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Alberto D’Auria Comunicare è un’arte Come trovare la strada giusta nel labirinto dei rapporti umani © 2013 Effatà Editrice

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Alberto D’Auria

Comunicare è un’arte

Come trovare la strada giusta nel labirinto dei rapporti umani

© 2013 Effatà Editrice

PREFAZIONE

«Ogni vita vera è incontro»: è una frase di Martin Buber che potrebbe benissimo essere posta come titolo di questo libro. Secondo il filosofo austriaco ciò che caratterizza l’essere di ognuno di noi nasce nella relazione che si instaura tra le persone, tra l’Io e il Tu: non può nascere un Io se non c’è un altro che lo aiuti a diventarlo. Per comprendere questo concetto si può pensare al rapporto fondamentale che lega una mamma al suo bambino. Un figlio non ha solo bisogno di latte per non morire di fame e crescere fisicamente; egli necessita di relazionarsi con la mamma e poi, crescendo, anche con tante altre figure che lo aiuteranno a prendere consapevolezza di se stesso, per sviluppare la propria intelligenza, il proprio linguaggio, le proprie emozioni e così via. Ciò equivale a dire che la relazione e quindi la comunicazione sono la via fondamentale perché ciascuno diventi persona.

Riflettendo sulla nostra vicenda biografica e sulla nostra vita quotidiana, sperimentiamo di continuo quanto questa breve riflessione e l’aforisma iniziale siano veri.

Non ci accorgiamo forse che le relazioni fondamentali della nostra vita hanno modellato molti aspetti della nostra personalità? Non sperimentiamo che le relazioni che abbiamo con gli altri e con noi stessi hanno il potere di alzarci fino al settimo cielo o di prostrarci a terra? Non sentiamo affiorare in noi sempre nuovi bisogni di stima, di affetto, di comprensione? E ancora, non ci accorgiamo forse che quando il nostro cuore e/o la nostra mente vibrano all’unisono con quelli di un altro, tutto attorno a noi si dipinge di colori caldi e in noi tutto prende i toni della festa?

Alla luce di queste esperienze che attraversano la nostra vita, tutti noi, più o meno consapevolmente, comprendiamo l’importanza di incontrarci e comunicare con l’altro per “dare alla luce” noi stessi, e nello stesso tempo di essere in sintonia con noi stessi per incontrare autenticamente l’altro.

Ci accorgiamo insomma che il desiderio profondo e radicale è l’incontro autentico con l’altro, dove io e l’altro possiamo godere della libertà di essere e diventare sempre più noi stessi.

Straordinario, stupendo... ma concretamente cosa significa incontrare autenticamente l’altro nella nostra vita quotidiana? Cioè, come possiamo tessere le relazioni giornaliere con le persone che vivono nel nostro ambiente vitale in modo tale da poter dire: «Oggi ho avuto un incontro autentico»?

Ebbene, qui entra in scena l’opera dell’amico dottor D’Auria, un testo di cui sono lieto di scrivere la prefazione.

Il dottor D’Auria ci porta infatti pagina dopo pagina ad osservare i nostri dialoghi giornalieri analizzandoli alla luce di varie discipline, come la psicologia e la scienza della comunicazione, e a prendere consapevolezza di quanti ostacoli per vari motivi poniamo tra noi stessi e gli altri, e di come non riusciamo a stabilire facilmente autentici ponti con l’altro. Nello stesso tempo ci consegna nelle mani delle istruzioni per rendere il nostro parlare e comunicare non un terreno minato ma un ambiente caldo, confortevole e accogliente in cui noi e il nostro interlocutore possiamo sentirci a nostro agio.

Molte volte si pensa di sapere cosa significhi amare, ascoltare, comprendere noi stessi e l’altro e che il difetto stia semplicemente nella poca volontà di porre in atto quello che si conosce e si sa essere giusto; come ci ricorda lo stesso autore, invece, noi in molti casi, pur partendo con le migliori intenzioni, confezioniamo spesso interventi, parole e atteggiamenti poco comunicativi se intendiamo la comunicazione come un entrare in comunione con l’altro.

Come tutte le arti, anche quella della comunicazione e della vera relazione richiede di imparare le “tecniche del mestiere”, almeno per rendersi conto di quanto il proprio stile comunicativo sia effettivamente capace di generare relazioni autentiche o invece, in un certo qual modo, svilisca o si dimentichi delle esigenze altrui o proprie.

Certo, non basta questo libro per trasformare le nostre relazioni o il rapporto che abbiamo con noi stessi e con gli altri: se proveremo a mettere in pratica quanto il nostro autore ci suggerisce ci accorgeremo, infatti, che le indicazioni sono efficaci e vanno incontro alla nostra sete di relazioni profonde, ma nello stesso tempo che avremmo bisogno di essere irrorati ogni giorno di una forza interiore per poterle attuare.

La mia esperienza, la mia fede e il mio ministero mi inducono a trovare questa forza e il modello supremo nel Dio trino proposto e rivelato da Gesù Cristo: ineffabile circolo di amore dove ogni persona divina è relazione pura, è ascolto e accoglienza assoluta dell’altra.

D’altra parte, se noi attraverso il Vangelo gettiamo uno sguardo sui modi in cui Gesù si relazionava con gli altri, vedremo l’arte della comunicazione incarnata in una vita, in una persona: Lui, in effetti, è il verbo del Padre! Bisognerebbe veramente soffermarsi di più, credenti e non credenti, su come Gesù portava avanti una conversazione, un dialogo, un incontro per imparare cosa vuol dire amare il nostro prossimo e noi stessi come Lui ci ha insegnato.

Gli evangelisti non ci presentano forse un Gesù assertivo, capace di esprimere in modo chiaro e diretto le proprie esigenze senza concedere spazio a smancerie, a manipolazioni, a vittimismi? Basti pensare a richieste concise come: «Donna, dammi da bere», oppure: «Se ho parlato male, dimostraMi che è male; ma se ho parlato bene, perché Mi percuoti?». E ancora, i Vangeli non ci mostrano un Gesù intento primariamente ad ascoltare il proprio interlocutore per aiutarlo a vedere in se stesso le proprie esigenze e i propri desideri più profondi? Se scorriamo attentamente le pagine del Vangelo vedremo un Gesù profondamente esperto nell’ascolto attivo. Un esempio su tutti è il suo incontro con la Samaritana nel momento in cui le fa capire che Egli aveva inteso le sue parole quando lei dichiarava di non aver marito: la donna aveva un desiderio profondo di amore che nessuno ancora aveva colmato. Si potrebbe citare anche il caso del giovane ricco al quale Gesù fa prendere consapevolezza di come egli andasse alla ricerca di radicalità. Gesù non è un moralizzatore, non condanna, è empatico (davanti alle sofferenze si commuoveva fin dentro le viscere, così recita il Vangelo): è un perfetto comunicatore perché sa fondare relazioni profonde, il cui scopo non è quello di distrarsi da sé ma di poter essere sempre più se stesso condividendo il proprio cammino con l’altro per giungere a quella comunione che non ha i tratti dell’omologazione, ma la bellezza di una sinfonia.

L’attuale pontefice in un’udienza del mercoledì del 2009 diceva:

Solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione, e viviamo per amare e per essere amati. È l’amore a compiere questo incessante miracolo: come nella vita della Santissima Trinità, la pluralità si ricompone in unità, dove tutto è compiacenza e gioia.

Possa il testo del professor D’Auria sollecitarci a comprendere quante nostre forme comunicative non siano improntate al rispetto dell’altro e di noi stessi, non siano empatiche, ma dogmatiche e manipolatrici. Possa inoltre aiutarci a trasformare il nostro stile comunicativo perché vicino a noi l’altro possa sentirsi a casa, luogo in cui ristorarsi per poter riprendere con più forza e insieme a noi il cammino della sua vita.

Mons. Renzo Bonetti

PREMESSA

Se fossimo in voi, cari lettori, ci chiederemmo perché sovraffollare gli scaffali delle nostre librerie con un altro testo sulla comunicazione e a chi è indirizzato questo nuovo libro.

L’idea di quest’opera è sorta durante i nostri corsi e interventi radiofonici sulla comunicazione a Radio Maria; chi ci ascoltava ha espresso più volte il desiderio di trovare una pubblicazione per riguardare, fissare e approfondire i concetti ascoltati. Ebbene, questo testo è innanzitutto per loro, anche se non è indirizzato esclusivamente a loro. È offerto, infatti, alla lettura di tutti quelli che vogliono crescere nella consapevolezza di se stessi e della propria capacità di comunicare; capacità da intendere non come dote che permette di ben figurare durante un discorso in pubblico, o come tecnica oratoria da spendere in un congresso, ma “semplicemente” come quell’arte, ben più fondamentale, di saper tessere buone relazioni quotidiane.

Noi tutti sappiamo quanto sia necessario e bello instaurare relazioni “efficaci” con chi ci sta vicino, con chi condivide la nostra esistenza e anche con persone con le quali non vorremmo avere nulla da spartire ma con cui, per ragioni di ogni tipo, dobbiamo convivere: noi, infatti, viviamo e siamo quello che siamo per le relazioni che intratteniamo e abbiamo avuto.

Per comprendere cosa significhi non riuscire a comunicare in modo autentico e anche per non annoiarvi troppo fin dall’inizio vi lascio in compagnia di una storiella di Bruno Ferrero, sacerdote famoso per la sua creatività nell’inventare e scrivere storie per ragazzi.

«Ebbi lo scompartimento del treno tutto per me. Poi salì una ragazza», raccontava un giovane indiano cieco. «L’uomo e la donna venuti ad accompagnarla dovevano essere i suoi genitori. Le fecero molte raccomandazioni. Dato che ero già cieco allora, non potevo sapere che aspetto avesse la ragazza, ma mi piaceva il suono della sua voce. “Va a Dehra Dun?”, chiesi mentre il treno usciva dalla stazione. Mi chiedevo se sarei riuscito a impedirle di scoprire che non ci vedevo. Pensai: se resto seduto al mio posto, non dovrebbe essere troppo difficile. “Vado a Saharanpur”, disse la ragazza. “Là viene a prendermi mia zia. E lei dove va?”. “A Dehra Dun, e poi a Mussoorie”, risposi. “Oh, beato lei! Vorrei tanto andare a Mussoorie. Adoro la montagna. Specialmente in ottobre”. “Sì, è la

stagione migliore”, dissi, attingendo ai miei ricordi di quando potevo vedere. “Le colline sono cosparse di dalie selvatiche, il sole è delizioso, e di sera si può star seduti davanti al fuoco a sorseggiare un brandy. La maggior parte dei villeggianti se n’è andata, e le strade sono silenziose e quasi deserte”. Lei taceva, e mi chiesi se le mie parole l’avessero colpita, o se mi considerasse solo un sentimentaloide. Poi feci un errore. “Com’è fuori?” chiesi. Lei però non sembrò trovare nulla di strano nella domanda. Si era già accorta che non ci vedevo? Ma le parole che disse subito dopo mi tolsero ogni dubbio. “Perché non guarda dal finestrino?”, mi chiese con la massima naturalezza. Scivolai lungo il sedile e cercai col tatto il finestrino. Era aperto, e io mi voltai da quella parte fingendo di studiare il panorama. Con gli occhi della fantasia, vedevo i pali telegrafici scorrere via veloci. “Ha notato”, mi azzardai a dire, “che sembra che gli alberi si muovano mentre noi stiamo fermi?”. “Succede sempre così”, fece lei. Mi girai verso la ragazza, e per un po’ rimanemmo seduti in silenzio. “Lei ha un viso interessante”, dissi poi. Lei rise piacevolmente, una risata chiara e squillante. “È bello sentirselo dire”, fece. “Sono talmente stufa di quelli che mi dicono che ho un bel visino!”. “Dunque, ce l’hai davvero una bella faccia”, pensai, e a voce alta proseguii: “Beh, un viso interessante può anche essere molto bello”. “Lei è molto galante”, disse. “Ma perché è così serio?”. “Fra poco lei sarà arrivata”, dissi in tono piuttosto brusco. “Grazie al cielo. Non sopporto i viaggi lunghi in treno”. Io invece sarei stato disposto a rimaner seduto lì all’infinito, solo per sentirla parlare. La sua voce aveva il trillo argentino di un torrente di montagna. Appena scesa dal treno, avrebbe dimenticato il nostro breve incontro; ma io avrei conservato il suo ricordo per il resto del viaggio e anche dopo. Il treno entrò in stazione. Una voce chiamò la ragazza che se ne andò, lasciando dietro di sé solo il suo profumo. Un uomo entrò nello scompartimento, farfugliando qualcosa. Il treno ripartì. Trovai a tentoni il finestrino e mi ci sedetti davanti, fissando la luce del giorno che per me era tenebra. Ancora una volta potevo rifare il giochetto con un nuovo compagno di viaggio. “Mi spiace di non essere un compagno attraente come quella che è appena uscita”, mi disse lui, cercando di attaccar discorso. “Era una ragazza interessante”, dissi io. “Potrebbe dirmi... aveva i capelli lunghi o corti?”. “Non ricordo”, rispose in tono perplesso. “Sono i suoi occhi che mi sono rimasti impressi, non i capelli. Aveva gli occhi così belli! Peccato che non le servissero affatto... era completamente cieca. Non se n’era accorto?”»1.

Piaciuta la storia? Un po’ triste, vero? Ebbene, è quello che succede spesso nei nostri scambi comunicativi in cui non avviene... comunicazione anche quando noi, a differenza dei protagonisti della nostra storia, vorremmo comunicare in modo autentico.

Lasciamo da parte però questa riflessione sul nostro modo di comunicare e l’elenco delle domande a cui questo testo cercherà di rispondere, le quali saranno segnalate nel paragrafo di apertura; soffermiamoci invece sulla domanda iniziale

alla quale non abbiamo ancora risposto in modo esauriente e la cui risposta può offrirci un contributo per un’iniziale comprensione del fondamento della buona comunicazione.

Abbiamo scritto questo testo affrontando il rischio di riscrivere concetti già ampiamente presenti in molti altri libri per il semplice fatto che il nostro modo di comunicare è unico, perché la nostra esperienza lavorativa, la nostra storia e il nostro modo di dire le cose sono unici.

Ecco il solito eccentrico che pensa di possedere doti uniche e rare da dover mettere in mostra! Avete pensato a questo? No, semplicemente pensiamo che ognuno di noi sia un insieme di capacità fisiche, intellettuali e relazionali unico e irripetibile e che ognuno è chiamato a sentirsi bene nella propria pelle, ad esprimere autenticamente se stesso e ad accogliere l’altro come unico.

Infatti, una delle prime regole da assimilare e che determina la fioritura di una comunicazione è il saper ascoltare l’altro, e questa capacità presuppone la consapevolezza che l’altro è per un aspetto simile a noi e per un altro diverso e unico.

«Bella scoperta», direte voi! Sì, è una scoperta meravigliosa da rinnovare ogni giorno perché non basta saperlo, bisogna sentirlo e impegnarci a non gettare sull’altro i nostri pregiudizi, le nostre problematiche, il nostro modo di concepire la realtà e via dicendo. Soprattutto, per trattare l’altro come unico, dobbiamo imparare a fare altrettanto con noi stessi!

Uno dei modi con cui in questo periodo della nostra vita possiamo sentirci come persona unica ed esprimere noi stessi è scrivere questo testo in cui condensare quanto abbiamo appreso dai nostri studi e soprattutto dalla nostra esperienza lavorativa, dove l’incontro e il saper comunicare in modo autentico con l’altro sono fondamentali e necessari.

Una parola ora sul testo, su come l’abbiamo cucito e con quali “stoffe” lo abbiamo confezionato.

Come vedrete, abbiamo farcito qualche pagina di emoticon (le faccine presenti nei nostri sms, per capirci) oppure qua e là abbiamo inserito schede corredate di schemi e concetti espressi con disegni; non manca neppure qualche vignetta umoristica. Inoltre abbiamo cercato di incastonare in più paragrafi possibili piccole storie o dialoghi di vita quotidiana, in cui sono esemplificati i concetti

espressi all’interno di un paragrafo.

D’altra parte, come già sapete e questo libro vi confermerà, la comunicazione avviene tramite molti canali, in vari modi e livelli: noi abbiamo cercato di destreggiarci tra uno stile colloquiale ed esperienziale e uno, diciamo, più accademico. L’intenzione era di rendere il testo più vivace e accattivante senza fargli perdere ciò che le tematiche trattate richiedono: la profondità, la serietà e la precisione nel delineare i concetti chiave espressi. Il testo non si fa mancare neppure alcuni passaggi messi in evidenza riportandoli in corsivo; ad alcuni potrebbero dar fastidio, è vero, ma la decisione di inserirli è stata dettata dal desiderio di offrire ai lettori la massima fruibilità e la possibilità di non rincorrere tutte le parole che intessono il libro ma solo quelle che fotografano il senso principale del testo e i suoi concetti chiave.

La speranza più grande è che questo testo possa contribui-re a far fiorire tante piccole oasi di relazioni autentiche nelle nostre vite, anche se non basterà certo questo libro per poter realizzare un compito tanto affascinante quanto impegnativo e serio; dovreste considerarlo come una ricetta di una torta favolosa: l’acquolina e le istruzioni non bastano per gustare il dolce in questione, ma aiutano a metterci all’opera per realizzarlo.

A questo punto può essere utile anche presentarvi come si struttura il libro e le grandi tematiche trattate.

Questo nostro piccolo contributo tratta la comunicazione da molte angolature, disponendole in modo tale da passare da uno “sguardo esterno” sui nostri scambi comunicativi a uno più introspettivo. Si è voluto, cioè, iniziare col presentare le regole generali che presiedono alla comunicazione umana e i modi migliori perché questa possa avvenire senza quegli ostacoli che impediscono il passaggio di informazioni tra i due interlocutori, e poi dischiudere, attraverso l’Analisi Transazionale, una finestra su quello che succede in noi stessi nel momento in cui siamo impegnati a dialogare con gli altri e con noi stessi.

È un modo per ribadire e sottolineare, tramite la disposizione dei capitoli, come l’esito delle nostre comunicazioni dipenda e affondi le sue radici nel rapporto che abbiamo con noi stessi e, nello stesso tempo, come attraverso una buona comunicazione possiamo aiutare noi stessi e gli altri a crescere e maturare.

Bene, passiamo all’augurio finale: che la lettura di questo testo coincida con l’impegno a modificare, dove è necessario, il nostro modo di comunicare per permettere alla nostra vita di alimentarsi costantemente di incontri autentici con

noi stessi e con l’altro. È così che possiamo gustare, pur in mezzo alla routine, talvolta alla sofferenza quotidiana, la novità, la freschezza e la fragranza della vita, e aiutare chi ci sta vicino a fare altrettanto.

Prima di concludere questa introduzione vorrei prendermi del tempo per ringraziare una ad una tutte le persone che hanno contribuito alla nascita di questo testo: io non sarei quello che sono, e ormai lo avrete capito, senza le persone che ho vicino o con cui ho relazioni abituali, né questo testo sarebbe lo stesso senza l’aiuto di tante persone.

Innanzitutto un grazie speciale e un abbraccio a mia moglie Daniela, puntuale e precisa correttrice delle mie bozze, e ai miei adorabili figli, Andrea e il piccolo Matteo, preziosi gioielli del nostro matrimonio.

A tutti gli altri un ringraziamento sentito ed equamente suddiviso anche se diverso per ciascuno: e allora grazie di cuore a colui cui ho affidato la prefazione della mia prima pubblicazione, monsignor Renzo Bonetti, ex direttore dell’Ufficio Famiglia della Conferenza Episcopale Italiana e attuale parroco di Bovolone (Vr), amico autentico e costante punto di riferimento nel mio cammino, ai coniugi MariaTeresa Zattoni e Gilberto Gillini, pedagogisti, noti formatori, promotori del counseling familiare e consulenti fidati per questo mio libro (grazie per i vostri preziosi consigli), ai carissimi Cristian ed Enrico per il loro instancabile e paziente aiuto, a tutti coloro che sono intervenuti durante le mie trasmissioni radiofoniche per le loro richieste di approfondimento o di chiarimento a cui ho cercato di rispondere scrivendo questo testo, e infine il mio grazie va a tutti i miei pazienti che mi hanno offerto la possibilità di vedere tante risorse non espresse o inutilizzate ritrovate grazie alla relazione e al dialogo.

1 Il testo di questa storia è tratto dal sito http://www.parrocchie.it/pontelambro/chiesa/qualcuno_lassu1.htm

1

COMUNICAZIONE!? COMINCIAMO DAI FONDAMENTI...

1.1. Comunicare... perché?

Bene, ora si può partire!

Iniziare una riflessione sulla comunicazione con punti di sospensione e alcuni simboli inconsueti, almeno per noi italiani, può sembrare strano, contrario allo spirito della comunicazione; a ben vedere, però, ognuno di voi si sarà interrogato e magari si sarà dato una risposta immediata sul loro senso (cioè del perché l’autore bizzarro ha iniziato in questo modo, non di quello che c’è scritto, insensato anche per chi sa leggere quei segni); in pochissimi attimi, quindi, molto probabilmente avrete messo in campo varie attitudini che occorrono durante la comunicazione, soprattutto in fase di ascolto: decifrare il messaggio, chiedersi perché il mio interlocutore ha mandato quel messaggio e così via...

Questa premessa vuol solo far riflettere su un fatto essenziale: l’uomo non può non comunicare; qualsiasi gesto, silenzio, smorfia dice qualcosa di noi stessi a chi ci sta intorno e in ciascuno di questi atti noi vi vediamo un significato e un’intenzione da decifrare.

Se volessimo poi, per un attimo, allargare il nostro orizzonte e gettare il nostro sguardo oltre il mondo umano, ci accorgeremmo di come il fenomeno della comunicazione, inteso in senso lato, sia diffuso ovunque.

La comunicazione, infatti, è presente sia nel mondo esterno che all’interno di noi stessi.

Il nostro corpo è definito con il termine “organismo” non solo perché si compone di organi ma per il fatto che essi sono in sinergia, interagiscono e comunicano fra di loro attraverso impulsi elettrici o secrezioni chimiche.

Nel mondo animale le api danzano e volteggiano nel cielo per comunicare alle

compagne la direzione e la distanza in cui si trovano i fiori, i delfini hanno nel loro repertorio diversi segnali acustici per dialogare e interagire con i propri simili, il pavone maschio corteggia la propria compagna sventagliando la sua maestosa e vivacemente colorata coda...

«Dove c’è vita c’è speranza» recita un vecchio adagio; noi potremmo aggiungere che dove c’è vita c’è comunicazione, perché la comunicazione è fondamentale affinché germogli e si conservi la vita.

Per ogni uomo, inoltre, entrare ed essere in relazione con l’altro è indispensabile per formare la sua identità, per poter vivere grazie all’aiuto o alle competenze reciproche, per condividere una vita nello scambio vicendevole di attenzioni, cure e amore. Forgiamo, infatti, la nostra personalità a contatto con le persone significative della nostra vita, ascoltiamo un giornalista televisivo per conoscere la situazione politica, economica e sociale del mondo circostante, ci intratteniamo con il meccanico di fiducia per comprendere cosa non funzioni nella nostra auto e con il medico per una diagnosi del nostro stato di salute, ci scambiamo complimenti o auguri per donarci affetto e riconoscimenti.

