bisanti - antologia di testi agiografici (anno acc. 2014-2015)

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Università degli Studi di Palermo Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale Anno Acc. 2014-2015 Corso di Laurea Triennale in Beni Culturali Sede di Agrigento Letteratura Latina Medievale prof. Armando Bisanti Antologia di testi agiografici (con schede biografiche sugli autori)

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Università degli Studi di Palermo

Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale

Anno Acc. 2014-2015

Corso di Laurea Triennale in Beni Culturali

Sede di Agrigento

Letteratura Latina Medievale

prof. Armando Bisanti

Antologia di testi agiografici (con schede biografiche sugli autori)

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1. Sulpicio Severo

1.1. Sulpicio Severo o Sulpizio Severo (360 ca.-420 ca.) è stato uno scrittore e monaco latino, spesso confuso con l’omonimo vescovo di Bourges morto nel 591, santo della Chiesa cattolica festeggiato il 29 gennaio.

Nacque in Aquitania da una ricca famiglia di alto rango; studiò grammatica, retorica e diritto a Bordeaux. Du-rante gli studi strinse una grande e durevole amicizia con Paolino, che poi fu vescovo di Nola e rinomato poeta cristia-no. Terminati gli studi, Sulpicio intraprese la carriera del foro. Verso il 389 ricevette il battesimo e sposò una facoltosa donna di famiglia consolare, che ben presto però lo lasciò vedovo. Sulpicio abbandonò allora la vita pubblica e rinunciò a gran parte dei suoi beni, e in una tenuta, a Primuliacum, nel sud della Gallia, iniziò il suo cammino spirituale. Ben presto attorno a lui si radunò una comunità, sostenuta dalla ricca suocera Bassula, quella stessa che poi incoraggiò il ge-nero a pubblicare le opere su Martino di Tours. Prendendo esempio da quest’ultimo, Sulpicio e i suoi amici diedero alla comunità uno stile monastico, per quanto aristocratico ed esclusivo. Gennadio, che nel suo De viris illustribus scrisse una breve biografia di Sulpicio Severo, ci dà testimonianza della sua ordinazione presbiteriale, ma non esiste alcuna no-tizia certa circa la sua attività sacerdotale. Secondo lo stesso Gennadio, Severo si accostò verso la fine della sua vita al pelagianesimo, ma presto si rese conto dell’errore e si impose al silenzio fino alla fine dei suoi giorni, allo scopo di espiare la sua imprudenza.

Le sue opere mostrano una chiara influenza, sotto il profilo stilistico, di Tacito e Sallustio. Quelle che gli ven-gono con sicurezza attribuite sono le seguenti:

1. Chronicorum Libri duo o Historia sacra; 2. Vita Martini, l’opera più famosa, biografia di Martino di Tours; 3. due dialoghi, divisi formalmente in tre; 4. tre lettere.

I copisti medievali raggrupparono la Vita Martini, le Epistulae e i Dialogi sotto il titolo di Martinellus, come se fosse un’opera unica.

1.2. La Vita Martini - Precede la biografia la lettera dedicatoria ad un certo Desiderio che Sulpicio chiama “fratello in Cristo”. Il dedicatario non è stato identificato con precisione, si ritiene fosse un letterato vicino all’ascetismo e si apprende dalla lettera stessa che aveva sollecitato Sulpicio Severo nella compilazione e nella pubblicazione della Vita Martini. È stata avanzata l’ipotesi che sia il Desiderio che tenne una corrispondenza con Girolamo, un notabile probabilmente aquitano, e che più tardi prese i voti religiosi. Sulpicio Severo prega il suo corrispondente di non divul-gare la sua opera o di farlo in modo anonimo e si scusa per l’ineguatezza del suo stile. Lo scopo del biografo cristiano deve essere quello di indicare una via alla fede ed alla salvezza parlando di un uomo santo e virtuoso e non la ricerca della propria notorietà. Per questo motivo l’autore vorrebbe che il suo nome non fosse divulgato.

Figlio di un militare, Martino nacque in Pannonia e fu educato a Pavia. Pur avvertendo fin dall’infanzia il ri-chiamo della vocazione religiosa e ascetica, Martino fu costretto dal padre ad arruolarsi e militò sotto gli imperatori Co-stanzo e Giuliano. Aveva con sé un servo, ma spesso i ruoli si rovesciavano ed era lui a far da servitore all’altro. La sua grande umiltà lo fece amare dai commilitoni che ammiravano la sua incessata dedizione alle opere benefiche. Un gior-no, alle porte di Amiens, incontrò un povero nudo cui nessuno faceva l’elemosina. Faceva molto freddo e Martino, che non aveva altro con sé, tagliò in due parti la propria clamide e la divise con il mendicante. Durante la notte il gesto di Martino fu premiato da un apparizione in sogno di Gesù Cristo. Si fece subito battezzare ma non lasciò le armi per altri due anni per la preghiere di un tribuno suo amico.

Quando Giuliano riunì l’esercito per combattere gli Alemanni che avevano invaso le Gallie e prese a distribuire donativi ai soldati, Martino ne approfittò per chiedere il congedo, rifiutando il donativo. A Giuliano che lo accusava di temere l’imminente battaglia, Martino assicurò che avrebbe fronteggiato il nemico disarmato e l’imperatore lo fece im-prigionare per costringerlo a mantenere la promessa. Ma non ci fu battaglia perché l’indomani i barbari si arresero senza combattere e questo improvviso e imprevisto cambiamento è ritenuto dall’autore un primo miracolo di Martino.

Lasciato l’esercito, Martino si recò quindi presso Ilario di Poitiers che lo spingeva al sacerdozio ma egli rifiu-tava dichiarandosi indegno, accettò invece la funzione di esorcista che era una carica di livello inferiore. Qualche tempo dopo, spinto da un sogno, decise di tornare a visitare i genitori. Durante il viaggio fu catturato dai briganti e liberato da uno di loro improvvisamente redento e convertito dalle parole del santo. Tornato a casa convertì la madre e molti con-nazionali, ma entrato in contrasto con i vescovi ariani dell’Illirico fu percosso pubblicamente ed espulso.

Avendo saputo che anche Ilario aveva subito l’esilio, si fermò a Milano, ma anche qui fu perseguitato e scac-ciato per volontà del vescovo ariano Aussenzio. Martino si ritirò nella solitudine dell’isola Gallinaria in compagnia di un prete. Nutrendosi di erbe e radici mangiò incidentalmente il velenosissimo elleboro ma si salvò cercando aiuto nella preghiera. Poco dopo venne a sapere che ad Ilario era stato concesso il rientro e si mise in viaggio per incontrarlo a Ro-ma. Seguì Ilario a Poitiers e si stabilì poco lontano in un eremo in compagnia di un giovane catecumeno. Questi morì di malattia durante un’assenza di Martino; quando Martino tornò rivolse a Dio la sua più fervida preghiera ed il ragazzo fu risuscitato. Con questa resurrezione e con quella di uno schiavo che si era impiccato, Martino divenne molto famoso e il popolo volle che fosse nominato vescovo di Tours. Schivo e poco disposto a lasciare il suo eremo, Martino venne attira-to in città con il pretesto di una malata da guarire e fu proclamato vescovo fra l’esultanza dei fedeli, ma gli altri vescovi non videro di buon occhio la sua nomina ed escogitarono molti espedienti per ostacolarlo.

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Dopo aver abitato per qualche tempo in una piccola cella presso la chiesa episcopale, Martino trovò un rifugio più isolato presso la Loira a due miglia dalla città. Nelle vicinanze si stabilirono 80 discepoli formando una comunità monastica dedita esclusivamente alla preghiera e soltanto i più giovani lavoravano come copisti, gli averi ed i pasti era-no in comune, non si beveva vino, ci si vestiva con pelli di cammello. Dubbioso sull’autenticità di un sepolcro che si trovava nelle vicinanze e che veniva venerato come reliquia di martiri, Martino scoprì l’errore evocando lo spirito di chi vi era sepolto e apprendendo che si trattava di un brigante. Con questo episodio ha inizio una sorta di catalogo dei mira-coli di Martino, ad ognuno dei quali segue la conversione dei pagani presenti: blocca con un gesto i movimenti di una processione pagana, devia con il segno della croce la caduta di un albero che aveva voluto abbattere perché oggetto di idolatria e che stava per colpirlo dimostrando di godere della protezione divina. Salva una casa dalle fiamme, abbatte templi pagani con l’aiuto degli angeli mentre quanti tentano di sopraffarlo vengono miracolosamente fermati da potenze invisibili. Ma Sulpicio Severo sottolinea con particolare enfasi le prodigiose guarigioni, come quella di una fanciulla già agonizzante o di un lebbroso, e gli esorcismi con i quali il santo liberava gli indemoniati. Anche gli oggetti che erano appartenuti a Martino avevano poteri miracolosi e la loro applicazione poteva guarire gli infermi. Al cospetto dell’imperatore (l’usurpatore Magno Massimo) tutti i vescovi si comportarono in modo adulatorio tranne Martino il quale non solo osò chiedere la grazia per alcuni eretici ma accusò Massimo di aver preso il potere con la violenza. Mas-simo finì con l’apprezzare la sincerità e l’austerità di Martino che gli predisse che se avesse attaccato Valentiniano sa-rebbe perito, come in effetti avvenne qualche tempo dopo.

Frequentissime le apparizioni demoniache: il diavolo si presentava a Martino nelle forme più disparate per van-tarsi dei propri crimini e per accusarlo dei suoi errori ma il santo, per nulla impressionato, lo fronteggiava con calma e arrivò a promettergli misericordia se avesse desistito dal perseguitare l’umanità. Singolare l’aneddoto che riguarda un giovane monaco di nome Anatolio che voleva dimostrare di essere un santo. Una sera annunciò ai confratelli che avreb-be ricevuto dal cielo una nuova veste ed effettivamente durante la notte, dopo una serie di rumori misteriosi provenienti dalla sua cella, Anatolio apparve vestito di una candida e morbidissima tunica. Nessuno era in grado di riconoscere quel tessuto ma quando tentarono di condurre Anatolio al cospetto di Martino, il giovane prese a gridare e la veste - opera del Maligno - svanì nel nulla.

Lo stesso Martino riferì a Sulpicio Severo, che ebbe modo di conoscerlo personalmente, che una volta gli era apparso il diavolo fingendo di essere Gesù Cristo in persona ma Martino non si era lasciato ingannare e il diavolo si era dileguato lasciando nella cella un orribile fetore. Con l’occasione l’autore racconta il suo lungo viaggio in compagnia di altre persone per far visita a Martino, la gioia e l’umiltà con le quali erano stati accolti dal santo ed i suoi insegnamenti.

Martino aveva parlato loro entusiasticamente di Paolino, indicandolo come esempio da seguire. Sulpicio Severo conclude la sua breve opera agiografica affermando di essersi limitato a raccontare le vicende,

quelle prodigiose e quelle umane, della vita di Martino ma di non poter, né lui né altri, conoscere e descrivere la fede e la beatitudine del Santo e quanto egli provava e pensava durante la sua vita spesa nella preghiera e nell’operare il bene senza mai reagire alle provocazioni e alle offese degli avversari.

1.1. Vita Sancti Martini episcopi et confessoris

§ 3. Quodam itaque tempore, cum iam nihil praeter arma et simplicem militiae vestem haberet, me-dia hieme, quae solito asperior inhorruerat, adeo ut plerosque vis algoris exstingueret, obvium habet in porta Ambianensium civitatis pauperem nudum: qui cum praetereuntes ut sui misererentur oraret omnesque mise-rum praeterirent, intellegit vir Deo plenus sibi illum, aliis misericordiam non praestantibus, reservari. Quid tamen ageret? Nihil praeter chlamydem, qua indutus erat, habebat: iam enim reliqua in opus simile consu-mpserat. arrepto itaque ferro, quo accinctus erat, mediam dividit partemque eius pauperi tribuit, reliqua rur-sus induitur. interea de circumstantibus ridere nonnulli, quia deformis esse truncatus habitu videretur: multi tamen, quibus erat mens sanior, altius gemere, quod nihil simile fecissent, cum utique plus habentes vestire pauperem sine sui nuditate potuissent. Nocte igitur insecuta, cum se sopori dedisset, vidit Christum chlamy-dis suae, qua pauperem texerat, parte vestitum. intueri diligentissime Dominum vestemque, quam dederat, iubetur agnoscere. mox ad angelorum circumstantium multitudinem audit Iesum clara voce dicentem: Marti-nus adhuc catechumenus hic me veste contexit. Vere memor Dominus dictorum suorum, qui ante praedi-xerat: quamdiu fecistis uni ex minimis istis, mihi fecistis, se in paupere professus est fuisse vestitum: et ad confirmandum tam boni operis testimonium in eodem se habitu, quem pauper acceperat, est dignatus osten-dere. Quo viso vir beatissimus non in gloriam est elatus humanam, sed bonitatem Dei in suo opere cogno-scens, cum esset annorum duodeviginti, ad baptismum convolavit. nec tamen statim militiae renuntiavit, tri-buni sui precibus evictus, cui contubernium familiare praestabat: etenim transacto tribunatus sui tempore re-nuntiaturum se saeculo pollicebatur. qua Martinus exspectatione suspensus per biennium fere posteaquam est baptismum consecutus, solo licet nomine, militavit.

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2. Gregorio di Tours

2.1. VITA La seconda metà del secolo VI, in Francia, è dominata da Gregorio di Tours, chiamato l’Erodoto dei Franchi, il

padre della storiografia francese, il primo scrittore della Francia moderna; la sua fortuna è legata principalmente all’Historia Francorum, l’opera che ne fa la fonte più ricca e acuta sugli avvenimenti nella Francia tardoantica, ma an-che l’iniziatore di una scrittura tipicamente medioevale, ormai libera dai pesanti legami con la tradizione classica.

Nacque probabilmente nel 538, a Clermont-Ferrand, da una delle più illustri famiglie romane della città, e i genitori lo chiamarono Giorgio Florenzio; cambiò presto il suo nome in quello di Gregorio, per ricordare un antenato materno che era stato vescovo di Langres, così come suoi parenti erano Gallo e Avito, entrambi vescovi di Clermont-Ferrand, che seguirono i suoi studî. Era di salute incerta, e per questo nel 563 intraprese un pellegrinaggio a Tours, alla tomba di Martino, per implorare dal santo la guarigione; anche a Tours era vescovo un suo parente, Eufronio, cugino della madre, che lo tenne con sé come diacono. Alla morte di Eufronio, nel 573, Gregorio fu nominato vescovo con l’appoggio di Sigisberto I re di Nèustria, e tenne il soglio di Tours per circa vent’anni, affrontando con grande abilità le responsabilità che gli venivano dal ricoprire la sede vescovile più importante e prestigiosa di tutta la Francia; anche quando, dopo la morte del suo protettore Sigisberto, dové affrontare l’inimicizia del nuovo re, Chilperico I, il vescovo Gregorio seppe sempre tener fede con grande dignità ai doveri della carica, e seppe consolidare la rete di amicizie e di solidarietà tra i vescovi delle varie sedi francesi che gli consentì di superare anche le crisi più pericolose. La morte di Chilperico, nel 584, e l’appoggio di Childeberto II gli consentirono di trascorrere più serenamente gli ultimi anni della sua vita, che si concluse intorno al 594.

2.2. OPERE La produzione in versi è tutta perduta, come ad esempio il poema che avrebbe scritto in occasione della nomi-

na a vescovo; rimangono invece quattro opere in prosa, un commento al libro dei Salmi e tre altri scritti di maggior ri-lievo letterario, che per varî aspetti hanno per noi notevole interesse.

2.2.1. Il Liber de cursibus ecclesiasticis fu composto fra il 575 e il 582, e si propone di trattare gli obblighi li-turgici dei religiosi relativamente alla recita delle preghiere notturne, che vanno cadenzate secondo il sorgere delle stelle e il loro corso; competenza astronomica e devozione cristiana vengono così coniugate in un intreccio significativo non solo per la storia medioevale della scienza e la persistenza delle dottrine antiche, ma anche perché tratteggia in maniera efficace la figura dell’uomo di chiesa – almeno quale lo avrebbe voluto Gregorio – attento a computare le ore della not-te, e pronto a risvegliarsi più volte dal sonno per assolvere i suoi doveri di preghiera. Gregorio infatti non presume di scrivere un trattato scientifico, e respinge sdegnato l’uso dell’astronomia a fini magico-profetici, ma si propone di lega-re lo scorrere del tempo con la devota riflessione sulla divinità, e quindi l’umano con il divino, attraverso il mondo crea-to. Di qui anche la curiosa prefazione premessa al De cursibus, che ha sempre – e giustamente – interessato gli studiosi forse più dell’opera stessa, con l’elenco delle meraviglie del mondo, sette costruite dall’uomo e sette volute direttamen-te da dio. Naturalmente la lista delle meraviglie non coincide con quella, o quelle, formulate dall’antichità classica, e risente in maniera per noi significativa della nuova cultura e del nuovo gusto cristiani e medioevali; opera dell’uomo sono l’arca di Noè, Babilonia, il tempio di Salomone, il Mausoleo, il colosso di Rodi, il teatro di Eraclea, il foro di Alessandria, mentre a dio si devono le maree, la crescita delle piante, la fenice, l’Etna, la fonte di san Bartolomeo a Grenoble, il sole, la luna. Le meraviglie divine sono considerate, e non poteva essere altrimenti, di gran lunga superiori a quelle umane, e vengono descritte con cura attingendo a varî autori: per la fenice, l’uccello dalla lunghissima vita, che in punto di morte si costruisce il rogo su cui ardere, perché dalle fiamme nasca la nuova fenice, è ricordato il carme tar-doantico comunemente attribuito a Lattanzio, e che anche Gregorio assegna allo scrittore cristiano; per l’Etna, accanto a trattati scientifici, è menzionato Virgilio: Publeus Mantuanus in tertio Ineidum libro, come dice Gregorio con la nuova grafia del latino, che dimostra ampiamente i grossi cambiamenti fonetici intervenuti rispetto all’età augustea; per la fon-tana di Grenoble ci sono quattro versi tratti da un carme di Ilario di Arles.

2.2.2. Un’altra opera, o meglio una raccolta di opere riunite insieme sotto un solo titolo, sono i Miraculorum

libri VIII, la cui composizione va dal 574 al 593. 2.2.2.1. Il primo libro, In gloria martyrum, fu composto intorno al 590, ed è un trattato edificante sui grandi

miracoli attribuiti ai martiri; quei caratteri di cristianesimo popolare e superstizioso che si sono già segnalati per l’analoga produzione di Gregorio Magno compaiono qui, se possibile, potenziati ed esaltati dal fatto che questo tipo di religiosità trova in Gregorio di Tours un corrispondente ben preciso nella lingua, anch’essa popolare e «incolta» come la fede che esprime. Famoso è il passo sulle reliquie di san Pietro, costruite portando a Roma pezzi di stoffa, accurata-mente pesati, e lasciandoli per un certo tempo nella tomba dell’apostolo martire: se la devozione con cui veniva com-piuto questo gesto era accompagnata dalle opportune preghiere e mortificazioni della carne, al momento in cui venivano ritirati dalla tomba i pezzi di stoffa risultavano assai più pesanti di prima, perché oltre il tessuto contenevano la divina potenza di compiere miracoli (virtus), alla quale era dovuto l’aumento di peso. Nella prefazione del libro, comunque,

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Gregorio insiste sulla contrapposizione fra la verità di queste meravigliose imprese dei santi cristiani e la falsità della mitologia pagana, turpe non meno che bugiarda.

2.2.2.2. Il secondo libro, De virtutibus sancti Iuliani, fu scritto fra il 581 e il 587, e riguarda il martirio e i mi-racoli di questo santo, narrati con i medesimi toni di devoto candore riscontrati nel primo libro.

