identità e riconoscimento tra individuo e gruppo

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Andrea Porciello Identità culturale tra individuo e gruppo: per una cittadinanza cosmopolitica SOMMARIO: Premessa. 1. Il concetto di persona come prodotto comunitario. 2. Concetto di persona e dimensione pre-comunitaria. 3. La soluzione procedurale di Jurgen Habermas. Conclusioni. Premessa Com’è noto, la locuzione società multiculturale indica una situazione sociale assai diversa da quella designata mediante la simile locuzione società pluralista. Mediante quest’ultima si fa riferimento a quelle società in cui la diversità che caratterizza i rapporti tra gli individui, nonché tra i vari gruppi che la compongono, anche se accentuata, si mostra sempre disponibile ad essere ricompresa entro un più generale quadro valoriale di riferimento, entro una più vasta dimensione culturale che, benché sfumata, riesce comunque a ricomprendere le diversità rendendole in un certo senso omogenee e, dunque, più facilmente tollerabili. Come giustamente nota Ferlito in proposito, in questo senso “il pluralismo accoglie le diversità nella misura in cui esse siano compatibili con un orizzonte culturale condiviso. Quest’orizzonte può essere ricostruito e via via ampliato fino ad accogliere al suo interno differenze che potranno essere non solo accettate, ma persino valorizzate allo scopo di rendere più varia e 1

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Andrea PorcielloIdentità culturale tra individuo e gruppo: per

una cittadinanza cosmopolitica

SOMMARIO: Premessa. 1. Il concetto di persona comeprodotto comunitario. 2. Concetto di persona edimensione pre-comunitaria. 3. La soluzioneprocedurale di Jurgen Habermas. Conclusioni.

PremessaCom’è noto, la locuzione società

multiculturale indica una situazione socialeassai diversa da quella designata mediante lasimile locuzione società pluralista. Mediantequest’ultima si fa riferimento a quellesocietà in cui la diversità che caratterizza irapporti tra gli individui, nonché tra i varigruppi che la compongono, anche se accentuata,si mostra sempre disponibile ad esserericompresa entro un più generale quadrovaloriale di riferimento, entro una più vastadimensione culturale che, benché sfumata,riesce comunque a ricomprendere le diversitàrendendole in un certo senso omogenee e,dunque, più facilmente tollerabili. Comegiustamente nota Ferlito in proposito, inquesto senso “il pluralismo accoglie lediversità nella misura in cui esse sianocompatibili con un orizzonte culturalecondiviso. Quest’orizzonte può esserericostruito e via via ampliato fino adaccogliere al suo interno differenze chepotranno essere non solo accettate, ma persinovalorizzate allo scopo di rendere più varia e

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dinamica la società globale”1. Siamocertamente ben lontani dall’omogeneitàculturale tipica delle ormai desuete societàmonolitiche del passato, ma nondimeno traccedi quell’omogeneità, anche se solo sullosfondo, sembrano perdurare anche in ambitopluralista. Un tipico esempio di tale modellosociale potrebbe essere costituito dal tassodi differenza che caratterizza i rapporti tracomunità religiose, diverse, ma comunqueriferibili ad un comune quadro di valorimorali, di dogmi ed ad una altrettanto comunevisione della religione e del suo ruolo,comunità tutte cristiane per esempio, o tuttemusulmane, comunità, insomma, che al di làdelle, a volte evidenti e marcate differenze,di fatto sembrano possedere dei pur generaliprincipi fondanti in comune su cui far pernoal fine di perseguire una pacifica convivenzaall’interno della medesima compagine sociale.Ovviamente, come ci è tristemente noto, ciònon significa che tali società non possanoanch’esse divenire luogo di conflitto. Piùmodestamente significa che l’eventualeconflitto presenta maggiori possibilità diessere ricomposto proprio in nome di queiprincipi e di quei valori di riferimento neiquali tutti i gruppi in conflitto sembranopotersi riconoscere e rispecchiare. In altritermini, siamo di fronte a differenze di tipo“normale”, ossia a differenze che “rientranoentro uno standard di variabilità predefinitoda un modello culturale dato e perciò nondissonanti con le sue tonalità di base”2.

Ben diversa è la condizione che sembracontraddistinguere le moderne società alcontempo pluraliste e multiculturali, qualiormai sono le nostre società europee ed ancordi più quelle nord-americane. In tali modellisociali, soprattutto a causa dei costanti esempre crescenti fenomeni migratori, alladiversità “normale” cui si è appena accennato,1 FERLITO, Le religioni, il giurista e l’antropologo, Rubbettino,Soveria Mannelli 2005, p. 31.2 Ibidem

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si accompagna anche una nuova diversità,talmente profonda e marcata da estendersianche ai valori fondanti i singoli gruppi.Società, insomma, in cui la distanza culturaletra i gruppi raggiunge dimensioni così elevateda rendere necessario il reperimento di nuovestrategie di integrazione che non possonosemplicemente consistere nel “guardare aquello che si ha in comune”, perché di fatto“troppo poco, o addirittura nulla si ha incomune”. Ed allora, come fronteggiare ilconflitto tipico delle società italiane,spagnole o francesi tra musulmani, soprattuttoafricani, e cattolici? A quali valori comuni èpossibile fare appello per superare taliradicali differenze culturali?

