva con l’esaltare la giuri-sdizione speciale in essere:

se occorre adunque di dar esecuzione alle contravvenzioni contro i patti,non sembrerebbe alla Camera di commercio admissibile che fosse da altre giuri-

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71 Documento s.d. in fascicolo aperto nel 1825, conservato in ASMi, Commercio,p.m., b. 176.

72 La consulta della Camera porta la data del 15 febbraio 1826 (ivi). Per le opinionidel 1822, vedi il rapporto del delegato provinciale del 24 luglio 1822, cit. L’istituzione,soggetta a marcate oscillazioni, avrebbe mutato nuovamente fronte nel 1828, con una lun-ga consulta in cui si proponeva di difendere gli interessi del setificio urbano dalle prepo-tenze dei cotonieri brianzoli passati alla fabbrica, invocando una stretta disciplina dei la-voranti (cfr. Romani, L’economia milanese nell’età della Restaurazione, cit., pp. 694 e ss.).

sdizioni, compresa anche quella di polizia, definita la controversia. Fuorché dalTribunale mercantile di cambio.

Proprio perché tale via fosse sempre praticabile, la Camera auspica-va il ricorso a contratti scritti, considerato che molti disordini originava-no dalla forma prevalentemente orale degli accordi, la quale ne rendeva itermini difficilmente esigibili per entrambe le parti. Il libretto di lavoroin quello scenario era considerato ammissibile, a condizione che fosse fa-coltativo e che la sua amministrazione non coinvolgesse in alcun modo lepubbliche autorità: si sarebbe dovuto trattare di un documento di naturastrettamente «convenzionale».

Il delegato provinciale Torriceni, come d’abitudine, fece proprio quel-l’avviso, non giudicando «punto conveniente che la pubblica autorità sioccupi dei minuziosi dettagli suggeriti dai ricorrenti»73. Ma nel Governostava prendendo piede l’opinione opposta. Anzi, il consigliere Broglio, fat-tosi più favorevole al coinvolgimento della polizia nell’attività di controllodella sfera economica, si apprestava a invitare la Direzione lombarda aperfezionare il suo progetto alla luce delle ultime riflessioni74.

4. La patente del 1827 e l’introduzione del libretto di scorta

Tre anni dopo fu compiuto il passo decisivo, meno per il contributodelle autorità lombarde, e più per atto unilaterale della Monarchia, chevolle estendere ai domini d’Oltralpe la normativa da poco adottata negliStati austriaci, con la quale, come annunciato qualche anno prima, si im-poneva ai lavoranti il Wanderbuch, «il libretto di scorta o di viaggio»75.

Si trattava di uno strumento ben diverso sia dal benservito, sia dallalicenza, poiché aveva la pretesa di certificare a un tempo l’identità e l’in -tero curriculum dell’operaio76. Esso si collocava dunque nel campo deidocumenti identificativi, finalizzati al controllo della circolazione degli

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73 Rapporto 22 marzo 1826, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.74 Relazione 7 aprile 1826, ivi.75 Patente sovrana 24 febbraio 1827, applicata al Lombardo-Veneto con dispaccio 8

dicembre 1828, ma qui pubblicata soltanto il primo settembre 1830, assieme a una Noti -fi cazione portante le discipline per l’esecuzione della summentovata patente 24 febbrajo 1827,tanto per le autorità che dispensano i libretti di scorta o di viaggio, quanto per chi ne devefar uso (in «Raccolta degli atti del Governo lombardo», 1830, II, parte 1, pp. 170 e ss.).Dell’introduzione dei libretti in Lombardia si è occupato Aldo Carera, che ringrazio diessermi venuto gentilmente in soccorso, nel saggio Minori, apprendisti e «libretti di scor-ta», cit., pp. 115-118.

76 Sui limiti del benservito in questo senso, Carera, Minori, apprendisti, cit., p. 11. Icaratteri qualificanti del nuovo dispositivo sono messi a fuoco da V. Denis, Une histoirede l’identité. France, 1715-1815, Champ Vallon, Seyssel 2008, pp. 27-30 e 254 e ss.

individui77. Tant’è vero che per chi l’avesse, con le opportune integrazio-ni, sarebbe stato sostitutivo del passaporto per l’espatrio. La saldaturache veniva così a crearsi fra due categorie del tutto diverse di atti certifi-cativi era iscritta nella cultura politica sette-ottocentesca, la quale ricono-sceva nella professione un elemento fondamentale dell’identità persona-le. Ciò in virtù del ruolo strutturante rivestito dal mestiere in ordine allaqualificazione dell’individuo e alla determinazione della sua posizionenel contesto sociale78.

Ai sensi del dettato della patente austriaca, il documento avrebbe ri-portato dati anagrafici (nome, patria, età, connotati) e firma del latore79.Il corpo del documento sarebbe stato costituito dalle registrazioni suc-cessive dei certificati di benservito rilasciati dai vari datori di lavoro, fos-sero essi capi di fabbrica o di manifattura, padroni di negozio o di botte-ga. Qualora dovesse essere utilizzato come passaporto, il libretto sarebbestato corredato dal permesso d’espatrio, con l’indicazione del luogo dipartenza, della meta, della durata e della motivazione del viaggio80. Laragione del libretto sarebbe stata espressa nella forma di un lasciapassa-re: esso avrebbe recato l’invito a tutte le autorità della Monarchia e este-re a consentire al titolare di circolare liberamente.

Ciò conferma che la sua funzione primaria era individuata dal legisla-tore austriaco nella certificazione dell’identità anagrafica e professionaledel lavoratore a fini di controllo della sua mobilità territoriale. In tal sen-so, il curriculum valeva allo scopo di distinguere fra disoccupati tempora-nei in cerca di occupazione e marginali dediti al vagabondaggio e alle atti-vità illecite. A riprova di quest’ordine di priorità, una circolare rivolta alleDelegazioni provinciali, ossia un documento interno alla pubblica ammi-nistrazione, insisteva sul fatto che i libretti si intendevano istituiti

in luogo degli attestati, passaporti ed altri ricapiti rilasciati finora […] allooggetto di regolare in tutta la Monarchia austriaca la vigilanza sopra i garzonied operaj dei vari mestieri, ed il passaggio de’ medesimi da luogo a luogo, tantoper parte delle autorità locali, come dal lato dei rispettivi capi di fabbrica o dibottega81.

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77 Vedi ivi, il capitolo introduttivo, per un ricco inquadramento del tema della certi-ficazione d’identità.

78 Ivi, p. 22.79 Un esemplare vergine si trova in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.80 Sulla forma e sul contesto politico-istituzionale del passaporto vedi G. Noiriel,

État, nation et immigration. Vers une histoire du pouvoir, Belin, Paris 2001, pp. 309 e ss.Per il Lombardo-Veneto, A. Geselle, Passaporti ed altri documenti di viaggio. Modalità econtrollo del movimento in territorio veneto, in D. Calabi (a cura di), Dopo la Serenissima.Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, Istituto veneto di scienze, lettereed arti, Venezia 2001, pp. 363-381.

81 Circolare 7 agosto 1830, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176. La necessità di gestire

Il libretto era obbligatorio per l’operaio in cerca di occupazione nelcomune di residenza o migrante: l’incapacità di produrlo era soggetta al-le sanzioni previste per chi fosse trovato mancante dei «recapiti» di viag-gio. Il nuovo sistema assegnava quindi alla manodopera l’onere di prova-re insieme la propria identità e la propria onestà, non già per il presente,ma per l’intera storia personale. Questa condizione debitoria era com-pensata solo in parte dal fatto che le manchevolezze del latore non fosse-ro passibili di registrazione, giacché di esse sarebbe rimasta traccia nelleellissi temporali del curriculum82.

La presunzione negativa gravante sui lavoratori, piuttosto, era bilan-ciata in qualche misura dal vantaggio di poter «comprovare in ogni occa-sione ed in un modo soddisfacente i loro servigi e la loro condotta», amodo, potremmo dire, di referenza, spendibile anche su un mercato dellavoro distante dalla comunità d’appartenenza83. Una virtù ancora si ri-conosceva al nuovo strumento a beneficio dell’operaio, e cioè la sua effi-cacia deterrente: alla stessa manodopera stanziale il libretto sarebbe ser-vito «d’incentivo onde evitare che venissero […] registrate […] delle no-te meno favorevoli»84. Anche in ragione di questi vantaggi il titolare eraassoggettato all’imposta di bollo85.

Si presumeva che l’efficacia del dispositivo nell’ambito del rapportodi lavoro sarebbe stata garantita per il lavorante dall’interesse e per ilnuovo padrone, come per le licenze, dalla responsabilizzazione unilate-rale, in forza del paragrafo 79 del Codice penale. Il datore di lavoro a -vrebbe goduto al contempo di un elemento di forza, giacché gli sarebbespettato custodire il libretto per la durata del rapporto e consegnarlo al-l’autorità pubblica alla scadenza. La normativa taceva sul punto delicato,

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la permeabilità dei confini nazionali era avvertita in questi decenni in modo sempre piùpressante, non soltanto nella Monarchia. In proposito l’introduzione a Emigrés, vagabonds,passeports, numero monografico di «Genèses. Sciences sociales et histoire», 1998, 30.

82 Fra l’altro, il libretto sarebbe stato ritirato qualora il lavoratore fosse riconosciutocolpevole di delitto o di grave trasgressione politica, per essergli restituito allo scaderedella pena, senza annotazione della medesima (cfr. la patente 24 febbraio 1827, cit.).

83 Ivi. Sul punto, con riguardo però ai passaporti, Denis, Une histoire, cit., p. 154.Ac cenna a questa valenza positiva delle carte di espatrio anche E. Saurer, Una contraddi-zione sistematica: i confini della monarchia asburgica fra Sette e Ottocento, in S. Salvatici(a cura di), Confini. Costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Rubbettino, SoveriaMannelli 2005, pp. 23-36 (32).

84 Non però quelle negative, che non erano ammesse, come si è detto. Relazione delGoverno lombardo al viceré, 29 gennaio 1830, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.

85 Dopo qualche riflessione, in realtà, in Lombardia si stabilì di derogare, preve-dendo solo un modesto rimborso delle spese di segreteria, probabilmente per non sco-raggiare gli operai (decreto del viceré Ranieri, 19 maggio 1830, ivi). I garzoni senza im-piego furono esentati anche da quella tassa fino a che non fossero stati assunti. Per que-sto riguardo verso i non occupati vedi la relazione del segretario di governo Brusa, 29dicembre 1829, ivi.

già emerso nei dibattiti lombardi degli anni precedenti, della tutela dellavoratore dal possibile abuso da parte del capo che rifiutasse di restitui-re il documento.

Il dispositivo puntava insomma a ridurre l’intervento coercitivo,cointeressando le parti al rispetto della regola e sospingendole entrambedavanti al funzionario addetto alla certificazione, del quale era enfatizza-ta la funzione arbitrale e conciliatoria. Possiamo ipotizzare che, per quan -to la nuova procedura potesse dare luogo ad atti lesivi della facoltà del-l’operaio di disporre di sé e del proprio lavoro a opera del padrone, il fil-tro pubblicistico rappresentasse in effetti una garanzia per entrambi isoggetti, capace di operare, per quanto nei limiti angusti del paternali-smo localistico, anche nel senso della salvaguardia degli interessi dei la-voratori. Come si dirà, sarebbe stato piuttosto l’imbocco della strada li-berista all’indomani dell’Unità a esporre le fasce deboli all’arbitrio di da-tori di lavoro sempre più agguerriti.

È opportuno ora soffermarsi su questo elemento cardinale dellaprocedura, quello pubblico per l’appunto, sul quale sarebbe ricadutol’onere dell’esecuzione. La Notificazione del 1º settembre 1830 dispone-va che l’emissione dei libretti avvenisse «per mezzo delle autorità lo -cali»86, intendendosi con ciò l’autorità del comune presso il quale il la-voratore aveva domicilio. Uffici di rango superiore erano coinvolti, ben-ché meno direttamente: la Delegazione provinciale avrebbe avuto l’i -spe zione su quel ramo di polizia attraverso il protocollo annuale inoltra-to dai comuni, mentre i commissariati provinciali di polizia e la loro Di-rezione generale sarebbero stati competenti dell’autorizzazione in casodi espatrio.

Come preannunciato dai dibattiti lombardi dei primi anni Venti, dalpunto di vista istituzionale il dispositivo portava in primo pianol’autorità amministrativa periferica, ma ancor più quella locale, chiaman-do quest’ultima a giocare un ruolo importante, pensato come equidistan-te, in una materia sulla quale sinora essa non aveva avuto alcuna compe-tenza. Sarebbe venuta per tal via a configurarsi una nuova attività, tipica-mente ascrivibile alla sfera della polizia amministrativa, nella qualeavrebbero operato ormai a tutti i livelli, compreso quello comunale, or-gani specializzati, come si incaricava di spiegare una nota del Governolombardo a quello Veneto:

Le autorità locali o comunali in queste province trovansi […] investite delleattribuzioni tutte spettanti all’amministrazione politica, non escluse quelle con-cernenti la polizia […] Nella sovrana patente 24 febbraio 1827 sono abbastanzaprecisate, e dal contesto della notificazione vengono ad esserlo anche più am-

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86 Documento citato.

piamente, le attribuzioni delle autorità locali cui spetta l’emissione dei libretti discorta, e quelle delle autorità alle quali spettava per l’addietro di concedere pas-saporto per l’estero a favore dei garzoni ed operai […]; ed è sembrato tanto piùconveniente il conservare la denominazione d’autorità locali usata nella sovranapatente, in quanto che nei principali comuni le mansioni di polizia sono eserci-tate da apposito Commissario comunale87.

In breve si può dire che il compito per l’innanzi esercitato nell’ambi-to dell’autogoverno dei corpi di mestiere fosse stato richiamato per inte-ro alla regia amministrazione, in quest’ultimo passaggio, per esser poidecentrato all’autorità locale, come alla meglio situata per operare capil-larmente sulla società. Tale decentramento fu possibile in virtù delladoppia natura del municipio, a un tempo organo della località e estremapropaggine degli apparati del sovrano: è noto che la sfera delle funzionidelegate dei comuni aveva conosciuto, dall’età napoleonica in poi, unadilatazione continua. A partire dagli anni Trenta, come si evince dalla vi-cenda qui messa a fuoco, anche il controllo sui rapporti di lavoro fu og-getto di tale delega, nell’ambito del grande fascio di attività di poliziaamministrativa88. Tale scelta rispondeva appieno, del resto, al principiodi territorializzazione che presiedette ai processi di transizione della po-lizia dal mondo corporato agli assetti moderni. Principio in virtù delquale i soggetti sciolti dai vincoli organici di antico regime sarebbero tor-nati a essere controllabili qualora fosse stato loro assegnato un posto ve-rificabile nella nuova griglia spaziale89. Il monitoraggio dello spazio eraappunto compito primario della polizia e del comune.

Ma proprio tenendo conto del posizionamento di questa nuova atti-vità sulla linea gerarchica, è opportuno rimarcare che essa veniva a costi-tuire, a quell’altezza cronologica, una sfida di proporzioni notevoli pergli apparati pubblici e per le località specificamente. Il solo carico buro-cratico inerente all’attività scrittoria richiesta per la compilazione dei li-bretti sarebbe stato considerevole e talora francamente superiore alle ri-sorse delle comunità, se si considera che in molte di esse il sindaco sape-

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87 Nota urgente del governo lombardo a quello veneto, 29 maggio 1830, in ASMi,Commercio, p.m., b. 176.

88 Sul decentramento di funzioni in relazione alla certificazione dell’identità, cfr. lesintetiche notazioni di E. Saurer, Una contraddizione sistematica: i confini della monarchiaasburgica fra Sette e Ottocento, in S. Salvatici (a cura di), Confini. Costruzioni, attraversa-menti, rappresentazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 23-36 (35). Più in gene-rale, a proposito della delega di attribuzioni statuali agli enti locali nel modello continen-tale alla francese, S. Mannoni, Une et indivisible. Storia dell’accentramento amministrati-vo in Francia, 2 voll., I: La formazione del sistema 1661-1815, Giuffrè, Milano 1994, pp.457 e ss., e II: Dalla contestazione al consolidamento, Giuffrè, Milano 1996, p. XIII; perl’Italia, P. Aimo, Il centro e la circonferenza, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 105-117.

89 In proposito Napoli, Naissance de la police moderne, cit., p. 116.

va a malapena scrivere. La previsione di questa “tracciabilità” della ma-nodopera rendeva inoltre necessario un coordinamento territoriale di al-to livello, che occorreva rendere continuativo per evitare che il sistema siinceppasse, facendo saltare rapidamente ogni disciplina.

L’attivazione della patente del 1827 fu assai esitante. Trascorsero treanni prima che si provvedesse, nel 1830 come detto, alla notificazionecon cui si regolava la messa in opera della riforma in Lombardia. Saltatala decorrenza fissata al primo novembre dello stesso anno, i libretti en-trarono effettivamente in circolazione soltanto nel corso del 183690.

Se i reperti relativi all’amministrazione ordinaria di questo ramo dipolizia sono, per quanto è stato possibile accertare, quasi inesistenti, lefonti documentano in abbondanza le discussioni che l’attivazione diquesto dispositivo sollecitò, prima e dopo l’emanazione della Notifica-zione del settembre 1830. È opportuno occuparsene ancora un poco,perché dal loro tenore si ricavano ulteriori elementi riguardo alle impli-cazioni teoriche e concrete della riforma.

Il dato quantitativo merita di essere rilevato innanzitutto91. Le Dele-gazioni provinciali, dopo aver consultato Camere di commercio e Com-missariati distrettuali, indicarono cifre assai elevate, con un forte divariofra la Lombardia, per cui in complesso si dichiaravano necessari 86.000libretti, e il Veneto, che ne chiedeva per il momento 10.000. Il dettagliodella porzione occidentale del Regno rifletteva forse, più che l’oggetti -vità, la percezione delle autorità amministrative periferiche circa il gradodi sviluppo manifatturiero nei contesti provinciali: la sola città di Milanorappresentava il 21% del totale lombardo, e un ulteriore 26% il restodella provincia, con i grossi borghi tessili del vecchio Ducato, a sfiorarein complesso la metà del numero totale. Assai inferiore fu la previsioneper le città e province di Bergamo (14%), Brescia (12%) e Como (9%),seguite nell’ordine da Lodi, Cremona, Pavia, Sondrio e Mantova, chetutte assieme pesavano per il 18%.

Un confronto con il numero delle licenze emesse annualmente a Mi-lano alla fine del Settecento (1.200 circa) con quanto stimato per la stes-sa città in rapporto ai libretti (18.000) restituisce con immediatezza il di-verso ordine di grandezza delle rispettive attività di accertamento e dicompilazione, quantomeno nella fase di avvio92. Il Governo lombardo

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90 Sulla proroga vedi la relazione del consigliere di Governo Spadaccini, 28 gennaio1831, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.

91 Cfr. già Carera, Minori, cit., p. 116, che riassume le cifre fornite dai delegati pro-vinciali in risposta a circolare 22 settembre 1830 (ASMi, Commercio p.m., b. 176) e co-municate dal Governo al Magistrato camerale, 3 ottobre 1830 (ivi).

92 Cfr. sopra, p. 6. I 18.000 libretti richiesti per Milano dal delegato erano assai piùdei lavoranti delle arti stimati da Romani nella cifra di 9.700 per il 1828 (vedi sopra, no-ta 42), e meno dei 23.700 «praticanti e lavoratori dipendenti dei mestieri» censiti per il

procedette subito a dimezzare i valori forniti dalle province e a rigettarel’ipotesi di includere i domestici, prospettata dall’omologa autorità vene-ta, ma il carico di lavoro da svolgere dovette apparire nondimeno scorag-giante93. Solo una volta che il nuovo sistema fosse stato portato a regime,l’impegno sarebbe parso sostenibile.

La misura di questi timori è data dalla divergenza di vedute cheemerse di lì a poco a Milano, fra la Congregazione municipale e la Dire-zione generale di polizia. Essa generò un interessante scambio di opinio-ni, che bene illustra le condizioni effettive nelle quali si andò a attivare ilnuovo dispositivo di controllo, mentre testimonia la persistente difficoltàa collocare correttamente il compito nell’organigramma della pubblicaamministrazione. Apprestandosi a eseguire l’ordine appena ricevuto, laCongregazione municipale di Milano mise in dubbio che l’emissione deilibretti ricadesse nelle sue attribuzioni94. Il delegato Torriceni reputavaanch’egli che nella capitale quell’attività fosse di competenza della poli-zia, a motivo che

la Congregazione municipale di Milano, a differenza delle altre autorità loca-li municipali, non esercita in questa città le mansioni di polizia, fra la categoriadelle quali sembra cadere anco simile distribuzione, trasparendo dallo spiritonon solo della governativa notificazione […] e delle successive istruzioni, maben’anco dalla sovrana patente 24 febbraio 1827, che la consegna di questi li-bretti tende precipuamente a servire alle vedute di polizia, tantoppiù che viendetto specificatamente che deggiono gli stessi tener luogo eziandio di passaporti.

L’argomento madre della Congregazione, che l’istituzione dei libretti«altro non sia che una vera disciplina di polizia, e non già di sempliceamministrazione», trovava fondamento nell’analogia con l’emissione deilibretti per le persone di servizio disposta a suo tempo dal decreto 26 ot-tobre 1810. Torriceni aggiungeva che il municipio milanese non dispone-va né di un ufficio di polizia locale, né di altro preposto alla formazionedel ruolo di popolazione, giacché tutti quei compiti erano lì svolti dallamedesima Direzione generale di polizia. Insomma, si paventava l’oneredell’apertura di un bureau apposito.

La Direzione, pur avendo espresso a suo tempo qualche perplessitàsull’adeguatezza del municipio a un «sì minuto e frequente contatto col

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1839 dalla statistica coeva di G. Salari (Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, cit., p. 178).Considerato che, come tra breve si dirà, non tutto il lavoro subordinato urbano fu as-soggettato all’obbligo, si può concludere che la stima del delegato non fosse lontanadalla necessità effettiva.

93 Per la questione dei domestici vedi la relazione del consigliere Pachta, Milano 6novembre 1830, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.

94 Rapporto del delegato Torriceni, 13 dicembre 1830, ivi.

pubblico», restò d’avviso che quel servizio dovesse essere erogato dalComune anche nella capitale, se non per la parte riguardante la conces-sione dei permessi di viaggio. L’attribuzione all’autorità locale era dispo-sta in origine dalla notificazione allegata alla patente sovrana e non c’eramotivo di ritenere che ne fossero escluse le città ove i Magistrati civicinon esercitavano funzioni di polizia, giacché ciò non si era verificatonemmeno a Trieste, a Innsbruck, a Vienna, e, come velocemente si ac-certò, a Venezia95. Alle valutazioni di legittimità, se ne aggiungeva una dimerito: la Direzione, si dichiarava,

lungi dal ravvisare nell’istituzione dei libretti di scorta la supposta tendenzae qualificazione di misura politica, è persuasa che questa disposizione altro noncontenga che delle semplici discipline d’amministrazione, tendenti unicamentea promuovere il vicendevole vantaggio degli operaj e dei capi o padroni di stabi-limenti di manifatture96.

Questa sostanziale presa di distanza dell’organo apicale di polizia siripeté in frangenti successivi e fu, plausibilmente, la causa dell’ulterioreritardo che venne a frapporsi all’attivazione dei libretti.

L’esecuzione della patente fu sospesa dal viceré nell’ottobre 183097. Leragioni di questa nuova battuta d’arresto, che al momento sono ignote, po-tevano essere amministrative, legate cioè alla difficoltà di mettere in operaquanto disposto, oppure politiche: poiché il libretto facilitava il passaggiodei confini di Stato, andava messo in conto un aumento dei flussi migrato-ri che non si era desiderosi di fronteggiare, in una fase di crescenti tensionipolitiche all’interno del Regno e sull’orizzonte internazionale.

Questa ipotesi è comprovata dall’allarme destato nelle autorità au-striache dall’aumento dell’immigrazione nei territori austro-boemi ne-gli anni immediatamente successivi, che si sapeva interessare anche igarzoni di mestiere. Allarme che nel 1833 indusse Vienna a pretenderecon inusitato rigore che i migranti forestieri si munissero di libretto discorta, a inasprire i controlli e, l’anno seguente, a chiudere addirittura iconfini, dopo che l’imperatore ebbe avuto notizia del «sorprendenteaumento di garzoni artigiani stranieri, che pongono piede negli impe-rial regi Stati»98. A quel punto si levò il sospetto che i libretti di scorta

109

95 Nota del 1º febbraio 1831; lettera del governatore Spaur da Venezia, 10 marzo1831. Tutto ivi.

96 Relazione del segretario di governo Spadaccini per il consigliere Pachta, 1º feb-braio 1831, ivi. Nello stesso fascicolo la relazione della Direzione generale di polizia, 12gennaio 1831. Sul punto si veda anche Carera, Minori, apprendisti, cit., p. 116.

97 Il dispaccio vicereale di sospensione fu emanato il 27 ottobre 1830, come attesta-no una comunicazione del consigliere Febo d’Adda del 6 settembre 1833, e una nota go-vernativa del 21 giugno 1836. In ASMi, Commercio, p.m., b. 176.

98 Comunicazione, a firma Mittrovsky, al governo di Lombardia, Vienna 22 maggio

incentivassero la circolazione transregionale, producendo effetti temibiliper l’ordine pubblico e per la sicurezza della Monarchia99. Non per caso,si direbbe, un delegato lombardo si premurava di tutelare gli immigratitemporanei nella sua provincia, precisando al Governo ch’erano «genteidiota, che non può offerir sospetti in linea politica»100.

Poiché le ansie del monarca non si placavano, nonostante le rassicu-razioni dei funzionari periferici, a metà degli anni Trenta si arrivò a ipo-tizzare il blocco dell’emigrazione, ritenuta non indispensabile ai sudditidella Monarchia e però minacciosa per l’ordine dello Stato, qualora gliemigrati fossero «sedotti dagli esempi perniciosi» e rimpatriassero «pe-netrati di principi riprovevoli, nel qual caso potrebbero spargere nellapopolazione il seme velenoso di tali principi»101.

In Lombardia, la Direzione generale di polizia aveva una visione piùpacata del fenomeno, non confrontabile a quanto accadeva nelle zonetransalpine, e perciò avversava l’ipotesi di un divieto assoluto di emigra-zione102. Tuttavia riteneva che il flusso dovesse essere ben controllato eproprio per ciò Torresani giudicava inopportuna al momento l’esecuzio -ne della patente sui libretti di scorta. Il parere, dirimente, merita di esse-re trascritto integralmente:

Nelle province di Lombardia, a motivo di non essere stato per anco introdot-to il sistema dei libretti di scorta e di viaggio pei garzoni-operaj, debbono anchequesti, se formano il progetto di passare all’estero, fare le prescritte professionipel conseguimento d’un regolare passaporto, nel quale viene determinata la metadel viaggio e la durata del tempo di assenza, che non oltrepassa mai l’anno.

Questo vincolo per gli operaj, il quale fu altro dei motivi, che indussero la de-vota Direzione generale a sommessamente opinare per la continuazione della so-

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1833; copia di decreto vicereale, Milano 6 settembre 1833; dispaccio da Vienna, 15 aprile1834. Ivi.

99 Questi temi sono ora ampiamente affrontati da W. Heindl, E. Saurer (a cura di),Grenze und Staat. Paßwesen, Staatsbürgerschaft, Heimatrecht, und Fremdengesetzgebung inder österreichischen Monarchie (1750-1867), Böhlau Verlag, Wien-Köln-Weimar 2000, cheinclude un saggio sull’area veneta di A. Geselle, Bewegung und ihre Kontrolle in Lombar-do-Venetien, pp. 347-415, dedicato alla tipologia dei certificati per l’espatrio, sia dai confi-ni della provincia, sia da quelli regionali, esclusi però i libretti di scorta. Su confini e con-trolli Saurer è tornata più sinteticamente in Ead., Una contraddizione sistematica, cit.

100 Relazione da Pavia, 26 giugno 1834, in ASMi, Commercio, p.m., b. 176.101 Dispaccio da Vienna, 8 ottobre 1834, ivi, che notifica un ordine sovrano del pre-

cedente 4 ottobre.102 Relazione Torresani, Milano 12 novembre 1834, in ASMi, Commercio, p.m., b.

176. I dati sui movimenti migratori forniti dai documenti di questo fascicolo sono ripor-tati da Carera, Minori, apprendisti, cit., p. 109. Per Milano il direttore contava 157 passa-porti rilasciati a artigiani o a garzoni-artigiani nel 1833, e 137 per i primi 10 mesi del1834. Decisamente più cospicui i flussi in uscita dalla provincia di Bergamo, quantificatidal delegato in 2.234 «passaporti da lavoratori», nello stesso 1833.

spensione dell’emissione dei libretti di scorta e di viaggio, serve di ritegno aglioperaj, che altrimenti in maggior numero andrebbero all’estero, e perché portaseco l’obbligo di esaurire diverse professioni pel conseguimento del passaporto, eperché non va scevro di qualche spesa, come pure perché pone la Polizia in situa-zione di meglio conoscere la condizione in società e le qualità politiche e moralidell’operajo, che, se all’opposto fosse già provveduto del libretto di scorta, avreb-be mezzo più facile e meno osservabile di conseguirlo vidimato per l’estero103.

Se ne arguisce, con qualche sorpresa se non fosse per le anticipazioni,ch’era proprio la polizia a osteggiare i libretti, reputandoli controproducen-ti per il controllo dei movimenti della popolazione, scopo divenuto priori-tario alla metà degli anni Trenta. D’altro canto, come si è mostrato, quell’uf-ficio tanto influente era al momento del tutto indifferente alle questioni dellavoro, che a suo dire esulavano dalla sua sfera di competenza. Poche ragio-ni restavano a quel punto a militare a favore della patente del 1827.

Sennonché nel frattempo era tornato in auge, attraverso altri canali,il dibattito sulla piaga degli operai inadempienti. L’allarme era venutoquesta volta dal settore della seta e dei cappelli ed ebbe l’appoggio dellaCamera di commercio e della Delegazione di Milano, i quali reclamaro-no l’applicazione del § 79 della II parte del Codice penale104. Per la pri-ma volta i due uffici riconobbero l’obsolescenza dell’editto 1764, re-sponsabile di «incertezza di giurisdizione ed arbitrio di pene e disposi-zioni aliene dai principj della nostra legislazione». Dopo di che le opinio-ni divergevano: la Camera aspirava a riacquisire i compiti di certificazio-ne, che avrebbero significativamente dilatato i suoi poteri ed esteso lasua competenza territoriale; il delegato preferiva riproporre i libretti discorta, che deplorevolmente non erano più stati attivati «per motivi […]ignoti», come rimarcato qualche tempo prima dalla Commissione di com -mercio presso il Governo105. Per conto di quest’ultimo il consigliere Lui-gi Crespi concluse, sia pure con qualche reticenza, «il […] punto inte-ressando eminenti viste politiche», con l’invocare anch’egli una rapidaattivazione della patente del 1827106.

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103 Conferma l’ipotesi che il libretto fosse visto dalle autorità austriache, più che co-me uno strumento repressivo, come una sorta di salvacondotto, la posizione del consi-gliere Pachta sull’opportunità di dotarne anche i servitori: egli era contrario, proprio per-ché si trattava di una categoria professionale pericolosa per l’ordine pubblico, la cui mo-bilità non andava facilitata (relazione Milano 6 novembre 1830, cit.). Sulla precedenzadelle questioni politiche rispetto alle economiche vedi le osservazioni di R. Pichler, L’eco -nomia lombarda e l’Austria. Politica commerciale e sviluppo industriale, 1815-1859, Fran-co Angeli, Milano 2001, p. 42.

104 I pareri sono ricapitolati nella relazione Crespi, 3 gennaio1834, cit. Le istanze de-gli uffici locali milanesi datavano 1º maggio 1833.

105 Relatore Giuseppe Negri, 25 maggio 1833, in ASMi, Commercio, p.m., b. 177.106 Relazione 3 gennaio 1834, cit. Dal versante “disciplinare” più estremo veniva la

Il 19 luglio 1835 un dispaccio vicereale promulgò una risoluzione so-vrana con cui era stata levata la sospensiva sulla Notificazione del 1830,poiché, era la laconica motivazione, il Governo non trovava «difficoltàalcuna di mettere ora senz’altro in attività il sistema dei libretti discorta»107. Le operazioni preliminari occuparono i due anni successivi,impegnando principalmente le Congregazioni municipali, sulle quali,come previsto, l’onere di quell’attività complessa fu scaricato completa-mente. Di quel lavoro la documentazione archivistica conserva qualchetraccia, indicativa dei problemi principali che si dovettero fronteggiare.

Il Comune di Milano, accingendosi a distribuire parecchie migliaiadi libretti, espresse ben presto al delegato provinciale la necessità di unsupplemento di personale qualificato, «avuto riguardo alla natura dellecognizioni che [gli impiegati] deggiono avere e che non possono ritener-si semplicemente d’ordine», e un locale da adibire al ricevimento dei la-voranti108. Un anno e mezzo dopo il dispaccio vicereale, la Congregazio-ne municipale pose all’ordine del giorno del Consiglio comunale l’assun -zione di due aggiunti presso l’Ufficio delle tasse d’arti e commercio. Du-rante la seduta, alla domanda se «questi libretti di scorta producanoqualche rendita al Comune», il presidente dell’assemblea rispose negati-vamente, precisando che «perciò […] aveva la Congregazione procuratodi scaricarsene, ma che furono inutili le rimostranze da essa fatte»109. Sidecise peraltro di attendere, sulla persuasione che la norma istitutiva deilibretti, la quale sembrava incontrare «molte difficoltà di esecuzione»,avrebbe potuto «per avventura essere o tolta o modificata». Dopodiché,trascorso qualche mese ancora, ci si rassegnò a deliberare l’assunzione diun aggiunto, precisando prudenzialmente che,

scorso un sufficiente periodo d’esperimento dopo ultimata l’attivazione deilibretti di scorta ai garzoni, operaj ecc, la Congregazione farà conoscere la massadel lavoro che l’esperienza avrà mostrato derivare dalle operazioni e dall’im-pianti di quei nuovi libretti che sono richiesti dall’ordinario pubblico servizio, edalla vidimazione dei libretti medesimi, e proporrà il personale che crederà cor-rispondente al bisogno, autorizzata intanto a provvedere all’emergente straordi-nario lavoro con mezzi straordinari110.

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richiesta di «rimettere all’autorità di polizia i reclami eventuali dei padroni ed operariiper la economica procedura contro chi abbandonasse intempestivamente il servigio, col-l’uso dei mezzi di coercizione nel limite di competenza della stessa autorità di polizia»(ibidem).

107 Milano, 1º maggio 1836, in ASMi, Commercio, p.m., b. 177. Cfr. anche la consul-ta della Direzione generale di polizia, 2 aprile 1836, ivi.

108 Lettera del delegato provinciale Torriceni, 1º luglio 1836, ivi. 109 Verbale sessione 4 aprile 1837, fascicolo 537, punto III, in Archivio Storico Civi-

co Milano, Consiglio comunale, b. 32.110 Seduta 14 agosto 1837 (ivi, b. 33).

Il nuovo dispositivo obbligò l’autorità locale a investigare più da vici-no il mondo del lavoro urbano, sin lì meglio noto alle Camere di com-mercio e agli ufficiali di polizia. Lo testimonia una lunga serie di interro-gativi sollevati sull’età minima dei lavoranti da sottoporre alla disciplina,sull’ammissibilità delle donne, «che in alcune manifatture vengono pre-feribilmente impiegate», sull’opportunità di includere altre categorie dilavoro dipendente, come i «giovani di negozio e di studio», oppure i fac-chini e i muratori111. Le risposte, sia detto qui brevemente, furono in tut-ti i casi negative, per cui fanciulli, donne e garzoni impiegati in mestieriestranei alla manifattura, benché numerosi, furono esclusi dall’osservan-za della regola.

Per il resto, questo ramo di polizia comunale rimane per il momentoincognito nella sua effettività. Per concludere mi limiterò qui a aggiunge-re qualche tassello relativo all’evoluzione del quadro istituzionale nell’ul-tima fase del regime austriaco e alle scelte che seguirono l’annessionedella Lombardia al Regno di Sardegna e l’Unità.

Dopo il ’48 si procedette a una nuova ripartizione di competenze,che collocò con maggiore nettezza anche il segmento dei libretti di lavo-ro, in un modo che ben segnala la torsione subita da questo oggetto nelcorso del primo Ottocento. A livello periferico si operò una distinzionepiù marcata fra polizia amministrativa e polizia politica, rafforzando la li-nea gerarchica che collegava al centro i Commissariati superiori di poli-zia, facendoli ora convergere non più sulla Direzione generale, tempora-neamente soppressa, ma sul comando militare del feld-maresciallo Ra-detzky112. A quegli uffici periferici sarebbero spettati gli oggetti di poli-zia politica, mentre la polizia amministrativa sarebbe rimasta nelle diret-te attribuzioni delle Delegazioni provinciali, riconfermate peraltro nelloro ruolo di organi apicali della provincia, con la previsione della firmadel delegato su tutte le pratiche. Ebbene, l’ispezione sui libretti di scortavenne riclassificata nella categoria VIII («Passaporti, libretti di scorta,carte di legittimazione») e attribuita ai Commissariati come affare di po-lizia politica113. L’attività propriamente esecutiva rimase peraltro ai Co-

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111 Lettera del delegato provinciale di Lodi nell’istruttoria della sessione governativadel 30 settembre 1836; informativa della delegazione provinciale di Milano, su domandadella Congregazione della capitale, 7 novembre 1836; protocollo della sessione governa-tiva 9 dicembre 1836; le decisioni del Governo, su pareri della Direzione generale di po-lizia, nella relazione del consigliere di governo Pachta, 17 aprile 1837. Tutto in ASMi,Commercio, p.m., b. 177.

112 Con maggior dettaglio, vedi S. Mori, Spazi rurali e polizia nella Lombardia di pri-mo Ottocento: appunti sull’attività dei distretti, in L. Antonielli (a cura di), Polizia, ordinepubblico e crimine fra città e campagna: un confronto comparativo, Rubbettino, SoveriaMannelli 2010, pp. 71-95.

113 Affari di polizia provinciale che, col T.o leg. 857 vanno ad essere assunti in trattazionepresso l’I.R. Delegazione provinciale / I-XV, in ASBg, Delegazione provinciale, b. 3146.

muni, in quella difficile congiuntura massicciamente coinvolti in minuticompiti di controllo della popolazione e del territorio.

La riforma della normativa sui passaporti, decretata due anni dopoper tutta la Monarchia, pur non abrogando la patente del 1827, ne impli-cava la deroga, per cui il sistema dei libretti di lavoro attivo dal 1836 ri-sultò sospeso a tempo indeterminato114. Nel 1852 Radetzky, divenuto go-vernatore generale civile e militare, ripristinò la disciplina per i lavoratorimanifatturieri, dichiarando nulli gli effetti della circolare di due anni pri-ma115. Con questo intervallo di poco più di un anno, il libretto restò invigore ai sensi della legge austriaca sino al 1859, dunque per un totale di22 anni circa.

Il sistema fu riconfermato nelle linee generali dopo il passaggio dellaLombardia al governo sabaudo, dal regio decreto 13 novembre 1859, n.3720, «sull’amministrazione di Pubblica Sicurezza»116. Esso assorbiva,sotto il capitolo dedicato alla mobilità del lavoro, una norma dell’ordina-mento sardo, di origine napoleonica, che aveva dapprima istituito l’ob -bli go del libretto nella capitale, e, con un emendamento posteriore, nel-l’intera regione e per tutti i rapporti di lavoro dipendente, senza distin-zioni di genere, con la sola esclusione del settore agricolo. Ora il legisla-tore individuava il soggetto erogatore nell’autorità locale di Pubblica Si-curezza, alla quale era pure rimessa la conciliazione arbitrale dei conflittifra operaio e padrone e la liquidazione delle eventuali pendenze. Per iterritori al di qua del Ticino ciò significò un notevole aumento dei nume-ro dei lavoratori soggetti al libretto e, soprattutto, una responsabilizza-zione assai più diretta della polizia117.

Qualche anno dopo lo Stato italiano fece un passo indietro, con larevoca della clausola obbligatoria, restituendo agli operatori economiciindividualmente intesi la facoltà di scegliere le proprie strategie di rela-zione con il mercato del lavoro, riflettendo il ben diverso grado di svi-luppo raggiunto dalle manifatture, la nuova forza del padronato indu-striale e gli indirizzi liberisti ormai prevalenti118. La legge sulla sicurezzapubblica del 20 marzo 1865 così attenuava la disciplina, rendendola fa-

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114 La riforma era stata resa nota con circolare 5 novembre 1850. Apprendiamo chetale era stata l’interpretazione della norma dalla circolare della Luogotenenza lombarda27 gennaio 1852, in ASMi, Commercio, p.m., b. 177.

115 Ibidem.116 Regio decreto 13 novembre 1859, n. 3720, Capo IV: Dei libretti e consegna degli

operai e dei forestieri.117 Cfr. la circolare emanata sull’applicazione della legge dall’intendente Alessandro

Strada, che dirigeva la Questura di Milano, datata 7 settembre 1860, e le successive, 11settembre 1860 e 9 gennaio 1861, in ASMi, Questura, b. 18

118 Vedi Cazzetta, Lavoro e impresa, cit., e più approfonditamente, P. Passaniti, Sto-ria del diritto del lavoro, 1: La questione del contratto di lavoro nell’Italia liberale (1865-1920), Giuffrè, Milano 2006.

coltativa, a volontà dell’operaio o del datore di lavoro: «Le autorità dipubblica sicurezza, a richiesta degli operai e dei domestici, od a richiestadei capi d’officina, impresarj e padrini, devono rilasciare un librettoconforme al modello determinato dal regolamento»119.

