il velo dell’altrove. piccole apologie della velocità cinematografica: tango di zbigniew...

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32 n. 159 Il velo dell’altrove Piccole apologie della velocità cinematografica: “Tango” di Zbigniew Rybczynski e “Fast Film” di Virgil Widrich di Marco Bellano [L’invenzione dei Lumière] è un caso particolare [del cinema d’animazione], una sorta di sostituto industriale a buon mercato 1 . Se prendiamo in mano e osserviamo una pellicola cinematografica in controluce ve- diamo questi fotogrammi come fotografie isolate, prive di movimento, statiche. E non c’è differenza tra un film d’animazione e un film “dal vero”. Ambedue sono composti appunto di fotogrammi, o, se si vuole, di immagini (magari disegnate o manipolate o vuote) che si “animeranno” solo al momento della proiezione. […] Si tratta […] di elementi statici che diventano dinamici attraverso un processo particolare che, per comodità e tradizione, chiamiamo “cinematografo”. La mia proposta ora è quella di chiamarlo “animazione”: un processo di animazione dell’immagine che rimane tale, al di là dei mezzi tecnici con cui è realizzato 2 . Da luoghi e tempi completamente diversi, un professionista del cinema (l’animatore russo Alexandre Alexeïeff) ed uno storico (Gianni Rondolino) esprimono sulla cinema- tografia d’animazione un giudizio lusinghiero quanto – probabilmente – inaspettato ai più. O, almeno, inaspettato in Italia, Paese al pari di altri ancora sotto l’influenza di un’atavica percezione per cui un film “d’animazione”, indipendentemente dai suoi contenuti e per il semplice fatto di essere realizzato con tale tecnica, è automatica- mente soggetto a subordine gerarchico rispetto a qualsiasi opera filmica fotografata “dal vero”. Rondolino, ben consapevole di tale stato delle cose, si affretta subito a chiamare la sua proposta “provocatoria”, prendendo virtualmente le distanze dal massimalista Alexeïeff, la cui affermazione sulla maggiore sbrigatività economica (in senso produttivo e monetario) del cinema Lumière rispetto a quello “animato” è tuttavia ben lontana dall’essere infondata. È sterile, in realtà, dibattere sul primato dell’una o dell’altra tecnica all’interno del panorama della cinematografia mondiale: ciò che occorre trarre dai contributi di Alexeïeff e Rondolino è invece un invito ad una disposizione critica che sia quanto più neutrale e non appesantita da pregiudizi nei confronti delle tecniche tramite cui mostrare un’azione su schermo. Evitare di separare strettamente lo studio della pro- duzione filmica “animata” da quello “fotografico” potrà così portare a contaminazioni e scambi di sapere potenzialmente fruttuosi tra i due àmbiti teorici. Rondolino intravede un luogo privilegiato di contaminazione concettuale nell’idea stessa di “animazione”, Analisi 1

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n. 159

Il velo dell’altrovePiccole apologie della velocità cinematografica: “Tango” di Zbigniew Rybczynski e “Fast Film” di Virgil Widrich

di Marco Bellano

[L’invenzione dei Lumière] è un caso particolare [del cinema d’animazione], una sorta di sostituto industriale a buon mercato1.

Se prendiamo in mano e osserviamo una pellicola cinematografica in controluce ve-diamo questi fotogrammi come fotografie isolate, prive di movimento, statiche. E non c’è differenza tra un film d’animazione e un film “dal vero”. Ambedue sono composti appunto di fotogrammi, o, se si vuole, di immagini (magari disegnate o manipolate o vuote) che si “animeranno” solo al momento della proiezione. […] Si tratta […] di elementi statici che diventano dinamici attraverso un processo particolare che, per comodità e tradizione, chiamiamo “cinematografo”. La mia proposta ora è quella di chiamarlo “animazione”: un processo di animazione dell’immagine che rimane tale, al di là dei mezzi tecnici con cui è realizzato2.