2.2.2.3. Di maggior respiro ed impegno i Libri IV de virtutibus sancti Martini, che costituiscono il nucleo cen-trale dell’opera, di cui occupano i libri dal terzo al sesto; vescovo di Tours, Gregorio avvertiva il dovere di farsi diffuso-re delle imprese miracolose del grande santo della sua città, che già avevano trovato narratori famosi come Sulpicio Se-vero, e di aggiornare la lista dei miracoli con quelli di cui era stato personalmente testimone.

La composizione del Martinus ha impegnato Gregorio per molti anni, e si è svolta in più riprese: tra il 574 e il 581 sono stati stesi i primi due libri, a cui intorno al 587 è stato aggiunto il terzo, e fra il 591 e il 593 il quarto. L’esposizione doveva fornire materiale agiografico, disponibile per eventuali rielaborazioni letterarie: se i miracoli de-scritti da Sulpicio Severo avevano trovato in Paolino di Périgueux il loro poeta, anche Gregorio poteva invitare i futuri compositori di versi a riprendere i suoi temi e a trasporre in poesia la sua prosa, anche se la rozzezza dell’espressione, che Gregorio si rimprovera, non può sminuire il valore dell’argomento trattato. Nella prefazione, la madre dell’autore, comparendogli in sogno, lo invita a superare le sue preoccupazioni di carattere letterario, perché quello che conta è la capacità di farsi comprendere dai lettori: se Gregorio non è Severo o Paolino, e nemmeno Venanzio Fortunato – che Gregorio considerava il più grande scrittore dei suoi tempi – non deve nemmeno dimenticare che il Cristo scelse degli umili pescatori, non dei retori, per diffondere la sua religione in tutto il mondo.

2.2.2.4. Dopo i miracoli di Martino vengono le Vitae patrum, considerate a volte come opera a parte rispetto ai Miraculorum libri, che in questo caso si ridurrebbero a sette. Rispetto agli altri libri, questo presenta più ampî inqua-dramenti, perché non vengono esaminati solo i fatti miracolosi, che conservano comunque un ruolo fondamentale nella narrazione, ma l’intera vicenda umana di figure esemplari presentate come modello di un comportamento. Molti sono i vescovi di tempi relativamente vicini, da Illidio di Auvergne, che in vita aveva compiuto un miracolo solo, ma dopo morto aveva dimostrato la propria santità con numerosissimi prodigî, a Nicezio di Lione, a Nicezio di Treviri, a Quin-ziano; mancano invece completamente i padri provenienti dall’ambiente lerinese, o perché la lontananza rendeva diffici-li le comunicazioni e quindi la diffusione delle notizie, oppure – ed è più probabile – perché i lerinesi non apprezzavano particolarmente gli aspetti della religione più legati al culto dei miracoli. L’opera offre preziose informazioni sulla sen-sibilità dell’epoca ad alcuni problemi sociali (F.E. Consolino): è considerato fatto assai strano che un prete compia lavo-ri manuali, mentre è naturale che abbia degli schiavi a sua disposizione; tra i meriti di Quinziano viene ricordata la sua capacità di vendicare un presunto torto con una maledizione che colpisce la casa del nemico sotto forma di moria dei servi, che cessa solo quando il nemico chiede il perdono di Quinziano; Nicezio di Lione estende la sua miracolosa capa-cità di liberare i prigionieri agli innocenti e ai colpevoli, liberando dal carcere un assassino in attesa di giudizio, e impe-dendo così il normale itergiudiziario. Sono atteggiamenti tipici della chiesa medioevale, e perfettamente rispondenti alla mentalità dell’epoca, che vanno considerati senza lo scandalo che potrebbe nascere da un’ingenua volontà di trasporre anacronisticamente le convinzioni moderne in età assai diverse: difesa dell’ordine costituito con la sua divisione in clas-si che prevedeva anche la schiavitù, e interventi individuali a favore dei più deboli, anche a rischio di vanificare principî giuridici di equità e giustizia, erano linee contraddittorie che non stupivano Gregorio, perché su di esse si reggeva l’intervento della chiesa nella società.

2.2.2.5. Chiude i Miraculorum libri il Liber in gloria confessorum, preceduto da una famosa prefazione tutta ispirata al topos della modestia, ma con tanta forza e con tanta corrispondenza con la realtà linguistica dell’opera di Gregorio che si può ben parlare con l’Auerbach di sincera autocritica: O rustice et idiota ut quid nomen tuum inter

scriptores indi aestimas, dice lo scrittore rivolto a se stesso, e poi ricorda le sue confusioni morfologiche tra i generi dei sostantivi, i suoi errori nell’uso dei casi in dipendenza delle varie preposizioni; ma, come già nel Martinus, Gregorio si può difendere invitando i varî letterati e i poeti a considerare il suo scritto materia bruta su cui esercitare la loro finezza stilistica: quod nos inculte et breviter stilo nigrante discribimus, vos lucide ac splendide stante versu in paginis proli-

xioribus dilatetis. 2.2.3. La fama di Gregorio è però legata soprattutto all’Historia Francorum, in 10 libri, da Adamo fino al 591,

composta fra il 575 e l’anno della morte dell’autore, e più volte rivista e integrata. Consta di tre sezioni: la prima che comprende i libri dal I al IV, e che fu composta intorno al 575; la seconda con i libri V e VI, scritta fra il 580 e il 585; la terza con gli ultimi 4 libri, databile agli anni fra il 585 e il 591, tranne l’epilogo, che è del 594.

Il primo libro costituisce quasi un’introduzione all’argomento vero e proprio dell’opera, con una breve narra-zione di storia sacra, storia profana e storia ecclesiastica dalle origini del mondo fino alla morte di san Martino (397); i Franchi, naturalmente, non ci sono ancora, e l’esposizione procede per riassunti assai sintetici dalle varie fonti utilizza-te: la Bibbia, Girolamo, Eusebio, Sulpicio Severo, Sidonio, Avito e varî altri autori meno famosi o addirittura pervenu-tici solo nella testimonianza di Gregorio; gli altri tre libri della prima parte si occupano degli avvenimenti fra il 397 e il 575, l’anno della morte di Sigisberto, il grande protettore di Gregorio che l’aveva voluto vescovo di Tours, e descrivono rispettivamente le invasioni dei Vandali e degli Unni e gli avvenimenti fino alla nascita di Clodoveo nel 465, le vicende da Clodoveo alla morte di Teodeberto I nel 547/548 e quelle fino al 575. Col secondo blocco di libri Gregorio inizia la narrazione di fatti a cui ha partecipato in prima persona, e da un posto di notevole responsabilità e potere; il racconto si fa più ampio, le vicende vengono presentate con una ricchezza di particolari che può affascinare o annoiare secondo la maggiore o minore disponibilità del lettore ad essere informato sui vizî e le virtù dei personaggi, su avvenimenti e figu-re collaterali che poco o niente hanno a che fare con lo sviluppo dei fatti, su fittizî colloquî che, se sono utili e ben co-

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struiti sul piano scenografico, costituiscono però un impaccio alla lineare esposizione dell’accaduto. A conclusione dell’ultimo libro vengono elencati i vescovi di Tours fino all’autore, e viene descritta la storia della diocesi.

La Storia dei Franchi è prevalentemente storia di misfatti e di crudeltà, di usurpazioni, assassinî, torture, con un’esposizione di comportamenti barbarici che in noi suscitano indignazione, e che l’autore narra invece con una sereni-tà che gli costò l’accusa di eccessiva flemma e insensibilità. È probabile che, a vivere in quei tempi, si dovesse finire con l’abituarsi a certi comportamenti e col ritenerli meno rivoltanti di quanto sembrino a noi; è anche possibile che Gre-gorio avvertisse l’inutilità di infarcire la sua storia con tirate moralistiche, che sarebbero state così frequenti da perdere di valore e da risultare solo fastidiose per il lettore; è importante però ricordare che la storia si presenta come costante conflitto fra il bene – presente in terra attraverso l’organizzazione della chiesa – e il male che si mostra nei vizî di molti potenti, nella loro bramosia di ricchezze e di sangue: questa contrapposizione consente a chi sa di trovarsi dalla parte giusta di guardare con occhio disincantato ai misfatti perpetrati, perché essi costituiscono solo modesti marginali episo-dî della più grande guerra cosmica fra male e bene, che si chiuderà con la sicura vittoria di quest’ultimo, e il risarcimen-to delle ingiustizie.

Tra i regnanti è netta la distinzione fra quelli che operano in favore del cristianesimo e della chiesa e quelli che sono avvolti nel peccato per le loro ambizioni personali e per i loro vizî. Campione dei primi, ed eroe positivo del primo gruppo di libri, è Clodoveo, il primo re germanico che abbracciò la religione di Roma, e che meritò per questo la prote-zione divina: prosternabat enim cotidiae deus hostes eius sub manu ipsius et augebat regnum eius, eo quod ambularet

recto corde coram eo et facerit quae placita erant in oculis eius, come dice Gregorio col suo caratteristico latino, e l’astuzia del re franco è ripetutamente esaltata, come quando corrompe con l’oro (ma è oro falso!) alcuni generali di un re nemico, e riesce così a vincere la guerra, togliendosi poi la soddisfazione di ammazzare di persona il nemico e suo fratello spaccando loro la testa con una scure, e di deridere i traditori, che nel frattempo si erano accorti dell’inganno, minacciandoli anche di morte per la loro infedeltà verso i proprî signori; per la sua scelta religiosa a Clodoveo è perdo-nato tutto, dalla spietata malvagità alle stragi dei parenti perpetrate per paura di congiure o per semplice gusto del san-gue.

Accanto ai grandi, la storia di Gregorio non trascura però personaggi più modesti, e fatti che uno storico antico avrebbe certamente escluso dalla propria opera; soprattutto quando si tratti di vicende avvenute a Tours o nelle imme-diate vicinanze, e che abbiano in qualche modo coinvolto l’autore per l’elevata carica da lui ricoperta, Gregorio non sa rinunciare al racconto, anche se si tratta di un volgare omicidio consumato ai danni di un servo di un prete, o di un’inimicizia fra privati cittadini, ricca di complicazioni e di colpi di scena, ma in definitiva assai poco rilevante sul piano dei grandi avvenimenti. Questa sensibilità per le condizioni di vita di tutte le classi sociali, che avvicina molto l’Historia Francorum alle tendenze più moderne della storiografia, non nasce però dalle medesime motivazioni: l’orizzonte storico e politico di Gregorio si è ristretto, rispetto a quello degli scrittori di un tempo, e per lui esiste quasi solo la Francia, e in particolare il territorio di Tours, ed è diverso anche il sistema delle fonti, perché viene privilegiata la visione diretta dei fatti. Questo comporta una nuova gerarchia degli avvenimenti, che privilegia quelli di cui Gregorio è sicuro per averli visti con i proprî occhi, e costituisce uno degli aspetti più significativi dell’opera di Gregorio; accanto ad essa vanno segnalati almeno due altri elementi che la caratterizzano e ne fanno uno dei testi più notevoli del tardo VI secolo: la tecnica della narrazione e la lingua.

Come ha osservato Auerbach, il racconto in Gregorio procede in maniera disordinata, saltando premesse e parti indispensabili per la ricostruzione della consequenzialità logica dei fatti e introducendo invece digressioni e storie paral-lele completamente estranee; ne risultano spesso confuse la collocazione temporale e spaziale delle varie fasi e l’articolazione della vicenda, perché l’attenzione è rivolta soprattutto alle singole scene, che vengono descritte con viva-cità e grande capacità di trasmettere una serie di impressioni immediate, e di veicolare attraverso esse, più che con un ragionamento discorsivo, l’ideologia delle classi medio-alte dello stato merovingio. I brevi e incisivi dialoghi fra i per-sonaggi, con le battute di poche parole, sono assai più verisimili degli eleganti discorsi retorici della storiografia antica; l’analisi psicologica sorprendentemente acuta e il passaggio dai tempi passati al presente storico appena il racconto si avvicina ai momenti di maggiore importanza e drammaticità sono altri aspetti tipici della tecnica storiografica di Grego-rio, e nascono da una partecipazione e da un coinvolgimento totale: Gregorio non ha uno spazio intellettuale distinto dalla storia sua e dei suoi tempi, non si colloca all’esterno rispetto alla materia che descrive, il suo immedesimarsi nei fatti è al tempo stesso causa di involontarie falsificazioni e garanzia della più assoluta buona fede.

A questo impianto storiografico corrisponde uno strumento linguistico adeguato: Cesario di Arles aveva tenta-to di semplificare il suo linguaggio per avvicinarlo a quello dei suoi ascoltatori, ma restavano saldi gli aspetti fondamen-tali del latino tardoantico; con Gregorio irrompono invece le forme grafiche, morfologiche e sintattiche del latino mero-vingio, e l’autore sa bene questa novità. Naturalmente Gregorio non si limita a trascrivere il “latino parlato”, sia perché le tradizioni grafiche sono sempre qualcosa di diverso dalle consuetudini di pronuncia, sia perché non manca il tentativo di creare una prosa d’arte per mezzo di clausole e di stilemi costruiti per dare più efficacia alla frase; la sua scrittura riu-sciva però comprensibile a quasi tutti i possibili lettori e ascoltatori, che non dovevano avvertire eccessive divergenze fra quel latino e la loro lingua d’uso. Si è visto come in altre opere, usando il topos della modestia, Gregorio si accusi di errori grammaticali e dichiari la propria inadeguatezza ai compiti che si era assunto; nell’epilogo dell’Historia Franco-

rum, invece, è presente la consapevolezza di aver compiuto un’impresa meritoria sia sul piano dei contenuti sia su quel-lo della forma: quos libros licet stilo rusticiori conscripserim, tamen coniuro omnes sacerdotes domini […] ut num-

quam libros hos aboleri faciatis aut rescribi, […] sed ita omnia vobiscum integra inlibataque permaneant, sicut a nobis

relicta sunt.

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In Francia gli studî attraversavano un momento assai difficile, e la cultura era forse ai livelli più bassi cono-sciuti da almeno cinque secoli; il lamento sulle condizioni della letteratura contemporanea contenuto nel proemio dell’Historia Francorum è verosimile e sincero: decedente atque immo potius pereunte ab urbibus Gallicanis libera-

lium cultura litterarum […] ingemiscebant saepius plerique dicentes: «Vae diebus nostris quia periit studium litterarum

a nobis nec repperiretur in populis qui gesta praesentia promulgare possit in paginis». Di questa situazione Gregorio è forse il frutto migliore, insieme con il suo grande amico Venanzio Fortunato, e il più rappresentativo dell’emergere di una nuova età, con le sue diverse esigenze in fatto di scrittura e di strumenti di comunicazione, non meno che di conte-nuti da comunicare: «Certamente, come spesso è stato affermato, si ha qui una degenerazione della cultura e dell’ordine linguistico; ma non tutto è in questo, poiché vi è anche un risveglio dell’immediatezza sensibile […] (Gregorio) ha da raccontare molte cose atroci […], ma la vivacità semplice e pratica con cui le racconta non fa sorgere quella pesante cu-pezza che troviamo negli autori della tarda romanità e a cui con gran pena si possono sottrarre gli autori cristiani. Quan-do Gregorio scrive, la catastrofe è già avvenuta, l’Impero è precipitato, l’organizzazione spezzata, l’antica cultura di-strutta, ma la tensione è finita, e il suo animo, più libero, più immediato, non più premuto da compiti irrealizzabili e da richieste inassolvibili, sta di fronte alla realtà vivente, pronto ad abbracciarla viva, ad agire praticamente su di essa» (E. Auerbach).

[da G. POLARA, Letteratura tardoantica e altomedioevale, Roma, Jouvence, 1987, pp. 125-135]

2.1. Liber in gloria Martyrum (antologia)

INCIPIT LIBER PRIMUS MIRACULORUM IN GLORIA MARTYRUM BEATORUM OPERE GEORGI

FLORENTI GREGORI EPISCOPI TURONICI Hieronimus presbiter et post apostolum Paulum bonus doctor eclesiae refert, se ductum ante tribunal

aeterni Iudicis et extensum in supplicio graviter caesum, eo quod Ciceronis argutias vel Vergilii fallacias saepius lectitaret, confessumque se coram angelis sanctis ipsi Dominatori omnium, numquam se deinceps haec lecturum neque ultra tractaturum, nisi ea quae Deo digna et ad eclesiae aedificationem oportuna iudica-rentur. Sed et Paulus apostolus: Quae pacis sunt, inquid, sectemur et quae ad aedificationem invicem custo-

diamus. Et alibi: Omnis sermo malus ex ore vestro non procedat; sed si quis bonus ad aedificationem, ut det

gratiam audientibus. Ergo haec nos oportet sequi, scribere atque loqui, quae eclesiam Dei aedificent et quae mentes inopes ad notitiam perfectae fidei instructione sancta faecundent. Non enim oportet fallaces comme-morare fabulas neque philosophorum inimicam Deo sapientiam sequi, ne in iudicium aeternae mortis, Domi-no discernente, cadamus. Quod ego metuens et aliqua de sanctorum miraculis, quae actenus latuerunt, pan-dere desiderans, non me his retibus vel vinci cupio vel involvi. Non ego Saturni fugam, non Iunonis iram, non Iovis stupra, non Neptuni iniuriam, non Eoli sceptra, non Aeneada bella, naufragio vel regna commemo-ro. Taceo Cupidinis emissionem, non Ascanii dilectionem emeneosque, lacrimas vel exitia saeva Didonis, non Plutonis triste vestibulum, non Proserpinae stuprosum raptum, non Cerberi triforme caput, non revolvam Anchisae colloquia, non Itachis ingenia, non Achillis argutias, non Senonis fallacias. Non ego Laguonthe consilia, non Amphitrionidis robora, non Iani conflictus, fugas vel obitum exitiale proferam. Non Eome-nidum variorumque monstrorum formas exponam, non reliquarum fabularum commenta, quae hic auctor aut finxit mendacio aut versu depinxit heroico. Sed ista omnia tamquam super harenam locata et cito ruitura con-spiciens, ad divina et euangelica potius miracula revertamur. Unde Iohannis euangelista exorsus est, dicens: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud

Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil. Et deinceps ait: Et Verbum caro factum est

et habitavit in nobis, et vidimus gloriam eius, gloriam quasi Unigeniti a Patre, plenum gratia et veritate. Quod autem in Bethlem nasciturus erat, ita ait propheta: Et tu, Bethlem Eufratha, non es minima in milibus

Iuda. Ex te enim prodiet rex, qui regat populum meum Israhel. Hoc enim et Nathanahel ille a Chana Galileae dixit: Rabbi, tu es filius Dei, tu es rex Israhel. Ipse est et salus mundi, de quo et ille Symeon ait: Nunc dimit-

tis, Domine, servum tuum in pace, quia viderunt oculi mei salutare tuum. § 9. De puero in igne iactato Quid igitur in Oriente actum fuerit, ad conroborandam fidem catholicam non silebo. Iudaei cuiusdam

vitrarii filius, cum apud christianos pueros ad studia litterarum exerceretur, quadam die, dum missarum festa in basilica beatae Mariae celebrarentur, ad participationem gloriosi corporis et sanguinis dominici cum aliis infantibus infans Iudaeus accessit. Quod sanctum adsumptum, gaudens ad domum patris revertitur; illoque operante, inter amplexos et oscula quae acceperat cum gaudio refert. At ille Christo domino ac suis legibus

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inimicus ait: “Si cum his infantibus communicasti, oblitus paterna pietate, ad ulciscendam Moysaicae legis iniuriam parricida in te durus exsistam”. Et adprehensum puerum in os fornacis ardentis proiecit, adiectaque ligna, quo vehementius exureretur, insistit. Sed non defuit illa misericordia, quae tres quondam Hebraeos pueros Chaldaico in camino proiectos nube rorolenta resperserat. Ipsa enim et hunc inter medios ignes, pru-narum moles iacentem prorsus consumi non patitur. Licet cum audisset mater, quod scilicet filium commu-nem pater deliberasset exurere, cucurrit ad liberandum eum. Sed cum vidisset incendia ab ore fornacis patu-lo, huc sive illuc, flamma dominante, respergi, ornatum capitis ad terram proiecit, diffusaque caesarie, se miseram clamitans, civitatem vocibus impletur. Quod cum christiani, quid actum fuerat, didicissent, concur-runt omnes ad tam iniquum spectaculum, retractisque ignibus ab ore fornacis, inveniunt puerum quasi super plumas mollissimas decumbentem. Quo extracto, admirantur omnes inlaesum; clamoribus locus ille repletur, et sic Deum omnis populus benedicit. Conclamant etiam, ut auctorem huius sceleris in ipsas proicerent flammas. Proiectum autem ita totum ignis absorbuit, ut vix de ossibus eius parvum quodammodo relinquere-tur indicium. Interrogantes autem infantulum christiani, quale ei inter ignes fuisset umbraculum, ait: “Mulier, quae in basilicam illam, ubi panem de mensa accepi, in cathedra resedens, parvulum in sinu gestat infantem, haec me pallio suo, ne ignis voraret, operuit”. Unde indubitatum est, beatam ei Mariam apparuisse. Agnitam ergo infans fidem catholicam, credidit in nomine Patris et Filii et Spiritus sancti, ac salutaribus aquis ablutos una cum genetrice sua denuo sunt renati. Multi Iudaeorum exemplo hoc in urbe illa salvati sunt.