Uno dei bisogni fondamentali soddisfatto grazie alla comunicazione è quello di essere riconosciuto, stimato o amato da qualcuno e di amare a sua volta. In questo caso si arriva all’essenza della comunicazione: essere in comunione con l’altro.

Ci sono però altre necessità umane a cui la comunicazione viene in soccorso, come ad esempio quella di conoscere, controllare e modificare l’ambiente in cui ci si ritrova per renderlo sempre più accogliente e “umano”. Per ottenere questo in modo sempre più efficiente gli uomini hanno bisogno di scambiarsi informazioni e di lavorare in sinergia: ecco che ritorna in campo la comunicazione come atto capace di trasmettere informazioni.

Queste brevi e semplici riflessioni ci dovrebbero suggerire l’importanza della comunicazione e la necessità di utilizzarla nel migliore dei modi.

Eppure quanti disguidi, intoppi, incomprensioni avvengono durante le nostre relazioni!? Quante comunicazioni iniziate, almeno nelle intenzioni, con i migliori auspici e poi finite male oppure quanti dialoghi di routine finiti in arrabbiature!

Classico esempio di vita di coppia:

Domenica. Ore 7:00. La luce del sole attenuata dai tendaggi della finestra che

si affaccia sulla camera da letto di casa Bianchi ricorda alla giovane coppia, ancora assonnata, che è ora di alzarsi, prepararsi e partire per la giornata in montagna.

«Buon giorno amore»; «Buon giorno caro». Si alzano; lei va in cucina a preparare la colazione, lui va verso l’armadio per prendersi la sua tuta preferita con cui poter comodamente passeggiare per i sentieri di montagna e accomodarsi sul campo che sceglieranno per il pic-nic... I suoi piccoli sogni svaniscono in fretta: il capo d’abbigliamento cercato non si trova...

«Cara, dove hai messo la mia tuta? Non riesco mai a trovare le cose che cerco».

«Ma sì, è lì nel cassetto, comunque non è colpa mia se non vedi le cose che hai sotto il naso».

«Ma quale cassetto, e poi se tu mettessi le cose con ordine si troverebbero subito senza tanto cercare».

«Parla lui di ordine che devo cercare i suoi calzini fin sotto il letto per lavarli; l’hai messa nella cesta dei panni sporchi l’ultima volta almeno o l’hai lasciata in giro per la casa?!»...

Speriamo che la nostra coppietta riesca subito a raddrizzare il timone della comunicazione e godersi la domenica in montagna.

A noi interessa cosa può insegnare un simile dialogo sulla comunicazione, cosa è avvenuto durante questo breve scambio di battute tra marito e moglie, dove e cosa non ha funzionato nella comunicazione e cosa è successo in ognuno dei due interlocutori nel momento preciso in cui si trovavano a decifrare il messaggio dell’altro.

Uno degli intenti delle pagine che seguono, se avrete la pazienza di seguirci in questo nostro viaggio, è proprio quello di offrire una risposta a questi interrogativi.

C’è dell’altro. La parola comunicazione deriva dal termine latino communis e significa “mettere in comune”. Il significato che possiamo attribuire a questo “mettere in comune” è quello di far partecipe, condividere con altri delle

informazioni intese nel senso più ampio del termine; se ciò non avviene, perché la comunicazione è “disturbata”, si pongono a rischio gli effetti positivi della relazione con l’altro, necessari per la nostra vita. Non si può però ridurre l’insuccesso, la cattiva riuscita di un dialogo o di una conversazione alla cattiva volontà (solitamente del nostro interlocutore), all’egocentrismo (sempre del nostro interlocutore ovviamente), al caratteraccio nostro (finalmente un po’ di par condicio) o altrui (il nostro spirito democratico è salvo). In molti casi manca la conoscenza di quello che succede in noi e nell’altro, non sappiamo cosa significhi veramente ascoltare l’altro e di cosa ha bisogno l’altro quando desidera essere ascoltato, pensiamo di trasmettere un messaggio e ne passiamo un altro, oppure selezioniamo, di un messaggio che ci è stato inviato, un aspetto che l’altro neppure desiderava inviarci...

Anche di questo ci occuperemo in questo nostro viaggio in ricognizione del pianeta comunicazione che, come scoprirete, è ricco di sorprese.

Già da queste veloci pennellate sul nostro percorso si può scorgere come la comunicazione sia un processo complesso. Ora proveremo ad addentrarci nei suoi primi meandri visionando alcuni modelli che cercano di illustrare tale processo nelle sue singole fasi.

1.2. Il modello lineare

Uno dei primi modelli della comunicazione ad esser stato elaborato è quello lineare; i suoi ideatori sono Shannon e Weaver2. Tale modello si compone di cinque elementi disposti in questo ordine:

fonte di informazione (emittente);

codificatore;

canale di trasmissione;

decodificatore;

ricevente.

Secondo questo modello, la comunicazione è l’azione di un individuo che “travasa” messaggi nel proprio interlocutore: l’emittente codifica, cioè traduce in un linguaggio preciso (poesia, immagini, musica...) i suoi pensieri e i suoi sentimenti per trasmettere il messaggio attraverso un canale di trasmissione (il verbale, lo scritto, una tela, uno strumento musicale...) ad un ricevente. Questo modello inoltre inserisce il concetto di “rumore” inteso come qualsiasi elemento che può disturbare la comunicazione.

In molti casi, infatti, la trasmissione o la comprensione del messaggio può essere ostacolata da vari tipi di interferenze. L’ostacolo a una piena recezione del messaggio può sorgere da chi trasmette il messaggio nel caso in cui, ad esempio, si esprimesse in una lingua o in un dialetto diverso dal ricevente; oppure può essere presente anche nel messaggio stesso, nel caso in cui non sia stato compilato in modo corretto o si siano adottati termini troppo tecnici e incomprensibili...

Le interferenze possono innestarsi nel veicolo di trasmissione o nel canale di comunicazione: una voce stridula o troppo tenue, un impianto di amplificazione non regolato adeguatamente o mal funzionante, ecc.

Inoltre anche fattori esterni all’atto comunicativo, come rumori assordanti presenti nel momento in cui si parla, l’ambiente non confortevole dove si tiene una conferenza o si intrattiene una semplice conversazione, possono impedire una corretta comunicazione.

Se togliamo tutte queste interferenze, secondo tale teoria la comprensione del messaggio avviene senza nessuna deformazione e senza nessun problema da parte del ricevente ridotto a un semplice registratore.

Eh sì, se questo modello fosse lo specchio di tutte le nostre comunicazioni ci toglierebbe da tante situazioni spiacevoli in cui scopriamo che il nostro interlocutore ci ha frainteso, i dubbi che ci assalgono quando tocca a noi decifrare cosa vuole veramente dirci l’altro, specialmente quando l’altro è veramente importante per noi; sì, se le relazioni si improntassero sul modello lineare molti grattacapi non ci sarebbero. Ci verrebbe però a mancare la meravigliosa avventura della graduale conoscenza dell’altro e di noi stessi, attraverso la magnifica arte della comunicazione intessuta anche di metafore, ironia, doppi sensi, di parole che assumono significati diversi, del gioco vedo non vedo, ti lascio capire e non capire.

Prima di passare al modello successivo godiamoci una piccola carrellata di dialoghi di cui sicuramente il modello lineare non può offrire una spiegazione esaustiva3

1.3. Il modello circolare

Nel 1954, Schramm e Orgood evidenziarono i limiti del modello lineare nello spiegare il processo comunicativo ed elaborarono, sulla base dei loro studi sulla comunicazione, un nuovo modello definito circolare.

I limiti del modello lineare consistevano nell’incapacità di rendere conto della mancata riuscita di una comunicazione, se non tramite il solo concetto di rumore, e di non dar molta importanza alla modalità attraverso cui gli interlocutori verificano l’avvenuta intesa.

Con il nuovo modello, la comunicazione avviene non più tra una fonte di messaggi e un “semplice registratore”, ma tra due soggetti che interagiscono inviandosi reciprocamente messaggi verbali e non verbali al fine di comprendere il significato e la natura dei messaggi inviati. Secondo questo modello, la comunicazione avviene secondo uno schema interattivo in cui viene introdotto il concetto di feedback, cioè la risposta del ricevente tramite cui l’emittente può valutare se e come il suo messaggio è stato recepito dal suo interlocutore.

Viene insomma rianimato il ricevente del messaggio: egli non è un registratore o una semplice bacheca su cui fissare i nostri messaggi, ma un altro me stesso con la “complicazione” e la ricchezza di avere un proprio orizzonte attraverso cui vive le relazioni e vede l’altro.

Il concetto di feedback, inoltre, ci aiuta a soffermarci su un principio che sembra di primo acchito ovvio ma che dimentichiamo spesso e volentieri di tenere presente nei nostri scambi comunicativi: un’autentica comunicazione nasce dalla capacità di saper ascoltare l’altro.

Molto spesso non ci accorgiamo che il nostro interlocutore non è attento a quello che gli diciamo o, pur ascoltandoci, non comprende come vorremmo quanto stiamo comunicando, e noi stessi per vari motivi possiamo non aver recepito adeguatamente il messaggio inviatoci, e quindi diventa importante dare e ricevere feedback per non scivolare verso incomprensioni inconsapevoli.

Esperienze passate, un modo diverso di intendere le cose, immagine di sé e aspettative, infatti, possono distorcere il significato di una comunicazione; pensiamo ad esempio ai consigli dati con le migliori intenzioni compresi come giudizi sul proprio operato o sulla propria persona da parte di chi ha una bassa autostima, o a un appello all’accoglienza dell’altro mal digeriti da chi ha appena subito un’ingiustizia, o ancora ad una buona lezione di storia proposta a uno studente preoccupato per l’interrogazione dell’ora successiva, e a tutti gli altri esempi che ci possono venire in mente.

Quindi, se già il modello lineare evidenziava la responsabilità dell’emittente nella riuscita della comunicazione, con questo modello tale concetto si rafforza ulteriormente, perché chi invia il messaggio deve conoscere e farsi carico del destinatario e delle sue effettive capacità di interpretazione del messaggio, cercando di modulare la propria comunicazione sulle capacità di comprensione di chi sta ascoltando; d’altro canto, se la responsabilità dell’emittente è accresciuta da questa consapevolezza, è anche vero che essa va divisa con il ricevente, in quanto la comunicazione secondo il nuovo modello è un evento che nasce dalla cooperazione degli interlocutori, dalla capacità di entrambi di ascoltare se stessi e l’altro, dalla volontà di prendersi la responsabilità in prima persona del buon esito della comunicazione, accettando anche i limiti propri e quelli dell’altro, dall’essere a conoscenza delle regole di una buona comunicazione e di come essa effettivamente nasca e si sviluppi, seguendo delle leggi che sono interne all’essere relazionale dell’uomo e al suo modo di approcciare la realtà.

Prima di portare la nostra attenzione sulle leggi che strutturano la comunicazione, andiamo per un attimo a puntare la nostra lente di ingrandimento sulla percezione, sul nostro modo di acquisire e vedere la realtà: radice del nostro modo di presentare la realtà all’altro e di entrare in relazione con l’altro.

1.4. Percezione della realtà e comunicazione

La comunicazione è strettamente collegata al modo in cui si percepisce il mondo esterno. Per questo è necessario riflettere sui meccanismi che regolano il processo di percezione: tale riflessione ci permetterà di capire che cos’è e come essa avviene.

La percezione è un processo di selezione e organizzazione degli stimoli attraverso cui si coglie la realtà e ci si orienta in essa. Ha lo scopo di creare significati nel nostro mondo e di orientarci nelle relazioni con le cose, le persone, gli avvenimenti.

Diventare accurati nella percezione dell’altro significa saper scegliere modalità comunicative adeguate.

Una delle caratteristiche della percezione è la soggettività: la percezione è sempre un processo soggettivo. Lo stimolo non viene percepito in modo oggettivo, ma nel significato che ha per colui che lo percepisce.

Nella percezione perciò è presente un aspetto denotativo, il quale ha la funzione di indicare l’oggetto percepito, e uno connotativo, che rappresenta il significato che il soggetto dà della realtà, la quale dipende dalla persona, dalle sue aspettative e dalle sue esperienze. Per esempio, il bosco è per tutti un insieme di alberi (aspetto denotativo) ma per il contadino rappresenterà il confine naturale dei suoi terreni, per il boscaiolo una risorsa per provvedere al suo sostentamento, per il cacciatore una riserva di caccia, eccetera.

È molto importante quindi capire il senso che le persone danno alle parole!

Non solo, ma per poter riflettere sui nostri approcci alle persone e alla realtà è molto utile tener conto delle leggi che presiedono alla percezione. Ci riferiamo alla consistenza, intesa come la tendenza a mantenere una coerenza tra le varie percezioni, legata al fatto che ognuno di noi cerca un’armonia tra i suoi diversi pensieri, emozioni, comportamenti, e alla stabilità, intesa come la tendenza a mantenere stabili nel tempo le proprie percezioni (le percezioni sono resistenti al cambiamento). Un esempio, in tal senso, è la persistenza delle nostre prime impressioni su una persona, positive o negative che siano, anche se poi successivamente ne riceviamo delle altre di contenuto diverso o contrario.

Osserviamo ora la figura della giovane e della vecchia (cfr.fig. 1); nell’immagine proposta posso vedere solo un elemento alla volta (la giovane o la vecchia), perché in ogni istante posso selezionare stimolazioni diverse. Queste stimolazioni si organizzano in nuclei di stimoli che costituiscono una struttura la quale permette di selezionare i dati in ingresso; la prima stimolazione è quella che si mantiene a mano a mano che si insiste nell’osservazione e, se trasporto questa impressione nella relazione interpersonale, riterrò vera e indiscutibile la prima percezione.

Fig. 1 - Cosa vedete, una giovane o una signora anziana?4

Va tenuto presente invece che ognuno di noi ha una percezione diversa della realtà perché sono diversi i punti di vista: d’altra parte, a cosa servirebbe la comunicazione se fossimo uno la copia dell’altro? Certo, la realtà va rispettata e non ricreata ad arte ma dovremmo capire anche che è troppo ricca e complessa perché uno possa renderla in tutte le sue sfaccettature e in tutti i suoi aspetti.

A questo punto, sembrerà chiaro al lettore che per vivere la comunicazione in modo autentico il primo passo da compiere è diventare consapevoli del nostro modo di percepire le cose e dei fattori da cui siamo condizionati nel momento in cui sondiamo la realtà. Bisogna insomma aver chiaro il proprio punto di vista (non si può andare incontro all’altro se non si ha chiaro il proprio punto di vista e se non si è consapevoli di ciò che per me è vero) e capire che l’altro ha il suo punto di vista e che è vero per lui.

Non c’è un solo modo di percepire la realtà. Per capirlo possiamo ricordare ancora l’esempio della giovane e della vecchia; in questo senso possiamo affermare che io vedo una cosa che per me è vera nel momento in cui la guardo, mentre l’altro vede una cosa che per lui è vera nel momento in cui la guarda. Attraverso il confronto è possibile arricchire e approfondire la nostra visuale e la nostra relazione con l’altro.

Se io desidero realizzare una comunicazione efficace con l’altro, devo trovare un modo per entrare nel suo mondo: «Fammi vedere quello che tu vedi (la vecchia), allora anch’io vedrò la persona anziana»; un rapporto efficace vuol dire un rapporto dove c’è una situazione in cui io continuo a vedere quello che vedo, ma cerco anche di comprendere il modo di vedere dell’altro senza giudicarlo. I teorici della percezione sostengono che alla fine hanno ragione entrambi, sia che si veda la giovane, sia che si veda l’anziana.

Pertanto, per quanto riguarda la percezione, ciò che è importante ricordare è come essa sia soggettiva e che ognuno ne ha una propria, che in questo ambito non esiste una verità assoluta, ma la possibilità di intervenire a livello comunicativo per vedere le cose dal punto di vista dell’altro.

Se voglio essere empatico, devo mettere tra parentesi il mio modo di vedere la realtà per entrare nel modo di comunicare dell’altro, nel suo sistema di riferimento.

Devo inoltre essere consapevole che tutti siamo soggetti a diversi condizionamenti che possono distorcere la nostra percezione della realtà o influenzare il nostro modo di valutare l’altro o di atteggiarci nei suoi confronti: nel paragrafo successivo ne vedremo qualcuno.

1.4.1. La percezione e i suoi effetti speciali

Nella percezione entrano in gioco anche vari condizionamenti che appunto portano a modificare la percezione della realtà: pensate a quando si deve valutare il lavoro di un operaio nel periodo di prova; può essere che questi non abbia delle buone qualità per svolgere una determinata mansione e che venga quindi giudicato non idoneo a quell’incarico, anche se mostrasse buone qualità in qualche altra attività. Ci sarà la tendenza ad attribuire a quella persona delle caratteristiche negative che andranno a compromettere il suo rendimento in generale.

Questa osservazione ci permette di introdurre nel nostro discorso il tema della teoria implicita della personalità. Quando, osservando una persona, ne individuiamo una caratteristica, siamo orientati a dedurne altre a nostro avviso legate a quella osservata; così facendo attribuiamo all’altro peculiarità che nella nostra teoria implicita sono collegate. Per esempio, se vedo una persona in macchina che inveisce, mi faccio l’idea che essa sia impulsiva, violenta, focosa, lunatica, che non sa controllarsi... quindi ad un certo comportamento collego una serie di altre caratteristiche che confermano la mia teoria.

Esistono fattori che possono influenzare la nostra percezione e, quindi, il nostro rapporto con l’altro. Ad esempio, l’effetto Pigmalione o profezie che si auto-avverano. Le nostre aspettative possono influenzare in maniera radicale le relazioni in cui siamo coinvolti: le profezie che si auto-avverano sono previsioni che io faccio su quello che farò e sugli altri; previsioni che poi puntualmente si avverano in quanto tenderò a comportarmi in maniera tale da creare i presupposti affinché si realizzino.

È noto, almeno nella letteratura scientifica, la sperimentazione che ha coinvolto un’équipe di insegnanti e due classi di studenti presentate una come molto dotata intellettualmente e l’altra al contrario scarsamente dotata. In verità le due classi erano omogenee e si equivalevano sotto il profilo del profitto scolastico. Ebbene, cosa è successo? È accaduto che la prima classe ha ottenuto risultati molto buoni, nell’altra al contrario il profitto è risultato insufficiente. Forse gli insegnanti non valutavano con lo stesso metro di giudizio le due classi? No, effettivamente i risultati erano diversi ma nella prima classe gli insegnanti

entravano cercando in tutti i modi di creare le condizioni migliori affinché i risultati ottenuti fossero degni della “fama” di studenti bravi, diligenti e intelligenti mentre nella seconda, se non si ottenevano i risultati sperati, si pensava fosse l’esito delle supposte scarse capacità degli alunni che si trovavano davanti: esempio di una previsione, indotta in questo caso dagli sperimentatori, che si auto-avvera. Anche quando non superiamo un esame o non riusciamo a portare a termine un incarico dopo esserci ripetuti che non riusciremo mai ad assolvere questi determinati impegni, ci stiamo trovando all’interno di un effetto Pigmalione.

Tale fenomeno può riguardare sia realtà positive che negative e non sempre il soggetto che lo attua è consapevole di questo meccanismo.

Un altro fattore che può influenzare la nostra percezione è l’effetto alone, la tendenza per la quale leggiamo qualsiasi evento specifico di una persona alla luce della nostra opinione favorevole o sfavorevole nei suoi confronti.

Esempio: «Prendi sempre insufficiente, oggi hai preso buono; da chi hai copiato?». Oppure, altro esempio, quando si valuta positivamente o negativamente opere di artisti realizzate nel passato solo estendendo il giudizio positivo o negativo espresso sulle opere attuali o sulla loro persona a quanto costoro avevano realizzato nel passato più o meno lontano.

Gli stereotipi e i pregiudizi condizionano anch’essi i nostri rapporti con gli altri. Mentre i primi ci inducono a considerare come dato assoluto ciò che io colgo e rappresentano esemplificazioni eccessive e, anche quando contengono un dato di realtà, ignorano le differenze individuali, i secondi hanno invece valenza emotiva molto forte a connotazione negativa; come indica la parola stessa, sono giudizi che emergono prima di una reale conoscenza dell’oggetto a cui sono rivolti.

Infine, poniamo l’attenzione sul fattore denominato effetto prima e dopo che riguarda il peso che ha l’ordine con cui noi riceviamo le informazioni sugli altri. Parliamo di effetto prima quando sono le prime informazioni ricevute a determinare l’impressione ed effetto dopo quando sono le ultime; è importante ricordare come l’85% della popolazione sia fissata sull’effetto prima.

Ora, dopo aver preso consapevolezza di come la nostra percezione della realtà possa essere condizionata dai fattori che abbiamo passato in rassegna, siamo pronti per andare a sbirciare il DNA della comunicazione, a fissare cioè la nostra attenzione sulle leggi che governano la comunicazione umana.

1.5. Il DNA della comunicazione

Watzlawick, Beavin e Jackson nel volume Pragmatica della comunicazione umana?5 sostengono, come ricordavamo all’inizio del nostro viaggio attraverso la comunicazione, che non si può non comunicare: quindi anche il silenzio assoluto ha una grande valenza comunicativa come ogni altro gesto, parola o attività.

In quante situazioni il nostro silenzio ostentato comunica di non voler parlare con nessuno o di non voler essere disturbato oppure la nostra rabbia nei confronti di qualcuno!

Tale situazione ci offre la possibilità di parlare di un altro assioma della comunicazione rinvenuto dai tre autori, i quali affermano che l’essere umano comunica sia in maniera logica (verbale), sia in maniera analogica (paraverbale e non verbale).

I segnali verbali devono essere appresi e variano a seconda delle lingue presenti nel mondo in cui sono espressi, mentre la comunicazione analogica è universale e non abbisogna del processo di apprendimento.

Se escludiamo la forma scritta (con le emoticon, le faccine che usiamo anche nei nostri sms), ogni nostra comunicazione (escluso il silenzio utilizzato prima nell’esempio) è un intreccio di segnali verbali e analogici.

Sul piano verbale, la comunicazione si focalizza sul contenuto del messaggio e concentra la propria attenzione sulle parole. La cultura, tutti gli ambiti del sapere dell’uomo come ad esempio la scienza, la matematica, la storia vengono trasmessi attraverso il linguaggio verbale che dispone di una sintassi logica molto complessa e di grande efficacia, tanto da essere lo strumento privilegiato per trasmettere ogni tipo di contenuto.

