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Il velo dell’altrovePiccole apologie della velocità cinematografica: “Tango” di Zbigniew Rybczynski e “Fast Film” di Virgil Widrich
di Marco Bellano
[L’invenzione dei Lumière] è un caso particolare [del cinema d’animazione], una sorta di sostituto industriale a buon mercato1.
Se prendiamo in mano e osserviamo una pellicola cinematografica in controluce ve-diamo questi fotogrammi come fotografie isolate, prive di movimento, statiche. E non c’è differenza tra un film d’animazione e un film “dal vero”. Ambedue sono composti appunto di fotogrammi, o, se si vuole, di immagini (magari disegnate o manipolate o vuote) che si “animeranno” solo al momento della proiezione. […] Si tratta […] di elementi statici che diventano dinamici attraverso un processo particolare che, per comodità e tradizione, chiamiamo “cinematografo”. La mia proposta ora è quella di chiamarlo “animazione”: un processo di animazione dell’immagine che rimane tale, al di là dei mezzi tecnici con cui è realizzato2.
Da luoghi e tempi completamente diversi, un professionista del cinema (l’animatore
russo Alexandre Alexeïeff) ed uno storico (Gianni Rondolino) esprimono sulla cinema-
tografia d’animazione un giudizio lusinghiero quanto – probabilmente – inaspettato
ai più. O, almeno, inaspettato in Italia, Paese al pari di altri ancora sotto l’influenza
di un’atavica percezione per cui un film “d’animazione”, indipendentemente dai suoi
contenuti e per il semplice fatto di essere realizzato con tale tecnica, è automatica-
mente soggetto a subordine gerarchico rispetto a qualsiasi opera filmica fotografata
“dal vero”. Rondolino, ben consapevole di tale stato delle cose, si affretta subito a
chiamare la sua proposta “provocatoria”, prendendo virtualmente le distanze dal
massimalista Alexeïeff, la cui affermazione sulla maggiore sbrigatività economica
(in senso produttivo e monetario) del cinema Lumière rispetto a quello “animato” è
tuttavia ben lontana dall’essere infondata.
È sterile, in realtà, dibattere sul primato dell’una o dell’altra tecnica all’interno
del panorama della cinematografia mondiale: ciò che occorre trarre dai contributi
di Alexeïeff e Rondolino è invece un invito ad una disposizione critica che sia quanto
più neutrale e non appesantita da pregiudizi nei confronti delle tecniche tramite cui
mostrare un’azione su schermo. Evitare di separare strettamente lo studio della pro-
duzione filmica “animata” da quello “fotografico” potrà così portare a contaminazioni e
scambi di sapere potenzialmente fruttuosi tra i due àmbiti teorici. Rondolino intravede
un luogo privilegiato di contaminazione concettuale nell’idea stessa di “animazione”, Anal
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intesa come “messa in moto” di immagini altrimenti statiche. Si potrebbe precisare
tale idea suggerendo che, prima ancora dell’animazione in sé (che è un effetto della
proiezione), le due tecniche massime del cinema sono accomunate da ciò che dell’ani-
mazione è causa, ovvero la rapidità di scorrimento della pellicola, combinata con il
fremere di aperture e chiusure dell’otturatore; in altre parole, la velocità.
È precisamente un simile invito ad uno sguardo imparziale ed al tempo stesso pene-
trante, fisso sulle convergenze segrete tra cinema fotografico e d’animazione, quello che
appare trapelare dai fotogrammi di due piccole opere cinematografiche, separate da
un arco temporale di poco più di vent’anni, ma accomunate da un paragonabile acume
nel fare delle immagini in movimento veicoli di riflessione e critica sull’arte filmica.
Risale al 1980 Tango, di Zyngniew Rybczynski: anno in cui il regista polacco, gio-
vane artista del Dipartimento della Forma cinematografica della scuola di cinema di
Lodz3, non proponeva ancora al suo pubblico le ardite sperimentazioni d’immagini
elettroniche che, di lì a poco, avrebbero reso noto il suo nome. La sua produzione
comprendeva bensì una serie di intriganti lavori basati su tecniche d’animazione, ed
in particolare sulla cosiddetta stop motion animation: una maniera di muovere le
immagini fondata su fotografie, riprese tuttavia una per volta, e non tramite l’automa-
tismo sequenziale della macchina da presa. In tal modo, diventa possibile far muovere
sullo schermo anche corpi inerti: è sufficiente scattare una foto al soggetto prescelto,
dopodiché cambiare lievemente la sua posa nella maniera desiderata, effettuare un
nuovo scatto, e così via. La proiezione in velocità si occuperà di creare, ad operazione
conclusa, il movimento.
