differenze nelle organizzazioni: di cultura, di genere

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Prima versione del saggio pubblicato in M. Da Cortà Fumei (a cura di) "Formare alle differenze nella complessità. Generi e alterità nei contesti multiculturali”, Franco Angeli, Milano, 2009, pp. 31-53.

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Prima versione del saggio pubblicato in M. Da Cortà Fumei (a cura di) "Formare alle

differenze nella complessità. Generi e alterità nei contesti multiculturali”, Franco

Angeli, Milano, 2009, pp. 31-53.

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Differenze nelle organizzazioni: di cultura, di genere

Barbara Poggio

I cambiamenti che hanno coinvolto la società e il mondo del lavoro negli ultimi decenni

hanno prodotto scenari inediti e portato alla ribalta nuove questioni sociali ed

organizzative, tra cui quella della gestione delle differenze. In particolare in questo

contributo l’attenzione sarà rivolta alle differenze di genere e ai diversi paradigmi con

cui vengono interpretate ed affrontate negli interventi organizzativi e di policy.

Specifica attenzione verrà prestata all’approccio culturale, per la sua capacità di offrire

una lente interpretativa più incisiva dei meccanismi di produzione e riproduzione delle

asimmetrie e di generare strategie di intervento più efficaci. A partire da questa

prospettiva si cercherà di argomentare l’esigenza di interventi, formativi ed

organizzativi, che siano in grado produrre un effettivo cambiamento delle culture di

genere dominanti, ovvero degli assetti valoriali e normativi che all’interno delle

organizzazioni regolano i rapporti tra i sessi e definiscono il modo adeguato di “fare

genere”.

1. I processi di differenziazione nella società contemporanea

Per avviare questa riflessione vorrei richiamare alcuni rilevanti fenomeni che nel corso

degli anni ’90 hanno portato a profondi cambiamenti nel mondo del lavoro. Mi riferisco

in particolare al fenomeno della globalizzazione, caratterizzato dal superamento dei

tradizionali confini geografici e da una forte accelerazione della mobilità di persone,

merci e informazioni; ai rilevanti processi di innovazione connessi in particolare agli

sviluppi dell’informatica e della comunicazione; alla ridefinizione degli assetti

organizzativi (attraverso processi di acquisizione, fusione e ristrutturazione) legata al

forte aumento della competizione aziendale; alla progressiva diversificazione dei

bisogni e dei prodotti; alla crescente centralità delle logiche di servizio piuttosto che di

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prodotto. Si tratta di processi che hanno evidenti implicazioni su differenti ambiti ed in

particolare sul processi lavorativi e di produzione, sulle strutture organizzative, sui

modelli di responsabilità, sulle modalità di gestione di risorse umane sempre più

diversificate. A fronte di tutti questi cambiamenti la questione delle differenze va

assumendo sempre maggiore centralità (Bombelli 2007; Cuomo e Mapelli 2007). Si

assiste infatti ad una molteplicità di processi di diversificazione di cui le organizzazioni

sono chiamate a tener conto. In particolare vale la pena di segnalare:

- la diversificazione della forza lavoro in termini di genere, età, cultura, competenze,

motivazioni;

- la differenziazione dei bisogni soggettivi a cui le organizzazioni devono rispondere

in termini di prodotti e servizi, ma anche di gestione delle risorse umane;

- la diversificazione degli stakeholder dell’impresa;

Si tratta di cambiamenti inevitabili che richiedono di essere riconosciuti, interpretati e

governati, partendo dalla consapevolezza che sviluppare strumenti e modalità di

gestione della diversità può rappresentare per le organizzazioni una risorsa cruciale, per

diversi motivi:

- favorisce lo sviluppo di conoscenza, creatività ed innovazione, dimensioni

fortemente stimolate dall’incontro e dal confronto di punti di vista diversi;

- migliora l’attenzione sia al cliente esterno che a quello interno, in quanto consente di

tener conto delle varie specificità;

- aumenta il vantaggio competitivo, di cui la gestione delle risorse umane – e la

capacità di svilupparle e trattenerle – rappresenta oggi una leva cruciale;

- contribuisce a migliorare l’immagine dell’azienda, in quanto indicatore di qualità e

responsabilità sociale;

- consente di ridurre i costi: di selezione, legali, di turn over e assenteismo;

- migliora il clima organizzativo, favorendo il benessere individuale e le relazioni

interne.