L’uomo però non contempla solamente la realtà o apprende semplicemente delle nozioni per poi trasmettere il tutto ai suoi interlocutori, ma vive della realtà che contempla e grazie alle relazioni con i suoi interlocutori. Ognuno di noi inoltre è più o meno interessato e stimolato a livello emozionale da quanto apprende o da quanto osserva, sente, vede, e si dirige verso la realtà o apprende dei contenuti non per il solo gusto di conoscere ma per poter esprimere se stesso, ciò che più gli sta a cuore. Così è per i nostri interlocutori, i quali proprio per questo non sono dei recipienti che ci offrono la possibilità di riversare le nostre

conoscenze, ma coloro grazie ai quali strutturiamo la nostra identità e con cui condividiamo tutta la gamma dei sentimenti che attraversa la vita umana.

Ebbene, il linguaggio analogico lascia trasparire proprio la qualità delle nostre relazioni con l’altro o dei nostri sentimenti nell’incontro con la realtà.

Basti pensare allo stupore dipinto su nostri volti rapiti dalle lingue di fuoco che striano e animano il cielo sul far del tramonto, allo sguardo intenso e trasfigurato dalla passione amorosa di due innamorati, al variegato modo di intonare un saluto con le altrettanto varie espressioni del viso o movimenti del corpo che lo accompagnano. Da un ciao pronunciato con il sorriso sulle labbra e gli occhi ridenti, magari accompagnato dal gesto di allargare le braccia, allo stesso saluto fatto con un filo di voce, a denti stretti e con il volto che si rivolge solo per un attimo alla persona salutata intercorre la stessa differenza che contrappone il ringraziare una persona per la sua presenza e il dirle di non aver in quel momento il desiderio di incontrarla. Non succede talvolta che un «buon giorno» o un «ben arrivato» pronunciati con sarcasmo siano l’inizio di un incontro non troppo amichevole?

Immaginiamo facilmente che in questi ultimi casi, chi ha mandato il messaggio non intendeva dire esattamente ciò che hanno espresso le sue parole: un semplice esempio che ci permette di comprendere come l’uomo non sia un computer che trasmette e riceve informazioni solo sul piano del contenuto.

Normalmente, però, ci concentriamo troppo sulla comunicazione verbale tralasciando la decodifica (la comprensione) della parte analogica del messaggio, cioè l’aspetto non verbale e paraverbale della comunicazione.

L’aspetto paraverbale della comunicazione riguarda il “come” vengono espressi i contenuti. Molto spesso l’accentuare certe parole all’interno di un saluto o di un intervento alzando la voce o modulandola in modo particolare nel momento in cui si pronunciano, certi silenzi o pause che seguono o anticipano certe parole, forniscono molte più informazioni di quanto non faccia la stessa parola.

Com’è stato appena detto per la comunicazione paraverbale, anche il linguaggio del corpo (comunicazione non verbale) attraverso gesti, posture e atteggiamenti in molti casi inconsci fornisce, a chi sa interpretarli, una serie di messaggi fondamentali, i quali permettono di comprendere in modo completo il significato del messaggio ricevuto. La comunicazione paraverbale e quella non verbale, che accompagnano sempre le parole pronunciate dal soggetto, forniscono informazioni ulteriori riguardo al senso che si intendeva dar loro.

Infatti, noi possiamo capire se dobbiamo intendere la frase che ci è stata rivolta nel senso indicato dal suo contenuto o totalmente il contrario di quello che ci è stato detto dal modo in cui è pronunciata e dall’espressione del volto del nostro interlocutore.

In certe occasioni, inoltre, il linguaggio non verbale e quello paraverbale svelano quanto il nostro interlocutore cercava di tener nascosto con un discorso che non riflette la verità dei fatti raccontati.

L’importanza della comunicazione analogica è testimoniata anche dal fatto che i sentimenti suscitati e la disposizione d’animo verso l’interlocutore, e quello che sta dicendo, sono per la maggior parte effetto del linguaggio non verbale e paraverbale che in molte occasioni, come dicevamo, smentiscono quanto pronunciato da quello verbale.

In termini di percentuale, per quanto riguarda l’efficacia della comunicazione alcuni esperti del settore affermano che il verbale incide solo per il 7% circa; un peso ben maggiore in questa particolare classifica è assunto dal linguaggio paraverbale che giunge al 38% circa; il primato infine spetta alla comunicazione non verbale, capace di determinare per un ottimo 55% circa l’esito di un dialogo fra due persone, di un intervento all’interno di un dibattito politico, di una vendita, ecc.

Il fatto che nella comunicazione non siano in circolo solo nozioni e contenuti ma anche stati d’animo, emozioni e pensieri che esprimono la qualità della relazione instauratasi tra gli interlocutori in gioco, ci porta dritti verso l’enunciazione di un’altra legge della dinamica comunicativa: ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione. Vale a dire che ogni comunicazione non solo veicola informazioni ma propone e modella la natura della relazione tra coloro che comunicano, e per quanto riguarda questo secondo aspetto, il linguaggio analogico è molto più eloquente, efficace e verace di quello verbale.

Per esemplificare quest’ultimo assioma elenchiamo alcune situazioni quotidiane.

La freddezza con cui uno dei partner parla con l’altro pur chiedendogli della sua giornata vuole senz’altro sottolineare la distanza emotiva che si è venuta a creare tra lui e il suo compagno/a sposo/a e forse un invito per l’altro ad acquisire questo dato per porvi rimedio, per indagarne la causa, ecc.

Il fastidio che possiamo avvertire, anche nei confronti di qualche nostro amico, durante un normale scambio di vedute su temi leggeri come lo sport può derivare dal fatto che l’amico ci comunichi con il suo atteggiamento, la sua voce, e forse anche con il lessico utilizzato di inchinarci supinamente e senza possibilità d’appello alla sua opinione perché sicuramente la più ragionevole, oppure può essere che la nostra «psiche voglia avvertirci» che ci sono aspetti nel nostro amico che non accettiamo perché ci ricordano i nostri che non vogliamo accogliere.

Possiamo infine ricordarci tutte le volte che abbiamo dato un benvenuto o... un ben servito a qualcuno con la stessa parola ma detta con un tono e una gestualità diversa.

Ebbene, arrivati a questo punto possiamo fermarci per fare un piccolo riepilogo del nostro percorso svoltosi nell’avventuroso mondo della comunicazione.

1.6. Una piccola sosta per assaporare il cammino compiuto

La nostra avventura è iniziata sottolineando l’importanza del saper ben comunicare intuendo che per assimilare tale arte occorre afferrarne i “segreti” o, per usare un’altra metafora, bisogna conoscere la mappa di questo intricato e intrigante ambiente.

Infatti abbiamo passato in rassegna due teorie che cercano di descrivere da vicino come si dipana il talvolta aggrovigliato mondo della comunicazione.

Il modello lineare ci ha indicato con precisione i diversi fattori e i protagonisti dell’azione comunicativa (vi ricordate: mittente, codifica, canale di comunicazione, decodifica, destinatario?) stilizzando un po’ troppo, possiamo dire, la dinamica entro cui sono inseriti e impoverendo la loro complessità (ad esempio il destinatario appare il semplice riflesso del mittente).

Il modello circolare restituisce al processo comunicativo il suo brio e tutto il suo ritmo cadenzato dagli interventi e dalle reazioni degli interlocutori che insieme compongono la sinfonia della comunicazione (anche se a volte più che una sinfonia sembra un ammasso di rumori o strombazzate per nulla gradevoli...).

D’altra parte in una sinfonia che si rispetti ogni tipo di strumento deve sincronizzare i suoi tempi di entrata in scena in modo perfetto con le movenze sonore e i tempi degli altri strumenti. Per non rimanere troppo invischiati nelle metafore tanto evocative (speriamo) quanto in molti casi poco comprensibili, possiamo ricordare quanto la comunicazione debba la sua riuscita alla capacità degli interlocutori di ascoltare l’altro e di intervenire nel momento giusto, modulando il proprio intervento sulle effettive capacità del suo interlocutore.

Condire la capacità di ascolto con la consapevolezza che ognuno di noi percepisce la realtà in modo diverso, magari simile a quello degli altri ma mai identico, è la ricetta migliore per affinare l’arte della comunicazione, la quale deve porre attenzione anche alle deformazioni dovute ad alcune semplificazioni del nostro modo di percepire (per esempio l’effetto pigmalione, alone, i pregiudizi, gli stereotipi, ecc.) che impediscono appunto il porre costantemente attenzione a quanto esprime e ci dice l’altro.

Il tragitto fin qui percorso include anche una sosta presso la “sala dei bottoni” della comunicazione in cui abbiamo potuto verificare quali leggi la innervino. Abbiamo così appreso che non si può non comunicare, che ogni processo comunicativo ha un aspetto di contenuto e uno di relazione e che avviene a livello verbale oppure attraverso il paraverbale o non verbale.

Su questi diversi canali della comunicazione gustiamoci ora una panoramica attraverso uno schema semplice e intuitivo.

La comunicazione

COSA

Verbale

Le parole usate

COME

Paraverbale

La voce

CHI

Non verbale

La gestualità

2 C. E. Shannon e W. Weaver, Teoria matematica delle comunicazioni, 1954, trad. it., Etas Libri, Milano 1971.

3 L’autore Pietro Vanessi, che firma le sue creazioni con l’acronimo PV, ci ha gentilmente concesso di pubblicare alcune sue vignette da lui raccolte nel sito http://www.unavignettadipv.it.

4 Questa figura viene presentata come una delle esemplificazioni della psicologia della Gestalt per la quale quando noi percepiamo qualcosa non abbiamo a che fare con un insieme di sensazioni frammentarie, che vengono analizzate e poi riunite in una sintesi, ma abbiamo sempre di fronte un’unità strutturata secondo leggi individuate da questa scuola psicologica. In questo caso, a seconda di come organizziamo le nostre sensazioniavremo una giovane oppure un’anziana pur in presenza del medesimo disegno.

5 L’espressione, titolo dell’opera dei tre studiosi sopracitati, si può tradurre in modo sintetico con “gli effetti comportamentali della comunicazione sui comunicanti”. Per un approfondimento della tematica trattata in questo paragrafo cfr. P. Watzlawick ~ J. H. Beavin ~ D. D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma 1971.

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IL GALATEO DELLA COMUNICAZIONE

2.1. Breve introduzione

Per quanto, possiamo dire, nasciamo in seno e grazie alla comunicazione e viviamo comunicando, non per questo è automatico saper ben comunicare, che poi significa aiutare a vivere bene se stessi e chi ci sta accanto; quindi come, pur mangiando da una vita, per molti di noi è utile un’educazione alimentare, così possono aiutarci alcune indicazioni su come ci si possa perfezionare in quella meravigliosa arte che tutti pratichiamo e che va sotto il nome di comunicazione.

Ora proveremo, senza avere la pretesa di essere esaustivi, a fornire dei suggerimenti finalizzati a migliorare il nostro modo di comunicare. Suggerimenti che se attuati trasformano non solo lo stile comunicativo ma anche il nostro modo di essere di fronte a noi stessi e con gli altri: tale capitolo insomma, come suggerisce lo stesso suo titolo, vuole essere un piccolo galateo della comunicazione.

Volendo soffermare la nostra attenzione sull’emittente nell’atto di codifica e di invio dei messaggi possiamo stilare una prima lista degli atteggiamenti e dei modi di essere che egli deve assumere se vuole giungere ad una comunicazione efficace:

rispetto: deve guidare tutto il processo comunicativo e rispetto l’altro nel momento in cui rispetto me stesso;

concretezza: capacità di essere specifici e precisi quando si comunica;

genuinità: capacità di essere aderenti alla realtà e di essere sinceri;

autorivelazione: dire qualcosa di sé all’altro, capacità di trasmettere in modo adeguato le proprie idee, sentimenti ed esperienze (sapersi esprimere in modo diretto rispetto al sentire, cioè come sto io in questo rapporto con te o come mi

sento in questa relazione)6.

Gli atteggiamenti sopra espressi si perseguono attraverso lo sviluppo delle competenze comunicative, che sono:

la comunicazione descrittiva = capacità di descrivere la realtà così come si presenta;

la comunicazione rappresentativa = capacità di manifestare le proprie idee, i propri sentimenti assumendone la responsabilità riferiti ad una specifica situazione;

il feedback = capacità di informare l’altro su come è stata percepita e sperimentata la comunicazione.

2.2. La comunicazione descrittiva

La comunicazione descrittiva consente di distinguere un fenomeno, di coglierlo nella sua oggettività, cioè così come appare nel momento presente, ed è una competenza fondamentale dell’emittente.

Il fatto, il fenomeno, lo stimolo vanno colti nella loro oggettività e ciò non è facile a causa dell’abitudine a falsare i dati con proprie valutazioni e interpretazioni (basti pensare ai pregiudizi, agli stereotipi, all’effetto alone e così via).

La competenza consta nel descrivere quanto emerge nel “qui ed ora”, pur nella consapevolezza che ognuno di noi ha una prospettiva personale attraverso cui guarda il mondo e gli altri, evitando di contraffare o creare ad arte la realtà perché possa collimare perfettamente con le proprie prospettive o i propri pregiudizi, o le emozioni del momento.

Inoltre, se descrivo in tal modo la realtà do il permesso all’altro di farsi una sua lettura della realtà. Con la descrizione fenomenologica (del qui ed ora) do la possibilità all’altro di integrare il dato nel suo sistema di riferimento: con il dato oggettivo c’è condivisione, mentre il dato soggettivo non è così condivisibile (la risposta emotiva non è condivisibile). Non dimentichiamoci poi che a causa di alcuni nostri pregiudizi, o di risposte emotive più o meno benevole nei confronti

di ciò che si è chiamati a descrivere, potremmo offrire giudizi e non il resoconto dei fatti.

Pensiamo a una scena familiare in cui una moglie sta attendendo che il marito rincasi dal lavoro per iniziare la cena con alcuni amici di famiglia... inizia a squillare il telefono di casa. La moglie alza la cornetta e la voce del marito la raggiunge chiedendole di perdonarlo se arriverà con quaranta minuti di ritardo a causa di un imprevisto sul lavoro. La moglie chiude la comunicazione con un OK sbrigativo ma appena raggiunge la coppia di amici lamenta che il marito è il solito ritardatario e non rispetta mai gli accordi presi.

In questo quadretto della vita domestica possiamo notare come la moglie non riporti i fatti, in questo caso sentiti al telefono, ma un suo giudizio nei confronti del marito, giudizio che non lascia molto spazio agli amici per potersi creare a loro volta un’idea personale di quello che sta succedendo.

La mancanza della capacità descrittiva inoltre impedisce di prendere contatto in modo responsabile con quanto si sta vivendo, i propri pregiudizi, le proprie emozioni...

Probabilmente, esponendo i fatti come stavano, gli amici avrebbero tranquillizzato la povera moglie dicendole che i disguidi possono capitare, e lei rasserenatasi avrebbe compreso che il disagio le proveniva maggiormente da un eventuale loro giudizio sulla sua famiglia più che dal ritardo del marito. Altro esempio: se talvolta ad una lezione, ad una conferenza e così via sostituiamo il lapidario giudizio: «Tutto ciò è di una noia mortale» con l’espressione: «Provo noia in questo momento» forse cercheremo le cause di questa nostra fastidiosa sensazione accorgendoci che essa deriva dalla mancata comprensione di molti concetti espressi, dalla nostra mancanza di volontà di metterci in gioco fin dall’inizio oppure, sì è vero, semplicemente dallo stile di chi sta “pontificando” a noi non confacente (questo non significa che non lo sia per altri).

Tuttavia, non ci può essere comunicazione autentica utilizzando esclusivamente la descrizione dei fatti, anche se essa è condizione preliminare per evitare atteggiamenti valutativi e percettivi: e allora ecco salire in cattedra la capacità rappresentativa.

2.3. La comunicazione rappresentativa7

Il presupposto dell’utilizzo della capacità rappresentativa è che quando io sono

in comunicazione non posso non comunicare su di me, perché l’assunto della pragmatica della comunicazione umana è che quando non comunichiamo, in realtà, comunichiamo qualcosa, e più io cerco di non comunicare, più do adito a interpretazioni degli altri che devono costruire un ponte significativo rispetto al mio comportamento.

Qui si sta parlando dei modi diretti di presentazione dell’emittente, non dei modi indiretti che una persona utilizza per esprimere qualcosa.

Per esempio, se io con voce tremante dicessi che domani ho un esame, voi potreste ricavare l’informazione che io mi sento in ansia, ma questo mio parlare ansioso non viene considerato comunicazione rappresentativa.

La comunicazione rappresentativa è quando io mi assumo la responsabilità di quello che sento e quindi mi esprimo dicendo: «Sono agitato in quanto domani ho un esame»; quindi la comunicazione rappresentativa è quando l’emittente si assume la responsabilità del proprio pensiero, dei propri sentimenti e riporta le proprie esperienze in modo diretto.

Perché è importante questa competenza? Perché le relazioni umane diventano più calde quando la persona porta se stessa nella relazione. Quando le persone non parlano direttamente di sé, tendono a nascondersi dietro un atteggiamento difensivo e un ruolo.

Nella misura in cui io sono rappresentativo con l’altro, non solo permetto all’altro di conoscermi in modo diretto, ma mi do la possibilità di aumentare la consapevolezza di me (ad esempio: ero arrabbiato ed invece realizzo che sono triste per ciò che è successo). Offro la possibilità a chi mi sta ascoltando di non doversi confrontare con principi astratti a cui inchinarsi supinamente o da contrastare in base ad altri principi, oppure con giudizi o valutazioni più o meno gratuite, ma di poter entrare in contatto con il mio mondo personale.

La possibilità di parlare in maniera diretta di sé consente inoltre di esprimere i propri sentimenti ed emozioni e di dare significato alle esperienze che viviamo; in chi non è mai rappresentativo invece si corre il rischio di incanalare i sentimenti in sintomi, di perdere il contatto con se stessi e con gli altri e quindi piano piano di sperimentare una vita impregnata di noia, vuoto, o angoscia di doversi confrontare con se stessi.

Essere rappresentativi però si scontra con alcune barriere come il concetto di sé (spesso non ci si autopresenta, né ci si autorivela per timore della critica), la paura dell’intimità, la paura della perdita e la paura di essere posti al centro dell’attenzione e quindi si evita di autorivelarsi.

Ricordiamoci comunque che utilizzare la comunicazione rappresentativa non vuol dire usarla sempre, ma sentirsi liberi di usarla in contesti e momenti adeguati.

Avviciniamoci quindi a questo modo di presentarsi e porsi nei confronti dell’altro per capire quali principi lo regolino: ogni qualvolta siamo al cospetto di una comunicazione rappresentativa si presentano sulla scena due elementi fondamentali:

un io che si assume la responsabilità delle proprie esperienze;

l’indice referenziale.

Essi per prima cosa rappresentano il contenuto e la capacità di essere specifici.

Per esempio, se io dico: «Sono preoccupato» non sono specifico, mi autorivelo, ma non sono specifico in quanto non riporto l’indice referenziale, cioè non do elementi per comprendere questa mia situazione; non dico infatti che cosa determina in me la preoccupazione.

Essere specifici significa, in questo caso, rimanere nello spirito della capacità descrittiva, la quale chiedeva di far emergere i fatti così come affiorano e avvengono distinguendoli dalle nostre valutazioni.

Io portatore di esperienza + indice referenziale vuol dire infatti assumersi la responsabilità di esprimere il proprio sentire, come ci si sente rispetto a qualcosa, che è diverso da un processo valutativo («Tu mi infastidisci»??è ben diverso dal dire: «Io provo una sensazione di fastidio quando ti comporti in un determinato modo»?).

L’uso del “Tu” infatti presuppone spesso un processo di valutazione, interpretativo, giudicante; se diciamo: «Sei insopportabile» attribuiamo all’altro una nostra emozione e lo giudichiamo; se dobbiamo dire le cose in modo funzionale alla nostra relazione e maggiormente aderenti al vero, diciamo: «MI

SENTO» «IO PROVO» ? rappresento a lei o a lui l’effetto che fa su di noi il suo comportamento, e così si diventa modello anche per l’altro.

Sarà l’interlocutore a pensare cosa farne di questa informazione, l’altro è libero di prendere o di non prendere gli stimoli che gli arrivano.

Occorre ricordare che esprimere direttamente o con modalità dirette il proprio vissuto richiede una relazione di fiducia, ma è anche vero che stimola la relazione di fiducia; l’altro infatti avverte che il suo interlocutore non si trincera dietro a questioni di principio, e non lo critica, ma semplicemente lo rende partecipe della sua esperienza interiore affidandogliela; sarà più semplice per lui fare altrettanto dando avvio ad una comunicazione aperta, proficua e vera per entrambi.

Torniamo al nostro quadretto familiare qualche ora dopo la telefonata tra moglie e marito. Ora entrambi sono a letto, ma la moglie non ha ancora digerito il ritardo del marito... «Marco mi sento ancora nervosa per il tuo ritardo di questa sera, penso sia dovuto in parte al fatto di essermi sentita a disagio nei confronti dei nostri amici ma anche perché mi sono sentita come in altre occasioni lasciata in secondo piano nei confronti del tuo lavoro».?

Un’ouverture di questo genere può probabilmente dar avvio a un duetto dove però alla bellezza talvolta inebriante dell’intrecciarsi delle note musicali di due strumenti o di due voci si sostituisce il piacere più intimo dello scambio della propria interiorità impastata di emozioni e pensieri. Una sinfonia insomma che nasce dal sintonizzarsi dei coniugi sul loro sentire e sulla ricerca comune di una soluzione, una sintonia che molto probabilmente non fiorirebbe nel caso in cui la moglie esprimesse il suo disagio aggredendo il marito con parole tipo:

«Sei sempre il solito, sei riuscito a rovinare anche questa serata e sempre per il tuo lavoro».?

In questo caso viene a perdersi anche la competenza descrittiva: la percezione del malumore nata in seguito al ritardo del marito e al disagio provato davanti agli amici viene sostituita con un giudizio sulla persona del marito. Il marito può riaprire il dialogo solo se leggendo l’aggressione della moglie come un semplice sfogo di queste emozioni negative, ad esempio, le comunicasse il dispiacere per il disagio della moglie invitandola a esprimere meglio i propri sentimenti e a circoscrivere il problema per poter trovare una soluzione ad esso.

Riassumendo, la comunicazione rappresentativa, in primo luogo, non deve

essere direttiva. Ad esempio, una moglie che dice al marito mentre legge il giornale: «Tu non ti curi di me, non ti importa niente di me» si trova ad essere direttiva e valutativa. Invece nel caso in cui dicesse: «Mi sento a disagio quando leggi il giornale mentre io ti parlo» esprimerebbe in prima persona il suo pensiero e il suo sentire. Quindi è importante usare sempre: «Io mi sento». In questo modo, quando si fa un’osservazione o un richiamo non viene vissuto o recepito dall’altro come un ordine, o una critica svalutante la propria intera persona. Non solo, ma relazionandoci in questo modo ci assumiamo in primis la responsabilità del nostro vissuto, del nostro mondo interiore sforzandoci di ascoltarlo, con il risultato di comprenderci e di conoscerci meglio.

Questo tipo di comunicazione inoltre deve essere descrittivo, evitando categorie astratte o generiche. Quante questioni di principio sbandierate nascondono semplici e specifici bisogni del momento che, se espressi, in molti casi risolverebbero mille discussioni!