Rybczynski, già esperto di tale tecnica, come testimoniano cortometraggi quali Soup
(1974), Oh No I Cannot Stop! (1976) e Media (1980), trova in Tango la maniera di
proporre una provocatoria variazione sul tema della stop motion animation: la pixil-
lation, in cui si sottopongono a tale procedimento non oggetti inanimati, bensì figure
che sarebbe stato più rapido e naturale trasformare in immagini mobili mediante
normali riprese cinematografiche: esseri umani. Con la pixillation (nome che allude
al termine inglese pixie, indicante piccole creature magiche immaginarie), è possibile
dare ai movimenti di corpi umani una qualità ed una fisicità impossibile in natura, e
per questo idealmente “magica”.
Innaturali perché rallentati ed impercettibilmente lacunosi, i movimenti dei “prota-
gonisti” di Tango non raccontano alcuna storia, bensì si limitano ad esibire sé stessi,
costruendo quasi un saggio scientifico, una sociologia decostruzionista dedicata agli
atteggiamenti più stereotipici della vita quotidiana. Così, uno spazio familiare e ripreso
frontalmente con un’unica inquadratura fissa (una stanza qualsiasi dotata di una fine-
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stra sulla parete di fondo, due porte su quelle laterali, un armadio a muro a sinistra,
un letto a destra ed un tavolo con una sedia al centro) si trasforma per otto minuti
circa in ideale palcoscenico per una singolare danza di burattini umani; un luogo che
tuttavia Goffman avrebbe forse preferito definire retroscena4, viste le attività svolte
dagli individui. Inizialmente, una palla entra dalla finestra: un ragazzino scavalca il
davanzale per recuperarla, dopodiché esce. L’azione si ripete, più volte; poi una don-
na che allatta un neonato apre una porta: non sembra accorgersi del ragazzino che
continua meccanicamente ad entrare ed uscire con la sua palla. La donna se ne andrà
da dove era venuta, per rientrare immediatamente e ripetere il suo ciclo di azioni. La
seguiranno poco a poco, tutti ugualmente bloccati in ripetizioni infinite dei loro compiti,
un ladro che trafuga una valigia, un anziano che mangia una minestra, un uomo che
cambia una lampadina, prendendo la scossa, una donna che si veste, una coppia che
amoreggia: al culmine del cortometraggio, ben trentasei azioni diverse hanno luogo
nella stanza, tutte indipendenti ed isolate l’una dall’altra. Solo in conclusione, i perso-
naggi escono per non rientrare più in scena: rimane solo un’anziana sdraiata sul letto
che, sorprendentemente, ha la facoltà di vedere la palla, raccoglierla ed uscire dalla
porta sulla destra. A commento di questa surreale pantomima, il ritmo incessante ed
ipnotico di un tango, sovrapposto alle costanti ripetizioni dei suoni prodotti dai vari
“attori” nei loro cicli di azione.
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Tango (1980)
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Diverse sono state le interpretazioni date a Tango5, che forse anche alla sua po-
livalenza intellettuale ha dovuto il premio Oscar assegnatogli nel 1981: si è parlato
di un omaggio alle tecniche artigianali di effetto speciale del cinema di Méliès o a
certe esibizioni del puro movimento tipiche di certe avanguardie storiche6; si sono
chiamate in causa riflessioni sulla relatività spazio-temporale o, più semplicemente,
si è tentato di vedere nell’astratta impeccabilità combinatoria degli attori-marionette
una rappresentazione figurativa dell’arte musicale7. Ai fini del discorso sulla velocità
dell’immagine, appare tuttavia opportuno tralasciare ora questi spunti, per concentrarsi
su un suggerimento d’analisi avanzato da Alessandro Amaducci8.
È illuminante, a questo proposito, una dichiarazione dello stesso regista:Tango non era stato concepito esattamente come un film d’animazione, ma non c’era modo di rappresentare l’idea con altrettanta efficacia, così ho fatto uso delle tecniche quali lo stop motion e la pixillation. Non mi piace distinguere fra pellicole impressiona-te a velocità diverse. Ventiquattro fotogrammi al secondo, di fatto, è un forma di stop motion: da fotogramma a fotogramma, ci sono delle interruzioni di movimento9.