In Italia la riflessione sul tema della diversità organizzativa si è sviluppata con maggiore

ritardo rispetto ad altri paesi. L’unico filone intorno al quale si è articolato un vero

dibattito, che ha portato all’identificazione di concrete strategie e proposte, è quello

relativo alle differenze di genere, che in un certo senso è stato poi percepito come una

sorta di laboratorio per mettere alla prova modelli di cittadinanza organizzativa

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applicabili poi anche ad altri tipi di differenze. Partendo da questa consapevolezza,

vorrei dunque sviluppare la mia riflessione ponendo una specifica attenzione alle

differenze di genere.

2. Differenze di genere nel lavoro e nelle organizzazioni

In primo luogo mi pare utile esplicitare meglio cosa intendiamo per “genere”, dal

momento che si tratta di un termine oggi piuttosto diffuso per indicare significati

piuttosto diversi. In particolare spesso viene impiegato per identificare le problematiche

legate alla condizione femminile o, talvolta viene usato come un sinonimo, più

politically correct, del termine “sesso” (come ad esempio accade sempre più spesso

nelle analisi qualitative che distinguono i comportamenti di uomini e donne).

Nel parlare di genere intendo invece fare riferimento all’insieme di concezioni e di

pratiche che normalizzano la differenza sessuale (Butler 1990, Martin 2003). Il genere

non indica la proprietà della persona, ma qualcosa che le persone pensano, fanno e

dicono, producendo e riproducendo posizioni asimmetriche a partire da corpi sessuati

(Murgia e Poggio 2009). Il concetto di genere nasce negli anni ’70 all’interno del

dibattito femminista per affrontare la questione dell’asimmetria di potere tra donne e

uomini nelle diverse sfere sociali, sulla base della distinzione tra produzione e

riproduzione (Rubin 1975, Scott 1986). In particolare l’attenzione è rivolta al mondo del

lavoro, dove – nonostante i notevoli cambiamenti che hanno caratterizzato gli

orientamenti e i comportamenti lavorativi delle donne negli ultimi decenni, si rileva la

persistenza di notevoli fenomeni di segregazione orizzontale e soprattutto verticale.

Nonostante si sia infatti assistito ad un consistente aumento della scolarizzazione

femminile e dei tassi di entrata nel mondo del lavoro, i dati dimostrano che esiste

ancora una divaricazione dei percorsi lavorativi e delle opportunità di carriera di donne

e uomini, che rappresenta, oltre che un problema in termini di equità, anche un evidente

spreco di risorse economiche e sociali.

Per spiegare questo fenomeno sono state utilizzate molteplici chiavi di lettura, che

hanno concentrato la loro attenzione su diversi aspetti. Di seguito proverò ad

identificare alcune tra le principali prospettive interpretative adottate, legate a contesti

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storici e culturali differenti, cercando di metterne in luce le più significative

caratteristiche.

1. Le differenze funzionali - Il primo modello interpretativo si sviluppa in ambito

economico negli anni ’60 e fa riferimento all’esistenza di differenze funzionali tra

uomini e donne (Becker 1981): il presupposto di fondo è che la differenza fisica tra

uomini e donne si riflette in una differenza funzionale, che li rende cioè adatti a svolgere

funzioni diverse. Il fatto, in particolare, che siano le donne a procreare dà luogo ad una

divisione dei compiti all’interno della famiglia, che porta le donne a prendersi cura dei

figli e gli uomini a farsi carico del mantenimento della famiglia (da qui il concetto di

breadwinner). Si tratta di un ragionamento improntato prevalentemente ad un’ottica

economica, dove si sostiene che la strategia perseguita all’interno della famiglia è quella

di minimizzare i costi e massimizzare i profitti. Uno dei corollari di questa teoria è

legata all’importanza del capitale umano, ovvero l’investimento in educazione e

formazione: si sostiene infatti che le giovani donne, in previsione di un loro maggiore

impegno di cura, tendano ad investire meno, rispetto agli uomini, in istruzione e

formazione, con conseguenze negative in termini di prospettive di carriera. Si tratta di

una lettura ancora oggi piuttosto diffusa, anche se sempre meno sostenibile di fronte ai

dati relativi alla scolarizzazione femminile, sia alla luce dei mutati comportamenti

familiari e lavorativi delle donne.