In una situazione siffatta, la strategiapluralista del “ciò che si ha in comune” devenecessariamente lasciare il posto a nuovimodelli teorici di integrazione, capaci dispiegare il significato più intimo dei fattoridi differenza, tra i quali i concettid’identità e di appartenenza di certocostituiscono il nucleo essenziale, al di là oaddirittura in assenza di possibili punti diriferimento comuni. Soltanto comprendendo ilreale significato delle pre-condizionidell’“appartenenza ad un gruppo”, e primaancora, del “possesso dell’identità”, saràpossibile intravedere una concreta via versol’integrazione multiculturale.

Ebbene, il dibattito filosofico politicocontemporaneo ha dedicato moltissime pagine alproblema relativo a tali “precondizioni diintegrazione”, ed in modo particolare alproblema identitario. Le posizioni espresseall’interno di tale dibattito sono tante, masembrano muoversi tutte all’interno di unospazio teorico definito, che trova in dueposizioni concettuali le proprie linee didemarcazione più estreme: tutte sembranorientrare nello spazio delimitato da un latodalla teoria liberale americananeocontrattualista, e dall’altro dalla teoriacomunitarista di matrice canadese.

Questo breve scritto vuole rendere conto,anche se in maniera non sistematica e

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sommaria, di tali modelli teorici radicali,per approdare, in conclusione, ad unaposizione intermedia, favorevole piùall’ibridazione ed al meticciato cheall’integrazione vera e propria, posizione deltutto vicina a quella espressa negli ultimianni dal filosofo tedesco Jürgen Habermas.

1. Il concetto di persona come prodotto comunitarioCome appena accennato, le società

democratiche e liberali contemporanee sonocostituite da molteplici comunità culturali,così diverse tra loro da dar vita ad unacomplessa società multiculturale. Il rischioche il comunitarismo intravede in talecomplessa situazione è che i gruppi culturalidi minoranza possano scomparire davanti allestrutture, solo apparentemente neutrali, delloStato, le quali non sarebbero altro, invece,che la maschera universalista della culturadominante. Questa tesi, sostenutainsistentemente dal campione del pensierocomunitarista Charles Taylor, e da cui sembradiscendere una serie di importanti conseguenzein ambito politico, relative soprattutto allafunzione dello Stato ed al suo rapporto congruppi ed individui, in verità poggia su unaben connotata visione del concetto di persona,nonché della sua identità personale.

Ed allora, seguendo le indicazioniofferte sul punto da Taylor, possiamoaffermare che in base a tale prospettiva ilconcetto di identità culturale dell’individuorimanda necessariamente ed in maniera moltointima a quello di comunità. L’identità altronon sarebbe che “la visione che una persona hadi quello che è, delle proprie caratteristichefondamentali, che la definiscono come essereumano”3. Il che sembra mettere in luce dueaspetti fondamentali: innanzitutto il fattoche l’identità si basa sulla “visione che una3 HABERMAS, TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento,L. Ceppa e G. Rigamonti (a cura di), Feltrinelli, Milano1999, p.9.

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persona ha di se stessa”, quindi sulsentimento di sé come individuo, ed inoltreche la naturale esigenza di inserirsi e,dunque, di far parte di una dimensioneinterpersonale al fine di prendere coscienzadi sé come essere umano, può essere compresa,esclusivamente, nel confronto con l’altro, enel riconoscimento reciproco delle rispettivespecificità. L’identità, insomma, è secondoTaylor, sì, l’idea che la persona ha di sestessa, ma tale idea, com’è evidente, dipendein misura determinante dal giudizio espressodall’altro, ossia dal riconoscimento, dalmancato riconoscimento o dal misconoscimentoda parte delle persone che la circondano. “Unriconoscimento adeguato non è soltanto unacortesia che dobbiamo ai nostri simili: è unbisogno umano vitale”. Ancora con le parole diTaylor, “il non riconoscimento o ilmisconoscimento, può danneggiare, può essereuna forma di oppressione, che imprigiona unapersona in un modo di vivere falso, distorto eimpoverito”4. L’esclusione, insomma,rappresenta la condanna peggiore per un essereumano che ha bisogno del riconoscimento deipropri simili per poter vivere socialmente inmaniera piena e vera. Il che significa che lasete dell’individuo di essere riconosciuto edaccettato dal gruppo, sia che vada a buon finesfociando in un pieno riconoscimento, sia chesi areni degenerando in un misconoscimento, inogni caso risulta essere determinante ai finidella costruzione dell’identità del soggetto.La persona è quel che è, nel bene o nel male,sempre grazie al rapporto che ha costruito conil gruppo del quale fa parte, o aspira a farparte.

Le conseguenze di tale lineaargomentativa sono molteplici, ma, per inostri fini, è il caso di sottolinearne una inmodo preciso: secondo i comunitaristi lacostruzione dell’identità personale non è daconsiderarsi come un processo che si consumain una condizione di isolamento del soggetto,o se vogliamo in una condizione pre-sociale, è4 Ibidem

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bensì un processo squisitamente comunitario.Ciascun soggetto negozia la propria identitàattraverso un’iterazione con le persone che locircondano, dimodoché l’identità finisce coldipendere in modo inequivocabiledall’intreccio delle relazioni che il soggettoinstaura con l’esterno, con l’altro da se. Inparticolare, per Taylor, il soggetto moralenon può separarsi dall’ineludibile quadroassiologico in cui si trova catapultato e chefin dalla nascita sembra determinare inmaniera cogente i propri criteri di scelta, intutti gli ambiti della sua vita, da quellipubblici a quelli più intimi inerenti allavita quotidiana più privata. Èd è proprio inquest’ottica che Taylor sostiene che“l’individuo si orienta in uno spazio cheesiste indipendentemente dalla sua capacità odalla sua incapacità di trovarvi la propriacollocazione e che, tra l’altro, rende ilcompito di trovarla qualcosa di ineludibile.In questa prospettiva l’idea di inventare exnovo una distinzione qualitativa non ha alcunsenso: l’individuo, infatti, può adottare solodistinzioni che abbiano senso per luiall’interno del proprio orientamento dibase”5. Orientamento di base, è benesottolinearlo, che il soggetto eredita e nonsceglie, che in un certo senso lo precede e locondiziona. Quello che abbiamo dinnanzi, è unconcetto di persona “liquido”, suscettibile diprendere la forma che il “recipiente sociale”intende imprimergli.