E allora tra due colleghi di lavoro o tra coloro che vivono in famiglia o in una comunità al rimprovero o all’ingiunzione: «Non si devono sbattere le porte» è preferibile: «Potresti per favore chiudere la porta con meno forza perché (per esempio) perdo la concentrazione tutte le volte che sento un rumore»; oppure al principio: «Non si deve fumare» sarebbe opportuno manifestare il proprio disagio del momento nei confronti del fumo di sigaretta. Esprimersi in questo modo dà la possibilità all’altro di comprendere maggiormente dove stia il problema e di non confrontarsi con una norma impositiva ma con le nostre emozioni, i nostri problemi o disagi. Ciò non significa tralasciare o perdere di vista l’importanza di una riflessione sui principi o valori, ma non utilizzare solamente questioni di principio durante relazioni in cui esprimere le proprie emozioni, quello che si sente oltre a quello che si pensa, è la via per offrire all’altro la possibilità di comprendere e sintonizzarsi con il nostro vissuto.

2.4. Feedback

La terza competenza è il feedback. La comunicazione interpersonale diventa più autentica e reciproca quando l’emittente viene informato dal ricevente sugli effetti della sua comunicazione. La realizzazione di questo comportamento avviene attraverso un processo di “informazione di ritorno”, chiamato feedback8.

Il feedback è quindi quel momento della comunicazione, replicativa (di ritorno) e deliberativa, nel quale il ricevente comunica all’emittente informazioni su come è stata percepita e sperimentata la sua comunicazione.

È una comunicazione di risposta attraverso cui il ricevente comunica all’altro o vuole restituire all’altro delle percezioni personali, cioè la percezione su come è o su come è stato lo stare in relazione con lui.

Gli obiettivi del feedback sono da un lato controllare e verificare la reciproca comprensione del messaggio, essere certi cioè di aver compreso o di essere stati capiti, al fine di evitare i fraintendimenti; dall’altro controllare gli effetti del proprio comportamento, ossia che tipo di ricaduta può avere sull’altro il comportamento che intenzionalmente mettiamo in atto e, infine, consentire informazioni di ritorno sull’altro e su di me.

Un feedback è una buona comunicazione rappresentativa attraverso cui informare l’altro su come è stata percepita e sperimentata la comunicazione e in cui è possibile aggiungere un appello esplicito che è il chiedere all’altro quello che per me è importante che lui faccia.

Esempio: «Quando vai così veloce, io ho paura. Vorrei che riducessi la velocità; per favore, puoi andare più piano?» (appello).

Ci sono alcune regole utili da seguire per avere un buon feedback. Le prime sono quelle già viste per la comunicazione rappresentativa e quindi per chi dà un feedback è importante non essere direttivo, generico, dogmatico, non portare giudizi svalutanti della persona altrui, ma assumersi la responsabilità di quello che si sta sentendo e pensando a proposito della relazione creatasi durante quella specifica comunicazione in cui si è coinvolti.

È importante poi che gli appelli siano formulati come desiderio e non come una prescrizione; ad esempio: «Mi piacerebbe», «Vorrei che tu mi ascoltassi».

Infine, la specificità. Cerchiamo di spiegarla con un esempio. «Comportandoti così, dimostri di essere inaffidabile» (No).??Secondo il modello di Franta, questo non è un feedback perché è assente l’Io portatore di esperienza e manca l’appello; c’è solamente un indice referenziale.

Riformulazione: «Quando ti lascio delle cose da fare vorrei tanto che fossi meno inaffidabile» (No).??

Anche in questo caso non siamo davanti a un buon feedback, perché la valutazione è insieme all’appello. Passiamo invece a una buona comunicazione nei seguenti casi: «Quando ti lascio delle cose da fare, vorrei che tu ti impegnassi

di più a farmele» (Sì!!!); «Vorrei che quando ti chiedo una cosa per quella data, tu me la portassi» (Sì!!!).

È utile ricordare che il feedback va utilizzato sempre nel rispetto di sé, dell’altro e soprattutto per costruire relazione; quindi va modulato a seconda della persona che si ha davanti: quando qualcuno, in alcuni casi, non riesce a sostenere una tale forma di comunicazione, nel momento in cui ciò comportasse un riflesso della sua immagine troppo discrepante con il concetto che egli ha di sé, è meglio intraprendere altre forme di confronto (ad esempio, come ricorda Franta, un confronto terapeutico).

2.5. Il ruolo del ricevente

2.5.1. L’ascolto empatico e attivo

Da quanto abbiamo appreso finora è semplice intuire come a fondamento di una buona comunicazione ci sia la capacità di ascoltare l’altro nel suo esporsi sia a livello verbale che non. Solo nel continuo e vicendevole ascolto, infatti, si potranno conoscere le esigenze, il mondo interiore e i pensieri dell’altro; conoscenza indispensabile per poter modulare il messaggio adatto ad essere recepito dal nostro interlocutore, o per poter rispondere al meglio alle sue più autentiche esigenze. È importante sottolineare come l’ascolto si differenzi dal semplice sentire, il quale è un insieme di atti percettivi attraverso i quali entriamo spontaneamente e involontariamente in contatto con una fonte comunicativa.

Il primo gradino nella capacità di ascolto su cui siamo chiamati a salire in quanto partecipanti, per esempio, ad una conferenza, ad una lezione oppure in qualità di lettori è rappresentato dall’ascolto passivo durante il quale non c’è la restituzione verbale all’altro, ma si cerca di prestare attenzione al discorso della persona di turno che sta comunicando per poterne comprendere i passaggi fondamentali.

Se saliamo di un altro gradino di questa fondamentale capacità incontriamo l’ascolto attivo. Nell’ascolto attivo, l’altro si sente compreso in quanto ad un primo tempo di attenzione nei confronti delle sue parole si aggiunge, da parte del ricevente, un feedback accurato di quanto ha ascoltato, dandogli la possibilità di sentirsi compreso e di comprendere in maniera più profonda quanto aveva comunicato. Nell’ascolto attivo anche ciò che dico è finalizzato ad esprimere al meglio lo scopo dell’ascolto: comprendere quello che l’altro ha detto, verificare poi se ciò che è stato capito è quello che l’altro ha detto effettivamente e, infine, aiutare l’altro a comprendere meglio se stesso.

Nel ruolo dell’ascolto attivo, anche nel momento in cui emetto un messaggio non sono un emittente. Si fa una emissione nel ruolo di ascolto (restituzione) che permette di realizzare l’empatia riflettente, che è quella condizione che determina la possibilità di una relazione positiva che nasce, in questo caso, dal fatto che chi ci sta parlando si senta compreso in profondità. Per attuare l’ascolto attivo bisogna, per prima cosa, conoscere alcuni atteggiamenti e le competenze fondamentali che permettono a chi ci sta comunicando qualcosa di sentirsi rispettato e accolto.

L’empatia è un atteggiamento che ci permette di sentire con l’altro, entrare nella sua esperienza. Ciò concretamente vuol dire che le parole dell’emittente hanno lo stesso significato, lo stesso tono e colore per chi ascolta. Quindi è importante imparare a mettere tra parentesi il proprio modo di dare significato alle cose per fare proprio il significato che l’altra persona dà alla realtà.

Va tenuto comunque presente che il mio modo di vedere va bene, come va bene quello dell’altro; non ci si mette a fare confronti.

Il rispetto, inteso come rispetto di sé e dell’altro, è anch’esso un atteggiamento irrinunciabile. In questo ambito ciò si esprime nel credere che la persona che ho davanti vada bene così com’è, sia degna di valore e di rispetto e nell’essere convinti che la persona sia in grado di trovare le sue risposte ai problemi e alle difficoltà.

2.5.2. Fattori fondamentali dell’ascolto attivo

Il processo di ascolto attivo consta di tre fasi:

La domanda che ci poniamo è: quali sono le competenze necessarie per recepire, elaborare e rispondere adeguatamente al messaggio?

La prima competenza è l’attenzione non strutturata, la quale è la competenza richiesta nel processo di recezione. Recepisco accuratamente, se uso l’attenzione non strutturata. L’essere umano normalmente usa attenzione strutturata perché ha uno scopo, ha degli obiettivi da raggiungere che attinge dai propri schemi di riferimento e sistemi di valori personali, che possono fare da filtro alla lettura della realtà. Come sostiene Siddharta: «Cercare significa avere uno scopo, ma trovare significa essere libero, restare aperto, non avere scopo». Perdere lo scopo significa avere la capacità di orientare e centrare la propria attenzione sull’altro,

liberandoci dal condizionamento dei nostri schemi, che sono fondamentali ed è utile averli, ma che non devono prevalere sull’altro. L’attenzione non strutturata (da Franta) è apertura verso la fonte comunicativa con una attenzione centrata sui messaggi dell’emittente e ciò richiede la capacità di comprendere come l’altro vede e sperimenta la sua comunicazione. Naturalmente, questa competenza, cioè la capacità di ascolto mettendo fra parentesi i propri schemi o sistemi di riferimento per prestare e accogliere il significato che ha per l’altro, non è facile.

Recepisco accuratamente se uso l’attenzione non strutturata. È difficile dare vita all’attenzione non strutturata, perché le proprie emozioni, a volte, interferiscono con il processo di ricezione.

Non vanno offerte soluzioni; la direttività rende difficile creare una piattaforma comunicativa comune e costruire una relazione di alleanza. Occorre imparare a dire cose che non sanno di soluzione, ma di aiuto alle persone in modo tale che esse si sentano capite, comprese, competenti e capaci.

Altri ostacoli possono essere rappresentati dalle emozioni personali (e quindi quando non siamo sereni perché attraversati dalle onde alte di emozioni forti difficilmente riusciamo ad ascoltare), dai pregiudizi, dalle percezioni (effetto alone, del prima e poi...), da un particolare stato fisico e psicologico. Molto spesso le persone pretendono molto da se stesse senza darsi niente; se non si è in grado in un dato momento di stare in ascolto dell’altro è meglio comunicarglielo attraverso una comunicazione rappresentativa.

Un’altra competenza dell’ascolto attivo è la discriminazione accurata del messaggio. Elaboro correttamente il messaggio se uso una discriminazione accurata del messaggio. In un messaggio è presente infatti un contenuto, un’autorivelazione, una relazione e un appello. Quindi, discriminare adeguatamente vuol dire comprendere e cogliere cognitivamente, in ogni messaggio, quali sono questi quattro aspetti.

2.5.2.1. Tanti messaggi in un messaggio9

La dimensione del contenuto è l’oggetto della comunicazione. Attivare l’orecchio del contenuto vuol dire porsi la domanda: «Che cosa sta dicendo?» o: «Di che cosa sta parlando?».

La dimensione dell’autorivelazione passa attraverso sia la scelta delle parole che la persona fa, sia dal non verbale. Attivare l’orecchio dell’autorivelazione

vuol dire porsi la domanda: «Cosa mi sta dicendo di sé mentre parla con me?».

La dimensione della relazione pone invece l’attenzione sul fatto che, mentre due persone parlano, si definisce anche la loro relazione, cioè come si vedono, come si percepiscono, come definiscono la loro relazione. Attivare l’orecchio della relazione vuol dire porsi la domanda: «Come mi percepisce questa persona?».

Infine, la dimensione dell’appello è intesa come un insieme di richieste che la persona fa con il suo messaggio. Attivare l’orecchio dell’appello vuol dire porsi la domanda: «Cosa vuole raggiungere e ottenere con questo messaggio?» (aspetto effettivo).

Quindi ogni messaggio esplicitamente o implicitamente contiene questi aspetti.

Esempio:

Un marito dice alla moglie:

«Cos’è questa cosa rossa sulla carne?».

Contenuto

cosa rossa sulla carne

25% Di che cosa sta parlando?

Autorivelazione

non so cosa sia

25% Cosa mi sta dicendo di sé?

Relazione

tu lo sai

25% Come vede la moglie?

Appello

dimmi che cos’è, voglio sapere che cos’è?

25% Cosa vuole ottenere?

La moglie risponde: «È pomodoro».

Questo capita quando c’è una decodificazione o discriminazione adeguata del messaggio. La discriminazione accurata del messaggio dipende da una adeguata integrazione delle quattro dimensioni: occorre che nessuna di queste superi l’altra.

2.5.2.2. Problemi di decodifica

Quando ascoltando diamo predominanza ad una dimensione del messaggio rispetto alle altre, incontriamo difficoltà comunicative rilevanti che causano distorsioni del messaggio.

La prima è l’iperfunzionalità di contenuto, la quale è centrata sul contenuto e trascura tutte le altre dimensioni, prevale un’attenzione centrata sugli aspetti cognitivi, logico-relazionali.

Un bambino ritorna da scuola e dice alla mamma: «Oggi il compito mi è andato proprio male»; la mamma: «Su cosa era il compito?». La madre si sintonizza sul contenuto e scorpora il piano emozionale. Tararsi sul contenuto non è una cosa piacevole, perché c’è una risposta sul contenuto che produce una situazione di discrepanza emotiva. In questo caso il figlio si sarebbe sentito compreso e ascoltato se la madre gli avesse chiesto: «Come ti senti adesso?».

L’iperfunzionalità di autorivelazione è la tendenza a vedere sempre nella comunicazione qualcosa della personalità dell’altro.

In classe, uno studente dice alla sua insegnante: «Non sono riuscito a fare il compito perché era troppo difficile». «Non era il compito che era difficile, sei tu che non hai voglia di impegnarti». La risposta dell’insegnante è frutto del suo sistema di riferimento e delle idee che si è fatta su di lui. Molto probabilmente in

questo caso sarebbe stato meglio chiedere al ragazzo in che cosa consisteva il problema.

L’iperfunzionalità di relazione, caratteristica della persona insicura, è caratterizzata da una eccessiva preoccupazione su come l’altro può percepirmi: «Come mi vede l’altro?».

Un preside dice ad una insegnante: «In questa scuola la disciplina è importante!». Se l’insegnante ha iperfunzionalità di relazione pensa: «Il preside crede che io non sia in grado di tenere la disciplina». È chiaro che, pensando questo, la risposta sarà sintonizzata su questo. Un errore nella decodificazione porta ad impostare un certo tipo di risposta che è diversa se l’insegnante pensasse: «Davvero preside lei pensa che la disciplina sia importante?». Nel caso contrario ci si giustifica, ci si scusa, ci si mortifica.

Infine, l’iperfunzionalità all’appello è un tipo di ascolto che tende ad attivarsi rispetto ai bisogni di chi comunica. Chi ascolta con queste caratteristiche presenta la sindrome del salvatore. Quando noi stiamo attenti esclusivamente all’aspetto dell’appello, qualunque cosa uno dica, c’è la tendenza a rispondere ad un bisogno che magari non è stato esplicitato e rimane implicito. In questo modo, però, accade ciò che accade per le cose non richieste o pattuite.

Un insegnante ad un collega: «Quell’insegnante non mi considera per niente», se il collega ha iperfunzionalità all’appello risponde: «Vuoi che gli parli io?».

Questo modo di rispondere agli altri non è costruttivo, anzi, la persona che riceve aiuto non richiesto si sente svalutata e viene meno il senso di rispetto. La persona si deve sentire compresa; ciò permette di attivare le proprie risorse e soluzioni.

Ritornando all’esempio: «Cos’è questa roba rossa sulla carne?»; se la moglie ha iperfunzionalità di contenuto risponde: «L’ho comprata dal...»; se la moglie ha iperfunzionalità di autorivelazione non decodifica che il marito

dice: «Non so cosa sia», ma decodifica: «Non mi piace!»; se la moglie ha iperfunzionalità di relazione anziché: «Tu lo sai», decodifica:

«Sei una pessima cuoca!»; se la moglie ha iperfunzionalità all’appello non coglierà il bisogno di sapere

“che cos’è” ma vivrà la frase come: «Non farlo più» e risponderà: «Non te la faccio più, va’ da tua madre!».

Moltissimi disturbi comunicativi nascono da una scorretta discriminazione del messaggio. «Cos’è questa cosa rossa?» e si sente rispondere: «Va’ da tua madre!». Spesso noi attribuiamo all’altro delle intenzionalità, degli intenti che l’altra persona magari non aveva.

Nel dire: «Cos’è questa cosa rossa?» può essere che il marito nel tono possa aver dato l’impressione di disgusto, ma una moglie che avesse letto questo libro risponderebbe sul contenuto e sull’appello.

2.5.2.3. Far emergere il messaggio implicito

È importante anche la metacomunicazione.

Metacomunicare è la capacità di parlare di quello che sta capitando, di rispondere al contenuto e portare a livello di consapevolezza ciò che non è stato espresso ed è passato a livello non verbale. «È pomodoro, ma caro so che mi vuoi dire dell’altro»; porta a livello di consapevolezza ciò che è passato a livello non verbale. Il marito è stato aiutato a fare contatto con una parte di sé e dice: «Sì, hai ragione, sono stato sgarbato ma non avevo intenzione di...».

Se ci sono più contenuti, ciò che è fondamentale nella restituzione è che la nostra parafrasi sia centrata almeno su un contenuto che ho individuato. La persona si deve sentire capita. Se l’appello è: «Non so cosa fare» non siamo autorizzati a dire che cosa fare; se stimo la persona che ho davanti, comprendo che in quel momento crede di non saper cosa fare: allora è importante restituire a lei il problema, perché deve trovare la sua soluzione, poiché quello che ho in testa io non sempre corrisponde al suo sistema di riferimento.

Prima di passare al prossimo paragrafo che ci aiuterà a comprendere come meglio accompagnare e sostenere qualcuno quando lo si ascolta, scorriamo alcune schede che offrono qualche altro consiglio veloce su come attuare una comunicazione efficace nelle più varie situazioni, utilizzando anche i canali del non verbale e del paraverbale.

La comunicazione verbale

Le parole usate

Essere chiari e concisi

Evitare le interferenze semantiche

Essere precisi

Evitare le interferenze psicologiche

Non usare parole “difficili”

Evitare le generalizzazioni

Usare lo stesso codice linguistico

dialetto

linguaggio

tecnico

Creare immagini

Cattura l’attenzione

Coinvolge il proprio mondo

Aneddoti, esempi

Rafforzativi, non fuorvianti

La comunicazione paraverbale

COME

La voce

Tono

acuto

greve

variare i parametri in funzione del discorso del contesto

Volume

alto

basso

per non risultare monotoni

Ritmo

rispetto delle pause

per sottolineare

per creare curiosità

evitare intercalari

evitare mugolii

non trascinare la vocale finale

La comunicazione non verbale

CHI

Linguaggio del corpo

Gesti

Illustratori

Accompagnano la parola

Indicatori emotivi

Esprimono lo stato emotivo

Emblematici

Simboli internazionali

Adattamento

Soddisfano bisogni interni

Tensione

Pruriti - tosse - stimolazioni ripetute

Rifiuto

Allontanare - nascondere - spazzolare

Gradimento

Ricerca sensoriale - avvicinamento - stimolazione bocca, orecchio, capelli - aprire braccia, mani, spalle

Postura

Avanti

Aperto

Indietro

Chiuso

Mimica

... il tuo viso parla!

La comunicazione non verbale

CHI

Il linguaggio del corpo

Abbigliamento

Adeguato al contesto

E’ rappresentativo

... Fa il monaco

Sorriso

Vero Coinvolge

Falso Genera diffidenza

Sguardo

Negli occhi ? Sincerità

Deviato ? Genera insicurezza

2.5.3. Gli stili comunicativi

Ognuno di noi ha un suo stile o più stili che lo caratterizzano e che sono presenti con una certa costanza anche in situazioni diverse. Se lo stile comunicativo è efficace, vuol dire che si crea una piattaforma comunicativa, cioè un ponte transitabile per incontrarsi con l’altro.

Ciò deve succedere durante l’ascolto attivo che consiste nel cogliere cosa mi sta dicendo la persona che mi sta davanti, quali sono le sue emozioni e, infine, restituire il suo messaggio.

Per realizzare una comunicazione efficace bisogna adottare uno stile comunicativo costruttivo ed efficace che traduca in maniera adeguata la comprensione empatica.

Oltre ad utilizzare un’attenzione non strutturata e fare una adeguata discriminazione del messaggio, è importante adottare anche un comportamento di supporto verbale intervenendo con contributi e con modalità che sostengano e incrementino la comunicazione dell’altro, favorendone l’autocomprensione.

Queste modalità o tecniche sono chiamate “forme di supporto verbale” e sono la parafrasi, la verbalizzazione, la chiarificazione e il sommario.

Tutte queste quattro tecniche sono tecniche non direttive, perché non aggiungono niente al messaggio dell’altro, ma restituiscono all’altro ciò che lui ha detto, sia in termini di contenuto (cognitivi) sia in termini emozionali.

Oltre a queste, ci sono tecniche di intervento semi-direttive che sono, ad esempio, il fare domande, il dare informazioni, il confronto.

Queste tecniche semi-direttive vengono utilizzate successivamente in seguito al ruolo dell’ascolto e quindi sono tecniche dell’emittente. Le tecniche non direttive servono per realizzare l’empatia riflettente.

2.5.3.1. Tecniche non direttive

La parafrasi consiste in una riformulazione dei contenuti del messaggio dell’altro fatta con parole proprie. È una tecnica che è sostanzialmente centrata sui contenuti, una forma di supporto verbale nella quale si riformula il contenuto della comunicazione dell’altro usando parole proprie. In questo modo si restituisce all’altro la sua comunicazione. La parafrasi, la quale svolge una funzione di chiarificazione e di approfondimento della comunicazione, è finalizzata fondamentalmente a due obiettivi: il primo è la chiarificazione cognitiva, in quanto ridefinisce, approfondisce ed esplora il contenuto della comunicazione dell’altro; il secondo è la verifica se è avvenuta una ricezione corretta, poiché offre all’altro la garanzia di una ricezione accurata del messaggio e di una disponibilità all’ascolto da parte del ricevente.

Da ricordare: nel ruolo dell’ascolto attivo è fondamentale la capacità di fare spazio dentro di sé per quello che dirà l’altro; e la prima competenza che serve è l’attenzione non strutturata, cioè mettere tra parentesi i propri schemi di riferimento per poter comprendere la persona che sta davanti. È importante mantenersi fedeli al contenuto e restituire all’altro il contenuto senza aggiungere e interpretare. Nella fase di restituzione attraverso la parafrasi occorre usare una comunicazione rappresentativa, la quale ha il pregio di rispettare se stessi e l’altro.

Obiettivi per colui che fa la parafrasi:

1) verificare una corretta ricezione del messaggio perché le parole non hanno per tutti lo stesso significato;

2) trasmettere all’altro l’interesse a comprenderlo e il fatto che lo si è compreso, in quanto l’altro, sentendosi restituito il suo messaggio, si sente capito e compreso.

Obiettivi per colui che riceve la parafrasi:

1) si chiarisce dal punto di vista cognitivo il messaggio;

2) nella restituzione, l’altro ha modo di osservarlo meglio.

Alcuni esempi di come iniziare la parafrasi:

«Se ho ben capito...»;

«Mi pare di capire...»;

«A tuo avviso...»;

«Stai dicendo che...».