Da luoghi e tempi completamente diversi, un professionista del cinema (l’animatore

russo Alexandre Alexeïeff) ed uno storico (Gianni Rondolino) esprimono sulla cinema-

tografia d’animazione un giudizio lusinghiero quanto – probabilmente – inaspettato

ai più. O, almeno, inaspettato in Italia, Paese al pari di altri ancora sotto l’influenza

di un’atavica percezione per cui un film “d’animazione”, indipendentemente dai suoi

contenuti e per il semplice fatto di essere realizzato con tale tecnica, è automatica-

mente soggetto a subordine gerarchico rispetto a qualsiasi opera filmica fotografata

“dal vero”. Rondolino, ben consapevole di tale stato delle cose, si affretta subito a

chiamare la sua proposta “provocatoria”, prendendo virtualmente le distanze dal

massimalista Alexeïeff, la cui affermazione sulla maggiore sbrigatività economica

(in senso produttivo e monetario) del cinema Lumière rispetto a quello “animato” è

tuttavia ben lontana dall’essere infondata.

È sterile, in realtà, dibattere sul primato dell’una o dell’altra tecnica all’interno

del panorama della cinematografia mondiale: ciò che occorre trarre dai contributi

di Alexeïeff e Rondolino è invece un invito ad una disposizione critica che sia quanto

più neutrale e non appesantita da pregiudizi nei confronti delle tecniche tramite cui

mostrare un’azione su schermo. Evitare di separare strettamente lo studio della pro-

duzione filmica “animata” da quello “fotografico” potrà così portare a contaminazioni e

scambi di sapere potenzialmente fruttuosi tra i due àmbiti teorici. Rondolino intravede

un luogo privilegiato di contaminazione concettuale nell’idea stessa di “animazione”, Anal

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Analisi 1

Storyboard di Tango (1980) di Zyngniew Rybczynski

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intesa come “messa in moto” di immagini altrimenti statiche. Si potrebbe precisare

tale idea suggerendo che, prima ancora dell’animazione in sé (che è un effetto della

proiezione), le due tecniche massime del cinema sono accomunate da ciò che dell’ani-

mazione è causa, ovvero la rapidità di scorrimento della pellicola, combinata con il

fremere di aperture e chiusure dell’otturatore; in altre parole, la velocità.

È precisamente un simile invito ad uno sguardo imparziale ed al tempo stesso pene-

trante, fisso sulle convergenze segrete tra cinema fotografico e d’animazione, quello che

appare trapelare dai fotogrammi di due piccole opere cinematografiche, separate da

un arco temporale di poco più di vent’anni, ma accomunate da un paragonabile acume

nel fare delle immagini in movimento veicoli di riflessione e critica sull’arte filmica.

Risale al 1980 Tango, di Zyngniew Rybczynski: anno in cui il regista polacco, gio-

vane artista del Dipartimento della Forma cinematografica della scuola di cinema di

Lodz3, non proponeva ancora al suo pubblico le ardite sperimentazioni d’immagini

elettroniche che, di lì a poco, avrebbero reso noto il suo nome. La sua produzione

comprendeva bensì una serie di intriganti lavori basati su tecniche d’animazione, ed

in particolare sulla cosiddetta stop motion animation: una maniera di muovere le

immagini fondata su fotografie, riprese tuttavia una per volta, e non tramite l’automa-

tismo sequenziale della macchina da presa. In tal modo, diventa possibile far muovere

sullo schermo anche corpi inerti: è sufficiente scattare una foto al soggetto prescelto,

dopodiché cambiare lievemente la sua posa nella maniera desiderata, effettuare un

nuovo scatto, e così via. La proiezione in velocità si occuperà di creare, ad operazione

conclusa, il movimento.

Rybczynski, già esperto di tale tecnica, come testimoniano cortometraggi quali Soup

(1974), Oh No I Cannot Stop! (1976) e Media (1980), trova in Tango la maniera di

proporre una provocatoria variazione sul tema della stop motion animation: la pixil-

lation, in cui si sottopongono a tale procedimento non oggetti inanimati, bensì figure

che sarebbe stato più rapido e naturale trasformare in immagini mobili mediante

normali riprese cinematografiche: esseri umani. Con la pixillation (nome che allude

al termine inglese pixie, indicante piccole creature magiche immaginarie), è possibile

dare ai movimenti di corpi umani una qualità ed una fisicità impossibile in natura, e

per questo idealmente “magica”.