Da ciò la conseguenza per cui una vita,una qualunque vita, può essere definita, puòessere valutata come più o meno buona,soltanto con riferimento ad un quadro divalori storicamete determinato, cioè, conbuona pace di Kant e degli altri filosofirazionalisti, con riferimento ad una comunitàmorale. “Alla luce della nostra concezionedell’identità, l’immagine di un agente privodi ogni quadro di riferimento assume ai nostriocchi i contorni di una persona alle prese con5 TAYLOR, Radici dell'io. La costruzione dell'identità moderna, R. Rini(a cura di), Feltrinelli, Milano 1993, p.47.

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una profonda crisi d’identità - di una personaincapace di esprimere una posizione propria suquestioni di fondamentale importanza, privadella capacità di assumere un orientamento neiloro confronti e impotente a dar loro unasoluzione personale. [...] Una persona chefosse del tutto priva di un quadro diriferimento sarebbe del tutto estranea allospazio che ci ha come interlocutori; nontroverebbe posto nello spazio che accoglietutte le altre persone. E questo cisembrerebbe patologico”6.

E non è un caso che il punto di partenzada cui Taylor prende le mosse consista proprioin una serrata critica all’illuminismo che, intutte le sue manifestazioni, ha sostenutoun’interpretazione a-culturale, e se vogliamopre-culturale del concetto di persona e dellesue possibilità conoscitive. In particolare,secondo Taylor, la tradizionale teorialiberale dell’identità personale risultaessere troppo astratta e disancorata dalcontingente, tutti i filosofi rientranti intale filone concettuale, da Kant e Hobbes finoa Rawls e Dworkin, tutti sembrano averdimenticato l’importanza della dimensionecomunitaria, dimensione, invece, che, cipiaccia o meno, sembra rappresentare il nostrostampo ed al contempo la nostra culla.

Come già era stato magistralmente coltoda Aristotele, non per niente la consonanzatra il filosofo greco ed i nuovi teorici delcomunitarismo è sul punto alquanto evidente,l’uomo vive sempre ed inevitabilmenteall’interno di una comunità composta da suoisimili ed è, in questo senso, un “animalecomunitario”, uno zoòn politikòn, destinato allavita comunitaria ed inscindibile da questa.Nell’idea comunitarista la “politica” altronon è che “la forma di riflessione di unvitale nesso etico, cioè il medium attraversocui individui organicamente inseriti incomunità più o meno naturalmente solidali -facendosi consapevoli della loro reciprocadipendenza- perfezionano e sviluppano con6 Op. cit., p.48.

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volontà e coscienza, come cittadini delloStato, i rapporti ereditati di riconoscimentoreciproco, trasformandolo in associazione diliberi ed eguali consociati giuridici”7.

Tali tesi, qui soltanto accennate,sebbene parzialmente condivisibili, quantomeno nella parte in cui sottolineanol’importanza del legame individuo-comunità, seportate alle estreme conseguenze appaionofortemente problematiche. Il fatto chel’individuo, qualunque individuo, subisca daparte della propria comunità di appartenenzaun vero e proprio imprinting culturale, è unfatto di cui bisogna necessariamente prendereatto. Sembra fuori da ogni dubbio che il fattodi nascere in un determinato luogo,all’interno di una determinata situazioneculturale, religiosa, etica ed economica,certamente rappresenta un fattore determinantenella formazione della persona e della suaidentità, ed è quasi superfluo constatare checiascuna persona “è quel che è” in quantoinserita in una rete di relazioni che laprecedono e che di fatto plasmano lentamentema inesorabilmente i suoi comportamentiesteriori, le sue abitudini, i suoi gusti. Manella prospettiva comunitarista, si va benoltre tale lapalissiana considerazione: nellasua ottica, infatti, sarebbero da ritenersicome un prodotto sociale, non solo leabitudini del soggetto, da quelle alimentari aquelle religiose, cosa del tutto innegabile,ma anche e soprattutto, cosa assai piùproblematica e discutibile, le sue strutturedi pensiero, le stesse categorie su cui poggiala sua attività di ragionamento, quelle chegli antropologi definiscono le“preconoscenze”. In base a tale prospettiva,ciascuno di noi guarderebbe al mondo sempreattraverso categorie culturali cheinevitabilmente avrebbero un’originecomunitaria. Con la conseguenza che è come sele comunità di appartenenza fornissero ai

7 HABERMAS, Fatti e norme, L. Ceppa (a cura di), Guerini,Milano 1996, p. 319.

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propri membri delle “lenti culturalmenteorientate” che rendono la loro visione delmondo sempre condizionata e mai puramente“individuale” e razionale. Tutti noi, anchenei comportamenti più personali, saremmo,spesso inconsciamente, portatori di idee, divalori, di contenuti, sopra-individuali, inuna parola, sociali.