Un piccolo esempio della tecnica della parafrasi:

Il sole è già sotto l’orizzonte ma l’eco della sua luce tinge di rosso il cielo e lambisce un piccolo bar dove due amici, Giorgio ed Andrea, bevono la loro solita birra serale:

«Giorgio non so cosa fare»; «A proposito di cosa?»; «... mio padre mi ha chiesto di lavorare nell’azienda di famiglia... il gioiello creato da mio padre, io sarei orgoglioso di dar una mano a lui, di mostrargli quanto valgo e... poi... poi, lo sai no? Da quando è morto mio fratello maggiore mio padre non è più lo stesso, continua a ripetere che non ha senso aver aperto un’azienda senza un futuro, senza uno della famiglia che la porterà avanti... E mio fratello stava facendo veramente bene nell’azienda, mio padre non faceva altro che elogiarlo davanti a mia madre... Sì sarebbe bello, anzi è giusto che io entri nell’azienda di mio padre... però io, fin da bambino, mi è sempre piaciuta la Storia... sì è stupido, lo so, con i tempi che girano, la crisi... ecco, però... sì insomma se ci fosse la possibilità... mi piacerebbe iscrivermi e laurearmi in storia...». «Se ho ben capito ti senti diviso e non sai se entrare nell’azienda con tuo padre anche per rincuorarlo della perdita di tuo fratello e mostrare nello stesso tempo che anche tu sei degno della sua stima o seguire il tuo sogno di diventare uno storico che non è semplice da realizzare in questi tempi... Sì... comprendo quanto sia difficile la tua scelta...».

La verbalizzazione è una forma di supporto verbale molto simile alla parafrasi; essa si concentra sugli aspetti emozionali presenti nel messaggio dell’altro.

Quando l’altro sperimenta delle emozioni, chi l’ascolta, più che capire, deve cercare di “sentire con lui”. Quindi nella verbalizzazione non si tratta di comprendere cognitivamente il contenuto di ciò che l’altro sta dicendo, ma si tratta di cogliere emotivamente dove sta la persona mentre parla; quindi, nel verbalizzare è importante sottolineare il carattere emotivo o soggettivo, il sentimento che l’interlocutore manifesta in quel momento.

Gli obiettivi della verbalizzazione sono, in primo luogo, facilitare il processo di autoesplorazione dell’altra persona, affinché la persona possa prendere contatto con la propria emozionalità e comprendere il significato che le varie esperienze rivestono per lei; in secondo luogo, aiutare la persona a discriminare la qualità e l’intensità delle varie emozioni. Ogni emozione ha una qualità (emozioni di base e stati d’animo) ed è importante, quando si verbalizza, cogliere la qualità delle emozioni: tristezza, paura, rabbia, gioia, ecc. Ogni emozione, però, può essere presente nella persona a livelli di intensità diversi; può essere molto arrabbiata, infuriata o leggermente arrabbiata, cioè infastidita. Quindi è importante sia l’aspetto qualitativo, che quello quantitativo (cioè l’intensità) dell’emozione espressa; la persona altrimenti si sente svalutata, non considerata adeguatamente o sminuita. La verbalizzazione può aiutare l’altro a gestire i propri sentimenti; con essa il ricevente offre alla persona, attraverso la restituzione, un modello in cui le emozioni sono importanti e vanno accettate. Nella nostra cultura è diffusa l’idea che le emozioni debbano essere nascoste perché, a manifestarle, ci si dimostra fragili e vulnerabili. D’altra parte, non è non parlandone che queste smettono di avere la loro funzione all’interno della vita psichica; se non se ne parla, non è che la rabbia non esista ma la tensione psichica che si ha dentro continua a lavorare, passando ad un livello sotterraneo e cercando dei modi per uscire all’esterno, attraverso comportamenti difensivi, non adeguati.

Quali sono le parole che l’altro usa per esprimere i suoi sentimenti? I sentimenti come vengono veicolati in comunicazione?

I sentimenti vengono veicolati attraverso la scelta di semplici parole e attraverso il non verbale. Le emozioni possono essere veicolate dalla scelta delle parole per esprimere un certo contenuto. Ad esempio: «Quello là non capisce molto», la parola che esprime il sentimento è quello là. Quindi, anche la scelta di parole veicola i sentimenti che una persona esprime. Chiediamoci ora: quali sentimenti sono impliciti nella comunicazione non verbale della persona?

I sentimenti impliciti nella comunicazione non verbale si deducono dalla voce, dalla gestualità, dalla mimica del viso, dalla prossemica (cioè il modo in cui si gestiscono gli spazi tra le persone).

Dopo queste due domande, ci si chiede: «Qual è una buona scelta di parole per descrivere in modo adeguato le emozioni dell’altro?». Poi: «Che tipo di verbalizzazione utilizzerò?».

È importante che la verbalizzazione sia piuttosto concisa; affinché ci sia l’incisività della verbalizzazione è importante essere concreti, chiari, concisi.

Analizziamo la seguente frase: «Non sopporti di lavorare in questa ditta le cui regole ti sembrano prive di senso e ti senti molto arrabbiato».

La prima parte può essere chiamata parafrasi o anche indice referenziale dell’emozione. Cioè, ogni emozione ha un indice referenziale che risponde alla domanda su cos’è che ha prodotto in me o nell’altro quel determinato sentimento.

La chiarificazione è una tecnica che consiste sostanzialmente in una domanda che viene utilizzata per lo più dopo un messaggio dell’altro confuso, ambiguo, o con un duplice significato. Si usa quando non si è sufficientemente sicuri del significato contenuto nel messaggio della persona con la quale sto comunicando.

La richiesta di chiarificazione è generalmente espressa con frasi del tipo: «Stai dicendo che...?», «Potresti descrivere meglio quanto stai dicendo...?».

È appropriata in tutti quei casi in cui non si è sicuri di aver compreso appieno il messaggio o in cui si ha bisogno di ulteriori delucidazioni.

Infine, il sommario è un’estensione delle risposte di parafrasi e verbalizzazione che connette insieme e riformula due o più parti di un messaggio o messaggi multipli. Rappresenta una riformulazione sia di elementi cognitivi, che affettivi.

2.5.3.2. Stili inefficaci di comunicazione

Quando la comunicazione non prevede più la fase dell’ascolto autentico dell’altro, quando il nostro interlocutore non è aiutato a prendere consapevolezza del proprio vissuto o semplicemente ad esprimerlo, a prendere decisioni, se questo è il suo desiderio, in base ai suoi valori e a quello che sta vivendo significa che si

sta adottando almeno uno degli stili inefficaci di comunicazione riportati nella tabella sottostante. Tutte queste modalità comunicative sono caratterizzate da scarsa empatia nei confronti dell’altro e dall’incapacità di aiutare il nostro interlocutore a proseguire egli stesso nella comunicazione rappresentativa, cioè a rimanere in ascolto delle proprie emozioni, di ciò che ritiene importante per la propria vita e ad esprimerlo.

Generalizzare

«È sempre così».

Si parla in generale senza comprendere la specifica situazione di vita dell’altro e, sebbene siagisca così per rassicurarlo, in realtà si sminuisce la sua personae la sua unicità.

Minimizzare

«Non è niente».

Si risponde alle difficoltà dell’altrominimizzandole e sottovalutandole. L’altro non si senteaccolto e non vengono riconosciutele sue esperienze e le sue emozioni.

Identificare

«Succede spesso anche a me».

Si sovrappongono le problematiche personali a quelle dell’altro, creando confusione.

Pushing

«Secondo me si dovrebbe fare così».

Si danno consigli affrettati, condizionando l’altro verso soluzioni che non nascono dalle sue scelte.

Investigare

«Come mai?».

Si cerca di avere ulteriori informazioni dall’altro nel tentativo di indirizzare la conversazione verso quello che per noi è rilevante.

Moralizzare

«È così, e non può essere diversamente».

Si danno giudizi sulla base di proprie idee e convinzioni, formulando regole di vita senza tener conto del caso specifico, parlando in modo astratto.

Dogmatizzare

«In realtà è così!».

Si raccontano i fatti in modo dogmatico, facendo riferimento a situazioni generali che non hanno nulla a che vedere con il caso concreto, come se si volesse impartire lezioni. In questo modo viene sminuita l’esperienza concreta della persona.

Diagnosticare

«La tua problematica è questa».

Si formulano giudizi sulla base del proprio sistema di valori, e con la convinzione di saper sempre tutto.

6 Cfr. G. M. Gazda, Sviluppo delle relazioni umane: un manuale per educatori, IFREP, Roma 1991.

7 Per questo paragrafo e questa tematica cfr. H. Franta ~ G. Salonia, Comunicazione interpersonale. Teoria e pratica, LAS, Roma 1981, pp. 116-123.

8 Per questo paragrafo e questa tematica cfr. H. Franta ~ G. Salonia, Comunicazione interpersonale, cit., pp. 127-132.

9 Per questo paragrafo cfr. A. R. Colasanti ~ R. Mastromarino (a cura di), Ascolto Attivo. Elementi teorici ed esercitazioni per la conduzione del colloquio, IFREP, Roma 1994, pp. 5-6.

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L’ANALISI TRANSAZIONALE: NOI E LE NOSTRE RELAZIONI AL MICROSCOPIO DELLA PSICOLOGIA

3.1. Struttura della personalità e stati dell’Io

Iniziamo questo capitolo sull’Analisi Transazionale ponendoci il quesito: perché si chiama Analisi Transazionale? Una transazione è uno scambio. Con il termine Analisi Transazionale si intende l’analisi degli scambi che ci sono tra le persone, ma anche nella persona.

Affrontare l’Analisi Transazionale in questo nostro testo è un modo per sottolineare di nuovo e in maniera ancora più marcata ed evidente quanto la comunicazione sia il processo attraverso cui vive e si struttura una persona; anzi la comunicazione intesse in un certo modo la sua struttura psicologica, la quale si modella a partire dalle relazioni intrattenute, vive del dialogo tra le varie istanze in essa presenti e modula a sua volta secondo la propria specificità le comunicazioni con gli altri. Una buona comunicazione interpersonale quindi parte dal buon funzionamento della struttura intrapsichica a cui ora andiamo, per questo, a dare una sbirciata.

Ricordiamoci, prima di partire, che in questo vasto e complesso mondo dell’Analisi Transazionale faremo solo una breve escursione occupandoci di quanto può offrirci per realizzare una corretta e buona comunicazione.

I concetti centrali su cui ruota questa scuola psicologica sono, da un lato, gli stati dell’Io, nei loro aspetti strutturali e funzionali, dall’altro le transazioni, tra cui delle transazioni particolari che si chiamano giochi.

Cercheremo ora di spiegare cosa sono gli stati dell’Io.

La teoria degli stati dell’Io rientra nella parte teorica della Analisi Transazionale ed è relativa alla teoria della personalità; spiega in che modo siamo strutturati e come funziona in ciascuno di noi. Per Berne, fondatore dell’Analisi Transazionale, uno stato dell’Io è un insieme di pensieri, sentimenti,

comportamenti che sono tipici di un particolare momento “evolutivo” ed ogni persona ha tre stati dell’Io.

Ciascuno di noi, quindi, dispone di tre stati dell’Io e ciò che ci differenzia gli uni dagli altri è che quanto c’è dentro ognuno dei nostri stati dell’Io è diverso da quello di qualunque altra persona.

I tre stati dell’Io sono rappresentati graficamente da cerchietti separati e non sovrapposti: Bambino (B), Adulto (A), Genitore (G); si leggono dal basso verso l’alto, perché indicano come si sviluppano da un punto di vista evolutivo. Lo stato dell’Io Adulto, messo in posizione centrale, svolge una funzione mediatrice tra il Genitore e il Bambino.

Gli stati dell’Io.

Quello che c’è all’interno di ogni stato cambia continuamente, in quanto si tratta di strutture dinamiche, non fisse.

Quando nasciamo, ci troviamo nello stato dell’Io che si chiama Bambino somatico; risponde solo ad aspetti di tipo sensoriale e non ci sono strutture di pensiero.

Lo stato dell’Io Bambino consiste in un insieme di pensieri, sentimenti, comportamenti che sono tipici di un bambino, ma non di un bambino qualunque, bensì del bambino che siamo stati noi; e quanto è contenuto nel mio stato dell’Io Bambino è diverso da quello di un altro10.

Tutti noi abbiamo dei gesti, dei comportamenti e dei pensieri che risalgono alla nostra infanzia o delle reazioni che abbiamo imparato da bambini.

Lo stato dell’Io Bambino quindi contiene per tutta la vita i desideri, le emozioni, le gioie e le paure che abbiamo vissuto nei primi giorni di vita.

Il bambino è la parte che ci permette di innamorarci, di giocare, di godere la bellezza di un tramonto, di essere vicini ai sentimenti altrui, di desiderare il rapporto fisico, ed assieme la parte che ha paura del rifiuto, dell’abbandono, che può essere spaventata dal contatto fisico, che soffre quando perdiamo una persona cara.

Siamo nello stato dell’Io Bambino quando facciamo delle cose solo perché ci piacciono, senza una ragione concreta; forse è la parte più spontanea e più creativa di noi. È la parte più profonda e più autentica di noi.

Lo stato dell’Io Adulto invece è un insieme di pensieri, sentimenti, comportamenti che sono tipici di un adulto. È la parte razionale, che affronta i problemi in modo logico, che impara continuamente dall’esperienza, che giudica senza pregiudizi, che impara dagli errori.

La caratteristica principale è che l’Adulto è con i “piedi per terra”, a contatto con i dati di realtà, nel “qui e ora”. È vero che quando sono nello stato dell’Io Adulto prevalentemente penso, ma non è tanto il fatto di pensare a caratterizzare l’Io Adulto, quanto il fatto che il ragionamento è costruito sulla base di dati oggettivi di realtà e non su fantasie (che appartengono al Bambino), non su credenze, ma su dati oggettivi appunto. Nelle situazioni emotive, cerca di prendere decisioni sulla base sia delle esigenze del Bambino, sia dei permessi e delle proibizioni del Genitore, sia di una valutazione obiettiva (dell’Adulto appunto) della situazione.

La comunicazione descrittiva è quella tipica dell’Adulto.

Infine, nello stato dell’Io Genitore ci sono tutti quegli insiemi di pensieri, sentimenti, comportamenti che sono riferibili ad un genitore e a tutte quelle informazioni e modelli che posso aver assimilato dalle persone che hanno avuto una qualche funzione genitoriale nei miei confronti (genitori, nonni, zii, insegnanti, ecc.).

Normalmente, lo stato dell’Io Genitore viene riferito a un insieme di regole, di norme, stereotipi, pregiudizi, indicazioni su ciò che è giusto e va bene e ciò che è sbagliato, su ciò che è più utile e ciò che è meno utile, e a tutti gli schemi del prendersi cura, del rimproverarsi, del correggersi, a tutto ciò che identifichiamo

con una modalità genitoriale.

Il Genitore è indispensabile perché è il contenitore dei valori etici, di quello che nella propria cultura si può o non si può fare, del senso di responsabilità verso gli altri. Se però è troppo proibitivo o ipercritico, diventa un grave ostacolo al nostro benessere.

Questi sono gli stati dell’Io, secondo l’Analisi Strutturale.

Quando si parla di struttura, si intende che cosa c’è dentro; quando si parla di funzione, cioè di Analisi Funzionale, ci si riferisce a come funziona quella cosa.

Gli stati dell’Io.

3.2. Come funzionano gli stati dell’Io

Passeremo ora a parlare dell’Analisi Funzionale degli stati dell’Io.

3.2.1. Lo stato dell’Io Adulto

Lo stato dell’Io Adulto per definizione è positivo: l’Adulto non ha una valenza negativa e non è nemmeno divisibile. Ogni volta che noi utilizziamo lo stato dell’Io Adulto, non stiamo facendo nulla di male verso di noi, ma questo non significa che se usassimo solo l’Adulto saremmo perfetti; infatti, non saremmo completi.

Quando comunico nello stato dell’Io Adulto corro meno rischi di svalutare o lasciarmi svalutare.

3.2.2. Lo stato dell’Io Genitore

Con questa espressione ci si riferisce ai compiti del genitore: sono quelli del prendersi cura, del guidare, del dare norme e dare affetto.

Lo stato dell’Io Genitore si divide in:

GN ? Genitore normativo (o critico);

GA ? Genitore affettivo (o protettivo).

Per ciascuna di queste due funzioni, abbiamo una valenza positiva e una negativa.

Siamo in presenza del Genitore normativo positivo quando le indicazioni impartite agli altri sono in funzione di una promozione del loro benessere, negativo quando invece sono svalutanti. Allo stesso modo con il Genitore affettivo positivo ci si prende cura dell’altro rispettandolo, mentre con il Genitore affettivo negativo si aiuta da una posizione di superiorità dando all’altro il senso di essere aiutato e svalutato nello stesso tempo.

3.2.3 Lo stato dell’Io Bambino

Lo stato dell’Io Bambino è il primo a formarsi. In questo stato abbiamo una maggiore vulnerabilità. In questo stato, posso sentire o la superiorità dell’altro, o sentirmi a contatto con i miei bisogni e i miei istinti. I bisogni e gli istinti appartengono allo stato dell’Io Bambino. A seconda di come ci gestiamo a contatto con un bisogno, possiamo sviluppare una parte dello stato dell’Io Bambino che si chiama Bambino adattato o Bambino libero.

Sono Bambino adattato tutte le volte in cui mi comporto sulla base di quello che mi immagino essere l’aspettativa nei miei confronti da parte degli altri, quindi per ottenere qualcosa. Cosa? Amore, riconoscimento, accettazione, stima, considerazione, ecc. Tanto più ci attiviamo in questa direzione, quanto più aumenta il senso di non riuscire ad avere tali cose. Se, invece, mi do il permesso di agire senza pensare a come reagiranno gli altri, sono Bambino libero, cioè faccio le cose istintivamente. È una parte simpatica, è quella dell’intimità, della più autentica spontaneità. È importante avere sempre una parte molto viva di questo Bambino libero, come quei momenti in cui ci diamo il permesso di stare

con la nostra spontaneità e fare le cose perché ci va di farle.

Ma c’è anche una valenza negativa nel Bambino libero. Quale? Quando non mi proteggo, non mi tutelo, quando il mio istinto non tiene conto dei dati di realtà, cioè non è mediato da un Adulto, e mi metto in situazioni di pericolo. Come si fa a calibrare? Attraverso lo stato dell’Io Adulto.

Sono Bambino adattato quando faccio delle cose perché devo farle: fare delle cose non sulla base di quello che mi va, o sento, o voglio, quanto sulla base, vera o presunta, fantastica o immaginaria, di quello che immagino che gli altri si aspettino da me.

Ci sono due modi di adattarsi. Da una parte, c’è il Bambino adattato compiacente, dall’altra il cosiddetto Bambino adattato ribelle.

Il Bambino adattato ribelle è sempre negativo; c’è un aspetto positivo solo se lo vedo come passaggio per imparare a dire di no.

Il Bambino adattato compiacente ha un aspetto positivo e uno negativo. La positività è data dall’equilibrio: è corretto che in alcune situazioni ci adattiamo.

La forma adattata negativa è l’iperadattamento: cioè mi adatto, anche quando potrei non farlo.

Possiamo concludere questa breve analisi teorica sugli stati dell’Io, ricordando che è più facile utilizzare gli stati dell’Io nella loro valenza positiva tutte le volte che si usa l’analisi, anche velocissimamente, per decidere cosa è più utile fare in una determinata situazione. Le volte in cui si esclude l’analisi e agisco istintivamente, è più facile trovarsi nell’aspetto negativo.

Gli stati dell’Io.

Gli stati dell’Io

3.3. Rafforzare e indebolire i propri stati dell’Io a piacimento

Per poter comprendere in che misura utilizziamo i diversi stati dell’Io nella relazione con le persone, l’analista transazionale Jack Dusay ha costruito l’Egogramma11.La costruzione dello schema avviene attraverso l’analisi di quanto tempo stiamo nel Genitore critico o affettivo, nell’Adulto e nel Bambino libero e adattato; l’obiettivo di questo lavoro di analisi del nostro comportamento attraverso i nostri stati dell’Io ci consente di valutare la “bontà” delle nostre relazioni quando comunichiamo con gli altri e la possibilità di valutare un possibile cambiamento, potenziando la modalità comportamentale di uno stato dell’Io rispetto ad un altro. La possibilità del cambiamento è data dal principio della costanza, idea avanzata dallo stesso Dusay: «Quando uno stato dell’Io si accresce d’intensità, un altro o più di uno devono decrescere per compensarlo. Il cambiamento di energia psichica è tale che la quantità di energia possa rimanere costante».

Così se spendo la maggior parte della mia energia psichica nello stato del Genitore critico posso decidere di drenarla nello stato del Genitore affettivo o del Bambino libero attivando atteggiamenti tipici di quegli stati; ad esempio mi impegnerò a fare qualche piccolo complimento, a incoraggiare e sostenere chi mi sta vicino: in questo modo non devo sforzarmi di “censurare” il mio Genitore critico ma posso aspettarmi che si farà sentire meno perché parte dell’energia che lo alimentava è andata a rinforzare altri stati che abbiamo attivato.

3.3.1. La costruzione dell’Egogramma12

Si invitano i lettori a disegnare il proprio egogramma, per comprendere in quale stato dell’Io stanno maggiormente quando si relazionano con gli altri.

Si procede in questo modo: si costruisce una barretta come quella riportata nella pagina a fianco, divisa fra i vari stati dell’Io; poi, su ognuno di essi, si costruiranno delle barre verticali. La loro altezza deve essere proporzionale al tempo trascorso nella parte dell’Io su cui è costruita la barretta. Quel che importa è l’altezza relativa di ciascuna rispetto alle altre in modo che, guardando al risultato finale, si possa comprendere il tempo che trascorriamo in uno stato

dell’Io se confrontato con quello passato in un altro stato dell’Io. Ad esempio, se nel Genitore Critico passo il doppio del tempo che nell’Adulto la barretta elevata sopra la casella GN sarà alta il doppio della barretta costruita su A.

3.4. Le transazioni

Il fatto di avere a disposizione tre stati dell’Io implica che anche quando noi siamo in uno stato intrapsichico, cioè in relazione con noi stessi, ci facciamo domande e ci parliamo da uno stato dell’Io all’altro.

Inoltre, nell’ottica dell’Analisi Transazionale quando siamo in relazione con delle persone entrano in gioco i vari stati dell’Io delle persone coinvolte. Se le persone sono due ci sono sei stati dell’Io che entrano in relazione.

Se si realizza una comunicazione, non intendiamo più A e B che comunicano tra di loro e uno fa l’emittente e l’altro l’ascoltatore, ma, da un punto di vista grafico, siamo alla presenza di tre cerchietti (che rappresentano gli stati dell’Io di una persona) di fronte ad altri tre (che rappresentano gli stati dell’Io dell’altra persona).

Quando parliamo di comunicazione nel contesto dell’Analisi Transazionale parliamo di scambi tra gli stati dell’Io.