Innaturali perché rallentati ed impercettibilmente lacunosi, i movimenti dei “prota-

gonisti” di Tango non raccontano alcuna storia, bensì si limitano ad esibire sé stessi,

costruendo quasi un saggio scientifico, una sociologia decostruzionista dedicata agli

atteggiamenti più stereotipici della vita quotidiana. Così, uno spazio familiare e ripreso

frontalmente con un’unica inquadratura fissa (una stanza qualsiasi dotata di una fine-

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stra sulla parete di fondo, due porte su quelle laterali, un armadio a muro a sinistra,

un letto a destra ed un tavolo con una sedia al centro) si trasforma per otto minuti

circa in ideale palcoscenico per una singolare danza di burattini umani; un luogo che

tuttavia Goffman avrebbe forse preferito definire retroscena4, viste le attività svolte

dagli individui. Inizialmente, una palla entra dalla finestra: un ragazzino scavalca il

davanzale per recuperarla, dopodiché esce. L’azione si ripete, più volte; poi una don-

na che allatta un neonato apre una porta: non sembra accorgersi del ragazzino che

continua meccanicamente ad entrare ed uscire con la sua palla. La donna se ne andrà

da dove era venuta, per rientrare immediatamente e ripetere il suo ciclo di azioni. La

seguiranno poco a poco, tutti ugualmente bloccati in ripetizioni infinite dei loro compiti,

un ladro che trafuga una valigia, un anziano che mangia una minestra, un uomo che

cambia una lampadina, prendendo la scossa, una donna che si veste, una coppia che

amoreggia: al culmine del cortometraggio, ben trentasei azioni diverse hanno luogo

nella stanza, tutte indipendenti ed isolate l’una dall’altra. Solo in conclusione, i perso-

naggi escono per non rientrare più in scena: rimane solo un’anziana sdraiata sul letto

che, sorprendentemente, ha la facoltà di vedere la palla, raccoglierla ed uscire dalla

porta sulla destra. A commento di questa surreale pantomima, il ritmo incessante ed

ipnotico di un tango, sovrapposto alle costanti ripetizioni dei suoni prodotti dai vari

“attori” nei loro cicli di azione.

Analisi 1

Tango (1980)

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Diverse sono state le interpretazioni date a Tango5, che forse anche alla sua po-

livalenza intellettuale ha dovuto il premio Oscar assegnatogli nel 1981: si è parlato

di un omaggio alle tecniche artigianali di effetto speciale del cinema di Méliès o a

certe esibizioni del puro movimento tipiche di certe avanguardie storiche6; si sono

chiamate in causa riflessioni sulla relatività spazio-temporale o, più semplicemente,

si è tentato di vedere nell’astratta impeccabilità combinatoria degli attori-marionette

una rappresentazione figurativa dell’arte musicale7. Ai fini del discorso sulla velocità

dell’immagine, appare tuttavia opportuno tralasciare ora questi spunti, per concentrarsi

su un suggerimento d’analisi avanzato da Alessandro Amaducci8.

È illuminante, a questo proposito, una dichiarazione dello stesso regista:Tango non era stato concepito esattamente come un film d’animazione, ma non c’era modo di rappresentare l’idea con altrettanta efficacia, così ho fatto uso delle tecniche quali lo stop motion e la pixillation. Non mi piace distinguere fra pellicole impressiona-te a velocità diverse. Ventiquattro fotogrammi al secondo, di fatto, è un forma di stop motion: da fotogramma a fotogramma, ci sono delle interruzioni di movimento9.

Rybczynski coglie, tra le righe, la sostanziale equivalenza tecnica tra cinema “dal

vero” ed animazione: nella sua visione, l’unica differenza tra le due forme pare essere

precisamente la velocità di scorrimento dei fotogrammi. Il cinema “tradizionale”, più

“veloce”, sa celare meglio le interruzioni, la parcellizzazione del flusso visivo; l’ani-

mazione, parimenti parcellizzata nell’intimo, ha semplicemente minor “pudore” nel

mostrare la propria vera natura.