Monasterium valde magnum in Hierusalem non modicam habens congregationem, in quo tam loco devotio populi saepe plurima confert, verum etiam ab imperatoris iussu ibi non minima largiuntur. Accidit autem quodam tempore, ut prae paenuria aegestatis valde eis victus necessaria defecerant. Congregatio enim garrula monachorum, cum una atque alia die refectionis alimoniam non caperet, vociferant ad abbatem, di-centes: “Largire cibos, aut permitte discedere unumquemque in loco, quo vitam propagare possit, alioquin nec te consulto abscedimus, ne pereamur a fame”. Haec his dicentibus, ait abba: “Oremus, fratres dilectissi-mi, et Dominus ministrabit nobis cibos. Nec enim potest fieri, ut deficiat triticum in eius monasterium, quae frugem vitae ex utero pereunti intulit mundo”. Quibus vigilantibus nocte tota ac psallentibus, mane orto, ita reppereunt cuncta horraeorum habitacula repleta tritico, ut vix vel deserrari ostium possit. Accepto autem ci-bo, gratias egerunt Deo.

Post multos vero annos iterum deficiente cibo, clamaverunt monachi ad abbatem, qui ait: “Vigilemus ac deprecemur Dominum, et forsitan transmittere dignabitur alimenta”. Denique prosternuntur ad pavimen-tum templi. Vigilantes itaque noctem in psalmis hymnisque, canticis spiritalibus, cumque se post matutinos somnum dedissent, venit angelus Domini et posuit super altare multitudinem innumeram auri. Erant enim ostia aedis obserata. Exsurgentibus autem mane abbatem cum monachis ad caelebrandum cursum, viderunt multitudinem auri super altare. Et ait abba custodi aedituo: “Quis praefectorum hic ingressus est, qui haec detulit?” Respondit: “Post egressum vestrum nullus hic hominum accessum habuit, sed ostii clave munita re-tenui et mecum habui, donec surgeres ad commovendum signum”. Tunc stupens abba cum monachis, munus caeleste intellegit; gratiasque Deo agens, collegit, comparatisque victui necessariis, plebem creditam af-fluenter refecit. Nec mirum, si beata virgo sine labore suis protulit victum, quae sine coitu viri concipiens, virgo permansit et post partum.

§ 36. De aqua fontis eius virtute reducta Fons erat inriguus ruri cuidam infra territurium urbis Lemovicinae, cuius unda tam hortorum sata

quam agrorum culta vel fovebat accessu vel impetu fecundabat. Deducebatur etiam, factis decursibus, per lo-ca necessaria, ut, ubi eum natura non dabat, studium provocaret. Et erat tam dulcibus, vena exuberante, fluentis, ut gaudere cerneres holus sive virgultum, si fuisset ab eodem inrigatum. Opitulabatur etiam in eo gratia maiestatis divinae, ut, in quo fuisset fluentum emissum, velociter germina acciperent incrementum. Cumque eum incolae loci quasi ludum agentes per singula quaeque loca deducerent, insidiatoris, ut credo, invidia sub terra dehiscit, ac velut in stadiis duodecim in medium paludis, ubi nullum prorsus possit opus ef-ficere, fluctibus sparsis, exoritur. Extemplo omnium mentes timor obsedit, ei novum quoddam advenire re-gioni; loci incolae praestulantur interitum, simulque et beneficium, quod habere consueverant, iugi fletu de-plorant. Curriculum igitur unius atque alterius anni in hac ariditate pertransiit. Arescunt siti loci illius omnia, quae inrigare consueverat. Tertio quoque anno accidit, ut quidam iter agens beati Clementis martyris, cui iam supra meminimus, reliquias exhiberet, quas Aridio ipsius urbis presbitero, viro in omni sanctitate religioso, detulit. Ad quem cum die noctuque vicinia maesta penderent, confisi de eius oratione, quod, si peteret Domi-num, fontem possit suo restituere loco, ait: “Eamus”, inquid, “dilectissimi, et si vera sunt, quae portitor no-ster adseruit, haec esse Clementis martyris pignora, nunc apparebit, cum eius fuerit virtus manifestata”. Tunc cum psallentio ad locum fontis accedit. Et dictis psalmis, in oratione prosternitur; positisque sanctis reliquiis

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in ipso fontis aditu, petiit, ut, qui quondam in deserto damnatis ad secanda marmora flumen inriguum patefe-cit, in hunc locum aquas, quas prius pia indulserat clementia, Clementis iterum intercessio revocaret. Ilico vena recurrit ad aditum, magnas evomens aquas, illumque quem prius tenuerat alveum decurrendo replevit; admirantibus populis, inmensae gratiae Domino referuntur, qui et martyris virtutem prodidit et fidelis sui orationem implere dignatus est.

§ 45. De effracto calice Est enim apud eandem urbem basilica sancti Laurenti levitae, cui supra meminimus, ibique admirabi-

li pulchritudine calix cristallinus habebatur. Acta vero quadam solemnitate, dum per diaconem ad sanctum altare offerretur, elapsus manu in terram ruit et in frustra comminutus est. At diaconus pallidus et exsanguis collecta diligenter fragmenta vasculi super altare posuit, non diffisus, quod eum possit virtus martyris soli-dare. Denique in vigiliis, lacrimis atque oratione deductam noctem, requisitum calicem repperit super altare solidatum. Quae virtus cum populis nuntiata fuisset, tanta animos devotione succendit, ut a sacerdote pete-rent, nova in honorem eius Deo solemnia celebrari. Tunc pontifex loci, suspensum super altare calicem, et tunc agens, et in posterum per singulos annos devotissime instituit celebrari.

§ 63. De Patroclo martyre Patroclus quoque martyr, qui apud urbem Tricasinorum sepultus habetur, saepius se amicum Dei vir-

tutibus multis ostendit. Erat enim super eum parvolum oratorium, in quo unus tantum clericus serviebat. Loci enim homines parvum exhibebant martyri famulatum, pro eo quod historia passionis eius non haberetur in promtu. Mos namque erat hominum rusticorum, ut sanctos Dei, quorum agones relegunt, attentius veneren-tur. Quidam igitur de longinquo itinere veniens, libellum huius certaminis detulit, lectori, quem in ipso loco servire diximus, prodidit ad legendum. Ille vero post decursa lectione valde gavisus, nocturno sub tempore, famulante lumine, velociter exemplavit. Hominibus quidem digressis, hic episcopo suo exhibet quae reppere-rat, putans, se per haec gratiam adsequere sacerdotis. At ille non credens, nisi confictum aestimans, caesum increpatumque clericum abscedere iubet, dicens: “Te haec iuxta votum tuum dictasse, manifestum est; nam numquam ea cum ullo homine repperisti”. Post multum vero tempus, ut virtus martyris non esset occulta, abiit exercitus in Italiam; detulit passionis huius historiam, sicut a clerico tenebatur scripta. Tunc confusus valde episcopus, cognovit, vera esse quae a clerico dicebantur. Populus autem ex hoc magis honorare coepit martyrem, constructaque super eum basilica, festivitatem eius per singulos annos devote concelebrat.

§ 94. De septem dormientibus apud Ephesum Septem vero germanorum, qui apud urbem Ephesum requiescunt, haec est ratio. Tempore Decii im-

peratoris, cum persecutio in christianos ageretur, septem viri conprehensi sunt et ducti sunt coram principe. Horum nomina haec sunt: Maximianus, Malchus, Martinianus, Constantinus, Dionisius, Iohannes, Serapion; qui diversis verbis temptati, ut cederent, nequaquam adquieverunt. Imperator vero pro eligantia eorum, ne in momento perirent, spatium tractandi indulget. At illi in unam se speluncam concludunt, ibique per multos dies habitaverunt. Egrediebatur tamen unus ex eis et conparabat victus et quae necessaria erant exhibebat. Revertente autem imperatore in eadem civitate, isti petierunt ad Dominum, ut eos ab hoc periculo dignaretur eruere; factaque oratione, prostrati solo obdormierunt. Cumque imperator didicisset, eos in hoc antro morari, nutu Dei iussit os speluncae magnis lapidibus oppilari, dicens: “Ibi intereant, qui diis nostris immolare nolue-runt”. Quod dum ageretur, quidam christianus in tabula plumbea nomina et martyrium eorum scribens, clam in aditu cavernae, priusquam oppilaretur, inclusit.

Post multorum vero annorum curricula, cum, data eclesiis pace, Theodosius christianus obtenuisset imperium, surrexit hereses inmunda Sadduceorum, qui negant resurrectionem futuram. Tunc quidam civis Ephesius, dum caulas ovibus secum montem ipsum facere destinat ac lapides divolvit ad coaptanda earum septa, ignarus quae agerentur introrsum, patefecit ingressum eius; non tamen cognovit arcanum, quod habe-batur intrinsecus. Dominus autem inmisit septem viris spiritum vitae, et surrexerunt, putantesque, quod una tantum nocte dormissent, miserunt puerum unum ex se, qui cibos emeret. Cumque veniens supra portam ci-vitatis vidisset crucis gloriosae signaculum audissetque per Christi nomen iurare populum, obstipuit; prola-tisque nummis, quos a tempore Decii habebat, a mercatore conprehenditur, dicente sibi, quia: “Absconditos antiquitus thesauros repperisti”. At ille negans, deducitur ad episcopum ac iudicem civitatis. Cumque ab his argueretur, conpellente necessitate, absconditum misterium revelavit et deduxit eos ad speluncam, in qua viri erant. Cumque ingrederetur episcopus, invenit tabulam plumbeam, in qua omnia quae pertulerant habebantur scripta, locutusque cum eis, nuntiaverunt haec cursu rapido imperatori Theodosio. At ille veniens, adoravit eos pronus in terram; qui tali colloquio cum eodem usi sunt principe: “Surrexit, gloriosae auguste, hereses,

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quae populum christianum a Dei promissionibus conatur evertere, ut dicant, non fieri resurrectionem mortuo-rum. Ergo ut scias, quia omnes iuxta apostolum Paulum repraesentandi erimus ante tribunal Christi, idcirco iussit nos Dominus suscitari et tibi ista loqui. Vide ergo, ne seducaris et excludaris a regno Dei”. Haec au-diens Theodosius imperator, glorificavit Dominum, qui non permisit perire populum suum. Viri autem ite-rum prostrati in terram, obdormierunt; quibus cum Theodosius imperator sepulchra ex auro fabricare velit, per visum prohibitus est, ne faceret. Viri autem usque hodie palliolis siricis aut carbassinis cooperti in ipso loco requiescunt. Quod passio eorum, quam Siro quodam interpretante in Latino transtulimus plenius pandit.

2.2. Vita Martini (antologia)

GEORGI FLORENTI GREGORII TURONICI DE VIRTUTIBUS BEATI MARTINI EPISCOPI

DOMINIS SANCTIS ET IN CHRISTI AMORE DULCISSIMIS FRATRIBUS ET FILIIS ECCLESIAE TURONICAE MIHI A DEO COMMISSAE GREGORIUS PECCATOR

Praefatio Miracula, quae dominus Deus noster per beatum Martinum antistitem suum in corpore positum ope-

rari dignatus est, cotidie ad corroborandam fidem credentium confirmare dignatur. Ille nunc exornat virtuti-bus eius tumulum, qui in eo operatus est cum esset in mundo; et ille praebet per eum beneficia christianis, qui misit tunc praesulem gentibus perituris. Nemo ergo de anteactis virtutibus dubitet, cum praesentium si-gnorum cernit munera dispensari, cum videt claudos erigi, caecos illuminari, daemones effugari et alia quae-que morborum genera, ipso medificante, curari. Ego vero fidem ingerens libri illius, qui de eius vita ab ante-rioribus est scriptus, praesentes virtutes de quantum ad memoriam recolo, memoriae in posterum, Domino iubente, mandabo. Quod non praesumerem, nisi bis et tertio admonitus fuissem per visum. Tamen omnipo-tentem Deum testem invoco, quia vidi quadam vice per somnium media die in basilica domni Martini debiles multos ac diversis morbis oppraessos sanari et vidi haec, spectante matre mea, quae ait mihi: ‘Quare segnis es ad haec scribenda quae prospicis?’ Et aio: ‘Non te latet quod sim inops litteris et tam admirandas virtutes stultus et idiota non audeam promulgare. Utinam Severus aut Paulinus viverent aut certe Fortunatus adesset, qui ista describerent! Nam ego ad haec iners notam incrro, si haec annotare temptavero’. Et ait mihi: ‘Et nes-cis quia nobiscum propter intellegentiam populorum si quis loquitur, sicut tu loqui potens es, eo habetur ma-gis praeclarus? Itaque ne dubites et haec agere non desistas, quia crimen tibi erit, si ea tacueris’. Ego autem haec agere cupiens, duplicis taedii affligor cruciatu, maeroris pariter et terroris. Maeroris, cur tantae virtutes, quae sub antecessoribus nostris factae sunt, non sunt scriptae; terroris, ut aggrediar opus egregium rusticanus. Sed spe divinae pietatis inlectus, adgrediar quod monetur. Potest enim, ut credo, per meam linguam ista pro-ferre, qui ex arida cote in heremo producens aquas populi sitientis extinxit ardorem; aut certe constabit eum rursum os asinae reserare, si labia mea aperiens per me indoctum ista dignetur expandere. Sed quid timeo rusticitatem meam, cum Dominus redemptor et deus noster ad destruendam mundanae sapientiae vanitatem non oratores sed piscatores, nec philosophos sed rusticos praeelegit? Confidimus ergo orantibus vobis, quia, etsi non potest paginam sermo incultus ornare, faciet eam gloriosus antistes praeclaris virtutibus elucere.

I.3. De ordinatione et transitu beati Martini His nos illecti etsi imperiti temptamus tamen aliqua de virtutibus sancti ac beatissimi Martini, quae

post obitum eius actae sunt, quantum invenire possumus, memoriae replicare, quia hoc erit scribendi stu-dium, quod in illo Severi aut Paulini opere non invenitur insertum. Lucidus et toto orbe renidens gloriosus domnus Martinus, decedente iam mundo, sol novus exoriens, sicut anterior narrat historia, apud Sabariam Pannoniae ortus, ad salvationem Galliarum opitulante Deo dirigitur. Quas virtutibus et signis illustrans, in urbe Turonica episcopatus honorem invitus, populo cogente, suscepit, in quo gloriosam et pene inimitabilem agens vitam per quinquennia quinque, bis insuper geminis mensibus cum decem diebus, octogesimo primo aetatis suae anno, Caesareo et Attico consulibus, nocte media quievit in pace. Gloriosum ergo et toto mundo laudabilem eius transitum die dominica fuisse manifestissimum est idque in sequenti certis testimoniis com-probamus. Quod non parvi meriti fuisse censetur, ut illa die eum Dominus in paradiso susciperet, qua idem Redemptor et dominus victor ab inferis surrexisset, et ut qui dominica solemnia semper celebraverat impol-lute, post mundi pressuras dominica die locaretur in requie.

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III.35. De duobus paralyticis et uno caeco sanato Sed quoniam multae virtutes sunt, quae orbis totus experitur, de quibus ad nos nec minima pars, ut

opinor, adtingit, vel illa quae vicinitas experitur indicamus. Invitatus autem Badegyselus Cenomannorum episcopus quodam loco diocesis suae ad basilicam beati viri et nomine et reliquiis consecrandam. Celebrata solemnia, invocantes nomen sancti Martini, duo paralytici gressum, caecusque unus visum recepit.

2.3. Vitae Patrum (antologia)

VIII. INCIPIT DE SANCTO NICETIO LUGDONENSI EPISCOPO

Praefatio Praesentiae divinae bonum, quod plerumque regno suo provideat quos adsciscat, ipsa saepius sacrae

lectionis testantur oracula, sicut ad Hieremiam eximium vatem caelestis oris mistica deferuntur eloquia, di-centis: Priusquam te formarem in utero, novi te, et antequam exires de vulva, sanctificavi te. Et ipse Dominus utriusque conditor Testamenti, cum illos quos largitio hilaris agneo decoratos vellere suis locat a dextris, quid ait? Venite, benedicti, percipite praeparatum vobis regnum a constitutione mundi. Sed et ille vas elec-tionis beatus apostolus: Quos, inquid, praescivit et praedestinavit conformes fieri imaginis Filii sui. Nam et de Isaac Iohanneque, qualiter nascerentur vel quid agerent, et nomen et opus praedixit et meritum. Sic nunc et de beato Nicetio ipsa illa prisca miseratio pietatis, quae inmerita ditat, non nata sanctificat et omnia prius-quam gignantur et disponit et ordinat, qualibus sacerdotalis gratiae infulis floreat in terris, prius genetrici [eius] voluit revelare. De cuius vita retenetur quidem exinde libellus nobiscum, nescio quo conpositus, qui multas quidem virtutes eius pandit, non tamen vel exordium nativitatis conversionisque eius vel seriem virtu-tum declarat ad liquidum. Et licet nec nos omnes eius virtutes investigavimus, quas per eum Dominus vel oc-culte operari est dignatus vel publicae, tamen quae ad priorem auctorem non pervenerunt etsi rusticiori stilo pandere procuravimus.

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3. Rosvita di Gandersheim

3.1. Rosvita di Gandersheim (c.a. 935 - c.a. 973) riveste una particolare importanza nel vasto ambito della let-teratura latina medievale del X secolo, non tanto e non soltanto perché ella è da considerarsi la prima poetessa del Me-dioevo latino (e, ripeto, “poetessa” e non “scrittrice”, ché a lei antecedenti sono, come è noto, “scrittrici” quali Dhuoda, Baudonivia di Poitiers ed Ugeburga di Heidenheim), quanto e soprattutto per la sua indubbia capacità poetica e dram-matica, per il fascino indiscutibile che si leva dalle sue opere, per la sua infallibile abilità nello sbozzare i caratteri dei personaggi (specialmente quelli femminili), per la bravura e l’originalità da lei mostrate nella rielaborazione delle fonti agiografiche di volta in volta utilizzate, per la ricca e profonda cultura da lei palesata e per l’importante posizione da lei ricoperta, in ogni caso, sia nell’ambito della fortuna di Terenzio nel Medioevo, sia nel più vasto campo del teatro me-dievale, e prescindendo, in questo, dall’annoso ed ormai forse un po’ stantìo problema della effettiva teatralità o della possibile rappresentabilità dei suoi sei drammi (o, come molti oggi preferiscono chiamarli, “dialoghi drammatici”).