2. Le differenze strutturali - Su una posizione diversa, direi alternativa, si pongono

invece le spiegazioni che fanno riferimento alle differenze strutturali (Kanter 1977,

Reskin 1984). In questa prospettiva, che si sviluppa negli anni ’70, l’attenzione si sposta

dalle motivazioni individuali e familiari ai vincoli socio-strutturali, riprendendo anche

alcune categorie proprie della teoria marxista. Al posto del capitalismo e della classe

operaia, troviamo qui il patriarcato e la forza lavoro femminile sfruttata. L’enfasi è

posta in particolare sul come le strutture del mercato del lavoro e della società più in

generale (dominate dal patriarcato, che non vuole perdere il suo dominio) ostacolano la

possibilità delle donne di fare carriera, di avanzare, di ottenere posizioni. Appare

cruciale la questione della numerosità, della massa critica: fintanto che le donne saranno

minoranza, non avranno voce in capitolo per poter modificare la situazione e per

emanciparsi dalla loro posizione di emarginazione e sfruttamento. Il principale limite di

questa lettura sta probabilmente nella tendenza ad omologare i comportamenti della

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componente femminile, senza considerare l’esistenza di orientamenti, motivazioni e

tendenze diversificate al suo interno.

3. La socializzazione primaria - Negli anni ‘80 si ritorna invece a puntare l’attenzione

sulla dimensione individuale. Si sviluppa in particolare un dibattito, di stampo

prevalentemente psicologico, che tende a focalizzare l’attenzione sulla socializzazione

primaria, di cui le differenze di genere rappresentano uno dei principali prodotti. In

particolare alcune delle principali esponenti di questa corrente (Chodorow, 1978,

Gilligan 1982) puntano l’indice sul processo di separazione tra madre e figli/e, che ha

luogo nel primo periodo di vita infantile e che sembra avere esiti diversi per bambini e

bambine. Se infatti per i maschi si assiste ad un distacco compiuto, dovuto al fatto che

esiste la consapevolezza di un corpo diverso, per le femmine la separazione non è

completa e il legame simbiotico con la madre non è mai del tutto sciolto. Questi diversi

vissuti darebbero luogo a diversi tratti di personalità, consentendo agli uomini di

sviluppare caratteristiche come l’assertività e l’aggressività, mentre favorendo nelle

donne lo sviluppo di qualità legate alla relazionalità e alla cura. La conseguenza di

questa differenziazione all’interno delle organizzazioni è dovuta al fatto che sono

soprattutto i tratti maschili ad essere più riconosciuti e valorizzati. Le maggiori

debolezze di questo approccio sono le componenti di essenzialismo e determinismo in

esso implicito, per cui le caratteristiche ed i destini di genere vengono di fatto definiti in

modo irreversibile nelle prime fasi di vita degli individui.

4. Le culture di genere - Il quarto modello che intendo richiamare, in cui si collocano i

contributi più attuali, fa riferimento alle pratiche e alle culture di genere (Gherardi 1998,

Gherardi e Poggio 2003); il presupposto di partenza è che il genere sia un costrutto

culturale e relazionale, qualcosa che viene costruito attraverso interazioni sociali situate

all’interno di specifici contesti, e si cerca così di analizzare come viene prodotto e

gestito all’interno delle organizzazioni. Parlare di culture di genere significa focalizzare

l’attenzione sui sistemi di significato (che comprendono simboli, valori, norme,

discorsi, narrazioni, ecc.) utilizzati dai membri delle organizzazioni non solo per

interpretare, ma anche per produrre e riprodurre le differenze tra uomini e donne.

Significa riconoscere l’esistenza di ordini simbolici che attribuiscono diversi ruoli,

capacità e competenze alle persone sulla base di un corpo diversamente sessuato.

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Il focus si sposta dunque dalle motivazioni individuali e dalle strategie familiari, dalle

strutture sociali, dalla socializzazione e dalle dinamiche psicologiche, alle interazioni e

alle pratiche sociali che hanno luogo nelle organizzazioni. Il genere non viene visto

come qualcosa di esterno alle organizzazioni, ma piuttosto come qualcosa che si

produce nelle organizzazioni stesse, attraverso i modelli di gestione organizzativa,

tramite le relazioni tra i membri dell’organizzazione. L’analisi prende in considerazione

le pratiche sociali e discorsive con cui maschilità e femminilità vengono costruite come

alternative e gerarchicamente ordinate. La principale critica che viene rivolta a questo

tipo di lettura riguarda tuttavia il rischio di perdere di vista le dimensioni più

“oggettive” e misurabili degli assetti lavorativi per concentrarsi invece su aspetti

considerati più intangibili e astratti.

3. Quali modelli di intervento?

Se prendere in considerazione questi quattro approcci da un lato consente di avere un

quadro più articolato dei diversi fattori che possono contribuire a divaricare i percorsi di

uomini e donne all’interno delle organizzazioni e di evitare il ricorso a letture troppo

semplicistiche del fenomeno, dall’altro ci permette di comprendere meglio i presupposti

di fondo di molte delle azioni e degli interventi che vengono e che sono stati realizzati

per affrontare il problema della segregazione di genere (Kolb et al. 1998). Dietro ad

ogni intervento c’è infatti sempre una specifica visione della realtà e una

interpretazione, più o meno consapevole, delle ragioni alla base del problema che si

intende affrontare.