Il termine transazione indica, se le persone sono A e B, il messaggio da A a B e la risposta di B ad A.

Quindi si ha una transazione quando un soggetto presenta un qualche tipo di comunicazione e l’altro gli risponde. La comunicazione di apertura è chiamata stimolo, quella che viene rinviata è chiamata risposta.

Nel momento in cui mi metto in relazione con qualcuno comunico a partire da uno stato dell’Io e in qualche modo vado a sollecitare uno stato dell’Io dell’altra persona.

Esempio: se io dico: «Che ore sono?» sto parlando dallo stato dell’Io Adulto.

Il messaggio parte dall’Io Adulto ed è diretto ad uno stato dell’Io Adulto dell’altro.

La risposta: «Sono le 17:15», di nuovo, parte dall’Adulto ed è diretta all’Adulto dell’altro.

Ebbene, se raffiguriamo il tragitto del messaggio da uno stato dell’Io di una persona a uno di un’altra con una freccia, le due frecce insieme (quella dello stimolo e quella della risposta) si chiamano transazioni.

Esempi di transizioni: «Mi aiuti a fare questo esercizio?». È il Bambino al Genitore.

Risposta: «Sì, vieni che ti do una mano». È il Genitore al Bambino.

In questi esempi, la comunicazione è andata a buon fine, fluida, senza intoppi: le freccette, nel primo e nel secondo caso, ritornano al punto di partenza. Le frecce sono parallele e infatti questo tipo di transazione è definita parallela o complementare.

Ci sono, infatti, tre tipi di transazioni fondamentali e associate ad esse ci sono tre regole della comunicazione.

Le transazioni complementari sono quelle transazioni in cui lo stato dell’Io che risponde è proprio lo stato dell’Io che è stato interpellato.

Prima regola: ogni volta che ci sono transazioni parallele o complementari, la comunicazione è altamente prevedibile e si può andare avanti senza intoppi anche indefinitamente, infatti è fluida.

Ma non è che tutte le transazioni complementari siano quelle corrette. Sono prevedibili, ma prevedibili non vuol dire né giuste, né efficaci, né corrette.

Altro esempio: «Che ore sono?».

Risposta: «La pianti di chiedere l’ora?». La risposta proviene da uno stato dell’Io diverso da quello interpellato.

«Mi aiuti a fare questa cosa?» dal Bambino al Genitore affettivo.

Risposta: «Possibile che non riesci a fare da solo?» risponde il GN, risponde cioè una parte del G diversa da quella interpellata.

Io chiedo una cosa, mi arriva qualcosa di completamente diverso da quello che io volevo o mi aspettavo. E questo ha a che fare con il secondo tipo di transazioni, che si chiamano transazioni incrociate.

Non necessariamente si incrociano, ma si chiamano incrociate ugualmente, perché quello che le caratterizza come incrociate è il fatto che lo stato dell’Io che risponde non è quello che è stato interpellato.

Qui troviamo la seconda regola della comunicazione: una transazione incrociata implica una momentanea interruzione della comunicazione; affinché la comunicazione vada avanti è necessario che uno o entrambi gli individui implicati nella comunicazione cambino stato dell’Io.

La transazione incrociata sembra piuttosto disagevole.

Altro esempio: un marito dice alla moglie: «Dal momento che hai riordinato, puoi dirmi dove hai nascosto le mie sigarette?».

Da un punto di vista formale, il messaggio è una richiesta di informazione: messaggio Adulto ? Adulto.

Ma in realtà si coglie anche dell’altro, qualcosa che non è esplicitato in modo diretto, come se ci fossero contempora-neamente due messaggi:

1) «Hai informazioni sulle mie sigarette?»;

2) «Mi nascondi le cose!». Implica un messaggio Genitore-Bambino, non esplicito.

È un tipo di comunicazione ambigua: un messaggio è esplicito, definito con

una linea retta, e un messaggio ulteriore, tratteggiato, che di norma coinvolge altri stati dell’Io.

Questo tipo di transazione si chiama transazione ulteriore, per questa caratteristica di doppio messaggio, uno esplicito, chiamato messaggio sociale (manifesto), ed uno implicito, ulteriore, detto anche messaggio psicologico (non manifesto).

La terza regola della comunicazione connessa a questo tipo di transazione è data dal fatto che l’esito di questa comunicazione è dato prevalentemente dal livello psicologico e non da quello sociale. Significa che siamo molto più attenti ai messaggi ulteriori che a quelli espliciti. D’altra parte, il messaggio ulteriore viene veicolato attraverso il paraverbale e la comunicazione non verbale: vi ricordate quando si diceva che questi due canali riescono a incidere sulla comunicazione molto più delle parole? Qui ne abbiamo un’ulteriore riprova.

Le transazioni ulteriori vengono anche definite transazioni di gioco13.

Quando uso una transazione ulteriore o un messaggio di gioco? Quando, ad esempio, ho del rancore nei confronti di quella persona, però non me la sento di parlarle direttamente e trovo un modo elegante, che è quello di “dire e non dire”.

Il messaggio ulteriore, psicologico, è quello che costituisce il gancio, e anche se non tutte le persone si fanno agganciare in questo tipo di transazione, è molto facile farsi agganciare. Se io mi faccio agganciare, cioè rispondo al messaggio psicologico, si rischia di andare avanti all’infinito e di solito si finisce con malumori o liti. L’obiettivo, quindi, è non farsi agganciare e ciò è possibile in due modi: o si utilizza una transazione incrociata o si porta allo scoperto il gioco usando l’Adulto; in questo secondo caso è più facile che l’esito della comunicazione sia su una dimensione di chiarezza.

N.B. Le transazioni incrociate sono molto utili per uscire dai giochi, soprattutto la transazione incrociata a partire dall’Adulto, ma si possono usare anche gli altri stati dell’Io.

Spesso la persona non è consapevole che sta mandando altri messaggi; spesso si inviano doppi messaggi usando un certo tipo di messaggio verbale e uno non verbale contraddittorio: quando siamo raggiunti da due messaggi, la tendenza è di rispondere a uno dei due.

Ci sono anche transazioni ulteriori che non sono giochi, perché sono agite consapevolmente, come ad esempio quelle utilizzate dal venditore accorto.

L’esempio classico è quello del venditore che spera di portare il cliente a un acquisto d’impulso.

Venditore: «Certo, signore, questa macchina fotografica è la migliore che ci sia. Ma penso che probabilmente lei non possa permettersela».

Cliente (con aria di sfida): «La prendo!»14.

Prima di congedarci da questo paragrafo riportiamo altri esempi di transizioni ulteriori.

Marito: «Che hai fatto della mia camicia?».

Moglie: «L’ho messa nel tuo cassetto».

Guardando semplicemente le parole scritte, diremmo che questa è stata una transazione complementare da Adulto ad Adulto. E tale è a livello sociale. Ma ora rivediamola con i suoni e con altre caratteristiche.

Marito (con voce dura, con tono di voce che cade alla fine della frase; i muscoli della faccia sono tesi, le sopracciglia inarcate): «Che hai fatto della mia camicia?».

Moglie (con voce lamentosa, il cui tono sale; stringe le spalle, china la testa in avanti, innalza le sopracciglia): «L’ho messa nel tuo cassetto».

Il livello psicologico è uno scambio parallelo G-B (Genitore-Bambino), B-G (Bambino-Genitore). Se esprimiamo con parole i messaggi trasmessi a questo livello 15avremmo:

Marito: «Tieni sempre in gran disordine le mie cose».

Moglie: «Tu mi critichi sempre ingiustamente».

Ed ecco qui di seguito una serie di transazioni ulteriori:

3.5. Un dialogo ai raggi x dell’Analisi Transazionale

Ora proviamo a vedere all’opera tutte le forme di transazioni analizzate nel paragrafo precedente attraverso un ipotetico dialogo tra il responsabile del personale di un’azienda e una dipendente da un anno promossa a capo reparto.

Transazione incrociata Adulto-Adulto, Bambino-Genitore

Volevo parlarti della tua situazione professionale. Come sta andando il tuo lavoro da quando fai parte della squadra dei capo reparto dell’azienda? (Adulto)

A parte qualche punto debole che penso di avere, per il resto mi sembra di andare abbastanza bene; devo riconoscere, come tu dici spesso, che sono un po’ testarda, però sto cercando di migliorare, mi impegno. (Bambino)

Transazione parallela Adulto-Adulto

Ti piace questo tipo di lavoro? (Adulto)

Sì, come lavoro mi piace molto. (Adulto)

Transazione parallela Adulto-Adulto

Vai d’accordo con i tuoi colleghi? (Adulto)

A parte qualche contrasto ogni tanto, mi sembra di andare abbastanza d’accordo. (Adulto)

Transazione parallela Adulto-Adulto

Quindi, come vedi la squadra dei responsabili? Hai qualche suggerimento da darmi? (Adulto)

Secondo me, da come la vedevo prima di farne parte, cioè quando ero ancora assistente al capo turno, e da come la vedo adesso che ne faccio parte, non colgo più quell’affiatamento che c’era prima. (Adulto)

Transazione parallela Adulto-Adulto

Puoi spiegarmi meglio cosa intendi dire con “affiatamento”? (Adulto)

Voglio dire che ognuno pensa solo a se stesso, al suo lavoro; non c’è molta collaborazione tra noi. (Adulto)

Transazione incrociata Genitore-Bambino, Adulto-Adulto

Ma tu, all’interno di questa squadra, ti senti bene, ti senti accettata? (Genitore)

Io mi sento bene perché vado d’accordo con tutti, però vado più d’accordo con alcuni colleghi rispetto ad altri, perché vedo che mi aiutano nel mio lavoro e io faccio lo stesso con loro, mentre con qualcun’altro non è così. (Adulto)

Transazione incrociata Genitore-Bambino, Adulto-Adulto

E se dovessi fare un esame di coscienza sul tuo modo di lavorare, sul tuo modo di collaborare con gli altri? Perché, sai, a me sembra che a volte tu abbia le “tue idee” e da lì non ti muovi, sei un po’ testarda. (Genitore)

Potresti spiegarmi cosa intendi dire con le “mie idee”? (Adulto)

Transazione incrociata Adulto-Adulto, Bambino-Genitore

Mi riferisco anche alle questioni organizzative, perché ho saputo che tu hai affermato che certe procedure non le condividi e quindi non le vuoi applicare! (Adulto)

Non è che non le voglio applicare, magari penso che siano sbagliate perché io mi trovo male ad eseguirle, però agli altri dipendenti le faccio fare. (Bambino)

Transazione parallela Genitore-Bambino, Bambino-Genitore

Però tu non devi comunicare agli altri questo tuo rifiuto, altrimenti gli operai penseranno: «Neanche lei ci crede». Capisci cosa voglio dire? (Genitore)

Sì, certo, però lo faccio visto che è un dovere; anche se non mi trovo bene, lo faccio ugualmente. (Bambino)

Transazione parallela Adulto-Adulto

Ma tu, come ti senti rispetto a questo tuo modo di lavorare? (Adulto)

Guarda, qualsiasi turno io faccia con qualsiasi persona cerco sempre di dare il meglio e di collaborare con tutti, di aiutare le persone nel loro lavoro, però non è la stessa cosa nei miei confronti. (Adulto)

Transazione parallela Adulto-Adulto

Mi stai dicendo che tu collabori con gli altri ma loro non collaborano con te? (Adulto)

Io collaboro perché so cosa vuol dire per un mio collega, quando inizia il suo turno, trovare tutto in ordine e quando capita a me dispiace non trovare ordine e pulizia al cambio di turno, anche se certe volte vedo che i miei colleghi non fanno la stessa cosa. (Adulto)

Transazione parallela Genitore-Bambino, Bambino-Genitore

Ma tu glielo fai notare questo loro atteggiamento? (Genitore)

No, non glielo faccio notare perché secondo me dipende dalla loro coscienza; se sai che a quella data ora io inizio il mio turno e magari capita anche che ho meno operai del solito, perché due persone sono in malattia, uno dovrebbe cercare di darmi una mano o, per lo meno, di lasciarmi un turno di lavoro decente e invece qualcuno non lo fa. (Bambino)

Transazione parallela Genitore-Bambino, Bambino-Genitore

Quindi, questo è il tuo rapporto con i tuoi colleghi della squadra.

Ma tu, che hai fatto tanti anni come assistente al capo reparto e adesso da un anno sei stata promossa a capo reparto, facendo ora un sunto, cosa pensi del tuo lavoro?

Ti senti sicura e preparata, o senti che devi migliorare perché sai benissimo che io, in varie occasioni, nel corso di quest’anno ti accennavo che c’erano delle lacune? (Genitore)

Sì, hai ragione, è vero, però è solo da un anno che faccio questo lavoro, mentre i miei colleghi lo fanno da molti anni; quindi non puoi paragonarmi a loro, non ho certo la loro esperienza. (Bambino)

Transazione parallela Adulto-Adulto

E con i dipendenti che rapporto hai? (Adulto)

Con i dipendenti vado d’accordo. (Adulto)

Transazione parallela Genitore-Bambino, Bambino-Genitore

Quindi pensi di farcela a ricoprire questo incarico! (Genitore)

Mi sento in grado di farcela; poi, sta a voi decidere se io sono idonea oppure no, ovviamente ci vuole tempo per imparare tutto e bene. (Bambino)

Transazione parallela Genitore-Bambino, Bambino-Genitore

Ma dopo dieci anni come assistente, sempre vicino al capo turno, ormai dovresti sapere quasi tutto su come opera un capo turno! (Genitore)

Sì, è vero, ma non è la stessa cosa; un conto è vedere ed eseguire le disposizioni che ti vengono date, un conto è fare e prendere le decisioni da sola. Non è così facile. (Bambino)

Transazione parallela Genitore-Bambino, Bambino-Genitore

Guarda, io ti sto osservando per vedere come te la cavi, se sei idonea oppure no per questo impiego. Essendo nuova, ogni tanto ti dico alcune cose, ti correggo.

Ma da parte tua, voglio che tu ci metta l’impegno per poter fare al meglio. (Genitore)

Ti assicuro che l’impegno ce lo metto sempre; ci sono alcuni giorni che sono più stanca del solito, però la volontà non mi manca mai. Ma tu, sinceramente, come mi vedi? (Bambino)

Transazione parallela Genitore-Bambino, Bambino-Genitore

Io vedo che ti stai impegnando, che cerchi di fare del tuo meglio. (Genitore)

Io sinceramente ce la sto mettendo tutta, cerco di fare del mio meglio secondo le capacità che ho, poi sta a voi dirmi se siete contenti oppure no. (Bambino)

Transazione parallela Genitore-Bambino, Bambino-Genitore

Tu sai che ci sono delle norme e delle procedure standard che devono essere rispettate; sicuramente ognuno ha un suo modo di operare, una sua personalità, però le procedure standard devono sempre essere applicate.

Mi devi promettere che, poiché ci sono delle regole da osservare, tu le osserverai e le farai osservare. (Genitore)

Sì, d’accordo, te lo prometto. (Bambino)

3.6. Ma perché dialoghiamo e comunichiamo? Le “carezze” uno dei motivi fondamentali

In Analisi Transazionale una “carezza” è definibile come un’unità di riconoscimento. Noi abbiamo bisogno di carezze e ci sentiamo deprivati se non le otteniamo. Da adulti noi aspiriamo ancora al contatto fisico ma impariamo a sostituirlo con altre forme di riconoscimento. Un sorriso, un complimento, anche un’occhiata storta o un insulto, sono tutte carezze che ci mostrano che la nostra

esistenza è stata riconosciuta e quindi appagano il nostro bisogno di riconoscimento. Le carezze possono essere verbali o non verbali, positive o negative, condizionate o incondizionate, false e di plastica?16. Qualsiasi transazione tra le persone è uno scambio di carezze. Le carezze rinforzano il comportamento che è accarezzato e qualsiasi carezza è meglio che nessuna carezza. La qualità e l’intensità delle carezze sono importanti così come è importante da chi provengono, il modo in cui sono date e il valore che vi attribuiamo. Possiamo infatti filtrarle, non considerarle per mantenere l’idea che abbiamo di noi stessi. Alcune persone filtrano le carezze positive e accolgono quelle negative. Ognuno di noi può aver sviluppato sin da bambino alcune convinzioni riguardo le carezze, come ad esempio:

non dare carezze quando ne hai da dare

non chiedere carezze quando ne hai bisogno

non accettare carezze se le vuoi

non rifiutare carezze quando non le vuoi

non dare carezze a te stesso.

Quando accogliamo una carezza da qualcuno, non solo accettiamo quella carezza nel momento in cui ci è data, ma immagazziniamo il suo ricordo nella nostra “banca delle carezze”. Più tardi possiamo riprendere questa carezza per riutilizzarla come riconoscimento a noi stessi.

3.7. Ma ci servono le carezze? Sì, per tutta la vita

L’attuale cultura occidentale non favorisce l’espressione delle carezze positive, se non (e non sempre) in età infantile.

Probabilmente alla base c’è la diffusa credenza per cui il bambino, divenendo adulto, si trasforma e non necessita più di carezze positive, fisiche o verbali (permesse solo in amore o in rapporti di grande intimità).

In realtà l’adulto, anche se la forza del condizionamento culturale fa sì che spesso non se ne renda conto, per tutta la vita si porta dentro un bambino che ha fame di carezze positive (amore, approvazione, accettazione, consolazione, ecc.).

Così in famiglia, a scuola e poi sul lavoro i compiti svolti correttamente non vengono riconosciuti («Hai fatto solo il tuo dovere!»), mentre gli insuccessi vengono subito sottolineati negativamente. La filosofia di fondo è quindi “ortopedica”: «Educare vuol dire correggere gli errori». L’ipotesi sottostante è che l’Adulto ideale sia il “Bambino adattato”, che si comporta come crede che la società si aspetti da lui; conseguenza frequente è il Bambino Iperadattato (passivo compiacente, tipo Fantozzi) o il Bambino Ribelle (passivo-aggressivo, come i tossicodipendenti).

Le carezze positive sono invece determinanti nel rinforzare e motivare una persona e nel rafforzarne l’impegno e il successo. L’ipotesi sottostante è che educare significhi quindi rinforzare l’Adulto attraverso l’appoggio al Bambino libero. Perfette e incisive nel delineare l’importanza delle carezze ci sembrano le riflessioni incontrate nel testo intitolato Le carezze come nutrimento:

Parlare di carezze significa parlare di riconoscimento. Riconoscimento di sé e riconoscimento dell’altro; e poi ancora riconoscimento di sé attraverso il riconoscimento dell’altro. È carezza tutto ciò che, riconoscendo l’esistenza di un altro essere umano, comporta una comunicazione con una valenza affettiva, anche minima. [...] Carezze sono quelle che trasformano un neonato in un bambino, un bambino in adolescente e un adolescente in un uomo o in una donna17.

Le carezze, segni di riconoscimento del valore dell’altro, hanno una potente influenza su diversi aspetti:

1) la fiducia in se stesso: sentirsi interessante, capace, vivo, si traduce nel desiderio di intraprendere, di scoprire, di assumere rischi e di affrontare la realtà. Inversamente l’uomo svalutato diviene dipendente, subordinato, esitante;

2) la tolleranza: sentirsi accettati rende più capaci di accettare gli altri, senza pregiudizi, svalutazioni, complessi e arroganza. Al contrario l’uomo svalutato diviene settario, diffidente, persecutore o vittima;

3) la stimolazione all’impegno: l’aspettativa di premi, apprezzamenti e conferme e lo scarso timore di sanzioni in caso di fallimento rende facile e piacevole l’impegno (compreso quello scolastico).

Le carezze più efficaci sono quelle dirette a tutti e tre gli stati dell’Io: è utile accarezzare i comportamenti genitoriali (senso di responsabilità, sentirsi utili,

ecc.), e anche il Bambino adattato (la lealtà, la corretta accettazione delle regole), ma soprattutto è utile accarezzare l’Adulto (autonomia, competenza, realismo) e il Bambino libero (creare, tentare, riuscire).

3.8. I giochi

3.8.1. Un gioco per una carezza...

Il gioco è una modalità di relazione che è sempre negativa. I giochi sono un insieme di transazioni e dei modi di stare in relazione altamente manipolativi, ma non consapevoli, che soddisfano tutto un insieme di fami, soprattutto quella di “carezze” e di relazione, ma in modo spiacevole, perché il tornaconto di queste modalità è sempre negativo. Comportano sempre un disagio finale per tutti i giocatori. Con fame si intende un’esigenza dell’individuo che può essere appagata, ad esempio, con le carezze. Le carezze comunicano alla persona di “essere OK” e sono necessarie per una vita emotiva sana. Va comunque notato che non tutte le carezze sono positive. Infatti, quando siamo alla presenza di un’attenzione dannosa emotivamente o fisicamente si parla di carezze negative, le quali pur riconoscendo la presenza dell’altro lo definiscono non OK. Esiste anche un altro tipo di fame legata alla strutturazione del tempo: infatti, abbiamo la necessità di tenerci occupati per evitare di essere logorati dalla noia. I passatempi, le attività, ma anche i momenti di isolamento18 o di intimità, sono tutte occasioni che utilizziamo abitualmente per dare, ricevere o evitare (come nel caso dell’isolamento) le carezze.

A questo punto potremmo chiederci perché utilizziamo i giochi per soddisfare i nostri bisogni più profondi e non le nostre risorse più autentiche. La risposta la lasciamo al prossimo paragrafo.

3.8.2. Ciak, si gira... una vita passata a recitare un copione

L’Analisi Transazionale ci dice che i giochi sono un modo in cui manteniamo il comportamento dettato dal nostro copione esistenziale. Secondo questo pensiero, infatti,

ciascuno di noi nell’infanzia scrive una storia di vita per se stesso. Questa storia ha un inizio, un proseguimento ed una fine. Noi scriviamo il copione di base negli anni della primissima infanzia, ancor prima di esser abbastanza grandi da saper dire qualche parola. Più avanti nell’infanzia, aggiungeremo altri dettagli alla storia. All’età di sette anni sarà quasi completamente scritta. Potremo

rivederla ulteriormente durante l’adolescenza. Da adulti, di solito non siamo più consapevoli della storia della vita che abbiamo scritto per noi. Tuttavia è molto facile che la seguiremo fedelmente: senza esserne consapevoli, è probabile che imposteremo la nostra vita in modo da avvicinarsi sempre più alla scena finale che da bambini abbiamo deciso di vivere. Questa storia di vita a livello inconsapevole in Analisi Transazionale viene chiamata copione.

Il copione offre una soluzione magica per risolvere il problema principale rimasto irrisolto fin dall’infanzia: come ottenere amore e accettazione incondizionati19.

Il copione insomma sembra dare l’idea che tutto succeda come nelle fiabe per cui dopo aver attraversato varie peripezie, aver sopportato soprusi o sofferenze, aver superato delle prove si riesce ad ottenere automaticamente il riconoscimento tanto desiderato, il successo tanto sperato.