Ella nacque da nobile famiglia, probabilmente nel 935 o nel 936 (come, sulla scorta delle ipotesi del Nagel fondate sull’interpretazione di un passo dei Primordia coenobii Gandeshemensis, sono ormai propensi a ritenere tutti gli studiosi), ed entrò verosimilmente molto giovane nel convento di Gandersheim, nella bassa Sassonia vicino a Brun-swick. In effetti, sull’età che Rosvita poteva avere quando ebbe accesso nel cenobio non vi è accordo fra gli studiosi. Il Magnin, per primo, ipotizzò che ella fosse entrata in convento abbastanza tardi (tardi relativamente, si intende), dal momento che «elle montre dans les écrits trop de connaissance du monde et des passions, pour que nous pouissions supposer qu’elle leur soit demeurée entièrement étrangère». Studiosi più recenti, quali il Kronenberg, il Nagel e la Haight, si sono mostrati invece propensi a ritenere che soltanto accedendo nel cenobio da adolescente, come d’altronde era uso del tempo, ella si sarebbe potuta formare la solida e vasta cultura classica e profana di cui riesce a dare ampia prova in tutte le sue opere. Il monastero di Gandersheim era una struttura conventuale di tipo particolare, guidata da donne della nobiltà dedite alla lettura, allo studio, alla meditazione (e, eventualmente, alla riscrittura e all’imitazione) dei testi classici e cristiani. Sotto la guida della nobile badessa Gerberga II, nipote dell’imperatore Ottone I di Sassonia, Rosvita divenne in seguito canonichessa, cioè una ancilla Dei canonica, distinta, in questo, dalle vere e proprie mona-che, le virgines velatae, per il fatto di essere soggetta ad una regola meno rigorosa, che le imponeva sì i sette uffici gior-

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nalieri nonché i voti di castità e di obbedienza, ma non quello di povertà, e che le consentiva quindi di mantenere pro-prietà personali, di entrare ed uscire dal cenobio senza particolari permessi da parte della madre superiora, di formarsi una vasta e solida cultura, di acquistare e possedere libri, di avere al suo sèguito una propria servitù privata, e così via. A Gerberga II (di pochi anni più anziana di lei) e allo stesso imperatore ella stessa era inoltre profondamente legata, come testimoniano le sue due opere di carattere epico-storico scritte nella maturità (se di maturità si può parlare per una scrittrice che probabilmente non giunse neanche a compiere i quarant’anni), cioè i Gesta Ottonis (poema di stampo epi-co-encomiastico in 1517 esametri leonini, largamente lacunoso, appositamente composto ad istanza della badessa Ger-berga per magnificare le imprese e le doti di Ottone I, in cui si narrano le vicende storiche della casa di Sassonia dall’incoronazione di Enrico I come re di Germania, nel 919, all’incoronazione di Ottone I come imperatore, nel 962) e i Primordia coenobii Gandeshemensis (storia delle origini e della fondazione del monastero di Gandersheim, in 594 esametri leonini, probabilmente il frutto più maturo ed originale dell’attività letteraria di Rosvita).

La prima opera rosvitiana che ci è giunta (dopo alcune prove giovanili da lei stessa rifiutate e distrutte perché, a suo dire, mala composita) è una raccolta comprendente otto poemetti (o leggende) agiografici, tutti in esametri leonini tranne il terzo, in distici elegiaci, ispirati ai Vangeli apocrifi, alle vite dei santi o a leggende cristiane e medievali più o meno sapientemente rielaborate ed amplificate (Maria, Ascensio, Gongolfus, Pelagius, Theophilus, Basilius, Dionysius e Agnes), poemetti, questi, redatti con ogni probabilità fra il 955 e il 962, i quali costituiscono il primo libro dei tre che compongono gli opera omnia rosvitiani. Successivamente, fra il 962 e il 965, e in due tempi (prima i primi quattro, quindi gli ultimi due), la dotta canonichessa scrisse sei dialoghi drammatici in prosa rimata, fondati anche essi su scritti agiografici, ma composti ad imitazione ed emulazione (più o meno antifrastica) delle sei commedie di Terenzio (in un primo tempo Gallicanus I e II, Dulcitius, Calimachus e Abraham, poi Pafnutius e Sapientia), dialoghi drammatici, que-sti, che costituiscono il secondo libro degli opera omnia rosvitiani, mentre il terzo è rappresentato dai già menzionati Gesta Ottonis (verosimilmente redatti dopo il 965) e dall’ultima opera a noi nota di Rosvita, i Primordia coenobii Gan-

deshemensis (stesi dopo la morte di Ottone I, cioè dopo il 973). È probabile che la dotta canonichessa sia morta poco tempo dopo quest’ultima data, poiché da questo momento in poi non abbiamo più alcuna notizia su di lei, anche se non è mancato chi ha ipotizzato che ella sia vissuta fin oltre il fatidico anno Mille. In particolare, il Magnin ha supposto ad-dirittura che Rosvita sia sopravvissuta ad Ottone III di Sassonia, morto nel 1002, ma si tratta di un’opinione priva invero di fondamento, dal momento che non sussiste alcuna prova documentaria che possa sia pur lontanamente sostenerla e corroborarla.

3.2. Il primo libro degli opera omnia di Rosvita comprende, come si è detto, otto poemetti agiografici (o leg-gende agiografiche), preceduti da una prefazione (Praefatio I) in prosa rimata nella quale la canonichessa, professando un’ostentazione di falsa modestia riconducibile al canone della captatio benevolentiae, si rivolge ai lettori chiedendo la loro comprensione per la non perfetta fattura dei suoi versi, scusando altresì il suo “debole” ingegno femminile. Si tratta comunque di luoghi comuni, ché, come trapela abbastanza visibilmente dalla trattazione, Rosvita si dimostra invece ben consapevole della propria bravura ed orgogliosa della propria cultura. Fra l’altro, ella traccia a grandi linee una sorta di storia della propria educazione letteraria, ricordando con affetto e con riconoscenza il ruolo svolto, in tal direzione, da due altre monache, Rikkardis e Gerberga II, quest’ultima nipote dell’imperatore Ottone I e, dal 959 al 1001, badessa del convento di Gandersheim.

Alla prefazione in prosa rimata segue un breve componimento di sei distici elegiaci, una dedica alla stessa Gerberga (Ad Gerbergam), che rappresentano un doveroso, sentito e sincero omaggio alla dotta insegnante, alla cui cor-rezione ella consegna i propri componimenti come un gradevole passatempo da leggere, per diletto, per rilassarsi, di tanto in tanto, dalle pesanti e preoccupanti occupazioni monastiche.

3.2.1. E veniamo quindi ad una presentazione, il più possibile accurata, del contenuto degli otto poemetti agio-grafici rosvitiani. Il primo poemetto, Maria (ovvero Historia nativitatis laudabilisque conversationis intactae Dei ge-

nitricis quam scriptam repperi sub nomine Sancti Iacobi fratris Domini), consta di ben 892 esametri leonini, ed è il più lungo di tutti, ma anche, evidentemente, il più immaturo (come in genere tutti gli studiosi hanno rilevato). Come emerge già fin dal titolo, Rosvita afferma di aver attinto l’argomento della sua narrazione della giovinezza della Vergine Maria dal Vangelo di Giacomo, ma, come Karl Strecker riuscì a dimostrare già nel 1902, in realtà ella ha tratto il tema e i particolari di esso dal Vangelo dello Pseudo-Matteo (cioè da uno dei cosiddetti Vangeli apocrifi, inaugurando una li-nea che ella stessa seguirà spesso in altre sue composizioni). La poetessa si attiene fedelmente al modello, ma concentra la propria attenzione, in modo selettivo, su alcuni episodi, che vengono maggiormente sviluppati rispetto ad altri. L’atmosfera che ne deriva – come è stato rilevato da alcuni studiosi, fra i quali Marco Giovini – appare intrisa di inge-nuità e di candore, dove tutto si risolve nella fiduciosa attesa del soprannaturale, esattamente come nei Vangeli dell’infanzia.

Questa, in sintesi, la trama di Maria. Gioacchino, della stirpe di David, è sposato con Anna, che però dopo ven-ti anni non gli ha ancora generato alcun figlio. Proprio a causa della sterilità del suo matrimonio, un giorno Gioacchino viene duramente offeso nel tempio dallo scriba Ruben, che gli impedisce di offrire incenso sull’altare. Triste e amareg-giato per il trattamento ricevuto, Gioacchino si allontana senza più dare notizia di sé, al punto che la povera Anna teme che il marito sia ormai morto; mentre affranta prega Dio, la sua attenzione viene attirata da una famigliola di uccellini, che allegramente cinguettano fra i rami di un albero vicino. Piena di commozione, la donna invoca il Signore perché conceda anche a lei la gioia di avere un figlio. Ritornata a casa, anche Anna, come lo sposo, prova l’amarezza di sentirsi rinfacciare la sterilità del proprio matrimonio da una cameriera; ma ecco che un angelo, inviato da Dio, invita Gioacchi-no a ritornare dalla moglie e gli preannuncia il lieto evento: la sua sposa, Anna, ha concepito e porterà alla luce una fi-

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glia che sarà venerata nei secoli dei secoli (vv. 180-181 mox praenotabilis Anna / concipit natam cunctis saeclis vene-

randam). La bambina nasce e, dietro indicazione celeste, viene chiamata Maria; secondo la promessa fatta a suo tempo da Anna, la piccola a soli tre anni viene consacrata al servizio del tempio. Divenuta adolescente, rifiuta le profferte del sacerdote Abiatarre, che vuole maritarla col proprio figlio, ma accetta, per volere del Signore, di diventare la moglie di Giuseppe, un anziano vedovo, che di mestiere fa il falegname. Seguono quindi l’episodio dell’annunciazione e quello della partenza di Maria e Giuseppe per Betlemme; quando essi sono ormai in vista della città, avviene un singolare epi-sodio: Maria ha una visione, nella quale contempla con gli occhi dello spirito (non con quelli del corpo) due popoli fra loro vicini, uno dei quali ride, mentre l’altro piange. Giuseppe, però, non crede alla visione di Maria e la esorta, piutto-sto bruscamente, a tenersi bene in sella; ma, poco dopo, un angelo darà ragione alla Vergine, spiegando il significato della visione da lei avuta: il popolo in lacrime è quello dei Giudei, che presto si allontaneranno dal Signore, mentre quello che ride è il popolo dei pagani, che presto verrà a conoscenza della vera fede, la fede cristiana. Rosvita ci descri-ve quindi la nascita di Gesù nella grotta ed il suo primo miracolo: la guarigione di Salomé, la serva incredula di Maria, la quale, volendo accertarsi direttamente della verginità della sua padrona dopo il parto, aveva perduto l’uso della mano destra. Segue quindi la narrazione di altri episodi ben noti: l’adorazione dei Magi, la strage degli innocenti, la fuga in Egitto; durante il viaggio, Giuseppe e la sua famiglia si imbattono in ogni sorta di belve: draghi, leoni, serpenti, ma tutti questi animali, lungi dall’assalirli, fanno docilmente ala al passaggio del Signore, così come benigne e favorevoli si di-mostrano anche le piante. La Sacra Famiglia giunge così in Egitto dove, nella città di Sonite, gli idoli pagani vanno mi-racolosamente in frantumi. A questo punto il conte Afrodisio, governatore della città, si prostra umilmente ai piedi di Maria e adora Cristo, con le cui lodi il poemetto ha termine.

3.2.2. Il secondo poemetto, Ascensio (ovvero De Ascensione Domini. Hanc narrationem Iohannes episcopus

a Graeco in Latinum transtulit), è il più breve della serie (soltanto 150 esametri leonini) e, probabilmente, anche il me-no interessante. Già fin dal titolo di esso, Rosvita afferma di essersi ispirata ad una traduzione dal greco in latino effet-tuata da un certo vescovo Giovanni, del quale non sappiamo assolutamente nulla. Nella trattazione dell’argomento sa-cro, la canonichessa di Gandersheim si attiene, invece, assai fedelmente al racconto così come ci è stato tramandato nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca e negli Atti degli Apostoli.

Dopo la resurrezione, Gesù sul monte Oliveto parla per l’ultima volta ai propri discepoli, spiegando loro in che modo dovranno compiere, con il suo aiuto divino, la missione apostolica alla quale sono stati chiamati. Egli si rivolge quindi alla madre e, prima di affidarla alla protezione di Giovanni, le promette che assai presto ella sarà assunta in cielo. Nel prosieguo del componimento, Gesù viene circondato da un coro d’angeli; si avanzano anche i profeti e David suona la cetra; infine si ode la voce di Dio Padre, che esorta il Figlio a riprendere il posto che gli spetta, alla sua destra. Nei quattro versi conclusivi, rompendo la finzione narrativa, Rosvita si rivolge quindi direttamente ai lettori, perché preghi-no per lei.

L’aspetto forse più interessante del breve poemetto riguarda il particolare relativo alla assunzione in cielo della Vergine Maria. Esiste, in realtà, un testo apocrifo (che è oltremodo probabile che Rosvita abbia conosciuto) relativo alla morte e all’assunzione in cielo di Maria. Di questo testo possediamo due versioni greche e una traduzione latina, intito-lata Liber de transitu beatae Mariae Virginis: un testo, quest’ultimo, che ebbe un discreto successo e conobbe una note-vole diffusione soprattutto dopo che papa Sergio I (687-701) riconobbe ufficialmente l’assunzione in cielo di Maria Vergine.

3.2.3. Il terzo poemetto, Gongolfus (ovvero Passio sancti Gongolfi martyris), è l’unico della serie ad essere composto non in esametri leonini, bensì in distici elegiaci (291, per la precisione). Il racconto, di pretta marca agiografi-ca, dovrebbe essere ispirato a una Vita sancti Gongolfi in prosa, redatta fra il IX e il X secolo. Ma, ponendo in parallelo la Vita sancti Gongolfi ed il poemetto rosvitiano, si nota che la poetessa ha operato con grande originalità ed indipen-denza, e allora si è ipotizzato che non alla Vita sancti Gongolfi che noi possediamo ella abbia attinto, bensì a una reda-zione successiva, a noi non pervenuta.

Questa, in sintesi, la trama del poemetto. Gongolfo è un giovane feudatario della Borgogna, vissuto al tempo del re Pipino (751-768). Un giorno, di ritorno da una vittoriosa impresa di guerra, il giovane si sofferma a contemplare, pieno di meraviglia, un campo fiorito, al centro del quale zampilla una fonte. Come affascinato dalla bellezza del luogo, Gongolfo decide di acquistarlo dal contadino che ne è proprietario, e a tal fine sborsa ben cento scudi d’argento, una somma che, ai suoi amici, appare del tutto sproporzionata. Ma l’acqua della fonte si rivela ben presto miracolosa e ad essa da ogni angolo della terra accorrono malati, per guarire dalle loro sofferenze. Il popolo dei Franchi invita allora Gongolfo a sposarsi al più presto al fine di propagare la sua stirpe generosa, e il giovane acconsente. Solo che la scelta della sposa cade su una donna indegna che, divenuta moglie di Gongolfo, non esita a tradirlo ripetutamente con un prete corrotto. Sottoposta al “giudizio di Dio”, la donna immerge la mano nell’acqua della fonte miracolosa, onde provare la sua innocenza o la sua colpevolezza. L’acqua è fresca ma, quando la donna ritira la mano, questa appare chiaramente bruciata, segno evidente del suo tradimento e del suo peccato. Gongolfo, tuttavia, si mostra generoso coi due scellerati, limitandosi a inviare in esilio il prete e ad allontanare la moglie fedifraga dal letto coniugale. Ma il prete uccide a tradi-mento Gongolfo e fugge via con l’amante. Sulla tomba del martire accadono allora miracoli e prodigi di ogni sorta, che inducono il popolo a venerare il sepolcro e ad inveire contro la moglie scellerata. Quest’ultima ribatte duramente che non crede ai miracoli di Gongolfo, ma la punizione del cielo arriva durissima ed immediata: ogni volta che ella aprirà bocca per parlare, la sua extrema particula dorsi (“la parte più bassa della schiena”, “il deretano”, v. 572) si farà sentire anch’essa. Il miracolo postumo di Gongolfo la condanna così ad essere crudelmente schernita fino alla fine dei suoi giorni.

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«La storia – come è stato giustamente rilevato – segue il tipico schema dell’agiografia […]. Ricollegandosi alla tradizione misogina dei Padri della Chiesa, Rosvita ci fornisce in questo poemetto l’unico esempio, in tutta la sua pro-duzione, di personaggio femminile negativo. La vicenda offre comunque altri tratti di originalità: si distingue infatti per la sognante atmosfera fiabesca che pervade la prima parte […] e per la presenza, invece, nella sezione finale di alcuni elementi tipici della comicità bassocorporea, mai fini a se stessi, ma sempre inseriti in un più ampio programma morale e soteriologico» (L. Robertini).

3.2.4. Il quarto poemetto, Pelagius (ovvero Passio sancti Pelagii pretiosissimi martyris, qui nostris tempori-

bus in Corduba martyrio est coronatus), rappresenta, per certi versi, un unicum nella produzione agiografica rosvitiana. Esso, infatti, è il solo che racconti fatti avvenuti appena pochi anni prima, e dei quali Rosvita aveva avuto notizia diret-ta. La fonte della poetessa, in questo caso, non fu scritta, ma orale. Negli anni fra il 950 e il 955, infatti, tra la Germania di Ottone I e la Spagna soggetta al califfato arabo di Abd-ar-Rahman III, intercorsero fitti rapporti diplomatici, che comportarono la presenza di ambasciatori arabi presso la corte ottoniana. Da uno di questi ambasciatori, Rosvita poté apprendere la vicenda del giovane martire Pelagio (avvenuta una trentina di anni prima), trascrivendola e versificandola poi nel 413 esametri leonini del suo poemetto.

Il Pelagius, dopo una invocazione iniziale, si apre con la descrizione della città di Cordova, fiorente sede dei Visigoti, ormai convertiti al cristianesimo; quand’ecco che sopraggiungono gli Arabi, che nel 735 conquistano la città. Sotto il governo di Abd-ar-Rahman I (756-788), i cristiani non vengono perseguitati, purché non disprezzino la religio-ne ufficiale (l’islamismo), ma al tempo di Abd-ar-Rahman III, ottavo emiro di Cordova (912-961), la situazione precipi-ta e iniziano le prime persecuzioni. Nel 921, la Galizia cristiana tenta di ribellarsi al potente califfo, ma viene duramente sconfitta; i nobili e il principe vengono presi in ostaggio e portati in Andalusia. I dodici conti, dopo aver pagato un forte riscatto, vengono liberati, ma il principe galiziano ribelle non è in grado di pagare l’enorme cifra richiesta in cambio della sua liberazione. A questo punto compare in scena il protagonista del poemetto, cioè il piccolo Pelagio, allora ap-pena decenne. Egli si offre in ostaggio per la liberazione del padre, che pure non vorrebbe accettare questo nobile sacri-ficio. Il ragazzo trascorre in carcere diversi anni, finché alcuni cortigiani, colpiti dalla sua bellezza e dal suo portamento, ben sapendo che Abd-ar-Rahman III ha un debole per i giovinetti, intercedono per Pelagio e ne ottengono la liberazione. A questo punto, il califfo cerca di ottenere i favori del bell’adolescente che, naturalmente, lo respinge nel corso di un drammatico colloquio. Abd-ar Rahman III, pur di strappare un bacio al giovane, non esita a far ricorso alla violenza, ma la reazione di Pelagio è fulminea: egli, infatti, colpisce il califfo con un pugno al volto, facendolo sanguinare. La puni-zione, a questo punto, non può tardare: Pelagio sarà scagliato con una catapulta fuori dalle mura. Rimasto miracolosa-mente incolume, Pelagio viene quindi condannato alla decapitazione e i due tronconi del suo cadavere vengono scagliati nel fiume perché la corrente li disperda. Ritrovate e raccolte da alcuni pescatori, le reliquie del santo martire vengono vendute a caro prezzo ad un monastero, nel quale i monaci provvedono anche ad erigergli una tomba che diventa ben presto meta di pellegrini e di devoti provenienti da ogni parte d’Europa.