A uno sguardo retrospettivo la vicenda qui ricostruita appare singo-larmente tortuosa, e al tempo stesso caratterizzata da una dialettica viva-ce fra i diversi soggetti pubblici e i privati portatori di interessi nell’og-getto del dibattere. Questi ultimi, lungi dal rappresentare un fronte com-patto del mondo del commercio, al suo interno assai variegato e ripartitoin raggruppamenti merceologici e territoriali spesso concorrenti, nonerano certamente provvisti di un’influenza paragonabile a quella di altrecategorie della sfera economica e civile, come testimonia la difficoltà cheessi ebbero a trovare ascolto presso le regie autorità, una volta chiusasi lastagione del protezionismo manifatturiero asburgico. L’unica chance cheavevano di vedere accolta la loro richiesta di un intervento pubblico ditipo preventivo-repressivo in forme amministrative era quella che la loroistanza diventasse rilevante dal punto di vista politico. E ciò si verificò,alla fine, non tanto nell’area lombardo-veneta, quanto nell’orizzonte piùampio della Monarchia fra gli anni Venti e gli anni Trenta, allorché i flus-si migratori crebbero, investendo anche i confini regionali, e la mobilitàdei lavoratori manifatturieri attirò l’attenzione delle autorità sotto il ca-pitolo dell’ordine pubblico.

In Lombardia prevalse a lungo un’opzione morbida, che di fatto la-sciò campo libero alle residue possibilità di autogoverno della sfera eco-nomica, dopo che il governo di quest’ultima era stato ristrutturato fra lafine del Settecento e l’età napoleonica in modo tale che degli assetti cor-porativi, in sé superati, fossero assorbite le gerarchie nel nuovo quadroamministrativo statuale. Il sistema, altamente inefficiente nelle fasi di cri-si, restava puntellato dalla funzione giudiziaria, ora confidata a tribunalistatali speciali. Le pressioni esercitate dal basso dai segmenti manifattu-rieri più insoddisfatti trovarono peraltro sponda in più occasioni nelle au-torità «politiche» periferiche, desiderose di ampliare la propria sfera dicompetenza e i propri poteri. Furono attivi in tal senso i funzionari posti acapo delle province (gli intendenti giuseppini, non i prefetti a quanto sap-piamo, sicuramente alcuni delegati del regime austriaco), quindi le Dire-zioni generali di polizia, la napoleonica prima e l’austriaca poi.

Allorché la linea del controllo di natura esecutiva prevalse, più peruna finale e indipendente manifestazione di volontà di Vienna, che per laforza delle convinzioni del governo regionale, l’apparato di polizia otten-

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119 L. 20 marzo 1865, Sulla Sicurezza Pubblica, Sezione V, Degli operaj, art. 48. Cfr.Hunecke, Classe operaia, cit., p. 356.

ne la supervisione dei procedimenti legati ai libretti e la competenza di-retta in ordine ai profili più specificamente attinenti alla sua funzione(l’abilitazione dei libretti all’espatrio), ma la gran parte del lavoro richie-sto dalla normativa fu imposto alle amministrazioni locali. Queste se necaricarono per forza, come compito delegato ritenuto del tutto estraneoai propri interessi. Quanto ai profili sostanziali, il libretto non ottennemai una piena adesione da parte delle autorità austriache, che non gli ri-conobbero doti certificatorie sicure ai fini di polizia per cui esso era statointrodotto, ben presto vedendovi, per contro, uno strumento di eccessi-va autonomia nelle mani dei lavoratori, facilitati nei movimenti dentro efuori dai confini regionali.

La riforma introdotta dall’ordinamento di pubblica sicurezza delloStato unitario inaugurò una fase di riflusso delle tendenze disciplinariprevalse sotto il regime austriaco e proiettò sul campo specifico l’ab ban -dono da parte del legislatore italiano di schemi di ingerenza rigida del-l’autorità pubblica nella sfera economica e civile, attitudine che avrebbedato l’impronta all’età liberale sino alla crisi politica di fine secolo. L’al -leggerimento dei vincoli e dei controlli, peraltro, non sarebbe andato avantaggio del lavoro dipendente, ma avrebbe favorito il padronato, tantopiù quanto l’impresa andava assumendo assetti produttivi industriali120.Per gli operai delle manifatture lombarde l’appannamento del ruolo me-diatorio dell’autorità di polizia non fu estraneo al regresso che si registrònelle condizioni di lavoro entro lo scadere del primo decennio di vitadello Stato italiano121.

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120 Sul tema, vedi il saggio di G. Maifreda in questo volume.121 Hunecke, Classe operaia e rivoluzione industriale a Milano, cit., pp. 353 e ss.

Germano Maifreda

Libertà e controllo.La disciplina ottocentesca dello spazio di fabbrica tra costruzioni giuridiche e regolamenti interni

1. Gli spazi della legge

Le forme di regolazione del lavoro industriale italiano si svilupparo-no, dalla nascita delle prime fabbriche e per oltre un secolo, in forme ab-bondantemente indipendenti dall’azione dello Stato e dell’amministra-zione pubblica. Ciò non solo a causa delle aspirazioni autonomistichedelle élites imprenditoriali e professionali, che pure opposero una lungae tenace resistenza verso quelli che giudicavano tentativi di ingerenzanelle libere forme di associazione e di rappresentanza degli interessi. Lafragilità delle norme che ressero l’industria italiana fino al pieno Nove-cento, quando la disciplina di fabbrica nei suoi schemi di base si era or-mai consolidata, originò piuttosto dall’aperta ostilità verso i privilegi cor-porativi e ogni forma di corpo intermedio che caratterizzò l’azione legi-slativa fin dagli anni della Rivoluzione francese. La prospettiva giuridicae culturale adottata dal codice civile del 1804 fu quella, fiduciosamenteottimistica, di un lavoro «liberato», preludio a una società composta daun’ampia classe di produttori indipendenti per cui lo Stato era un merogarante delle libertà individuali. La coesistenza armoniosa di lavoro eproprietà esprimeva l’autonomia di un soggetto liberato dal peso op-pressivo dell’antico regime, sancendo una vistosissima eccezione nellapuntualità regolamentatrice del moderno Stato di diritto. L’intera rap-presentazione del lavoro dipendente nel codice civile era assorbita da unbreve cenno, di soli tre articoli, al contratto individuale; taciuta era l’ef -fet tività del rapporto, sacrificata a una stilizzazione per cui le parti eranolibere di fissare il salario e le modalità di prestazione, e ignorata la speci-ficità della produzione manifatturiera. Lo scarno schema della locatiooperarum, la locazione d’opera, assunta dal diritto romano, denunciaval’insensibilità nei confronti dei problemi del lavoro di fabbrica, conse-guenza di una libertà faticosamente conquistata con la cancellazione del-

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le corporazioni e delle rappresentanze cetuali. Il codice di commerciofrancese del 1807, influenzato dall’Ordonnance sur le commerce del 1673,riducendo il lavoro al guscio formale del contratto libero e individuale,accennava appena alle manifatture e si concentrava sulle regolazione del-lo scambio e dell’intermediazione, presupponendo a sua volta unarealtà economica popolata da piccoli produttori e prestando attenzionea un tessuto economico più commerciale che industriale. L’attività discambio venne considerata nel codice come atto di commercio, mentrequella di produzione fu regolata solo nella misura in cui assumeva la ve-ste di organizzazione gerarchica stabile. L’impresa industriale si confi-gurava dunque, all’alba del diritto moderno, in forma complementareall’attività di scambio. La categoria della «speculazione di lavoro» carat-terizzò anche l’impresa industriale come atto di commercio, poiché nel-la cultura giuridica che l’aveva prodotta l’imprenditore si interponevatra i fattori di produzione, tra cui il lavoro, e il mercato. Questo quadroculturale produsse un vuoto giuridico che pose i proprietari delle mani-fatture in situazione di netto privilegio, anche in virtù di una intensa re-torica giuridica che li dipingeva come uomini eticamente superiori edunque degni di fiducia, a fronte di un lavoratore dipendente tenden-zialmente insubordinato e pericoloso per l’ordine sociale ed economico.Gli industriali, una volta stipulato il contratto di lavoro, la cui durataera arbitraria e il cui scioglimento era affidato a un semplice licenzia-mento ad nutum, erano dunque gli unici depositari delle scelte riguar-danti il regime di fabbrica. Un «inno all’individualismo e all’autonomiadella volontà», è stato definito l’operato del legislatore rivoluzionario enapoleonico in tema di lavoro, «destinato a rivelare tutta la sua spieta-tezza di fronte all’industrializzazione»1.

Nella stessa Germania, lo Stato europeo artefice della seconda rivo-luzione industriale, i venti articoli del Bürgerliches Gesetzbuch, il codicecivile dell’impero in vigore dal primo gennaio del 1900, dedicati al «con-tratto di servizio», si mostrarono nel giro di pochi anni inadeguati a pro-spettare un unitario concetto di contratto di lavoro e furono ben prestosottoposti a profonda critica. La distanza fra cultura giuridica e la coevariflessione filosofica fu nettissima: il pensiero continentale, radicandosiin Hegel e attraverso soprattutto Lorenz Stein e le formulazioni del Vor -

1 Seguo qui soprattutto G. Cazzetta, Lavoro e impresa, in M. Fioravanti (a cura di),Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 139-162,citazioni dalle pp. 141 e 146-147, nonché F. Galgano, Lex mercatoria, il Mulino, Bologna20014, pp. 75 e ss., 87 e ss., 108 e ss., che, riferendosi a questa fondativa epoca parla diuna vera e propria «frattura fra il diritto e l’economia». Ho affrontato diffusamente il te-ma delle aspirazioni autonomistiche delle élites italiane postunitarie in G. Maifreda, Go-verno e rappresentanza degli interessi. Angelo Villa Pernice (1827.1892), Soveria Mannelli,Rubbettino 2001, cui per brevità mi permetto un rimando.

märz, era andato abbandonando la concezione del lavoro come singola edeterminata attività, attribuendogli significato di «evento fondamentale»informante a sé tutta l’esistenza umana. Un’opera di rifondazione teore-tica attraverso cui il lavoro divenne il solo portatore di senso in un mon-do che ne sarebbe stato altrimenti assolutamente privo: già in Stein sitrova l’affermazione che «la dottrina della storia è la dottrina del lavorodella specie umana»2. Nell’idealismo tedesco la categoria filosofica di a -zione fu definitivamente sussunta in quella di Arbeitstrieb, facendo coin-cidere la genesi del soggetto con l’affermarsi della dimensione del lavoroquale attività fondamentale per giungere alla comunità. L’oggetto elabo-rato, das Erarbeitete, divenne qui il momento di mediazione tra ciò che ilsingolo fa per sé e ciò che compie per gli altri. La rivendicazione rivolu-zionaria dell’eguaglianza di tutte le personalità venne superata a favoredi una uguaglianza che riguardava solo la loro essenza, una diversa egua-glianza che permetteva, lavorando per un bisogno e un godimento deter-minati, di lavorare per tutti. La Gemeinschaft venne così composta nonattraverso l’atto determinato, la singola mansione lavorativa, ma il carat-tere essenzialmente uguale dei bisogni e dei godimenti3.

La debolezza della regolamentazione giuridica del lavoro accentratoera in solo apparente contraddizione col fatto che, sempre nel corso del-l’età rivoluzionaria e napoleonica, si era affermata nella cultura politicaeuropea la convinzione che la nuova società richiedesse un’opera di in-tensa sorveglianza e regolamentazione pubblica. L’ideale di un individuoautodeterminato, libero dall’antico regime dei corpi quanto «dall’ab-braccio soffocante dello Stato paterno», che gli uomini dell’Ottantanoveavevano dato per morto con la crisi dell’assolutismo borbonico, fu benpresto superato dagli eventi. L’assemblea costituente assegnò all’ammini-strazione statale i principali compiti di governo sociale, dall’educazionealla viabilità, dall’ordine pubblico all’assistenza sociale, dalla conserva-zione dei beni pubblici alla sanità, anticipando un principio che uni for -mò la legislazione emanata nella fase centrale dell’età rivoluzionaria. Ilmodello tipologico dello Stato di diritto, approntato in Germania nell’e -tà della Restaurazione e assorbito da tutte le principali esperienze nazio-nali europeo-continentali, avrebbe di lì a poco compiuto il percorso delnuovo soggetto amministrativo statuale come monopolista della realizza-zione dei compiti pubblici. Tutto ciò segnò l’eclisse definitiva dei regimigiudiziali del diritto e il trionfo della concezione attraverso cui, nelle pa-

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2 Cfr. Cazzetta, Lavoro e impresa, cit., p. 150, nota 15.3 M. Ricciardi, Lavoro, cittadinanza, costituzione. Dottrina della società e diritti fon-

damentali in Germania tra movimento sociale e rivoluzione, in R. Gherardi, G. Gozzi (acura di), Saperi della borghesia e storia dei concetti tra Otto e Novecento, il Mulino, Bolo-gna 1995, pp. 119-159.

role di Barthold Georg Niebuhr, riprese da tutta una tradizione otto-no-vecentesca di sostenitori della garanzia pubblica della vita individuale,«la libertà oggi deve cercarsi non tanto nella costituzione e nelle leggipolitiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative»4. Sitrattò della realizzazione di quella pretesa di «Governo moderatore, at-tento, affannato, responsabile di tutti i sospiri degli uomini inginocchiatidavanti a lui» che un polemico Francesco Ferrara annoverò nel 1852 frai lasciti più onerosi del secolo dei Lumi. «Idea di uno Stato la cui funzio-ne è quella di soffocare i suoi sudditi per troppo carezzarli e curarne lesorti», che nel cuore dell’Ottocento «predomina[va] ancora […] fuori lasfera puramente economica»5.

Dopo l’Unificazione, giustizia e ordine pubblico divennero la princi-pale preoccupazione degli uomini di governo contemporanei. La nuovaaggregazione nazionale era ansiosa di legittimarsi presso gli interlocutorieuropei come – disse Camillo Benso conte di Cavour – «nuovo elementodi ordine, tranquillità ed equilibrio»; ambizione, questa, ben presto fru-strata dalla constatazione che la società italiana della seconda metà del-l’Ottocento era divenuta la più criminosa d’Europa6. Era questo il «veroprimato» d’Italia, scrisse Turati ne Il delitto e la questione sociale, «chenon è quello sognato da Gioberti»7. Il diffondersi, non sempre statistica-mente avvallato, di queste convinzioni ebbe ricadute immediate sull’im-magine e il ruolo sociale delle fabbriche. Quintino Sella, responsabiledelle Finanze della Destra storica e imprenditore tessile laniero, dopo lapresa di Roma del 1870 si pronunciò subito a sfavore di un orientamentoindustriale della nuova capitale.

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4 L. Mannori, B. Sordi, Giustizia e amministrazione, in Fioravanti (a cura di), Lo Sta-to moderno in Europa, cit., pp. 59-101, citazioni dalle pp. 76 e 83.

5 F. Ferrara, Ragguaglio biografico e critico sugli autori contenuti nel presente volume,in Biblioteca dell’economista, vol. III, serie I, Pomba, Torino 1852, pp. V-LXX, citato daD. Bidussa, Pietro Verri, perduto e (forse) ritrovato, in P. Verri, Meditazioni sulla economiapolitica, a cura di R. De Felice, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 1-16, p. 3. Sulle mol-teplici implicazioni della dimensione libertaria del pensiero di Ferrara, giunte fino alladifesa della legittimità delle coalizioni operaie, del tutto inconsueta per l’Italia dell’epo-ca, cfr. F. Della Peruta, Francesco Ferrara nella vita politica italiana, in «Società e storia»,1989, n. 44, pp. 333-379. John Barrel, in un importante studio, ha attribuito la nascita inInghilterra di quella che definisce «una cultura della sorveglianza e del sospetto» alla pau -ra scatenata oltremanica dai fatti della Rivoluzione francese e della nascita dei movimentidemocratici: cfr. J. Barrel, The Spirit of Despotism. Invasions of Privacy ih the 1790s, Ox-ford University Press, Oxford-New York 2006.

6 Citazione da R. Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia libera-le. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio (1861-1865), Bo-logna, il Mulino 1980, p. 180.

7 F. Turati, Il delitto e la questione sociale. Appunti sulla questione penale, La Contro-corrente, Bologna 19133, p. 14.

In una soverchia agglomerazione di operai in Roma io vedrei un vero incon-veniente, perché credo che sia il luogo dove si debbono trattare molte questioniche vogliono essere discusse intellettualmente, che richiedono l’opera di tutte leforze intellettuali del Paese, e non opportuni gli impeti popolari di grandi massedi operai. Crederei pericolosa o almeno non conveniente un’organizzazione diquesta natura8.

Un altro influente pioniere dell’industrializzazione italiana, Giusep-pe Colombo, un decennio più tardi echeggiava le parole di Sella.

La grande concentrazione ha grandi risorse, ma le sue crisi: e quando que-ste si manifestano sono una grave frattura pel paese che ne è colpito. Concentra-re in una città una massa ingente di operai, addetti, in pochi vasti opifici, a unalimitata serie d’industrie esercitate su larga scala, offre pericoli che la piccola in-dustria, rivolta a un assai maggior numero di fabbricazioni di minore importan-za, meno soggetta alla crisi, con una popolazione operaia più sparsa e suddivisa,non presenta. Il lavoro a domicilio pel quale una parte della classe operaia ad-detta a simili industrie minori contribuisce alla ricchezza pubblica, pur restandofra le pareti domestiche, pur sottraendosi in questo modo all’influenza del lavo-ro in fabbrica che allenta e scolorisce i vincoli della famiglia, è una forma del la-voro industriale che giova pure a fornire, perché è una garanzia di moralità e dipace: due elementi di cui una città popolosa ha un vivo bisogno in quest’epocadi rivoluzione economica e sociale9.

Le frasi di un importante industriale elettrico pronunciate a favoredell’ideale idillico della manifattura rurale, dando la misura dell’ansiacon cui la nuova classe dirigente italiana scrutava l’universo della nascen-te produzione capitalistica, ripropongono l’ambiguità di uno Stato che,mentre elaborava forme stringenti di condizionamento della vita sociale,tollerava la permanenza di una fitta zona grigia all’interno delle fabbri-che. «Le maître est cru sur son affirmation», proclamava del resto l’arti -co lo 1781 del codice civile napoleonico, abrogato solo nel 1868, «pour laquotité des gages, pour le paiement du salaire de l’année échue et pourles acomptes donnés pour l’année courante»10. Era la pietra d’angoloteoretica di una concezione che in Italia trovò il suo principale sostenito-re in Alessandro Rossi. Dal 1845 direttore della più potente struttura in-dustriale italiana, il Lanificio Rossi di Schio (Vicenza), dal 1867 deputato

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8 Citato da fonte archivistica in J.A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’I-talia dell’800, Franco Angeli, Milano 1989 (ed. or. London 1988), pp. 350-351.

9 Cfr. L. Cafagna, Il Nord nella storia d’Italia. Antologia politica dell’Italia industria-le, a cura di Id., Laterza, Bari 1962, p. 48.

10 Citato da Cazzetta, Lavoro e impresa, cit., p. 143, nota 5. Sull’influenza della codi-ficazione francese nella legislazione italiana si può partire dall’ampia trattazione di G.Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Volume quinto. La costruzione dello Stato unitario,Feltrinelli, Milano 19943.

e poi senatore, pubblicista, studioso e dinamico animatore di congressi edibattiti parlamentari, Rossi abbracciò un progetto politico consistentenell’affermazione di un ideale di Stato regolatore, il cui intervento nellavita produttiva era accettato solo come finanziatore o protettore delle in-dustrie nazionali. Il ceto imprenditoriale impersonato dal veneto era di-fensore strenuo dell’indipendenza morale e operativa del dirigente, dicolui che quotidianamente assumeva la guida del processo produttivo edei rapporti con i lavoratori, «perché la sua vita è una vita di devozione,perché esso dispone, e nel campo del lavoro e nel campo del capitale,della fortuna di parecchie migliaia di suoi concittadini, dell’onore delsuo paese»11. La vita di un’azienda industriale doveva dipendere esclusi-vamente «dallo spirito con cui s’intende secondo la mente di coloro chela dirigono, dai metodi che vi si applicano, e più di tutto dal cuore concui si esercita12. Potevano dunque fregiarsi dell’attributo di classe diri-gente solo coloro che assumevano responsabilità operative, chi coi lavo-ratori aveva «dei rapporti necessari, diretti, di meriti e doveri, e che rap-presentano il capitale verso gli operai, siano questi agricoltori, manifattu-rieri, ferrovieri, marinai, minatori, amanuensi, fattorini, minuti agenti,insomma la grande, la immensa famiglia che vive di lavoro fisico»13.

In aperta polemica con Luigi Luzzatti, sostenitore della possibilità diuna legislazione specifica di fabbrica, gli industriali come AlessandroRossi giustificavano come necessario il lavoro notturno e quello infantile,«antico quanto il mondo», giudicando peraltro inutile alcuna regola-mentazione del lavoro della donna. L’impiego della manodopera minori-le e femminile originava secondo loro dalla prevalenza in Italia di fabbri-che di piccola e media dimensione tecnologicamente arretrate. Lo Statoavrebbe quindi dovuto limitarsi a favorire lo sviluppo di grandi impresemoderne, che con la concorrenza avrebbero eliminato le sacche di arre-tratezza migliorando le condizioni di vita e lavoro degli operai14. Nellagrande industria, riteneva Rossi, la «prosperità» era originata da

una serie infinita di cause morali e materiali, dove l’azione dell’operaio è af-fatto estranea, dove la parte principale è rappresentata dall’esperienza, dall’in-gegno e da altre doti di chi dirige tutte le file dell’azienda, di chi sa ispirare ne’

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11 Discorso pronunciato nell’Assemblea degli azionisti del Lanificio Rossi l’8 marzo1874, citato da G. Baglioni, L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Ei-naudi, Torino 1974, p. 252.

12 A. Rossi, Socialismo e fraternato, Uffizio della Rassegna nazionale, Firenze 1888,p. 16, citato ivi, p. 253.

13 Ivi, p. 89; citato ivi, p. 265.14 Cfr. G. Are, Il problema dello sviluppo industriale nell’età della Destra, Nistri-Li-

schi, Pisa 1965, pp. 327 e ss.; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Volume sesto. Losviluppo del capitalismo e del movimento operaio, Feltrinelli, Milano 19944, pp. 68 e ss.

suoi meandri la vita e potenza del proprio spirito e ridurre le sparse forze aquella unità d’intenti, da cui dipende il successo dell’impresa od industria15.

L’apporto complessivo del lavoratore nella grande industria venivagiudicato molto minore che in altri comparti produttivi; da qui la neces-sità di una gerarchia fondata su precise responsabilità e mansioni16. Fusu queste basi politiche e culturali che il «paternalismo organico» di Ros-si e di buona parte degli industriali coevi fondò la sua dichiarazione diautonomia rispetto allo Stato e ai suoi apparati. Su questo schema, anchenelle realtà produttive tecnologicamente più avanzate, poggiò una filoso-fia della sostituzione dell’autorità statuale che coniugava i principi perso-nalistici della gerarchia e la deferenza verso il governo della famiglia im-prenditoriale, rinforzato dall’osservanza religiosa. Una concezione giuri-dica e tecnica della direzione d’impresa riluttante ad assorbire valutazio-ni di ordine sociale ed economico, la cui fragilità di fronte all’avanzatadella società industriale fu percepita con estrema lentezza17.

Se in Francia solo nel 1864 si eliminò il délit de coalition, senza peral-tro fissare né la configurazione del diritto di riunione né quello di scio-pero, in Italia bisognò aspettare il codice penale di Zanardelli nel 1889perché si incrinasse il regime di repressione legale per i reati di coalizio-ne. I divieti di associazione formalizzati dal codice penale francese del1810 e assorbiti da quello sardo del 1859, impedendo accordi salariali,solidarietà in caso di licenziamento e ogni forma di lotta sindacale, con-tribuirono anch’essi a radicare nell’Ottocento europeo una cultura giuri-dica incardinata sulla presunta armonia generata dal libero contratto.Solo grazie a uno dei primi scioperi, quello nel Biellese fra inverno 1863e primavera 1864, quel «proletariato atipico» costituito da qualificati ar-tigiani che mal tolleravano la disciplina imposta dai primi regolamenti difabbrica riuscì a strappare il cosiddetto Concordato Mancini, forse il pri-mo atto che nell’Italia unita riconobbe l’intervento dei dipendenti suiproblemi di fabbrica. Quegli operai erano del resto una forza produttivafra le qualificate d’Europa: Cavour, in qualità di ministro di Marina, agri-coltura e commercio degli Stati sardi, li aveva definiti «la popolazione

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15 A. Rossi, Questione operaia e questione sociale, Roux e Favale, Torino 1879, p. 42,citato da Baglioni, L’ideologia della borghesia industriale, cit., p. 278.

16 Ivi, p. 279.17 Per una rassegna critica, si veda E. Benenati, Cento anni di paternalismo aziendale,

in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Annali. Tra fabbrica e società. Mondi operai nel-l’Italia del Novecento, a cura di S. Musso, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 43-81. La defini-zione di «paternalismo organico» fu introdotta da Baglioni, L’ideologia della borghesia in-dustriale, cit., pp. 232 e ss. e aggiornata da G. Sapelli, Gli «organizzatori della produzio-ne» tra struttura d’impresa e modelli culturali, in Storia d’Italia. Annali 4. Intellettuali epotere, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1981, pp. 589-698.

più svegliata, più atta al lavoro, più capace di fare ottimi operai, di quellache è in quella provincia, e ne abbiamo dimostrazione ogni giorno».

Vediamo gli operai del Biellese nelle industrie non protette, partire di casa,fare cento o duecento leghe per andare a sostenere la concorrenza con gli operaidegli altri paesi, e tornare poi a casa con discreti guadagni. Questi operai hannotanta abilità per recarsi a far concorrenza cogli operai di altri paesi18.

Nonostante il prestigio professionale loro riconosciuto, i biellesi fu-rono costretti a scioperare per conservare quantomeno la pratica dell’ap-prendistato. Si trattava di uno strumento importantissimo per il mante-nimento dell’identità professionale, fonte di distinzioni di ruolo e dimansione e da secoli parte integrante di un cursus minuziosamente rego-lato dagli statuti delle corporazioni. «Gli operai, sia in giornata, che acottimo», si legge nel Concordato Mancini, «sopra richiesta dei fabbri-canti, ammaestreranno lealmente nell’arte loro gli apprendizzi loro affi-dati dai fabbricanti medesimi. […] L’apprendissaggio durerà pei filatoriquattro mesi, pei tessitori di soli panni lisci otto mesi, e per quelli di pan-ni lisci e operati dieci mesi»19. Che le prime lotte dei lavoratori di fabbri-ca italiani avessero come obbiettivo la fissazione statutaria di queste po-che frasi è indice di un’aporia su cui dovremo tornare a riflettere: quellache disgiunse disciplina accentrata e apprendistato, ovvero il principaleistituto di legittimazione della continuità fra apprendimento artigiano elavoro, oltre che fattore di mobilità verticale e orizzontale, interna e e -sterna alla fabbrica. A esso, anche nelle epoche successive, quando laformazione scolastica si sostituirà definitivamente a quella impartita dal-le Arti, la disciplina di fabbrica continuerà a preferire l’addestramento inquanto azione orientata a trasmettere norme e comportamenti che rico-struiscano, nelle abilità e negli atteggiamenti soggettivi, la logica generaledel meccanismo produttivo20.

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18 Cfr. C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari. Volume terzo. 1851, a cura di A.Omodeo, La Nuova Italia, Firenze 1933, p. 248.

19 Citato da G. Berta, Dalla manifattura al sistema di fabbrica: razionalizzazione e con-flitti di lavoro, in Storia d’Italia. Annali 1. Dal feudalesimo al capitalismo, a cura di R. Ro-mano e C. Vivanti, Einaudi, Torino 1978, pp. 1079-1129, p. 1089; per l’espressione «pro-letariato atipico», cfr. ivi, p. 1086. Ancora nel 1892 la concentrazione di operai per fab-brica nel Biellese era pari in media a circa 56, pur con alcune eccezioni. Cfr. G. Chicco,M, Marchetti, S. Mobiglia, Conflittualità operaia e organizzazione produttiva nell’indu-stria tessile piemontese dalla fase postunitaria al periodo giolittiano, in «Quaderni di so-ciologia», 1976, nn. 2-3, pp. 115-153, p. 130.

20 Mi ispiro alla definizione di addestramento fornita da F. Butera, Organizzazionereale e sapienza organizzativa operaia. Introduzione a R. D’Andrea, Scienza operaia e orga-nizzazione del lavoro. Cultura, professionalità e potere dei gruppi operai di fronte al proces-so produttivo, Marsilio, Venezia 1976, pp. 9-36, p. 9. Sull’incompatibilità tra le forme più

Già a metà Ottocento gli operai di mestiere erano quindi ben consa-pevoli del fatto che l’avanzata del sistema di fabbrica stava radicalmentecambiando i modi in cui il lavoro manifatturiero si svolgeva da secoli. Laperdita del potere di apprendistato fu avvertito come un decisivo cam-panello d’allarme ben prima che Fredrick W. Taylor, nella sua operaprincipale, vi individuasse uno dei fattori decisivi della discrezionalitàdei lavoratori in fabbrica.

Scrisse Taylor nelle prime pagine dei Principi di organizzazione scien-tifica del lavoro, pubblicato nel 1911:

In uno stabilimento industriale che impiega da 500 a 1.000 addetti si posso-no trovare in molti casi almeno venti o trenta reparti. In ciascuno di essi le istru-zioni sono state tramandate verbalmente ai lavoratori nel lungo corso degli annidurante i quali il loro reparto si è sviluppato, dalla situazione iniziale in cui cia-scuno dei nostri lontani predecessori praticava i rudimenti di molte lavorazionidiverse…

Invece di un procedimento, generalmente considerato standard, nella pra-tica quotidiana vengono utilizzati cinquanta o cento modi diversi di svolgereogni fase del lavoro. Si può comprendere facilmente come questo sia inevitabi-le dal momento che i nostri metodi sono stati spiegati a voce da un lavoratoreall’altro o, in molti casi, sono stati appresi inconsciamente attraverso l’osserva -zione personale. In pratica essi non sono stati codificati in casi o analizzati si-stematicamente21.

Nonostante la nuova centralità filosofica assunta nel XIX secolo dal-la categoria del lavoro, la scarna legislazione sociale che pose nel tardoOttocento europeo il problema della limitazione della incontrastata au-tonomia degli industriali, principalmente in tema di lavoro notturno, in-fantile e femminile, oltre che di assicurazione per gli infortuni, procedet-te con grande difficoltà e con scansioni temporali diversificate. Ben pre-sto respinta l’idea, avanzata da giuristi di ispirazione solidaristica ma bol-lata di contraddittorietà scientifica, di un «codice sociale», fu attraversola consolidata distinzione tra diritto privato – inteso come espressione diinteressi particolari – e diritto pubblico – inerente interessi di ordine ge-nerale – che si avviò una riflessione mirante a rielaborare, ai margini deldiritto privato, i primi principi di regolamentazione del lavoro. Il consoledi Francia a Milano De La Porte poteva così scrivere nel 1885, in una re-

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estreme di disciplinamento del lavoro e apprendistato, si veda G. Della Rocca, Sindacatoe organizzazione del lavoro. Analisi comparata del sistema di relazioni industriali in cinquepaesi, Franco Angeli, Milano 1982, p. 159.

21 F.W. Taylor, I principi di organizzazione scientifica del lavoro, a cura di G.M. Gros-Pietro, in P.L. Bassignana (a cura di), Taylorismo e fordismo alla Fiat nelle relazioni diviaggio dei tecnici ed ingegneri (1919-1955), Amma, Torino 1988, pp. 417-515, citazioneda p. 422.

lazione sull’industria serica in Lombardia, che «nessuna legge in vigoreregola il tempo di lavoro: né l’età dei lavoranti, né il grado di istruzione èoggetto di alcun controllo; l’industria è libera, tutto si fa per volontarioaccordo fra padroni e operai»22. Fu questo il quadro che condusse Stefa-no Merli a ritenere, forse perentoriamente, che il capitalismo italianofosse l’unico in Europa che alla fine del XIX secolo era ancora del tuttolibero di sfruttare il lavoro salariato. L’enorme riserva di lavoratori di-sponibili per un ancora ristretto apparato industriale spiegava la sua ri-luttanza a meccanizzarsi. A questa interpretazione è stato opposto chel’impiego di massa di donne e bambini nelle fabbriche e l’ipersfrutta -men to del lavoro mediante l’aumento indiscriminato delle ore lavorativeo l’intensificazione non concordata dei ritmi dei cottimi si estese, anchesolo con riferimento al caso inglese, fin dalla seconda metà del Settecen-to, pur nell’indubbia novità rappresentata dalla massiccia diffusione ot-tocentesca di tali forme di occupazione23. È comunque vero che in In-ghilterra già il Factory act del 1833 limitava a nove ore al giorno il lavorodei fanciulli di meno di tredici anni e impediva il lavoro notturno a quelliaventi meno di diciotto anni, e in Francia la legge 22 marzo 1841 poseparimenti un tetto al lavoro infantile diurno e il divieto di quello nottur-no; legge rivista nel 1874 e, soprattutto, nel 1892, con la regolamentazio-ne del lavoro femminile. In Italia, dopo un lungo dibattito sulla legitti-mità dell’intervento dello Stato, l’11 febbraio 1886 fu prodotta una leggedel tutto indeterminata e priva di controlli, da cui scomparve ogni riferi-mento al lavoro della donna24. A livello parlamentare erano quelli gli an-ni in cui, ricordava Rinaldo Rigola nel 1930,

la semplice proposta di riformare il Codice civile nella parte che riguarda laresponsabilità dell’imprenditore in materia d’infortuni sul lavoro, nel senso disancire che spettasse all’imprenditore di fornire la prova che l’infortunio nonera accaduto per sua negligenza, anziché all’operaio di provare il contrario, fa-ceva andare su tutte le furie la classe padronale italiana e i suoi corifei25.

Tutto ciò, in verità, non accadeva solamente in Italia. Negli Stati Uni-ti, in Germania, in Austria, in Belgio, in Francia le questioni relative alla

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22 L’industria della seta in Lombardia, in «La seta», 23 marzo 1885, citato da S. Merli,Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880-1900, La NuovaItalia, Firenze 1972-1973, vol. I, p. 37.

23 Sulle posizioni di Merli, cfr. ivi, specialmente alle pp. 38-62; si vedano poi le obie-zioni di Stuart J. Woolf in La formazione del proletariato (secoli XVIII-XIX), in Storiad’Italia. Annali 1. Dal feudalesimo al capitalismo, cit., pp. 1049-1078, pp. 1070-1071.

24 Cfr. S. Rodotà, Le libertà e i diritti, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Statoitaliano dall’Unità a oggi, Donzelli, Roma 1995, pp. 301-363, in particolare a p. 318.

25 Rinaldo Rigola e il movimento operaio nel Biellese. Autobiografia, Laterza, Bari1930, p. 25.

responsabilità degli imprenditori vennero affrontate, per quasi tutto ilXIX secolo, attraverso il ricorso al diritto comune. Ovunque le leggispeciali proposte fino ad allora non furono approvate dai parlamenti.Fu questo un passaggio estremamente importante, poiché esisté un le-game profondo, raramente esplicitato dagli storici, fra l’elaborazionetardo ottocentesca delle leggi in materia d’infortunio e presa di coscien-za politica e culturale della specificità del lavoro di fabbrica. Lo eviden-zia il caso della Svizzera, area di precoce industrializzazione, che già nel1881 approvò una legge sanzionante la responsabilità del fabbricantesugli infortuni dei dipendenti «quando anche non vi fosse colpa dalcanto suo», ovvero anche se l’infortunio non dipendeva dalla sua azionediretta. Ciò «a meno che non provi che il sinistro fu causato da forzamaggiore, o da atti criminosi o delittuosi imputabili ad altre persone».La legge federale 25 giugno 1881 affermò per la prima volta il principioche il contratto di lavoro obbligava i contraenti non solo a quanto era inesso espressamente contemplato, ma anche alle conseguenze sociali eindividuali che derivavano da tale obbligo. Questo sulla base di un rin-novamento del concetto di «fabbrica»: termine atto a includere, recita-va il testo di legge, «ogni stabilimento industriale in cui simultaneamen-te e regolarmente viene occupata una quantità di operai in locali chiusifuori dalle loro abitazioni».

In Italia questo precedente non passò inosservato. Un articolo intito-lato L’assicurazione degli operai e la responsabilità dei fabbricanti negliinfortuni del lavoro in Svizzera e Germania, pubblicato nel 1887 dalla«Rivista di beneficenza pubblica e delle istituzioni di previdenza», operòuna lucida disamina delle logiche implicite nell’azione del legislatore edell’amministrazione pubblica rispetto al lavoro di fabbrica26. Con com-menti di approvazione fu ampiamente riportato il discorso del presiden-te della Confederazione svizzera Louis Ruchonnet al Consiglio federale.Questi, pronunciandosi nel 1887 in favore dell’estensione dell’ambito diapplicazione della legge alle cave e ai cantieri edili e ferroviari, osservò:

Se il padrone è tenuto a ripagare il danno sofferto da un suo operaio, ciònon è a cagione di una colpa che egli stesso avrebbe commessa, ma perché pi-gliando l’operaio a suo servizio ed adoprandolo ad un lavoro pericoloso gli de-ve, secondo il disposto della legge [del] 1881, la garanzia da tutti gli infortuniche gli possono accadere nel lavoro, a meno che non vi sia colpa grave dell’ope-raio. Egli è ciò che si chiama garanzia del rischio professionale. Questa dottrinacosì semplice non fu posta in luce che recentemente. […].

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26 L’assicurazione degli operai e la responsabilità dei fabbricanti negli infortuni del la-voro in Svizzera e Germania, in «Rivista di beneficenza pubblica e delle istituzioni di pre-videnza», 1887, vol. 15, fasc. 3, pp. 251-259, p. 252.

Nelle grandi imprese, l’operaio che lavora con molti altri in contatto dellemacchine, la vicinanza delle quali costituisce un pericolo, non è che una pedinanell’insieme. Difficilmente può garantirsi da certi pericoli. Il rischio personaleprende un carattere, per così dire, fatale. L’attenzione più viva, l’abilità persona-le degli operai non modificano sensibilmente il getto delle vite umane. La gua-rentia del rischio professionale dovuta dal padrone si presenta come una clauso-la correlativa dell’obbedienza chiesta all’operaio e della parte passiva rappresen-tata. […] La fabbrica è effettivamente il tipo del lavoro organizzato nel quale lapersonalità dell’operaio scompare, nel quale l’obbedienza assoluta è richiesta, nelquale la macchina pericolosa è vicina27.

Avvenendo in un contesto in cui le leggi sociali continuavano a essereclassificate come diritto eccezionale, forma transitoria del diritto pubbli-co non in grado di incidere sull’autentico diritto privato, questa lentamaturazione condusse anche in Italia a una debole soluzione ammini-strativa della questione sociale. Fu la legge 17 marzo 1898 sugli infortunisul lavoro a introdurre l’assicurazione obbligatoria dei dipendenti a cari-co dell’imprenditore, limitandola peraltro con forti restrizioni su casi eammontare dell’indennizzo. Le modalità di organizzazione della Cassanazionale per l’invalidità e la vecchiaia degli operai (legge 17 luglio 1898)fecero sì che l’adesione a essa degli operai fosse quasi inesistente28.

2. Regolamenti e circolazione dei modelli

In assenza di una forte costruzione giuridico-amministrativa, il siste-ma disciplinare delle fabbriche ottocentesche iniziò a funzionare secon-do tecniche, norme, controlli esercitati in forme largamente extragiuri-diche ed extrastatuali. Loro fonte furono per lungo tempo i regolamen-ti, testi manoscritti o stampati in forma di opuscolo tascabile che veni-vano consegnati agli operai quando varcavano per la prima volta la so-glia dell’opificio. Loro obiettivo principale era ordinare le capacità e lamoralità del lavoratore, mettendo in atto metodi finalizzati al controllo

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27 Ivi, pp. 254-255, corsivi miei. Antoine Luis John Ruchonnet fu consigliere radica-le, capo del dipartimento di Giustizia e polizia tra 1884 e 1893 e presidente della Confe-derazione nel 1883 e 1890. Fu caro amico di Léon Walras che, in quanto capo del Dipar-timento di educazione del Vaud, nel 1870 lo chiamò alla cattedra di economia all’Univer-sità (allora Accademia) di Losanna (cfr. L. Walras, Lineamenti di una dottrina economicae sociale. Lettere autobiografiche. Ruchonnet e il socialismo scientifico, a cura di A. Salsa-no, Archivio Guido Izzi, Roma 1988).

28 Rodotà, Le libertà e i diritti, cit., p. 324. Nel 1902 si istituì in Italia il Consiglio su-periore del lavoro come supremo organo consultivo dello Stato in materia di legislazionesociale; contemporaneamente presso il Ministero di agricoltura, industria e commerciofu attivati un Ufficio del lavoro, con compiti di studio e documentazione (ivi, p. 326).

minuzioso delle operazioni fisiche per assicurare l’assoggettamento deicorpi all’intero e all’esterno della realtà di fabbrica. La loro accettazionecoincideva di fatto con l’assunzione, e i loro margini di discrezionalitàerano pressoché totali. «La direzione stabilisce che per le pene discipli-nari non avrà una norma precisa e si regolerà secondo gli usi e consue-tudini già praticati e sempre con equità e giustizia», recitava nel 1905 ilRegolamento interno per i vetrai della Pietro Marconi e C. di Pisa29. «Leoperaie dovranno ubbidire a tutto quanto i superiori loro comandanonon rispondendo alle ammonizioni», faceva eco il regolamento del 1886della manifattura serica De Vecchi di Chignolo Po, nei pressi di Pavia30.Mentre nello stabilimento meccanico Longhi di Alessandria il regola-mento del 1888 prevedeva:

L’orario verrà pubblicato e modificato a seconda delle stagioni e dei biso-gni di stabilimento. Nel caso di esigenza l’operaio deve prestare l’opera sua an-che nelle ore eccedenti l’orario consueto, la festa non esclusa, ne sotto pretestoalcuno rifiutarsi, uniformandosi all’orario provvisorio che dalla Direzione verràfissato e tale orario di eccedenza sarà computato all’operaio in ragione della pa-ga ordinaria che percepisce31.