Dobbiamo, dunque, concludere che nulladella persona sfugge al condizionamentosociale? Dobbiamo forse sostenere che lapersona altro non è che un’espressionecomunitaria priva di un suo contenuto tipico?Tenendo sempre ben presente che se cosìstessero le cose, le ricadute in ambitopolitico sarebbero gravi e molteplici.L’annosa questione del rapporto società-individuo ad esempio, quella del “chi hagenerato chi”, verrebbe risolta tutta a favoredella società. Il tutto finirebbe colprevalere sulla parte, e la parteacquisterebbe senso solo se riferita al tutto.Parlare del concetto di persona prescindendodalla dimensione sociale sarebbe, nell’otticacomunitarista, non solo infondato, maaddirittura impossibile.

Sembriamo sprofondare in una dimensioneteorica che pareva essere ormai del tuttoabbandonata, una dimensione pre-moderna eolistica di matrice aristotelica in cui lasfera privata viene del tutto sacrificata innome della tutela di quella pubblica. Non c’èspazio per un concetto atomistico diindividuo, l’individuo altro non è che unmembro di una comunità, la cui identitàdipende proprio dalla rete stabile diriconoscimenti che in tale contesto prendeforma e vita.

Ma come, tra gli altri, Ricoeur ha piùvolte sostenuto, il concetto d’identità, seper un verso, rinvia a “medesimezza” (memeté),cioè identificazione, uguaglianza con sestesso e con gli altri, appartenenza a gruppio categorie; dall’altro, cosa del tuttotrascurata dalla prospettiva filosoficacomunitarista, esso rinvia anche aindividuazione (ipseità), singolarità personale

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ed irripetibile, differenza. La difficoltà dimantenere in equilibrio queste oppostetensioni, difficoltà che ha caratterizzatogran parte della storia della coscienza e delpensiero occidentale, non sembra trovarespazio all’interno delle pieghe del pensierocomunitarista, di fatto sul punto tropposemplicista, o se vogliamo troppoaccondiscendente nei confronti del “gruppo” etroppo poco attento alle altrettantoimportanti istanze individuali.

Da quanto detto, sembra chiaro che ilgrosso della disputa si giochi sulladefinizione teorico-filosofica del concetti dipersona e di identità, e che le questionipolitiche, quali quelle relative alla funzionedello Stato in ambito multiculturale, alprincipio di laicità, all’integrazionecomunitaria, altro non sono che conseguenzedel modo di concepire tali concettipreliminari. Le premesse filosofiche, e sevogliamo antropologiche, da cui ilcomunitarismo prende le mosse, premesse in cuiconfluiscono retaggi di aristotelismo,hegelismo e storicismo, non possono checondurre ad una visione claustrofobica ecostrittiva della comunità, in cui gli spazidi scelta del singolo vengono così compressida risultare quasi del tutto annullati. Lapersona, in quanto “persona liquida”, è unmero prodotto sociale che non sceglie “chiessere”, ma che a limite accetta o contrattala forma che il “recipiente comunitario” gliconferisce.

2. Concetto di persona e dimensione pre-comunitariaPassando all’altro estremo,

diametralmente opposta appare l’impostazionedel problema offerta dalla “fazione” liberale,in particolar modo nella versione neutralistaelaborata dai filosofi Rawls e Larmore.

Se il riferimento più prossimo dellafilosofia comunitarista è costituito dalpensiero di Aristotele e di Hegel, la propostaelaborata dal liberalismo contemporaneo trova

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senz’altro nella concezione morale di Kant ilproprio appiglio più consistente. “Un uomodiventa pienamente umano solo quando, invecedi rimanere soggetto a determinati bisogni edesideri, conforma la sua condotta a una leggeche egli stesso emana, e la moralità non èsoltanto una forma di questa autolegislazione,ma è anche una legislazione necessaria perraggiungere la nostra piena umanità”8.L’esperienza non fornisce “alcuna idea dellafelicità e della perfezione che sia condivisae sufficientemente determinata”9. Sebbenesembrino stralci di filosofia kantiana, ascrivere non è Kant, è bensì Larmore,evidenziando e confermando il legamestrettissimo tra i nuovi razionalisti liberal edil vecchio razionalismo illuminista. Comeallora, rilievo centrale assumel’insostenibilità, oggi espressa dalcomunitarismo, in passato sostenuta dallostoricismo, di fondare la moralità su unaconcezione del bene particolare, ossia sullaconcezione espressa da una determinatacomunità sociale storicamente individuata. Dicontro il razionalismo opponel’imprescindibile necessità di dare rilevanzaad una nozione interpretativa del giustocapace di indicarci il modo in cui agire, nonsulla base di una contingenza empirica, ma inosservanza di una legge morale categorica,formale ed universalmente valida.

Con esclusivo riferimento al dibattito inesame, ciò significa che se per Taylor e ifilosofi vicini alla sua prospettiva, lapersona è esclusivamente un fatto culturale,nel senso che la sua capacità di scelta, lasua identità morale, il suo modo di elaborarei pensieri, esistono e funzionano in quantoinseriti in un quadro culturale diriferimento, nel caso dei liberali, invece,tali capacità rimangono intatte anche seconcepite al di fuori di tale contesto: la8 LARMORE, Le strutture della complessità morale, Feltrinelli,Milano, 1990, p.47.9 Op. cit., .95.