Rybczynski coglie, tra le righe, la sostanziale equivalenza tecnica tra cinema “dal
vero” ed animazione: nella sua visione, l’unica differenza tra le due forme pare essere
precisamente la velocità di scorrimento dei fotogrammi. Il cinema “tradizionale”, più
“veloce”, sa celare meglio le interruzioni, la parcellizzazione del flusso visivo; l’ani-
mazione, parimenti parcellizzata nell’intimo, ha semplicemente minor “pudore” nel
mostrare la propria vera natura.
Gli “attori” di Tango, a detta del regista, sono stati sottoposti a pixillation solo in
nome di un’idea, di un’orchestrazione visiva che con tecniche di ripresa tradizionali
non sarebbe stata possibile. Eppure qualcosa, nella messinscena, sembra tendere ir-
resistibilmente a fare del cortometraggio un sorta di sfida ammiccante alla “ipocrisia”
del cinema dal vero, che nasconde le sue fratture dietro la velocità.
Ad un primo, superficiale livello, i personaggi appaiono innanzitutto completamente
isolati l’uno dall’altro, condannati all’incomunicabilità nonostante la condivisione di
uno spazio comune: come fotogrammi su una pellicola, si potrebbe azzardare, tutti
parte dello stesso supporto ma inesorabilmente separati, e condannati ad un virtual-
mente eterno e ciclico scorrimento all’interno delle bobine di un proiettore.
Se i “manichini” umani di Tango possono dunque leggersi come simulacri mobili resi
simboli della materia statica di cui è fatto il cinema, è precisamente nei loro movimenti
che la polemica allegoria viene svelata. La pausa, l’interruzione nella fluidità realistica
dell’azione, diventa infatti fenomeno strutturale della rappresentazione, costringendo
continuamente a ricordarsi dell’immanente staticità delle foto componenti i cicli di
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comportamento che appaiono sullo schermo.
Tuttavia, in fondo, i personaggi si muovono: in un modo e in un mondo alludenti
certamente ad una fissa artificialità (la stanza non è una foto, ma un disegno), ma che
non impediscono il perpetuarsi dell’illusione dell’azione. Ecco allora che diventa più
opportuno cambiare punto di vista, e smettere di considerare le “interruzioni” del
movimento i luoghi in cui Rybczynski tenta di denunciare l’inganno della velocità
dell’immagine. Più interessante diventa, invece, leggere quelle imperfezioni nella
fluidità come indizi per un’operazione critica ben più sottile.
I momenti di fissità che i burattini fotografici mostrano all’interno della stanza, a
ben guardare, non sono infatti le infrazioni più eclatanti che vengono compiute nei
confronti della messinscena cinematografica. Ciascun loop dei personaggi è infatti
gravato da una pausa segreta nel movimento, ben più importante ed estesa di quelle,
rapide e sporadiche, di cui lo spettatore si rende conto. È la pausa che intercorre tra
l’uscita di scena e il successivo rientro di ogni attore.
Nei momenti in cui le figurine ritagliate da Rybczynski escono di campo, infatti,
necessariamente esse non compiono alcun movimento, essendo non rappresentazioni
fotografiche di esseri umani, ma ripetizioni stilizzate di tali rappresentazioni: mate-
riali di repertorio che non possiedono altra “vita” oltre a quella costruita ed esibita
dal regista sullo schermo.
Le grandi pause invisibili, solo timidamente imitate dalle irregolarità nella fluidità
dei cicli, sono il dispositivo tramite cui si consuma il più grande assalto alla concezione
stereotipata della velocità dell’immagine. Tali stacchi ipertrofici avvengono infatti in
un luogo diverso da quello della rappresentazione primaria (la stanza), in un altrove
che giammai allo spettatore sarà dato raggiungere. Se, come spiegato in precedenza,
la stanza di Tango è un sociologico retroscena per la diegesi del cortometraggio, gli
spazi occulti oltre porte e finestra sono invece i retroscena del film inteso come tec-
nica. Sono i luoghi dove l’immagine ha il permesso di fermarsi, e di essere provata,
modificata, preparata prima dell’ingresso sul palcoscenico-schermo, dove si esibirà il
movimento; sono i recessi irraggiungibili ed indispensabili dove ogni film nasconde
l’idea platonica della sala di montaggio.