L’autorità dei regolamenti di fabbrica era ben lungi dall’esaurirsi al-l’interno della fabbrica e dell’orario di lavoro. Lunga fu la permanenzadella norma corporativa cha pretendeva dall’operaio, al momento del-l’assunzione, il benservito del datore di lavoro precedente: il cotonificioLegler Hefti e C. di Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo, pose peresempio la necessità della presentazione di un «buon servito» come re-quisito per l’ammissione al lavoro al primo articolo del proprio regola-mento del 189332. Dalle Condizioni e norme cui debbono sottostare lenuove operaie prima di essere definitivamente ammesse al servizio dellaRegia Manifattura dei tabacchi di Lucca, del 1893, apprendiamo inveceche nel corso dell’«esperimento», il periodo di prova, le lavoratrici, oltrea essere tenute

fino dal primo giorno nel quale sono ammesse al lavoro ad uniformarsi atutte le discipline in vigore nella Manifattura, – dovevano sapere che – il diret-

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29 Vetreria Pietro Marconi e C., Regolamento interno per gli operai, Pisa 1905, citatoda A. Marianelli, I lavoratori del vetro in Italia all’inizio del ’900: condizioni di vita e di la-voro, in «Società e storia», 1980, n. 8, pp. 371-412, p. 405.

30 Citato, senza indicazione della fonte, in A. Marchetti, «Per chi suona la campana».Ricerca esplorativa di storia del tempo di lavoro (1880-1919), in «Storia in Lombardia»,1993, n. 3, pp. 97-154, p. 106.

31 Citato, senza indicazione della fonte, ivi, p. 107.32 Cotonificio Legler Hefti e C., Regolamento generale, Bergamo 1893, riportato da

Merli, Proletariato di fabbrica, cit., vol. II, pp. 281-284, p. 281.

tore sarà autorizzato a licenziare senz’altro tutte quelle alunne che durante ilcorso dell’esperimento dimostrassero mancanza di attitudine, cattiva salute, in-disciplinatezza o cattiva condotta anche all’infuori della Manifattura. Licen-zierà altresì tutte quelle sulle quali il Tribunale e la Questura dessero informa-zioni poco soddisfacenti33.

In altri casi, ai lavoratori la cui condotta nella vita privata era «noto-riamente e provatamente cattiva» potevano venire negati aumenti sala-riali o riassunzioni. Il regolamento della Borletti e Pezzi di Milano dal1912 considerava «la mancanza di rispetto verso i rispettivi capi anche aldi fuori dello stabilimento» causa di licenziamento senza preavviso34.Ciò al fine di preservare la reputazione dell’impresa di cui il lavoratoreera parte, come recitava espressamente il regolamento della Società dielettricità G. Guarnieri di Bassano del 1906.

Tutto il personale addetto all’esercizio […] dovrà mantenere un contegno ir-reprensibile sotto ogni punto di vista, trovandosi sempre a contatto con il pub-blico, e dipendendo quindi anche da questo suo contegno il buon nome della so-cietà. La direzione procederà con criteri disciplinari rigorosi in modo speciale suquesto argomento e non saranno tollerate mancanze di nessun genere sia verso ipubblico e gli utenti, che nei rapporti interni tra i vari dipendenti della società35.

Il regolamento di fabbrica era dunque componente sostanziale dellavoro accentrato. Si legga il già citato rendiconto di Antonio Villa dellanascita del Tecnomasio italiano; impresa fondata a Milano nel 1863 perprodurre apparecchi di fisica e geodesia e strumenti di misura. Per costi-tuirla, recitava «Il Politecnico», Carlo Dell’Acqua, Luigi Longoni e Ales-sandro Duroni acquistarono a Milano

un vasto e bene adatto recinto. Ingegnosamente valendosi delle fabbricheivi rinvenute disposero anzi tutto in un unico piano un vastissimo bene arieg-giato e meglio illuminato laboratorio. Superiormente collocarono i gabinettidestinati alle operazioni più dilicate, il deposito dei modelli e de’ materiali dicostruzione. […].

Spaziosissimi porticati ad altri diversi corpi di fabrica [sic], secondo che losviluppo successivo dell’impresa saprà o potrà meglio suggerire, con tutta faci-

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33 Citato da L. Spinelli, Disciplina di fabbrica e lavoro femminile: le operaie delle Ma-nifatture dei tabacchi (1900-1914), in «Società e storia», 1985, n. 28, pp. 319-372, citazio-ne da p. 357.

34 Citato in F. Della Peruta, La fisionomia della classe operaia, in M. Antonioli, M.Bergamaschi, L. Ganapini (a cura di), Milano operaia dall’800 a oggi, quaderno n. 22 del-la «Rivista milanese di economia», Cariplo, Milano 1992, vol. I, pp. 3-17, p. 14.

35 Società di elettricità G. Guarnieri, Regolamento operai, Bassano 1913, p. 12, citatoda R. Coriasso, Regolamenti di fabbrica e condizioni di lavoro nell’industria elettrica, in«Storia in Lombardia», 1985, n. 3, pp. 3-34, p. 13.

lità si presteranno alla sistemazione di fucine, di forni fusori, di matrici di vapo-re, di grossi torni, di nuovi laboratori e di altre abitazioni. La corte spaziosa edun osservatorio elevato sopra il massimo laboratorio offriranno facile modo diesperimentare e rettificare qualsiasi strumento geodetico, ottico, altimetrico ecc.

E finalmente potrà in date circostanze, come già oggi torna utile, riuscire dimassimo vantaggio un canale d’aqua [sic], che attraversa l’intero recinto. Matutte queste cose avrebbero un valore assai piccolo, se un ragguardevole corpo dioperai di capacità e moralità a lungo provata nelle officine di ciascun socio nonavvivasse già le nuove officine; se discipline severe sì, ma nell’interesse dell’indu-stria e delli operai medesimi giustissime e prudentissime, non dessero l’assicura -zione, che intorno a quel primo nucleo si potrà assai presto formare una interelegione di operai abili, onesti e laboriosi36.

L’insistenza sul rispetto dei superiori, onnipresente nei regolamenti difabbrica ottocenteschi, riflette il grado di avanzamento del potere discipli-nante della fabbrica, ma è anche legata a una strutturazione gerarchica incui i capi fungevano da tangibile cinghia di trasmissione dell’autorità im-prenditoriale. «La rigorosa sorveglianza e l’uniformità del lavoro che si ot-tiene nei grandi stabilimenti d’Irlanda e di Scozia», secondo un altro arti-colo comparso sul «Giornale di statistica» nel 1849, era da considerarsi il

vero e unico mezzo di ottenere un bel prodotto. Nelle fabbriche di Lombar-dia non è meno necessario di rendere più intima la relazione dei lavoranti col di-rettore, perché ciò è un mezzo di evitare i difetti di fabbricazione, senza di chenon si potrà mai portare le tele nostrane ad una perfezione che le faccia prevale-re per gli usi di lusso. Concludiamo: le nostre filature posseggono delle forzemotrici, delle macchine e degli stromenti eccellenti. Sia lode ai capaci direttoridi esse che seppero renderne completo l’apprestamento sull’esempio delle fab-briche più rinomate. Ma il criterio, l’equilibrio del comando, la perfetta applica-zione de’ metodi, l’ammaestramento degli operai, la corrispondenza, l’armoniadelle parti, da cui nasce non solamente l’esattezza ma l’economia del lavoro, tut-to ciò non si otterrà prima di molti anni consumati nell’incertezza, nell’esitanza,nelle perdite che accompagnano i perfezionamenti e le novità37.

Già nel 1835 gli «Annali universali di statistica» avevano d’altro can-to rilevato che, a causa della nuova concorrenza esercitata dai produttoridi ferro della Carinzia,

molte fucine e molti magli del Bergamasco rimangono inoperosi, o sono diuna inconcludente attività. Per far cessare questo danno è d’uopo che gli eser-

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36 Villa, Nuovo e vasto opificio per la fabbrica di strumenti di precisione, cit., pp. 106-107, enfasi mia.

37 An., Dal Giornale di statistica. Stato dell’industria del lino in alcuni Stati d’Europa,in «Giornale agrario lombardo-veneto», 1849, s. 3, vol. 2, fasc. 12, pp. 349-354, citazionedalle pp. 353-354.

centi questi rami di industria si adattino alla introduzione dei nuovi metodi, ab-bandonando gli antichi, perché divenuti incompatibili colle odierne circostanze,cioè collo stato delle cognizioni industriali che sono progredite sommamente, econ quello delle relazioni politiche e commerciali fra nazione e nazione38.

Come noto, le denunce di inadeguatezza tecnico-disciplinare dei la-voratori e delle fabbriche italiane sono uno dei leit motiv della nostra in-dustrializzazione. È ben vero che le cronache dell’epoca sono zeppe diesperimenti come quello riportato nel 1842 dagli «Annali universali distatistica», che consisteva nel confrontare «i primi saggi dei filati eseguitinella fabbrica di lino a macchina istituita dalla Ditta Buzzoni e Compa-gni nel Comune di Almenno», in provincia di Bergamo, con quelli «ese-guiti dalle migliori fabbriche inglesi». Ovviamente con risultati che il dif-fuso nazionalismo economico conduceva a giudicare «dei più confortan-ti»39. Ma le carenze della produzione manifatturiera italiana divenneroben presto evidenti, soprattutto nelle industrie di montaggio: quelle, co-me scriveva ancora Antonio Villa, «nella fabbricazione di un dato generedi oggetti risultanti da un complesso di parti, alla cui rispettiva confezio-ne devono concorrere abitudini, cognizioni, istrumenti, utensili e mate-riali diversi». In questi casi, lamentava l’ingegnere,

l’industria nostrale non regge la concorrenza straniera. Fra due oggetti de-stinati ad un uso unico, per materia, forma, dimensioni, del tutto simili, se il no-strale a fronte dell’altro appare ugualmente perfetto, ordinariamente però è diun costo più elevato. Che se il costo dei due è pari, pure più alto nell’estero,questo ordinariamente presenta il vantaggio di una perfezione assai maggiore40.

Era questa una critica pesante quanto diffusa. Ancora nei primi anniOttanta del XIX secolo un’altra fabbrica meccanica milanese, la Prinet-ti, «sarebbe stata costretta a chiudere – scrisse Vittorio Ellena – se nontraeva dalla Germania valenti lavoratori»41. Anche l’imprenditore tessi-

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38 An., Notizie e prospetto intorno ai risultamenti della fiera di Bergamo nell’anno1835 con alcuni cenni intorno ad alcuni stabilimenti industriali e commerciali della provin-cia, in «Annali universali di statistica», 1835, s. 1, vol. 46, fascc. 136 e 137, pp. 163-169,citazione dalle pp. 165-166.

39 G. Sacchi, Primi saggi dei filati della fabbrica di lino a macchina istituita ad Almenonella provincia di Bergamo, in «Annali universali di statistica», 1842, s. 1, vol. 74, fasc.222, pp. 277-278, citazione da p. 277. Per un quadro più affidabile, si veda C. Besana,Tradizione e innovazione in un’area lombarda dell’Ottocento. I protagonisti dell’attivitàmanifatturiera nel Bergamasco tra Restaurazione e primi decenni postunitari, in G.L. Fon-tana (a cura di), Le vie dell’industrializzazione europea. Sistemi a confronto, il Mulino, Bo-logna 1997, pp. 761-804.

40 Villa, Nuovo e vasto opificio per la fabbrica di strumenti di precisione, cit., p. 105.41 Citato da D. Bigazzi, Modelli e pratiche organizzative nell’industrializzazione italia-

le Ernesto De Angeli sapeva che gli operai stranieri «in generale sonogelosissimi di ciò che sanno: ci vogliono anni ed anni prima che si possaricavarne qualche cosa»42. Eugenio Bauer, fra i gerenti dell’«Elvetica»,impresa fondata nel 1846 in un ex convento di missionari svizzeri a Mi-lano e che dal 1886 prenderà il nome del suo direttore, Ernesto Breda,sempre negli anni dell’Inchiesta industriale lamentava che gli operaiitaliani erano

assai difficili da trattenere al loro posto, ed è anche difficile d’insegnar loroun mestiere. Perché precisamente questa facoltà che hanno d’imparare, li fa ir-requieti e poco attenti al lavoro ed i più dicono subito: abbiamo già capito, ab-biamo già finito, andiamo via; oppure vogliono un altro mestiere […] Gli stupi-di, il lazzaroni non scappano, quelli stanno sempre nella fabbrica; ma di buonioperai, di veri uomini non ne facciamo, non ne abbiamo43.

Il problema dell’inadeguatezza dei metodi di organizzazione del la-voro italiani era con ogni evidenza interrelato a quello della carenza ditecnici e personale direttivo locale, e accompagnato dalla mancata pro-duzione autoctona di macchinari industriali aggiornati. Per buona par-te dell’Ottocento le fabbriche italiane scontarono una grave mancanzadi personale direttivo ed esecutivo qualificato, anche a causa della de-bolezza della formazione tecnica presso la scuola secondaria e l’univer -si tà44. «È un fatto che da noi si difetta di personale superiore per le in-dustrie in genere e per questa in particolare», osservava nel 1876 anchel’ingegnere Vittore Zoppetti riflettendo sul possibile sviluppo di un’in-dustria siderurgica nazionale.

Mancano invero in Paese, per quel ramo, quei grandi stabilimenti dell’espe-ro in cui si formano gl’ingegneri direttori o capi servizio della fabbricazione, e sieduca alla pratica delle officine il numeroso personale tecnico. Mancano ancoraquegli istituti scientifici speciali ove si educa il personale superiore per l’indu -

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na, in Storia d’Italia. Annali 15. L’industria, a cura di F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannettie L. Segreto, Einaudi, Torino 1999, pp. 897-994, p. 906.

42 Citato da R. Romano, Borghesia industriale in ascesa. Gli imprenditori tessili nellaInchiesta industriale del 1870-74, Franco Angeli, Milano 1977, p. 130.

43 Citazione dagli Atti dell’inchiesta industriale, tratta da D. Bigazzi, Modelli e prati-che organizzative, cit., p. 906. «Siamo ciabattini», concludeva Bauer «dediti un giorno auna cosa e l’indomani all’altra» [cfr. S. Licini, Dall’Elvetica alla Breda. Alle origini di unagrande impresa milanese (1846-1918), in «Società e storia», 1994, n. 63, pp. 79-123, p.90]. Un inquadramento generale in M. Doria, Gli imprenditori tra vincoli strutturali enuove opportunità, in Storia d’Italia. Annali 15, cit., pp. 617-687, in particolare alle pp.634-641 e la bibliografia ivi citata.

44 Sul caso milanese, si veda T. Russo, L’istruzione tecnica a Milano 1841-1959, in«Storia in Lombardia», 2003, n. 3, pp. 31-56.

stria mineraria nei molteplici suoi rami, né potrebbero sussistere finché non sifosse spiegato nel Paese un certo movimento industriale da richiederne, ondenon correre il rischio di avere istituzioni più di lusso che di profitto, avendo pre-corso di troppo i bisogni e lo sviluppo dell’industria nazionale45.

Anche nella cantieristica la carenza di competenze tecnico-scientifi-che era forte, tanto che la mancanza di un «corpo di veri ingegneri co-struttori navali» veniva considerata la causa principale della debolezzadelle fabbriche liguri in questo settore46.

Per lungo tempo la strada più seguita dagli imprenditori italiani perprocurarsi macchinari e competenze tecniche necessarie alle produzionipiù avanzate fu dunque la loro importazione, molto spesso dalla Svizze-ra, dall’Austria e dalla Germania. Pietro Maestri, presentando nel 1867pubblicamente il Tecnomasio di Milano, ritenne dunque necessario pre-cisare che la proprietà «si è provvista di un abile operaio di Parigi»47,mentre il periodico «L’industriale», segnalando l’imminente aperturadella prima fabbrica milanese di Giovanni Battista Pirelli, fuori portaNuova, garantiva che «la bontà dei suoi prodotti [era] in ogni modo assi-curata» dalla presenza «d’un esperto Direttore tecnico, il signor Gou-lard, il quale esercì in tale industria per circa 15 anni a Parigi e ad Auber-villier, facendosi altamente apprezzare fra i confratelli d’arte e nel com-mercio». La fabbrica di Goulard, spiegava in un altro articolo la stessarivista, era stata distrutta durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871; «è quindi una persona versatissima nella fabbricazione ed assicurasotto questo rapporto un completo e brillante risultato a questa impre-sa»48. Con grande enfasi veniva reclamizzata la proprietà di una «mac-china speciale» per la produzione di cinghie in gomma prodotta a Man-chester dalla Jos. Robinson e C., oltre che il «viaggio in Inghilterra ed inFrancia» del «Gerente» Pirelli, «in seguito al quale venivano date lemaggiori ordinazioni alla suddetta Casa inglese e se ne affidava la costru-zione di un’altra parte alla Casa A. Pyat Fils di Parigi»49. In tutto il conti-

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45 V. Zopetti, «Il Politecnico», 1876, vol. 8, fasc. 4, pp. 288-306, citazione da p. 294.46 G.L.Queirolo, Della necessità delle costruzioni navali in ferro, in «L’industriale»,

1871, n. 6, pp. 65-67, citazione da p. 65.47 Citato da Bigazzi, Modelli e pratiche organizzative, cit., p. 906. Sulla storia di que-

sta impresa, si veda S. Licini, Ercole Marelli e Tecnomasio italiano dalle origini agli anniTrenta: un tentativo di comparazione, in «Annali di storia dell’impresa», 1989-1990, nn.5-6, pp. 299-322.

48 Le due citazioni sono tratte rispettivamente da An., La nuova fabbrica di articoli inCaoutchouch di G.B. Pirelli e Comp. in Milano, in «L’industriale», 1872, n. 7, pp. 95-96,citazione da p. 95, e An., La prima società italiana per la fabbricazione di oggetti in caout-chouch, in «L’industriale», 1872, n. 3, pp. 44-45, p. 44.

49 An., La nuova fabbrica di articoli in caoutchouc, cit., p. 96. Il viaggio di GiovanniBattista Pirelli fu in realtà ben più lungo e articolato, come mostrano G.B. Pirelli, Viaggio

nente, fino almeno al 1820, i produttori avevano importato, o in certi ca-si copiato, esclusivamente macchine inglesi. Ciò fino a quando le altebarriere tariffarie e altri freni alla concorrenza portarono in Francia eBelgio a uno sviluppo delle industrie meccaniche locali. Solo a metà Ot-tocento la Germania entrò in una fase di produzione meccanica autocto-na, pur nella difficoltà di reperire materiali adatti e in una situazione ge-nerale di dipendenza dall’estero50. Nell’Italia del 1846 era dunque deltutto normale che una primaria filatura di cotone, come la Amman diLegnano, ricorresse, per l’unico motore idraulico che la animava, alla«rinomata fabbrica Escher, Weiss e Comp. di Zurigo, la di cui costruzio-ne pei notabili miglioramenti introdottivi può dirsi affatto nuova nellaMonarchia»51. La caldaia tubolare Howard, che già in età postunitariaanimava ininterrottamente i grandi stabilimenti della Costanzo Cantonidi Castellanza, fu acquistata a Glasgow52. Praticamente per tutto il XIXsecolo, fino alla diffusione dell’energia elettrica per usi industriali, neicotonifici lombardi l’utilizzo di macchine estere per la produzione dienergia rimase la norma53, come anche nelle raffinerie di zucchero54, nel-le fabbriche di produzione degli olii55, nelle filature di cascami di seta56 e

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di istruzione all’estero. Diario 1870-1871, a cura di F. Polese, Marsilio, Venezia 2003, e F.Polese, «Importare da noi un po’ di spirito industriale». Il viaggio all’estero di GiovanniBattista Pirelli (1870-1871), in «Annali di storia dell’impresa», 2003, n. 14, pp. 317-334.

50 D. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nel -l’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1978 (ed. or. CambridgeMass. 1969), pp. 240-241.

51 L. De Cristoforis, Su le macchine per la fabbrica di cotoni introdotte a Legnano dal-la ditta Aman [sic] e compagni, in «Giornale dell’i.r. Istituto lombardo di scienze, lettereed arti», 1846, vol. 15, fasc. 43, p. 6.

52 An., Le caldaje a vapore, in «L’industriale», 1871, n. 1, pp. 2-3.53 R. Romano, La forza motrice nell’industria cotoniera lombarda (1859-1914), in

«Storia in Lombardia», 1991, n. 3, pp. 5-42, pp. 28-29.54 Cfr. P. Sabbatucci Severini, Il capitalismo organizzato. Il settore saccarifero in Italia

1800-1945, Marsilio, Venezia 2004, pp. 26 e ss.55 Nello stabilimento Rossi di Torino la direzione fu affidata al «signor Gronè Ma-

rius, meccanico intelligente ed il più pratico conoscitore dell’arte sua in tutta Marsiglia»:cfr. An., La fabbricazione degli olii (stabilimento Rossi a Torino), in «L’industriale», 1871,n. 9, p. 109.

56 Il grande stabilimento per la filatura dei cascami di Novara, la cui costruzione eorganizzazione fu progettata e diretta dal 1872 dalla Cantoni, Colombo, Mackenzie e C.di Milano, acquistò tutte le sue macchine da due case produttrici di Leeds, la Green -wood and Batley e la Fairbair, Kennedy and Naylor (An., Stabilimento di filatura di casca-mi di seta a Novara, in «L’industriale», 1872, n. 6, p. 82). La Società per la filatura dei ca-scami di seta costituita a Milano nello stesso 1872 con la presidenza di Carlo Sessa e la vi-cepresidenza di Eugenio Cantoni, affidò la direzione tecnica al «signor Folzer, che dires-se fino ad ora una filatura di cascami in Gorizia con felicissimo successo. E tanta è la fi-ducia che egli ha nell’esercizio di questa industria in Milano sotto la sua intelligente dire-zione, che rinunziò al lauto onorario annuo che gli si era offerto preferendo invece di ri-

nelle vetrerie, che nonostante la tradizionale maestria dei soffiatori vene-ziani videro la creazione di una maestranza altamente qualificata grazie aun flusso di personale straniero proveniente dal Belgio, dalla Germania edalla Boemia57. Anche all’interno della penisola si originarono del restoflussi di manodopera qualificata dalle zone di prima industrializzazione aquelle di più lento sviluppo manifatturiero. In Calabria, dove tra XVIII eXIX secolo era andata diffondendosi la trattura serica, si registrò peresempio una consistente acquisizione di tecnici e maestranze francesi,piemontesi, lombarde e liguri58.

I flussi di manodopera, dirigenti e tecnologia dai Paesi di prima e se-conda industrializzazione verso un late comer come l’Italia, assieme al-l’aumento della dimensione degli impianti e alla pressione esercitata dal-la concorrenza straniera, sono fenomeni che a loro volta condussero auna circolazione internazionale delle culture e delle forme della discipli-na del lavoro di fabbrica, amplificando le dinamiche regolamentativeconsiderate nelle pagine precedenti.

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servarsi per unica ricompensa una ragionevole partecipazione sui dividendi netti chespetteranno agli azionisti, previo prelevamento dell’interesse del capitale» (An., Societàper la filatura dei cascami di seta, in «L’industriale», 1872, supplemento al n. 3, pp. 1-2).

57 Marinelli, I lavoratori del vetro in Italia, cit., p. 382.58 I. Fusco, La trattura della seta in Calabria: rinnovamento tecnologico e crescita tra

Sette e Ottocento, in «Società e storia», 2005, n. 109, pp. 503-554, pp. 532-535.

Christian Lepage

La police confrontée aux mouvements sociaux en Belgiquedurant la période industrielle (1830-1914)*

La défaite de Waterloo, le 18 juin 1815, met fin au règne de NapoléonBonaparte et permet à l’ancien stadhouder de prendre en main le nouveauRoyaume-Uni des Pays-Bas créé en 1814 par le congrès de Vienne. Le roiGuillaume d’Orange-Nassau peut donc se mettre à l’ouvrage, sachant ce-pendant qu’au cours de cette bataille mémorable des Belges s’étaienttrouvés dans les deux camps. Le souverain poursuit néanmoins l’œuvreentreprise par l’empereur, en favorisant l’extension du port d’Anvers en-tamée sous le règne de ce dernier qui voulait en faire «un pistolet braquésur le cœur de l’Angleterre» et qui, maintenant débarrassé du blocus desbouches de l’Escaut, pouvait prospérer pour le plus grand bien des pro-vinces du Sud qu’il mettra aussi en valeur par la création d’industries tex-tiles, métallurgiques et charbonnières notamment.

L’essor économique en résultant ne parvint cependant pas à calmerle mécontentement d’une population essentiellement catholique quin’admet tait pas que les grandes décisions soient prises à La Haye, siègedu gouvernement royal, mais aussi capitale des provinces du Nord etdonc en majorité protestantes. Le 23 août 1830, les provinces du Sud serévoltèrent et proclamèrent l’indépendance de la Belgique, confirmée le7 février 1831 par l’adoption d’une loi fondamentale, appelée «constitu-tion», créant un royaume de Belgique doté d’une monarchie parlemen-taire; le premier roi sera Léopold de Saxe-Cobourg-Gotha, oncle de lafuture reine Victoria d’Angleterre.

Sous le régime hollandais, l’ordre public était assuré par la gardecommunale (schutterij), milice citoyenne qui en 1830 se transforma engarde bourgeoise, d’une part, et par la maréchaussée royale, elle-même

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* Pour les renseignents de caractère legislatif dans la présente contribution, cfr. E.Van Haesendonck, Textes exacts de la constitution belge, de la loi communale et de la loiprovinciale, Bruylants, Bruxelles 1957, 4ème édition.

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issue de la gendarmerie impériale, d’autre part. Il y avait aussi une poli-ce communale généralement peu structurée, sauf parfois dans les grandesvilles.

La garde bourgeoise donna rapidement lieu à la mise sur pied d’unegarde civique composée de citoyens âgés de 21 à 50 ans, ne faisant paspartie de l’armée, ayant pour mission de veiller tant au maintien de l’ordreet à l’application des lois qu’à la conservation de l’indépendance et del’intégrité du territoire. Cette milice était très populaire car tous lesgrades, sauf ceux d’officier supérieur, étaient acquis par élection au seinde la troupe.

Cette «armée du bourgmestre» relevait en temps de paix de la com-pétence du ministre de l’Intérieur qui, en temps de guerre, cédait le pasau ministre de la Guerre, du moins en ce qui concerne les unités de lagarde civique expressément désignées en vertu d’une loi de mobilisation.En réalité, faute de cadres adéquats et d’équipement approprié, la gardefut pratiquement inopérante jusqu’en 1834.

Au déclenchement de la révolution de 1830, la maréchaussée royaledes Pays-Bas comptait dans les provinces du Sud 1.500 hommes, belgespour la plupart, répartis en 197 brigades. À l’exception de 14 officiers etde 188 «maréchaussées» hollandais, tous restèrent en place pour fonderla nouvelle gendarmerie nationale créée dès le 6 octobre 1830. Cettecontinuation dans le changement s’explique sans doute par le statut etles missions propres à cette force de police militaire à destination civile.Cela explique aussi pourquoi la gendarmerie fonctionna jusqu’en 1957sur base de la loi française du 28 germinal an VI et du règlement hollan-dais du 30 janvier 1815, alors que l’article 120 de la constitution belgeprévoyait déjà que le gendarmerie devait faire l’objet d’une loi.

La loi du 30 mars 1836 dispose, quant à elle, que chaque communedoit disposer d’un policier au moins, même en partage avec une autrecommune, mais il faudra attendre le 5 août 1992 avant de voir apparaîtrela loi sur la fonction de police, qui rassemblera les dispositions éparsestraitant de la police communale, qu’elle soit urbaine ou rurale.

Chargée d’épauler la police locale dans le maintien de l’ordre, la gar-de civique, composée principalement d’hommes issus de la petite bour-geoisie et de l’artisanat, était mal entraînée et mal équipée. Rarement dis-ciplinée, elle avait cependant le grand avantage d’être issue de la popula-tion locale et donc de bien connaître les désirs et réactions de celle-ci,mais elle était loin, le plus souvent, de constituer une force à valeur opé-rationnelle, même si elle comportait, à côté de l’infanterie, d’unités decavalerie et d’artillerie convenant surtout pour les défilés et parades.

Pour sa part, la gendarmerie évolue lentement, tout en veillant àaméliorer la formation de son personnel réparti dans des brigades lo-

cales de 4 ou 5 hommes généralement à cheval, couvrant très bienl’ensemble du territoire, mais elle présente aussi une faiblesse non négli-geable, à savoir la nécessité de prélever sur ce maigre effectif local desréserves en hommes et en chevaux pour constituer des escadrons ou despelotons pour le service prévôtal de l’armée ou le maintien de l’ordreloin de la brigade d’origine. Il en résultait une fatigue importante pourles cavaliers et leurs montures, de longs délais d’intervention eu égard àl’éloignement, et enfin un quasi abandon des missions de police territo-riale.

La gendarmerie n’intervient dès lors que très rarement en grandesunités pour le maintien de l’ordre, celui-ci étant assuré en premier lieupar la police communale (si elle en a les moyens) souvent assistée par lagarde civique qui est mobilisable sur place. Si cela ne suffisait pas, il étaitprocédé à la réquisition de l’armée, en commençant par les troupes de lagarnison, qui n’étaient nullement préparées à ce genre de mission néces-sitant autant de tact et de psychologie que de souplesse et de fermeté.

A partir de 1870, l’autorité responsable du maintien de l’ordre,donc le bourgmestre en premier lieu, doit faire face de plus en plus àdes manifestations de mécontentement liées à des remous sociaux trou-vant leur origine dans l’exploitation scandaleuse de la classe ouvrière,totalement négligée par les employeurs, alors que l’industrie et le com-merce sont florissants.

Le mouvement socialiste se développe de plus en plus et réclame lerecours au suffrage universel qui ne sera voté qu’en 1919 et encorepuisque le vote des femmes ne fut accepté qu’en 1947 bien qu’elles aientété déjà éligibles.

Pour faire face à ces graves manifestations de mécontentements etautres perturbations de l’ordre public, le recours à l’intervention del’armée était devenu de plus en plus fréquent, mais la violence de la ré-pression, l’usage inconsidéré aux armes à feu, le nombre des victimes enrésultant et l’ampleur de la réaction populaire préoccupèrent le gouver-nement et le parlement qui constatèrent les déficiences du système en vi-gueur, qui avait notamment fait apparaître que les autorités locales nepartageaient pas toujours les idées politiques du gouvernement nationalet s’abstenaient dès lors d’intervenir adéquatement ou le faisaient avecréticence et sans grande conviction, souvent faute de moyens ou mêmepar crainte d’une trop forte répression.

Ce n’est que le 29 juin 1899 que l’on rassembla pour la première foisà Bruxelles 2.000 gendarmes (sur un effectif national de 2.850!) pour as-sister la police locale sans recourir à l’armée. Il fallut cependant attendre1913 avant que l’on décide de constituer 3 unités mobiles de gendarme-rie composées de 190 gendarmes à cheval au total spécialement affectés

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au maintien de l’ordre sensu lato. Entretemps cependant le nombre debrigades locales était passé de 210 à 450, l’effectif total passant progres-sivement à 4.250 gendarmes à la veille de la première guerre mondiale. Ilest vrai aussi que la population belge était passée de 4.826.000 habitantsen 1860 à 7.413.000 en 1910.

La législation belge en matière d’ordre public s’inspire essentielle-ment des décrets révolutionnaires français, notamment de celui des 16-24 août 1790 sur les objets de police confiés à la vigilance et à l’autoritédes municipalités. Le pouvoir communal était donc de première impor-tance et il l’est demeuré jusqu’à présent.

Il s’agissait malgré tout d’une conception plus bourgeoise que «po-pulaire» de la vie en société, puisque pour pouvoir être élu ou voter, ilfallait être en mesure de payer un minimum d’impôts (le «cens»). Il enrésulte que les autres pouvaient être considérés comme des citoyens desecondième classe, sans voix au chapitre politique. Lorsqu’il s’agissaitd’assurer l’ordre public pour la protection de la vie et des biens des ci-toyens, cela concernait avant tout les classes aisées de la société qui netoléraient pas que la classe ouvrière les conspue ou cherche à dégraderleurs biens en hurlant des slogans vengeurs.

Les gendarmes, issus le plus souvent des milieux ruraux, avaient unebonne connaissance des griefs et souhaits de la population au sein de la-quelle ils vivaient avec leur famille. Même s’ils faisaient appliquer la loiavec autant de modération que de rigueur, ils ne réagissaient pas aveu-glément comme le faisaient souvent les militaires, préparés à faire laguerre, mais pas à faire face à une foule hostile et parfois très agressive.Pour les militaires, il s’agissait d’obéir strictement aux ordres sans se lais-ser influencer par le caractère particulier de chaque situation de troublede l’ordre public.

On peut affirmer, me semble-t-il, que la mise en œuvre de la gendar-merie et surtout de la police locale n’était pas seulement motivée par lanécessité de protéger les classes possédantes, mais aussi par le souci dubien-être général. On ne peut pas dire que policiers et gendarmes étaientles «ennemis du peuple» comme on les qualifiait chaque fois qu’ils inter-venaient, parfois vigoureusement, lors des charges à cheval, pour proté-ger les sites industriels ou certains immeubles symboles du pouvoir -alors que le droit de grève n’était pas encore reconnu, à l’époque, et quele seul moyen d’expression était la manifestation publique, souvent in-terdite par crainte de trouble de la paix publique. La situation était déli-cate à gérer, mais avec le recul du temps, et en tenant compte du contex-te de l’époque, on peut affirmer que les excès furent rares et que le re-cours à une troupe formée pour assurer le maintien ou le rétablissementde l’ordre fut une heureuse initiative.

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Benoît Mihail

La répression des troubles sociaux dans la Belgique du XIXe siècle: un aperçu de la question

Cette présentation1 se veut une analyse succincte de la manière dont,en Belgique, les historiens ont approché le problème du maintien del’ordre. Il ne s’agit donc pas de résumer les grandes étapes de celui-ci,mais bien de souligner les tendances de la recherche. Un auteur retien-dra plus particulièrement notre attention, l’historien bruxellois Luc Keu-nings, tant à cause de l’importance de ses travaux sur le maintien del’ordre au XIXe siècle que pour leurs implications méthodologiques. Enoutre, nous insisterons beaucoup sur les troubles de 1886, «année ter-rible» marquée à la fois par une violence sociale sans précédent maisaussi par l’essor du parti socialiste, créé quelques mois plus tôt.

1. Ecrire sur la répression des troubles sociaux

On peut distinguer quatre angles d’approche à la question du main-tien de l’ordre. Le premier est celui de la répression des troubles sociauxproprement dit. Industrialisée très tôt, dès le début du XIXe siècle, laBelgique a connu une histoire sociale particulièrement riche qui a retenul’attention de nombreux chercheurs. Ceux-ci n’ont pas non plus négligéd’étudier les crises qui émaillent cette histoire sociale, y compris sur leplan de la répression. Une répression souvent très dure: chaque grandegrève ou manifestation sociale a eu ses victimes. Relisons la citation bienconnue de Karl Marx:

Il n’existe qu’un seul petit pays du monde civilisé où les forces armées sontlà pour massacrer des ouvriers en grève, où toute grève est saisie avec avidité etmalignité comme prétexte pour massacrer officiellement les ouvriers. Ce petit

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1 Pour les références bibliographiques, voir l’Aperçu bibliographique à la fin de cetarticle.

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pays unique et béni, c’est la Belgique, l’État modèle du constitutionnalisme conti-nental, le confortable paradis et la chasse gardée des propriétaires fonciers, descapitalistes et des curés2.

Comme s’il s’agissait de commenter ce point de vue, la plupart deshistoriens du maintien de l’ordre se sont avant tout penchés sur les vic-times de cette répression. Bref, ils ont fait de l’histoire sociale plutôt quede l’histoire policière. Attachés à démontrer que la Belgique des années1830-1914 est caractérisée par une totale adéquation entre l’ordre poli-tique, économique et social, il leur a paru évident que les forces de l’ordrene sont pas davantage que ce que le nom indique, c’est-à-dire de simplesexécutants – or quel intérêt à consacrer trop d’attention à des exécu-tants? Au temps de la «peur du rouge», les soldats n’ont même pas ledroit de fréquenter les maisons du peuple, ces lieux de réunion du socia-lisme naissant.

Bien sûr, les preuves et les anecdotes ne manquent pas pour appuyercette thèse. A Liège, en 1886, le ministre de la Guerre inspecte ses troupesoccupées à maintenir l’ordre dans une voiture mise à disposition par unedes plus grosses sociétés métallurgiques de Belgique, les EtablissementsCockerill, dont le directeur général l’a d’ailleurs invité à dîner le soir mê-me. Lors de ces mêmes troubles de 1886, mais à Charleroi cette fois, legénéral qui commande l’armée obtient la collaboration des paysans dansla poursuite des émeutiers – le monde rural a peur pour ses biens mena-cés par la colère ouvrière. Dans le contexte de l’époque, toute attaque dumonde du travail (le patronat) est perçue comme une remise en cause dusystème en place et est durement sanctionnée par le pouvoir, qu’il soitcatholique ou libéral (conservateur). En 1886, la répression est menéepar un gouvernement catholique mais les excès – tous les morts du côtéouvriers – ne suscitent guère de critique du côté de l’opposition libérale.

Il faut préciser que cette répression s’accompagne d’une guerre del’ombre, celle des agents de la Sûreté Nationale, puis plus tard aussi desagents en civil de la gendarmerie, pour infiltrer les groupes socialistes ouanarchistes et les décrédibiliser. En décembre 1888, le Parti SocialisteRépublicain d’Alfred Dufuissaux est ainsi infiltré de manière si provoca-trice que les désordres qui en résultent finissent par un procès rocambo-lesque qui s’achève par la libération de tous les prévenus. Cette guerrede l’ombre est donc tout autant une guerre de l’information. L’illustremilitant ouvrier de Gand Edouard Anseele (dont l’action va fortementinspirer le mouvement coopératif dans le Nord de la France) laisseéchapper dans un commentaire sur la répression sanglante d’une émeute

2 K. Marx, F. Engels, La Belgique, État constitutionnel modèle, Fil du Temps, Paris-Bruxelles, 1864, p. 286.

que le roi est un assassin du peuple, et il écope de six mois de prison. Ce-ci ne l’empêchera pas de devenir ministre, beaucoup plus tard.

A la toute fin du siècle, avec la montée en puissance du Parti OuvrierBelge (auquel appartient Anseele), il deviendra plus difficile de réprimerimpunément les troubles dans la violence, tandis que, à l’inverse, les re-présentants socialistes veilleront à condamner fermement toute violencede la part des manifestants, afin de ne pas s’aliéner l’opinion modérée.L’entrée en politique des socialistes marque aussi la naissance de la prin-cipale tradition historiographique du maintien de l’ordre, celle des histo-riens de gauche. Dans l’esprit de ceux-ci, l’étude du sujet sert à démon-trer que le mouvement ouvrier est par nature réformiste et non révolu-tionnaire. L’historienne gantoise Gita Deneckere va jusqu’à affirmer queles émeutes sociales sont une conséquence directe du discours sur lesdroits de l’homme apparu à la Révolution française, et de la liberté d’ex -pres sion qui en découle. La réponse souvent violente apportée à cestroubles par le pouvoir en place n’en apparaît que plus odieuse.

Malgré les réserves que l’on peut avoir sur certains partis pris idéolo-giques, l’étude de la question sociale centrée sur les émeutiers a permisdes avancées inestimables à la recherche. Parmi tant d’autres apports, ci-tons l’insistance sur le rôle modérateur des manifestants: dans les grèvesdu XIXe siècle, la violence reste exceptionnelle et avant tout symbolique,au point qu’un militant anarchiste de l’époque parle d’un mouvementd’épiciers! Edouard Anseele, déjà cité, précise pour sa part, lors d’unmeeting à Bruxelles: «Ce que nous voulons conquérir, ce ne sont pas lesmagasins! Ce sont les Hôtels de ville et le Parlement!» Il fait allusion ausaccage des commerces pendant les manifestations. Enfin, même dans lecas extrême du château du propriétaire de verreries Baudoux, incendiépar des ouvriers en 1886, il est possible que l’origine du crime soit la ja-lousie de ses concurrents plutôt que la haine de ses travailleurs.