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comunità non esaurisce il concetto di persona,anzi, la persona, almeno nel suo nucleocentrale, precede, nel senso anche valorialedel termine, la comunità e la sua capacità“assorbente”. In altri termini, la prospettivaliberale fa salva la possibilitàdell’individuo di guardare al mondoprescindendo dalla sua appartenenzacomunitaria, è come se la persona fosse adessocapace di dismettere quelle “lenti culturali ”che nella visione comunitaria rappresentavano,invece, un attributo irrinunciabile, una partefondamentale del suo nucleo essenziale. Ciòrenderebbe possibile quello “sguardo da nessunluogo” descritto dal razionalista Nagelnell’omonima opera10, ossia la possibilità,tutta kantiana, dell’“io noumenico” diosservare il mondo da un punto di vistapuramente razionale e, dunque, nonculturalmente orientato. Con il liberalismol’individuo riacquista quell’autonomiaconcettuale che il comunitarismo gli avevacompletamente negato: egli è cosa diversadalla comunità di appartenenza, non ha valoresemplicemente in quanto parte, manifestazione,membro di una comunità, ed anche le sue azioninon sono da ritenersi più o meno buone inquanto riferite ad i parametri di moralitàespressi dalla comunità. L’individuosemplicemente è, esiste, in quanto entitàautonoma.

Da premesse così distanti rispetto aquelle prima attribuite alla filosofiacomunitarista, non possono che discendereconclusioni altrettanto distanti. Ed infatti,se la persona, come si è detto, “è, esiste” aprescindere dai contesti culturali in cui essaopera e pensa, anche a livello politico tuttii problemi vanno a questo punto reimpostatialla luce di tale nuovo angolo visuale.Innanzitutto, va reimpostato il modo diconcepire il rapporto pubblico-privato: se il

10 Si fa qui riferimento alla teoria conoscitiva espressada Nagel nell’omonimo libro. NAGEL, Uno sguardo da nessunluogo, Il Saggiatore, Milano 1998.

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comunitarismo aveva completamente riassorbitola sfera privata all’interno di un’unicagrande dimensione pubblica, il liberalismopone nella distinzione tra sfera pubblica esfera privata il proprio trattocaratteristico. Nell’ottica liberale, infatti,la sfera privata rappresenta il luogo in cuiil la persona si manifesta in quanto “entitàculturale”, in cui tutti i desideri, lepreferenze, i gusti, in una parola la propriaidea del bene, trovano piena espressione. Lasfera pubblica, invece, dimensione di assolutaneutralità, rappresenta il luogo in cui gliindividui si presentano nell’arena delladiscussione pubblica soltanto dopo aver “messotra parentesi” le proprie peculiaritàculturali caratteristiche. Rawls sembrasostenere proprio questo quando afferma che“dato che la concezione politica è condivisada tutti mentre le politiche ragionevoli nonlo sono, dobbiamo distinguere una basepubblica di giustificazione, universalmenteaccettabile dai cittadini e relativa allequestioni politiche fondamentali, e lenumerose basi di giustificazione non pubblicheassociate alle numerose dottrine comprensive eaccettabili solo per coloro che affermanoqueste ultime”11.

La differenza rispetto all’impostazionecomunitarista è ora lampante: se iCommunitarians sostengono l’esigenza di unoStato fortemente presente nella vita deicittadini, nelle loro scelte etiche eculturali, ed i cittadini, a loro volta, siriconoscono pienamente, e sotto ogni aspetto,nelle istituzioni chiamate a rappresentarli,con il liberalismo, per lo Stato non ha piùrilevanza alcuna l’orizzonte etico diappartenenza dei cittadini, il cui statusdipende dai diritti negativi di cui essigodono nei confronti dello Stato stesso e deiconcittadini.

La neutralità voluta dai liberali altronon è, allora, che lo strumento per conseguire11 RAWLS, Liberalismo politico, S. Veca (a cura di), Edizionidi comunità, Milano 1994, p.8.

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un accordo al di là, e se vogliamo nonostante,le “verità” espresse dalle varie tradizioniculturali concorrenti. Con le parole diLarmore “il modo migliore di intenderel’ideale della neutralità è quello diconsiderarlo come una reazione alla varietàdelle concezioni della vita buona”12. Lo Statonon ci riconosce in quanto portatori dideterminati valori comuni o (ancora peggio) inquanto facenti parte di una determinata etnia,e dunque in quanto ad esempio bianchi,eterosessuali, cattolici etc…, ci riconoscesemplicemente in quanto esseri umani, inquanto entità degne di essere considerate aprescindere dall’idea del bene sviluppataall’interno della rispettiva comunità diriferimento. L’idea di neutralità politicafinisce, così facendo, col coincidere conquella di un dialogo razionale tra soggettimoralmente e culturalmente distanti, in quantorecanti concezioni del bene differenti, se nonaddirittura antitetiche, che, mettendo daparte le convinzioni controverse, retrocedonosu di un terreno neutro nel tentativo dipervenire ad un accordo politico di convivenzapacifica che si fondi su principi accettabilida tutte le parti in gioco. A partire da talibasi, i liberali ritengono possibile chepersone provenienti da comunità chemanifestano differenti dottrine comprensive,nondimeno possano affermare ragionevolmente lastessa concezione politica, e abbracciare unnucleo di valori politici sulla cui basestrutturare i rapporti di riconoscimentoreciproco, approdando così facendo ad un“regime costituzionale multiculturale”.