1. Equipaggiare le donne - Dal primo approccio considerato, che di fatto identifica il

problema nell’esistenza di un gap femminile, un vuoto che deve essere riempito, deriva

il tipo di risposta storicamente più diffusa, e a cui a tutt’oggi si richiamano la maggior

parte delle azioni. Si tratta degli interventi finalizzati ad equipaggiare le donne,

prevalentemente attraverso iniziative di carattere formativo, solitamente attraverso corsi

mirati ad offrire loro le conoscenze o le competenze, tecniche o trasversali, di cui

sembrano essere scarsamente attrezzate. Il parametro di riferimento è appunto quello

maschile: l’obiettivo è infatti di colmare la distanza che separa le donne dagli uomini,

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puntando ad una sorta di omologazione. Non vengono invece rimessi in discussione né

gli assetti organizzativi né il sistema sociale di riferimento.

2. Creare pari opportunità - Il secondo modello che abbiamo considerato è invece alla

base di tipologie di intervento mirate a mettere in discussione una configurazione

strutturale della società che svantaggia le donne, puntando a ridefinire gli equilibri

numerici tra donne e uomini nei luoghi decisionali o a supportarle nella gestione dei

carichi e delle responsabilità di cura, al fine di promuovere non tanto la parità formale,

ma piuttosto condizioni di pari opportunità. In questa prospettiva vengono pertanto

introdotte misure come le quote, finalizzate a garantire l’esistenza di una massa critica

di donne all’interno delle organizzazioni, o vengono create strutture (come gli asili

nido) e introdotte modalità lavorative (come il part-time) destinate a supportare le donne

nella gestione della doppia presenza. Si agisce dunque a livello macro, partendo dal

presupposto che il problema che si vuole affrontare non è individuale, ma di sistema.

3. Valorizzare le specificità - Il terzo orientamento, che parte dal riconoscimento

dell’esistenza di differenti tratti e risorse psicologiche nelle donne e negli uomini, punta

invece alla valorizzazione della differenza, o meglio della diversity, attraverso una

accurata gestione organizzativa che sappia mettere a frutto le diverse specificità. Ad

esempio si riconosce alle donne la capacità di gestire le relazioni interpersonali e si

cerca quindi di collocarle in ruoli dove tali capacità risultino utili o strategiche.

Enfatizzare e valorizzare le differenze implica tuttavia alcune insidie, tra cui in

particolare il rischio di consolidare vecchie disuguaglianze o di crearne di nuove.

4. Cambiare le culture - I tre modelli di intervento sopra considerati oscillano tra la

dimensione individuale (le competenze e i tratti di personalità) a quella strutturale (i

servizi di cura e le norme di parità), ma sono accomunati dalla tendenza a proporre

iniziative rivolte alla componente femminile (da equipaggiare, supportare o

valorizzare), senza coinvolgere – se non indirettamente - la componente maschile, né

agire sulle pratiche relazionali che caratterizzano l’interazione quotidiana tra uomini e

donne all’interno dei contesti lavorativi.

E’ invece il quarto approccio ad operare questa sfida, proponendosi di intervenire

sulle culture di genere, ovvero sui modi in cui il genere viene costantemente riprodotto,

da donne e uomini, nella quotidianità del lavoro, nelle regole informali delle interazioni

organizzative. Le strategie orientate in questa direzione sono molteplici: le azioni

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cercano in particolare di aumentare la consapevolezza delle persone, donne e uomini,

dai livelli manageriali a quelli esecutivi, sulla rilevanza del genere e delle sue

conseguenze e implicazioni nell’agire organizzativo; di intervenire sugli elementi

valoriali e simbolici della vita lavorativa, spesso poco visibili, ma profondamente

radicati nelle pratiche organizzative e proprio per questo difficili da modificare; di

scardinare le pratiche e le convinzioni consolidate offrendo modelli e trame alternativi.

.

4. Gestire la diversità in una prospettiva culturale Per affrontare la questione delle differenze di genere, e soprattutto delle disuguaglianze,

all’interno delle organizzazioni è importante intervenire con strategie articolate, in

grado di incidere su diversi aspetti. Qualunque siano le azioni adottate, è sempre

importante tener conto della dimensione culturale, perché senza un effettivo

cambiamento culturale è difficile garantire cambiamenti di lungo periodo. I percorsi

formativi individuali, gli interventi strutturali e le iniziative di valorizzazione possono

avere effetti significativi, ma raramente di lunga durata se non si riesce al contempo ad

incidere sulle pratiche e sulla consapevolezza degli attori.