È così fuori dal quadrilatero dello schermo che Tango sa lanciare la sua più auten-
tica provocazione: ricordare che è solo grazie alla manipolazione non dichiarabile di
immagini immobili che ciascun audiovisivo può vantarsi di saper raccontare di moti
e di velocità. Ciascuno dei “ballerini” impegnati in questo Tango potrà anche esibire
i più complessi virtuosismi dinamici delle arti coreografiche: mai, tuttavia, potrà
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dimenticarsi di essere destinato allo statico altrove da cui proviene e da cui tutto il
cinema trae la sua vitalità illusoria.
Le sottigliezze degli spunti presenti in Tango, ad un primo sguardo, non sembrano
trovare eco nell’altro testo che si è scelto come oggetto d’analisi, Fast Film: il quale
appare invece ben più frivolamente esplicito sul tema della “velocità dell’immagine”,
con un titolo che è già una dichiarazione d’intenti ed un contenuto che non è solo
sperimentazione visiva, ma anche un gioco spensierato e gioiosamente superficiale
con i più tipici stereotipi narrativi del cinema classico hollywoodiano.
Il cortometraggio sembra inizialmente impostarsi come un video basato sul found
footage: frammenti di film d’epoca sono montati tra loro costruendo fittizi raccordi di
sguardo, sull’asse e di movimento. D’un tratto, l’imprevisto: l’immagine inizia a squar-
ciarsi, e a ripiegarsi su se stessa, come un foglio di carta bidimensionale. L’eroina del
film si ritrova imprigionata in una sorta di cassa quadrangolare, sulla quale immagini
filmiche continuano a muoversi: l’eroe assiste impotente alla trasformazione della
cassa in quella che pare essere la versione origami di un vagone ferroviario, fatto di
frammenti di film. Nel frattempo, la stanza in cui si stava svolgendo l’azione si “strappa”
letteralmente, rivelando un tipico paesaggio da Far West. Da questo momento in poi,
la narrazione procede freneticamente: l’eroe (“interpretato” da attori continuamente
cangianti, da Humphrey Bogart a Gene Kelly, da Cary Grant a Sean Connery) si lancia
all’inseguimento dell’eroina (anch’essa priva di un volto fisso), su un treno in corsa,
poi in automobile, affrontando scienziati pazzi e battaglie aeree, fino al conclusivo
“arrivano i nostri”, al quale segue l’immancabile lieto fine.
È unicamente pellicola cinematografica, la materia di cui è fatto il mondo di Fast
Film; o meglio, si tratta di fotogrammi ricavati da circa quattrocento film diversi,
stampati singolarmente e poi piegati e ripiegati per costruire oggetti come treni, aerei,
macchine da tortura, che una volta fotografati e proiettati alla giusta velocità ripropon-
gono sulle loro superfici le azioni fotografiche dei film originari. Così, ad esempio, una
sequenza che mostra John Wayne in tenuta da pilota viene proposta su un aeroplano
di carta, e via dicendo: scenografie ed oggetti sono stati fotografati dal regista con un
macchina digitale Canon EOS D30 con risoluzione 2048x1536 pixel, poi trasferiti su
computer ed elaborati con il programma Adobe After Effects. Il lavoro ha richiesto
due anni e mezzo di tempo, per quattordici minuti di film10.
È evidente, in Fast Film, una messa a tema del rapporto tra cinema fotografico e
d’animazione ancor più forte di quella riscontrata in Tango: la natura intrinsecamente
statica e “materica” del cinema “dal vero” viene argutamente rivelata con una tecni-
ca che lavora ad abisso: si fotografa la fotografia, denunciando l’assenza della terza
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dimensione nella rappresentazione, e mostrando l’esistenza di margini altrimenti
occultati dal bordo dello schermo cinematografico.
Proprio il concetto di margine, di soglia, è il luogo dove Fast Film sa meglio in-
tegrare ed arricchire quanto già dedotto da Tango. Nel cortometraggio di Widrich,
infatti, la velocità delle immagini non conosce mutazioni o stacchi significativi. Si nota
anzi un ipercinetismo diffuso, con movimenti degli oggetti e negli oggetti, nelle loro
superfici-schermo cinematografico dove le figure umane possono agire: il tutto con
ritmi invariabilmente frenetici, con rallentamenti solo occasionali ma che comunque
riguardano unicamente il clima emotivo della narrazione, e non la fluidità del rappre-
sentato. L’imperfezione disturbante e criticamente stimolante dell’immagine di Fast
Film sta invece precisamente nell’esibizione spudorata dei confini delle immagini.