Il gran vantaggio rispettoall’impostazione comunitarista consiste nelfatto che, a differenza di quella, illiberalismo non ci pone più di fronte alladifficile alternativa tra la tutela degliinteressi del gruppo e quella degli interessidel singolo, alternativa che i comunitaristiperaltro risolvono sempre in favore dellaprima. Nella maggior parte dei casi tutelare12 LARMORE, Le strutture della complessità morale, cit., p.60.

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il gruppo significa sacrificare l’autonomia ela libertà dei singoli che lo compongono.D’altro canto però, anche sul fronte liberale,altri e, per alcuni versi, non meno graviproblemi, sembrano farsi avanti, il più annosodei quali sembra conseguire direttamente dallaradicale ambizione neutralista appenadescritta.

Il neutralismo, così come concepito dalRawls di Una teoria della giustizia13 e dallo stessoLarmore, chiede agli individui, scrollatisi didosso il fardello dell’appartenenza allacomunità ed acquistando così facendo lapropria autonomia (concettuale innanzitutto),di spogliarsi della propria identità, delleproprie peculiarità, e ciò al fine di poteressere ammessi all’interno della sferapubblica come individui “vuoti”, nudi, inquanto privati proprio di ciò che li rende ciòche essi sono, ossia esseri unici.

Ed è proprio questo il punto debole dellateoria: il concetto di individuo riacquistainnegabilmente la propria autonomia, e sisvincola dal “mostro comunitario”, ma ad unprezzo veramente alto. E per comprendere ciò èsufficiente assumere, anche se solo per unattimo, il punto di vista di un qualsiasisoggetto appartenete ad una qualsiasiminoranza. Ebbene, chi appartiene ad unaminoranza, etnica, sessuale, moralelinguistica etc…, ha come obiettivo principalequello di essere riconosciuto ma, beninteso,non in quanto essere “neutrale” ma proprio contutte quelle peculiarità che il liberalismospazza via con un colpo di spugna. In altritermini, il riconoscimento descritto dalliberalismo, per quanto condivisibile in lineadi principio, non sembra essere soddisfacenteper tutte quelle minoranze stanche della lorocondizione e smaniose di un riconoscimentopieno e profondo. Come Taylor ha più volteespresso, l’individuo delle moderne societàmulticulturali non si accontenta di ottenereun semplice e generico riconoscimento inquanto essere umano, la sua richiesta di13 RAWLS, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982.

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riconoscimento è di certo più densa disignificato. Egli chiede di esserericonosciuto nella sua unicità edirripetibilità di individuo singolo, e dunque,“con e nelle” peculiarità che caratterizzanola sua condizione esistenziale, ma anche, esoprattutto, come rappresentante di unacomunità culturale, di un popolo, di un’etniacon una propria connotazione storica,linguistica e culturale. Da ciò la conseguenzaper cui chi appartiene ad una minoranzadifficilmente si mostrerebbe disponibile a“mettere tra parentesi” le propriespecificità, pur ottenendo, così facendo,l’agognato riconoscimento pubblico. E puòapparire emblematico in tal senso il casofrancese di qualche anno fa relativo alla“legge sul velo”, con cui si vietava diesibire nei luoghi pubblici, in primis nellescuole, simboli religiosi ostensibles di unaqualsiasi fede religiosa14. Il fine della leggeera chiaro, ed era del tutto condivisibile, econsisteva nel conseguire in maniera celereuna piena integrazione interculturale. Quelloche, invece, condivisibile non era, e da cuiinfatti prese piede un interminabiledibattito, fu il prezzo che inevitabilmenteandava pagato al fine di ottenere talerisultato, prezzo, è bene sottolinearlo,paradossalmente a carico proprio di quelleminoranze a favore delle quali la legge erastata emessa. Ed, infatti, la ricaduta che lalegge ebbe sulle studentesse francesi direligione musulmana è in tal sensoemblematica: queste, costrette a dismettere il“velo” quale simbolo “ostensivo” del lorocredo, ottennero certamente, così facendo, ilriconoscimento da parte dell’istituzionepubblica, ma al prezzo di rinunciare, spessoassai traumaticamente (tutti ricordiamo lestudentesse morte suicide), alla loroappartenenza, alla loro tradizione, sevogliamo, ad una parte della loro identità.

Tornando ad un piano più strettamenteteorico, a ben vedere, le studentesse francesi14 Legge francese del 15 Febbraio 2004.

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protagoniste della legge appena citata,ricordano molto da vicino i “soggettideculturalizzati” voluti dal liberalismorawlsiano e descritti da Larmore, con laconseguenza che i problemi sollevati a livellopratico sulla “legge francese” sembrano glistessi che affliggono il liberalismoneutralista ad un livello teorico. In entrambii casi ci troviamo dinnanzi ad una dimensionepubblica, e sopratutto ai soggetti che nefanno parte, completamente “sterilizzati” e“depurati” da tutte le “incrostazioni”culturali, ripuliti, insomma, dalla loroeredità comunitaria. Strada, questa, che se daun punto di vista teorico sembra risolvere itanti aspetti problematici pocanzi attribuitialla posizione comunitarista, da un punto divista concreto sembra porre i soggetti, questavolta in carne ed ossa, di fronte ad un nuovobivio, ad una nuova scelta non menoproblematica rispetto a quella voluta dalcomunitarismo: riconoscimento politico oidentità culturale?