Gli “attori” di Tango, a detta del regista, sono stati sottoposti a pixillation solo in

nome di un’idea, di un’orchestrazione visiva che con tecniche di ripresa tradizionali

non sarebbe stata possibile. Eppure qualcosa, nella messinscena, sembra tendere ir-

resistibilmente a fare del cortometraggio un sorta di sfida ammiccante alla “ipocrisia”

del cinema dal vero, che nasconde le sue fratture dietro la velocità.

Ad un primo, superficiale livello, i personaggi appaiono innanzitutto completamente

isolati l’uno dall’altro, condannati all’incomunicabilità nonostante la condivisione di

uno spazio comune: come fotogrammi su una pellicola, si potrebbe azzardare, tutti

parte dello stesso supporto ma inesorabilmente separati, e condannati ad un virtual-

mente eterno e ciclico scorrimento all’interno delle bobine di un proiettore.

Se i “manichini” umani di Tango possono dunque leggersi come simulacri mobili resi

simboli della materia statica di cui è fatto il cinema, è precisamente nei loro movimenti

che la polemica allegoria viene svelata. La pausa, l’interruzione nella fluidità realistica

dell’azione, diventa infatti fenomeno strutturale della rappresentazione, costringendo

continuamente a ricordarsi dell’immanente staticità delle foto componenti i cicli di

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comportamento che appaiono sullo schermo.

Tuttavia, in fondo, i personaggi si muovono: in un modo e in un mondo alludenti

certamente ad una fissa artificialità (la stanza non è una foto, ma un disegno), ma che

non impediscono il perpetuarsi dell’illusione dell’azione. Ecco allora che diventa più

opportuno cambiare punto di vista, e smettere di considerare le “interruzioni” del

movimento i luoghi in cui Rybczynski tenta di denunciare l’inganno della velocità

dell’immagine. Più interessante diventa, invece, leggere quelle imperfezioni nella

fluidità come indizi per un’operazione critica ben più sottile.

I momenti di fissità che i burattini fotografici mostrano all’interno della stanza, a

ben guardare, non sono infatti le infrazioni più eclatanti che vengono compiute nei

confronti della messinscena cinematografica. Ciascun loop dei personaggi è infatti

gravato da una pausa segreta nel movimento, ben più importante ed estesa di quelle,

rapide e sporadiche, di cui lo spettatore si rende conto. È la pausa che intercorre tra

l’uscita di scena e il successivo rientro di ogni attore.

Nei momenti in cui le figurine ritagliate da Rybczynski escono di campo, infatti,

necessariamente esse non compiono alcun movimento, essendo non rappresentazioni

fotografiche di esseri umani, ma ripetizioni stilizzate di tali rappresentazioni: mate-

riali di repertorio che non possiedono altra “vita” oltre a quella costruita ed esibita

dal regista sullo schermo.

Le grandi pause invisibili, solo timidamente imitate dalle irregolarità nella fluidità

dei cicli, sono il dispositivo tramite cui si consuma il più grande assalto alla concezione

stereotipata della velocità dell’immagine. Tali stacchi ipertrofici avvengono infatti in

un luogo diverso da quello della rappresentazione primaria (la stanza), in un altrove

che giammai allo spettatore sarà dato raggiungere. Se, come spiegato in precedenza,

la stanza di Tango è un sociologico retroscena per la diegesi del cortometraggio, gli

spazi occulti oltre porte e finestra sono invece i retroscena del film inteso come tec-

nica. Sono i luoghi dove l’immagine ha il permesso di fermarsi, e di essere provata,

modificata, preparata prima dell’ingresso sul palcoscenico-schermo, dove si esibirà il

movimento; sono i recessi irraggiungibili ed indispensabili dove ogni film nasconde

l’idea platonica della sala di montaggio.

È così fuori dal quadrilatero dello schermo che Tango sa lanciare la sua più auten-

tica provocazione: ricordare che è solo grazie alla manipolazione non dichiarabile di

immagini immobili che ciascun audiovisivo può vantarsi di saper raccontare di moti

e di velocità. Ciascuno dei “ballerini” impegnati in questo Tango potrà anche esibire

i più complessi virtuosismi dinamici delle arti coreografiche: mai, tuttavia, potrà

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dimenticarsi di essere destinato allo statico altrove da cui proviene e da cui tutto il

cinema trae la sua vitalità illusoria.