Ridotti a materiale da origami, i fotogrammi non possono più pretendere dallo spet-
tatore la fiducia che il mondo in essi raffigurato prosegua ed esista anche al di là del
quadrilatero-finestra dello schermo. Persa tale componente illusoria, la messinscena
fotografica degenera: la percezione dei margini invita a rendersi conto inconsciamente
del fatto che le immagini in movimento si trovano su supporti bidimensionali come
fogli di carta. In questa maniera, Widrich denuncia implicitamente che il vincolo tra
pellicola ed immagine rappresentata non è affatto necessario. Come un foglio di carta
bianco può accogliere in potenza qualunque tipo di immagine, sia essa una stampa
fotografica o un disegno fatto a mano, così la pellicola è libera di essere utilizzata per
Fast Film (2003)
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animare qualsiasi tipo di materiale figurativo: e difatti, sui fogli ripiegati che vivono
in Fast Film (cartoni animati nel senso letterale del termine), le immagini non sono
date una volta per tutte ma cangiano continuamente, con entropica agitazione.
Non solo a questo è dovuto l’iperattivismo ottico di Fast Film, tuttavia. Considerando
ancora il margine come fuoco dell’analisi, si nota come esso sia spesso rappresentato
come rovinato, consumato, spesso minacciato da fiamme o altri agenti distruttivi.
Simili situazioni critiche non sono reversibili, così come non è possibile ricostituire
perfettamente un foglio di carta lacerato: i sagomati attori di Fast Film possono solo
cercare di evitare di esporre a pericoli i loro preziosi bordi. Nell’impossibilità di fare
ciò, l’unica alternativa è sperare in un’eventualità che, nel cortometraggio, si verifica
puntualmente: l’apparizione di un’altra immagine sotto la prima, che dunque possa
portare con sé margini nuovi ed in buone condizioni sostituendo l’immagine primi-
genia con rapidità.
Tale espediente, oltre a condurre a conclusioni di cui si dirà dopo, dimostra inoltre
che lo spazio tridimensionale negato ai singoli fotogrammi è comunque presente in Fast
Film, e fortemente messo a tema: le immagini si possono sovrapporre, disponendosi
in strati che vengono evidenziati anche dalla presenza di ombre sulle superfici a due
dimensioni. E, per questo motivo, è importante sottolineare che non sono solo le linee
inquadranti i fotogrammi ritagliati gli unici margini importanti in Fast Film. Anche le
superfici appaiono infatti confini fondamentali: è con la loro lacerazione che il gioco
visuale di Fast Film prende il via, ed è tramite la loro continua manipolazione e rico-
struzione che la storia riesce a proseguire. Widrich indica l’importanza di tali superfici
rimarcandone con enfasi l’esistenza: oltre al già ricordato stratagemma della ombre
derivanti dalle sovrapposizioni, aggiunge talvolta delle vere e proprie patine opache
su di esse, quasi delle texture che costituiscono un’ulteriore imperfezione calcolata,
da aggiungersi alla corruzione dei margini bidimensionali di cui si è già parlato.
Questo sistema di riflessioni visuali sulle soglie dell’immagine cinematografica pare
essere proficuamente utilizzabile ai fini di capire l’importanza del concetto di velocità
nel far emergere il rapporto tra la tecnica dell’animazione ed il film “dal vero”. I margini,
infatti, sono luoghi di conflitto, di erosione, e dunque di tensione: è attorno ad essi che
gli eventi che muovono Fast Film trovano le loro spinte dinamiche, poiché sono essi i
motivi di agitazione e paura delle figurine animate che popolano il cortometraggio. E i
timori di questi attori di carta, un tempo parte di fluide realtà a ventiquattro fotogrammi
al secondo, sono forse la concretizzazione di una nascosta preoccupazione del cinema
come tecnica, o meglio di due tipi di ansia concomitanti e complementari. La prima
è un’ansia orizzontale, simboleggiata dai margini bidimensionali delle figure di cui
si è detto: il cinema fotografico “teme” che d’un tratto al margine di un fotogramma
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qualsiasi possa non seguire immediatamente un’altra immagine, che ci possa essere
un ritardo. Se così accadesse, la verosimiglianza della rappresentazione si perderebbe:
il mutamento nella velocità percepita dallo spettatore trasformerebbe i protagonisti
della messinscena in manichini dai movimenti irrealisticamente frammentati come
quelli visti in Tango.