3.2.5. Per la composizione del suo quinto poemetto, Theophilus (ovvero Lapsus et conversio Theophili vice-

domini), Rosvita utilizzò come modello la traduzione latina, compiuta nel IX secolo da Paolo Diacono napoletano (da non confondere col Paolo Diacono autore della Historia Langobardorum), dell’originale greco composto da Eutichiano nel VI secolo. Il tema dei 455 esametri leonini che compongono il poemetto è quello del patto col diavolo, che tanta for-tuna avrà nelle letterature moderne e contemporanee.

Il giovane Teofilo (cioè, letteralmente, “colui che ama Dio”), educato secondo la dottrina e i valori della fede cristiana, intraprende la carriera ecclesiastica e, raggiunta la carica di vicario del vescovo, si conquista l’affetto di tutto il popolo grazie al suo comportamento generoso e timorato di Dio. Alla morte del vescovo, i fedeli propongono unanimi il suo nome per la successione al soglio episcopale, ma Teofilo, trascinato contro voglia davanti al metropolita, rifiuta con umiltà e fierezza l’offerta, dichiarandosi indegno della carica. Il nuovo vescovo, però, lo destituisce dall’incarico di vicario. Teofilo accetta di buon grado la destituzione ma, a questo punto, interviene il Demonio, suscitando in lui risen-timento, invidia e sete di vendetta. Alla fine, non più padrone di sé, Teofilo ricorre all’ausilio di un mago ebreo che, in una seduta infernale, lo presenta a Satana. Nel corso di una notte di tregenda e di perdizione, Teofilo acconsente a sotto-scrivere un patto col Demonio, vendendogli la propria anima pur di ottenere nuovamente la carica perduta. Recuperati gli onori di un tempo, Teofilo insuperbisce e comincia a trattare il popolo con disprezzo. Improvvisamente si rende con-to dell’abisso letale nel quale è precipitato e, recatosi in chiesa, per quaranta giorni supplica la Vergine Maria di conce-dergli il perdono. Maria gli appare in sogno e lo esorta a perseverare nel pentimento, ché solo in tal modo egli potrà avere qualche speranza di perdono. L’espiazione di Teofilo si prolunga ancora, finché egli riesce a recuperare il docu-mento infernale. Recatosi nuovamente in chiesa, confessa davanti a tutti il suo peccato, brucia il foglio e, pochi giorni dopo, muore in grazia di Dio.

La leggenda di Teofilo ha goduto di ampia fortuna nella letteratura latina medievale successiva a Rosvita. Fra le attestazioni più significative, si ricordano qui un sermone di Fulberto di Chartres (sec. XI-XII), un brano dello Specu-

lum Ecclesiae di Onorio di Autun (sec. XII), la Historia Theophili dello pseudo Marbodo di Rennes (sec. XII), e un ca-pitolo della Legenda Aurea di Iacopo da Varazze (sec. XIII).

Nella redazione del suo poemetto, la poetessa «tenta di scagionare il suo personaggio dalla grave responsabilità del delitto compiuto, ponendo l’accento sul carattere subdolo e aggressivo della seduzione del Demonio ai danni della “vittima” Teofilo, stordito dagli allettamenti del corruttore diabolico e per questo espropriato, come in un plagio, della sua buona volontà: tutti i meriti precedenti e le sue oneste inclinazioni sono di fatto vanificati dall’opera malefica di Sa-tana» (L. Robertini).

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3.2.6. Il sesto poemetto, Basilius (ovvero Conversio cuiusdam iuvenis desperati per sanctum Basilium epi-

scopum), consta di 264 esametri leonini ed è ispirato ad un episodio della Vita sancti Basilii, di cui possediamo una re-dazione in greco attribuita al vescovo Anfilochio d’Iconio. Intorno all’VIII secolo, l’opera agiografica fu più volte tra-dotta in latino. Rosvita attinse, assai probabilmente, alla versione di un tale Eufemio, vissuto verso la prima metà del IX secolo. Anche in questo poemetto viene ripreso, ma in forma più concisa, il tema del patto col diavolo, già presente, come si è visto, nel Theophilus, sicché si può affermare che le due operette costituiscano, in certo qual modo, un dittico. Solo che, mentre nel Theophilus Teofilo è protagonista indiscusso, delineato a tutto tondo, qui, nel Basilius, la figura del giovane schiavo (che, in linea di principio, dovrebbe essere quella del protagonista) risulta assai sbiadita, sia nei con-fronti del personaggio femminile sia, soprattutto, nei confronti del personaggio di Basilio, dal momento che la poetessa mira a conferire maggior risalto alla figura del vescovo e alla sua intemerata lotta contro il male.

Siamo a Cesarea, nel IV secolo, e il nobile Proterio decide di inviare in convento la sua unica figlia per preser-varne l’anima dal peccato e per tenerla lontana dalle sciocche e allettanti vanità del mondo. Ma il diavolo suscita in un giovane schiavo una passione violenta per la giovane padrona. Lo schiavo, pur di ottenere i favori della ragazza, non esita quindi a sottoscrivere un patto col diavolo. A questo punto il Demonio suscita anche nella figlia di Proterio una violenta attrazione per lo schiavo. Proterio, saputa la cosa, cerca di dissuadere la figlia, ma quando la ragazza minaccia di lasciarsi morire, egli deve per forza acconsentire alle nozze. La felicità degli sposi, però, dura assai poco: tempestato di domande alla moglie, il giovane schiavo è costretto a rivelare che non può e non potrà mai accompagnarla alla Mes-sa, perché ha contratto un patto col Demonio. La donna, in preda alla disperazione, corre allora a chiedere aiuto al ve-scovo Basilio; questi interviene e induce il giovane a assoggettarsi ad una lunga e severa penitenza in una piccola cella, nella quale gli spiriti maligni lo sottopongono ad ogni sorta di tentazioni. Il Demonio, infatti, non si rassegna e combatte con il vescovo una lotta durissima per riuscire a conservare la sua preda. Alla fine però Basilio, grazie anche all’aiuto fornito dai fedeli con le loro preghiere, lo porta con sé in chiesa, mentre il contratto scellerato cade miracolosamente ai suoi piedi.

3.2.7. Nel settimo poemetto, Dionysius (ovvero Passio sancti Dionysii egregii martyris), Rosvita rielabora in 266 esametri leonini una vicenda narrata nella Vita sancti Dionysii di Ilduino, abate di Saint-Denis, composta verso l’835 per ordine dell’imperatore Ludovico il Pio.

Il poemetto si apre con la descrizione della morte di Gesù e dello stupore che si impadronisce dell’astrologo Dionigi nel momento in cui, in Egitto, assiste alla conseguente eclissi di sole. Tornato in patria, ad Atene, egli innalza un altare al Dio sconosciuto che ha determinato l’eclissi, ma, incontrato l’apostolo Paolo, viene da lui convertito alla fede cristiana; messosi in viaggio, giunge a Creta, dove induce alla moderazione il presbitero Carpo. Successivamente a Roma si incontra col papa Clemente I, che lo esorta ad evangelizzare la Gallia; l’opera missionaria di Dionigi, prima ad Arles e poi a Parigi, si rivela molto proficua e determina, naturalmente, l’ira del Demonio che interviene per mano di Domiziano. Durante la persecuzione, Sisinnio, prefetto di Domiziano, arresta Dionigi che, pur fra mille tormenti, prose-gue impavido la sua missione apostolica fino a quando viene condannato alla decapitazione. A questo punto avviene il miracolo: il tronco decapitato afferra la testa appena mozzata e la trasporta nel luogo nel quale desidera essere sepolto (cioè la collina sulla quale oggi sorge Montmartre). Effettuata la sepoltura, mentre la sua anima vola in cielo, i resti ter-reni del corpo di Dionigi operano miracoli guarendo malattie di ogni sorta.

Nel poemetto, che insieme all’Ascensio è quello che ha ricevuto, finora, le minori attenzioni da parte degli stu-diosi, sono da rilevare l’episodio del sogno del presbitero Carpo, in cui appare la singolare figura di un Cristo intimida-torio e minaccioso, lontano dal prototipo evangelico, e soprattutto l’eccezionalità del miracolo conclusivo, quando il corpo esangue del martire si solleva da terra stringendo fra le mani il capo mozzo, e si avvia a grandi passi verso la col-lina sulla quale vuole essere tumulato. Si tratta di un’immagine barocca e un po’ cruenta, che rientra perfettamente nel gusto di Rosvita per le tinte forti e per le descrizioni macabre.

3.2.8. Agnes (ovvero Passio sanctae Agnetis virginis et martyris). Il poemetto, con il quale si conclude la serie delle leggende agiografiche, è intitolato ad una figura femminile, il che costituisce un significativo richiamo al poemetto iniziale, Maria: entrambe le composizioni, poi, sono accomunate dall’idea della castità, che è uno degli idoli di Rosvita. Si tratta certamente del migliore (insieme al Gongolfus) fra tutti e otto i poemetti, fatto, questo, che testimonia la capaci-tà e la maturità cui era giunta Rosvita ai tempi della sua composizione, dopo alcune prove iniziali (soprattutto Maria e Ascensio) non del tutto riuscite. La poetessa si è ispirata, questa volta, alla Vita Agnetis (Vita di Agnese), un’opera agio-grafica su santa Agnese attribuita erroneamente a sant’Ambrogio ma, in realtà, assai più tarda, risalendo infatti al VI secolo.

La vicenda narrata nei 459 esametri leonini che lo compongono è la seguente. Agnese, nobile fanciulla romana di 14 anni, ha deciso di consacrare la propria vita al servizio di Cristo. Il figlio del nobile Sinfronio, prefetto della città, la richiede in moglie, ma senza alcun risultato; Agnese, infatti, lo respinge affermando di essere già sposa di Cristo. Poiché il giovane si ammala d’amore, il padre, venuto a conoscenza della cosa, ordina che la fanciulla sia condotta al suo cospetto e tenta di indurla a sposare il figlio e a rinnegare Cristo. Vedendola ostinata nel suo proposito, Sinfronio le offre l’alternativa di diventare una vestale. Ma, poiché Agnese si rifiuta sdegnosamente, viene condotta in un postribolo perché non possa più gloriarsi della propria verginità. Ma il Signore l’assiste. Privata delle vesti, viene miracolosamente rivestita dei propri capelli, cresciuti in modo prodigioso. Ma c’è di più: al suo ingresso l’immondo fetore di quel luogo si trasforma in un soave profumo e le tenebre sono rischiarate dalla luce. Il figlio di Sinfronio tenta invano di usarle vio-lenza ma, prima di riuscire ad accostarsi a lei, cade per terra fulminato. Di fronte al dolore di Sinfronio, disperato per la morte del figlio, Agnese prega Dio perché faccia resuscitare il giovane; il miracolo ha luogo e allora Sinfronio e il figlio

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si convertono al Cristianesimo. I sacerdoti pagani, però, reclamano furenti che Agnese venga uccisa e Sinfronio, impau-rito, si dimette dal proprio incarico, cedendo il suo posto ad Aspasio, il quale ordina immediatamente che la ragazza sia gettata in mezzo alle fiamme. Ma un altro miracolo si compie, ché Agnese esce dal fuoco completamente illesa, pregan-do Dio di potersi al più presto ricongiungere con lui in cielo. E così avviene infatti perché Aspasio, esasperato, la trafig-ge con la spada. In seguito ella appare come una visione dal cielo ai genitori disperati perché comprendano che ella ha ottenuto il premio celeste delle sue pene terrene.

Prima di congedarci dall’Agnes (e insieme dai poemetti agiografici rosvitiani), voglio qui trascrivere un giudi-zio sul poemetto formulato da Marco Giovini (giovane studioso delle opere della canonichessa di Gandersheim): «Agnese è l’indiscussa protagonista del poemetto, attorno a cui ruotano gli altri personaggi, che esistono e agiscono so-lo in sua funzione. Con la sua fede irremovibile, con la sua assoluta devozione a Cristo, la fanciulla è in grado di passare incolume attraverso le torture e le umiliazioni più crudeli. Non solo: con il candido fascino della sua bellezza attrae l’uomo ma, invece di sedurlo, lo purifica, convertendolo e avvicinandolo a Dio. In questo modo Rosvita respinge lo ste-reotipo misogino diffuso dalla tradizione dei Padri della Chiesa, che vedeva nella donna un peccaminoso strumento del Demonio, esaltando invece la salvifica opera di redenzione che può esercitare nei confronti dell’uomo. Ma anche così la femminilità viene intrinsecamente annullata: la donna acquisisce autentico valore, tanto morale quanto esistenziale, solo ed esclusivamente in funzione della sua verginità, opzione totalizzante che di fatto nega, o meglio rimuove gli aspetti più naturali e spontanei della sfera affettiva e sessuale. D’altro canto, proprio l’insistenza con cui la verginità viene esal-tata in tutto il poemetto tradisce la fortissima tensione erotica che Rosvita avverte e reprime dentro di sé: l’ossessiva presenza rassicurante dello Sposo celeste altro non è che una forma di scorporante sublimazione suprema di questa dis-simulata pulsione».

3.3. Dopo aver redatto le otto leggende agiografiche, Rosvita si dedicò alla composizione dei sei drammi (o, meglio, “dialoghi drammatici), tutti in prosa rimata, che costituiscono il secondo libro dei suoi opera omnia. Come si è detto più sopra, la composizione dei “dialoghi drammatici” ebbe luogo fra il 962 e il 965, ma in due periodi: in un pri-mo tempo Rosvita compose i primi quattro (cioè Gallicanus I e II, Dulcitius, Calimachus e Abraham), quindi gli altri due (cioè Pafnutius e Sapientia). Anche i sei “dialoghi drammatici”, come le precedenti leggende in versi, sono fondati su scritti agiografici, ma composti ad imitazione ed emulazione (più o meno antifrastica) delle sei commedie di Teren-zio (e non è certo un caso che sei sono le commedie di Terenzio, sei i “dialoghi drammatici” rosvitiani).

Nella prefazione ai “dialoghi drammatici” (Praefatio II) Rosvita scrive che la molla che l’ha spinto alla com-posizione di essi è stata determinata dal timore che molti cristiani, attratti dal fascino dello stile e della lingua delle commedie di Terenzio, abbandonino la lettura dei testi sacri per dedicarsi a quella dei testi profani. In questo modo, ella cerca di contrapporre alle sei commedie terenziane, piene, a suo dire, di turpia lascivarum incesta feminarum (“oscene sconcezze di donne spudorate”), altrettante commedie tese all’esaltazione dei più veri valori del Cristianesimo, e soprat-tutto incentrate sulla laudabilis sacrarum castimonia virginum (“la encomiabile illibatezza di sante vergini cristiane”). Alla prefazione segue, a mo’ di introduzione ai sei “dialoghi drammatici”, una Epistola eiusdem ad quosdam sapientes

huius libri fautores, nella quale la poetessa ringrazia alcuni dotti monaci della abbazia di sant’Emmerano in Ratisbona, cui ella aveva sottoposto le proprie opere perché essi ne dessero un giudizio e, eventualmente le correggessero.

Il materiale dei sei “dialoghi drammatici” è anch’esso eminentemente agiografico. Si tratta, in sostanza, di due passiones (Dulcitius e Sapientia) e di quattro conversiones (Gallicanus, Calimachus, Abraham e Pafnutius), che qui presenteremo secondo l’ordine di composizione (che è poi lo stesso che ci è attestato nella tradizione manoscritta).

3.3.1. Il primo “dialogo drammatico” composto da Rosvita è il Gallicanus (ovvero Conversio Gallicani prin-

cipis militiae), diviso in due parti pressoché indipendenti (chiamate, rispettivamente, Gallicanus I e Gallicanus II). La poetessa ha tratto l’argomento della sua rappresentazione da alcuni episodi, raccontati negli Acta Sanctorum, relativi alla conversione di Gallicano, comandante dell’esercito (Conversio Gallicani, principis militiae), e al martirio dei santi Giovanni e Paolo (Passio martyrum Iohannis et Pauli).

Nella prima parte Gallicano, generale romano vedovo con due figlie, ama Costanza, figlia di Costantino, vota-tasi a vita verginale. Inviato dall’imperatore a combattere in Scizia, è convertito al Cristianesimo da Giovanni e Paolo, suoi seguaci, mentre Costanza induce le figlie di lui a consacrarsi a Cristo. Nella seconda parte Gallicano e quindi Gio-vanni e Paolo muoiono martiri sotto Giuliano l’Apostata: ministro del martirio è Terenziano, il cui figlio impazzito rin-savisce miracolosamente sulla tomba dei martiri, e si fa cristiano con padre.

3.3.2. L’argomento del secondo “dialogo drammatico”, il Dulcitius (ovvero Passio sanctarum virginum Aga-

pis, Chionia et Hirenae), ossia il martirio subito a Tessalonica nel 304 (ai tempi della persecuzione di Diocleziano) dal-le tre vergini Agape, Chionia e Irene, ci è stato tramandato da due scritti agiografici, una in greco, un’altra in latino. Ro-svita, assai probabilmente, ha attinto ad una versione più breve, riportata negli Acta Sanctorum, forse contaminando la fonte con alcune reminiscenze dal De virginitate di Aldelmo di Malmesbury (anche se su questo argomento gli studiosi non sono affatto concordi).

Il prefetto Dulcizio cerca di violentare le vergini cristiane Agape, Chionia e Irene, affidate al suo giudizio du-rante la persecuzione di Diocleziano, ma, reso pazzo per intervento divino, abbraccia utensili da cucina in luogo delle fanciulle e, coperto di fuliggine, viene deriso e preso in giro dai suoi stessi sottoposti (si tratta di una delle scene più giustamente celebri del teatro rosvitiano). Si cerca poi invano di denudare le tre fanciulle per punirle del presunto sorti-legio. Caduto Dulcizio in una sorta di letargo, Diocleziano incarica della vendetta il conte Sisinnio, che getta sul rogo Agape e Chionia. Irene, condotta in un bordello (come Agnese nel poemetto omonimo), è salvata da due angeli e porta-

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ta sulla cima di un colle. Sisinnio tenta di raggiungerla spronando, ma invano, il proprio cavallo, finché la fanciulla non si offre volontariamente al martirio.

3.3.3. La fonte del terzo “dialogo drammatico”, il Calimachus (ovvero Resuscitatio Drusianae et Calimachi), è costituita dal libro V delle Apostolicae Historiae dello Pseudo Abdia, in cui si narrano le virtù di san Giovanni, non-ché dagli Actus sancti Iohannis Apostoli et Evangelistae.