Le sottigliezze degli spunti presenti in Tango, ad un primo sguardo, non sembrano

trovare eco nell’altro testo che si è scelto come oggetto d’analisi, Fast Film: il quale

appare invece ben più frivolamente esplicito sul tema della “velocità dell’immagine”,

con un titolo che è già una dichiarazione d’intenti ed un contenuto che non è solo

sperimentazione visiva, ma anche un gioco spensierato e gioiosamente superficiale

con i più tipici stereotipi narrativi del cinema classico hollywoodiano.

Il cortometraggio sembra inizialmente impostarsi come un video basato sul found

footage: frammenti di film d’epoca sono montati tra loro costruendo fittizi raccordi di

sguardo, sull’asse e di movimento. D’un tratto, l’imprevisto: l’immagine inizia a squar-

ciarsi, e a ripiegarsi su se stessa, come un foglio di carta bidimensionale. L’eroina del

film si ritrova imprigionata in una sorta di cassa quadrangolare, sulla quale immagini

filmiche continuano a muoversi: l’eroe assiste impotente alla trasformazione della

cassa in quella che pare essere la versione origami di un vagone ferroviario, fatto di

frammenti di film. Nel frattempo, la stanza in cui si stava svolgendo l’azione si “strappa”

letteralmente, rivelando un tipico paesaggio da Far West. Da questo momento in poi,

la narrazione procede freneticamente: l’eroe (“interpretato” da attori continuamente

cangianti, da Humphrey Bogart a Gene Kelly, da Cary Grant a Sean Connery) si lancia

all’inseguimento dell’eroina (anch’essa priva di un volto fisso), su un treno in corsa,

poi in automobile, affrontando scienziati pazzi e battaglie aeree, fino al conclusivo

“arrivano i nostri”, al quale segue l’immancabile lieto fine.

È unicamente pellicola cinematografica, la materia di cui è fatto il mondo di Fast

Film; o meglio, si tratta di fotogrammi ricavati da circa quattrocento film diversi,

stampati singolarmente e poi piegati e ripiegati per costruire oggetti come treni, aerei,

macchine da tortura, che una volta fotografati e proiettati alla giusta velocità ripropon-

gono sulle loro superfici le azioni fotografiche dei film originari. Così, ad esempio, una

sequenza che mostra John Wayne in tenuta da pilota viene proposta su un aeroplano

di carta, e via dicendo: scenografie ed oggetti sono stati fotografati dal regista con un

macchina digitale Canon EOS D30 con risoluzione 2048x1536 pixel, poi trasferiti su

computer ed elaborati con il programma Adobe After Effects. Il lavoro ha richiesto

due anni e mezzo di tempo, per quattordici minuti di film10.

È evidente, in Fast Film, una messa a tema del rapporto tra cinema fotografico e

d’animazione ancor più forte di quella riscontrata in Tango: la natura intrinsecamente

statica e “materica” del cinema “dal vero” viene argutamente rivelata con una tecni-

ca che lavora ad abisso: si fotografa la fotografia, denunciando l’assenza della terza

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dimensione nella rappresentazione, e mostrando l’esistenza di margini altrimenti

occultati dal bordo dello schermo cinematografico.

Proprio il concetto di margine, di soglia, è il luogo dove Fast Film sa meglio in-

tegrare ed arricchire quanto già dedotto da Tango. Nel cortometraggio di Widrich,

infatti, la velocità delle immagini non conosce mutazioni o stacchi significativi. Si nota

anzi un ipercinetismo diffuso, con movimenti degli oggetti e negli oggetti, nelle loro

superfici-schermo cinematografico dove le figure umane possono agire: il tutto con

ritmi invariabilmente frenetici, con rallentamenti solo occasionali ma che comunque

riguardano unicamente il clima emotivo della narrazione, e non la fluidità del rappre-

sentato. L’imperfezione disturbante e criticamente stimolante dell’immagine di Fast

Film sta invece precisamente nell’esibizione spudorata dei confini delle immagini.