Così tutti ci portiamo dentro dei miti personali, delle credenze magiche, e anche se non funzionano insistiamo convinti che la costanza sarà premiata (come la donna che dopo dieci anni con il marito violento divorzia e si innamora di un altro uomo violento, certa che questa volta il suo amore lo cambierà e lui, riconoscente, l’amerà per sempre). Insomma, se “abbiamo scritto” nel nostro copione che solo passando certe prove, rinunciando a qualcosa, o assumendo un determinato ruolo nei confronti degli altri otterremo l’amore tanto atteso, da adulti quando seguiamo in modo automatico questo nostro copione ripetiamo tali comportamenti anche se in realtà poco produttivi o controproducenti.

Il copione trae la sua forza non solo dalla credenza che «se farò questo, sarò finalmente amato», ma dalla ancor più profonda credenza che «se non farò così, mi accadrà qualcosa di terribile» (la “maledizione del copione”). Da bambino posso ad esempio aver pensato che se avessi provato piacere, la mamma non mi avrebbe più voluto bene, e magari che se mi fossi mostrato arrabbiato mamma mi avrebbe abbandonato (o ne sarebbe stata così ferita da morire). Così passo la vita senza allegria, senza vitalità, e senza nemmeno potermi arrabbiare per questo. Non è una gran vita, ma mi sostiene la credenza (copionale) per cui il modo in cui mi sto comportando adesso è doloroso, ma mai quanto l’ignota catastrofe che accadrebbe se cambiassi il mio comportamento. In alcuni casi poi alcuni di noi hanno imparato a cercare carezze negative non sentendosi degni di quelle positive o impossibilitati a riceverle.

3.8.2.1. Come nasce un copione

Come abbiamo detto, il copione di vita nasce da una serie di decisioni prese dal bambino in risposta ai messaggi di copione su se stessi, sugli altri e sul mondo.

I messaggi di copione, sui quali il bambino costruisce le sue decisioni di copione, possono essere verbali e non verbali (la mamma che tiene stretto il suo bambino, lasciando che lui segua la forma del suo corpo, manda un messaggio di accettazione e amore, mentre la madre che abbraccia imbarazzata e tesa, tenendo il bimbo un po’ discosto da sé, manda il messaggio: «Io ti rifiuto e non ti voglio vicino» anche se per lei questo non è affatto vero). Inoltre possono essere messaggi di modellamento (il bambino imparerà ad utilizzare le soluzioni usate dai genitori), possono essere comandi («Non alzare la voce!», «Non piangere!»), attribuzioni («Tu sei la mia bambina», «Non ce la farai mai», «Sei proprio come tuo zio Paolo!» [quello finito in galera], «Sei proprio una bambina coraggiosa»). L’insieme dei messaggi dati dai genitori costituisce la matrice di copione.

3.8.2.2. Ingiunzioni e permessi

Sono messaggi copionali intensi, che vengono dal Bambino dei genitori, e che per questo sono spesso inconsapevoli. Sono spesso molto precoci (già nella primissima infanzia) e quindi pre-verbali.

Vengono qui elencate dodici ingiunzioni fondamentali:

1) NON ESSERE - NON ESISTERE («Se tu non fossi nato, non avrei abbandonato i miei studi!»);

2) NON ESSERE TE STESSO (ad esempio, quando nasce una femmina e si desiderava un maschietto);

3) NON ESSERE UN BAMBINO («Sei troppo grande per fare così!, Non giocare!, Non provare piacere!»);

4) NON CRESCERE («Sei troppo piccolo per...!, Non abbandonarmi!»);

5) NON RIUSCIRE («Non ce la farai mai!»), il Bambino del genitore è geloso dei risultati del figlio;

6) NON! (Non fare niente); il Bambino del genitore è terrorizzato che il figlio,

appena fuori dal suo controllo, si faccia male. («Carlo, vai a vedere cosa sta facendo tua sorella e dille di smettere!»);

7) NON ESSERE IMPORTANTE («Accetterò di averti intorno solo fintantoché ti rendi conto che qui tu e i tuoi desideri non siete importanti»);

8) NON FAR PARTE («Non sei come gli altri bambini!», «Sei un bambino speciale!»);

9) NON ENTRARE IN INTIMITÀ («Non avvicinarti fisicamente!», «Non fidarti!», «Non condividere emozioni!»);

10) NON STARE BENE (Non essere sano di mente), ad esempio se il bambino era accudito solo quando stava male;

11) NON PENSARE (divieto generale al pensiero autonomo, o specifico per certi argomenti come denaro, sesso, ecc.);

12) NON SENTIRE (Non provare emozioni), («Gli ometti non piangono!», «Non essere arrabbiato!» , «Ho freddo, mettiti il maglione!»);

3.8.2.3. Spinte

Le spinte nel linguaggio dell’Analisi Transazionale sono inviate dal Genitore dei genitori reali, sono anche dette “messaggi di controcopione”, perché sulla base di questi messaggi il bambino prende una serie di decisioni volte ad impedire la maledizione copionale.

Ad esempio, il bambino che riceve dal Bambino della madre l’ingiunzione: «Non esistere» e dal Genitore della madre la spinta: «Sii il primo della classe!», deciderà di investire nello studio tutte le energie per evitare l’angoscia dell’abbandono.

Sono più tardive delle ingiunzioni, e sono abitualmente verbali.

Sono numerosissime («Sii buono!», «Non essere scemo!», «Lavora sodo!», «Guai a dire le bugie!», «Non fare sesso!», «Fai sempre quello che ti dico!»), ma si possono raccogliere in cinque comandi particolari, detti messaggi spinta o

semplicemente “spinte”:

1) SII PERFETTO;

2) SII FORTE;

3) SFORZATI;

4) COMPIACI;

5) SBRIGATI.

La matrice di copione.

3.8.2.4. Esempi di copioni esistenziali20

Vengono offerti qui di seguito alcuni esempi di copioni esistenziali cioè quella serie di regole, stili di vita adottati fin dall’infanzia per far fronte alle ingiunzioni e spinte ricevute e ottenere carezze oppure per allontanare lo spettro di quella che si definisce la maledizione del copione, prima citata.

L’eroe di famiglia

Di solito è il figlio più grande. Si sente responsabile per i problemi del genitore, e, pensando di farlo sentire meglio, assume spesso “strafando” tutta una serie di incarichi: assume le mansioni del capofamiglia, se esso manca o non ce la fa, si occupa del benessere dei fratelli e sorelle, a scuola si impegna per guadagnare l’approvazione degli insegnanti. Non raggiunge il suo obiettivo, ma ottiene comunque un’attenzione positiva che lo spinge a impegnarsi ancora di più.

Il capro espiatorio

Soffre di non ricevere sufficienti attenzioni e sviluppa comportamenti trasgressivi anche gravi pur di riceverle.

Può fuggire di casa per cercare attenzione e approvazione da altri gruppi, anche se devianti.

Usa rabbia e ribellione per coprire paura e tristezza.

La mascotte

Quando avverte che in famiglia c’è molta tensione e sta per scoppiare una crisi, usa umorismo e superficiale allegria per alleggerire le tensioni, facendo il burlone per alleviare le tensioni degli altri e appianare i conflitti. La sua maggior difesa è la risata e tende a sorridere, a sottovalutare le emozioni dolorose con cui ha a che fare.

Il figlio smarrito

Si ritira per difesa. Per anni accetta, adattandosi, i mutamenti improvvisi delle decisioni familiari, le risse improvvise, la cancellazione di una vacanza, uno schiaffo inaspettato.

Tende ad isolarsi nella sua stanza, a chiudersi in un suo mondo immaginario.

Dagli estranei viene visto come un figlio modello.

3.8.3. Ritorniamo al gioco

Si diceva che si gioca essenzialmente perché si ha bisogno di relazione e nel gioco mi scambio tante carezze e mi dimostro che ho ragione, rispetto a quello

che so di me e degli altri. Il modo in cui un gioco si conclude corrisponde al tornaconto finale del gioco. Il tornaconto è la conferma alle proprie convinzioni di copione.

Supponiamo, ad esempio, che io non ne possa più e, ad un certo punto, abbia bisogno di tirar fuori la mia rabbia, ma non posso farlo da solo, perché non è nell’immagine che ho di me stesso; ho bisogno di qualcuno che mi dia dei motivi per arrabbiarmi; ho bisogno che qualcuno faccia qualcosa perché io possa arrabbiarmi. Il problema è: in che modo posso convincere quel qualcuno a sbagliare con me al punto tale che io possa dirgli: «Hai sbagliato con me, è colpa tua se io sono arrabbiata»? Si usano dei ganci.

Per giocare quindi bisogna essere almeno in due persone, da solo non posso giocare.

Durante il gioco vengono scambiate molte emozioni il cui esito finale però è un disagio condiviso tra tutti i giocatori.

Esempio:

«Torno a casa. Sono serena. Dico a mio marito:

- Com’è andata la tua giornata?

- Molto bene, è stata proprio una bella giornata.

- Sì, cosa vuoi, col lavoro che fai tu. Mica è faticoso come il mio. Sono contenta per te.

- E sì, mi hanno fatto i complimenti.

- E già, contento tu, devono essere contenti tutti. Vedo che hai una grande sensibilità a capire le persone di fronte a te.

Dopo un po’...

- Sono contenta per te...

Il marito poi:

- Ma senti, cosa vuoi? Mi sembri proprio strana!

- Ecco, naturalmente! Io devo sempre essere bella e perfetta per tutti, perché se no, c’è qualcosa che non va e subito cominci a rimproverarmi.

- No, io non ti sto rimproverando, ma mi sembra che tu stia rompendo le scatole oggi!

- Ecco, vedi, lo sapevo... ecc..., perfino tu che sei mio marito e dovresti capirmi, non mi capisci nemmeno tu. Io, invece, devo capire il mondo intero.

E mi arrabbio.

Se io sono così in difficoltà e nel mio copione, nella mia convinzione di fondo, penso che non merito di stare in relazione con le persone, tutte le volte che ho bisogno di stare in relazione, non mi permetto di chiedere; ad esempio potrei tornare a casa e dire: «Oggi sono veramente stanca, ho bisogno di coccole, me le fai?». Questo è un modo Adulto. Se invece io mi dico: «Non posso fare questo, allora che cosa faccio?», la modalità che adotto ogni volta che ho bisogno di un po’ di relazione è di usare il gioco.

Ricapitolando e sintetizzando quanto abbiamo esaminato fino a questo momento possiamo dire che le caratteristiche dei giochi sono le seguenti:

1) i giochi sono ripetitivi (alla fine di uno scambio di questo tipo capita di pensare: «Perché continua a succedermi questo?» o: «Come mai è successo di nuovo?»);

2) i giochi sono giocati senza la consapevolezza dell’Adulto;

3) i giochi comportano uno scambio di transazioni ulteriori fra i giocatori (gancio);

4) i giochi comportano sempre un momento di sorpresa e di confusione;

5) i giochi terminano con i giocatori che provano una sorta di disagio ma nello

stesso tempo con un proprio tornaconto (riaffermare le convinzioni del mio copione)21.

3.8.4. A che gioco giochiamo?22

Ci sono tante tipologie di gioco. Karpman23 individua tre ruoli (su cui ci soffermeremo più avanti) che si interscambiano nel giocare e c’è un ruolo da cui, probabilmente, ciascuno di noi gioca con più facilità o si fa agganciare con più facilità. Tutti giochiamo.

Si gioca a partire dallo stato dell’Io Bambino. La spinta proviene dal Bambino, anche se poi il gioco può proseguire dallo stato dell’Io Genitore, o dal Bambino adattato, che ha imparato che solo così può ottenere le cose che gli servono.

Come si è detto più volte il gioco, per definizione, è al di fuori della consapevolezza, soprattutto nel momento in cui lo sto facendo. Mentre io attivo un gioco, non sono consapevole del gioco: non sono consapevole né che io l’ho avviato, né chi c’è dentro, né che mi sono fatto agganciare; me ne accorgo dopo!

Se me ne accorgo mentre sto giocando si può intervenire con più facilità, però dipende dalla posizione assunta dall’altro nel gioco.

Altro elemento fondamentale del gioco, già sottolineato nei paragrafi precedenti ma importante da ricordare, è la presenza di doppi messaggi: uno è “quello che dico”, l’altro è “quello di un diverso obiettivo che invio” (messaggio ulteriore).

Karpman ha studiato a lungo i giochi e ha elaborato la teoria del triangolo drammatico, che è il modo più immediato di compiere letture sui giochi.

Secondo tale teoria,

quando le persone giocano, escludono l’Adulto e assumono un ruolo; e il gioco si svolge tra persone che assumono dei ruoli diversi negli scambi. Si può giocare da una delle tre posizioni e poi anche scambiarle. I tre ruoli sono: la Vittima, il Salvatore, il Persecutore24.

Nessuno di questi ruoli è positivo, sono tutti ruoli non autentici, non sani, perché investono gli aspetti negativi degli stati dell’Io e sono estranei all’Adulto.

Dietro ciascuno di questi ruoli, c’è una posizione chiamata posizione esistenziale, cioè un’idea di fondo in relazione a me e agli altri e al mondo che, in questi ruoli, contiene una svalutazione. Ad esempio una Vittima pensa di sé di andare male, mentre gli altri sono in gamba e interpella il Salvatore, il quale dice di sé: «Io so come si fa e gli altri no, poverini!»; un Persecutore pensa di andare bene e se qualcosa non funziona la colpa è degli altri e il suo compito è dimostrare dove sbagliano gli altri.

Vivo come Persecutore la persona che in tutto quello che mi mostra mi deve sempre sottolineare la cosa negativa, per dimostrarmi che io non valgo; il dramma del Persecutore e anche del Salvatore è infatti che la positività percepita in se stessi, in realtà, è solo presunta, non reale. L’idea è: «Io valgo, ma nella misura in cui c’è qualcuno che vale di meno».

Se nessuno ha bisogno dei consigli, il Salvatore si trasforma in Persecutore per procurarsi la Vittima, che decide di essere Vittima.

La posizione: «Io non sono OK, tu sei OK», detta depressiva, è la posizione tipica della Vittima, spesso assunta da persone che sono state molto ferite in passato, in una situazione di non accudimento o di svalutazione.

Chi ha una posizione: «Io sono OK, tu non sei OK», detta posizione paranoide, solitamente assunta dal Persecutore, ma anche, seppur in modo diverso, dal Salvatore, è comunque una persona che non vive bene, con cui non è piacevole stare, perché ha spesso un atteggiamento dogmatico, autoritario, ma è anche fondamentalmente sola e ha molta difficoltà a fidarsi, a considerare l’altro degno di fiducia.

Poi c’è la posizione: «Io non sono OK, ma nemmeno tu»: io non valgo molto, ma neanche il resto del mondo. È la posizione “disperata” che si ritrova spesso in chi soffre di depressione grave; non solo stanno male, ma non ritengono neanche di poter essere aiutati.

La posizione esistenziale sana: «Io sono OK, tu sei OK» è la posizione ottimistica la quale non è presente nel gioco.

Queste posizioni esistenziali non sono posizioni statiche ma ogni persona può passare del tempo in ognuna di queste posizioni anche se in misura diversa, dipende dal proprio copione esistenziale; quindi anche persone depresse hanno

momenti di speranza e anche gli ottimisti possono avere momenti di disperazione.

Il triangolo drammatico di Karpman.

3.8.5. Altri esempi di giochi

Si propone un esempio di una possibile situazione di gioco tra il responsabile del personale di un’azienda e una dipendente responsabile del settore pulizie:

- Maria, devo richiamarti sulle pulizie (gancio), tu sei la responsabile delle pulizie, hai ogni mattina una persona che ti aiuta ma, a quel che vedo, molte cose vengono tralasciate come la macchia di olio che ho visto questa mattina sulle piastrelle negli spogliatoi degli uomini. (Persecutore)

- Hai guardato quante ore di straordinario faccio in un mese? Ogni giorno devo fermarmi oltre il mio orario per finire il mio lavoro. Io non posso controllare tutto e tutti: o faccio le pulizie o controllo. Devo fare tutto io; ma faccio quello che posso, è un anno che faccio sempre straordinari!

Pensi che io non sia stanca? Ho famiglia anch’io!

Controllate anche gli altri, non solo me! Io non ho aiuto da nessuno, però devo fare anche per gli altri e controllare tutto. (Vittima)

- Tu sei la responsabile di questo settore, devi pulire, ma devi anche gestirmi le persone che puliscono con te! (Persecutore)

- Sono responsabile solo quando vi fa comodo! Sono due anni che vi ho chiesto un aumento contrattuale, continuate a dire che sono responsabile ma non lo volete riconoscere, solo quando fa comodo a voi.

Ci sono tante cose che non sono giuste e questa è una di quelle.

Io per voi sono solo una brontolona! (Persecutore)

- Tu hai un buon orario; alle 14:00 hai già finito, non devi fare turni pomeridiani o serali come fanno gli altri dipendenti! (Vittima)

- Ma io faccio tutti i giorni lo straordinario senza che voi me lo chiediate! (Persecutore)

- Però il pomeriggio e la sera sei a casa con la tua famiglia, altre persone devono lavorare anche fino a tarda sera, questo non è un punto positivo del tuo lavoro? (Persecutore)

- Sì, è vero, faccio solo il turno della mattina ma in fin dei conti questo fa comodo anche a voi, perché nessuno pulisce bene come me.

Quando sono di riposo o sono in ferie chi mi sostituisce nella pulizia degli uffici fa proprio pena!

Qui non cambia mai niente, sono quindici anni che dico le stesse cose! (Vittima)

- Pensi di avere bisogno di aiuto, magari di una persona che ti aiuti un’ora in più? (Salvatore)

- Io non posso star dietro a tutti, forse mi basterebbe mezz’ora in più solamente, ma poi gli altri fanno le stesse cose anche se hanno più tempo a disposizione.

Dimmi tu cosa devo fare? Qui i miei colleghi non capiscono niente!

Io non mi sento il diritto di andare a richiamare chi pulisce male, fatelo voi!

Cerco di fare il possibile. (Vittima)

- Ma hai visto che gli spogliatoi degli uomini non sono in ordine? Hai visto la macchia di olio sul muro? (Persecutore)

- Sì, hai ragione, non l’ho vista; ti assicuro che non l’ho vista, mi dispiace. Ci sono tante cose che andrebbero fatte, ma non ho il tempo.

Sto sbagliando? (Vittima)

- Ti darò una persona in più per le pulizie, ma voglio i risultati! (Persecutore)

- Sì, ma che persona mi affidi? Se è uno poco esperto, perdo tutto il tempo per stare dietro a lui. (Vittima)

- Non ti preoccupare, sceglierò una persona in gamba. (Salvatore)

10 Come si diceva in apertura di questo capitolo qui si sta offrendo una piccola infarinatura dei fondamenti dell’Analisi Transazionale: un’analisi profonda e dettagliata degli stati dell’Io, all’interno di questa teoria, infatti, vorrebbe che si dicesse che anche nella fase evolutiva in cui si è bambini si possiede un’istanza adulta e uno stato dell’Io paragonabile a quello di genitore, così come è noto che lo stato dell’Io Genitore incamera in sé il Bambino e l’Adulto della persona che è stata per noi una figura di riferimento. Si dovrebbe accennare al rapporto che intercorre tra questa teoria degli stati dell’Io e le tre istanze della personalità individuate da Freud (Es, Io, Super io). Per un approfondimento utile anche per comprendere in modo più dettagliato e profondo gli argomenti che seguiranno si consiglia la lettura del testo: I. Stewart ~ E. V. Joines, L’Analisi Transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, Garzanti, Milano 1992.

11 Cfr. J. M. Dusay, Egogramma e “ipotesi della costanza”, in «Rivista italiana di Analisi Transazionale e metodologie psicoterapeutiche», anno IV, n. 7, dicembre 1984, pp. 7-12.

12 Cfr. I. Stewart ~ E. V. Joines, L’Analisi Transazionale, cit., pp. 44-45.

13 Approfondiremo il gioco quale modalità negativa di relazione nei paragrafi successivi la dinamica e le cause; in questo contesto ci sembra utile che i lettori ricordino che dal gioco e quindi dalle transazioni ulteriori si esce riportando la comunicazione sui binari dell’autenticità, cioè con una buona comunicazione rappresentativa. La massima evangelica: «La verità vi farà liberi» è sempre da tenere presente. Nel nostro caso l’autenticità, l’esprimere all’altro quello che sentiamo veramente, ci libera dai lacci del gioco.

14 I. Stewart ~ E. V. Joines, L’Analisi Transazionale, cit., p. 94.

15 Ibidem, pp. 93-94.

16 Carezza positiva = una carezza che chi la riceve vive come piacevole; c. negativa = una carezza che chi la riceve vive come spiacevole; c. condizionata = carezza ricevuta in cambio di uno specifico atteggiamento richiesto; c. incondizionata = carezza ricevuta senza nessuna condizione, per quello che si è; c. falsa = carezza che inizialmente e superficialmente sembra positiva ma che contiene una “punta finale” negativa, c. di plastica = carezza positiva non sincera. Cfr. I. Stewart ~ E. V. Joines, L’Analisi Transazionale, cit., p. 417.

17 G. Magrograssi, Le carezze come nutrimento. I gesti e le parole che ci fanno star bene, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003, p. 12. L’autore nella pagina successiva tiene a sottolineare che la carezza non è sinonimo di smancerie ma un atto di vero riconoscimento dell’altro che può passare anche attraverso momenti di sofferenza, scontri e anche imposizioni di limiti (basti pensare al rapporto genitori-figli).

18 Durante l’isolamento, in cui non avvengono transazioni e scambio di carezze a livello interpersonale, viene a placarsi la paura di ricevere carezze negative e si favorisce il sorgere di fantasie auto-carezzanti.

19 Cfr. I. Stewart ~ E. V. Joines, L’Analisi Transazionale, cit., pp. 133 e 152.

20 Tutti questi esempi sono tratti da G. M. Fava Vizziello ~ L. Piloni ~ D. Orlandini ~ A. Quartini (2004), I figli dell’alcolista, in Allamani et al., Il libro italiano di alcologia, volume II: Alcol e Società, See Editore, Firenze, 2004.

21 Cfr. I. Stewart ~ E. V. Joines, L’Analisi Transazionale, cit., pp. 297-298.

22 Cfr. I. Stewart ~ E. V. Joines, L’Analisi Transazionale, cit., pp. 297-298.

23 S. Karpman, Fairy tales and script drama analysis, in «TAB» 7, 26, 1968, pp. 39-43.

24 S. Karpman, Fairy tales and script drama analysis, cit.

4

DALLA COMUNICAZIONE ASSERTIVA ALL’AUTOSTIMA: COMPIMENTO E RADICE DELLA BUONA COMUNICAZIONE

Perché approfondire il nostro viaggio nel mondo della comunicazione con un capitolo sull’autostima e sull’assertività?

Semplicemente perché l’autostima è il presupposto fondamentale affinché una persona, avendo un buon rapporto con se stessa, possa ben relazionarsi e comunicare con gli altri, cioè essere una persona assertiva.