Il giovane Callimaco insidia Drusiana, casta sposa del nobile Andronico, la quale ottiene da Dio di morire per non cedere alle sue voglie. Callimaco corrompe allora il becchino Fortunato e cerca di impossessarsi del cadavere della donna amata, dal quale però esce un drago che lo uccide, mentre anche Fortunato muore per la paura. Per intercessione di san Giovanni, invocato da Andronico, avviene una resurrezione generale, di Drusiana, di Callimaco e di Fortunato. Ma, mentre Callimaco si ravvede dei propri peccati e si converte, Fortunato rifiuta di convertirsi, morendo così, una se-conda volta, maledetto da san Giovanni.

3.3.4. Il quarto “dialogo drammatico”, l’Abraham (ovvero Lapsus et conversio Mariae neptis Habrahae he-

remicolae) è ispirato alla traduzione latina della Vita di Abramo di Kidun, eremita vissuto nel IV secolo, risalente alla fine del VI secolo. In particolare, Rosvita ha attinto alla sezione terminale della traduzione latina della Vita, intitolata Vita Sanctae Mariae meretricis neptae Abrahae eremitae, ma verosimilmente conobbe anche il De lapsu virginis con-

secratae, attribuito erroneamente a sant’Ambrogio ma, assai più probabilmente, opera di Niceta da Remesiana. La giovane Maria, affidata alle cure degli eremiti Abramo (suo zio) ed Efrem, che le additano le gioie e le glo-

rie della verginità, fugge dal romitaggio e finisce in un postribolo. Abramo, turbato da strane visioni, la cerca. Avuta notizia della sua dimora, si traveste e vi si reca fingendo di essere un cliente e di volerla possedere. Ma, al momento dell’amplesso, rivela la sua essenza e la riconduce nel deserto, dove la penitenza, in luogo dell’innocenza perduta, av-vierà la fanciulla al premio celeste.

3.3.5. Nel quinto “dialogo drammatico”, il Pafnutius (ovvero Conversio Thaidis meretricis), viene messa in scena una vicenda famosissima nella tarda latinità e nel Medioevo, quella di Taide, la prostituta per antonomasia, che viene salvata da Pafnuzio, eremita del deserto della Tebaide, trovando quindi una casta e santa morte che la redime dai suoi innumerevoli peccati. Si tratta di una vicenda che ha conosciuto una notevole fortuna, e che trae più di uno spunto dalla storia di Maria Maddalena convertita e redenta da Nostro Signore. Per la composizione del Pafnutius Rosvita at-tinse, assai probabilmente ad un capitolo (dedicato appunto alla celebre vicenda) della Historia monachorum di Rufino.

La meretrice Taide è convertita dal monaco Pafnuzio, sacrifica le ricchezze accumulate con la sua disonesta professione e viene rinchiusa in una cella di penitenza. Dopo tre anni Paolo, discepolo dell’eremita Antonio, ha la visio-ne di un letto adorno e custodito da vergini; una voce interpreta la visione come un simbolo della gloria celeste di Taide, la cui penitenza è accetta a Dio. Taide, così, muore in grazia di Dio, confortata da Pafnuzio.

3.3.6. Il problema relativo alle fonti agiografiche del sesto ed ultimo “dialogo drammatico”, il Sapientia (ovve-ro Passio sanctarum virginum Fidei, Spei et Karitatis), è abbastanza complesso e spinoso. Riassumendo le conclusioni cui gli studiosi (in particolare Luca Robertini e Adele Simonetti) sono pervenuti, risulta probabile che Rosvita si sia ispirata ad una versione del racconto agiografico del martirio delle vergini Fede, Speranza e Carità risalente al IX secolo ed attestata nel ms. Vindobonensis 420 della Biblioteca Imperiale di Vienna.

L’imperatore Adriano e il suo consigliere Antioco fanno uccidere, dopo lunghe discussioni scientifiche e teo-logiche, le tre fanciulle cristiane Fede, Speranza e Carità, sottoponendole a svariati supplizi (durante i quali avvengono prodigi di ogni sorta) davanti agli occhi della madre Sapienza. Questa conforta le figlie al martirio, poi le seppellisce e muore sulla loro tomba.

3.4.1. Il terzo libro degli opera omnia di Rosvita comprende, come si è detto, due poemetti storico-encomiastici, i Gesta Ottonis e i Primordia coenobii Gandeshemensis.

I Gesta Ottonis imperatoris, di complessivi 1517 esametri leonini (con un paio di gravi ed estese lacune), furo-no composti prima del 968 dietro esplicita richiesta di Gerberga, la badessa ed ex-insegnante della stessa Rosvita che, come si è detto, era nipote dell’imperatore Ottone I. Si tratta appunto di un poemetto storico-encomiastico, volto a cele-brare le imprese dell’imperatore, cominciando la narrazione dal padre Enrico l’Uccellatore (876-936), duca di Sassonia nel 912 e re di Germania nel 919, per proseguire con le svariate vicende politico-dinastiche che caratterizzarono i primi anni del regno di Ottone I, fino alla sua incoronazione imperiale, nel 962, con cui si conclude il poemetto.

Sui Gesta Ottonis giova leggere una sintetica pagina di Ferruccio Bertini, che costituisce, nella sua sinteticità e nella sua chiarezza, il miglior viatico per accostarsi alla lettura e allo studio del poema, cui, di recente, alcuni studiosi italiani hanno conferito il risalto che merita (penso agli studi di Giovini e della Pillolla): «In quanto donna e religiosa – scrive Bertini – Rosvita protesta […] la propria incapacità di occuparsi di un argomento tradizionalmente maschile co-me la guerra, tanto più che si tratta di un tipico frutto dell’attività diabolica; sceglie perciò di omettere le scene di vio-lenza e di battaglia e di riservare invece largo spazio alle figure femminili. Non fa meraviglia quindi che, mentre all’importante vittoria di Ottone contro gli Ungari sono dedicati soltanto 17 versi di maniera, subito dopo, alla morte della sua prima moglie, Edith d’Inghilterra, avvenuta prematuramente all’inizio del 946, ne siano riservati ben 23, assai toccanti e commossi; le disavventure della principessa burgunda Adelaide, vedova del re d’Italia Lotario II e sposata da Ottone in seconde nozze nel 951, occupano addirittura 200 versi. La caratteristica più rilevante dell’opera è comunque quella di inquadrare sempre gli avvenimenti storici secondo l’ottica dualistica e provvidenzialistica di Agostino, indivi-duando cioè in essi ora l’intervento divino a favore di Ottone […], ora quello diabolico a lui contrario […]. Ne scaturi-sce un singolare poema epico, il cui protagonista, paragonato al biblico Davide, incarna il modello ideale del re e dell’eroe cristiano, dotato di sapientia (“sapienza”), di virtus (“virtù”), di pietas (“pietà”) e di clementia (“clemenza”).

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In tal senso il poema costituisce la continuazione del discorso iniziato con le leggende agiografiche e proseguito con i dialoghi drammatici; senza che vi si trattino argomenti desunti dai Vangeli o dalla Bibbia, esso finisce per risultare il miglior prodotto dell’epica cristiana; il che assume particolare rilievo, quando si pensi che nell’intera storia della lettera-tura latina Rosvita fu l’unica donna che osò cimentarsi nel genere epico».

3.4.2. E veniamo all’ultima opera di Rosvita, i Primordia coenobii Gandeshemensis. Composto dopo la morte di Ottone I (avvenuta nel 973) e rimasto incompiuto (forse a causa della sopravvenuta e prematura scomparsa dell’autrice), il poemetto consta di 594 esametri leonini. In esso viene narrata la storia del monastero di Gandersheim dalla fondazione, avvenuta nell’856 ad opera del duca sassone Liudolfo e di sua moglie Oda, sino al 919, anno della morte della sua terza badessa, Cristina. Più che di un poema epico, in questo caso è lecito parlare di un poema encomia-stico e celebrativo, volto com’è alla celebrazione, appunto, della storia e delle vicende del convento presso il quale la stessa Rosvita aveva trascorso buona parte della sua esistenza.

Anche in questo caso, come si è fatto poc’anzi per i Gesta Ottonis, trascrivo qui il giudizio sul poemetto for-mulato da Ferruccio Bertini: «Se i Primordia da un lato si legano ai Gesta Ottonis, di cui costituiscono una sorta di an-tefatto, dall’altro si riallacciano […] alle leggende e ai drammi, per l’idealizzazione eroica e quasi sovrumana di taluni personaggi […] che incarnano la virtù cristiana, e per la presenza dell’elemento miracoloso interpretato in chiave prov-videnziale. I discorsi diretti attribuiti ai vari personaggi rendono naturalmente più vivace l’esposizione e avvicinano ul-teriormente questo poemetto ai drammi, mentre la celebrazione della dinastia dei Liudolfingi e il modo di interpretare e presentare determinate vicende in sintonia con la politica della casa di Sassonia lo uniscono strettamente ai Gesta […]. Anche in quest’ultima opera Rosvita mette in mostra le qualità già evidenziate nelle precedenti; in più rivela però una maggiore padronanza della lingua e una maggiore eleganza nello stile; i Primordia rappresentano pertanto la degna conclusione dell’attività letteraria della monaca di Gandersheim, della quale si possono considerare il frutto più matu-ro».

3.1. Maria, vv. 692-862 (La fuga in Egitto, la distruzione degli idoli, la conversione di Afrodisio)

His super accensus rex Herodes furibundus Mittens, infantes occidi protinus omnes, Qui tunc Bethleis fuerant praecepit in oris, Se semper vivum sperans exstinguere Christum 695 Posse. Sed in somnis monitus, Ioseph venerandus, Pergit in Aegyptum, vasti per devia secum Deducens eremi Iesum cum matre tenellum, Nocti terrestris Christo dominante timoris. Talia sed solito fecit pietate superna, 700 Aegypti tenebras propria quo luce vetustas Mox illustraret, per se penitusque fugaret.

Contigit ergo die quadam, requiescere velle Iuxta speluncam sanctam cum prole Mariam. Quae sat lassa solo fuerat cum forte locata, 705 Scilicet in gremio Iesum molli refovendo, Multi terribiles procedunt namque dracones Ex hac spelunca, prae qua fuit ipsa locata; Quos Ioseph pueri cernentes, obstupefacti Coeperunt certe magno clamare timore. 710 At puer e gremio matris surrexit amando Iesus, sacratis stabat mitis quoque plantis Contra frendentes turbata mente dracones; Qui subito proni ceciderunt mansuefacti, Orantes tacitis factorem nutibus orbis, 715 Ipseque, digrediens eremi per devia vasti, Illos praecessit, sequier sese quoque iussit.

Quo Ioseph viso genetrix Christique sacrata, Exanimes fragilis pro consuetudine carnis Facti, sat pavitant, puerum laedique timebant. 720

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Ipse sed, inspector mentis, testis quoque cordis, Haec responsa dedit timidis, conversus et inquit: “Quare lactantes tantum tractabitis artus In me, virtutem capitis nec mente perennem? Quamvis humanis sim parvus homuncio membris, 725 Vir tamen omnipotens summo sum numine pollens, Condecet atque, feras silvae mansuescere cunctas Me coram, rabie dimissa rite priore”.

Post haec magnanimes cum pardis namque leones Nec non cunctigenae venerunt undique lectae, 730 Ut sensere, ferae prolem factoris adesse, Orantes puerum submissa voce tenellum, Circa praeclaram gaudentes atque Mariam. Quam super insolito pavitantem denique signo Laetius intuitus, fertur sic dicere Christus: 735 “Non te, virgo, rogo, pollens genitrix mea cara, Permoveat signi novitas carnaliter almi, Obsequii sola veniunt istae quia causa, Non quod te vellent vel saltim laedere possent”. His quoque discessit dictis angustia cordis, 740 At vero belvae praecedebant bene laetae, Demonstrando viam per deserti loca rectam; Sed nec nocturnis discesserat ulla sub horis, Sed Ioseph pecori sociatae mente fideli Oblitae rabie naturalique furore 745 Pacificae modici gustabant pascua foeni. Inter quas ergo fuerat concordia tanta, Ut quondam timidi iunxere lupis latus agni, Et bovibus mites bene commansere leones. Sed non immerito: caelorum pax quia vera, 750 Quo regit immensum, firmavit foedere, caelum, Illarum mentes mutato more fideles.

Post haec pausavit, radiis lassata caloris Aestivi, chara palmae Maria sub umbra, Et rursum versis claris aspexit ocellis, 755 Fructibus hanc palmam maturis esse refertam. His visis lingua formavit talia verba: “Istius palmae nimium delector onustae, Si potis est fieri, de fructu denique vesci”.

Cui senior vetulus legis moderamine iustus 760 Haud blande dictis Ioseph mox obviat istis: “Hoc miror certe, nimium te dicere velle, Cum videas ramos magno de germine ductos Astris contiguos caelum pulsare profundum. Ast ego praecogito summa tantummodo cura, 765 Si saltim valeam puram comprendere lympham, Utribus in nostris quia nec est guttula fontis”. Haec heros igitur venerandus sic loquebatur, Ceu desperaret, quod praesens omnia posset Christus, corporeis tectus fuerat quia membris. 770 At puer, in gremio carae genitricis amando Accumbens, palmam gaudens se vertit ad ipsam, Functus et imperio praeclare quippe paterno Ipsi continuo dicebat fronte serena: “Arbor, flecte tuos summo de vertice ramos, 775 Ut, quantum libeat, de te mater mea carpat”.

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Dixerat, atque suis arbor fortissima iussis Ante pedes Mariae parens inflectitur almae. Fructu cumque suo penitus fuerat spoliata, Incurvata stetit, nec surgens alta petivit, 780 Opperit imperium Christi sed rite probatum. Ipseque “Te subito” dixit “nunc erige, palma, Ut sis lignorum post haec collega meorum, Quae paradisyacis constant plantata locellis; Et radice tua deduc extimplo secreto 785 Undas fonticuli, fluitantes gurgite dulci”. Quae citius dicto complentur denique cuncta. At prolis comites, fontem lustrando recentem, Reddebant grates laetato pectore dulces Atque sitim lymphis tristem dempsere novellis. 790 Cumque profecturi deserti per loca vasti Essent, ad palmam Iesus sic dixerat ipsam: “De te quippe meo praecepto, palmula, mando, Angelus ut caelo veniens dilapsus ab alto Tollat rite tuo ramum de vertice summo 795 Necnon hunc ipsum plantet mox in paradysum. Et tibi gloriolam super hoc iam confero tantam, Ut post haec summi dicaris palma triumphi; Et quisquis bello famose vicerit ullo, De te vincenti dicetur protinus illi: 800 Ad palmam magni venisti namque triumphi”.

Haec ubi dicta dedit, dilapsus sidere venit Angelus, et tollens ramum divexit in altum. Quo viso, cuncti praesentes obstupefacti In terram proni consternuntur tremefacti. 805 Quos Iesus subito solatur, talia fando: “Non opus est certe vobis formidinis ullae, Hunc quia transferri ramum per sidera iussi, Ut mox deliciae magno plantetur in horto. Et, velut hic in deserto mea iussa sequendo 810 Implevit, magno nosmet studio satiando, Sic illic sanctis constet dulcedo perennis”.

Talibus ac tantis signis iam sedulo visis, Ioseph, virtutem prolis tractando perennem, Utitur his verbis, submisso murmure fusis: 815 “Ecce calor nimius nostros male decoquit artus;. Nunc, tibi si placeat, cuius regnum iuge constat, Praecipe, per pelagi calles nos pergere vasti, Urbibus appositis quo certa quies data nobis Nos citius spatium faciat percurrere tantum”. 820 Cui dixit Iesus, divino numine clarus: “Namque viam subito longam per me breviabo Et, quod ter denis potuit vix ante diebus Metiri, faciam diei spatio repedari”.

His dictis, Sonitem viderunt ocius urbem 825 Aegypti magnam, famosis moenibus altam. Hanc introgressi petierunt limina templi, In quo stulta deos consuevit ponere falsos Gens pagana suos, perverso more colendos. Mox sed ut intravit sancta cum prole Maria, 830 Omnia falsorum pariter simulacra deorum In terram subito ceciderunt denique prona,

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Iam cognoscentes, regem venisse perennem, Atque Deum verum magna virtute decorum. Nunc est impletum fuerat quod carmine dictum 835 Olim percerte modulantis tale prophetae: “Ecce, super levem Dominus veniet cito nubem Prae cuius sancta facie decet omnia nempe Aegypti subito conquassari simulacra”.

Haec Afrodisio postquam fuerant recitata, 840 Urbis namque duci praedictae valde potenti, Illuc cum sociis festinat pergere multis. Quod cum pontifices templi sensere profani, Sperabant illum variis mox perdere poenis Hos, qui damna diis fecerunt talia stultis. 845 Ipse sed, in terra cernens simulacra decora Obtutu prono passim volitare minuta, Lumine caelestis raptim succensus amoris Et fidei sacrae, mutato denique corde Substitit atque suis gaudens dicebat amicis: 850 “Ecce, patenter adest Dominus super omnia pollens, Quem fortasse dii tacito cum murmure nostri Iure Deum verum contestantur fore solum. Restat, ut ipsorum prostrati more deorum, Devota Regem veneremur mente perennem, 855 Quae fecit regi, memorantes, iam Pharaoni, Qui sua plus iusto sprevit mandamina sacra, Ne nosmet foveam mortis detrudat in atram”.

Dixerat, atque solo prostratus corpore toto, Volvitur ante pedes sanctae rogitando Mariae 860 Gratiolam pueri constanter voce fideli, Quem mater gremio gaudens portavit amico.

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4. Iacopo da Varazze

4.1. Nell’ambito della tradizione agiografica mediolatina un posto di rilievo spetta, come è innegabile, alla Le-

genda aurea di Iacopo da Varazze (o da Varagine), un testo che, per la sua ampiezza e la sua vastità, per l’abbondanza di notizie, aneddoti, exempla, racconti edificanti su questa o quella figura di santo o di santa, per la chiarezza (o, per meglio dire, l’estrema semplicità ed elementarità) del dettato compositivo, godette di immensa e meritata fortuna già all’indomani della sua apparizione (la quantità davvero impressionante di manoscritti e di antiche stampe dell’opera è solo il dato più appariscente di questa dilagante fortuna della Legenda aurea), anche se ovviamente non mancarono, soprattutto da parte degli umanisti e degli uomini del Rinascimento, crude condanne dell’opera e del suo autore, det-tate certo da una errata e tendenziosa concezione del Medioevo (si ricordino, fra le altre, l’invettiva di Giovan Battista Spagnuoli, detto il Mantovano, che, dedicando la sua Secunda Parthenica a Bernardo Bembo, scriveva che Iacopo da Varazze avrebbe a tal punto deformato le vite e le leggende dei santi da non poterle più leggere che con riso e con di-sgusto; o, ancora più veemente, la condanna senza appello formulata da Giovanni Luigi Vives, che considerava la Legenda aurea alla stregua di un’opera composta da un uomo «dalla bocca di ferro, dal cuore di piombo, dall’animo privo di discernimento e di prudenza»).

Un tipo di giudizio, questo, che rimase attivo e operante fino a buona parte dell’Ottocento (anche se la pre-dicazione e la letteratura di stampo devozionale saccheggiarono il testo agiografico di Iacopo e fin dal Trecento se ne co-nosce un volgarizzamento toscano che ebbe, anch’esso, un’enorme diffusione e che fu pubblicato nel 1924 da Arrigo Le-vasti). Soltanto alla fine del XIX secolo, con la pubblicazione dell’edizione del testo latino curata dal Graesse (rimasta praticamente unica e insostituita fino a pochi anni or sono, prima cioè della vera e propria edizione critica della Legenda

aurea, egregiamente curata da Giovanni Paolo Maggioni e apparsa nel 1998), gli studiosi hanno ripreso ad interessarsi

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dell’opera di Iacopo da Varazze, cui finalmente, negli ultimi anni del secolo scorso, è stato conferito il posto di rilievo che indubbiamente essa merita, non solo all’interno del genere agiografico mediolatino, ma, più in generale, all’interno di tutta la letteratura mediolatina, con una ricca proliferazione di edizioni, traduzioni, studi, ricerche, pubblicazioni, convegni (di cui soltanto un pallido riflesso è nella postilla bibliografica che conclude questo scritto), mentre lo studio e l’indagine relativi all’«immaginario collettivo» medievale, già in corso da svariati anni, hanno collo-cato la Legenda aurea «nella prospettiva più adeguata», consentendo «di rileggerla e di valutarla per quello che volle essere, cioè un elemento fondamentale di quel sistema di acculturazione del laicato, che fu preoccupazione costante dei Domenicani».