Cette évolution dans l’attitude des militants ouvriers – manifesterdans le calme – entraîne par effet miroir une évolution de l’attitude dupouvoir. Avant les terribles événements des années 1880, il n’y a prati-quement aucune prise de conscience de la gravité du problème. Les po-liticiens s’attachent toujours à la maxime du député libéral Lebeau, quiaffirme en 1841 que «pour le maintien de l’ordre, un curé de villagevaut mieux que cent gendarmes». Ils ne sont par conséquent pas prépa-rés pour réagir aux débordements extrêmes. En mars 1886 à Liège,l’effectif policier déployé par le bourgmestre face à une manifestationde deux ou trois milles personnes en commémoration de la Communede Paris se limite à […] quarante agents, dont la moitié en civil, la gen-darmerie (dix-huit cavaliers et huit fantassins) restant cantonnée danssa caserne. Ni les policiers, ni les organisateurs de l’événement ne sont àl’aise devant ce rapport de force, et la manifestation dégénère rapide-

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ment. Pendant ce temps, le bourgmestre écoute tranquillement un réci-tal de Franz Liszt…

Heureusement, la multiplication des incidents provoque à ce mo-ment un revirement salutaire, quoique très lent. Peu à peu, le pouvoircentral s’investit davantage dans la problématique du maintien de l’or -dre, avec pour objectifs tant de rassurer la population que de susciter lacrainte des agitateurs. On voit enfin apparaître une vraie législation so-ciale pour les plus démunis, avec la loi contre le travail des enfants en1889, puis l’instruction primaire obligatoire pour tous en 1914 seule-ment. Par ailleurs, après les drames de 1886, on rend l’atteinte au travailpunissable par la loi, et les agitateurs font l’objet d’études quasi médi-cales sur l’origine de leurs pulsions. Les pauvres de jadis, mus par ledésespoir, sont désormais considérés comme des fous dangereux.

2. Le fonctionnement du maintien de l’ordre

La question de l’évolution du maintien de l’ordre nous amène à celledes mécanismes mis en marche par le pouvoir dans la répression, et quifont également l’objet d’une attention soutenue de la part des chercheurs.

Comme le rappelle Christian Lepage dans sa communication, lecontrôle social en Belgique est partagé par différents services de police,qui dépendent de différents niveaux de pouvoir. Le bourgmestre, omni-potent quant au maintien de l’ordre sur sa commune, dirige une policecommunale et une garde civique (composée de simples citoyens désignéschaque année). L’État dispose de l’armée et en particulier de la gendar-merie qui en fait partie. Pour être complet, il faudrait encore ajouter unniveau de pouvoir, le gouverneur de province, et au moins une institu-tion, les pompiers, qui interviennent notamment à Borgerhout (Anvers)en 1893, sous le commandement d’un commissaire de police, et tuenttrois personnes.

La spécificité belge n’est pas tant dans cette diversité des services depolice (c’est alors le cas partout en Europe) que dans la complexité desliens entre ces différents niveaux de pouvoir – communal, provincial, na-tional. On comprend que cette question constitue, en soi, un deuxièmeangle d’approche particulièrement riche du maintien d’ordre. Les tra-vaux qui se situent dans cette optique visent surtout à souligner qui faitquoi, quels sont les rapports de pouvoir entre l’échelon local et le natio-nal, et enfin, à montrer l’évolution qui se dessine. Il s’agit donc moinsd’histoire policière que d’histoire institutionnelle, une discipline dont lesBelges sont très friands.

L’historien de la police peut néanmoins en retenir quelques ensei-gnements précieux. Avant la grande vague de troubles sociaux des an-

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nées 1880, l’État respecte à la lettre l’autorité des communes en matièrede maintien d’ordre. Le roi Léopold Ier lui-même insiste sur ce pointdans une lettre au ministre de la Guerre en 1861: c’est avant tout la poli-ce communale, soutenue par la garde civique, qui doit intervenir en casde désordre. Mais lorsque le climat social se détériore en 1886, on consta-te un renversement de cette optique. Au lendemain des troubles de Liè-ge exposés plus haut, l’agitation gagne le bassin de Charleroi. Le gouver-nement se réunit d’urgence et décide de rappeler vingt-deux mille sol-dats démobilisés. La région est entièrement mise sous contrôle de latroupe: routes, accès aux usines, etc. En douze heures, les troubles sontéteints. Le général en charge de la répression, Vander Smissen (un vété-ran de la campagne du Mexique), tient alors les propos inverses du roiun quart de siècle plus tôt: face au manque de rigueur des autorités ci-viles, il faut s’appuyer sur l’armée qui reste inflexible.

Pour une série de raisons qu’il serait trop long d’exposer ici, le rôlede l’armée régulière dans ce domaine va toutefois progressivements’effacer au profit de la gendarmerie (militaire elle aussi, on l’a dit). En1899, à Bruxelles, l’autorité parvient à rassembler deux milles gen-darmes, un chiffre jusque là inédit. Nonobstant les critiques de lagauche sur l’État policier, cette présence massive des forces de l’ordreparticipe d’une volonté de dissuasion plutôt que de répression. Uneautre nouveauté introduite alors est la collaboration (pas toujours faci-le) entre la gendarmerie et la police communale, à l’initiative du bourg-mestre et dans le but notamment de défendre la «zone neutre», un terri-toire comprenant le Palais Royal et le Parlement sur lequel aucune ma-nifestation n’a le droit de pénétrer.

3. L’histoire des instruments de maintien d’ordre

Le troisième angle d’approche de l’histoire des troubles sociaux, co-rollaire au précédent, concerne les forces de l’ordre elles-mêmes. Il y a, onl’a dit, un déséquilibre criant entre l’intérêt pour les manifestants et celuipour les forces de police, perçues comme le simple bras armé du pouvoiren place. Cette attitude n’est en fait que le prolongement de la situation del’époque; il suffit pour s’en rendre compte de citer la lettre admirativequ’un anarchiste écrit au coupable d’un attentat contre le bourgmestre deBruxelles: «pour nous […], ce n’étaient pas les sergots [sergents de ville,policiers] et les gendarmes qu’il fallait surtout attaquer, mais bien ceuxdont ils étaient l’instrument». Depuis quelques années, heureusement,l’étude des rouages administratifs de la répression a amené les historiens àse pencher davantage sur les corps de police. Il en est ressorti des analysessubtiles sur le fonctionnement du maintien d’ordre avant 1914.

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Prenons l’exemple de la garde civique, à laquelle les Archives com-munales de Louvain ont consacré une monographie très rigoureuse etnuancée.

À l’origine de cette curieuse institution, la garde nationale de la pé-riode révolutionnaire française, qui ne va en fait jamais vraiment être or-ganisée sur le plan national en Belgique. Elle se concrétise aux lende-mains de la révolution nationale de 1830, dans laquelle elle joue un petitrôle. Avec le temps, sa fonction militaire s’efface au profit du maintiend’ordre mais elle conserve toujours une aura de héros de l’indépendanceet surtout de contrepoids «populaire» à l’armée, cet instrument contrôlépar l’État. Bref, elle symbolise quelque peu la nation face à l’État. Cer-tains militants ouvriers sont même convaincus qu’elle est de leur côté.«Les gardes civiques sont nos frères […] Il arrivera un jour que la gardenous précédera dans la zone neutre», s’écrie Jean Volders.

En réalité, elle n’est ni assez bien organisée pour constituer uncontrepoids à quoi que ce soit, ni à l’image du peuple car elle recruteprincipalement dans la bourgeoisie. Lors de la grande grève à Charleroien 1886, la première réaction de la garde civique est d’empêcher l’accèsau centre-ville en bloquant tous les boulevards, et elle n’en bougera pas.On se croirait revenu au temps des milices médiévales. Les membres dela garde civique sont peu motivés et mal équipés, sauf ceux des corpsd’élite (artillerie, cavalerie, chasseurs-éclaireurs, etc.), qui sont d’ailleursles seuls à intervenir de façon récurrente en maintien de l’ordre.

En 1897, une grande réforme initiée par le gouvernement catholiquevise à la professionnaliser, notamment en lui imposant pour cadres supé-rieurs des officiers de l’armée de métier (catholiques bien sûr, car la gar-de civique passe pour libérale). Malgré cette évolution, elle ne changepas fondamentalement d’attitude. Faute de professionnalisme, la gardecivique de Louvain échoue à réprimer dans le calme une manifestationen 1902, et plusieurs participants y laissent la vie. L’enquête qui s’en suitva certes laver la garde de tout soupçon, mais il apparaît clair à la lueurdes rapports de l’époque que des fautes ont été commises, par manquede formation efficace.

L’exemple de la garde civique ne doit pas nous faire oublier que lesautres forces de l’ordre évoluent également, avec davantage de succès.L’armée s’efface de la scène du maintien de l’ordre, pour retrouver unrôle dissuasif. A trop la faire intervenir, elle finit par en perdre sa crédibi-lité. Dans l’esprit de ses dirigeants, le rôle de l’armée, si elle doit absolu-ment intervenir, est purement répressif; elle doit pouvoir tirer sans fairede sommation. La gendarmerie devient dès lors le principal outil demaintien de l’ordre entre les mains du pouvoir central. Elle connaît uneexpansion en effectifs et une amélioration du matériel qui se poursui-vront tout au long du XXe siècle.

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Son histoire demeure insuffisamment connue, malgré les excellentesétudes qui lui ont été consacrées. Il faut dire que les thèmes à développersont ici très vastes. Prenons le cas de l’imagerie populaire associée à lagendarmerie. Celle-ci apparaît toujours stoïque, presque inhumaine.«Ces assassins qui se promènent les mains dans le dos, la baïonnette enavant, cherchant à crever les yeux des manifestants», lit-on par exempledans un document de 1893. L’historiographie récente explique cette vi-sion effrayante par la conjonction de différents facteurs: les convictionsviscéralement antisocialistes de la plupart des gendarmes, leur absenced’enracinement local (on envoie des ruraux dans les troubles urbains), laconviction que l’État catholique les soutiendra quoi qu’il arrive – le rè-glement stipule qu’il ne faut tolérer ni insulte, ni quolibet de la part desmanifestants.

4. L’histoire matérielle des troubles

Le dernier angle d’approche que nous souhaiterions évoquer est ce-lui de la réalité concrète des opérations de maintien d’ordre. Loin d’êtreanecdotique ou simplement factuelle, l’analyse du déroulement d’unemanifestation permet d’examiner des questions fondamentales sous unautre angle. Ainsi, en regardant la question d’un point de vue cynique,on ne peut s’empêcher de noter qu’il n’y a finalement pas tellement demorts (environ quatre-vingt sur tout le siècle), et notamment du côté desforces de l’ordre, eu égard à la violence des affrontements.

Prenons l’exemple des armes utilisées par les uns et les autres. Beau-coup de comptes-rendus présentent le revolver comme l’arme de prédi-lection des émeutiers. Or après les graves troubles de Bruxelles en 1893,trois seulement sont saisis. Et de quoi parle-t-on? D’armes peu fiables etde petit calibre. La même année, les ouvriers gantois ont une tactiquecurieuse pour désarmer les gendarmes: mettre des bâtons entre lesjambes des chevaux pour faire tomber le cavalier, jeter du poivre dans lesyeux de celui-ci et laisser femmes lui griffer le visage! Il n’y a donc pas deréelle tentative d’assassinat à l’encontre des agents. A Bruxelles, les émeu-tiers adoptent une attitude similaire: ils arrachent les sabres aux poli-ciers, les brisent sur leurs genoux puis leur jettent à la face. Bref, une ma-nière explicite de défier le pouvoir.

A contrario, celui-ci possède également ses «trucs» pour limiter lesdégâts de la répression. Une directive du bourgmestre de Bruxelles de1884 nous renseigne sur le comportement attendu de la part des agentsde police: éviter de tirer le sabre tout de suite, ne pas donner de coup depointe et frapper avec le plat. Lorsque la même police communale estéquipée de pistolets, en 1902, elle reçoit des armes chargées d’abord

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d’une balle à blanc; il est bien spécifié aux agents de ne tirer qu’en casde légitime défense et de ne pas faire feu sur des gens qui fuient. De mê-me, sur les gravures de l’époque (qui ne sont bien entendu pas unesource fiable), on voit les gendarmes donner des coups de crosse, jamaisde baïonnette.

On pourrait citer d’autres thèmes peu abordés de l’histoire matériel-le des manifestations: les communications, avec le rôle croissant du télé-phone ou du télégraphe – en quoi celui-ci améliore-t-il la qualité des in-terventions policières? Ou encore la géographie du maintien d’ordre. ABruxelles, les débordements les plus graves ont lieu dans de vieux quar-tiers constitués d’une multitude de petites rues sinueuses: or celles-civont être massivement rasés dans les années 1920-1950. Ces travaux sejustifient par des opérations immobilières mais le souvenir des troublessociaux a pu jouer un rôle. Il en va de même de la répartition des com-missariats et des brigades, qui répond à des préoccupations politiquesintéressantes à creuser pour l’historien du maintien de l’ordre.

Le problème principal dans le cas de ce type d’analyse est évidem-ment la qualité des sources disponibles. La presse n’est guère fiable tan-dis que les archives reflètent avant tout le point de vue du pouvoir. La re-marque vaut pour les archives judiciaires puisque les procès dans ce do-maine s’apparentent à une justice très dure et expéditive – nombred’émeutiers sont jugés quelques jours à peine après les troubles.

Pour conclure

Pour présenter l’historiographie du maintien de l’ordre en Belgique,nous avons choisi de parcourir rapidement quatre angles d’approche; laquestion sociale, l’organisation institutionnelle de la répression, la naturedes forces de l’ordre et enfin l’histoire des manifestations elles-mêmes.Bien sûr, il y a encore d’autres manières d’aborder le sujet et surtout,tous ces thèmes sont exploités simultanément dans les meilleurs travaux.C’est le cas notamment dans l’analyse proposée par Luc Keunings destroubles de Bruxelles en 1893, et nous souhaiterions conclure en présen-tant cet exemple.

Grâce à l’étude croisée de tous les aspects du problème, l’historiendéveloppe l’idée intéressante que c’est le déploiement de force qui a attiséles troubles. En examinant la répartition géographique des forces del’ordre, il constate une surenchère dans le nombre d’agents présents et lechoix délibéré des forces de l’ordre de bloquer systématiquement leslieux jugés dangereux, comme la Maison du Peuple. Cette attitude trahitl’hostilité excessive du bourgmestre à l’encontre du socialisme, tandisque ses collègues des faubourgs choisissent une attitude plus tolérante

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qui permettra justement d’éviter les échauffourées. L’auteur insiste enoutre sur la manière dont les effectifs policiers sont utilisés. Il pointe dudoigt l’erreur consistant à faire charger la gendarmerie, pourtant peunombreuse, dans des rues très étroites d’où les gens ne peuvent s’enfuir,ce qui va occasionner de nombreux blessés. Il note également des man-quements de la part des forces de l’ordre, liés à leur manque de discipli-ne et au sentiment d’impunité que leur donne le soutien indéfectible dupouvoir. Furieux d’avoir reçu une brique sur la tête, des agents arrêtentles meneurs d’un groupe d’ouvriers qui veillaient pourtant à contenir laviolence de ceux-ci. D’autres saccagent brutalement un café dans lequels’étaient réfugiés des émeutiers.

Arrêtons ici l’exposé du travail de Luc Keunings. Il nous montrequ’une analyse approfondie d’une manifestation n’offre pas seulementune évocation plus vivante de l’histoire sociale: elle permet de relever cespetits détails significatifs qui nous en apprennent souvent davantage surle maintien de l’ordre que l’étude pointue d’un aspect du problème, telque ceux mentionnés au cours de cet article.

Aperçu bibliographique

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KALKEN VAN F., Les commotions populaires en Belgique (1834-1902), Office dePublicité, Bruxelles 1936.

KEUNINGS L., Des polices si tranquilles. Une histoire de l’appareil policier belgeau XIXe siècle, Presses Universitaires, Louvain-la-Neuve 2009.

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Enza Pelleriti

«Una specie di abbietto mestiere».Polizia sanitaria e prostituzione nella Sicilia dell’Ottocento

1. Premessa

Questo contributo intende soffermarsi su taluni aspetti delle politi-che di controllo e di polizia sul «mestiere del meretricio» in Sicilia dal-l’età borbonica all’età dell’Unificazione.

Come è noto il fenomeno della prostituzione fu studiato con una cer-ta ampiezza già nell’Ottocento dalla sociologia e dalla storiografia euro-pea1. Non può dirsi lo stesso per la storiografia italiana, fatta eccezioneper le celebri ricerche di Cesare Lombroso e della penalistica.

Sulle cause di questo scarso interesse è opportuno segnalare quan-to osserva, ancora nel secolo scorso, lo storico Antonio Cutrera nellasua Storia della prostituzione in Sicilia: «In Italia gli studiosi hanno esi-tato ed esitano a dedicare il loro interesse alla prostituzione e alla suastoria» per «un certo senso di ritegno, unito al timore di venir meno al-la compostezza del proprio “personaggio”»2. Un esempio di singolarereticenza storiografica, che vale in questo caso come fonte per la pre-sente ricerca, è rappresentato dallo scritto Della prostituzione conside-rata specialmente nei suoi rapporti colle leggi di polizia politica e sanita-ria, stampato a Firenze nel 1875, presso lo stabilimento tipografico Ci-

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1 La prima inchiesta europea sulla prostituzione fu quella di A.J.B. Parent-Duchate-let, De la prostitution dans la ville de Paris, considerée sous le rapport de l’hygiène publi-que, de la morale et de l’amministration, Bruxelles 1837, a cura di A. Corbini, Seuil, Paris1981, a cui seguirà W. Acton, Prostitution considered in its moral, social and sanitaryaspect in London and other large cities and garrison towns with proposal for the controland prevention of its attendant evils, London 1857; S. Ottolenghi, V. Rossi, Duecento cri-minali e prostitute: studiate nei laboratori di clinica psichiatrica e di antropologia criminaledi Torino, Fratelli Bocca, Torino 1897; C. Lombroso, G. Ferrero, La donna delinquente,la prostituta, la donna normale, Roux, Torino 1893.

2 Così A. Cutrera, Storia della Prostituzione in Sicilia, intr. di M. Ganci, Editori stam-patori associati, Palermo 1971, p. 7.

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velli, nel quale l’autore si guarda bene dall’indicare il proprio nome ecognome, limitandosi a una semplice V, seguita addirittura da puntinisospensivi in stampa.

In definitiva il tema della prostituzione, considerato di per sé osceno,avrebbe incrinato l’abito di scientifico e il contegno dello studioso3.

2. Rappresentazioni normative e dottrinarie della prostituzione

Nell’ipotesi di lavoro di questa ricerca si esaminano alcuni testi, siadi carattere normativo sia dottrinario, specie per quanto riguarda la vi-cenda siciliana, da cui si ricava una rappresentazione complessa e insta-bile della prostituzione. Oggetto di attenzione da parte della polizia, nonsoltanto sul versante securitario ma anche sociale, la prostituzione trovadifferenti definizioni nei saperi medici, giuridici e sociologici che oscilla-no, nelle loro stesse scelte linguistiche, fra l’immagine del «delitto», equella dell’«abbietto mestiere», fra l’idea della violazione della norma,attraverso un comportamento deviante, e quella di un «traffico osceno»del proprio corpo, inteso come l’oggetto stesso di una professione.

Gli autori italiani si appropriano di definizioni come «l’abbandonoall’impudicizia», riportandosi, in primo luogo, al dizionario dell’Acca-demia di Francia: per Ernst Lecour si trattava di «una specie di abbiet-to mestiere in cui la prostituta qualunque sia la forma sotto la quales’asconde, provoca e trae seco gli uomini […] a prezzo di danaro». An-cora per Pierre Dufour4 era un «traffico osceno del comune umano»oppure, riprendendo la formula del vocabolario di Pietro Fanfani, laprostituta è una «femmina che fa copia di suo corpo altrui per merce-de. Chi si vende»5.

La stessa Regia Commissione, incaricata nel 1885 di elaborare unnuovo regolamento sulla prostituzione, osservava che anche i giuristinon erano riusciti a dare di essa una definizione rigorosa. Infatti, restava-no incerti i confini fra «traffico osceno» del proprio corpo per spirito di

3 Relativamente alla storiografia recente, cfr. A.M. Buther, Doughters of Joy, Sistersof Misery: Prostitutes in the American West, 1865-90, University of Illinois Press, Urba-na 1985; M. Beretta, F. Mondella, M.T. Monti, La tipologizzazione della donna deviantevenire prostituta, delinquente e degenerata nella medicina ottocentesca, in Idd. (a curadi), Per una storia critica della Scienza, Cisalpino, Milano 1996, pp. 297-328; P. Becker,R.F. Wetzell (a cura di), Criminals and their scientists. The History of Criminology in In-ternational Perspective, German Historical Institute, Washington 2006.

4 Cfr. A. Veronese, Della prostituzione considerata nei suoi rapporti colle leggi di poli-zia politica e sanitaria, Firenze 1875, pp. 11-12.

5 Cfr. sul punto P. Fanfani (a cura di), Vocabolario della lingua italiana, StabilimentoTipografico di G. Civelli, successori Le Monnier, Firenze 1886. Veronese, Della prostitu-zione, cit., pp. 11-12.

lucro e libertinaggio vero e proprio o «l’abbandono di sé per libidine, oper tolleranza o per simpatia»6.

Queste rappresentazioni, così diverse fra loro, che pure rimandavanoai rispettivi saperi di riferimento – morale e diritto, medicina e sociologia –si iscrivevano, tuttavia, nel quadro più generale dell’unificazione politicadegli apparati di controllo da parte dello Stato. Esemplare, in questa di-rezione, fu il regolamento di Cavour datato 15 febbraio 1860, diviso insei sezioni e 98 articoli. Tale regolamento riproponeva sotto il profilonormativo le ambivalenze fra mestiere e reato: per esempio l’art. 57 sta-biliva le quote derivanti dal «provento del meretricio» ripartite fra il le-none e la meretrice, sancendo, dunque, un compenso legale perl’esercizio del meretricio; ma poi si faceva riferimento al reato, nel casodell’art. 47, secondo cui sussisteva la provocazione o il lenocinio da partedi coloro che tenevano «postribolo» o dei «mezzani», con la conseguen-za della punizione di tali soggetti ai sensi del codice penale7.

Un ulteriore indizio di questo complesso progetto di ortopedia so-ciale e morale8 è dato da una singolare coincidenza di rappresentazionigiuridiche da parte delle correnti penalistiche italiane. Il riferimento è al-le cosiddette scuole di diritto penale: quella classica e quella positiva, se-condo una vecchia denominazione ormai superata dalla storiografia9. Da

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6 Si riprende la citazione da J. Onnis, Il regolamento Cavour (15 Febbraio 1860): na -scita della prostituzione di Stato, in Studi in memoria di Giuliana D’Amelio, Giuffrè, Mila-no 1978, pp. 232-233.

7 Relativamente alla regolamentazione della prostituzione, dopo l’Unità, si vedano ilavori di: I. Gallico, Progetto di regolamento sulla prostituzione per le principali cittàd’Italia ed in particolare della Toscana, s.n., Firenze 1860; D. Sacchi, Progetto di un nuovoregolamento sulla prostituzione. Raccomandato a S.E. il ministro dell’interno, Tip. nazio-nale di G. Biancardi, Torino 1862; G. Pini, Le leggi sulla prostituzione: note, Rechiedei,Milano 1875; C. Dalla Bona-Roncalli, L’abrogazione delle leggi sulla prostituzione, Tip. al-la Minerva, Padova 1876; E. Fazio, L’abrogazione dei regolamenti di sorveglianza sullaprostituzione e l’igiene pubblica, Tip. fratelli Testa, Napoli 1876; V. Parenzo, La polizia deicostumi, Crescini, Padova 1877; A. Gramola, Le prostitute e la legge, Cortellazzi, Milano1880; A. Bertani, La prostituzione patentata e il regolamento sanitario. Lettera ad A. De-pretis, ministro per l’interno, Quadrio, Milano 1881; G. Coen, Uno sguardo al regolamen-to sulla prostituzione del 1860, Tip. Economica di A. Debatte, Livorno 1887; G. Pini,Della prostituzione e dei provvedimenti recentemente proposti e adottati a tutela della mo-rale de dell’igiene in Italia ed all’estero, Stab. G. Civelli, Milano 1887; M. Licciardelli Ga-latioto, La prostituzione e la legge Crispi, Tip. dell’Etna di G. D’Urso Condorelli, Catania1891; A. Scarenzio, I risultati dell’applicazione del regolamento 27 ottobre 1891 sul mere-tricio nell’interesse dell’ordine pubblico, della salute pubblica e del buon costume, 1893.

8 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993,ricostruisce l’evolversi dell’ortopedia sociale che ha portato alla nascita della prigione. Perortopedia si intende l’arte di correggere le malformazione dei corpi e quindi, nella societàfra il secolo XVI e il XIX, tutto un insieme di procedure per incasellare, controllare, misu-rare, addestrare gli individui, per renderli docili e utili allo stesso tempo; ivi, p. 186.

9 Su questo falso binomio e sulle diverse culture della penalistica ottocentesca, cfr. le

un lato si affermava l’ordine della società borghese contro la figura delladonna deviata e pericolosa, in tutte le sue possibili declinazioni: la vaga-bonda, l’indigente, la criminale, la deviata sessuale10, dall’altro lato, aquella stessa tipologia criminale si attribuivano i caratteri di una vera epropria prestazione lavorativa, seppur moralmente e socialmente sprege-vole. Come osserverà, infatti, più tardi Eugenio Florian11, sia FrancescoCarrara sia Enrico Pessina avevano criticato aspramente le interpretazio-ni correnti del concetto di prostituzione12. In realtà il «turpe mestiere»non rappresentava «un danno né un turbamento sociale, né una violazio-ne della comune coscienza morale»13. Francesco Carrara aveva sostenu-to, infatti, che se la caratteristica essenziale del delitto consiste nella le-sione di un diritto, la prostituzione non offendeva nessun diritto e nonconteneva nessuna lesione giuridica. La prostituzione costituiva, piutto-sto un vizio e una depravazione, che offendeva esclusivamente colei chela esercitava. Per poter essere oggetto di repressione penale avrebbe do-vuto ledere specificatamente il sentimento individuale del pudore e cioèil diritto della libertà individuale, oppure il «diritto di famiglia», poi infi-ne il sentimento collettivo del pudore e della decenza esteriore14.

Da questo punto di vista, non meno importante è il pensiero di Pes-sina, che distingueva i delitti, nell’espressione dell’autore, secondo trediverse specie di incontinenza:

a) l’incontinenza che si concatena alla lesione dell’integrità morale dell’indi-viduo, togliendogli la castità corporea senza il suo consentimento; b) l’inconti -nen za che si concatena ad una lesione dei rapporti giuridici della società dome-stica e che si costituisce per conseguenza un fatto criminoso contro l’ius familia-re; c) l’incontinenza che lede il diritto della società umana a non essere spettatri-

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importanti osservazioni di M. Sbriccoli, Giustizia criminale, in M. Fioravanti, Lo Statomoderno in Europa. Istituzioni e diritto, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 196.

10 A tal proposito E. Florian, La prostituzione e la legge penale, in Enciclopedia Giu-ridica Italiana, diretta da Pasquale Stanislao Mancini, Società Editrice Libraia, Milano1893-1927, p. 310, affermava che la gran parte delle prostitute si poteva annoverare frale cosiddette classi pericolose della società e i luoghi di prostituzione erano di solito fu-cina di delinquenza e ricettacoli di delinquenti; ancora Lombroso e Ferrero, La donnadelinquente, cit., pp. 571-573, sostenevano che «la prostituzione non è che il lato fem-minile della criminalità. E tanto è vero che prostituzione e criminalità sono due fenome-ni analoghi o, per dir così, paralleli, che alle loro estremità si confondono, e vediamospesseggiare tra la prostituzione le forme più miti del reato, come il furto, il e il ricatto,il ferimento».

11 Cfr. Florian, La prostituzione, p. 308.12 Sul punto, cfr. L. Perroni, La legge di pubblica sicurezza, in Enciclopedia del diritto

penale italiano. Raccolta di monografie, a cura di E. Pessina, Società Editrice Libraria,Milano 1913, vol. 13, p. 477; Florian, La prostituzione, p. 308.

13 Cfr. Perroni, La legge di pubblica sicurezza, cit., p. 477.14 Cfr. Florian, La prostituzione, cit., p. 308.

ce di essa, a non essere insultata nel suo sentimento di pudore, il che si avveranegli oltraggi al pubblico costume15.

Pertanto le riflessioni di Carrara e di Pessina, nel segnalare la plura-lità dei significati riconducibili al generico concetto di prostituzione, fi-nivano in molti casi per escludere la repressione del fenomeno tutte levolte in cui quel «turpe mestiere» non produceva una lesione significati-va di quei diritti16.

3. Le ordinanze sulla «vigilanza del costume pubblico»

Partendo da queste considerazioni, si propongono ora alcune rifles-sioni sulle vicende siciliane, in particolar modo sulla produzione legisla-tiva e regolamentare e sulle scienze giuridiche e sociali che si sono soffer-mate su questo tema.

Anche nel caso siciliano si può rinvenire una duplice strategia disci-plinante: la repressione del meretricio da un punto di vista securitario eal tempo stesso l’immagine della prostituzione, non soltanto come reato,ma anche come fenomeno sociale.

La prostituzione, secondo il titolo VII del codice borbonico del 1819,«attaccava l’ordine delle famiglie»17. Quel codice cancellava tutto il siste-ma minuzioso e farraginoso della giurisprudenza di antico regime18, con

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15 Cfr. ivi, p. 308.16 A questo proposito Carrara scriveva: «Le autorità debbono usare ogni studio per

frenare la prostituzione; ma non sempre tale studio può estrinsecarsi la vera e propria of-fesa ad un diritto. Sono preferibili i larghi provvedimenti della polizia preventiva»; la ci-tazione si può leggere in Florian, La prostituzione, cit., p. 308.

17 Si può leggere, ora, il Titolo VII «De’ reati che attaccano l’ordine delle famiglie»del Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Parte II, Leggi penali, Real Tipografia del Mini-stero di Stato della Cancelleria Generale, Napoli 1819, in D. Novarese, Istituzioni e pro-cesso di codificazione nel Regno delle Due Sicilie. Le «leggi penali del 1819», Giuffrè, Mi-lano 2000, pp. 226-229.

18 Sul punto Antonio Gullì (medico della Direzione di Sanità marittima, medicoprimario dirigente del Sifilicomio di Palermo) – nel volume La prostituzione in Sicilianelle sue attinenze con la morale l’amministrazione e la salute pubblica, Stabilimento Ti-pografico di Francesco Lao, Palermo 1863, p. 37 – notava che in Sicilia, sin da epocheremote, più che altrove furono istituite leggi e punizioni contro le meretrici, molto ri-gorose. Come per esempio «la frusta, le ammende esorbitanti, la confisca dei beni, lacondanna in vita al remo per gli uomini nelle Galere». Fra l’altro queste erano tra lepene meno gravi che si infliggevano ai contravventori. A questo proposito si può legge-re il Bando per li vagabondi e per le Puttane Cassariote del viceré Francesco D’Aquino,principe di Caramanico del 29 maggio 1793 in Villabianca, Diario inedito 1793-1794, f.210 (Biblioteca Comunale di Palermo), ora, in Cutrera, Storia della prostituzione, cit.,pp. 195-199.

le sue innumerevoli pene corporali e misure restrittive19 e altrettante fi-gure di colpevoli, e vi sostituiva una serie di figure generali di reati.

In conseguenza di ciò, il testo del 1819 individuava, fra le figure direato in generale, quella che minacciava l’ordine morale delle famiglie20.Tutto ciò, come è noto, segnava un enorme progresso della legislazionepenale nel senso della semplificazione. Infatti, venivano dichiarati delittiesclusivamente: l’oltraggio al pudore pubblico, l’adulterio, la falsità neimatrimoni, i casi di minori, dell’uno o dell’altro sesso spinti alla corru-zione o alla prostituzione dai genitori o istitutori21.

Un’ulteriore applicazione di tale scelta normativa sarà costituita dal-le ordinanze emanate fra il 1823 e il 183922. Questo complesso di prov-vedimenti, come si riferirà tra poco, introduceva nella disciplina del fe-nomeno della prostituzione una serie di novità rilevanti. In primo luogodisponeva in materia medico-sanitaria, in secondo luogo si avvaleva ditecniche di controllo e di rilevazioni statistiche puntuali, predisponen-do meccanismi accurati di registrazione, ispezione, trattamento dellemeretrici.

L’ordinanza del 15 novembre del 1823, sulla vigilanza del costumepubblico, si iscriveva parzialmente nel solco già segnato dall’entrata invigore dei codici borbonici. Dal 1822, infatti, operava in Sicilia la Dire-zione Generale di Polizia23, alla quale venne affidata la funzione di con-trollo dell’ordine sociale, nello specifico la sorveglianza del cosiddetto

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19 Sul punto Gullì, La prostituzione in Sicilia, cit., p. 42 osservava che: «Così intro-dotto il nuovo ordine di cose giammai con fondamento nessuna accusa di atti arbitrari edillegali sorse contro le autorità di polizia».

20 In questo contesto, la Sicilia, sotto il dominio dei Borbone, si distingueva nei con-fronti degli altri Stati preunitari per una propria normativa in materia di meretricio. Peresempio nel Piemonte si rinvenivano tracce di provvedimenti di polizia nel terzo librodegli Statuti di Amedeo VIII (1430), in cui vi sono disposizioni concernenti i mendicantivalidi, gli oziosi e vagabondi (cap. 37), le concubine (cap. 40), le pubbliche meretrici(cap. 41) e i lenoni (cap. 36). Cfr. G. De Rosa, Sicurezza pubblica, in «Il digesto italiano»,XXI, p. 361; Onnis, Il regolamento Cavour, cit., p. 219.

21 Cfr. sul punto Gullì, La prostituzione in Sicilia, cit., p. 42; si veda, pure, Cutrera,Storia della prostituzione, cit., pp. 203 e 209.

22 Relativamente ai modelli che ispirarono i legislatori per la redazione delle ordi-nanze che regolavano il meretrico, Gulli (La prostituzione in Sicilia, cit., p. 52) affermavache probabilmente le basi di quelle ordinanze dovevano essere state esemplate sui rego-lamenti di altri paesi europei, ma non vi erano dei documenti comprovanti tale tesi, oltrea qualche narrazione contemporanea, a causa dei moti rivoluzionari del 1820 e 1848 cheavevano cagionato la distruzione delle carte custodite presso l’Archivio Centrale dellaPrefettura di Palermo. Sul punto si veda, pure, G. Fiume, Morale sessuale e igiene sociale:il controllo sulla prostituzione nella Sicilia degli ultimi Borboni, in «Incontri meridionali»,2, 1985, p. 33.

23 La Direzione Generale di Polizia fu istituita a Palermo con r.d. del 3 ottobre 1822;cfr. G. Landi, Istituzioni di diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie (1815-1861), Giuf-frè, Milano 1977, p. 394.

ramo meretricio, in una fase precedente oggetto di competenza o dellamagistratura o di congregazioni e pii istituti24.

L’ordinanza del 1823 poneva, dunque, decisamente sotto la giurisdi-zione della polizia il servizio di vigilanza sul meretricio, al fine di «impe-dire per quanto fosse possibile, la propagazione di un male, che attaccanel suo germe la costituzione fisica dell’uomo, e che tanti danni arrecaalle oneste famiglie»25. Si può osservare a questo punto come la perce-zione ambigua della prostituzione si riproponesse anche nel linguaggiodell’ordinanza: da un lato «delitto» e dall’altro «mestiere», la prostitu-zione esigeva una duplice strategia normativa e di intervento, nel sensodella repressione e del controllo sociale.

La storiografia ha ripreso per suo conto questa ambivalenza, pro-ducendo importanti osservazioni. Si è notato, infatti, come nella cultu-ra giuridica istituzionale del tempo si registrasse, oltre all’offesa di or-dine morale, una questione di regole socio-sanitarie. In questa prospet-tiva, l’internamento delle prostitute avveniva non tanto a causa del rea-to di esercizio del meretricio (in qualche modo tollerato), ma soprat-tutto allo scopo di prevenire il propagarsi di malattie veneree. Con rife-rimento a Palermo, Giovanna Fiume ha evidenziato che le prostitute,prima rinchiuse nel vecchio ospedale di S. Bartolomeo, insieme agli in-curabili, poi in uno stanzone dello Spedale Grande, venivano quindi ri-coverate «nell’ospedale meretricio». Questo, però, ancora stentava aconnotarsi come luogo di cura e si presenterà a lungo come luogo dipena, tanto da poter essere iscritto all’interno del processo di specializ-zazione dello spazio carcerario, di cui facevano parte il carcere delledonne, le case di correzione, la Real Casa dei Matti, gli alberghi dellepovere26.

4. Il profilo sanitario: i «chirurghi ordinari di polizia»

Un’altra considerazione, messa in luce dalla Fiume, riguarda il sa-pere medico, che diveniva parte integrante dell’intervento pubblico,attraverso la figura del «chirurgo visitatore», il quale operava accantoall’ispettore di polizia. Attraverso questi due funzionari, ancora una

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24 Secondo quanto afferma Fiume, Morale sessuale e igiene sociale, cit., p. 41. Nellaprecedente giurisdizione, il magistrato poteva infliggere, oltre le pene corporali alla me-retrice, anche drastiche misure per l’uomo che fosse stato trovato in sua compagnia. Lepene comminate potevano andare dall’esilio dalla città, alla pena della frusta con venti«azzottate» e tre anni di carcere, se la donna fosse stata travestita

25 Si sofferma su questo testo, con importanti osservazioni, Cutrera, Storia della pro-stituzione, cit., pp. 203-204.

26 Vedi Fiume, Morale sessuale e igiene sociale, cit., p. 34.

volta si realizzava un’azione di polizia preventiva27, ma anche una poli-zia sanitaria28.

In questo senso, nel titolo I dell’ordinanza del 15 novembre 1823, siaffidava agli ispettori di polizia una doppia funzione: quella di vigilare laprostituzione, con l’ordine di «segnare sul ruolo delle meretrici i nomi diquelle donne che si prostituivano pubblicamente»29, e quella di sorve-gliare la decenza e la condotta, per non disturbare le case vicine o nonprovocare disordini sia di notte che di giorno. A questo titolo faceva dacorollario il settimo, che vietava alle meretrici di «abitare case terrene,con ingressi sulle pubbliche vie, e di tenere rivendite di tabacchi, liquorie generi simili»30.

La polizia aveva pure la facoltà di concentrare le meretrici in alcunezone della città, per evitare indesiderati contatti, e in caso di reclami deivicini poteva sfrattare le prostitute nell’interesse esclusivo della moralità.Il trasferimento di domicilio nello stesso quartiere era soggetto all’auto-rizzazione da parte delle forze dell’ordine, ai sensi del titolo III. Per il tra-sferimento in un altro quartiere era necessario presentarsi personalmenteall’ispettore di polizia del nuovo quartiere, che segnava nel suo registro ilnome della prostituta e le attribuiva un numero progressivo. Se poi la me-retrice intendeva trasferirsi in un’altra città era obbligata a sottoporsi auna visita sanitaria straordinaria. Interessante, come osservava il Gullìmedico a Palermo, era la norma relativa alla «difesa» delle meretrici dagliinsulti e dalle offese dei cosiddetti «perturbatori», che veniva affidata alleautorità di pubblica sicurezza31. Questa soluzione normativa finiva per es-sere, in qualche modo, paradossale, in quanto nel passato anche i massimivertici della burocrazia borbonica si erano resi responsabili di atti di vio-lenza e di corruzione. Sintomatico è l’episodio verificatosi nel 1850, di cui

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27 Il controllo era rivolto verso i postriboli, intorno ai quali gravitava un mondo dipiccola criminalità, ladruncoli, giocatori d’azzardo, contrabbandieri, asportatori di armivietate, latitanti. Le risse erano l’occasione più frequente di intervento delle forzed’ordine e di lamentale da parte delle famiglie per bene della zona. Cfr. Fiume, Moralesessuale e igiene sociale, cit., p. 19.

28 La polizia sembrava finalmente risolvere il secolare problema della distinzionedelle prostitute dalle donne oneste, che sino ad allora si era rivelato insolubile. Nel Cin-quecento si era inutilmente proibito alle meretrici di portare il «manto in testa», nel Sei-cento di andare in carrozza o camminare accompagnate, prerogativa delle signore dab-bene, o di sedere in chiesa o adornarsi con oro e argento. Nell’Ottocento si era ipotizzatala loro segregazione in alcuni quartieri per circoscrivere il fenomeno, previa la loro iden-tificazione, comune alle società europee del tempo, che passava attraverso il sapere medi-co che legittimava l’operazione di polizia. Sul punto si veda Cutrera, Storia della prostitu-zione, cit., pp. 77 e 141.

29 Cfr. Gullì, La prostituzione in Sicilia, cit., p. 43.30 Cfr. ivi, p. 45.31 Ibidem.

riferisce Giovanna Fiume (quindi dopo l’entrata in vigore del nuovo re-golamento), quando il capo della polizia veniva accusato di tenere un po-stribolo in via dello Scavuzzo alla Fieravecchia, in Palermo32.

Con riferimento al profilo sanitario, l’ordinanza stabiliva, al titolo III,le norme per la visita sanitaria obbligatoria e gratuita delle meretrici, chedoveva farsi presso la Direzione Generale di Polizia, da «chirurghi ordi-nari di polizia». L’identificazione pressoché totale fra il sapere medico el’autorità pubblica era evidente nell’espressione emblematica di «chirur-ghi ordinari di polizia», come sancito dalla norma contenuta nel titolo III.Queste figure di chirurghi visitatori, peraltro, modernizzavano la macchi-na sanitaria, cercando di liberarla dall’influenza ingombrante della super-stizione e dalla medicina popolare, spesso rappresentata nelle figure dellelevatrici, a cui si imputavano imperizie ed errori. A queste visite dovevaassistere un ispettore di polizia, perché nel caso in cui la meretrice fossestata trovata malata, occorreva inviarla all’ospedale. Nel caso in cui le me-retrici non si fossero presentate alle visite (tre volte al mese) venivano pu-nite (con 29 giorni di carcere)33. Il regolamento poneva, quindi, nelle ma-ni della polizia un potere illimitato: in seguito al rapporto di un agente opersino di una lettera anonima, una donna, sulla base della semplice «no-torietà», poteva essere arrestata, tradotta all’Ufficio Sanitario, sottopostaall’umiliazione della visita e infine iscritta d’ufficio, cioè inserita nel «ruo-lo» delle prostitute. Gli abusi erano quindi frequentissimi.