Il secondo tipo di ansia è strettamente legato al primo, ed è di qualità verticale: il
cinema non teme solo il rallentamento tra immagine ed immagine, ma è ossessionato
in pari misura dal nascondere continuamente il fatto che sotto l’immagine mostrata
non c’è assolutamente niente. Sono fogli, pellicole, fragili superfici che vogliono fingersi
indiscutibili spazi tridimensionali: al di sotto di esse, forse, solo il piano della moviola,
o niente del tutto. Il pirandelliano “buco nel cielo di carta”, che per il signor Anselmo
Paleari trasformerebbe Oreste in Amleto11, diventa terrorizzante dilemma intrinseco
all’immagine cinematografica quando la tecnica smette di venire celata, diventando
oggetto della rappresentazione stessa. In Fast Film, tuttavia, le ansie sono mal riposte:
mai gli squarci delle superfici si aprono sul vuoto, venendo continuamente suturati da
un rinnovamento iconico tanto rapido da essere praticamente istantaneo.
Tango e Fast Film, in un gioco di corrispondenze teso attraverso vent’anni di storia
del cinema, si propongono dunque come disinvolti ed ammiccanti equilibrismi sul filo
sottile che divide animazione da fotografia in movimento. Ma nel loro virtuosismo c’è
un trucco: il filo non esiste, è solo una costruzione estetica fallace. Quello che sembra
alto equilibrismo è solo un gioco spensierato effettuato in tutta sicurezza, senza la
preoccupazione di poter precipitare da un momento all’altro. Il vero funambolo, sug-
geriscono i Freigeist Rybczynski e Widrich, è il cinema “dal vivo”; che, ossessionato
dalla paura di mostrare l’artificiosità della propria tecnica e l’intrinseca staticità delle
immagini che lo compongono, usa come contrappeso la velocità dell’immagine, la quale
rende invisibile all’occhio il vuoto che incombe dietro la rappresentazione. È il vuoto
della sala di montaggio, del buio della camera oscura: un non-luogo dove l’immagine
si forma, e dove le potenzialità creative si concretizzano. La velocità lo occulta, ma è
una copertura sottile, fragile: il velo dell’altrove dove animazione e cinema fotografico
nascono, segretamente, insieme.
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Note1 Alexandre Alexeïeff citato in Gianalberto Bendazzi, Topolino e poi, Milano, Il Formichiere, 1978.2 Gianni Rondolino, Tutto il cinema è d’animazione, in “La Valle dell’Eden”, n. 16, Roma, Carocci, 2006.3 Cenni sulla vita di Rybczynski, si possono trovare in Roberto Nanni, Profugo elettronico, in “Dolce vita” n. 1, ottobre 1987; Paul Virilio, Le phénomène Zbigniew Rybczynski, in “Cahiers du cinéma”, gennaio 1989; Bruno Di Marino, Zbig Rybczynski. Film e video, Roma, Rarovideo, 2003.4 Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, traduzione di Margherita Ciacci, Bologna, Il Mulino, 1997.5 Si veda Charles Solomon, Tango, in “Los Angeles Times”, 4 settembre 1983, o anche M. Korzeniowska, Zbigniew Rybczynski, flirty z animacja i inne, in “Kaleidoskop”, 1976.6 Si veda, ad esempio, Le ballet mécanique (1924 di Fernand Léger).7 Cfr. Alessandro Amaducci, In bilico tra gli stacchi. Tango di Zbigniew Rybczynski, in “La Valle dell’Eden”, cit.8 Ibidem.9 Bruno Di Marino, op. cit., p. 28.10 Chris J. Robinson, Tearing Up the Tracks: Virgil Widrich’s Fast Film”, in “Animation World Magazine”, 16 ottobre 2003(http://mag.awn.com/index.php?ltype=cat&category1=Reviews&article_no=1890&page=1).11 Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 1993, cap. XII.
Fast Film (2003)