Scrittore, predicatore e narratore domenicano fu appunto Iacopo da Varazze (1228-1298, beatificato nel 1816 da papa Pio VII), divenuto nel 1267 padre provinciale della Lombardia e quindi arcivescovo di Genova dal 1292 fino alla morte, per un periodo di sei anni durante i quali egli svolse un ruolo di primissimo piano nelle vicende politi-che della città ligure, ruolo di cui è traccia visibile nella Chronica civitatis Ianuensis (o Chronicon Ianuense), scritta a partire dal 1295 a scopo di istruzione politica e morale: l’opera, suddivisa in 12 parti, «inizia dalle leggendarie origini di Genova e indulge spesso al fantastico e al meraviglioso, assume in seguito toni didattico-moralistici, ma nel racconto delle vicende contemporanee fino al 1297 il beato Iacopo sa mostrarsi degno emulo dei migliori annalisti genovesi, da Caffaro al suo contemporaneo e omonimo Iacopo Doria».

Come era compito imprescindibile dei Domenicani, Iacopo fu, come si è detto, anche un famoso e infaticabile predicatore. Fra il 1277 ed il 1292 egli compose infatti tre raccolte di sermoni, i Sermones de sanctis, i Sermones doctrinales e i Sermones quadragesimales, mentre una quarta ed ultima raccolta, il Liber Marialis, venne

redatta quando già egli era stato nominato arcivescovo di Genova; come è stato osservato «più che di sermoni veri e propri si tratta di tracce schematiche preparate con intento didascalico, ma piene di dottrina biblica e scolastica e ricche di ardore mistico. Ma i sermoni da lui effettivamente pronunciati dal pulpito dovevano essere ben più efficaci».

4.2. L’opera più importante e celebre dello scrittore domenicano è comunque, come è noto, appunto la Le-

genda aurea. Composta in prima redazione fra il 1252 ed il 1260, e comunque prima del 1267, quindi riveduta negli anni successivi e anche durante il periodo del proprio arcivescovado genovese (benché le opinioni degli studiosi a tal proposito siano quanto mai discordi), essa raccoglie un ricchissimo e pressoché sterminato patrimonio di leggende, aneddoti, racconti esemplari sulle figure dei santi che si erano accumulati nel corso di oltre un millennio, dalle ori-gini del Cristianesimo ai suoi giorni, da Gesù a san Francesco e a san Domenico. Si tratta di complessivi 182 racconti (più o meno lunghi ed articolati), ordinati secondo il calendario delle festività religiose dell’anno canonico, entro i quali Iacopo incluse, nel penultimo capitolo (quello dedicato a san Pelagio papa) una sorta di summa di storia univer-sale dal V secolo al 1245, intitolata Historia lombardica (titolo col quale fu nota anche la Legenda aurea nel suo complesso), ricca, come sempre, di curiosità e di aneddoti su personaggi storici, re e imperatori. Insomma, come è stato di recente giustamente osservato, «nonostante il suo andamento più narrativo, anche la Legenda aurea concorre a tra-sformare il leggendario agiografico tradizionale in raccolta di exempla, vale a dire in uno di quegli strumenti partico-larmente fortunati nel “gran secolo della parola nuova”»; e, ancora, «la candida semplicità dell’animo di Iacopo si traduce in una limpida narrazione agiografica, in un clima fantasioso e garbato che in qualche momento, ad esempio nelle descrizioni dei martirii, diviene più drammatico, anche se di una drammaticità ingenua nella nar-razione di apparizioni demoniache e di scene di tentazioni», in un testo caratterizzato «da tanto incantato stupore e da così affascinante gentilezza di racconto».

4.1. De sancto Andrea apostolo [Iacobus de Voragine, Legenda aurea, cap. II]

[IACOPO DA VARAZZE, Legenda aurea, con le miniature del codice Ambrosiano C 240 inf., testo critico riveduto e commento a cura di G.P. Maggioni, traduzione italiana coordinata da Fr. Stella, vol. I, Firenze-Milano 2007, pp. 30-43]

DE NOMINE – Andrea interpretatur decorus vel respondens vel viris ab andor, quod est vir; et dicitur Andreas quasi anthropos, id est homo, ab ana quod est sursum et tropos quod est conversio, quasi sursum ad celestia conversus et ad suum Creatorem erectus. Fuit ergo decorus in vita, respondens in sapienti doctrina, virilis in pena et anthropos in gloria. Eius passionem presbiteri et diacones Asie, sicut oculis suis viderant, conscripserunt.

DE SANCTO ANDREA APOSTOLO – Andreas et quidam alii discipuli tribus vicibus a Domino sunt vocati. Primo enim vocavit eos ad sui notitiam, sicut quando stante Andrea die quadam cum Iohanne magi-stro suo et alio cum discipulo audivit a Iohanne: “Ecce agnus Dei, etc.”. Et statim cum alio discipulo venit et vidit ubi manebat Ihesus et manserunt apudo illum die illo; inveniensque Andreas fratrem eius Symonem, adduxit eum ad Ihesum; sequenti autem die ad piscationis opera redierunt. Postmodum secundo vocavit eos ad sui familiaritatem, sicut cum die quadam turbis irruentibus ad Ihesum iuxta stagnum Genesareth, quod

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dicitur mare Galilee, navim intravit Symonis et Andree et capta multitudine magna piscium vocatisque Iaco-bo et Ioanne qui erant in alia navi, secuti sunt eum et iterum ad propriam redierunt. Sed postea tertio et ulti-mo vocavit eos ad sui discipulatum, sicut quando ambulante Ihesu iuxta idem litus vocavit eos de piscatione dicens: “Venite post me, faciam etc.”. Qui relictis omnibus secuti sunt eum eique semper postmodum ad-heserunt nec ultra ad propriam redierunt. Nihilominus tamen vocavit Andream et quosdam de suis discipulis ad apostolatum, de qua vocatione dicitur Mc [Marcus] III: “Vocavit ad se quos voluit ipse, etc.”. Post ascen-sionem Domini, divisis apostolis, Andreas apud Scythiam, Matheus vero apud Margundiam predicavit. Viri autem illi predicationem Mathei penitus respuentes ei oculos eruerunt et vinctum incarceraverunt post paucos dies occidere eum disponentes. Interea angelus Domini Sancto Andree apparuit et Margundiam ad Sanctum Matheum ire precepit; quo respondente se viam nescire, iussit, ut ad ripam maris iret et ad primam navem, quam inveniret, intraret. Qui velocius iussa complens ad urbem predictam venit, angelo duce et prospero vento flante. Et invento aperto carcere sancti Mathei eoque viso flevit plurimum et oravit. Tunc Dominus Matheo reddidit beneficium duorum luminum, quibus eum privaverat nequitia peccatorum. Matheus autem ab inde recessit et Antiochiam venit. Andreas vero Margundia remanente irati illi de evasione sancti Mathei Andream apprehendunt et per plateas ligatis manibus pertrahunt; cumque eius sanguis efflueret, pro iis oravit et ad Christum eos sua oratione convertit. Inde in Achaiam proficiscitur. Hoc autem, quod dicitur de huiusmodi liberatione Mathei et restitutione duorum luminum per Andream, non puto dignum fidei, ne in tanto evangelista minoratio infima denotetur, quasi sibi non potuerit obtinere, quod Andreas ei tam facile im-petravit.

Quidam iuvenis nobilis dum invitis parentibus apostolo adhesisset, parentes eius domum, in qua mo-rabatur cum apostolo, succenderunt. Cumque iam in altum flamma succresceret, puer accepta ampulla super ignem sparsit et statim ignem exstinxit illis autem dicentibus: “Filius noster magus est effectus.” Dum per scalas vellent ascendere, a Deo sunt excecati, ut ipsas scalas penitus non viderunt. Tunc quidam exclamans ait: “Ad quid vos stulto labore consumitis! Deus pugnat pro iis et vos non videtis. Cessate iam, ne in vos ira Dei descendat.” Multi ergo videntes domino crediderunt, parentes vero eius post quinquaginta dies mortui in monumento sunt positi.

Quedam mulier, cuidam homicide coniuncta, cum parere non posset, sorori sue dixit: “Vade et pro me Dianam dominam nostram invoca.” Cui invocanti ait diabolus: “Cur me invocas, cum tibi prodesse non possim! Sed vade ad Andream apostolum, qui sororem tuam poterit adiuvare.” Ad quem cum ivisset et apo-stolum ad sororem periclitantem duxisset, dicit ei apostolus: “Recte hoc pateris, quia male duxisti, male con-cepisti et demones consuluisti. Sed tamen penitere et in Christum crede et puerum proice.” Qua credente abortivum protulit et dolor cessavit.

Senex quidam nomine Nicolaus adiit apostolum dicens: “Domine, ecce septuaginta anni vite mee sunt, in quibus semper luxurie deservivi. Accepi autem aliquando evangelium orans Deum, ut mihi amodo continentiam largiretur. Sed in ipso peccato inveteratus et a mala concupiscentia illectus statim ad opus soli-tum revertebar. Quadam igitur vice concupiscentia inflammatus oblitus evangelii, quod super me posueram, ad lupanar ivi statimque meretrix dixit mihi: ‘Egredere, senex, egredere, quia angelus Dei es, tu ne me con-tingas neque huc accedere presumas: Video enim super te mirabilia.’ Stupefactus ad verba meretricis recolui, quod mecum evangelium detulissem. Nunc igitur, Sancte Dei, pro salute mea tua pia oratio intercedat.” Au-diens hoc beatus Andreas flere cepit et a tertia usque ad nonam oravit et surgens noluit comedere, sed ait: “Non comedam, donec sciam, si Dominus miserebitur huius senis.” Cumque diebus quinque ieiunasset, venit vox ad Andream dicens: “Obtines, Andrea, pro sene. Sed sicut per ieiunium macerasti te, sic se et ipse affli-gat ieiuniis, ut salvetur.” Sicque fecit et in sex mensibus in pane et aqua ieiunavit et postmodum plenus bonis operibus in pace requievit. Venit igitur vox ad Andream dicens: “Per orationem tuam Nicolaum, quem perdi-deram, acquisivi.”

Quidam iuvenis Christianus secretius Sancto Andree dixit: “Mater mea pulchrum me videns de opere me illicito tentat. Cui dum nullatenus assentirem, iudicem adiit, volens in me crimen tante nequitie retorque-re, sed ora pro me, ne moriar tam iniuste, nam et accusatus penitus reticebo malens vitam perdere quam ma-trem meam tam turpiter infamare.” Iuvenis igitur ad iudicium vocatur et illuc eum Andreas prosequitur. Ac-cusat constanter mater filium, quod se voluerit violare. Interrogatus pluries iuvenis, an res taliter se haberet, nihil penitus respondebat. Tunc Andreas matri dixit: “Crudelissima feminarum, que per tuam libidinem uni-cum filium vis perire.” Tunc illa preposito dixit: “Domine, huic homini filius meus adhesit, postquam hoc agere voluit, sed nequivit.” Iratus itaque iudex iussit puerum in saccum linitum pice et bitumine mitti et in flumen proici, Andream vero in carcere reservari, donecexcogitaret supplicium, quo periret. Sed orante An-drea tonitruum horribile omnes terruit et terre motus ingens cunctos prostravit et mulier a fulmine percussa et

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arefacta corruit. Orantibus autem ceteris apostolum, ne perirent, oravit pro iis et omnia cessaverunt. Tunc prepositus credidit et domus eius tota.

Cum autem esset apostolus in civitate Nicea, dixerunt ei cives, quod extra civitatem secus viam sep-tem demones erant, qui pretereuntes homines occidebant. Quibus ad iussum apostoli ante populum in specie canum venientibus precepit, ut illuc irent, ubi nulli hominum nocere possent. Qui statim evanuerunt. Illi au-tem homines hoc viso fidem Christi receperunt. Et cum venisset ad portam alterius civitatis, ecce quidam iu-venis mortuus ferebatur. Querente apostolo, quid ei accidisset, dictum est ei, quod septem canes venerunt et eum in cubiculo necaverunt. Et lacrimans apostolus ait: “Scio, Domine, quod fuerunt demones, quos a Nicea urbe repuli.” Dixitque patri: “Quid dabis mihi, si suscitavero filium tuum” Cui ille: “Nil carius ego posside-bam, ipsum ergo tibi dabo.” Et facta oratione surrexit et apostolo adhesit.

Cum quidam viri numero quadraginta ad apostolum navigio venirent, ut ab eo fidei doctrinam recipe-rent, ecce a diabolo mare concitatur et omnes pariter submerguntur. Cum autem eorum corpora ad litus dela-ta fuissent, ante apostolum deportantur et ab eo continuo suscitantur. Qui omnia, que sibi acciderunt, narra-verunt. Unde in quodam hymno ipsius legitur: “Quaternos iuvenes submersos maris fluctibus vite reddidit usibus.”

Beatus igitur Andreas in Achaia consistens totam cum ecclesiis implevit et plurimos ad fidem Christi convertit. Uxorem quoque Egee proconsulis fidem Christi docuit et sacro baptismatis fonte ipsam regenera-vir. Audito hoc Egeas Patras civitatem ingreditur compellens Christianos ad sacrificia idolorum, cui occur-rens Andreas dixit: “Oportebat, ut tu, qui iudex hominum esse meruisti in terris, iudicem tuum, qui in celis est, agnosceres et agnitum coleres et colendo animum a falsis diis penitus revocares.” Cui Egeas: “Tu es An-dreas, qui superstitiosam predicas sectam, quam Romani principes nuper exterminare iusserunt.” Ad quem Andreas: “Romani pnncipes nondum cognoverunt, quomodo filius Dei veniens docuerit idola esse demonia, que hoc docent, unde offendatur Deus, ut offensus ab iis avertatur et aversus non exaudiat et non exaudiendo ipsi a diabolo captiventur et captivati tamdiu deludantur, donec nudi de corpore exeant nihil secum preter peccata portantes.” Cui Egeas: “Ista vana Iesus vester predicans crucis patibulo est affixus.” Cui Andreas: “Pro restauratione nostra, non pro culpa sua crucis patibulum sponte suscepit.” Ad quem Egeas dixit: Cum a suo discipulo fuerit traditus et a Iudeis tentus et a militibus crucifixus - quomodo tu dicis eum sponte crucis subiisse supplicium!” Tunc Andreas quinque rationibus cepit ostendere Christum voluntarie passum fuisse: “Scilicet ex eo, quod passionem suam previdit et discipulis futuram predixit: ‘Ecce’, inquiens, ‘ascendimus Hierosolyma etc.’ Et ex eo, quod Petro eum ab hoc avertere cupienci dure indignatus fuit dicens:’Vade post me Satana etc.’ Et ex eo, quod utriusque scilicet patiendi et resurgendi se potestatem habere manifestavit dicens: ‘Potestatem habeo ponendi animam meam et irerum sumendi eam.’ Et ex eo, quod proditorem preco-gnovit, cum panem intinctum ei dedit, nec tamen vitavit. Et ex eo, quod locum, in quo proditorem venturum sciebat, elegit. “ Et his omnibus se interfuisse asseruit. Addit Andreas, quod mysterium crucis magnum esset. Cui Egeas: “Mysterium dici non potest, sed supplicium. Verumtamen ubi mihi non obtemperaveris, ipsum mysterium te faciam experiri.” Cui Andreas: “Si crucis patibulum expavescerem, crucis gloriam non predica-rem. Audiri a te volo mysterium crucis, si forte credas et ipsum agnitum colas, ut salveris.” Tunc cepit ei my-sterium reemptionis pandere et, quam congruum et necessariwm fuerit, quinque rationibus persuadere. “Pri-ma ratio est, quod, quia primus homo per lignum mortem suscitavit, congruum fuit, ut secundus eam per li-gnum pelleret patiendo. Secunda, quod, quia de immaculata terra factus fuerat prevaricator, congruum fuit, ut de immaculata nasceretur virgine reconciliator. Tertia, quod, quia Adam ad cibum vetitum incontinenter ma-nus extenderat, congruum fuit, ut secundus Adam in cruce immaculatas manus extenderet. Quarta, quod, quia Adam cibum suavem vetitum gustaverat, congruum fuit ad hoc, quod contrarium pelleretur contrario, ut Christus esca fellea cibaretur. Quinta, quia ad hoc, quod Christus nobis suam immortalitatem conferret, con-gruum fuit, ut nostram sibi mortalitatem assumeret. Nisi enim Deus factus fuisset mortalis, homo non fieret immortalis.” Tunc Egeas dixit: “Hec vana tuis narra et mihi obtempera diisque omnipotentibus sacrifica.” Cui Andreas: “Omnipotenti Deo agnum immaculatum quotidie offero, qui, postquam a toto populo comestus fuerit, vivus et integer perseverat.”Egea, quomodo hoc fieret, requirente dixit Andreas, ut formam discipuli assumeret. Cui Egeas: “Ego cum tormentis a te exigam rei notitiam.” Iratusque iussit eum in carcere recludi. Mane facto tribunali sistitur et ad sacrificia idolorum iterum invitare cepit dicens: “Nisi mihi obtemperaveris, in ipsam, quam laudasti, crucem faciam te suspendi.” Cumque ei multa supplicia minaretur, respondit: “Quidquid tibi videtur in suppliciis maius, excogita; tanto enim regi meo ero acceptior, quanto fuero pro no-mine eius in tormentis constantior.” Tunc iussit eum a viginti uno hominibus cedi et cesum manibus et pedi-bus cruci alligari, ut sic longiorem reciperet cruciatum. Cumque duceretur ad crucem, factus est concursus populorum dicentium: “Innocens sanguis eius sine causa damnatur.” Quos tamen rogavit apostolus, ne suum martyrium impedirent. Videns autem Andreas a longe crucem salutavit eam dicens: “Salve crux, que in cor-

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pore Christi dedicata es et ex membris eius eamquam margaritis ornata. Antequam in te adscenderet Domi-nus, timorem terrenum habuisti. Modo vero amorem celestem obtinens pro voto susciperis. Securus igitur et gaudens venio ad te, ut tu exsultans suscipias me discipulum eius, qui pependit in te: Quia amator tuus sem-per fui et desideravi amplectite. O bona crux, que decorem et pulchritudinem de membris Domini suscepisti. Diu desiderata, sollicite amata, sine intermissione quesita, aliquando concupiscenti animo preparata. Accipe me ab hominibus et redde me magistro meo, ut per te me accipiat, qui per te me redemit.” Et hec dicens se exuit et vestimenta carnificibus tradidit sicque eum in crucem, ut iussum fuerat, suspenderunt. In qua biduo vivens viginti milibus hominum adstantium predicavit. Tunc minitante turba Egee mortem et dicente virum sanctum et mansuetum et pium non debere ita pati. Venit, ut ipsum deponeret. Quem videns Andreas dixit: “Quid tu ad nos venisti, Egea, si pro penitentia, ipsam consequeris, si autem, ut me deponas, scias, quod ego vivus de cruce non descendam. Iam enim video regem meum, qui me exspectat.” Et cum vellent eum solve-re, nullo modo poterant ad eum pertingere, quia statim eorum bracchia stupida reddebantur. Videns autem Andreas, quod plebs volebat eum deponere, hanc orationem in cruce fecit, ut dicit Augustinus in libro de pe-nitentia: “Ne me permittas, Domine, descendere vivum, sed tempus est, ut commendes terre corpus meum: Tamdiu enim portavi iam, tamdiu super commendatum vigilavi et laboravi, quod vellem iam ab ista obedien-tia liberari et isto gravissimo indumento spoliari. Recordor, quantum in portando onerosum, in domando su-perbum, in fovendo infirmum, in coercendo lascivum laboravi. Scis, Domine, quoties a puritate contempla-tionis retrahere me contendebat, quoties a dilectissime quietis tue somnu me excitare obtendebat quantum et quoties dolorem ingerebat. Cui igitur tamdiu, ut potui, pater benignissime, pugnanti restiti et tua ope supera-vi. A te iusto remuneratore et pio posco, ne mihi id ultra commendes. Sed depositum reddo. Commenda alii nec me illo ultra impedias, et resurrecturum servet et reddat, ut ipsum quoque meritum sui laboris recipias. Terre id commenda, ut me amplius vigilare non oporteat et libere ad te fontem vite et indeficientis gaudii tendere anxiantem non retrahat nec impediat.” Hec Augustinus. His dictis splendor nimius de celo veniens dimidia hora eum circumdedit, ita ut nullus eum videre posset, et abscedente lumine simul cum ipso lumine spiritum tradidit. Maximilla vero uxor Egee tulit corpus apostoli sancti et honorifice sepelivit. Egeas vero an-tequam domum suam rediisset, arreptus a demone in via coram omnibus exspiravit. Aiunt quoque de sepul-cro sancto Andree mannam in modum farine et oleum cum odore emanare, a quo, que sit anni futuri fertili-tas, incolis regionis ostenditur. Nam si exiguum pronuit, exiguum terra exhibet fructum, si copiose, co-piosum. Hoc forte antiquitus verum fuit, sed modo corpus apud Constantinopolitanos translatum esse perhi-betur.