Di contro, a mostrare la paradossale modernità di queste norme, ac-canto all’abuso dell’iscrizione d’ufficio, su semplice denuncia, le proce-dure di controllo sul corpo della donna si manifestavano sotto altre for-me. Era la stessa prostituta a poter chiedere l’iscrizione volontaria nel-l’apposito registro delle prostitute «ufficiali» o «patentate» (iscritte,dunque, nel registro della pubblica sicurezza)34.

La ratio di entrambe le misure era quella di dare visibilità alla prosti-tuzione «ufficiale» per sottrarre la donna a una sorta di prostituzioneclandestina considerata ancora più minacciosa per la morale, l’integritàdella famiglia e l’igiene sociale. Peraltro l’identificazione della prostitu-zione clandestina non era facile da effettuare, difatti le meretrici sfuggi-vano al controllo dei «rondieri» sotto il pretesto di «esercitare il mestieredi venditrici di uova, o di vino» o di altri generi commestibili, come sievince da una relazione del prefetto di polizia dell’8 febbraio del 184135.

Con riferimento alla città di Palermo, si nota che alcune di questeprovenivano dai comuni dell’entroterra o dagli altri distretti dell’isola

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32 Così Fiume, Morale sessuale e igiene sociale, cit., p. 42.33 Cfr. Gullì, La prostituzione in Sicilia, cit., pp. 64 e ss.34 Cfr. Onnis, Il regolamento Cavour, cit., p. 239; sulle «patenti di infamia», si veda

anche Fiume, Morale sessuale e igiene sociale, cit., pp. 41-47.35 Così Fiume, Morale sessuale e igiene sociale, cit., p. 43.

per visitare i parenti detenuti nelle Grandi Prigioni o nel Regio Arsenalee che, per mancanza di mezzi di sussistenza e la vicinanza di questi edifi-ci con i quartieri militari, si offrivano occasionalmente ai soldati, per poiripartire inosservate. Per questi motivi i controlli venivano estesi alle lo-cande e agli alberghi, vietando di ricevere oltre i vagabondi, i sospetti, imendicanti, anche le meretrici, sotto la minaccia di sospensione della li-cenza di esercizio e della chiusura36.

A questo proposito occorre tenere presente che esistevano lavorifemminili che per la loro natura riuscivano a nascondere l’esercizio dellaprostituzione occasionale, in particolare il mestiere della filatrice, calzet-taia, lavandaia, serva, venditrice al dettaglio. Si trattava di attività margi-nalizzate che non consentivano di raggiungere un reddito sufficiente allasopravvivenza della donna.

La prostituzione clandestina, però, era il più delle volte, per sua stes-sa natura occasionale. Le statistiche relative alle prostitute siciliane ri-portano un dato consistente. Infatti, l’esercizio si limitava a un periododai tre ai cinque anni37. Per individuare queste donne venivano mobilita-ti non solo i commissari di quartiere, ma singolarmente anche i parroci ele cosiddette «donne oneste», che così diventavano delatori e paladini diun’azione moralizzatrice.

Purtroppo però le velleità modernizzatrici della monarchia borboni-ca trovarono un limite nella corruzione dei funzionari e nella stessa rilut-tanza delle donne ad accettare vincoli e controlli. Queste, infatti, oppo-nevano per esempio una forte resistenza alle visite, oppure non chiede-vano l’iscrizione nel registro38.

Successivamente, con il regolamento del 1839, si pensò di regola-mentare in maniera meno rigorosa l’attività della prostituzione. Si stabili-va, pertanto, l’abolizione in linea di principio delle «patenti di tolleran-za», poiché ritenute contrarie al buon costume e soprattutto perché ledonne andavano «refrenate alla riserva, non mai autorizzate». In realtànon furono subito abolite poiché, alla fine, vennero considerate un mez-zo di sicurezza almeno sino a quando non si fosse completata l’iscrizionedi tutte le donne in appositi registri39.

Questo regolamento rimase in vigore sino al 1861 quando, conl’Unificazione, anche in Sicilia entrò in vigore, come gia accennato, il pri-mo regolamento sulla prostituzione di Cavour, che veniva riportato quasi

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36 Ivi, p. 43.37 Cfr. Gullì, La prostituzione in Sicilia, cit., p. 42.38 Cfr. a questo proposito Fiume, Morale sessuale e igiene sociale, cit., p. 45, eviden-

zia che l’anno successivo all’applicazione di queste norme l’arcivescovo di Palermo Pi-gnatelli lamentava come le donne non avessero accettato i confini imposti e avessero rag-giunto le strade al di fuori dei quartieri a loro assegnati.

39 Cfr. ivi, p. 41.

immutato nel primo testo unico di pubblica sicurezza del Regno, appro-vato con legge 20 marzo 1865. Il regolamento di Cavour seguiva il model-lo emanato da Napoleone nel 1802. Prevedeva quindi la registrazione del-le prostitute da parte della polizia, l’istituzione di case di tolleranza («mai-sons de tollerance»), visite mediche obbligatorie e periodiche, severe san-zioni per le prostitute inadempienti e per le clandestine; inaugurava prati-camente il sistema della moderna regolamentazione del meretricio40.

Rispetto alle ordinanze vigenti nella Sicilia borbonica, il nuovo rego-lamento prevedeva, in primo luogo, l’istituzione di «medici visitatori»che operavano sul territorio al posto degli antichi medici della polizia,praticando una vigilanza efficacissima; in secondo luogo introduceva al-cune tasse sull’esercizio del meretricio. Di contro prevedeva, a favoredella prostituta, delle quote derivanti dai proventi del meretricio, da di-videre con coloro che tenevano il postribolo. In questa mescolanza divecchio e di nuovo, le meretrici venivano subito gravate dal peso dellenuove imposte, ma non beneficiarono altrettanto celermente delle dispo-sizioni loro favorevoli previste dal nuovo regolamento.

Alcuni aspetti peculiari del regolamento suscitarono, però, in tutto ilRegno d’Italia, aspre critiche che ne contestarono la stessa legalità, sotto-lineando che alcune libertà individuali, i diritti civili delle donne e le nor-me stesse del codice penale erano state annullate in base a un semplicedecreto, emanato dal governo, in virtù di poteri speciali e non da unalegge del Parlamento.

Le critiche si riferivano in particolare modo ad alcuni articoli. Peresempio all’art. 59 del regolamento che prevedeva la frequentazione deipostriboli ai minorenni. La contraddizione era, però, rappresentata dalladisposizione che proibiva l’ammissione solo alle donne di età inferiore ai16 anni e ciò in aperta violazione della legge civile e penale, che stabilivala maggiore età a 21 anni41. Ancora i postriboli erano addirittura divisi intre classi a seconda delle diverse tariffe che dovevano pagarsi per acce-dervi (artt. 40-41). Esisteva, persino, un sistema di incentivi e di premiper spronare la prostituta a un più solerte esercizio del meretricio. L’art.39 prevedeva, per esempio, un premio in denaro alla meretrice che, do-po sei mesi dalla sua iscrizione, avesse presentato all’ufficio preposto uncertificato comprovante il deposito di una somma alla Cassa di risparmio.Infine era prevista una tassa sulle case di tolleranza42. Lo Stato quindi ge-

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40 Cfr. Onnis, Il regolamento Cavour, cit., p. 220.41 Così una ragazza non poteva sposarsi senza il consenso dei genitori, al di sotto dei

21 anni, ma poteva diventare prostituta, contro o senza il loro consenso, a solo 16 anni.Sul punto cfr. ivi, p. 241.

42 Così ivi, p. 249: «I tenenti postribolo venivano chiamati a contribuire alle esi-genze dell’Erario mediante il versamento non solo dalla tassa per la visita medica biset-timanale alle prostitute (come dispongono l’art. 61 del reg. e l’art. 28 delle “istruzioni

stiva l’attività della prostituzione come qualsiasi altro mestiere. La dispo-sizione dunque, rientrava perfettamente nella logica di un sistema, in for-za del quale il postribolo veniva concepito come impresa economica43.

Gli attacchi più feroci al regolamento di Cavour arrivarono dai co-siddetti abolizionisti, fra cui Agostino Bertani44, Ernesto Nathan45, Aure-lio Saffi46. Questi respingevano alacremente la prostituzione regolamen-tata, affermando che si trattava di «un errore igienico, una ingiustizia so-ciale, una mostruosità morale ed un crimine giuridico». Gli abolizionistirigettavano tutte le leggi e i regolamenti che regolavano il meretricio die-tro il pretesto dell’ordine morale. È sorprendente che questa «correntedi pensiero», prevalentemente maschile, affermasse che la regolamenta-zione del meretricio addossava soltanto alla donna le conseguenze di unatto compiuto in comune con l’uomo, che evidenziava, quindi, una diffe-rente moralità fra i due sessi47. A tal proposito Bertani era contrario allaregistrazione delle prostitute poiché affermava che: «Colla iscrizione ladonna è privata della garanzia del diritto comune. Quell’atto decisivoche le fa accettare l’infamia la colloca sotto un regime d’eccezione […]essa più non si appartiene»48.

Nonostante, però, le forti opposizioni e le aspre critiche, il regola-mento del 1860 rimaneva pressoché immutato per circa trent’anni fino al1888, quando due nuovi regolamenti emanati da Crispi avrebbero intro-dotto una profonda riforma del sistema mediante la separazione degliaspetti di polizia da quelli sanitari49. In particolare, il regolamento crispi-no si ispirava al criterio che il compito dello Stato fosse quello di occu-parsi non della «prostituta quale prostituta, ma soltanto della prostitu-zione, quando essa si eserciti in condizioni tali da offendere pubblica-mente il buon costume e compromettere la sicurezza e la salute pubbli-ca». Pertanto aboliva l’obbligo dell’iscrizione, eliminando così la figura

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provvisorie”), di un’ulteriore tassa annuale che variava secondo la classe dia appartenen-za del postribolo».

43 Cfr. ivi, p. 244.44 Agostino Bertani (Milano, 19 ottobre 1812-Roma, 10 aprile 1886), patriota, politi-

co italiano, medico chirurgo, fondò nel 1842 la «Gazzetta medica lombarda».45 Ernesto Nathan (Londra, 5 ottobre 1845-Roma, 9 aprile 1921), politico italiano,

fratello di Giuseppe (fondatore della sezione italiana della Federazione abolizionista),fu un instancabile abolizionista della prostituzione regolamentata, le cui aberrazionidenunciò in un libro: Le diobolarie e lo Stato. Quadro di costumi regolamentari, Forza-ni, Roma 1887.

46 Aurelio Saffi (Forlì, 13 ottobre 1819-Forlì, 10 aprile 1890), patriota e politicoitaliano, con la moglie Giorgina Craufurd, lottò per l’abolizione della prostituzione re-golamentata.

47 Onnis, Il regolamento Cavour, cit., p. 228.48 Ivi, p. 231.49 Ivi, pp. 227-228.

della «meretrice di Stato». Di conseguenza cambiarono i contorni dellafigura della pubblica meretrice, che dovevano essere desunti non più dacertificazioni governative, ma tramite canali diversi, quali il «prudenteapprezzamento» del giudice, il richiamo a regolamenti profondamentemodificati rispetto a quello del 1860, i mutamenti del costume, l’atteg -gia mento della pubblica opinione.

Continuavano pertanto le fatiche interpretative della giurispruden-za nella costante difficoltà di tracciare linee di demarcazione inequivo-cabili fra la morale e il diritto, nonché l’ordine legale e i comportamentidevianti.

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Irene Stolzi

Costruire l’armonia: scienza giuridica e polizia del lavoro

nella progettazione corporativa fascista1

1. Lavoro e ordinamento corporativo: considerazioni introduttive

Che il tema del lavoro abbia rappresentato, lungo l’intero Novecen-to, uno snodo nevralgico (anche) per la riflessione giuridica, è osserva-zione sulla quale non serve soffermarsi2. Lavoro e conflitto, lavoro e di-ritti, lavoro e organizzazioni collettive son tutti concetti che, variamentetematizzati o esorcizzati, percorrono l’agenda del giurista. Non fa ecce-zione il Ventennio fascista: perché la scienza del diritto continua a riflet-tere sui problemi legati all’universo giuslavoristico; e perché il regime fasentire la sua voce su più fronti: sul fronte delle pratiche (assistenziali,repressive, di propaganda), ma anche su quello, in apparenza meno com -promettente, della produzione di nuove norme attraverso interventimolteplici – pubblico impiego, previdenza, disciplina dei rapporti collet-tivi di lavoro, ecc. –, interventi che la storiografia ha variamente interpre-tato, ma che in ogni caso testimoniano la centralità del problema lavoro.Di questa vicenda, assai vasta, si vorrebbe qui isolare un segmento speci-

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1 Questo saggio riprende e sviluppa – con le modifiche rese necessarie dal tema delconvegno e dall’esigenza di dare alle pagine che seguono veste autonoma – parte del con-tenuto dei primi due capitoli del mio L’ordine corporativo - poteri organizzati e organizza-zione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Giuffrè, Milano 2007. I fre-quenti riferimenti a questo testo rispondono dunque all’unica esigenza di segnalare al let-tore le origini di un percorso interpretativo più ampio, avente complessivamente a ogget-to il problema della riorganizzazione corporativa della dinamica giuridico-politica.

2 A titolo di mero esempio, vedi due recentissime pubblicazioni collettanee che, purconcentrandosi sull’ultimo sessantennio di storia repubblicana, prendono in considera-zione anche le precedenti stagioni della riflessione giuslavoristica; le pubblicazioni cui sifa riferimento sono P. Ichino (a cura di), Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Giuf-frè, Milano 2008, e G.G. Balandi, G. Cazzetta (a cura di), Diritti e lavoro nell’Italia re-pubblicana, Giuffrè, Milano 2009.

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fico. In particolare, come risulta dal titolo del saggio, si vorrebbe esami-nare il ruolo giocato dal riferimento a un’organizzazione corporativa dellerelazioni del lavoro nella costruzione del nuovo immaginario totalitario.

Con due precisazioni iniziali. La prima: quelli che la scienza del dirit-to indirizzò alla proposta corporativa non furono soltanto sguardi scetti-ci o motivati dal bisogno di tributare un omaggio formale alle promesserivoluzioni del regime; al contrario, il discorso sul corporativismo riuscìa rappresentare, per parte della scienza giuridica, un varco rilevante peravvicinare la complessità di un panorama, come il postbellico, che sem-brava aver messo in crisi le grandi partizioni ereditate dall’Ottocento – ilprivato e il pubblico, il politico, il giuridico e l’economico – ponendo sultappeto il problema del loro ormai indispensabile legame.

In special modo, la visuale corporativa sollevava il problema dellacittadinanza giuridica da riconoscere ai cosiddetti enti intermedi, a que-gli enti, cioè, prodotti dalla nuova società di massa e che rendevano irri-mediabilmente anacronistica l’idea di una convivenza incardinata sullanitida distinzione tra società e Stato, tra il diritto privato, immaginato fi-no ad allora come zona del libero e paritario scambio intersoggettivo, e ildiritto pubblico, immaginato specularmente come orizzonte abitato solodallo Stato, da un potere capace di ricavare da se stesso, fuori da ogni fa-stidiosa contaminazione col sociale, il tratti della propria sovranità.

Ma il confronto con questa nuova società delle organizzazioni, conquesta società dei partiti, dei sindacati, delle concentrazioni economiche,mentre corrodeva l’identità tra il privato-contrattuale e il pubblico-auto-ritativo, imponeva anche di affrontare il problema, ugualmente nuovo,della costruzione dell’ordine. La scoperta della società di massa comerealtà non solo organizzata ma anche conflittuale, vanificando ogni rife-rimento allo spontaneo e armonico disporsi delle pedine socio-politiche,rendeva infatti impossibile vedere nell’ordine lo scontato e indiscutibiletermine a quo di ogni discorso sul diritto. L’ordine, al contrario, diventa-va pensabile solo come il risultato di un progetto consapevolmente scel-to e perseguito, di un progetto chiamato a definire la relazione tra tutti ilati di una convivenza riportandoli a una ispirazione unitaria.

E se vi fu chi utilizzò la carta corporativa per tratteggiare un sistemadelle relazioni tra Stato e società, tra politica ed economia, capace di te-nere insieme sovranità e partecipazione, libertà e responsabilità degli in-dividui e delle formazioni sociali, se vi fu, insomma, chi tentò una decli-nazione teorica del corporativismo attenta a preservare il valore della au-tonomia dell’universo privato-sociale3, vi fu anche chi, coerentementecon l’idea di una ristrutturazione in senso totalitario del potere dello Sta-

3 Per l’indagine su questo lato della riflessione corporativa, rinvio a Stolzi, L’ordinecorporativo, cit., pp. 301 e ss.

to, si servì della leva corporativa per realizzare l’opposta aspirazione auna integrale pubblicizzazione della dinamica giuridica.

Si ritiene infatti – ecco la seconda precisazione – che i riferimenti alcorporativismo abbiano costituito un veicolo espressivo perfettamentecalzante alle mire di quei giuristi impegnati a mettere a fuoco i tratti delnuovo Stato totale. Se infatti «il lessico totalitario – a osservarlo è PietroCosta – non si esaurisce nella contemplazione dello Stato […] ma impli-ca una “messa in rapporto” dello Stato con un altro da sé: con uno spa-zio sociale che, variamente tematizzato e denominato, non può venirerappresentato come “esterno” e indifferente allo Stato, ma deve esseredescritto nei mille legami istituzionali e simbolici che lo stringono ad es-so»4, il corporativismo, che nasceva essenzialmente come progetto di re-lazione tra individuale, sociale e pubblico, ben poteva prestarsi a letturedi segno totalitario.

Fu, (anche) quello totalitario, un fronte teorico composito, assai arti-colato al proprio interno; del resto, la mancanza di una direttiva ufficialedi regime, unita, almeno a partire dagli anni Trenta, a una certa stanchez-za realizzativa, concorsero a definire uno spazio di discussione teoricarelativamente sgombro da ipoteche, aperto a interpretazioni diverse econtrastanti. Molte delle quali – è bene precisarlo – furono di notevolespessore teorico, provenienti da giuristi che non identificarono la pro-pria missione storica nella celebrazione acritica della rivoluzione fascista,ma che decisero di lavorare all’interno del regime tentando di promuo-vere altrettante interpretazioni del fascismo, della sua novità storico-ideologica. All’esame, sia pur rapido, di alcune di queste concezioni, conriferimento al problema specifico della progettazione di un ordine nonconflittuale delle relazioni del lavoro, sono appunto destinate le pagineche seguono. In particolare, si tenterà di mettere in luce il ruolo svoltodai richiami alla cosiddetta città dei produttori, a quella città, armonica ecollaborante, che il corporativismo dichiarava di voler realizzare, a quel-la città che, oltre le vecchie logiche classiste, sarebbe finalmente riuscitaa collocare il discrimine tra cittadini «attivi» e «passivi» sulla base del di-verso apporto fornito alla produzione nazionale.

2. La costruzione statuale dello spazio sociale

Corporativismo come costruzione di un ordine armonico, dunque;senza che, beninteso, i riferimenti all’armonia servissero a evocare l’im -

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4 P. Costa, Lo «Stato totalitario»: un campo semantico nella giuspubblicistica del fasci-smo, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 28, t. I, 1999,p. 95.

ma gine di un fascismo genericamente pacificatore5. Simili riferimenti se-gnalarono piuttosto la necessità di offrire all’edificando Stato totale il so-stegno di una sofisticata strumentazione istituzionale, di una strumenta-zione chiamata, più che a regolare il conflitto sociale, a evitare – appunto«costruendo» l’armonia – l’evenienza stessa del conflitto. Ed è proprioconsiderando questo obiettivo della sterilizzazione preventiva della con-flittualità che il problema stesso della polizia del lavoro può essere ade-guatamente affrontato, dal momento che l’armonia doveva rappresenta-re l’esito e a un tempo la riprova del funzionamento di un più complessopiano di riorganizzazione del potere, di un piano che poteva dirsi riusci-to solo se capace di modificare dall’interno le regole dell’ordine. Anzi-tutto trasformando le minacce in risorse ordinanti: se infatti all’origine delnaufragio dello Stato liberale stava una insufficiente considerazione delmomento sociale e della fisionomia antagonista assunta dalla nuova so-cietà delle organizzazioni, era necessario riuscire a comporre due motiviapparentemente contraddittori: da un lato, cioè, si dovevano trovare lestrade che avrebbero permesso di stabilizzare, ovvero di rendere istitu-zionale, la rinnovata visibilità del polo sociale; ma, dall’altro lato e con-temporaneamente, doveva essere esclusa con decisione l’ipotesi di unalegittimazione (anche) dal basso del potere statuale. Per un verso, dun-que, le teorizzazioni del corporativismo totalitario affondavano le pro-prie radici nell’esigenza di riconoscere nel nuovo volto organizzato dellasocietà una tappa, se non fisiologica, quanto meno inevitabile dello svi-luppo degli ordinamenti6; ma per l’altro verso, e in maniera non contrad-dittoria, era necessario scorgere nel momento sociale un coacervo disor-dinato di pulsioni che non manifestavano alcuna tensione spontanea e ir-resistibile verso lo Stato7. Se dunque la società «assunta astrattamente in

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5 Vedi, ad es., G. Bottai, Essenza giuridica della Carta del Lavoro (1928), in Id., Espe-rienza corporativa, Edizioni del diritto del lavoro, Roma 1929 (da ora in poi citata comeEsperienza corporativa I), p. 142; respinse espressamente la identificazione del corporati-vismo con un mero ufficio di conciliazione anche U. Spirito, Individuo e Stato nella con-cezione corporativa, relazione tenuta nel 1932 al secondo convegno di studi sindacali ecorporativi, p. 7 (estratto).

6 Vedi, tra i tanti esempi possibili, A. Rocco, L’insufficienza dello Stato (1916), in Id.,Scritti e discorsi politici, Giuffrè, Milano 1938, vol. I, p. 313; Id., Crisi dello Stato e sinda-cati, discorso inaugurale dell’anno accademico 1920-1921, tenuto presso l’Università diPadova il 15 novembre del 1920; Id., Programma politico nazionale (1921) e Id., La for-mazione della coscienza nazionale dal liberalismo al fascismo (1924), contributi consulta-bili in Id., Scritti e discorsi, cit., vol. II, rispettivamente alle pp. 632 e ss., 653 e ss. e 768 ess.; sempre nello stesso senso, vedi G. Bottai, La parola del Capo, in «Politica sociale», II-IV, 1930-1932, p. 344, e Id., Politica e scienza economica nella concezione corporativa,prolusione al corso di Politica corporativa tenuta presso l’Università di Pisa il 25 gennaio1930, in «Il diritto del lavoro», IV, 1930, p. 11.

7 Fu questo, non a caso, uno degli argomenti più di frequente utilizzati dalla vecchiaguardia dello statalismo liberale per risolvere il problema del rapporto tra Stato e forma-

se stessa, prima e fuori il proprio ordinamento a Stato» era «mera natu-ralità e molteplicità»8, la meta di una strutturazione armonica delle rela-zioni sociali richiedeva di effettuare interventi sul sociale orientati a rea-lizzare la integrale pubblicizzazione della vita giuridica.

Per questo, la decisiva centralità riconosciuta alla dimensione collet-tiva del diritto doveva avere certe caratteristiche e non altre: in particola-re, non bastava tenere lontano il lavoro e le strutture a esso afferenti –l’impresa e il sindacato, in primo luogo, ma anche tutti gli enti incaricatidi occupare o gratificare il lavoratore – dalla frontiera dell’autogovernoeconomico o di categoria, ma si doveva riuscire a trasformare similistrutture in altrettanti seminaria rei publicae, in altrettanti «fecondi ausi-liari dello Stato»9, capaci di coltivare un diverso protagonismo dello Sta-to medesimo. Ed è sempre per questo che era fondamentale non ricade-re nella logica abituale dell’incorporazione o dell’accentramento ammi-nistrativo, era cioè indispensabile non trasformare i nuovi enti sociali insemplici propaggini dell’apparato burocratico pubblico10; quegli enti, alcontrario, dovevano essere convertiti in altrettanti strumenti di organiz-zazione statuale dello spazio sociale, in altrettanti strumenti di colturaattiva e costante della vocazione demiurgica del nuovo potere pubblico,di un potere che adesso era chiamato a conferire un volto autentica-mente giuridico – cioè organizzato – al momento sociale, alla sua natu-rale anarchia. Del pari, non bastava attribuire al nuovo Stato un merocompito di controllo e di vigilanza sulla vita delle formazioni interme-die, sulla loro patente o latente riottosità; solo attribuendo allo Statol’onere più complesso della organizzazione e della gestione dei nuovispazi sociali si sarebbe infatti sancito il distacco del fascismo dalle pre-cedenti forme di autoritarismo, tutte orientate, anziché ad accorciare, aincrementare la distanza tra società e Stato. Consentendo la «precisa-zione realistica dei rapporti che intercorrono tra l’individuo e la sua ca-tegoria»11, gli enti collettivi rappresentavano quindi un fondamentale

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zioni sociali e per riproporre, nei termini ottocenteschi, il principio della necessaria sta-tualità del diritto; vedi a esempio, V.E. Orlando, Nota dell’autore del 1925 all’autore del1885 (1925), in Id., Diritto pubblico generale - Scritti vari (1881-1940) coordinati in siste-ma, Giuffrè, Milano 1940, p. 36.

8 A. Volpicelli, Santi Romano, in «Nuovi studi di diritto economia politica», III,1929, p. 24.

9 G. Bottai, intervento del 31 maggio 1928 al Senato del Regno, pubblicato in Id.,Esperienza corporativa I, cit., p. 398.

10 Fu, a esempio, violentissima la requisitoria portata avanti da Bottai contro il fun-zionamento della tradizionale rete burocratica; sul punto, vedi G. Bottai, discorso del 27maggio 1930 al Senato del Regno, in Id., Esperienza corporativa, Vallecchi, Firenze 1934(da ora in poi citata come Esperienza corporativa II), p. 489.

11 G. Bottai, La corporazione nella polemica scientifica, in «Il diritto del lavoro», VI,1932, p. 216; nello stesso senso vedi anche Id., Verso la fine del sindacalismo?, in F. Mal-

strumento per «decongestionare»12 le strutture dello Stato e per sosti-tuire alla pletorica dispersività degli apparati burocratici la compiutafunzionalità di una catena di comando che ora progrediva senza stacchidal vertice alla base del sistema.

In un simile quadro, lo stesso condiviso riferimento alla necessità diconferire una strutturazione gerarchica e organica alle relazioni socio-politiche non rappresentava il modo per indulgere alla retorica un po’naïf di quanti opponevano alla carica disgregante dei nuovi fenomeni so-ciali l’eterno valore di un ordine (naturale) delle diseguaglianze: non sitrattava insomma di limitarsi a invertire il punto di attacco del discorsogiuridico – la diversità invece che l’uguaglianza di natura – né di distin-guere tra zone calde e zone mansuete della dinamica sociale; a guidare ilpensiero dei costruttori dello Stato totale fu piuttosto l’idea che dal caosdel primo dopoguerra si potesse uscire soltanto investendo lo Stato delcompito di costruire una «disciplina delle differenze» capace di garanti-re il miglior funzionamento del tutto, dell’organismo13.

2.1. Il sindacalismo rocchiano

Né tali aspirazioni rimasero tutte sulla carta, nell’olimpo delle mereelaborazioni teoriche; si pensi alla legge sindacale del 1926, a una leggeche spesso, ma a torto, è stata ritenuta, insieme al suo autore AlfredoRocco, espressione dell’anima meramente autoritario-restaurativa del fa-scismo14. Il contenuto di questa norma, intitolata alla disciplina giuridica

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geri (a cura di), Giuseppe Bottai e «Critica fascista», Landi, S. Giovanni Valdarno 1980,vol. II, p. 871.

12 Id., intervento del 15 marzo 1928 alla Camera dei Deputati, in Id., Esperienza cor-porativa I, cit., p. 25; sul fondamentale ruolo del sindacato, della organizzazione chiama-ta a disegnare il «tipo futuro dell’organizzazione amministrativa statale», vedi anche Id.,intervento del 31 maggio, cit., p. 398.

13 A. Rocco, F. Carli, I principi fondamentali del nazionalismo economico, in Il nazio-nalismo economico, relazione tenuta al III Congresso dell’Associazione Nazionalista, Mi-lano 16-18 maggio 1914, Tipografia di Paolo Neri, Bologna 1914, p. 141.

14 Nel senso di vedere nella legge sindacale semplicemente il modo per ritrovare, enon per rinnovare, l’autorità dello Stato, andarono molte delle letture coeve della leggesindacale; sul punto, rinvio ancora una volta a Stolzi, L’ordine corporativo, cit., pp. 41-96;per quanto attiene alla storiografia, mi limito a richiamare l’autorevole interpretazione diRenzo De Felice, che ritenne di poter scorgere nella legge del 1926 i segni di una menta-lità che «aveva ben poco di veramente fascista» perché interessata più che altro «allacreazione di uno Stato così rigido da prevenire persino qualsiasi tentativo fascista di alte-rarne le caratteristiche conservatrici di fondo»; il riferimento è tratto da R. De Felice,Mussolini e il Fascismo, 3: L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Einaudi, Tori-no 2006 (ristampa), pp. 163-168; sostengono invece che il disegno rocchiano rappresentiil «primo progetto di Stato nuovo», E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolitti-

dei rapporti collettivi di lavoro, è noto: unicità del sindacato riconosciu-to (riconoscimento tributato ai soli sindacati fascisti); contrattazione col-lettiva con efficacia erga omnes; istituzione di un nuovo collegio giudi-cante con competenza sulle controversie collettive di lavoro; divieto, pe-nalmente perseguito, di sciopero e serrata. Il fatto è che simili disposizio-ni delineavano un contesto normativo che non si limitava a elidere glispazi della dialettica sindacale ma che più astutamente puntava ad assog-gettare la vita delle organizzazioni professionali fasciste a un controllo al-tamente discrezionale dell’autorità governativa: dal riconoscimento giu-ridico, revocabile in ogni tempo, all’approvazione degli statuti e dellenomine/elezioni (con conseguente facoltà di revoca) di segretari e presi-denti, al potere di scioglimento dei consigli direttivi, fino alla facoltàconcessa al Prefetto o al Ministro delle corporazioni di annullare atti eprovvedimenti di qualsiasi natura adottati dalle associazioni stesse e rite-nuti «contrari alle finalità essenziali degli enti»15.

La specificità del corporativismo alla Rocco non risiedeva dunque,come pure si disse, nella debellazione e nella raggiunta invisibilità di tuttii poteri in concorrenza con lo Stato, da quello del sindacato a quello del-le organizzazioni economiche16, ma nella inaugurazione di un modello dipotere in cui al «controllo sui singoli atti» delle associazioni sindacali sisostituiva «quello del controllo sugli organi attivi e sull’attività da questispiegata»17, con la conseguenza che «l’attività dell’associazione» non era«semplicemente sorvegliata, ma […] diretta dallo Stato»18. Per questo laparola chiave per capire il disegno rocchiano non era debellazione ma

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smo al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 9, e P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologiagiuridica del fascismo, Morcelliana, Brescia 1963, p. 114.

15 Ci si riferisce alle previsioni della legge 3 aprile 1926 e del suo regolamento di at-tuazione del successivo 1° luglio, contenute rispettivamente agli artt. 9 legge e 13 reg. (fa-coltà di revoca del riconoscimento giuridico ai sindacati per «gravi motivi», come recitala legge, quando «sia per ragioni di indole politica, economica o sociale [risulti] non op-portuno, secondo le specificazioni del regolamento»); artt. 4 e 9 legge (approvazione erevoca del riconoscimento e degli statuti); art. 7 legge (approvazione e revoca della nomi-na o elezione di segretari e presidenti); art. 8 legge (vigilanza del prefetto e del ministrodelle Corporazioni; facoltà di sciogliere i consigli direttivi spettante al ministro); art. 29regolamento (facoltà del prefetto e del ministro di annullare gli atti reputati contrari allefinalità delle associazioni); per una efficacissima sintesi dei diversi modi e livelli di pres-sione dell’esecutivo sulla vita sindacal-corporativa, si rinvia a G.C. Jocteau, La contratta-zione collettiva. Aspetti legislativi e istituzionali, 1926-1934, in «Annali. FondazioneGiangiacomo Feltrinelli», 20, 1979-1980, p. 165.

16 Vedi, ad esempio, A. Navarra, La corporazione, in «Il diritto del lavoro», VII,1933, pp. 453-454.

17 F. Rovelli, La legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, in Stu-di dedicati alla memoria di P.P. Zanzucchi, Società editrice Vita e pensiero, Milano 1927,p. 274.

18 Ivi, p. 275.

manovra: l’interesse dello Stato non era infatti un interesse all’immedesi-mazione, a immedesimare la propria vita con quella dei sindacati; lo Sta-to al contrario doveva riuscire a mantenere da essi una giusta distanza: ilriconoscimento giuridico, la facoltà di stipulare contratti collettivi o diadire il magistrato del lavoro, la stessa (strategica?) ambiguità di alcunedefinizioni legislative19, unite alla massiccia presenza governativa nellavita degli enti, non descrivevano infatti l’indeciso barcamenarsi tra con-cessioni all’autonomia e riaffermato bisogno di uno Stato controllore.

Esprimevano piuttosto la lucida scelta di chi aveva capito come il go-verno delle mutevoli dinamiche delle nuove società richiedesse adeguatimargini di manovra, la predisposizione di un sistema di potere a distanzavariabile che permettesse allo Stato di decidere se, quando e come inter-venire. Così davvero lo Stato restava solo, il solo arbitro della vita collet-tiva, l’abile manovratore delle pedine che gravitavano nel suo spazio; re-stava solo ma non isolato appunto perché aveva saputo predisporre i ca-nali per identificare e catalogare la società sottoposta al suo potere20.

Emblematico in tal senso è il ruolo previsto per la magistratura dellavoro, per il collegio giudicante istituito dalla legge stessa e incaricato dipronunciarsi, per la prima volta, sulle controversie collettive e non indi-viduali. A emergere non era infatti l’idea di uno Stato che rimaneva terzorispetto al sociale e che intercettava la categoria solo per coadiuvarla nel-la soluzione, pacifica e giudiziale, del conflitto già in corso. Il diritto diazione veniva concesso, per la prima volta21, a un soggetto collettivo, il

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19 È Jocteau a notare come l’ambiguità nella definizione del contratto collettivo(norma o contratto) potesse essere un elemento che consentiva spazi di manovra all’ese-cutivo soprattutto nel caso del ricorso alla magistratura del lavoro; sul punto, vedi Joc-teau, La contrattazione collettiva, cit., p. 118; osservazioni di analogo tenore si possonoleggere anche in Id., La magistratura e i conflitti di lavoro durante il fascismo. 1926-1934,Feltrinelli, Milano 1978, pp. 64 e 80.

20 E che questa nuova modalità di controllo si legasse alla centralità della dimensio-ne collettiva del diritto, può trovar conferma in un provvedimento normativo del 1928, ilquale, da un lato, mirava a incentivare la diffusione della contrattazione collettiva e, dal-l’altro, disponeva un incremento dell’intervento governativo sulla contrattazione stessa.Nelle istruzioni ai prefetti che Mussolini, allora ministro delle Corporazioni, fece seguireal decreto, si leggeva come il rischio connesso alla scarsa diffusione della contrattazionecollettiva fosse quello, esiziale, della «negazione pratica» del sistema derivante dalla «di-struzione della categoria», la quale si confermava, così, nella veste di elemento struttural-mente indispensabile alla riuscita della politica del regime; il decreto cui si fa riferimentoè il r.d. del 6 maggio 1928, n. 1251; per un’esauriente analisi di questo provvedimento, sirinvia di nuovo a Jocteau, La contrattazione, cit., p. 101.

21 Si ricorda che in Italia, nel 1926, erano operanti due giurisdizioni speciali in mate-ria di lavoro, giurisdizioni che poi furono abolite nel 1928: si trattava dei collegi deiprobiviri, istituiti nel 1893 con competenza per le controversie individuali del mondoindustriale; e delle commissioni arbitrali per l’impiego privato, istituite nel 1916 per lecause sulle provvidenze di guerra e poi, con successivi interventi normativi del 1919 e

sindacato, e per controversie attinenti l’applicazione o la formazione delregolamento collettivo di lavoro, proprio perché l’azione sempre menodeteneva le sembianze del diritto22. Di nuovo, bastava leggersi il testodella legge per capire come il sindacato fosse stato del tutto privato dellapadronanza della propria condotta, per capire come nei piani di Rocconon stesse certo l’idea di rendere i privati nuovamente privati, di renderlidi nuovo parti, attori unici di un gioco sociale che poteva ora contare sunuovi strumenti di auto-regolazione. Stava piuttosto l’aspirazione a go-vernare, proprio in grazia dell’avvenuta catalogazione corporativa del so-ciale, ogni possibilità di accesso della società a contegni di tipo dialetti-

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del 1923, rese competenti a giudicare tutti i conflitti individuali sorgenti dal rapportodi impiego privato; per un’accurata indagine al riguardo, si rinvia sempre a Id., La ma-gistratura, cit., pp. 104-105; questo invece il disposto dell’art. 13 della legge sindacaledel ’26: «Tutte le controversie relative alla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro,che concernono, sia l’applicazione dei contratti collettivi o di altre norme esistenti, siala richiesta di nuove condizioni di lavoro, sono di competenza delle corti di appellofunzionanti come magistrature del lavoro (comma primo). Prima della decisione è ob-bligatorio il tentativo di conciliazione da parte del presidente della Corte (comma se-condo). Le controversie […] si possono compromettere in arbitri […] (comma terzo);Nulla è innovato circa la competenza dei collegi dei probiviri e delle commissioni arbi-trali provinciali per l’impiego privato […] (comma quarto). L’appello contro le deci-sioni di tali collegi e Commissioni e di altri organi giurisdizionali in materia di contrattiindividuali di lavoro […] è devoluto alla Corte d’appello funzionante come magistra-tura del lavoro (comma quinto)».

22 «Con la teorica fatta propria e avanzata da Rocco del cosiddetto diritto astrattod’agire, e dello scopo processuale pubblicistico visto come esclusivo e assorbente – le pa-role sono di Paolo Ungari – già percorriamo la curva discendente della parabola […] chedeclina fatalmente verso il nazionalsocialistico Kampf wieder subjectiven Recht»; così, ap-punto, Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, cit., p. 62. Al limite, l’i -sti tuzione della magistratura del lavoro, al pari delle altre disposizioni del 1926, potevaesser ricondotta a un doppio binario di legittimazione: uno, il più immediato, era quelloche consentiva di compensare, appunto con la prevista possibilità di adire il giudice, ildivieto di sciopero e di serrata e di rendere condivisibile ai più, l’intervento normativodel 1926; ma c’era anche un altro binario, più riposto ma (di nuovo) non occultato, ri-spetto al quale l’istituzione della magistratura del lavoro si legittimava appunto con l’esi -genza di assicurare allo Stato anche la carta giudiziaria nella gestione del gioco sociale.Per una lettura che vide nella istituzione della magistratura del lavoro la mera conseguen-za del divieto di sciopero e di serrata, vedi, ad es., F. Carnellutti, Teoria del regolamentocollettivo dei rapporti di lavoro, Cedam, Padova 1928, p. 68; per la diversa concezione fat-ta propria da Rocco sul ruolo della magistratura del lavoro come strumento più articola-to di governo della conflittualità sociale, vedi A. Rocco, Il momento economico e sociale(1919), in Id., Scritti e discorsi, cit., vol. II, p. 591, e Id., La crisi dello Stato, cit., p. 643; sulrapporto specifico tra la istituzione della magistratura del lavoro e le letture che di talenovità istituzionale fornirono i giuristi, vedi anche I. Stolzi, L’inattività della magistraturadel lavoro nell’Italia fascista: il concorso di strategie istituzionali e mentalità nella edifica-zione di un assetto corporativo «riuscito», in R.M. Kiesow, D. Simon (a cura di), Vorzim-mer des Rechts, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2006, pp. 203 e ss., e Id., L’or -dine corporativo, cit., pp. 81-96.

co, da quello contrattuale a quello processuale23. Con l’istituzione dellamagistratura del lavoro che rappresentava l’importante anello di chiusu-ra di un progetto che aveva già sottratto alla categoria la possibilità diesprimere, fin dal contratto, un interesse proprio distinto da quello delloStato. Nel senso che lo Stato si attribuiva non tanto il diritto a interveni-re nel processo – secondo la logica «vecchia» del controllo, della sorve-glianza sul contegno della magistratura – quanto la valutazione sulla op-portunità di lasciare eventualmente «sfogare» lo scontro, senza interfe-renze immediate, se ciò si fosse rivelato più consono al governo degliequilibri sociali.