Ridotti a materiale da origami, i fotogrammi non possono più pretendere dallo spet-

tatore la fiducia che il mondo in essi raffigurato prosegua ed esista anche al di là del

quadrilatero-finestra dello schermo. Persa tale componente illusoria, la messinscena

fotografica degenera: la percezione dei margini invita a rendersi conto inconsciamente

del fatto che le immagini in movimento si trovano su supporti bidimensionali come

fogli di carta. In questa maniera, Widrich denuncia implicitamente che il vincolo tra

pellicola ed immagine rappresentata non è affatto necessario. Come un foglio di carta

bianco può accogliere in potenza qualunque tipo di immagine, sia essa una stampa

fotografica o un disegno fatto a mano, così la pellicola è libera di essere utilizzata per

Fast Film (2003)

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animare qualsiasi tipo di materiale figurativo: e difatti, sui fogli ripiegati che vivono

in Fast Film (cartoni animati nel senso letterale del termine), le immagini non sono

date una volta per tutte ma cangiano continuamente, con entropica agitazione.

Non solo a questo è dovuto l’iperattivismo ottico di Fast Film, tuttavia. Considerando

ancora il margine come fuoco dell’analisi, si nota come esso sia spesso rappresentato

come rovinato, consumato, spesso minacciato da fiamme o altri agenti distruttivi.

Simili situazioni critiche non sono reversibili, così come non è possibile ricostituire

perfettamente un foglio di carta lacerato: i sagomati attori di Fast Film possono solo

cercare di evitare di esporre a pericoli i loro preziosi bordi. Nell’impossibilità di fare

ciò, l’unica alternativa è sperare in un’eventualità che, nel cortometraggio, si verifica

puntualmente: l’apparizione di un’altra immagine sotto la prima, che dunque possa

portare con sé margini nuovi ed in buone condizioni sostituendo l’immagine primi-

genia con rapidità.

Tale espediente, oltre a condurre a conclusioni di cui si dirà dopo, dimostra inoltre

che lo spazio tridimensionale negato ai singoli fotogrammi è comunque presente in Fast

Film, e fortemente messo a tema: le immagini si possono sovrapporre, disponendosi

in strati che vengono evidenziati anche dalla presenza di ombre sulle superfici a due

dimensioni. E, per questo motivo, è importante sottolineare che non sono solo le linee

inquadranti i fotogrammi ritagliati gli unici margini importanti in Fast Film. Anche le

superfici appaiono infatti confini fondamentali: è con la loro lacerazione che il gioco

visuale di Fast Film prende il via, ed è tramite la loro continua manipolazione e rico-

struzione che la storia riesce a proseguire. Widrich indica l’importanza di tali superfici

rimarcandone con enfasi l’esistenza: oltre al già ricordato stratagemma della ombre

derivanti dalle sovrapposizioni, aggiunge talvolta delle vere e proprie patine opache

su di esse, quasi delle texture che costituiscono un’ulteriore imperfezione calcolata,

da aggiungersi alla corruzione dei margini bidimensionali di cui si è già parlato.

Questo sistema di riflessioni visuali sulle soglie dell’immagine cinematografica pare

essere proficuamente utilizzabile ai fini di capire l’importanza del concetto di velocità

nel far emergere il rapporto tra la tecnica dell’animazione ed il film “dal vero”. I margini,

infatti, sono luoghi di conflitto, di erosione, e dunque di tensione: è attorno ad essi che

gli eventi che muovono Fast Film trovano le loro spinte dinamiche, poiché sono essi i

motivi di agitazione e paura delle figurine animate che popolano il cortometraggio. E i

timori di questi attori di carta, un tempo parte di fluide realtà a ventiquattro fotogrammi

al secondo, sono forse la concretizzazione di una nascosta preoccupazione del cinema

come tecnica, o meglio di due tipi di ansia concomitanti e complementari. La prima

è un’ansia orizzontale, simboleggiata dai margini bidimensionali delle figure di cui

si è detto: il cinema fotografico “teme” che d’un tratto al margine di un fotogramma

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qualsiasi possa non seguire immediatamente un’altra immagine, che ci possa essere

un ritardo. Se così accadesse, la verosimiglianza della rappresentazione si perderebbe:

il mutamento nella velocità percepita dallo spettatore trasformerebbe i protagonisti

della messinscena in manichini dai movimenti irrealisticamente frammentati come

quelli visti in Tango.