Tra le azioni che possono rivelarsi di maggiore efficacia per incidere sugli orientamenti

culturali segnalerei in particolare1:

- la realizzazione di percorsi formativi finalizzati non tanto a potenziare le

competenze delle donne, quanto piuttosto a favorire una maggiore consapevolezza

dei modelli culturali dominanti e una loro ridefinizione da parte dei diversi attori

organizzativi, proprio a partire dal riconoscimento dell’esigenza di governare i

cambiamenti in atto. Principali destinatari di queste iniziative dovrebbero essere

quei soggetti che all’interno delle organizzazioni ricoprono ruoli decisionali e

gestionali o che comunque sono in grado di incidere sugli assetti organizzativi

(figure manageriali e soggetti coinvolti nella contrattazione sindacale);

- l’adozione di interventi mirati a promuovere una ridefinizione dei modelli di

organizzazione dei tempi, che riconosca cittadinanza ad altri ambiti vitali sia per le 1 Esempi concreti di queste diverse tipologie di intervento sono state attivate all’interno del Progetto Equal GELSO, coordinato dal Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, e sono reperibili sul sito www.unitn.it/gelso.

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donne che per gli uomini. Si tratta in questo caso di sviluppare strumenti e

dispositivi organizzativi in grado di favorire una più efficace conciliazione tra vita

personale e lavorativa, come la flessibilità oraria, i servizi time-saving, i congedi di

cura;

- la promozione di azioni di sensibilizzazione mirate a scardinare le tradizionali

attribuzioni di ruolo sia a livello organizzativo che sociale, come ad esempio le

campagne pubblicitarie per incentivare l’utilizzo dei congedi parentali da parte dei

padri, favorendo così una ridefinizione dei ruoli e delle aspettative di genere sia

nelle famiglie che nelle organizzazioni;

- lo sviluppo di interventi organizzativi mirati a modificare pratiche che hanno

implicazioni discriminanti all’interno dei contesti di lavoro. E’ ad esempio possibile

rivedere i sistemi di reclutamento, favorendo criteri di merito anziché di affiliazione,

così come i modelli premianti basati sulla disponibilità di tempo a favore di modelli

più basati sul conseguimento degli obiettivi;

- la progettazione di strumenti e politiche di conciliazione non destinati in via

prioritaria alle donne, con il rischio di riprodurre le tradizionali aspettative ed

asimmetrie di ruolo, ma anche, e magari soprattutto, agli uomini, in modo tale da

sfidare e mettere in discussione gli ordini simbolici dominanti;

- lo sviluppo di dispositivi mirati a mettere in luce l’impatto di genere di scelte

organizzative e politiche, come ad esempio il gender budgeting e il gender auditing,

che consentono di misurare, attraverso l’identificazione di specifici indicatori, le

ricadute di genere, in termini economici ed organizzativi, dei comportamenti

gestionali, e l’analisi dei costi di non parità, che permette di mettere in evidenza i

costi effettivi di politiche gestionali poco sensibili alla questione delle differenze di

genere;

- la promozione di interventi di sensibilizzazione capaci di intervenire sull’apparato

simbolico con cui i modelli di genere sono veicolati nell’organizzazione (il

linguaggio, il layout organizzativo, le immagini, le storie organizzative, la

comunicazione interna ed esterna…).

Visto il forte radicamento dei modelli culturali di genere nell’agire organizzativo, si

tratta certamente di interventi ambiziosi, di non facile realizzazione e spesso osteggiati

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da significative resistenze, ma che rappresentano certamente la strada maestra per

apportare effettivi e duraturi cambiamenti nelle pratiche di genere delle organizzazioni.

In questo scenario la formazione può giocare un ruolo certamente strategico, dal

momento che agire in una prospettiva culturale non consente di accontentarsi di

semplici ricette operative, ma implica lo sviluppo di interventi situati e capaci di

coinvolgere i diversi attori, stimolando, anche attraverso percorsi formativi ben mirati,

un efficace lavoro di decostruzione e ridefinizione delle chiavi interpretative e dei

presupposti ideologici che modellano le pratiche di genere nelle organizzazioni.

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Scott, Joan W. (1986) “Gender: A Useful Category of Historical Analysis”, The American Historical Review, 91(5): 1053-1075.