Non sorprende, pertanto, sapere che gran parte dei contratti colletti-vi fu discussa e stipulata direttamente in sede ministeriale; né sorprendesapere che, nella maggior parte dei casi, fu lo stesso potere esecutivo ainviare le parti di fronte alla magistratura del lavoro24. E se il nuovo giu-dice era stato pensato, rispetto alla presenza strutturale del sindacato,come una «valvola di sicurezza»25 del sistema, non per questo la sua pre-senza era meno indispensabile. Garantiva infatti all’esecutivo di assestarefino alla fine, fino all’eventuale sentenza, la direzione di manovra dellepedine sociali sottoposte alla sua vigilanza. Per questo la sua scarsa atti-vità nei fatti26 non rappresentò una smagliatura del progetto rocchiano:se infatti la magistratura del lavoro era stata pensata come una indispen-sabile valvola di sicurezza, quel progetto riuscì non perché lo Stato sitenne in disparte per il successo di una linea di pacificazione sociale (au-to)gestita, gestita tramite accordi dalle organizzazioni sindacali, ma per-ché il governo della conflittualità sociale riuscì a svolgersi in altre sedi,

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23 «Quale semplice aspetto di specie di quell’indivisibile interesse pubblico che loStato impersona – a parlare è un altro giurista di regime, Carlo Costamagna – lo interessedi categoria non può dunque determinare alcun diritto soggettivo di alcun ente che pos-sa atteggiarsi a titolare di esso. Soltanto può determinare la potestà funzionale di unapubblica istituzione che lo persegua, in quanto appunto interesse dello Stato e qualestrumento dello Stato». Per cui «occorre far capo alla nozione di una giurisdizione ogget-tiva, cioè di una giurisdizione che prescinda dall’elemento dell’interesse quale base del-l’azione. In sostanza … il titolo delle associazioni sindacali è quello stesso del P[ubblico]M[ministero] anche trattandosi di controversie collettive»; così, appunto C. Costama-gna, voce Magistratura del lavoro, in «Nuovo Digesto Italiano», vol. VIII, 1939, p. 17.

24 Vedi Jocteau, La magistratura, cit., p. 42; del resto, anche nel caso in cui l’attivitàcontrattuale si fosse svolta in sede sindacale, oltre alla strutturale dipendenza del sinda-cato dall’esecutivo, erano previsti controlli specifici proprio sul contenuto dei contratti:attraverso le formalità previste per il deposito e la pubblicazione degli stessi, si garantivainfatti una vigilanza diretta del Prefetto o del Ministero delle Corporazioni (vedi art. 10della legge).

25 Ivi, p. 56.26 «Tra il 1926 ed il 1937, solo 41 controversie collettive furono […] deferite alla

magistratura. Di queste, appena 16 furono definite con sentenza, 22 furono conciliate e 3furono abbandonate» (ivi, p. 150).

più appartate rispetto a quella giurisdizionale e più immediatamente di-pendenti dalle gerarchie dell’esecutivo.

Il funzionamento di una «rete onnipresente di istanze conciliative»,tutte lontane dalla «volontà delle parti in causa»27 e tutte, al contrarioben agganciate alle strutture dell’esecutivo, insieme a quella «tendenzaalla conciliazione a qualunque costo»28 che pure fu da qualcuno denun-ciata, fu infatti l’esito coerente di un progetto che aveva voluto sottrarreal sociale le vie del conflitto a favore di una sua gestione ex alto, capillar-mente manovrata allo Stato. E tra le sedi di conciliazione autoritaria unruolo non trascurabile svolsero, dal 1934, dal momento della loro istitu-zione, anche le corporazioni. Certo non quelle immaginate (e immagina-rie) delle tante e diverse prospettazioni teoriche del ventennio, ma quellereali, quelle che funzionarono secondo una logica che ai delusi del cor-porativismo sapeva di déja vu, ma che forse costituì l’esito coerente di unprogetto istituzionale tutt’altro che stantio. Perché se alle corporazioni sifa di regola riferimento per segnalarne l’inerzia sul fronte, normativo,della programmazione economica, esse furono al contrario assai attivenella veste di sedi di conciliazione extragiudiziale. E se la storia del fasci-smo fu anche una storia di doppioni, di confuse duplicazioni istituzio na -li29, in questo caso furono le corporazioni a rappresentare il doppionefunzionante rispetto alla magistratura del lavoro. E forse non è casualeche l’unica funzione corporativa adombrata con chiarezza nel 1926 fuproprio quella conciliativa30 e che tale funzione fosse stata poi conferma-

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27 Ivi, p. 130; le principali sedi di conciliazione furono il sindacato, nella veste assun-ta col 1926, il Ministero delle Corporazioni e i cosiddetti organi misti nei quali si cumula-va o si alternava la presenza di elementi tratti dal sindacato, dal Pnf, e dall’apparato bu-rocratico dello Stato.

28 A.O. Olivetti, La magistratura del lavoro (1929), in F. Perfetti, Il sindacalismo fasci-sta. I. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), Bonacci, Roma 1988,p. 430.

29 Si utilizza qui la suggestiva immagine cui ricorre Jocteau servendosi dei risultatidell’analisi di Cassese sulla politica economica durante il Ventennio: se infatti Cassese,nota Jocteau, ha rilevato come la gestione effettiva dell’economia non sia passata dallecorporazioni ma dalla creazione di veri e propri organi supplementari, qualcosa di simileavvenne anche per la magistratura del lavoro: «Anche in questo ambito – le parole sonoappunto di Jocteau – fu abituale la creazione di organi supplementari e supplenti, auten-tici doppioni, che spostando progressivamente il livello di composizione delle vertenzeverso istanze il più possibile estranee al libero confronto delle parti, potenziavano viep-più istituti prevalentemente politico-burocratici», tra i quali, appunto, le corporazioni;sul punto, Jocteau, La magistratura, cit., pp. 127-128.

30 «Quando […] tra associazioni di lavoratori siano stati costituiti organi centrali dicollegamento, l’azione giudiziaria non è procedibile, se non risulti che […] l’organo centra-le di collegamento, abbia tentato la risoluzione amichevole della controversia, e che il tenta-tivo non sia riuscito» (art. 17, legge); sul rilievo di questa funzione delle corporazioni, vedianche Jocteau, La magistratura, cit., p. 41, e Id., La contrattazione collettiva, cit., p. 148.

ta nel 1934 nel segno della più totale estraneità a ogni logica di autogo-verno delle categorie produttive31.

Per questo non aveva senso chiedersi se lo spiegamento delle bandie-re corporative, se la complessa impalcatura normativa del 1926, rappre-sentasse un eccesso di mezzi rispetto al fine: che «l’attività di tutela degliinteressi collettivi di categoria si svolge[sse] senza alcuna partecipazionené diretta, né indiretta degli inscritti», che essi apparissero semplici «de-stinatari»32 di scelte statuali, era infatti indubbio; ma ciò non autorizzavaa ritenere che i medesimi obiettivi perseguiti dalla legge potessero esserraggiunti con l’istituzione di nuovi uffici pubblici incaricati di fornire al-le categorie la disciplina contrattuale e di rappresentare le parti dinanzial magistrato del lavoro33. Il sindacato, e proprio quel sindacato come di-sciplinato nel 1926, non era infatti un orpello di cui il regime si fregiavaper ragioni di autopromozione interna o estera, né espresse una vocazio-ne sociale del fascismo ostentata sulla carta e poi – per le più varie ragio-ni – revocata nei fatti; al contrario, il sindacato costituiva una presenzaindispensabile della nuova struttura statuale, una «modalità di organiz-zazione […] essenziale»34 del potere dello Stato.

Né furono le parole di Rocco, del legislatore, a voler accreditarel’idea di una mera stretta autoritaria condotta sul piano delle relazionidel lavoro: quella legge aveva carattere «totalitario e organico»35, essarappresentava, sempre secondo le parole del suo autore, la «trasforma-zione più profonda, che lo Stato a[vesse] mai subito dalla rivoluzionefrancese in poi»36 proprio perché puntava a fare della disciplina sindaca-le una tappa saliente della «rinnovazione totale dell’idea dello stato»37.

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31 Il collegio di conciliazione, istituito presso ciascuna corporazione, era composto daun presidente estraneo alle parti e da due membri in rappresentanza delle stesse nominatidal presidente della corporazione. Il collegio era poi assistito da un funzionario del segre-tariato generale del consiglio nazionale delle corporazioni e da un funzionario del ministe-ro delle corporazioni. Se si considera che i presidenti delle corporazioni – ossia i titolaridel potere di nomina del collegio di conciliazione – erano nominati e revocati con decretodel ministro delle corporazioni, si conferma il carattere verticistico-burocratico dell’appa-rato corporativo realizzato; sul punto, vedi sempre Id., La magistratura, cit., pp. 41 e ss.

32 Rovelli, La legge, cit., p. 276.33 Ivi, pp. 281-282.34 V. Zincone, Sindacato e confederazione (1937), in Malgeri (a cura di), Giuseppe

Bottai e «Critica fascista», cit., vol. III, p. 1128.35 A. Rocco, Legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, discorso

alla Camera del 10 dicembre 1925, in Id., La trasformazione dello Stato. Dallo Stato libe-rale allo Stato fascista, La Voce, Roma 1927, p. 368.

36 Id., Legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro, relazione al di-segno di legge letta alla Camera dei deputati il 18 novembre 1925, in Id., La trasformazionedello Stato, cit., p. 335.

37 Id., Programma politico nazionale (1921), in Id., Scritti e discorsi, cit., vol. II, p.652; e la stessa legge sindacale – a dirlo è sempre Rocco e con la consueta chiarezza – non

2.2. L’uomo nuovo

In ogni caso, i riferimenti a una strutturazione gerarchica del campogiuridico servirono a tracciare l’orizzonte della necessaria continuità pro-gettuale tra Stato e società, tra il progetto di convivenza elaborato in sedestatuale e le tante rifrazioni sociali su cui quel progetto doveva potercontare. A distinguere le varie declinazioni teoriche del corporativismototalitario fu semmai il diverso rilievo conferito al problema della crea-zione dell’uomo nuovo38, dell’uomo anche interiormente conquistato dalpatrimonio di valori di cui il regime sarebbe dovuto diventare l’alfierestorico. Il che rendeva necessario prevedere una sinergia più complessa earticolata tra lo Stato e le nuove istituzioni corporative, sinergia chiamataa realizzare una occupazione preventiva degli spazi individuali e sociali daparte del nuovo potere dello Stato. E sia pure nella diversità spesso sen-sibile dei percorsi teorici, quella rivendicata per il fascismo da un Bottai,ma anche dagli esponenti della riflessione idealistica, fu la necessità direalizzare una «missione più sottile e discreta»39, volta a fondare un lega-me nuovo, appunto di tipo persuasivo, tra le masse e il potere.

Ora è evidente come, in simili contesti argomentativi, lo stesso pro-blema della polizia del lavoro finisse per assumere caratteristiche pecu-liari. Nel senso che la sterilizzazione della conflittualità riusciva ad assu-mere una connotazione compiutamente preventiva, rappresentando soloil portato necessario, ma non conclusivo né esclusivo, di una concezionepiù ampia dell’ordine e delle relazioni giuridiche. Col sindacato che ser-viva sempre a «rafforzare la funzione politica dello Stato»40, ma che riu-sciva in tale opera soprattutto perché, destinato come era «alla primaopera di raccolta e di disciplina delle iniziative individuali»41, doveva far-si carico di un fondamentale compito di moralizzazione del contegno in-dividuale e sociale.

E se ancora nella concezione rocchiana quello che si è chiamato unsistema di potere a distanza variabile valeva a predisporre i canali cheavrebbero consentito allo Stato di procedere – ma solo se reputato ne-cessario – alla integrale occupazione dello spazio sociale, in questo caso

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poteva spiegarsi fuori da un complesso piano di riorganizzazione del potere di cui facevanoparte integrante le leggi sulla stampa, sulle associazioni segrete, sulle prerogative del Capodel Governo; sul punto, vedi Id., La trasformazione dello Stato, cit., Introduzione, p. 30.

38 Sottolinea espressamente, per distinguere le varie elaborazioni teoriche del totali-tarismo, il diverso ruolo giocato dal problema della creazione dell’uomo fascista, Genti-le, Il mito dello Stato nuovo, cit., pp. 234-249.

39 G. Bottai, Vent’anni e un giorno (24 luglio 1943), Garzanti, Cernusco sul Naviglio1949, p. 42.

40 Id., Chiarificazione necessaria (1928), in Perfetti, Il sindacalismo fascista. I, cit.,p. 392.

41 Id., Il discorso del Ministro, cit., p. 215.

la aspirazione alla creazione dell’uomo nuovo, di un individuo ammae-strato dalla forza persuasiva delle istituzioni di regime, o portava a esclu-dere – come nella riflessione idealistica – la stessa evenienza teorica dicontegni dialettici o, al più, apriva le porte alla possibilità di creare spazi,ma rigorosamente recintati, all’interno dei quali ammettere contrasti edivergenze.

Per alimentare il fuoco corporativo e per evitare che l’unicità di partitoe sindacato autorizzasse, proprio in grazia dell’avvenuta eliminazione diogni concorrenza politico-ideologica, a ritener concluso lo sforzo creativodel regime, poteva insomma essere indispensabile non spegnere del tutto imovimenti interni alle diverse organizzazioni fasciste. Per questo battersi,come fece Bottai, contro l’amministrativizzazione dei sindacati e per laelettività delle cariche42, o chiedere che il sindacato non perdesse del tuttoil suo volto associativo43, o ancora sostenere la necessità che le corporazio-ni avessero i propri uffici44 non fu che il modo con cui si cercò di evitareche il corporativismo si condannasse a essere soltanto una replica, falli-mentare e ipertrofica, del vecchio liberalismo. Lo Stato consapevole dellapropria sostanza politica e intenzionato a rafforzarla, non poteva infatti ac-contentarsi della mera catalogazione delle energie sociali, perché il rischioin agguato era sempre lo stesso, quello di ridurre il rapporto col sociale alrapporto col nulla. Ed è per questo che l’opposizione tra vecchio e nuovo,per Bottai, era in gran parte racchiusa nella distinzione tra un sorpassato«controlliamo quindi»45 e un controllo, appunto «attivo»46 dello Stato, traun potere pubblico che si proponeva al sociale come «l’inerte gravare diun’autorità» e un potere capace invece di alimentar se stesso anche attra-verso l’invenzione strategica di spazi del dibattito e della discussione47.

Diverso fu invece il caso, lo si accennava prima, della impostazioneidealistica e della pretesa, da essa fatta propria, di veder nel corporativi-smo un processo capace di realizzare, valorizzando al massimo il ruolodegli enti intermedi, l’identità tra individuo e Stato. Di questo lato dellariflessione giuridica, che meriterebbe ben altro approfondimento, preme

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42 G. Bottai, L’ordine corporativo: principi, attuazioni, riforme, in «Il diritto del lavo-ro», XVI, 1942, p. 267.

43 Ivi, p. 258.44 Id., Le corporazioni al lavoro (1943), in Malgeri (a cura di), Giuseppe Bottai e «Cri-

tica fascista», cit., vol. III, p. 973, e Id., L’ordine corporativo, cit., p. 262.45 Id., Verso il corporativismo democratico o verso una democrazia corporativa?, in «Il

diritto del lavoro», XXVI, 1952, p. 138.46 Id., L’idea corporativa idea-forza nel mondo moderno (1928), in Id., Esperienza cor-

porativa II, cit., p. 609.47 I due profili, della assoluta derivazione statuale delle formazioni sociali e della ne-

cessità di preservare il volto «dinamico» del sindacato, sono chiaramente individuai inId., Inquadramento organico, non meccanico (1930), in Id., Esperienza corporativa II, cit.,specialmente pp. 326-334.

sottolineare solo un aspetto, che è questo: non si trattò, come pure si dis-se, di mere «divagazioni dottrinarie»48, di esercitazioni teoriche non su-scettibili, come tali, di una qualunque traduzione istituzionale. In partico-lare, i vari riferimenti allo Stato in interiore homine non rappresentaronoche una ulteriore e specifica declinazione del tema noto della ricostruzio-ne statuale dell’ordine giuridico: poiché non si trattava di ridurre il cor-porativismo a un semplice fatto di coscienza, ma di trovar la strada cheavrebbe permesso di dare autentico compimento al «carattere totalitariodella dottrina fascista»49, non c’era via migliore che rendere – sfruttando iservigi delle istituzioni di propaganda – lo stesso individuo una fibra delnuovo potere statuale, completamente impregnato dei suoi stessi valori.

E il corporativismo poteva davvero apparire il congegno capace disancire la «natura e [la] rilevanza statale di tutta la vita individuale e so-ciale»50 proprio perché, valorizzando le presenze intermedie tra l’indivi -duo e lo Stato, aveva predisposto altrettanti canali per agguantare e mo-dellare la coscienza dell’individuo. «Consolidamento organico»51 dell’in-dividuo, voleva allora dir questo: costruire un modello di potere in cui loStato fosse all’origine del processo di creazione della società, della nuovasocietà delle organizzazioni, e l’individuo rappresentasse solamente lapropaggine estrema di questa catena di progressiva specificazione dellarealtà iniziale del tutto, dello Stato. Testimoniando della raggiunta osmo-si tra interno ed esterno, tra potere e interiorità, il nuovo individuo cor-porativo diventava allora anche l’unico soggetto autenticamente liberoproprio perché la totale introiezione dell’autorità gli impediva di vivere

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48 S. Romano, Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi, Tipografiadel Senato, Roma 1932, vol. III, Discussioni, p. 97; nello stesso senso anche le accusemosse da F. Carnelutti, Intorno ai presupposti scientifici dell’ordinamento corporativo, in«Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia», XXIV, 1932, p.603, e da G. Perticone, Sguardo di insieme alla recente dottrina di diritto pubblico e sinda-cale, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XI, 1930, p. 775.

49 G. Gentile, Fascismo identità di stato e individuo (1927), in C. Casucci (a cura di),Il fascismo. Antologia di scritti critici, il Mulino, Bologna 1982, p. 267; per una ricostru-zione del pensiero gentiliano e della sua concezione dello Stato etico nel panorama teori-co infrabellico, si rinvia a P. Costa, Lo «Stato totalitario», cit., pp. 104-105; ed è sempreCosta a sostenere come la concezione gentiliana avesse offerto «al fascismo una robustaimpalcatura grazie alla quale po[teva]no coesistere, anzi comporsi a unità, due immaginidi cittadinanza tendenzialmente opposte e tuttavia entrambi essenziali per la politica delregime: l’assoluta “trascendenza” dello Stato rispetto ai singoli e insieme il necessariocoinvolgimento politico, la “mobilitazione” dei soggetti, l’organizzazione delle masse»;così Id., Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, vol. IV: L’età dei totalitarismi e dellademocrazia, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 236.

50 A. Volpicelli, I fondamenti ideali del corporativismo, in «Archivio di studi corpora-tivi», I, 1930, p. 211.

51 M. Barillari, La validità dello Stato corporativo, in «Archivio di studi corporativi»,I, 1930, p. 539.

lo Stato come altro da sé, rendendo in tal modo ozioso e superfluo lostesso problema della regolazione del conflitto sociale52.

3. L’ordine senza diritti

In ogni caso, a essere messa in liquidazione – è facile intuirlo – fu lapossibilità di concepire lo spazio privato-sociale come spazio (anche) diautonomia e di diritti. Certo, già l’Ottocento aveva sostituito l’immaginedi una privatezza originaria e intangibile con l’altra della origine statualedel diritto e degli stessi diritti individuali; ciò, tuttavia, non aveva fattovenir meno l’idea che l’orizzonte privato, anche in questa veste derivata,fosse un orizzonte imprescindibile di ogni convivenza ordinata, se nonaltro perché destinato a marcare, per differentiam, la stessa identità del-l’universo pubblico.

Non è, a esempio, casuale che Santi Romano, da cultore di dirittopubblico, abbia voluto espressamente criticare quella concezione organi-ca dell’individuo elaborata dalla riflessione idealistica, concezione che aprima vista avrebbe dovuto destar preoccupazioni soprattutto nei priva-tisti. Contestare a Volpicelli che un contratto di compravendita potesserappresentare, anziché l’incontro di due volontà autonome, l’incontrotra due individui-«organi dello Stato»53, era infatti il modo con cui Ro-mano rilanciava il senso di una tradizione disciplinare che aveva disegna-to le linee della sovranità dello Stato (anche) supponendo una certa con-cezione dell’individuo e della privatezza.

Mentre la nuova logica totalitaria tendeva a riportare ogni riferimentoai diritti e all’autonomia (individuale e sociale) al rischio di indebita preva-lenza del particolare sul generale, col diritto privato che appariva soprat-tutto come un fastidioso intralcio alla compiuta realizzazione di un model-lo di convivenza che puntava a fare degli individui altrettanti «organi atti-vi»54 del nuovo potere statuale. E se, nelle pagine precedenti, si è insistitosulla centralità attribuita agli enti intermedi dai teorici del corporativismo

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52 La libertà del «socius» era una «libertà superiore» proprio perché «la più intensa elibera attuazione dell’individuo, organicamente concepito, e[ra] l’attuazione massima e in-defettibile della realtà e dell’autorità dello Stato – la quale non e[ra] più limite e vincoloesterno, ma realtà e potenza intima dell’individuo che in esso e di esso vive[va]»; a parlarecosì è Volpicelli, rispettivamente in Id., Corporativismo e scienza del diritto. Risposta al Prof.Cesarini Sforza, in «Archivio di studi corporativi», III, 1932, p. 439, e in Id., I fondamentiideali, cit., p. 208. Dello stesso tenore anche le osservazioni di U. Spirito, Il corporativismocome liberalismo assoluto e socialismo assoluto (1932), leggibile in Casucci, Il fascismo. An-tologia di scritti critici, cit., pp. 142-143, e di Gentile, Fascismo, cit., p. 277.

53 Romano, Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi, vol. III, cit., p. 97.54 Vedi, tra i tanti esempi, A. Rocco, Manifesto di Politica (1918), in Id., Scritti e di-

scorsi, cit., vol. II, p. 538, e Volpicelli, I presupposti scientifici, cit., p. 117.

totalitario, è proprio perché a tali enti furono pensati come altrettanti me-dia gerarchici, come altrettanti anelli di congiunzione tra lo Stato e l’indivi -duo chiamati a garantire, attraverso la apprensione statuale dello spaziosociale, la stessa trasformazione dell’individuo in elemento «infinitesimalee transeunte»55 del nuovo ordine corporativo: il partito, chiaramente uni-co, e i tanti enti da esso dipendenti, come dimensioni chiamate a diffonde-re fin nei rivoli più riposti del sociale il nuovo credo fascista tracciando, al-lo stesso tempo, una nuova mappa delle inclusioni/esclusioni; poi – vistoche qui si parla di polizia del lavoro – il sindacato, ugualmente unico,ugualmente svuotato della sua veste conflittuale ed estromesso da ogni«controversia sul profitto»56; e infine l’impresa, che si ambiva ugualmentea trasformare in strumento di «utilità politica»57.

Con due importanti conseguenze che, in conclusione, si segnalano;prima conseguenza: in un simile quadro, gli stessi riferimenti alla città deiproduttori finirono per rappresentare una risorsa argomentativa stretta-mente strumentale rispetto alla affermazione della vocazione totalitariadel nuovo Stato. Considerare il soggetto come produttore era infatti ilmodo che permetteva di agganciare l’impraticabilità del discorso sui dirit-ti alle caratteristiche assunte dalla nuova società industriale: visto che loStato nuovo doveva «raggiungere l’individuo […], non lo cerca[va] comequell’astratto individuo politico che il vecchio liberalismo supponeva ato-mo indifferente; ma lo cerca[va] come solo p[oteva] trovarlo […] comeuna forza produttiva specializzata»58. Era una civitas, questa nuova deiproduttori, che serviva dunque a conferire indiscussa centralità alla no-zione di appartenenza: se infatti «non vi è più nulla da fare» – a dirlo fuRocco nel 1921 – «per difendere la libertà dell’individuo contro lo Sta-to»59 e se l’individuo – gli faceva eco un’altra voce totalitaria, quella di DeFrancisci – «considerato in sé è un frammento oscuro e incomprensibile»,«esso assume significato solo in quanto inserito in un gruppo. Sicché laconoscenza dell’uomo, la determinazione della sua posizione e della suafunzione […] non è possibile se non premettendo la considerazione e lavalutazione della posizione, della struttura, della funzione del tutto»60.

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55 Si tratta di una ricorrente espressione rocchiana; tra i molti esempi, vedi A. Rocco,Economia liberale economia socialista ed economia nazionale (1914), in Id., Scritti e discor-si, cit., vol. I, p. 43.

56 G. Bottai, I limiti dell’azione economica delle associazioni professionali (1927), inId., Esperienza corporativa I, cit., p. 69.

57 Ibidem.58 Gentile, Fascismo come identità, cit., p. 275.59 Rocco, Programma politico, cit., p. 648.60 P. De Francisci, Per la formazione della dottrina giuridica italiana, discorso pro-

nunciato al primo Congresso giuridico italiano, in «Rivista di diritto pubblico», XXIV,1932, p. 590.

Seconda conseguenza, strettamente legata alla prima: la logica totali-taria si presenta come costitutivamente refrattaria alla idea di una dupli-cazione dei criteri di ordine; mi spiego: l’inquadramento corporativo haper meta ultima (e dichiarata) l’individuo, ha per meta ultima, cioè, la so-stituzione della idea di autonomia e di libertà con quella, nuova, di «or-ganico sviluppo […] della personalità»61 individuale. E ciò fu vero nonsolo per le ali più «radicali» del corporativismo totalitario – Volpicelli,Spirito e, in parte, Bottai – ma anche (lo dimostrano le citazioni voluta-mente tratte dai suoi scritti) per la concezione corporativa rocchiana chespesso ottenne il plauso di quei giuristi liberali o liberal-autoritari che ri-tennero di poter rintracciare nella legge sindacale del 1926 lo strumentoidoneo a tacitare la nuova minaccia sindacale, lo strumento, cioè, capacedi incrementare, ma sul solo fronte del conflitto collettivo, il tasso di au-torità statuale, lasciando per il resto inalterato il tradizionale volto dellaprivatezza individuale.

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61 A. Rocco, Manifesto di Politica, in Id., Scritti e discorsi politici, cit., vol. II, p. 538.

Discussione

ANDREA ROMANO

Vorrei soffermarmi sull’argomento specifico di quest’anno per in-trodurre la discussione e lanciare qualche provocazione. Come sapete iltema di ogni nostro incontro nasce e si definisce proprio nell’ambitodella discussione, così come accadrà presumibilmente anche oggi per ilconvegno dell’anno prossimo. Dunque, il tema di quest’anno è la poli-zia del lavoro. Da dieci anni a questa parte abbiamo sempre usato il ter-mine polizia in senso lato, cioè, genericamente, come forma di preven-zione, attività di controllo, con o senza Stato. In questo senso poliziapuò anche essere la struttura di controllo di una qualsivoglia organizza-zione, di qualsivoglia sistema che si organizza con tale scopo. Ricordoche si è parlato in passato di polizia rurale anche a proposito dei cam-pieri, organizzazione che con la polizia di Stato ha ben poco a che vede-re, ma che comporta comunque un sistema di controllo del territorio.Quanto al secondo termine della questione, il lavoro, rilevo un proble-ma interessante. Oggigiorno abbiamo un’idea quanto mai precisa di checosa sia il lavoro: un’attività sociale che serve all’individuo per procu-rarsi le necessarie risorse per vivere. Il lavoro è considerato da tutte lesocietà un dovere, tanto che attualmente sta venendo alla ribalta, in par-ticolare in Italia, a proposito degli immigrati da altri paesi, la questionedi subordinare l’attribuzione di diritti di residenza al possesso di un la-voro: chi non lavora dev’essere espulso, secondo questa concezione. Illavoro viene dunque concepito come un dovere che garantisce il dirittoalla partecipazione sociale. Oltre a un dovere, il lavoro è tuttavia ancheconsiderato nella nostra società un diritto, così come contemplato nellacostituzione italiana. Essendo un diritto e un dovere, lo Stato tutela ocomunque ordina in qualche maniera l’attività lavorativa. Questa è lanostra attuale idea di lavoro; tale idea, tuttavia, non coincide affatto conla storia del lavoro.

Il lavoro nasce infatti strettamente legato allo status. Nel medioevo illavoro non è un diritto, ma semplicemente una condizione connaturata auno status, quello servile, e ovviamente non prevede alcuna regolamenta-

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zione: il servo lavora dall’alba al tramonto perché è nella natura delle co-se che sia così, come direbbe Paolo Grossi che ha dedicato a tale que-stione pagine memorabili ed eccezionali. Nelle situazioni in cui il lavoroè espressione di status, il controllo sul lavoro corrisponde al controllodell’equilibrio sociale: il lavoratore che abbandona il suo posto o la suaattività turba l’ordine sociale e viene quindi considerato un delinquente.Viene sottolineato il legame del lavoratore alla terra, al feudo, il legamedel servo alla struttura a cui viene asservito. In tale contesto storico eideale, in cui lavoro e status coincidono, le attività lavorative sono consi-derate con pregiudizio: il lavoro non nobilita nessuno, è espressione diservitù; chi lavora è tenuto a farlo, il nobile ha altri obblighi, come difen-dere il re e la religione, ma non quello di lavorare.

Il grande cambiamento sociale nell’ambito di questa concezioneavviene in età comunale, nel basso medioevo, quando il lavoro vieneorganizzato in maniera assolutamente diversa, come libera attività cheproduce reddito. Da questo momento, il lavoro non è più solo espres-sione di status ma diventa anche libera disponibilità della propria atti-vità: se dispongo di una data abilità, posso produrre e vendere i mieiprodotti, o mettere la mia opera al servizio di qualcuno. In seguito a ta-le cambiamento vengono rispolverate categorie di diritto romano inprecedenza scomparse, come la locatio operis e la locatio operarum,funzionali al nuovo assetto sociale ed economico. A questo punto sipongono problemi di controllo del lavoro del tutto nuovi: chi non la-vora o lavora male non è più considerato un delinquente, come il servocatturato dagli sgherri e mutilato perché ha abbandonato il feudo.Debbono essere organizzati anche la qualità del lavoro, i tempi del la-voro e altri aspetti che conducono infine allo scambio di un prodottocontro un prezzo. Occorre dunque garantire la qualità del prodotto, ilmeccanismo dello scambio. E chi fa tutto ciò? Nell’ambito di una asso-luta libertà, è l’organizzazione del lavoro a farlo, ovvero la corporazio-ne, che compie l’operazione quasi sempre in piena autonomia: si orga-nizza una struttura di lavoratori di una certa categoria che si dannodelle regole, che controllano prodotto, formazione, le modalità di eser-cizio del lavoro.

Possiamo quindi parlare di una polizia del lavoro che non ha nulla incomune con il nostro attuale concetto di polizia, una polizia interna ai si-stemi produttivi. Comincia in questa fase a emergere non solo la questio-ne della qualità del prodotto, ma anche del suo giusto prezzo, della dura-ta del lavoro, della salvaguardia dell’ambiente in cui si lavora. Si emana-no norme che tengono conto delle conseguenze dell’ambiente di lavorosull’attività lavorativa. Una delle attività più regolamentate, soprattuttoin rapporto al territorio e alle acque, è per esempio quella dei conciatori,per stabilire dove possano lavorare e scaricare i residui della lavorazione

della pelle; il Liber Constitutionum di Federico II1 prevede tutta una seriedi norme sulle varie attività produttive finalizzate a garantire proprio lasalubrità delle acque e dell’aria. In questo caso siamo di fronte a una se-conda forma di regolamentazione, oltre a quella corporativa, quella daparte dello Stato, che non vuole che prodotti nocivi siano immessi nelconsumo, che non vuole che le attività lavorative vadano a danneggiare ibeni considerati comuni, cioè appartenenti alla collettività.

Tale meccanismo perdura sino all’avvento del cosiddetto Stato socia-le, quando le cose cambiano profondamente. Nello Stato sociale, il lavo-ro non è più affidato all’organizzazione e alla regolamentazione primariadella corporazione: è lasciato alla libera contrattazione tra gli individui – pur sempre secondo lo schema della locatio operis e della locatio opera-rum romane – ma sottoposto allo stringente controllo dello Stato, che ri-tiene di dover tutelare queste attività sociali. In questo caso tuttavia nonsi tratta di un controllo finalizzato a garantire la salubrità dell’ambiente ola qualità del prodotto: si afferma una nuova concezione, propria delloStato che comincia a pensare anche alla tutela del lavoratore. Si avviauna nuova forma di controllo, in precedenza del tutto inconcepibile, cheprevede che le attività lavorative abbiano una rilevanza pubblica anchesotto il profilo delle condizioni di vita, e che interviene quindi progressi-vamente anche sulla regolamentazione del salario, ad esempio, sino adarrivare alla garanzia dei cosiddetti salari minimi – detti anche equi, con-grui, le definizioni saranno molteplici – e delle condizioni di salute dellavoratore, allo scopo di non lasciare affidato a una dimensione privati-stica il rapporto lavoratore/datore di lavoro: il lavoratore è infatti partedebole, meritevole di tutela da parte dello Stato perché contribuisce al-l’arricchimento di quest’ultimo; ed è parte debole perché subisce la di-namica domanda-offerta dal punto di vista di una situazione di bisogno,che può indurre ad accettare condizioni di lavoro precarie o salari moltoinferiori alle reali necessità. Il lavoro a questo punto diventa oggetto diun’attenzione particolare e quindi di studi specifici, basti pensare a quel-li sulla rilevanza del lavoro nel mondo economico sviluppati dalla cor-rente marxista.

Il lavoro diventa oggetto di un ambito di riflessione di grande peso erilevanza che è ovviamente destinato a ripercuotersi anche sui meccani-smi di polizia. Si afferma la normativa sui salari, sulla regolamentazionedella salubrità del luoghi di produzione, questa volta nell’interesse nonsolo generale ma anche del singolo lavoratore, sulla base di principi co-me sicurezza e responsabilità. Il momento di passaggio è rappresentatoin Italia dal Codice del 1865, in cui, perché un lavoratore possa far valere

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1 Constitutiones Regni Siciliae, Neapoli 1786, in Monumenta Iuridica Siciliensia, acura e intr. di A. Romano, Sicania, Messina 1992.

la responsabilità del datore di lavoro in caso di incidenti e infortuni, oc-corre provarne la negligenza o il dolo. L’ultimo passaggio di tale percor-so, che rompe con la situazione appena delineata, è quello della cosid-detta «inversione dell’onere della prova». Ma a questo punto siamo inpresenza di uno Stato sociale che organizza il lavoro e lo controlla conmeccanismi di polizia che sono quelli attuali: sia il lavoratore che il dato-re di lavoro hanno diritti e doveri e lo Stato se ne fa garante, intervenen-do in molteplici forme sia sull’organizzazione del lavoro che su quella so-ciale nel suo complesso.

Per concludere, concentriamoci adesso sulla seconda parte del te-ma del nostro incontro, inerente al definirsi di un ambito di controllo.Lungo il percorso storico che ho sommariamente delineato mutanoinfatti anche gli ambiti di controllo della polizia sul lavoro: dal con-trollo sullo status legato all’ordine sociale nel suo complesso, si passaprima al controllo privatistico-contrattuale sulla locatio operis e sullalocatio operarum e quindi al controllo sul sociale, che è poi quello at-tualmente operante. Con il diverso atteggiarsi delle istituzioni e delloStato cambiano i sistemi e gli ambiti di controllo nel campo del lavo-ro. Oggi probabilmente stiamo assistendo a una destrutturazione delsistema: da un ambito controllato e garantito si ritorna a un sistemafondato sulla contrattazione privata, determinata dalla domanda edall’offerta del mercato, che comporta anche una ridefinizione dellefunzioni di polizia del lavoro. Alla privatizzazione del rapporto di la-voro, che resta al di fuori di una regolamentazione generale, conseguela necessità di un controllo per evitare il ritorno alla «legge della jun-gla», del più forte, per evitare che il diritto/dovere del lavoro si tra-sformi in una forma modernissima di sfruttamento, con gravi conse-guenze sociali di cui lo Stato non può non farsi carico: si pensi non so-lo agli scioperi, ma anche a forme di protesta assai più violente, comenel caso delle banlieues francesi. Rilevo infine come i temi sin qui trat-tati vadano come al solito dal medioevo all’età contemporanea, toc-chino sia il sistema politico che il sistema sociale, e come siano non so-lo interessanti di per sé ma ci riportino anche a problemi del tutto at-tuali, come ad esempio quello dei girovaghi e ambulanti su cui ha fo-calizzato la sua attenzione Vincent Milliot, o quello del controllo dellamanodopera e della sua organizzazione.

Grazie ancora a tutti, mi scuso se mi sono dilungato. Credo che glispunti siano molti e assai stimolanti, e ritengo che la discussione potràanche non essere necessariamente legata a quanto specificamente dettoieri ma animata da proposte e suggestioni diverse. Do dunque il via aivostri interventi.

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HAIM BURSTIN

Ho preso numerosi appunti, ieri, e ho molto pensato a quanto abbia-mo ascoltato e al tema del nostro convegno, in cui vengono a contattodue mondi, quello della polizia e quello del lavoro. Nella mia attività diricerca mi sono occupato molto poco di storia della polizia e molto inve-ce di storia del lavoro. Inizio quindi con una provocazione.

Questo è un incontro impari già nelle sue premesse archivistiche-do-cumentarie: la documentazione lasciata dalla polizia o a essa inerente èinfinitamente più corposa, salvo casi eccezionali, di quella lasciata dallabottega o dal laboratorio artigianale. Molto spesso studiamo dunque illaboratorio artigianale attraverso lo sguardo della polizia. Questa situa-zione documentaria di base condiziona molto il discorso, non solo nel-l’ambito della storiografia in generale, ma anche delle relazioni di ieri. Laprima serie di osservazioni che vorrei fare ha quindi provocatoriamentelo scopo di riequilibrare dalla parte del lavoro questo rapporto squilibra-to, partendo dalla considerazione che mi sembra che ci sia sempre unadifficoltà cronica a coordinare la «letteratura poliziesca» con la realtà so-ciale e la sua complessità. Vincent Milliot ha cominciato ieri rievocandotre punti fondamentali della politica di polizia rispetto al lavoro, che amio giudizio corrispondono a delle vere e proprie «ossessioni» ammini-strative: quella dell’approvvigionamento; quella dell’aumento demogra-fico (ossessione infelice in quanto frustrata, quella di voler evitarel’espansione delle città, perché, nonostante le misure adottare per deli-mitarne il perimetro, le città continueranno a crescere); quella degli in-terventi normativi sull’ozio, che risale addirittura ai padri della Chiesa eall’alto medioevo. La mia idea è che in queste forme di pensiero polizie-sche ci sia una sorta di atemporalità, cioè che il riflesso normativo delpensiero poliziesco sia spesso incapace di cogliere quale sia de facto l’e -voluzione del mondo del lavoro, di cogliere la grande plasticità dellacondizione popolare in ambito lavorativo e del suo cambiare anche inmaniera spesso difficilmente percepibile, per adeguarsi alle mutate situa-zioni socio-economiche. Farò alcuni esempi su tali strategie «mobili» delmondo del lavoro, non sempre percepibili. Alcune strategie di lotta ri-mangono «annidate» nel sistema corporativo senza diventare di rilevan-za pubblica, pur rientrando nell’ambito di un codice simbolico moltopreciso di contestazione. In questo caso la polizia non c’entra, si trattainfatti di un sistema interno di regolazione delle relazioni sociali. Esisteanche un piano di strategie abitative popolari che si collegano al mondodel lavoro e che coinvolgono anche i lavoratori non qualificati e non cor-porati. In questo senso, il dialogo privilegiato tra corporazioni e poliziasembra essere insufficiente. Mi riferisco ad altre unità di misura, adesempio in Francia la chambrée: è una forma di insediamento adottato

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da alcuni immigrati, che decidono di vivere assieme secondo codici dicomportamento non corporativi ma peraltro molto vincolanti e cogenti,che tengono conto delle indicazioni della polizia, che in parte eludono ein parte onorano sulla base di esigenze molto specifiche, difficilmentecensibili, registrabili da parte del pensiero poliziesco. Si sa come viveva-no i savoiardi a Parigi: sulla base del diritto d’anzianità, del diritto para-corporativo della chambrée.

Un’altra questione che vorrei toccare è la seguente: cosa succede afianco del mondo corporativo? Milliot ha citato in proposito degli esem-pi molto suggestivi, come quello dei permessi accordati alle venditrici diarance sul Pont-Neuf a Parigi. I casi simili sono molteplici e pongonoproblemi difficilmente identificabili a un primo colpo d’occhio. Il lavorodequalificato di scarico delle merci, ad esempio, che tradizionalmentenon è corporato ma che si regola quasi corporativamente, come ricorda-va Milliot, è quasi una costante nelle città di antico regime: non solo aParigi, ma anche a Nantes, a Marsiglia gli scaricatori di porto, pur nonorganizzati in corporazione, hanno tuttavia una mentalità fortementecorporativa, prevedono meccanismi di controllo dello scarico delle mer-ci molto forti. Il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e scaricatori èmolto stretto, pur al di fuori di un legame corporativo, di un controllodella polizia: si tratta di un personale dequalificato, non corporato, ma difiducia, al punto che i dockers in Francia alla fine del Settecento sarannospesso utilizzati da parte del padronato come massa di manovra. Si trattain questi casi di questioni che esulano dal tradizionale momento di in-contro tra polizia e corporazioni.

Infine vorrei porre un ultimo problema: perché la mentalità corpora-tiva conforma anche l’universo non corporato del lavoro? Il mondo delladequalificazione sfugge alla classificazione della polizia, ed è molto diffi-cile anche per noi capire chi siano i «dequalificati»: senz’altro gli oziosi,quali li definisce la polizia, ma nella situazione di grandi cambiamenti so-ciali del tardo Settecento tali oziosi possono coincidere in realtà con i«declassati». Lo scaricatore, il manovale può esser sempre stato tale, mapuò anche esser appartenuto in passato a una corporazione, magari alsuo livello più basso, portando con sé tutta una cultura del mestiere an-che in quest’ambito dequalificato. Ci sarebbe da dire molto in proposito,ma qui volevo solo offrirvi alcuni elementi, che non sempre vengono col-ti dal punto di vista della polizia. È dunque assai difficile a mio parereparlare di «une organisation structurelle des non corporés», come dicevaieri Milliot. Le strategie di resistenza sono molto duttili, plastiche e spes-so sotterranee, e hanno una loro logica interna che ci sfugge. Farò piùtardi un’altra serie di considerazioni su come la polizia articola le suepratiche di controllo.