Il secondo tipo di ansia è strettamente legato al primo, ed è di qualità verticale: il

cinema non teme solo il rallentamento tra immagine ed immagine, ma è ossessionato

in pari misura dal nascondere continuamente il fatto che sotto l’immagine mostrata

non c’è assolutamente niente. Sono fogli, pellicole, fragili superfici che vogliono fingersi

indiscutibili spazi tridimensionali: al di sotto di esse, forse, solo il piano della moviola,

o niente del tutto. Il pirandelliano “buco nel cielo di carta”, che per il signor Anselmo

Paleari trasformerebbe Oreste in Amleto11, diventa terrorizzante dilemma intrinseco

all’immagine cinematografica quando la tecnica smette di venire celata, diventando

oggetto della rappresentazione stessa. In Fast Film, tuttavia, le ansie sono mal riposte:

mai gli squarci delle superfici si aprono sul vuoto, venendo continuamente suturati da

un rinnovamento iconico tanto rapido da essere praticamente istantaneo.

Tango e Fast Film, in un gioco di corrispondenze teso attraverso vent’anni di storia

del cinema, si propongono dunque come disinvolti ed ammiccanti equilibrismi sul filo

sottile che divide animazione da fotografia in movimento. Ma nel loro virtuosismo c’è

un trucco: il filo non esiste, è solo una costruzione estetica fallace. Quello che sembra

alto equilibrismo è solo un gioco spensierato effettuato in tutta sicurezza, senza la

preoccupazione di poter precipitare da un momento all’altro. Il vero funambolo, sug-

geriscono i Freigeist Rybczynski e Widrich, è il cinema “dal vivo”; che, ossessionato

dalla paura di mostrare l’artificiosità della propria tecnica e l’intrinseca staticità delle

immagini che lo compongono, usa come contrappeso la velocità dell’immagine, la quale

rende invisibile all’occhio il vuoto che incombe dietro la rappresentazione. È il vuoto

della sala di montaggio, del buio della camera oscura: un non-luogo dove l’immagine

si forma, e dove le potenzialità creative si concretizzano. La velocità lo occulta, ma è

una copertura sottile, fragile: il velo dell’altrove dove animazione e cinema fotografico

nascono, segretamente, insieme.

Analisi 1

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Note1 Alexandre Alexeïeff citato in Gianalberto Bendazzi, Topolino e poi, Milano, Il Formichiere, 1978.2 Gianni Rondolino, Tutto il cinema è d’animazione, in “La Valle dell’Eden”, n. 16, Roma, Carocci, 2006.3 Cenni sulla vita di Rybczynski, si possono trovare in Roberto Nanni, Profugo elettronico, in “Dolce vita” n. 1, ottobre 1987; Paul Virilio, Le phénomène Zbigniew Rybczynski, in “Cahiers du cinéma”, gennaio 1989; Bruno Di Marino, Zbig Rybczynski. Film e video, Roma, Rarovideo, 2003.4 Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, traduzione di Margherita Ciacci, Bologna, Il Mulino, 1997.5 Si veda Charles Solomon, Tango, in “Los Angeles Times”, 4 settembre 1983, o anche M. Korzeniowska, Zbigniew Rybczynski, flirty z animacja i inne, in “Kaleidoskop”, 1976.6 Si veda, ad esempio, Le ballet mécanique (1924 di Fernand Léger).7 Cfr. Alessandro Amaducci, In bilico tra gli stacchi. Tango di Zbigniew Rybczynski, in “La Valle dell’Eden”, cit.8 Ibidem.9 Bruno Di Marino, op. cit., p. 28.10 Chris J. Robinson, Tearing Up the Tracks: Virgil Widrich’s Fast Film”, in “Animation World Magazine”, 16 ottobre 2003(http://mag.awn.com/index.php?ltype=cat&category1=Reviews&article_no=1890&page=1).11 Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 1993, cap. XII.

Fast Film (2003)