Episcopus quidam religiosam habens vitam beatum Andream inter ceteros sanctos in veneratione ha-bebat, ita quod in cunctis suis operibus hunc semper titulum preponebat: “Ad honorem Dei et beati Andree.” Invidens igitur viro sancto diabolus, hostis antiquus, ad eum decipiendum tota se calliditate contulit seque in formam mulieris pulcherrime transformavit. Venit igitur ad palatium episcopi asserens, se velle confiteri ei-dem. Mandat episcopus, ut suo penitentiali confiteatur, cui plenitudinem tradiderat potestatis. Renuntiat illa, quod nulli hominum nisi sibi secreta sue conscientie revelet, sicque convictus episcopus eam ad se venire precepit. Cui illa: “Obsecro, domine, miserere mei, ego vero in annis puellaribus, ut cernitis, constituta et a pueritia delicate nutrita, nec nun et regia stirpe progenita huc in peregrino habitu sola veni. Nam pater meus rex, itaque valde potens cuidam magno principi me volebat in coniugem sociare, cui respondi: Omnem torum abominor maritalem, quia virginitatem meam Christo in perpetuum dedicavi et ideo numquam possem in carnalem copulam consentire. Denique sic artata, quod oportebat me aut eius voluntaii obedire aut terre di-versa subire supplicia, latenter fugam mll magis eligens exsulare quam sponso meo fidem infringere. Au-diens vero vestre sanctitatis preconium sub alas vestre protectionis confugi sperans me apud vos locum repe-rire quietis, ubi possim contemplationis carpere secreta silentia presentisque vite vitare naufragia et perturba-tionem mundi fugere perstrepentis.” Admirans in ea episcopus nobilitatem generis, pulchritudinem corporis, tam immensum fervorem et tante eloquentie venustatem placita et benigna voce respondit: “Esto secura, fi-lia, ne formides, quia ille, ob cuius amorem te et tuos et tua tam viriliter contempsisti, tibi ob hoc et in pre-senti cumulum gratie et in futuro plenitudinem glorie largietur. Sed et ego servus eius me et mea tibi offero. Eligasque tibi, ubi placuerit, mansionem: Volo autem hodie mecum prandere debeas.” Cui illa: “Noli, inquit, pater, noli de hac re me rogare, ne forte ex hoc aliqua mali suspicio perveniat et nitor fame vestre denigratio-nem aliquam patiatur.” Ad quam episcopus dixit: “Plures erimus et non soli. Et ideo nullum mali suspicionis scrupulum in aiquo poterit generari.” Venientes itaque ad mensam episcopus et illa ex opposito consederunt ceteris residencibus hinc et inde. Intendit in eam crebro eplscopus eiusque faciem non desinit intueri et pul-chritudinem admirari. Sicque dum oculus figitur, animus sauciatur, et dum eius faciem non desinit intueri, diabolus, antiquus hostis, cor eius gravi iaculo vulneravit. Perpendit hoc ipse diabolus et pulchritudinem suam cepit magis ec magis augere iamque episcopus proximus erat consensui, ut eam de illicito opere atten-

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taret, quando possibilitas se offerret, tunc subito quidam peregrinus venit ad ostium crebris ictibus pulsans et magnis clamoribus postulans sibi aperiri. Cumgue aperire nollent et ille magnis clamoribus et ictibus nimis iis fieret importunus, interrogat episcopus mulierem, si ingressum illius peregrini hominis acceptaret. Cui illa dixit: “Proponatur sibi aliqua questio gravis, quam si enodare sciverit, admittatur, si autem nescierit, tamquam inscius et indignus ab episcopi presentia repellatur.” Favent eius omnes sententie et, quis sufficiens esset hanc questionem proponere, sciscitantur. Cumque nullus inveniretur, episcopus dixit: “Quis enim nos-trum ad hoc tam sufficiens est quam vos, o domma, que ceteros nos et eloquentia preceditis et sapientia nobis omnibus amplius rutilatis? Vos igitur hanc proponite questionem.” Tunc illa dixt: “Interrogetur, quod est maius mirabile, quod Deus umquam in parva re fecerit.” Interrogatus de hoc peregrinus per nuntium dixit: “Diversitas et excellentia facierum: Inter tot enim homines, qui fuerunt ab initio mundi et usque in finem fu-turi sunt, duo reperiri non possent, quorum facies per omnia similes sint vel possent, et in ipsa tam minima facie omnes sensus corporis Deus collocavit.” Audientes omnes eius responsionem admirantes dixerunt: “Vera et optima est solutio questionis.” Tunc mulier ait: “Proponatur sibi secunda questio gravior, in qua me-lius possumus sapientiam eius experiri: Queratur ab eo, ubi terra sit altior omni celo.” Percunctatus de hoc peregrinus respondit: “In celo empyreo, ubi residet corpus Christi. Corpus enim Christi, quod est altius omni celo, est de nostra carne formatum. Porro caro nostra quedam terrea substantia est. Cum ergo corpus Christi super omnes celos sit et de nostra carne originem duxerit, caro autem nostra de terra sit condita, constat, quod, ubi corpus Christi residet, ibi procul dubio terra altior celo manet.” Refert nuntius, quod responderat peregrinus, et ecce omnes responsionem eius mirabiliter approbant et magnifice sapientiam eius laudant. Tunc illa iterum dixit: “Fiet ei tertia questio gravissima et occulta et ad solvendum difficilis et obscura, ut sic eius sapientia tertio comprobetur et dignus sit, ut ad mensam episcopi merito admittatur. Queratur ab eo, quanti spatii sit a terra usque in celum.” Requisitus de hoc peregrinus nuntio dixit: “Vade ad eum, qui te mi-sit ad me et de hoc diligenter percunctare. Ipse enim melius me hoc novit et ideo tibi de hoc melius respon-debit. Nam ipse illud spatium mensuravit, quando de celo in abyssum cecidit. Ego autem de celo numquam cecidi et illud spatium numquam mensuravi. Non enim est mulier, sed diabolus, qui se posuit in similitudi-nem mulieris.” Audiens hoc nuntius vehementer expavit et ea, que audierat coram omnibus recitavit. Miran-tibus itaque omnibus et stupentibus diabolus,antiquus hostis, de medio eorum evanuit. Episcopus autem re-diens ad se redarguit amare semet ipsum et de perpetrata culpa veniam lamentabiliter precabatur, misitque nuntium, ut peregrinus introduceretur, sed nequaquam amplius invenitur. Tunc eplscopus populum convoca-vit et iis evidenter exposuit ordinem geste rei precepitque, ut omnes ieiuniis et orationibus insisterent, si forte Dominus revelare alicui dignaretur, quisnam ille peregrinus fuerit, qui eum a tanto periculo liberavit. Reve-latum autem est illa nocte episcopo, quod beatus Andreas fuerit, qui pro liberatione ipsius se posuerit in habi-tu peregrini. Cepit igitur episcopus in devotione Sancti Andree magnifice crescere ac eum exinde in reveren-tia plus habere.

Cum prepositus cuiusdam civitatis agrum sancti Andreae abstulisset et ob hoc gravissimis febribus orante episcopo fuisset correptus, ille episcopus rogavit ut pro se oraret et agrum sibi redderet, sed cum orante episcopo sanitatem recepisset, agrum iterum usurpavit. Tunc episcopus orationi se dedit et omnes lampades ecclesie fregit dicens: “Hoc lumen non accendetur donec Dominus de suo inimico vindicet et ecclesia quod amisit recuperet”. Et ecce prepositus gravissimis iterum febribus laboravit misitque per nuntios episcopo ut pro se oraret et agrum suum et alium sibi similem redderet. Cui cum episcopus semper responde-ret: “Iam oravi et exaudivit me Deus”, ipse ad ipsum se portari fecit et ut ecclesiam intraret ad orandum coe-git. Episcopus dum ecclesiam ingreditur, ille subito moritur et ager ecclesie restituitur.

Appendice Tradizione agiografica su sant’Andrea Intorno all’apostolo Andrea oltre a quello che narrano i vangeli canonici e gli Atti degli Apostoli, esiste una ab-

bondante letteratura apocrifa. Questa può essere suddivisa in due gruppi: da una parte, i cosiddetti Acta Andreae;

dall’altra diversi testi, sempre riguardanti l’apostolo ma senza legami con gli Acta Andreae. Insieme con quelli di An-drea si annoverano altri quattro Atti – sempre apocrifi – di Giovanni, Paolo, Pietro, Tommaso. Tutti insieme formano i “cinque grandi romanzi apostolici”. Lo studio scientifico di questi Atti è iniziato a partire dalla metà dell’Ottocento. Si deve al Lipsius la loro prima analisi completa. Riassumendo a oggi i risultati della ricerca scientifica si può sostenere che gli Acta Andreae costituiscono un testo scritto originariamente in greco tra il II e il III secolo, forse in Acaia oppure nell’Asia Minore, anche se, in fin dei conti, ne risulta impossibile una sicura collocazione geografica. Per quelli di An-drea non possediamo alcuna testimonianza così antica come quelle che abbiamo per gli Atti di Pietro, di Giovanni e di Paolo. La prima menzione ci proviene da Eusebio di Cesarea (morto nel 340), che annovera gli Acta Andreae tra le ope-re diffuse dagli eretici. L’originale non lo possediamo nella sua interezza, ma solo frammentariamente. Il racconto com-porta due parti: i viaggi e il martirio del santo. Resta tuttora molto difficile ricostruire la parte originaria riguardante i

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viaggi dell’apostolo attraverso le città dell’Asia Minore e attraverso le città greche, nonché i miracoli compiuti. Secon-do il convincimento dei più accreditati studiosi, fonte principale per ricostruire gli Acta Andreae è la traduzione latina abbreviata fatta da Gregorio di Tours (morto nel 594) nel suo Liber de miraculis beati Andreae apostoli. La seconda parte degli Acta Andreae, quella che riguarda il martirio, ha inizio nella città di Patrasso. Vi si racconta che, dopo aver convertito un gran numero di persone, tra cui Stratocle e Massimilla, Andrea è condannato a morte da Egeas. Prima di essere legato alla croce, Andrea pronuncia una lunga preghiera alla croce, e poi, sulla croce, predica per tre giorni. Dopo la morte avvenuta il 30 novembre, Andrea è sepolto a Patrasso. Questa parte è meglio conservata grazie al testo greco e quello armeno. La ricostruzione dell’insieme degli Acta Andreae è stata fatta da Jean-Marc Prieur sulla base dei testi greci e copti (due papiri), latini (testo di Gregorio, lettera dei diaconi di Acaia) e armeni, e delle citazioni patristiche (Agostino, Evodio di Uzala e altri). Sebbene qualche studioso ritenga che gli Acta non contengano elementi sufficienti per considerare eterodosso l’autore, il quale poteva ben restare con le proprie idee senza sentirsi fuori della grande Chiesa, il testo presenta un carattere nettamente encratita. Attesta cioè non solo un forte apprezzamento per la verginità e la castità, ma, nello stesso tempo, una forma di ascetismo estremo, che nella Chiesa antica apparve ben presto sospet-ta, in quanto implicava il rifiuto dei beni creati da Dio a uso e servizio degli uomini come, per esempio, l’esclusione delle nozze, della procreazione o del cibarsi di carne o bere vino. Non meraviglia, perciò, che gli Acta Andreae si dif-fondessero fra correnti ereticali, manichei e priscillianisti, mentre la versione di Gregorio di Tours li epura di tutti gli eventuali influssi ereticali. Un altro gruppo di testi su Andrea è costituito dal libro III della raccolta dello Pseudo Abdia, dagli Atti di Andrea e Mattia nella città degli antropofagi, e dagli Atti di Pietro e Andrea. Esiste, inoltre, un grande nu-mero di vari Acta Andreae in lingue orientali e anche un Vangelo di Andrea come riporta il Decreto pseudo-gelasiano (5, 3, 2). La festa di sant’Andrea del 30 novembre è già confermata nel IV secolo da Gregorio di Nazianzo. Le reliquie dell’apostolo furono portate da Patrasso a Costantinopoli nel 357 insieme con quelle di Luca e di Timoteo. Il 9 maggio è la commemorazione di questa traslazione. Nella scia degli Acta Andreae, le tradizioni intorno ad Andrea hanno alimen-tato leggende medievali, come quelle della missione in Ucraina, oppure le leggende germaniche. Senza dubbio, anche grazie a queste tradizioni, in oriente come in occidente, Andrea è e resta uno dei santi più popolari.

Sant’Andrea nella Legenda aurea di Iacopo da Varazze «Andrea significa “bello” o “capace di responsi” o “virile” da andor, cioè “uomo”. Andrea inoltre è quasi co-

me anthropos, cioè “essere umano”, da ana che vuol dire “su” e tropos che indica il “volgersi”, vale a dire che si è volto in su alle cose celesti e si è indirizzato al suo creatore. Dunque fu bello nella sua vita, capace di responsi in una sapiente dottrina, virile nella sofferenza e anthropos nella gloria. Trascrissero la sua passione i presbiteri e i diaconi d’Asia, così come l’avevano veduta coi loro stessi occhi”». Così comincia la vita di sant’Andrea nella più diffusa raccolta agiografi-ca che per quasi mezzo millennio ha nutrito la spiritualità e l’immaginario cristiani, la Legenda aurea del domenicano Iacopo da Varazze (1228-1298). Che iscrive “l’intero tempo della vita umana” nell’anno liturgico e inizia dunque con l’avvento, tempus renovationis sive revocationis (“tempo del rinnovamento o del richiamo”). La prima vita (subito dopo il prologo e il cap. I, dedicato alla festa dell’Avvento), è dunque quella di sant’Andrea apostolo, il cui inizio – sull’etimologia del nome, secondo le raccolte onomastiche in uso nel giudaismo e cristianesimo antichi – qui è stato ci-tato dall’ultima edizione critica (Iacopo da Varazze, Legenda aurea, con le miniature del codice Ambrosiano C 240 inf., testo critico riveduto e commento di G.P. Maggioni, Firenze-Milano 2007, p. 31). Tradotta già nel Medioevo in casti-gliano, nell’ultimo trentennio del Quattrocento la compilazione di Iacopo da Varazze fu tra i primi libri stampati in Spa-gna, già tra il 1471 e il 1475 (forse a Santiago de Compostela), poi a Burgos nel 1500. Seguirono altre edizioni tra cui, a Siviglia nel 1520, quella dello stampatore salmantino Juan de Varela, il cui testo (o un altro molto vicino) fu la versione che accompagnò la conversione di Ignazio di Loyola tra il 1521 e il 1522. E proprio questa traduzione è stata studiata ed edita criticamente dal gesuita Félix Juan Cabasés, per i “Monumenta Historica Societatis Iesu” (Series nova, 3) con il titolo Leyenda de los santos, Madrid, Universidad Pontificia Comillas - Institutum Historicum Societatis Iesu, 2007.

Sant’Andrea nei leggendari “abbreviati” del XIII secolo Tutti i rivoli della tradizione agiografica – estremamente complessa – relativa a sant’Andrea tendono, col tem-

po, a confluire e, nel sec. XIII, vengono uniformati e concordati a opera dei compilatori domenicani. Dapprima Giovan-ni di Mailly (autore del primo leggendario “condensato”, l’Abbreviatio in gestis et miraculis sanctorum, prima ediz. cri-tica a cura di G.P. Maggioni, Firenze 2012) e Bartolomeo da Trento (autore del Liber epilogorum in gesta sanctorum, ediz. critica a cura di E. Paoli, Firenze 2001), quindi Iacopo da Varazze (nel cap. II della Legenda aurea) contribuisco-no a fondare una leggenda che unisca i tratti fondamentali della Passio Andreae (BHL 428), il racconto dello pseudo-Abdia e l’opera di Gregorio di Tours.

Nell’Abbreviatio di Giovanni di Mailly la narrazione segue questo schema: 1. La chiamata di Andrea e la pesca miracolosa; 2. Andrea e Matteo nel paese dei Mirmidoni; 3. Andrea in Acaia; 4. I miracoli compiuti da Andrea in vita; 5. Il martirio e l’allocuzione alla croce; 6. Un miracolo compiuto post mortem (tratto da Gregorio di Tours).

Bartolomeo da Trento, come sempre, segue assai da presso Giovanni di Mailly, aggiungendo un’etymologia nominis tratta da Uguccione da Pisa ma omettendo i miracoli compiuti dal santo post mortem.

Il cap. II della Legenda aurea mostra, come sempre, una struttura più ampia e articolata rispetto a quella esibita nei leggendari precedenti, con una narrazione pressoché completa della vita e dei miracoli operati dal santo (in vita e dopo la morte). Lo schema della narrazione di Iacopo da Varazze è il seguente: 1. Etymologia nominis (accompagnata, come di consueto – e ciò a differenza degli altri due scrittori di leggendari – da un commento esplicativo che collega la biografia del santo al suo nome); 2. Episodi evangelici; 3. Andrea e Matteo in Margundia; 4. Andrea in Acaia; 5. Mira-coli in vita; 6. Martirio e allocuzione alla croce; 7. Miracoli post mortem.

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Fin da questa, che è la prima biografia che si legge nella Legenda aurea (in quanto la festa di sant’Andrea ca-de, in genere, subito dopo la prima domenica d’Avvento, con la quale ha inizio l’anno liturgico che scandisce il tempo sacro dell’uomo medievale – come è stato di recente definito da Jacques Le Goff – e sul quale è articolata tutta l’opera), emerge una struttura che, successivamente, Iacopo da Varazze seguirà in tutti gli altri capitoli per ripartire il materiale, spesso abbondante ma altrettanto spesso non del tutto affidabile, che la tradizione agiografica aveva, nel corso di secoli, accumulato su ogni santo.