Com’è evidente, il liberalismoneutralista, se da un lato risolve alcuni deipiù urgenti problemi trascurati dalla correntecomunitarista, d’altro canto ne pone di nuovi,e non meno urgenti di quelli: in sintesi, ilcomunitarismo ci pone di fronte all’opzioneindividuo o gruppo, laddove il liberalismo cipone di fronte ad una nuova opzione, non menoproblematica, quella tra riconoscimento oappartenenza. Sebbene tra i due modelliesaminati, quello liberale ci appare come ilpiù spendibile in un contesto democraticocostituzionale, in una parola il più modernotra i due, nonostante ciò è forse a percorsiintermedi che dobbiamo volgere lo sguardo.

3. La soluzione procedurale di Jürgen HabermasLe opposte visioni sull’identità finora

descritte trovano nella filosofia di Habermasun terreno comune. Le argomentazioni delfilosofo tedesco, infatti, sembrano conciliare

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le richieste di eguaglianza e di paritrattamento con il desiderio di conservazionedelle differenze, cosa che, anche se perragioni differenti, tanto il liberalismoquanto il comunitarismo non riuscivano a fare.

A parere di Habermas, il solo strumentocapace di mediare tra le opposte visionietiche e culturali dei vari gruppi sociali ècostituito dal diritto, “unico medium chepossa garantire una solidarietà tra estraneinelle società complesse”15. Tali soggetti“estranei”, infatti, pur se portatori diistanze culturali assai differenti, trovanonel diritto, e dunque, in una dimensioneprettamente procedurale, il terreno fertileper imbastire una discussione pubblica erazionale. L’accordo politico così conseguitoha, a parere di Habermas, natura prettamentediscorsiva e richiama il noto concetto di“agire comunicativo”, in base al quale“l’importante funzione d’integrazione socialeviene a cadere sulle vincolanti energieillocutive di un linguaggio orientatoall'intesa”16. Tale situazione discorsiva,ovviamente, presuppone quantomeno un accordosu alcuni presupposti essenziali, presupposti,però, che lungi dall’attenere a valorisostanziali o a parziali definizioni di “vitabuona”, attengono unicamente ad una dimensionesquisitamente procedurale. In altri termini,gli attori politici, nient’affatto concordisul problema dei valori, trovano un accordopreliminare sulle procedure atte a regolare ladiscussione sui valori17. Tale preliminareaccordo procedurale si presenta come formale,almeno nell’idea di Habermas, “esso si limitaa definire alcune condizioni necessarie perché15 HABERMAS, Solidarietà tra estranei, L. Ceppa (a cura di),Guerini, Milano 1997, p.96.16 HABERMAS, Fatti e norme, cit., p.17.17 Sul problema dei rapporti tra procedure e valori mipermetto di rinviare il lettore al volume PORCIELLO,Diritto Decisione Giustificazione. Tra etiche procedurali e valori sostanziali,Giappichelli, Torino 2005.

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i soggetti giuridici possano mettersid'accordo - come cittadini - su quali siano iloro problemi e su come vadano risolti”18.

Ovviamente, le norme scaturenti dalladiscussione così orientata non sono nèuniversali né eterne, “a differenza delleregole morali, le regole giuridiche nonnormano in generale tutte le possibiliinterazioni dei soggetti capaci di linguaggioe d’azione, bensì soltanto i nessid’interazione di una società concreta. Ciòderiva già dal concetto di positività deldiritto cioè dalla fattualità della suaproduzione e imposizione”19.

La giustezza e l’equità di un sistemagiuridico nascente da tali basi discorsivesarà, dunque, direttamente proporzionale algrado di partecipazione degli attoricoinvolti, e ciò nel senso che tanto saràstata significativa la partecipazione deicittadini alle procedure decisionali, quantopiù forte sarà questo riconoscimento e,dunque, la loro lealtà nei confronti di normeda loro stessi statuite. Solo a questecondizioni può darsi un sistema giuridicodefinibile come “radicalmente democratico”, unsistema in cui la positività delle norme,lungi dal rappresentare l’affermazione di unavolontà arbitraria e contingente, esprime “lavolontà legittima derivantedall’autolegislazione presuntivamenteragionevole di cittadini politicamenteautonomi”20. Siamo di fronte alla distinzione,da più parti sottolineata, tra una democraziaformale, anzi potremmo dire solo apparente, eduna democrazia come ideale normativo in cui icittadini non sono soltanto “soggetti passivi”capaci solo di recepire decisioni presealtrove, bensì soggetti che partecipanoattivamente alla discussione politica e cheportano con sé il proprio originalecontributo, sulla base della loro appartenenza18 HABERMAS, Fatti e norme, cit., p.527.19 Op. cit., p.15020 HABERMAS, Fatti e norme, cit., pp. 43 e 44.

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a gruppi culturali. “L’idea di fondo di questaconcezione democratica radicale può esseresintetizzata dalla sostituzione degliinteressi personali con gli argomentirazionali sostenuti da gruppi o da individui evolti alla deliberazione. Ad avere valore sonoora in prima istanza gli argomenti checiascuno dei coinvolti adduce in difesa di unaposizione determinata. Il momento deliberativonon si deve ergere più su di un compromessotra interessi contrapposti, bensì devescaturire da un dialogo tra i coinvolti tracoloro cioè che dovranno poi riconoscere erispettare la deliberazione cristallizzatasiin norma giuridica, dialogo caratterizzatoogni volta da una pluralità di argomentirazionali posti a confronto per trovareun’intesa”21.