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ANDREA ROMANO

Bene. Mi pare che abbiamo cominciato a introdurre temi importanti.È senz’altro vero che la documentazione inerente al lavoro sia inferiore aquella prodotta dalla polizia. La documentazione della polizia tende in-fatti a essere strutturata in archivi che poi si conservano, mentre quelladelle corporazioni è documentazione di origine privata, sempre ammes-so che si esprima in forma scritta, destinata spesso a disperdersi.

MARIA LUISA BETRI

Ho preso molti appunti anch’io, perché la giornata di ieri è stata dav-vero stimolante e ricca di suggestioni. Farò dunque qualche osservazio-ne, in ordine sparso e in maniera forse anche superficiale, perché questitemi non fanno propriamente parte dei miei specifici interessi di ricerca.

Sono assolutamente d’accordo con le considerazioni di Andrea Ro-mano in merito al senso lato attribuito al tema della polizia del lavoro,che è emerso nelle relazioni di ieri, e che deriva anche dallo sguardo dilungo periodo con cui si è guardato al tema: dalla relazione di PaoloGrillo sui compiti di polizia delle associazioni di mestiere, variamentemodulati nei rapporti con la giustizia cittadina e diversamente declinati,in funzioni di controllo, di disciplina e di tutela; fino al significato da at-tribuire alla definizione di «polizia del lavoro» nell’ambito di quel labo-ratorio di ingegneria istituzionale di cui ci ha parlato, in chiusura, IreneStolzi, impegnato nella costruzione del corporativismo fascista e nella ri-cerca di una strutturazione gerarchica e organica delle relazioni sociali.

Vorrei fare qui qualche considerazione a margine della questione deitemi che possono emergere e che possono suggerire qualche input. Si èaccennato a un tema che forse meriterebbe una considerazione più am-pia, quello emerso dalla relazione di Enza Pelleriti, ovvero la definizioneparticolare di polizia del lavoro in termini di polizia medico-sanitaria eigienica. Penso nel caso lombardo all’importanza che ha avuto nel tardoSettecento tale azione e significato della polizia, un’azione che ha avutocome protagonista e propulsore Johann Peter Frank. Penso al suo com-piuto sistema di polizia medica e al significato che ha avuto, sino al 1859,l’azione di polizia medico-sanitaria, l’azione di igiene preventiva messain atto quando anche la Lombardia venne toccata dalla grande epidemiacolerica. Ritengo che il tema del controllo medico, igienico e sanitariodel lavoro che si dilata in controllo del territorio meriterebbe di essere ri-preso e sviluppato.

Un’altra considerazione, forse un po’ ovvia, è che il tema del nostroincontro è stato affrontato relativamente alla situazione urbana, delle

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città. Ma la polizia del lavoro si declina anche in situazioni molto diverse,come quella rurale, come accade per alcune forme di controllo che si svi-luppano in ambito mezzadrile: controllo del lavoro, della mobilità, delrapporto tra il proprietario e il mezzadro e la sua famiglia. L’ambito rura-le presenterebbe, a mio parere, molte prospettive interessanti. Ancheun’analisi che si apra alla contemporaneità, come quella proposta daGermano Maifreda, appare ricca di potenzialità: quale significato assu-me il controllo di polizia nell’organizzazione del lavoro nell’Italia del se-condo dopoguerra, negli anni della ricostruzione e del miracolo econo-mico, all’interno della grande industria, della fabbrica?

Infine, un’ultima considerazione, sempre a margine dell’interessanterelazione di Maifreda. La modellistica da lui propostaci, del passaggiotra Sette e Ottocento dal controllo corporativo al controllo dell’impresaindustriale, che viene ad assumere quasi totalmente le funzioni che eranodella corporazione, comporta varie fasi, che egli ci ha ben delineato; hatuttavia trattato forse un po’ troppo fuggevolmente di «disciplinamentofaticoso». Consideriamo infatti che tale «disciplinamento faticoso» è du-rato alcuni decenni. Penso all’affascinante lavoro, risalente ormai ad al-cuni decenni addietro, di Franco Ramella, Terra e telai 2, che a propositodi disciplinamento del lavoro nella fase di transizione e poi di approdoalla fabbrica, lo ha descritto come un processo complesso, che ha subitomoti di resistenza all’inquadramento nel ritmo della fabbrica, un proces-so durato dal 1840 al 1870.

ANDREA ROMANO

Relativamente all’ambito rurale, occorre dire che è stato oggetto delconvegno di due anni fa, di cui si attendono gli atti3. Quanto all’idea diun convegno sulla polizia sanitaria, l’avevamo già accarezzata, dato che sitratta di un tema ricchissimo di implicazioni, tra cui non ultima quelladella polizia di confine, altro tema di grande interesse, che comporta nonsolo la questione del contrabbando, ma anche e soprattutto quella dellaprevenzione medico-sanitaria. Altri argomenti di grande ricchezza po-trebbero essere la polizia marittima, quella portuale, o le organizzazionidi polizia dell’esercito. Altro tema che è appena emerso da questa di-scussione, un po’ tra le righe, potrebbe essere quello, nell’Italia liberale efascista, del passaggio dalla polizia alle polizie, ovvero della ricerca di unordine per mezzo di un sistema di polizie che interagiscono tra di loro e

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2 F. Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell’Ottocen-to, Einaudi, Torino 1983.

3 «Extra moenia. Il controllo del territorio nelle campagne e nei piccoli centri».

si controllano a vicenda. So che quest’ultimo tema spingerebbe cronolo-gicamente un po’ troppo in avanti la nostra attenzione rispetto all’impo-stazione sinora adottata. Mi pare tuttavia di grande interesse la rotturadel sistema a polizia unica, con una sola funzione, che avviene parallela-mente alla trasformazione della forma di Stato, con il passaggio a un si-stema di polizie che controllano ambiti diversi ma che allo stesso temposi controllano reciprocamente.

LIVIO ANTONIELLI

Vorrei fare un paio di osservazioni, collegandomi a quanto emersoieri e a quanto ribadito poco fa da Haim Burstin. Mi pare che sia statogiustamente ribadito quanto la mentalità corporativa, vale a dire il siste-ma culturale che istituzionalmente si esprime all’interno di una strutturacorporativa, sia tuttavia riconoscibile anche al di fuori della corporazio-ne in quanto tale, quindi anche in forme paracorporative, nelle mille fog-ge in cui i mestieri e le attività lavorative si organizzano e si rapportanocol sociale e con le istituzioni.

Uno dei caratteri «forti» di tale dimensione corporativa è legato alrapporto che si viene necessariamente a creare con lo Stato, che tende aporsi, a fronte dell’universo corporativo, come una struttura terza, sortadi arbitro istituzionalmente sovraordinato. Sul lungo periodo, indubbia-mente, le corporazioni acquisiscono, accettano, fanno proprie le moda-lità regolative dello Stato allo scopo di poter godere di tutta una serie diprivilegi e di specifiche capacità di fare o non fare, in modo da limitare – così come è emerso con chiarezza ieri – la «concorrenza sleale», cioè laconcorrenza da parte di chi non disponga di analoghi privilegi.

Detto questo, una prospettiva d’analisi quale quella avanzata da Mil-liot nella sua relazione e or ora ribadita da Haim Burstin appare, a miomodo di vedere, viziata dal richiamo a una realtà connotata da uno Stato«forte», quale appunto quella francese, in cui appare scontato che que-sto terzo protagonista in gioco non possa essere che lo Stato, ben più chesemplice arbitro del gioco tra le parti, e soprattutto che la polizia nonpossa che essere una peculiare forma di espressione di questo Stato.L’immagine appare dunque quella di un ente terzo che si rapporta conl’articolato e plastico mondo corporativo in ragione di una solida capa-cità regolativa, il cui limite è essenzialmente quello della scarsa duttilità afronte della creatività del mondo corporativo o paracorporativo.

Ciò che emerge invece dallo studio di realtà connotate da uno Statomeno «forte» di quello francese, quale è il caso italiano, è che questo en-te terzo si confronta con un sistema di corporazioni entro le quali orga-nizzativamente si collocano anche gli apparati e gli strumenti cui esso de-

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ve appoggiarsi per esercitare la propria funzione sovraordinata di con-trollo. Faccio riferimento in primo luogo a quella che dovremmo appuntodefinire polizia, ma che troppo spesso si configura essa stessa non comeorganismo nitidamente riconoscibile, bensì come insieme di corpi chia-mati a operare nell’ambito dell’ancor più complesso sistema dei corpi at-tivi nella società. Il tutto, naturalmente, tenendo presente quanto dettoprima, cioè che nella società d’antico regime le attività lavorative trovava-no un’organizzazione disciplinata entro corpi formalmente riconosciuti,ma anche entro strutture paracorporative, cioè del tutto informali, tutta-via condizionate da una mentalità corporativa diffusa e condivisa.

Fino all’inizio dell’Ottocento coloro che, praticamente in ogni parted’Italia, svolgono funzioni di polizia per conto dell’ente terzo, cioè loStato, lo fanno sulla base di privilegi che li pongono in relazione dialetti-ca con gli altri corpi, in rapporto con i quali devono poi operare, a voltecon dirette funzioni di controllo. Tutto ciò crea naturalmente distorsionial funzionamento dell’intero meccanismo, perché in questo modo lo Sta-to dispone di strumenti esecutivi fragili, da lui non pienamente control-labili in forma immediata. Lo si può per l’appunto vedere con i cosiddet-ti esecutori di giustizia, quanto di più prossimo a una polizia fosse alloraa disposizione, cui appunto sono affidati una serie di compiti necessari alfunzionamento dell’intero ramo giustiziale: costoro sono al tempo stessouomini al servizio dei tribunali regi e uomini inseriti in una pseudocor-porazione, che vive appunto della concessione in via esclusiva dell’inca-rico di svolgere esecuzioni, intimazioni, arresti, traendo un utile direttodalla propria attività. Nel caso qualcosa vada storto, che costoro si ren-dano protagonisti di comportamenti censurabili, lo Stato, o meglio le au-torità, le persone che hanno funzioni di comando, prima di tutto si pon-gono il problema se gli esecutori abbiano agito correttamente nell’ambi-to delle norme che presiedono al loro agire, o se invece abbiano oltrepas-sato le loro attribuzioni e facoltà. Norme che, in buona misura, sono perl’appunto declinate nel senso della costruzione di un sistema di regolefunzionali al disimpegno, in regime di esclusiva, di una serie di specificicompiti. Qualora gli esecutori si siano resi responsabili di irregolarità,l’apparato di giustizia regio interviene contro di essi, così come intervie-ne contro qualsiasi altro corpo abbia oltrepassato le proprie competen-ze, senza che si innesti a loro vantaggio alcuna forma di tutela o garanzia,quale invece riconosciamo perfettamente nelle moderne polizie dipen-denti dal potere esecutivo.

È proprio tale sistema che fa sì che la funzione di intervento all’inter-no della struttura corporativa o paracorporativa rappresentata dal mon-do del lavoro consista in prevalenza in una funzione di arbitrato, di defi-nizione di spazi e vincoli, e soprattutto – la cosa che sta più a cuore al-l’ente terzo – di costante conferma della propria autorità. Il punto cru-

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ciale è infatti, nei casi di prevaricazione tra corpi, proprio la minaccia chene deriva all’autorità stessa del sistema di giustizia regio. Le corporazionie le paracorporazioni, come si è ben visto ieri, devono trovare e difendereil loro ordine complessivo con gli strumenti di cui autonomamente di-spongono, mentre lo Stato si conduce sostanzialmente come arbitro al-meno sin tanto che non percepisca minacce in atto alla sua leadership.

Una interessante prospettiva di mutamento emersa ieri è che il supe-ramento di questo piano avrebbe potuto avere luogo solo quando questomondo corporativo e paracorporativo, in ragione di tutta una serie dicambiamenti sociali e istituzionali complessivi di grande portata, avessecominciato a rendersi conto di non disporre più, dentro di sé, di suffi-cienti energie e capacità regolatrici, trovandosi così nella necessità di ri-chiedere sempre più all’ente terzo non tanto una funzione di controlloesterno, quanto un intervento diretto, capace di confermare e garantirele forme di organizzazione e di disciplinamento che i corpi faticano or-mai a difendere autonomamente.

È allora che, come spesso accade in campo istituzionale, le funzioni«immaginate» con forza, concepite con intensità hanno l’occasione ditradursi in realtà: a questo punto si richiede l’intervento dello Stato, delprincipe, dell’apparato di giustizia regio per mantenere spazi di privile-gio e di possibilità di fare che arrivano a trascendere la base concettualesu cui poggiavano in precedenza. È qui che si innesta la costruzione delnuovo impianto: la polizia è dunque figlia in primo luogo di una concre-ta ed estesa richiesta di controllo proveniente dai corpi sociali.

Non si può quindi parlare, nel caso dell’antico regime italiano, diuna prospettiva dal punto di vista del lavoro e di un’altra dal punto di vi-sta della polizia: la polizia in antico regime è parte integrante del mondodel lavoro nella sua articolazione corporativa, mentre nel senso di appa-rato dipendente e al servizio dello Stato ancora non è chiaramente deli-neata. Esisterà quando l’organizzazione stessa della società chiederà checi sia, quando si chiederà che a regolare il commercio delle bancarelle incittà non sia più solo un pezzo di carta, ma uomini in carne e ossa che fi-sicamente impediscono a chi non è autorizzato di esercitare la propriaattività.

IRENE STOLZI

Vorrei fare un po’ di domande, sfruttando le numerose suggestionisinora ascoltate e le vostre conoscenze. Vorrei riallacciarmi alle cose ap-pena dette da Livio Antonielli e da Andrea Romano, sul tema della con-vivenza di vari corpi di polizia e della loro presunta terzietà. Mi chiedose un tema di indagine, e che magari avete già affrontato, potrebbe esse-

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re, in una proiezione fortemente diacronica, il problema della conviven-za tra apparati di polizia. Andrea Romano ha parlato poco fa del passag-gio dall’età liberale all’età fascista, a proposito del quale mi vengono inmente le vicende della milizia volontaria per la sicurezza nazionale: sicontempla l’accesso volontario a corpi di polizia che apertamente elido-no la presunta terzietà dell’organo di polizia, e dunque si tratta di unaorganizzazione che convive con le strutture tradizionali. Mi chiedo se ta-le tema di indagine potrebbe essere anche esteso a tempi addietro, adesempio alle funzioni di polizia all’interno delle corporazioni, che sonostrutture incastonate tra privato e pubblico, che hanno una provenienzaideale ben definita, e che quindi non fanno capo alle istituzioni finalizza-te al bene comune, principe o Stato moderno che siano.

Un’altra domanda si collega invece agli interventi di Haim Burstin edi Maria Luisa Betri. Abbiamo trattato di declassamento del lavoratore.A un certo punto emerge nella mentalità giuridica che la povertà e lamarginalità non sono più legate all’ozio, cioè a un vizio della volontà.Non si possono più stigmatizzare il povero o il mendicante come sog-getti che non hanno voluto inserirsi nel meccanismo lavorativo. Conl’av ven to dei fenomeni di urbanizzazione e di emersione del quarto sta-to, la povertà viene considerata come legata direttamente alle condizio-ni di lavoro, e il lavoratore relegato ai limiti della sopravvivenza. Michiedo se tale evidente cambiamento, che fa della povertà uno statoconsustanziale alle condizioni di lavoro, abbia determinato una inver-sione della prospettiva statuale nel modo di approcciarsi ai problemidel lavoro e quindi abbia rappresentato il momento di nascita di poliziesanitarie, abitative, ecc. Forse il tema del declassamento non è neppurein gioco, perché il lavoratore, anche se non declassato, ha comunquedifficoltà di sopravvivenza.

PAOLO GRILLO

Vorrei affrontare un paio di temi emersi, la diffusione della mentalitàcorporativa e l’inclusione della polizia in questa mentalità, dal punto divista dell’età medievale. Quando infatti vi sento parlare di una mentalitàcorporativa operante tra i lavoranti, i facchini, la prima cosa che mi vienein mente è che nell’Italia medievale era proibito a costoro di costituirsi incorporazione, benché essi lo volessero fare.

Quello delle corporazioni proibite è un tema storiografico classicodella medievistica. In età comunale si tendeva a proibire la costituzionedi corporazioni da parte di mestieri a cui sarebbe stato troppo rischiosoconcedere un’autonomia, e anzi considererei questa una delle «ossessio-ni» a cui faceva prima riferimento Burstin, quella concernente l’approv -

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vi gio na mento delle città. Purtroppo c’è stato un salto cronologico nel -l’or dine delle relazioni, ma successivamente assistiamo a un processo as-sai intenso di concentrazione del potere nelle mani delle corporazioni di-ciamo «imprenditoriali» a danno delle corporazioni di lavoratori come itessitori, o i filatori, a cui viene imposto lo scioglimento e vietata la rico-stituzione in corporazione. L’esempio forse più noto e significativo èquello dei Ciompi, i lavoranti della lana di Firenze, che vorrebbero costi-tuirsi in corporazione. La loro rivolta ha come sbocco la costituzionedelle nuove arti dei lavoratori «minuti», che assumono una struttura mi-metica rispetto alle arti maggiori. Qui interviene anche la terzietà dellapolizia, perché come le altre corporazioni i Ciompi si dotano di un poli-zia. Gli scontri di piazza che segneranno la fine della rivolta sono pro-prio lo specchio di questo policentrismo dell’ordine comunale, in cui leorganizzazioni territoriali vengono utilizzate dai priori per stroncare unarivolta sostenuta invece dalle organizzazioni armate dei mestieri. Siamoin presenza di due polizie, una espressione dei mestieri minori e unaespressione dei quartieri che si danno battaglia.

ROSAMARIA ALIBRANDI

Dovrò imporvi purtroppo un altro salto cronologico, per tornare agliinterventi di Maria Luisa Betri e di Irene Stolzi e al tema della polizia sa-nitaria e della gestione delle epidemie, da un lato, e, dall’altro, al temadella polizia del lavoro e del definirsi di un ambito di controllo.

Tali temi non possono prescindere, nella seconda metà dell’Ottocen-to, dal passaggio da quella che era una scienza appannaggio di pochi inItalia alla scienza medica postunitaria. Si tratta di una premessa necessa-ria, perché tale passaggio rappresentò di fatto un salto di qualità nellascienza medica, con l’affermarsi dell’empirismo, dell’osservazione clinicadel paziente, della capacità di ascoltare oltre che di auscultare il pazien-te, di determinarne le condizioni di lavoro; con la nascita della categoriadelle malattie professionali, che non fu affatto un evento semplice e im-mediato. L’Italia era infatti un paese sostanzialmente agricolo. L’unicoproblema sollevato in tema di malattie del lavoro era stato, nel 1843,quello delle risaie come fattore multipatogeno e della necessità di un lo-ro risanamento. Nel momento in cui la classe di governo postunitariaeredita questo problema, ben lungi dall’idea di eliminare le risaie malsa-ne, si troverà comunque costretta a intervenire, dato che occorre che laforza-lavoro sia utilizzabile al massimo e dunque che sia in buona salute.Nasce in tale contesto una nuova concezione del lavoro come fatica equindi come fattore patogeno. Un ulteriore salto di qualità si ha quandoMarx afferma che le migliori condizioni di lavoro non diminuiscono la

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fatica del lavoratore ma aumentano la produzione. Questo è in sostanzail prezzo che paga in termini di vite umane l’Italia per diventare un paeseindustrializzato. Identificare la tubercolosi come malattia da lavoro saràdifficile. La malaria non fu mai definita una malattia da lavoro. L’epide -mia postunitaria, che costò 150.000 vittime, fu gestita con sistemi quali-tativamente meno efficaci di quelli applicati in antico regime. Probabil-mente solo con l’epidemia del 1885-1886, grazie all’intervento della clas-se medica per l’applicazione di una profilassi, si arrivò finalmente a sta-bilire che prevenire è meglio che curare. Si assiste a passaggi molto gra-duali e nella scienza medica occorrerà che la clinica medica prenda il so-pravvento, acquisti un primato rispetto alle altre scienze, supportata dal-la biologia e dalle nuove scoperte.

Riguardo al corporativismo fascista, teniamo conto che di mezzo c’èun cambiamento di enorme portata, ovvero la prima guerra mondiale.Agli inizi del Novecento Gaetano Pini affermò infatti che la classe medi-ca doveva accettare di non essere più considerata una classe privilegiata,per diventare invece la coscienza collettiva del mondo del lavoro.

LEONIDA TEDOLDI

A mio parere da questo seminario sono emersi alcuni punti fermi.Paolo Grillo e James Shaw hanno cominciato a delineare un quadro al-l’interno di quello che Livio Antonielli ha definito come il contesto cor-porativo, sottolineando il rapporto tra polizia e corporazione. Mi sembrache intorno a questo tema si stiano affermando delle conclusioni consoli-date, per quello che posso intuire io, che mi sono occupato prevalente-mente di giustizia ma non di polizia nello specifico. Per quanto concernequesto quadro d’analisi propostoci ieri, emerge una forte identificazionetra polizia e giustizia. Dico forte perché vi era l’esigenza, da parte dellecorporazioni, di controllare i propri membri e di costruire non solo delleisole giurisdizionali ma anche dei rapporti politici attraverso l’azionestessa di polizia all’interno delle città nei confronti di chi le governava,come ha detto ieri Paolo Grillo, trattando dei conflitti tra isole giurisdi-zionali in costruzione e gli statuti cittadini. Mi sembra dunque di poteraffermare che la corporazione, intesa in forma più larga possibile, stiacominciando a prendere solidamente corpo, dal punto di vista dell’anali-si storiografica, come risulta anche dall’intervento di James Shaw di ieri.Anch’egli ha delineato un quadro corporativo ben preciso, che rimandaa forme di intervento non solo di «polizia» ma anche giudiziarie. Mi pareche a queste due relazioni si possano ricondurre anche le interpretazioniche ci forniva qualche anno fa Mario Sbriccoli, sulla giustizia che egli de-finiva «negoziata». Si delineano dei precisi rapporti di forza: i macellai

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avevano una loro forza, anche perché contribuivano insieme a tutte lecorporazioni a difendere la città, un fenomeno già ben conosciuto.

Tutto ciò accade in un quadro che è a mio parere sostanzialmentegiudiziario e che continua a patteggiare. Lo stesso accade a Verona, adesempio, a Pavia, a Venezia, in Inghilterra. I Justices of Peace iniziano acostruirsi un ruolo attraverso le azioni di polizia, da custodi del re sino adiventare i tribunali locali ancora oggi più importanti. Un’altra questio-ne di grande interesse è quella evocata da Andrea Romano, nonché ilpassaggio delineato ieri da Germano Maifreda, di cui ha però già trattatochi mi ha preceduto. Vorrei infine solo richiamare il tema toccato daHaim Burstin, per dire che non sono convinto che gli storici francesi sia-no poi così afflitti da «ossessioni», o che almeno lo sono tanto quanto glistorici delle istituzioni nostrani, come ha affermato Roberto Martucci ri-guardo all’«ossessione costituente»4. Ritengo che si tratti anche di unproblema di periodizzazione. Occorre infatti pensare a come viene co-struito nel tempo quello che chiamiamo «ordine sociale». Credo che oc-corra definire meglio questo tema, anche per quanto concerne la suaproiezione su quello specifico della polizia.

Sulla questione dell’evoluzione dello Stato e del rapporto che lounisce alla polizia, mi ritrovo nelle parole di Livio Antonielli. Spero chenei futuri seminari questo aspetto emerga sempre più chiaramente, per-ché si rischia di sfuggire ai grandi problemi che coinvolgono tutta la se-conda metà del Settecento e gli inizi dell’Ottocento. Come diceva Simo-na Mori ieri, la questione appare molto complessa, non solo nel Lom-bardo-Veneto da lei trattato, ma anche per capire più in generale cosa siintenda per «ordine pubblico», per «intervento» non solo da parte dellapolizia, ma anche delle istituzioni giudiziarie e quindi dello Stato. Il te-ma coinvolge anche l’argomento trattato da Germano Maifreda, chetrova nell’avvento della fabbrica un momento fondamentale di svoltaanche dal punto di vista delle relazioni umane, oltre che economiche elavorative. Cosa si intende per ordine pubblico? In tema di Stato socia-le, mi vengono in mente i due grandi modelli di riferimento. Bismarck,che chiude la stagione del Quarantotto attraverso una decisa e ancheviolenta affermazione dell’autoritarismo, sarà colui che «inventerà» leassicurazioni, perché avrà bisogno di declinare una forma di ordine at-traverso un grande patto sociale, tra datori di lavoro e lavoratori. Si trat-ta di riflettere su tutto ciò e sull’idea di disciplinamento di cui parlavaGermano Maifreda ieri.

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4 R. Martucci, L’ossessione costituente. Forme di governo e costituzione nella Rivolu-zione francese, il Mulino, Bologna 2001.

ANDREA ROMANO

C’è un problema, sollevato prima da Livio Antonielli e che ora ritor-na nella discussione, che occorre chiarire. L’intervento di polizia finaliz-zato a controllare se il commerciante è regolarmente dotato del privile-gio di vendere la sua merce è a mio parere una questione fiscale, non dipolizia. Il principe, in qualità di titolare dell’esercizio di tutte le attività,autorizza l’esercizio di qualcuna di queste per poi poterla controllare ascopo fiscale. Il destinatario di un privilegio deve infatti pagare per otte-nerlo. Diverso è invece il caso quando il controllo viene esercitato alloscopo di garantire l’ordine sociale, per cui il pagamento della regalìa ha ilfine di regolamentare il mondo del lavoro in un regime di concorrenza,tutelando quanti pagano regolarmente l’imposta dalla concorrenza degliabusivi. Ciò che cambia è l’atteggiamento da parte dello Stato, che a suavolta dipende da quella che Livio Antonielli ha chiamato la diversa do-manda da parte degli assetti sociali. Il controllo del mondo del lavoronon può più essere lasciato alla negoziazione privata e c’è una precisadomanda sociale in tal senso. È a questo punto che la polizia diventa unacosa diversa.

KARL HÄRTER

Avrei un’osservazione, riguardo ai problemi sollevati da Andrea Ro-mano e Livio Antonielli durante la discussione, ma anche rispetto a quel-li proposti dalla bellissima relazione di James Shaw. Mi riferisco alla que-stione dell’interesse dello Stato, da un lato, che include la polizia (checomporta e stimola un’attività di polizia), e, dall’altro, all’interesse dellasfera privata – se di una tale sfera possiamo parlare – nella quale possia-mo includere anche le organizzazioni corporative.

Dubito che, per quanto concerne la società e lo Stato in età moderna,sia lecito considerare come separati questi due ambiti di interesse, per-ché gli interessi privati e le organizzazioni corporate che li esprimono in-fluenzano l’attività di polizia e di giustizia, cioè lo stesso interesse delloStato, che possiamo identificare con il diritto di punire. È infatti assolu-tamente chiaro come gli interessi espressi dalla sfera privata e la connes-sa attività di polizia influenzino anche la giustizia statale, dato che il ruo-lo di quest’ultima era non solo quello di punire ma anche di disciplinare.Lo Stato dell’età moderna condivide gli stessi interessi della sfera priva-ta, potremmo dire, perché deve appoggiarsi, per agire, a tutte le organiz-zazioni corporate, alla stessa società. Non è dunque possibile operareuna netta separazione tra Stato e corporazioni, nel trattarli. Le corpora-zioni sono parte integrante dello Stato perché sono parte delle élites, che

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sono a loro volta parte del potere statale. Il disciplinamento della societàrappresenta un interesse cruciale dello Stato, ed è al contempo una for-ma di polizia e di esercizio della giustizia, non è solo espressione dell’in-teresse di qualsivoglia organizzazione privata e corporativa. Non sempresiamo in grado, in età moderna, di distinguere – come ha detto prima an-che Livio Antonielli – una polizia chiaramente separata dalla società, dalmondo del lavoro, dato che operano nella stessa direzione e condividonogli stessi interessi.

SIMONA MORI

Ho solo una breve domanda per quanto concerne la polizia del lavo-ro non tanto concepita come disciplinamento dei lavoratori, quanto co-me tutela delle condizioni di lavoro a loro beneficio e salvaguardia. Inquesta sede non è stato trattato il caso inglese, ma se non ricordo male lalegge sulle fabbriche risale agli anni Venti e Trenta dell’Ottocento. Talediscorso, sviluppato nel saggio di Giovanni Cazzetta5, che insiste sulvuoto giuridico esistente nel campo del lavoro, non è affatto estensibile atutto il territorio europeo. Mi chiedo dunque se l’esperienza inglese ab-bia avuto qualche riflesso presso gli imprenditori e i giuristi italiani.

JAMES E. SHAW

Vorrei riallacciarmi alle osservazioni di Karl Härter. È del tuttoastratto e immaginario considerare le corporazioni come escluse dal po-tere politico, in età moderna: è chiaro invece che sfera pubblica e priva-ta sono naturalmente collegate e strettamente intrecciate tra loro in mo-do che è praticamente impossibile considerarle separatamente. Da que-sto punto di vista, come ha detto Antonielli, è importante non proietta-re anacronisticamente l’attuale modello di Stato sulla società della pri-ma età moderna: qui ogni magistratura o autorità ha il suo specifico mo-do di operare, e ritengo sia giusto considerarle come un corpo autono-mo che persegue il proprio interesse ed è al contempo in competizionecon gli altri.

Un altro punto che vorrei toccare concerne la sfera privata. Vorreitornare alla definizione di lavoro che Andrea Romano ha proposto inapertura alla discussione, e sulla questione del lavoro dipendente di cuiha trattato Paolo Grillo, un caso che dovrebbe essere considerato specia-

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5 G. Cazzetta, Scienza giuridica e trasformazioni sociali. Diritto e lavoro in Italia traOtto e Novecento, Giuffrè, Milano 2007.

le. Paolo ha detto che molti gruppi di lavoratori, durante la prima etàmoderna, si impegnarono attivamente per tentare di costituirsi in corpo-razione. D’altra parte le relazioni di lavoro dipendente erano lasciate allacontrattazione individuale tra maestro e lavorante, che aveva luogo al-l’interno della bottega o dell’impresa artigiana. Penso quindi che l’analisidella storia e del ruolo dell’impresa nel disciplinare il lavoro dovrebbeessere proiettata cronologicamente all’indietro rispetto al modello difabbrica che Maifreda ha così efficacemente descritto. Naturalmente lafabbrica agiva su scala molto più vasta rispetto alla bottega. Ritengo tut-tavia che sia utile ripercorrere la storia di queste relazioni risalendo al-l’indietro sino alla prima età moderna. Penso che sia proprio quest’a-spetto a richiedere ulteriori ricerche in futuro, per vedere come fosseroregolate le relazioni tra maestro e lavorante, quale fosse il peso relativodelle leggi contrattuali, delle consuetudini e delle tradizioni, del dirittostatutario nel regolare queste relazioni; per appurare come le dispute e lecause di lavoro che emergevano in questo contesto venissero effettiva-mente risolte nella pratica; per vedere, insomma, in che misura conside-razioni di equità modificassero la legge. Sono tutte questioni di grandeinteresse, a mio giudizio, sulle quali mi piacerebbe sapere di più.

GABRIELE GUARISCO

Vorrei brevemente intervenire con una suggestione. Si è detto cheforse varrebbe la pena di porre l’attenzione sulla mentalità corporativa.Mi ha fatto riflettere il fatto che si siano iniziati i lavori ieri mattina conuna relazione sulle corporazioni medievali e si sia terminata la giornatacon una relazione sulle corporazioni fasciste. Il termine «corporazione»si è conservato, o meglio è stato ripreso per la sua evocatività, ma nelfrattempo è cambiato il mondo e alla fine la corporazione è diventata al-tra cosa. Certo è che se in età medievale erano le corporazioni nei comu-ni a fare il regime, in età fascista sarà il regime a fare le corporazioni. Unaspetto che mi ha colpito è che, se l’esperimento fascista di corporativi-smo era volto a costruire l’armonia, nelle città medievali le corporazionierano invece protagoniste del conflitto politico. Vorrei quindi rilevare ilcompleto ribaltamento di ruolo.

Vorrei aggiungere una curiosità, un’osservazione da non addetto ailavori, in merito agli aspetti sociali di assistenza collegati alla polizia dellavoro. Se le corporazioni medievali, come diceva ieri Grillo, sono anchesocietà di mutuo soccorso, di assistenza ai propri membri, mi chiedevose, riprendendo la relazione di Germano Maifreda, anche gli aspetti assi-stenziali presenti nel mondo della fabbrica, ad esempio la costruzionesperimentale di villaggi per gli operai (come Crespi d’Adda in Lombar-

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dia), rappresentino un incremento del controllo dei lavoratori. Mi riferi-sco ai regolamenti, di cui ha trattato Maifreda, in cui si imponeva un at-teggiamento irreprensibile dei lavoratori anche al di fuori del posto di la-voro. Chiedo quindi se e come tali aspetti assistenziali contribuiscano arealizzare questo controllo.

GERMANO MAIFREDA

Mi sembra che abbiamo detto in molti la stessa cosa, che forse possoprovocatoriamente tentare di esprimere in questi termini: in fondo nonesiste una funzione di polizia, e non esiste nemmeno un’istituzione dipolizia; esiste invece una cultura di polizia. Molte delle cose dette signifi-cano sostanzialmente questo, a mio parere. Farò alcuni esempi.

Mi è molto piaciuta l’osservazione di Burstin sulle «ossessioni» atem-porali della polizia. Se accettiamo che la polizia sia una cultura, dobbia-mo anche accettare che non è una cultura autonoma, che non ha una suastrutturazione epistemologica distinta, che non ha una sua caratterizza-zione scientifica discreta. È – come spesso accade alle culture – un insie-me continuo e miscelato di modificazioni sociali, economiche, pregiudi-ziali. In questo senso l’idea di ossessioni atemporali mi piace perché rive-la quel fondo al contempo di lungo periodo, irrazionale, imprevedibile,imponderabile, sottaciuto che sta dietro a ogni forma di cultura. Le tre«ossessioni» – quella dell’approvvigionamento, quella della popolazionee quella dell’ozio – sono le stesse di cui l’impresa industriale si farà total-mente carico sin dall’inizio della sua parabola, con le case di correzione edi lavoro e con tutti quei dispositivi accentrati di produzione che sono atutti gli effetti dei grandi esperimenti di fabbrica. La retorica e la culturache questi ultimi esprimono già ai primordi, e che troveranno compi-mento perfetto nell’Otto e nel Novecento, sono in realtà dei dispositividi sicurezza, delle misure anticongiunturali, e in questo senso rappresen-tano dei dispositivi di approvvigionamento. Taylor e Ford scriverannopagine e pagine su come la fabbrica in realtà sia un meccanismo anticon-giunturale, che crea regolarità nella somministrazione del fattore di pro-duzione lavoro, limitando la possibilità che una congiuntura negativa – cioè l’assenza di quella mano che doveva finire la lavorazione della pez-za di tessuto – possa danneggiare la collettività. La fabbrica si fa caricosin dall’inizio di quelle istanze igienico-sanitarie-popolazionistiche: tuttele attività di polizia del lavoro interne alla fabbrica mirano a verificare lapurezza, la salubrità dei luoghi e delle persone. L’ossessione della conta-minazione è presente già nel Settecento austriaco. Ricordo in propositole lettere di Kaunitz sulla casa di correzione di Milano: gli amministratorisono ossessionati dall’idea che lo spazio di lavoro debba essere igienico e

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sano. Un tale atteggiamento perdurerà. Il diario di Henry Ford è intessu-to di considerazioni simili: non gli interessa tanto che la produzione siaregolare, quanto che la fabbrica sia igienica, non ci siano sputi per terranei reparti, ecc. Di qui anche la retorica, il discorso sviluppato in ambitogiornalistico sulla fabbrica come luogo candido, pulito, scintillante. Intutta la storia dell’industria – e penso anche alle occupazioni della secon-da guerra mondiale – sino a oggi si tenta ossessivamente di smitizzare lafabbrica come luogo sporco, e questo proprio perché in realtà lo è.

L’altra questione per eccellenza è quella dell’ozio, che è quella checontribuirà ad attribuire a molti imprenditori una dignità sociale e politi-ca. Gli imprenditori otto e novecenteschi, così come gli organizzatori dicase di correzione settecentesche, affermano, nel voler prevenire l’ozio,di voler far del bene alla società – affermazione che comporta anche unaconseguente rivendicazione di libertà. Dunque, pensare alla polizia co-me a una cultura ingloba molte delle suggestioni che abbiamo qui avan-zato, e fa sorgere alcune domande. Ne avrei una per Andrea Romano,che prima distingueva tra scopo fiscale e scopo poliziesco del controllo:possiamo capire se un’azione è poliziesca dallo scopo? A mio parere no,in realtà il problema è che tipo di cultura afferma un’azione di controllo.Un’azione a scopo fiscale può, ex ante o ex post, portare con sé una cul-tura poliziesca. Può avere delle ricadute su una struttura culturale poli-ziesca anche se quella attività è fiscale. Parlavo ieri con Peter Becker delsuo interessante lavoro sulla modulistica della pubblica amministrazio-ne, una storia culturale della modulistica. È un tema del tutto nuovo eoriginale, e che a tutti gli effetti appartiene alla storia della polizia, seb-bene i moduli abbiano uno scopo fiscale. Lo stabilire una forma del mo-dulo e riorganizzare una struttura amministrativa in funzione di quelmodulo corrisponde ad affermare una cognitività dell’individuo, di cuila cultura poliziesca è ovviamente parte importante.

Riguardo alla questione della medicina del lavoro, che trovo fonda-mentale, e all’intervento della collega Alibrandi, ricordo che la medicinadel lavoro non a caso nasce in Italia con Ramazzini, e trionfa poi conLuigi Devoto e con la scuola medico-lavoristica del primissimo Nove-cento. Rappresenta un’enorme rottura epistemologica, poliziesca a tuttigli effetti. Spesso si studia la medicina del lavoro solo per vedere qualifossero le malattie professionali. In realtà leggere le perizie dei medicidel lavoro consente di vedere in atto un nuovo paradigma epistemologi-co, che entra in totale conflitto con la medicina patologica ottocentescadel sintomo, e che afferma una nuova idea di medicina del corpo in mo-vimento. Il corpo del lavoratore deve essere studiato mentre si muove,nel momento in cui lavora, per coglierne la specificità in azione, mentrela patologia tradizionale si limitava a studiare il corpo fermo. Non a casoi medici del lavoro rivendicheranno immediatamente una loro presenza

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nelle fabbriche, a contatto dei lavoratori, e si lamenteranno del fatto chegli industriali non permetteranno loro di entrarvi. I medici del lavoro siaffermeranno soprattutto nelle fabbriche taylorizzate, come la MagnetiMarelli (la seconda a essere taylorizzata dopo il Lingotto di Torino), chesarà la prima ad avere un medico del lavoro, un assistente sociale.

La questione della polizia come cultura conduce a un insieme di ul-teriori suggestioni. Riguardo alla domanda di Simona Mori, ovvero comesuccede, se pensiamo che la fabbrica si colloca nell’ambito di un lungoprocesso di elaborazione cultural-poliziesca, in fondo la domanda diven-ta un po’ meno urgente. Mantiene tuttavia tutta la sua provocatorietà.Come mai si afferma una polizia del lavoro? In realtà si era già affermata.Nessuno trova innaturale la fabbrica quando questa si impone, e ancoraoggi la consideriamo una forma di produzione perfettamente razionale.La domanda di Simona Mori ci fa riflettere sul fatto che alcuni fenomenipolizieschi in senso lato si affermano proprio nell’ambito di un longevofilone culturale, e da esso traggono una potentissima legittimazione. Ri-guardo al lavoro come dovere, la questione è a mio parere fondamentale,e bisognerebbe scrivere una genealogia di tale concezione, che probabil-mente trova origine addirittura nella bibbia. Tale concezione imperniatutta la cultura del lavoro almeno dal Cinquecento in avanti, prima rife-rita alle case di lavoro e poi all’impresa industriale. Gli imprenditori in-dustriali così come gli ideatori delle case di lavoro di antico regime affer-mano, come ho già detto, di fare cosa buona, perché lavorare è un dove-re dell’umanità, e dunque attraverso il lavoro si ottiene purificazione, re-denzione. Gran parte della cultura imprenditoriale dell’Otto e del Nove-cento ha la solida certezza di fare del bene, come nel caso di Crespid’Adda. Intorno a questo progetto, come a tutti i villaggi operai, inglesi,francesi o italiani, c’è tutta un’intensa retorica del bene, retorica che nonvoglio intendere in senso spregiativo. Il villaggio operaio è un trionfo dicultura poliziesca, proprio perché nessuno vi esercita funzioni di polizia:tutti controllano tutti, senza bisogno di alcun centro panottico comequello teorizzato da Bentham, dove basta esserci per essere controllati.Basta percorrere le stradine di Crespi d’Adda che Alessandro Rossi volleperpendicolari, sebbene il progetto le prevedesse curvilinee, per capireche il villaggio operaio è un dispositivo di polizia. Ovviamente ci sonodelle sfumature, perché le donne sono molto più controllate degli uomi-ni. Escono dal controllo della famiglia, entrano sotto il controllo dell’im-prenditore, e la fase di latitanza viene colmata con gli educandati, i dor-mitori gestiti da suore, ecc. Il villaggio operaio è in sé un grande stabiliz-zatore poliziesco.