La distanza tanto dai liberali quanto daicomunitaristi appare a questo punto evidente.Per un verso Habermas critica la propostaconservatrice di Taylor e soprattutto il suomodo di concepire il sistema giuridico epolitico come un luogo “chiuso” e pronto atramandare ciecamente ed in maniera acriticatradizioni che hanno solo il pregio di essereconsolidate nel tempo. Nelle sue intenzioni,invece, tale sistema deve essere aperto edisponibile ad adeguarsi di volta in volta aimutamenti culturali prodotti dalla mescolanzaetnico-culturale prodotta dalmulticulturalismo. Il che significa chesoggetti e gruppi, pur senza rinunciare alleloro pretese di verità, “devono accettare lepremesse fallibilistiche del pensierosecolarizzato. Esse devono cioè riflettere sulfatto che - all'interno di uno stesso universo di“pretese di validità” - vengono a concorrerecon altre interpretazioni del mondo”22. D’altrocanto, altrettanto chiara appare la distanzadal pensiero liberale neutralista. Se infatti,Rawls e Larmore definiscono la sfera pubblica21 LALATTA, Diritto e potere, in Una introduzione alla filosofiadel diritto, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 177.22 HABERMAS, Fatti e norme, cit., p. 370.

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come puro regno di razionalità discorsiva, incui i soggetti lasciano “nelle mura delle lorocase”, nella sfera privata, la loro concezionedel bene, nel caso di Habermas la sferapubblica è sì, sfera discorsiva, ma trasoggetti ben radicati culturalmente, esoprattutto disposti ad accettare regoleprocedurali comuni ed a rivedere, nelladiscussione, le proprie posizioni valoriali dipartenza.

ConclusioniDa quanto detto possiamo trarre qualche

indicazione conclusiva. Il multiculturalismo èuna condizione di cui è necessario prendereseriamente atto. I tentativi di crearedivisioni e differenze al fine di mantenere la“purezza” della cultura ospitante, non solorappresentano un atteggiamento odioso eintollerabile, essi rappresentano un sicurofallimento, e per un semplice motivo: nessunapurezza può essere preservata perché nessunapurezza di fatto esiste. Tutti noi, europei eamericani in testa, altro non siamo che fruttodi ibridazione e di meticciato, ogni tentativodi chiusura nei confronti dell’estraneo èfrancamente insostenibile.

Come se non bastasse, la maggior partedei paesi occidentali si è dotata diCostituzioni più o meno rigide contenenti,anche se con formule assai diverse tra loro,veri e propri proclami di uguaglianza, che inmaniera del tutto chiara e pacifica nonconsentono alcuna forma di chiusura o dighettizzazione per motivi di razza, lingua oreligione. I sistemi costituzionalicontemporanei, compreso quello italiano, sonosistemi aperti, avvicinano e non dividono,sono laici, rinnegano ogni veritàprecostituita, sono pronti ad accogliere ildiverso, sono sistemi “meticci”, aborrisconoqualsiasi forma di razzismo. Ogniatteggiamento contrario a tali lampantiesigenze democratiche e costituzionali ha solol’effetto di farci sprofondare improvvisamentein quel clima pre-costituzionale in cui autori

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come Schmitt placidamente affermavano che“ogni vera democrazia (…) esige in primo luogol’omogeneità e in secondo luogo, se occorre,l’esclusione o l’annientamentodell’eterogeneo”23.

Con questo non si vuol sottovalutare ilproblema, o, ancora peggio, negare che ilfenomeno multiculturale sia “anche” unproblema. Da sempre la convivenza tra soggettiche la pensano diversamente su questioniimportanti ha generato sia povertà siaricchezze. Povertà in quanto lo scontro, laviolenza, la guerra sono in questi casi semprein agguato (lo è tra diverse fazionicalcistiche appartenenti alla stessanazionalità, si immagini tra etnie che nonhanno niente o quasi niente in comune);ricchezza in quanto è dalla commistione edalla fusione che, in tutti gli ambiti,dall’arte alla politica, all’economia, nasconole cose più belle ed originali. Non esistecomportamento più improduttivo ed inutile delconservatorismo, del conservare (non si sa poibene per chi) ciò che siamo o ciò che siamostati, forse per troppo tempo.

Quello che è indispensabile fare è,allora, favorire il processo d’integrazionecon tutti i mezzi a disposizione, attraversoil diritto, attraverso la politica esoprattutto attraverso l’educazione alladiversità, al fine di abituare le nuovegenerazioni alla ricchezza di cui la diversitàè portatrice. Fino a quando un Paese che siprofessa laico di fatto poi continua adintrattenere rapporti privilegiati con unaconfessione religiosa; fino a quando un Paeseche si professa a sostegno dell’uguaglianza,discrimina per motivi di sesso, di razza o dilingua, ebbene, fino ad allora nessunaricchezza potrà essere colta dalla “fortuna”di operare in una dimensione multiculturale.

23 SCHMITT, Der Gegensatz von Parlamentarismus und ModernerMassendemokratie, in “Positionen und Begriffe, Duncker u.Humblot, Berlin 1994, p. 67.

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Andrea Porciello, Ricercatore in Filosofia deldiritto, Facoltà di Giurisprudenza, Università MagnaGraecia di Catanzaro, Viale Europa, Edificio Giuridico,88100 Catanzaro. Cell: 3351458630. e-mail:[email protected]

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