Quanto alla domanda di Leonida Tedoldi su cosa sia ordine sociale,a me pare che rientri in quest’ordine di risposte, così come l’affer ma -zione di Livio Antonielli, cioè che la polizia in alcune situazioni non esi-

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ste. Io direi che non c’è come forma. E riguardo alla polizia come formadi controllo con o senza Stato, credo che forse la polizia non sia una for-ma, e proprio perché è tale la troviamo così pervasiva e ci chiediamo co-me mai emerga in fabbrica, dato che la pensiamo come un organismoestraneo. Simona Mori si chiede letteralmente «come fu imposta». Ma èproprio questa idea di imposizione che crea il problema, perché rimandaa qualcosa di calato dall’alto. In realtà, come abbiamo detto in questidue giorni, la polizia sale dal basso, non scende, non viene calata dall’al-to. L’imposizione in realtà non avviene mai, ma si tratta di un coagularsicontinuo in certi luoghi di discorsi, atmosfere prerazionali, di ossessioniatemporali, nell’ambito del quale lo Stato è forse una figura da depoten-ziare. Lo Stato c’è e non c’è. Riguardo alle assicurazioni, ad esempio,quando l’imprenditore viene posto di fronte alle sue responsabilità escatta una nuova riflessione sulla fabbrica, lo Stato non c’è ancora, nonc’è ancora il Welfare. L’imprenditore viene messo in crisi rispetto alla suaidea di polizia del lavoro prima che lo Stato abbia la volontà di interveni-re per aiutarlo, mentre sin lì, sulla base della retorica del lavoro come do-vere, quest’ultimo aveva sempre delegato la polizia nei luoghi di lavoroall’impresa. Questa sarà una delle ragioni per cui gli imprenditori italianidel Novecento, più di quelli europei, si disinteresseranno di politica: sa-ranno «ministerialisti», come afferma Valerio Castronovo a proposito diGiovanni Agnelli, ma non politici, governanti.

Mi piacerebbe infine rispondere a Simona Mori sulla questione del-l’Inghilterra. Tale paese si industrializza prima dell’Italia e quindi antici-pa molti fenomeni, ovviamente. Già allora, tuttavia, l’Inghilterra agiscecome Stato regolatore, più che come Stato imprenditore. Com’è tipicodella cultura anglosassone, lo Stato inglese, anche quando si occupa dipoveri e di lavoro, lo fa con una macroregolamentazione all’interno del-la quale le soggettività – in questo non sono per niente foucaultiano –mantengono in realtà un ruolo assai importante, assolutamente centrale.Per cui c’è senz’altro anticipazione, ma in fondo mi sembra che il riti-rarsi da parte dello Stato di fronte alla polizia del lavoro nell’Otto e No-vecento – anche in età fascista, nonostante le apparenze, e non so se lacollega Irene Stolzi sia d’accordo su questo punto – crei un’assenza benpercepibile.

VINCENT MILLIOT

Vorrei iniziare da una domanda in apparenza banale: perché bisognaorganizzare una polizia del mondo del lavoro? Nella realtà del Belgio delXIX secolo, la polizia del mondo del lavoro può essere assimilata allalotta contro i movimenti operai socialisti. Tale collegamento appare di

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immediata evidenza, ed è stato infatti ripreso da una parte della storio-grafia e da certa trattatistica, dove si può ritrovare la tematica affrontatadal bel libro di Louis Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereu -ses6. Si potrebbe d’altronde far risalire il problema affrontato da Cheva-lier sino al Rinascimento, ricostruendo la storia delle numerose opinioniespresse in merito dalla trattatistica e lo sviluppo di un immaginario so-ciale che concerne i poveri e i pericoli di cui sono portatori, sapendoche la seconda metà del XVIII secolo è senza dubbio il momento in cuis’avvia l’incontro tra un certo discorso sulla patologia urbana, sulla pa-tologia sociale, e sulla patologia fisica e morale, quella dei poveri, deglistrati popolari, concepiti come necessariamente selvaggi. Alla fine delXVIII secolo mi pare si aggiunga qualcosa di particolare, con il periodorivoluzionario e napoleonico, ovvero la politicizzazione di tale rischiosociale, e dunque abbiamo l’incontro – specialmente per ciò che riguar-da la realtà tedesca di cui abbiamo trattato – tra polizia politica e poliziadel mondo del lavoro. Dunque alla domanda iniziale – perché bisognaorganizzare una polizia del mondo del lavoro – una prima risposta po-trebbe essere la seguente: perché il mondo del lavoro è socialmente epoliticamente pericoloso o sovversivo. Ma è al contempo chiaro che talediscorso teorico può essere confuso con la realtà della pratica e che ipoteri dotati di funzioni di polizia di fronte al mondo del lavoro urbanopossono avere atteggiamenti ben più sfumati. Sulla base della storiogra-fia sul Belgio e più in generale sull’Ottocento si può considerare tutta laquestione anche dal punto di vista del mantenimento dell’ordine pub-blico, attraverso la repressione delle manifestazioni. Cioè, in ultima ana-lisi si delinea un aspetto assai puntuale della polizia del mondo del lavo-ro nel momento in cui è messa in crisi e travalica le sue funzioni, fattoche ci impone due questioni. La prima: l’uso politico che si può faredelle forze dell’ordine, un ordine imposto in maniera più o meno letalee violenta. Non si tratta di una questione di contabilità dei morti duran-te un intero secolo, ma di una vera e propria concezione della polizia.Dalla fine del XVIII secolo, quando sono le forze armate, per esempio aParigi – ma penso anche a realtà diverse dalla Francia – a essere respon-sabili dell’ordine pubblico, si produce una riflessione sulle modalità dimantenimento dell’ordine pubblico di fronte alle folle e ci sono testiche spiegano che i manifestanti sono cittadini smarriti, in stato confu-sionale e che il mantenimento dell’ordine pubblico non è una situazionedi guerra.

Questa è la posta in gioco nel XIX secolo, le cui premesse si trovanonel XVIII secolo. Prima di arrivare a situazioni estreme, cosa vien fatto

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6 L. Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la secondemoitié du XIXe siècle, PLON, Paris 1958.

per evitare la crisi in seno al mondo del lavoro, cioè per evitare che ilmalcontento debordi sotto forma di manifestazioni di piazza? E quandodico che è su questo punto che è in gioco la concezione stessa di polizia,intendo sia per quanto concerne il campo della polizia preventiva, che èdefinita anche «profilattica», sia per quanto concerne il campo della po-lizia repressiva. Se si resta nel campo della polizia «profilattica» e del suodeclinarsi del tempo, ritroviamo molti degli aspetti che abbiamo toccato:ad esempio, il sistema corporativo e le sue trasformazioni (perché anchele corporazioni di età fascista sono un modo per organizzare l’armoniain seno alla produzione e di prevenire danni). Tutta la questione del di-sciplinamento rientra anch’essa in questo quadro (un curato vale piùdei gendarmi, in questi casi). Su di un altro piano, rientra in questo qua-dro tutto ciò che concerne le leggi sociali (regolamentazione del lavoroinfantile, delle donne, in generale, ecc.), che sono un modo per preveni-re i conflitti e gestire i rapporti sociali del mondo del lavoro. Se dunquela domanda è «perché bisogna organizzare una polizia del mondo dellavoro?», la risposta è senz’altro: perché è pericoloso. Ma si pone ancheun’altra questione: la polizia del mondo del lavoro è assimilabile a unintervento di carattere economico? La risposta liberale a questa doman-da è no: non bisogna organizzare una polizia del mondo del lavoro, per-ché è il mercato stesso a farlo, per altre vie. Tuttavia una simile risposta,quando a darla saranno alla fine del XIX secolo gli economisti politiciliberali, non sarà applicata in quanto troppo idealistica; e in effetti i li-berali non saranno mai integralmente liberali e non rinunceranno mai aintrodurre delle regolamentazioni e a concepire come legittima la fa-coltà di intervento. La questioni che resteranno aperte, dopo la sop-pressione delle corporazioni, sono quella della regolamentazione delmercato del lavoro, della formazione, ecc. La maggior parte dei liberaliragiona in questi termini: lasciateci fare liberamente ma proteggeteci alcontempo molto. Dunque la questione diventa quella delle diverse mo-dalità di regolazione dei rapporti di lavoro che mutano nel tempo e nel-lo spazio. Il che significa che occorre prendere in considerazione leistanze variabili di questa polizia del lavoro, o meglio sarebbe dire dellepolizie del lavoro, al plurale. Istanze che possono essere lo Stato, lo Sta-to-nazione, lo Stato unificato – che tuttavia non fa la sua comparsa sullascena immediatamente –, le città, le corporazioni. Significa anche inter-rogarsi sui dispositivi regolamentativi concernenti specifici oggetti, co-me il corpo del lavoratore, il tempo del lavoratore; significa interrogarsisulla dimensione antropologica del lavoro, sulle pratiche e sui saperimessi in opera per regolarne i rapporti interni. Non si tratta forse di so-luzioni, ma di un insieme di questioni che mi sembrano esser state sug-gerite dai vostri stessi interventi.

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LEONIDA TEDOLDI

Vorrei fare qualche breve considerazione sull’intervento di GermanoMaifreda. Trovo affascinate quanto diceva sulla cultura, che è un passe-partout fondamentale per comprendere qualsivoglia realtà. Credo tutta-via che ci sia molto di più. Si rischia spesso, a mio parere, attraverso si-mili elementi di interpretazione, di sfuggire all’individuazione di alcunimomenti di rottura, che credo invece utilmente individuabili, e che sonoin effetti emersi nel corso di questo seminario.

Detto questo, credo anche che sia possibile pensare alla polizia comea una sorta di risposta da parte non tanto dello Stato ma di chi governain un dato momento storico, cioè alla polizia come espressione di unadata cultura di governo, per rifarmi all’intervento di Marco Meriggi inun testo da me curato e pubblicato nel 20057. Riallacciandomi al titolodel nostro incontro, laddove parla del definirsi di un ambito di controllo,ritengo che si tratti della sua costruzione, non di un’«occupazione» diambiti da parte dello Stato, e mi pare che il concetto di costruzione si ac-cordi con quanto appena detto da Vincent Milliot. La polizia è dunqueuna cultura di governo, di cui occorre individuare i momenti di rottura,nell’Otto e nel Novecento, se si vogliono delineare dei modelli interpre-tativi. Bismarck è portatore, ad esempio, di una politica di governo benprecisa, che rappresenta una risposta a una precisa situazione contingen-te. Negli anni Sessanta le leggi scellerate conseguenti all’istituzione delleassicurazioni creano un conflitto nel mondo del lavoro stesso, connotatoin quel momento dalla cultura socialdemocratica. La polizia è dunqueparte integrante delle scelte politiche, come è ben emerso anche dalle re-lazioni sul Belgio di Benoît Mihail e di Christian Lepage. La polizia èparte integrante delle risposte politiche di governo a fronte di fratturecome conflitti sociali, manifestazioni di piazza.

HAIM BURSTIN

Vorrei tornare su alcuni punti, sulla base degli interventi appenaascoltati, sul fatto che siamo partiti in questo convegno dalle corporazio-ni medievali per finire con quelle fasciste e sulla cultura della polizia. Iseminari come il nostro hanno il grande vantaggio di poter spingere losguardo sul lungo periodo, ma presentano al contempo delle insidie: ivari protagonisti, i comuni, le corporazioni, lo Stato, i governi, il mondodel lavoro, evolvono e interagiscono in maniera assai diversa, per cui è

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7 O. Guaraldo, L. Tedoldi (a cura di), Lo stato dello Stato. Riflessioni sul potere poli-tico nell’era globale, Ombre corte, Verona 2005.

impossibile tentare una definizione omnicomprensiva. Anche definirecosa sia ordine sociale, come proponeva Tedoldi, è in questo senso irrea-lizzabile. La forza di questi convegni è proprio quella di non definire, amio parere, di assumere queste nozioni come plastiche, perché fanno ri-ferimento a strategie in movimento, duttili, in cui i vari protagonisti siadattano in maniera pragmatica a situazioni mutevoli, in divenire. Sonosensibile alla questione di definire se ci sia o meno una polizia. Ma quan-do affermo che la polizia esiste, mi riferisco all’epoca della grande tratta-tistica poliziesca francese cui faceva riferimento anche Milliot, che di-venta quasi un genere letterario in questo periodo, in cui sono gli stessipoliziotti ad affermare che esiste.

Più che sensate in questo senso sono le domande che si poneva LivioAntonielli, sulla terzietà e lo Stato: ma anche questa terzietà è in perenneevoluzione. Pensiamo al ruolo delle corporazioni dell’età comunale nellarelazione di Paolo Grillo, che sono regolatrici dello scontro politico. Nel-la realtà studiata da James Shaw il peso politico delle corporazioni è deca-duto completamente; a Venezia si crea una situazione assai curiosa, in cuil’elemento disciplinatore non è unitario ma è in sé una procedura, in cuile forze della Giustizia Vecchia si abbinano alla polizia corporativa. È l’e -sempio assai interessante di un adattamento. Un altro invito alla duttilitàci viene dalla relazione sul libretto di lavoro di Simona Mori: niente cam-bia di più del significato di un libretto di lavoro se ci spostiamo da un se-colo all’altro, e sarebbe addirittura improprio comparare realtà tanto di-verse, in particolare tra Sette e fine Ottocento. Il libretto di lavoro nellaFrancia del Settecento è un ricordo della schiavitù, e come tale è stato vis-suto dal mondo del lavoro: ben lungi dal rappresentare un riconoscimen-to di dignità, che mette al riparo dal rischio di essere considerato un vaga-bondo, viene percepito come una profonda lesione della dignità stessa,dato rappresenta un tentativo di bloccare la mobilità dei lavoratori cheequipara l’artigiano a un servo di manomorta, a uno schiavo. Di qui laviolenta reazione che scatena: si è disposti ad accettare condizioni di lavo-ro anche peggiori, ma non si accetta il libretto perché rappresenta un co-dice inedito, non condiviso e quindi inaccettabile. Se si pensa agli statutidell’apprendistato, in cui l’apprendista che fugge per statuto e per con-tratto viene ripreso e penalizzato, tutto diventa immediatamente com-prensibile: i lavoranti esperti che hanno ormai superato tale condizione sirifiutano di sottostare a una simile squalifica di status. Il significato dellostesso libretto muta nel tempo: assume il ruolo di espediente per evitareche preziosi segreti produttivi o specifiche abilità vengano esportate all’e-stero, a vantaggio di altri mercati; può rappresentare un sistema per por-tare a termine un lavoro che è costato grandi investimenti al maestro.Dobbiamo tener conto della molteplicità di strategie che possono nascon-dersi dietro a fenomeni in apparenza analoghi, senza turbarci affatto.

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Lo stesso vale per le corporazioni e l’uso che si fa del privilegio. L’u -so spregiudicato del privilegio e del monopolio è un fattore di disciplina-mento del lavoro. Le venditrici di arance di cui trattava Milliot, che di-ventano delatrici per motivi di concorrenza, ci ricordano che la delazio-ne è una strategia di sopravvivenza, nel loro caso, mentre il governo lautilizza come strumento di governo e disciplinamento, nei confronti dilavoratori non omologati. Io trovo affascinante proprio questa plasticità,assai più della possibilità di proporre definizioni, forse proprio perchénon sono uno storico del diritto. Se tuttavia vogliamo proficuamente la-vorare sul lungo periodo, cosa che trovo utilissima, dobbiamo esserpronti a una «ginnastica deontologica» impegnativa.

FLAVIO CARBONE

Io vorrei trattare un tema diverso, in grado di farci passare dall’altraparte della barricata rispetto al tema proposto per questo convegno: in-vece della polizia del lavoro, vorrei focalizzare l’attenzione su chi lavorain polizia. Paolo Grillo ha trattato della corporazione dei macellai che sidedicava espressamente a tale attività; Maria Concetta Basile ne ha parla-to per la Palermo del Settecento. Nella Venezia di antico regime sonovecchi soldati e vedove che fanno attività di controllo e polizia. Ma fare il«poliziotto», lo sbirro sarà sempre prerogativa di categorie disprezzate?Oppure c’è un’evoluzione anche sociale, di status, da reietto, emarginatoche combatte i suoi simili, sino alla figura del funzionario la cui dignità èperlomeno riconosciuta a livello formale?

Un’altra domanda suggeritami dagli interventi ascoltati è la seguente:a partire dall’analisi della modulistica che Peter Becker si ripropone distudiare, e dunque delle procedure interne predeterminate dall’alta poli-zia o dai governi, è possibile ricostruire una storia del lavoro di polizia,per vedere come cambi nel tempo, come si evolvono le strategie di chi fabassa polizia nelle aree urbane e rurali? C’è uniformità, tra città e campa-gna, tra territorio e territorio, oppure si sviluppano delle differenze, e inche modo? Si potrebbe supportare tale analisi attraverso altre fonti, co-me i regolamenti interni di polizia?

Infine, mi chiedo se, nell’ambito delle questioni di polizia di più am-pio respiro, si possano comparare differenti modelli, per capire dal con-fronto se abbiano rappresentato un esempio a cui rifarsi, se siano stati«esportati» altrove, come e perché. Ad esempio, nel caso della polizia diVenezia illustratoci da James Shaw, è possibile ipotizzare un’esportazio-ne di tale modello di polizia premoderna attraverso le rotte commercialidella Serenissima?

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LIVIO ANTONIELLI

Mi pare interessante quest’ultimo richiamo da parte di Flavio Car-bone alla professionalizzazione della polizia. È proprio attraverso diessa, a partire dall’Ottocento, quando la volontà di organizzare una po-lizia in senso moderno è ormai chiara e lo Stato non confonde più ilpiano della giustizia con quello dell’amministrazione, che si rende ne-cessaria l’articolazione di tutta una serie di strumenti in funzione diuna risposta ampia a una serie di bisogni e di domande che la societàha sempre posto, come ben dimostra la bella relazione di Peter Beckerdi ieri: gli sviluppi da lui illustrati sono tutte acquisizioni di una sommadi saperi di polizia, funzionali al raggiungimento di molteplici scopi.Ciò che in precedenza tuttavia emerge è che le diverse funzioni e saperidi polizia erano distribuiti su una varietà di soggetti più ampia, ciascu-no dotato della sua peculiare organizzazione e di un sapere professio-nale specifico. L’organizzazione ottocentesca e novecentesca della poli-zia non andrà a ricoprire tutte le molteplici funzioni precedenti. Adesempio, un corteo di manifestanti ha oggi sempre un suo serviziod’ordine, una sua «polizia» interna, che è depositaria di un sapere spe-cifico, relativo alla gestione dell’ordine pubblico in quello specificofrangente. E così le bande di tifosi ultras delle «curve» degli stadi. Nel-la società di antico regime era molto più chiaro quale fosse il piano diorganizzazione interna delle varie strutture che rispondevano ai molte-plici bisogni della società, strutture più parcellizzate e articolate e alcontempo più autosufficienti.

Una fase di passaggio molto interessante di tutta la vicenda è quellatratteggiata da Germano Maifreda. Quando ormai si è già costituita unamoderna polizia di Stato, nella fabbrica si mantiene ancora a lungo unasorta di principio di extraterritorialità poliziesca, secondo questo conso-lidato schema: l’ordine nella fabbrica non è competenza della polizia diStato, ma degli stessi imprenditori, che sono ancora perfettamente ingrado di provvedervi da soli, purché la struttura terza dello Stato li coa-diuvi e li tuteli, concedendo libertà d’azione e mezzi di supporto, chepermettano all’organizzazione padronale di polizia di funzionare a dove-re. Tale elemento di autosufficienza diventerà sempre più sfuggente emeno rilevante via via che si andrà affermando un maggiore interventi-smo della struttura amministrativa e del Welfare State, una partecipazio-ne sempre più attiva dello Stato e delle sue componenti specializzate allasoddisfazione dei bisogni sociali, bisogni a cui la società, sempre più«nucleare», rinuncerà invece a provvedere. È attraverso questo percorsosociale, istituzionale e culturale che ambiti come quello del lavoro, e nonsolo, diventeranno oggetto della polizia di Stato.

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SIMONA MORI

Mi riallaccio a quanto appena detto da Livio Antonielli per ribadireun aspetto sul quale ho lavorato in questi ultimi anni; cioè il fatto che c’ècomunque un periodo intermedio che ho individuato nella mia relazio-ne. C’è una fase della storia europea in cui le capacità autoregolative del-la società, che sono state operanti per secoli, a partire dal medioevo, en-trano in crisi. Durante tale fase la società fa fatica a riorganizzarsi intornoa nuovi valori, nuovi principi. Fa fatica anche a entrare in rapporto conlo stesso sistema politico, che non è comunque fondato su principi au-tentici di rappresentanza, dunque su politiche espresse dal basso. Du-rante questa fase – che dura un secolo, un secolo e mezzo, tra il Sette e lametà dell’Ottocento, e che in Italia si conclude con l’avvento dello Statoliberale e l’impianto di un sistema di rappresentanza, benché su base as-sai ristretta – la domanda di controllo e di polizia che emerge dalla so-cietà è molto forte e insistente. Non vi è ancora una cultura diffusa di po-lizia. Vi è invece la necessità di individuare un soggetto concreto. In que-sta fase l’apparato di polizia che viene a crearsi è un apparato di Stato,che in quanto tale ha il vantaggio di presentare dei caratteri di equilibrioe di bilanciamento. In questo periodo la polizia, i suoi uffici sparsi sulterritorio, i commissari provinciali e distrettuali, sono a mio parere vera-mente in grado di giocare un ruolo super partes tra i vari attori sociali inconcorrenza e conflitto tra loro. Nella fase successiva, con l’avvento del-lo Stato liberale, pur restando un apparato statale, la polizia restringerà ilsuo raggio d’intervento, concentrandosi su attività più specifiche, e per-derà il suo ruolo di cuscinetto, di ammortizzatore frapposto tra Stato esocietà. C’è dunque un momento, una fase in cui la polizia agisce attra-verso soggetti legittimamente investiti di compiti molto ampi, che solodopo di restringeranno, in Italia dopo la seconda metà degli anni Sessan-ta dell’Ottocento, quando la polizia comincerà a essere relegata in quellache poi diventerà la sua funzione primaria, di supporto alla pubblica am-ministrazione.

VINCENT MILLIOT

Vorrei fare un’osservazione che forse avrà delle conseguenze sul no-stro stesso campo d’osservazione, in particolare per quanto concerne ilperiodo contemporaneo, avventurandomi su di un terreno che quindinon è quello di cui mi occupo specificamente. Possiamo esser forsed’accordo sul fatto che la polizia del lavoro non è necessariamente fattaunicamente di costrizioni e regole che si applicano ai salariati, ma consi-ste anche in regole e imposizioni che i datori di lavoro debbono rispetta-

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re – come nel mondo corporativo è il caso dei maestri delle arti e mestie-ri, dei maestri di bottega –, regole chiaramente enunciate negli statuticorporativi. Continuando a ragionare con la stessa modalità, si può arri-vare a interrogarsi sul modo in cui i datori di lavoro devono rispettare efar applicare la legislazione sociale all’interno della propria impresa: adesempio per lottare contro gli effetti dannosi del rumore, potrebbero es-sere obbligati a dotare di caschi antirumore i propri impiegati; tale obbli-go avrà delle conseguenze sul modo di lavorare dei salariati, che sarannoa loro volta obbligati a indossarli, altrimenti saranno essi stessi a com-mettere un’infrazione. Mi domando dunque in quale misura, in un’acce-zione di polizia del lavoro che tornerebbe a essere estensiva, si potrebbesconfinare in direzione di quelle istanze multiple che avevo evocato pri-ma, che per l’età contemporanea potrebbero essere la medicina del lavo-ro e l’ispezione dei luoghi di lavoro, da parte di istituzioni che sono deltutto formali nel caso della Francia – ma questo è un altro problema.

PETER BECKER

Vorrei aggiungere una piccola nota a margine della discussione, sultema del controllo del lavoro. Andrea Romano, riguardo alla definizio-ne di lavoro che ci ha inizialmente fornito, ha osservato com’essa cambinel corso del tempo, da una concezione di lavoro come espressione distatus, propria dell’età medievale, a una sempre più orientata verso laproduzione di reddito, come fonte di reddito, che rappresenta una defi-nizione assai più aperta della precedente. Penso in effetti che la defini-zione di lavoro dovrebbe essere ispirata a criteri di maggiore apertura,sebbene una definizione più aperta comporti maggiori difficoltà neltracciare una precisa linea di demarcazione tra attività considerate lavo-rative e non. In proposito vorrei richiamare la vostra attenzione su di undibattito ottocentesco di grande interesse, che assunse rilevanza ancheper la polizia del periodo, svoltosi nell’ambito di quei circoli di econo-misti che per primi cominciarono a teorizzare la liberalizzazione politicadel lavoro introducendo nuovi criteri di definizione, che più oggettiva-mente individuavano il lavoro come fonte di reddito. Molteplici eranole tipologie di attività lavorativa che avrebbero potuto aderire a tale cri-terio. In proposito ricordo il sorprendente esempio di alcuni interroga-tori ottocenteschi di polizia, durante i quali i poliziotti dovettero con-statare con stupore come i criminali di professione si riferissero alle loroattività illecite come a un vero e proprio lavoro, in quanto fonte di red-dito: una concezione che ben si sposava con le teorizzazioni degli eco-nomisti sopra ricordati, ma che comportava anche sconcertanti conse-guenze a livello politico.

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Sebbene sia evidente che attività di furto e rapina non possano essereconsiderate politicamente come un vero e proprio lavoro né tanto menoessere oggetto di alcuna regolamentazione, per altre tipologie di attivitàcriminale la cosa avrebbe anche potuto avere un senso: ad esempio, nelcaso della prostituzione, che avrebbe potuto essere regolamentata, comeaccadeva nel caso di altre professioni, e assoggettata a un diverso tipo diregime. L’aspetto più importante di tutta la vicenda è tuttavia che l’appli -cazione del criterio del profitto avrebbe comportato, dal punto di vistatanto della polizia che del legislatore, l’adozione di un nuovo sistema divalori. Ritengo che questa sia una nozione che non è sinora emersa espli-citamente dal nostro dibattito: ovvero che le direttive che guidano l’azio -ne della polizia variano in rapporto al sistema di valori vigente, in rap-porto alla società che lo esprime, in rapporto ai conflitti che si scatenanotra i vari attori storici per definirlo; sistema di valori che può mutare nelcorso del tempo e ridefinirsi, ma al quale il sistema di polizia è costrettonecessariamente a fare riferimento. Ad esempio, sebbene gli abolizionistiche volevano abolire o regolamentare la prostituzione la considerasserocome una professione, un mestiere «normale», la polizia continuò a qua-lificarla come un’attività criminale. Penso quindi che, rispetto alla defini-zione iniziale che ha contrapposto Stato e lavoro come categorie astratte,occorrerebbe introdurre come criterio d’analisi, specialmente per l’Otto -cen to, anche il sistema di valori.

ROSAMARIA ALIBRANDI

Volevo raccogliere solo un paio delle numerose suggestioni forniteda Germano Maifreda, a proposito della fabbrica che si fa carico diistanze igienico-sanitarie e dello spazio della fabbrica pervaso dall’osses-sione igienista. Maifreda affermava che non a caso i medici del lavoro ri-vendicano una loro presenza all’interno della fabbrica. Io aggiungereiche non a caso i medici del lavoro partecipano al dibattito politico e, so-prattutto, mettono in atto una vera e propria militanza politica. La medi-cina sociale dei Pieraccini, dei Rossi Doria si contrappone alla medicina«politica» di Baccelli, per esempio. L’utopia igienista viene quindi ascontrarsi con la politica e la sua ragion pratica. L’ideale igienista di voltain volta sarà o svenduto o utilizzato dalle ideologie del potere.

GERMANO MAIFREDA

Il problema della cultura, a mio parere, è soprattutto una questionedi definizione ex ante, più che di giustificazione ex post. Io la volevo por-

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re come una spiegazione, come un problema di definizione iniziale assaiampio, il più possibile inclusivo, perché in fondo la domanda «che cos’èla polizia?» resta sul tappeto e non può essere esaurita dalla risposta amio parere un po’ tautologica «la polizia è chi si proclama poliziotto».Una definizione di carattere culturale deve essere a mio giudizio moltoampia, in grado di contemplare tutta una serie di oggetti che altrimentiresterebbero esclusi se ci tenessimo a una definizione puramente funzio-nalista. Dopodiché, la cultura non è una notte in cui tutti i gatti diventa-no bigi. È invece il trionfo della discontinuità. È importantissimo quantoaffermato da Maria Luisa Betri: la grande difficoltà incontrata dall’indu-strializzazione è una riprova proprio di questa discontinuità. Culturanon vuol dire «annegamento» indistinto, ma margini ampi sui quali ap-poggiare le nostre considerazioni in maniera più inclusiva. La mia è dun-que un’istanza di inclusione.

MARIA LUISA BETRI

Vorrei fare una breve postilla, una considerazione a margine dellaquestione della medicina del lavoro così come si sviluppa nella secondametà dell’Ottocento, soprattutto nel caso italiano. Si pone infatti il pro-blema del rapporto tra una scienza medica che matura ed estende lasua sfera di intervento, in relazione allo sviluppo della medicina a livel-lo europeo, e l’autorità pubblica, che deve invece incidere su quella chesarà definita la «questione sanitaria» nella seconda metà dell’Ottocen-to. La medicina del lavoro non è un fenomeno che prende piede in etàpostunitaria, ma ha le sue radici nella prima metà del secolo. GermanoMaifreda ha prima ricordato il trattato di Ramazzini. Ma già nella pri-ma metà dell’Ottocento esiste una medicina attenta a rilevare le condi-zioni igienico-sanitarie nelle manifatture e in alcuni settori produttivi,almeno nel caso lombardo. A partire da tale matrice, nella seconda me -tà del secolo intervengono fattori ambientali e igienici che provoche-ranno violente epidemie, facendo emergere la questione sanitaria comeuno dei problemi più esplosivi dell’Italia postunitaria, insieme a quellopiù vasto della questione sociale. La medicina dunque di conseguenzasi attrezza e si specializza, saldandosi all’intervento dell’autorità pubbli-ca. Quello tra nuova scienza medica e Stato si rivelerà in seguito unrap porto assai controverso, di amore/odio, come ben sappiamo, perchéle competenze della scienza medica e l’incisività del suo intervento a -vranno un riscontro solo assai limitato nell‘ambito dell’intervento pub -blico. La medicina del lavoro si svilupperà nell’ambito di questo con-troverso rapporto.

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KARL HÄRTER

Vorrei intervenire sul problema che ha toccato Peter Becker poc’anzie a cui si è fatto riferimento anche all’inizio della discussione. Nel XIX enel XX secolo penso che esistesse una diversa concezione del tempo la-vorativo e del tempo libero. Se si analizzano con attenzione i compitidella polizia otto-novecentesca, vediamo come spesso quest’ultima ac-centri la sua attenzione soprattutto sul tempo libero dei lavoratori. Nonsi trattava quindi di disciplinare i lavoratori nel loro ambiente di lavoro,ma di disciplinare il loro tempo libero in armonia con l’universo mentaleborghese, affinché i lavoratori non commettessero atti incompatibili conla morale borghese anche al di fuori della fabbrica. Tale constatazione sicollega a una seconda questione. Abbiamo trattato anche del disciplina-mento di lavoratori girovaghi, in movimento, e detto come questo fosseuno dei compiti principali della polizia. Il controllo della mobilità del la-voro concerne attività molto diverse, più o meno socialmente integrate.Nel caso di lavoratori non integrati nella società, non integrati nella cor-porazione, mobili, che persino in pieno Ottocento non lavorano in fab-brica, si sviluppano idee anche opposte su cosa sia il disciplinamento ditali attività, se possa esistere o meno un disciplinamento della mobilitàdel lavoro. A me questa pare una specifica e importante questione, che siriflette sulla definizione dei numerosi compiti e sulla costituzione dellediverse forze di polizia.

ANDREA ROMANO

Vorrei tornare sulla concezione di polizia, un aspetto che abbiamodiscusso spesso nel corso dei nostri convegni annuali, chiedendoci cosasia la polizia. Ogni qualvolta muta la prospettiva di indagine e l’argo -men to trattato, ci troviamo di fronte a una concezione diversa di cosa siapolizia, magari con qualche problema ulteriore da risolvere. È il caso adesempio della medicina del lavoro, che non è un problema di polizia, madi salute pubblica. Consideriamo ad esempio la vicenda dell’amianto,impostasi in tutta Europa proprio a partire dalla questione della salu-brità dei luoghi di lavoro: si tratta di un problema di salute pubblica, di-ventato anche un problema sociale, tanto che si è deciso per l’eliminazio -ne totale dell’amianto da ogni struttura ed edificio pubblico o privato.La polizia interviene in questi casi non perché abbia una specifica fun-zione in ordine alla tutela della pubblica salute, ma in quanto il principa-le compito della polizia è dare attuazione alle politiche dello Stato e allesue leggi. Divagare tra il concetto di polizia in antico regime e quello at-tualmente operante nella nostra contemporaneità può quindi ingenerare

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qualche piccola confusione, perché si tratta di comparare ruoli necessa-riamente differenti in rapporto a società profondamente diverse.

Tutta la questione ruota intorno, a mio parere, al problema – oggi for-se assai meno discusso che in passato – dello Stato moderno in rapportoallo Stato sociale e contemporaneo: a seconda di come lo Stato si atteggiae si pone nei confronti del cittadino, muta il concetto di polizia. In questosenso, sempre a proposito della medicina del lavoro e di quanto afferma-to da Rosamaria Alibrandi prima, potrebbe essere forse illuminante com-parare ruolo e organizzazione della polizia negli Stati Uniti di America alruolo e all’organizzazione della polizia italiana e tedesca: ci troveremmodi fronte strutture e organizzazioni diverse, perché diversa è la concezio-ne di Stato e del suo ruolo. Se in Europa il divieto di fumare si impone neipubblici locali attraverso dei cartelli di avviso agli avventori e la commi-nazione di multe ai gestori che trasgrediscono il divieto, in America è in-vece il singolo cittadino a chiedere in tribunale un risarcimento di dannimilionario a chi fuma o consente agli avventori di fumare nel suo eserci-zio. Diverso è l’approccio, diverso è quindi il ruolo della polizia.

Vorrei infine ringraziare la Facoltà di scienze politiche di cui sonopresidente e che quest’anno per la prima volta ha ospitato il nostro con-vegno. Un convegno che anche in quest’occasione è stato per me fontedi grande soddisfazione, per la dialettica costruttiva che lo connota, inparticolare attraverso la discussione, confermando la bontà della meto-dologia adottata, di cui è artefice Livio Antonielli: mettere a confrontogruppi di lavoro affinché discutano i risultati delle loro ricerche, siaquelle ancora in corso di elaborazione che quelle già conclusive (chespes so traggono ispirazione le une dalle altre per proseguire o essere ria-perte). Giovani ricercatori e storici affermati trovano in questi convegniun momento autentico e intenso di dialogo, ricordandoci cosa dovrebbeeffettivamente essere l’università europea: un luogo dove riunire personeche, indipendentemente dalla loro collocazione nella gerarchia dei sape-ri, insieme studiano e al contempo ricercano e si trasmettono informa-zioni reciprocamente. È una concezione antica, che trova le sue origininel medioevo europeo; una concezione «alta» di università, un’esperien-za culturale plurisecolare di cui la tradizione europea dovrebbe esserefiera, ma che purtroppo anche qui in Europa si va ora perdendo. Il ri-schio è quello di inseguire forme di modernizzazione che non ci appar-tengono, per vedere l’università diventare un luogo dove si trasmettonosolo nozioni acquisite e cristallizzate acriticamente. La quantificazione«tabellare» delle pagine, delle ore di studio, dell’attività didattica, la pre-determinazione dei contenuti ridurrebbe l’università a una scuola supe-riore, in grado forse di istruire, ma non di formare ricercatori e trasmet-tere una cultura continuamente aggiornata dal confronto tra giovani evecchi maestri e allievi, compiti che dovrebbero essere il suo più autenti-

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co obiettivo. Sotto questo profilo il nostro seminario di studi è senz’altrotradizionale, e ben vengano le tradizioni di tal fatta, con un radicamentoculturale forte e ottime prospettive per il futuro.

LIVIO ANTONIELLI

Grazie in primo luogo al Dipartimento di storia e comparazione de-gli ordinamenti giuridici e politici di Messina che ci ospita. Son semprefelice di tornare qui a Messina dove ho lavorato, per i rapporti di profon-da amicizia e di affetto che si sono creati e che ogni anno mi consentonodi organizzare, anche da grande distanza, il nostro incontro con una faci-lità che nella sede di Milano in cui attualmente insegno non sarebbe pos-sibile. Grazie dunque a tutte le persone che collaborano alla realizzazio-ne del convegno, molte delle quali sono diventati attivi ricercatori nelcampo d’indagine della polizia. Grazie anche a tutti i partecipanti. Il miointento è quello di proseguire senz’altro la serie dei nostri incontri fino ache ci sarà lo stesso entusiasmo scientifico da parte vostra, sia da parte dicoloro che ormai seguono da anni il nostro seminario e ne conoscono be-ne le modalità, sia da parte di quanti vi partecipano per la prima volta.Un deficit che mi faceva notare Andrea Romano e che io stesso ho ri-scontrato oggi, a cui porremo rimedio, è il seguente: alcuni nuovi parte-cipanti non hanno avuto modo di conoscere adeguatamente tutti i lavoripregressi, attraverso una migliore distribuzione del materiale scientificoprodotto, frutto dei nostri incontri passati, per cui alcune acquisizionigià fatte nel corso del nostro work in progress sono state rimesse in di-scussione, oggi, dopo esser state già ampiamente trattate nei seminariprecedenti. Da parte mia cercherò di abbreviare i tempi di pubblicazio-ne degli atti. Grazie a tutti gli sponsor di questa iniziativa, il cui aiuto ètanto più prezioso in questi momenti economicamente così difficili perle iniziative scientifiche e accademiche. Nel nostro caso, son già due anniche il progetto di ricerca non riceve alcun sostegno finanziario da partedell’università e del ministero, a cui apparterrebbe propriamente il com-pito di sostenerlo, mentre abbiamo dovuto ricorrere a fonti di finanzia-mento che in parte dobbiamo definire «improprie», a cui si riesce ad ac-cedere, ma che non sarebbero specificamente destinate a tale scopo. Èquesto un altro forte limite che purtroppo va ad aggiungersi al graveproblema denunciato poc’anzi da Andrea Romano: quello di un’univer-sità che trova sempre maggiori e insormontabili difficoltà a svolgere isuoi compiti istituzionali. A meno che davvero, nel profondo, in manierainespressa, non si voglia che questi non siano più i suoi compiti istituzio-nali, che i suoi compiti istituzionali diventino altro: cioè un semplicecompletamento dell’istruzione liceale, in una realtà in cui i veri e propri

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licei sono sempre meno numerosi, invece di una ricerca funzionale all’ac-crescimento delle conoscenze generali, attraverso un confronto – quelloche si tenta di fare in questa sede – tra vari poli di ricerca. Come tutti i ri-cercatori sanno, anche i poli di ricerca più prolifici, abbandonati a séstessi, in una decina d’anni si isteriliscono. L’unica via per tener viva la ri-cerca è il confronto internazionale, in un ambito di competenze e di pro-venienze diversificate: un modello plurisecolare e plurigenerazionale diproduzione e sviluppo del sapere che sinora non ha trovato forme alter-native altrettanto efficaci per esprimersi e che è nostro compito tenere invita e salvaguardare. Grazie dunque anche in questo senso. Mi pare cheanche quest’anno il bilancio del nostro seminario sia stato scientifica-mente positivo. Sulla base della discussione di oggi cercherò di definireper tempo il tema del nostro prossimo incontro. Spero quindi, per ilprincipio di «circolarità» che contraddistingue la partecipazione ai no-stri convegni, di riavervi tra i presenti del prossimo anno, quando, insie-me a nuovi partecipanti, torneranno anche studiosi che hanno già parte-cipato ma che in questa occasione non sono potuti venire.

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Indice degli interventi alla discussione

Rosamaria Alibrandi, 195, 213

Livio Antonielli, 191, 210, 217

Peter Becker, 212

Maria Luisa Betri, 189, 214

Haim Burstin, 187, 214

Flavio Carbone, 209

Paolo Grillo, 194

Gabriele Guarisco, 200

Karl Härter, 198, 215

Germano Maifreda, 201, 213

Vincent Milliot, 204, 211

Simona Mori, 199, 211

Andrea Romano, 183, 189, 190, 198, 215

James E. Shaw, 199

Irene Stolzi, 193

Leonida Tedoldi, 196, 207

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Indice

Livio AntonielliIntroduzione p. 5

Paolo GrilloAlcune note su associazioni di mestiere e compiti di «polizia» nei Comuni dell’Italia settentrionale (secoli XIII-inizi XIV) 9

James ShawInteressi privati e polizia dei mercati a Venezia, secc. XVI-XVII 23

Mariaconcetta BasileConsolati stranieri e ordine pubblico nella Sicilia del Settecento 37

Vincent MilliotLa police des métiers ambulants et des métiers non corporés de Paris au 18e siècle 47

Peter BeckerReading the signs of work on the body: the police facing people on the move 63

Simona MoriDal benservito al libretto di scorta. Mobilità del lavoro e pubbliche discipline nella Lombardia preunitaria 81

Germano MaifredaLibertà e controllo. La disciplina ottocentesca dello spazio di fabbrica tra costruzioni giuridiche e regolamenti interni 117

Christian LepageLa police confrontée aux mouvements sociaux en Belgiquedurant la période industrielle (1830-1914) 137

Benoît MihailLa répression des troubles sociaux dans la Belgique du XIXe siècle: un aperçu de la question p. 141

Enza Pelleriti«Una specie di abbietto mestiere». Polizia sanitaria e prostituzione nella Sicilia dell’Ottocento 151

Irene StolziCostruire l’armonia: scienza giuridica e polizia del lavoro nella progettazione corporativa fascista 165

Discussione 183

Indice degli interventi alla discussione 219

Finito di stampare nel mese di ???? 2011dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali

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