Aggiungiamo che difficilmente una persona può “disporre e utilizzare” l’armamentario del buon comunicatore fin qui visionato se non gode di una sufficiente autostima. Si riesce, infatti, a descrivere e a non contraffare la realtà, a esprimere liberamente il proprio vissuto, a offrire il nostro ascolto in modo empatico a chi ci parla, a non cadere nella dinamica dei giochi descritti dall’Analisi Transazionale se non si è eccessivamente preoccupati di sé, di difendere con i denti l’apparire degni di stima e di un valore che non si riesce però a percepire.

L’autostima infatti è il valore che noi percepiamo di noi stessi; se ci valutiamo e percepiamo in modo positivo non temiamo di affrontare situazioni nuove e impegnative, di confrontarci e rivelarci agli altri, di esprimere noi stessi, di accettare più facilmente gli insuccessi o le critiche. Al contrario, chi nutre una bassa stima di sé farà in modo che questa sua inadeguatezza, il più delle volte solo percepita e non reale, non sia conosciuta dagli altri e quindi vive sulla difensiva: entra difficilmente in relazione, non esprime i propri pensieri, i propri sentimenti; non solo, ma se il sentimento di svalutazione nei propri confronti è marcato il soggetto cercherà di non assumere la responsabilità del proprio comportamento, dei risultati ottenuti, dei propri sentimenti, ma al contrario si considera vittima delle circostanze o degli altri. Come vedremo, senza una sufficiente autostima non si può essere assertivi, non si può cioè rispettare se stessi tenendo nello stesso tempo in giusto conto le esigenze degli altri. Vale però anche il contrario: se non si comincia a rispettarci, ad ascoltare ed esprimere in modo autentico i nostri desideri e le nostre emozioni, a metterci in gioco, la nostra autostima non riuscirà mai a crescere. Ma andiamo a guardare più da vicino le due protagoniste del

capitolo.

4.1. L’assertività

Comunicare in modo assertivo è un comportamento sociale che consente di raggiungere gli obiettivi prefissati senza creare situazioni di conflittualità e senza cedere totalmente alle richieste dell’altro.

In questo paragrafo, illustreremo tre tipi di comportamento relazionale e comunicativo: il comportamento aggressivo, il comportamento passivo e il comportamento assertivo.

Il primo è il comportamento aggressivo, dove il soggetto nella relazione cerca solamente di soddisfare i propri bisogni, affermando, più o meno implicitamente, il principio: «Io sono OK, sei tu che non lo sei».

Il comportamento aggressivo si caratterizza per il fatto di raggiungere i propri obiettivi calpestando i diritti altrui, utilizzando un atteggiamento difensivo e critico, esprimendo le proprie emozioni in modo incontrollato e con difficoltà a mettersi in discussione. Inoltre, chi è aggressivo non chiede scusa, vuole che gli altri si comportino come piace a lui, interrompe frequentemente l’interlocutore, tende ad essere colpevolizzante o interiorizzante e non cambia idea. Tutto questo per raggiungere il suo obiettivo che è “vincere” attraverso un’intimidazione, una svalutazione, un attacco nei confronti dell’altro. La comunicazione non verbale che attua è caratterizzata da voce altezzosa, arrogante o sarcastica, sguardo penetrante e freddo, mani sui fianchi, dito puntato, mani serrate. Tale comunicazione crea conflitto, spaventa e inibisce o suscita a sua volta aggressività, crea ostacoli alla trasmissione e alla comprensione del messaggio.

Il secondo comportamento è quello passivo, in cui si afferma una logica opposta rispetto a quello aggressivo. Infatti, il soggetto che adotta questo comportamento risponde ai bisogni dell’altro (e solo a quelli) in base al principio: «Io non sono OK, mentre tu lo sei». Chi adotta un comportamento passivo tende a subire, a essere dominato dagli altri. Il comportamento passivo si basa sull’evitamento di ogni conflitto, il subire le situazioni, la scarsa valutazione di sé e la ricerca continua dell’approvazione da parte degli altri. Le caratteristiche di questo comportamento sono: il non riconoscere e il non esprimere le emozioni provate (non si dà il permesso), l’adattarsi agli altri senza avere iniziativa, la mancanza di responsabilità e la disorganizzazione. Inoltre, esprime il bisogno dell’approvazione altrui e rivolge verso se stesso l’aggressività. L’obiettivo della persona passiva è “subire”, dare sempre spazio e ragione all’altro, evitare

responsabilità e conflitti, svalutandosi, lamentandosi, facendo la vittima, idealizzando gli altri. La comunicazione non verbale messa in atto è caratterizzata da voce debole, esitante, sguardo abbassato, distolto, atteggiamento incurvato. Tale comunicazione dà all’altro la possibilità di condurre la relazione a suo piacimento e svaluta il messaggio che non viene preso in considerazione dall’interlocutore.

Il comportamento aggressivo e quello passivo hanno anche degli aspetti in comune. Ad esempio, il fatto che entrambi non sono a contatto con se stessi, la bassa autostima, aspettative disfunzionali, il disagio e la complementarietà. Le emozioni comuni ad entrambi sono la paura (fuga/attacco), la rabbia, la vergogna e la gioia, anche se vissuta con difficoltà perché, come già detto, non sono in contatto con se stessi.

Il comportamento assertivo, invece, cerca di tener conto dei bisogni di entrambi, affermando il principio: «Io sono OK, ma anche tu lo sei». In sostanza, si tratta di rispettare i propri bisogni rispettando al contempo quelli dell’altro. Oltre al rispetto reciproco, gli obiettivi che ci si prefigge vanno dal costruire relazioni autentiche, al gestire le critiche, al decodificare le intenzioni e le emozioni nelle situazioni interpersonali. La comunicazione assertiva ha come caratteristica il fatto di essere veicolata dalla parola, dalla sfera non verbale e dal comportamento, l’essere chiara e diretta, centrata sulla persona e non giudicante. Chi adotta un comportamento assertivo tende a collaborare, stabilendo relazioni paritarie. Tale comportamento mira inoltre alla gestione del conflitto cercando di individuare soluzioni condivise e alla valorizzazione di sé e dell’altro. Il tipo assertivo si caratterizza per essere autorevole, ha una buona autostima, è responsabile di sé, rispetta i propri bisogni, è capace di ascoltare e ha un ascolto rivolto a se stesso e agli altri. Inoltre, è costruttivo, sa modulare le aspettative, ascolta gli altri, ma decide in modo autonomo, accetta un punto di vista diverso e ricerca la collaborazione.

L’assertività è un processo che si costruisce riconoscendo le emozioni e comunicandole, nel rispetto di sé e dell’altro, dandosi il permesso di dire di no, cogliendo gli aspetti positivi e, infine, con la capacità di decidere in modo autonomo e rispettoso. L’obiettivo della persona assertiva è cooperare, vincere insieme, senza sacrificare la propria personalità, né prevaricare quella dell’altro. La comunicazione non verbale è caratterizzata da un tono di voce fermo, caldo, ben modulato, sguardo diretto, aperto, franco, atteggiamento rilassato.

La comunicazione assertiva stabilisce una relazione paritaria e permette di comprendersi valorizzando i reciproci punti di vista. In sintesi, possiamo dire che tale comunicazione descrive fatti accaduti attenendosi a dati obiettivi, argomenta

in modo esplicito le sue richieste, motivandole sulla base di dati e vincoli obiettivi. Inoltre, esprime i propri bisogni, le proprie richieste e i propri sentimenti parlando di sé e non dell’altro, manifestando disponibilità alla ricerca di soluzioni che soddisfino i diritti e i bisogni dell’altro, nel rispetto, al contempo, dei propri diritti e bisogni.

In definitiva la comunicazione assertiva può essere considerata la buona comunicazione, di cui lungo il nostro testo abbiamo cercato di descrivere i passaggi, le modalità di svolgimento e le regole.

4.1.1. Tecniche assertive

La prima tecnica che ci accingiamo a illustrare è quella del disco rotto (o incantato), in cui ci si sente in diritto di dire di no, senza doversi giustificare. Facciamo un esempio: Andrea chiede a Sara di accompagnarlo a vedere un concerto, ma lei rifiuta.

Allora Andrea inizia ad essere colpevolizzante: «Certo di te non ci si può mai fidare, non me lo sarei mai aspettato... Ecco, mi dici sempre di no!».

Sara si afferma, non si giustifica; si dà la possibilità di dire di no senza sentirsi in colpa.

È una forma di protezione verso quelle comunicazioni nelle quali l’altro vuole farci cambiare idea, oppure vuole manipolarci.

Un’altra tecnica assertiva è l’annebbiamento (fogging). Un esempio di tale tecnica è il seguente:

Andrea: «È possibile che quando ho bisogno di te tu non sia mai disponibile?».

Sara: «Tu dici che quando hai bisogno di me non mi trovi mai, vero?».

In questo caso, Sara fa una parafrasi che non critica Andrea, ma glielo rimanda con l’interrogativo (vero?) lasciando spazio all’altro. Questo limita la possibilità di mettere in stato d’accusa la persona criticata.

È una tecnica che si focalizza quindi sul prestare attenzione a ciò che

l’interlocutore sta dicendo, non a quello che pensiamo che lui stia pensando. I dati sono quindi le parole dell’altro, non i suoi pensieri. La risposta automatica sarebbe quella del contrattaccare, oppure del formulare una risposta di tipo sarcastico e colpevolizzante.

Il prossimo è invece un esempio di asserzione negativa.

Andrea: «Ieri ti sei comportata male con Giorgio».

Sara: «È vero, ora me ne rendo conto, gli telefonerò per scusarmi».

In questo caso, Sara riconosce un proprio errore e trova una soluzione. Sara dimostra così di essere responsabile rispetto a quanto accaduto, e mostra disponibilità al cambiamento.

Infine, un’altra tecnica utilizzabile è l’inchiesta negativa.

Andrea: «Questa lettera non va bene».

Sara: «Per favore, mi puoi indicare dove non va bene?».

Con la sua domanda, Sara relativizza un’assolutizzazione di Andrea.

Si chiede all’altro di smorzare la tonalità emotiva con cui certe affermazioni vengono caricate per indicare con chiarezza quali sono gli elementi su cui si è in disaccordo.

I vantaggi di tali tecniche assertive sono diversi, come la riduzione dell’ostilità, la protezione dei confini, l’inserimento di un punto di vista mancante nel discorso, l’evitamento del giudizio, l’accettazione delle critiche costruttive e, infine, l’impedire la manipolazione.

Ci sono diverse situazioni in cui l’assertività è importante; di seguito ne elencheremo alcune. L’ascolto assertivo, ad esempio, che consiste nello stare di fronte alla persona che parla dandole un contatto visivo, facendo attenzione a ciò che viene detto fornendo feedback (cenni del capo), attendendo il proprio turno prima di parlare e dando importanza anche alla comunicazione non verbale, evitando ogni tipo di condanna.

Un’altra situazione in cui esprimere l’assertività è rappresentata dal far valere un proprio diritto violato. Si attua descrivendo sinteticamente e in maniera precisa i fatti a cui ci si riferisce, descrivendo brevemente anche ciò che si desidera. Da evitare, il dilungarsi in scuse e discussioni, le polemiche e i toni aggressivi. L’ultimo aspetto riguarda il rimanere strettamente sull’argomento, evitando di divagare.

Un’altra situazione possibile di applicazione dell’assertività è rappresentata dalla critica costruttiva. Come prima cosa, va identificato il problema che ha creato il disagio, la persona con cui parlarne facendo una critica senza aggredire l’altro o entrare in polemica.

In definitiva, possiamo concludere affermando che la comunicazione assertiva è uno strumento a nostra disposizione che ci può permettere una maggiore abilità comunicativa (ricordiamoci che buoni comunicatori si diventa, non si nasce), base di una vita psichica e interpersonale più sana.

Elementi della comunicazione assertiva.

4.2. L’autostima25

Come si diceva all’inizio del capitolo, l’autostima è il giudizio che noi percepiamo in noi stessi. Avere una buona stima di sé significa sentirsi serenamente adeguati alla vita, cioè competenti e meritevoli. L’autostima è un’esperienza intima: risiede nell’intimo del nostro essere. È quello che io penso e sento riguardo me stesso, non quello che di me pensano e sentono gli altri. Quando ci stimiamo sentiamo il bisogno di esprimere la nostra ricchezza interiore e di confrontarci con gli altri.

Le persone con bassa autostima, invece, sono “animate” da un senso di inadeguatezza, dal non sentirsi “abbastanza”, da un senso di colpa, vergogna o inferiorità, da una chiara mancanza di accettazione di sé. Per queste persone diventa più difficile portare avanti le proprie idee, esprimere i propri sentimenti e, in ultima analisi, entrare in relazione con gli altri. Spesso se la prendono molto se vengono criticate e tendono a dare poca rilevanza ai giudizi positivi che ricevono,

rimanendo focalizzate sui propri difetti reali o immaginari. Inoltre sono caratterizzate in molti casi da ambivalenza nei confronti delle valutazioni che giungono a loro dall’esterno. Da una parte prediligono valutazioni positive, a cui nella maggior parte dei casi, però, non credono perché rivolte spesso a quella facciata, adattata alle esigenze altrui; dall’altra desiderano una valutazione rispondente e coerente con il concetto che essi hanno di loro stessi e considerata più autentica. Prestano eccessiva attenzione ai propri difetti quando parlano con altri e attribui-scono i successi alla fortuna e gli insuccessi (o presunti tali) alle proprie mancanze. Ciò comporta anche una difficoltà nel godersi i propri meriti, una certa tendenza a darli per scontati, se non addirittura a non notarli. Infine chi ha una bassa stima di sé incappa in un circolo vizioso che lo porta attraverso profezie che si auto-avverano (ricordate? Ne abbiamo parlato all’inizio del nostro viaggio nel capitolo dedicato alla percezione), a prestazioni fallimentari che conducono ad attestare la valutazione negativa che egli ha di sé e quindi a perpetuare la propria bassa autostima.

Come si può vedere, e come dicevamo all’inizio, a chi non ha una buona stima di sé risulta assai difficile mettere in atto le strategie per una buona comunicazione come appunto la comunicazione rappresentativa, uno stile assertivo, e si abbandona invece a uno stile comunicativo il più delle volte passivo oppure a quello aggressivo (due facce della stessa medaglia).

4.2.1. Alle radici dell’autostima: si riceve o si ottiene?

La nostra autostima si forma fin dall’infanzia attraverso i messaggi che ci sono derivati dagli altri e in particolar modo dalle persone di nostro riferimento e che con il passare degli anni sono diventate parte dei nostri pensieri e del nostro modo di sentire.

Vi ricordate le ingiunzioni, le spinte che i genitori e le varie figure di riferimento inviano a chi è affidato alle loro cure? Quando un bambino che poi diventa adulto riceve quelle ingiunzioni e spinte magari contraddittorie (come: non riuscire o, semplicemente, non fare nulla e sii perfetto) che lo portano nella posizione esistenziale di non sentirsi OK, in lui non può che essersi generata una bassa autostima. Sono nella medesima situazione, anche se apparentemente sembra il contrario, coloro che si percepiscono OK a patto che abbiano qualcuno da salvare o denigrare (coloro che assumono il ruolo del Salvatore o del Persecutore) perché, come abbiamo già detto, in questi casi si ha valore ai propri occhi nella misura in cui c’è qualcuno che vale di meno.

Ci sono quindi degli elementi che ostacolano la formazione di una sana autostima che sono fuori del nostro controllo finché siamo nell’età dell’infanzia, ma è anche vero che nell’età giovanile e adulta abbiamo sempre la possibilità di scegliere quello che vogliamo essere, accogliendo il nostro passato, ma lottando contro i condizionamenti negativi che ci portano a comportamenti e modi di essere controproducenti.

Secondo la filosofia dell’Analisi Transazionale ognuno può, se vuole e con gli opportuni aiuti a seconda del caso, prendere in mano la propria vita e scegliere cosa farne. Si deve aggiungere che l’autostima si struttura e ha origine dal nostro modo di interpretare la realtà e quello che ci succede e di considerare le valutazioni che provengono dall’esterno, dalle competenze e dai successi che via via si acquisiscono, dai feedback che ci arrivano...

Non è quindi una percezione statica e impossibile da modificare, ma un modo di sentire che continuamente si ristruttura nel corso della vita e che noi possiamo migliorare o deteriorare.

4.2.2. Alla ricerca dell’autostima perduta

Quando si percepisce di non aver stima di sé si deve innanzitutto prendere consapevolezza delle valutazioni svalutanti ricevute attraverso il linguaggio verbale e non (come: te l’avevo detto che non ci saresti riuscito, non sei portato per nulla, non ce la puoi fare, non vai bene, non ci riesci, è troppo difficile per te...) che abbiamo introiettato nel corso della nostra vita, assimilando quello che ci veniva detto dalle figure di riferimento e che consideravamo importanti. Se nelle prime fasi della nostra vita non potevamo che accogliere passivamente le valutazioni altrui, nel corso della giovinezza e dell’età adulta possiamo prenderne le distanze e reagire a quella voce interna, eco di tutte quelle voci ritenute da noi importanti, che ci ripete nelle più svariate situazioni della vita quanto noi siamo inadeguati a raggiungere determinati obiettivi, a instaurare relazioni profonde e durature, o che non siamo mai abbastanza competenti per svolgere i compiti che ci vengono affidati o mai abbastanza degni di ricevere affetto e amore. Il secondo passaggio è scorgere in noi e nella realtà che ci circonda aspetti positivi, anche se ci appaiono piccoli, e assaporarli giorno dopo giorno (magari stiliamo un piccolo elenco delle nostre qualità, quelle che pensiamo di avere, fosse pure una, e quelle che ci vengono riconosciute dagli amici); dovremmo ricordarci che ciascuno di noi è “unico” e il bello della vita è che ognuno diventi sempre più se stesso. Altro compito da assumersi è quello di non sfuggire ma affrontare quelle situazioni, o quei compiti che noi avvertiamo importanti per la nostra crescita, o per la riuscita del nostro lavoro26, prestando attenzione di non porci obiettivi o traguardi irrealistici, cioè non rispondenti ai dati della realtà di quel momento riguardo i

nostri bisogni, desideri, competenze. Dobbiamo, infatti, fare attenzione anche alle famose “spinte” ricevute all’inizio della nostra vita che potrebbero appunto spingerci sempre alla perfezione, a non analizzare i dati reali, del qui ed ora e a porci mete, in questo modo, lontane dalle nostre possibilità che ci porterebbero al fallimento di quanto abbiamo intrapreso; il fallimento a sua volta andrà ad alimentare il nostro senso di inadeguatezza, la nostra scarsa autostima che a sua volta, in un circolo vizioso, ci porterà a intraprendere con poco impegno o con l’idea «tanto non riuscirò mai...» quanto ci proponiamo di fare destinandoci a un nuovo fallimento.

Altri elementi fondamentali per l’autostima sono: riconoscere i nostri valori più importanti che vorremmo trasmettere a chi ci sta attorno e cercare di incarnarli nella nostra vita, intrecciare relazioni autentiche e profonde in cui non si ha paura di mostrare in tutto e per tutto chi siamo e nello stesso tempo condividere il nostro io più intimo, trovare il senso della propria esistenza e della propria unicità27.

Una buona autostima in definitiva si raggiunge conoscendo se stessi ed esprimendo quello che noi siamo attraverso il lavoro, i nostri interessi e una comunicazione in cui possa trovare spazio il mio mondo e quello dell’altro: possiamo dire che una buona autostima e una buona comunicazione come l’abbiamo descritta fin d’ora sono interdipendenti e che entrambe sono alla base di quel precetto evangelico che invita ad amare il prossimo come se stessi. Da dove, infatti, ci può provenire la motivazione e la forza di amare l’altro se ci percepiamo in modo negativo e non ci sentiamo degni d’amore? Il servire l’altro, in questo caso, può essere solo il modo per ottenere la sua approvazione o attirare la sua attenzione o per agganciarlo in un gioco inteso nell’ottica dell’Analisi Transazionale in cui si assume il ruolo del Salvatore o della Vittima sacrificale.

D’altra parte, la nostra autostima si alimenta stando in contatto con gli altri, attuando forme di comunicazione autentica e secondo le modalità che qui abbiamo cercato di elencare e approfondire.

Non solo, ma se si ha qualche ruolo educativo e si vuole promuovere l’autostima di chi siamo chiamati ad educare è bene aver assimilato e attuare quanto abbiamo scoperto lungo questa nostra esplorazione della comunicazione28 che andremo a riepilogare in breve nel prossimo capitolo.

25 Uno strumento agile e divertente su questa tematica è il Quaderno d’esercizi per l’autostima di R. Poletti ~ B. Dobbs, Vallardi editore, Milano 2010.

26 Cfr. R. Poletti ~ B. Dobbs, Quaderno d’esercizi per l’autostima, cit., pp. 34-

37. Le due autrici sottolineano come anche una mancanza di disciplina, il procrastinare continuamente gli impegni intacchi l’autostima. Esse invitano a contrastare questo atteggiamento attivandosi e cambiando il proprio pensiero tendente alla pigrizia (adesso non ne ho voglia) in un pensiero energico, corroborante e attivo (adesso inizio e mi sento pieno di energia) per poi premiarsi congratulandoci con noi stessi.

27 La logoterapia, nota in tutto il mondo come la “Terza Scuola Viennese di Psicoterapia”, si fonda sul principio che ogni uomo in ogni circostanza può trovare un senso della propria esistenza, anzi è chiamato a trovarlo: in caso contrario può piombare in una vita vuota e sterile. A questo proposito Viktor Frankl, fondatore della logoterapia, scrive nel testo Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, pubblicato in Italia da Morcelliana: «[...] non è l’uomo, così ci esprimevano, a porre delle domande circa il senso della vita. È vero piuttosto il contrario: è l’uomo adesso interrogato ed è lui che deve rispondere alle domande che la vita gli pone. Solo che tale risposta si realizza sempre “nell’azione”: unicamente nell’attività è possibile rispondere realmente alle “domande della vita”. Ne segue che ogni risposta si fonda sempre sulla responsabilità connessa all’esistere. L’esistenza è effettivamente “nostra”, allorché ce ne assumiamo la responsabilità. Tuttavia la responsabilità dell’esistenza non si manifesta soltanto attraverso l’agire. Essa si attua unicamente “adesso e qui”, nella concretezza dell’unicità della persona e delle sue irripetibili situazioni. In tal modo la responsabilità dell’esistenza va sempre riferita sia ad personam che ad situationem» (p. 32). Come si vede, anche la logoterapia come l’Analisi Transazionale si fonda sulla responsabilità personale di coltivare la propria esistenza per far emergere tutto il potenziale che vi si trova: in questa azione si trova il principio dell’autostima.

28 A proposito di questa tematica consigliamo di andare a rileggere il paragrafo 6 del terzo capitolo, specialmente nel punto in cui si indicano per ogni stato dell’Io gli ambiti da promuovere attraverso le carezze. Per un ulteriore approfondimento cfr. il testo già citato R. Poletti ~ B. Dobbs, Quaderno d’esercizi per l’autostima.

EPILOGO

Istruzioni per il grande viaggio nella comunicazione

Siamo giunti in fondo alla nostra esplorazione del pianeta comunicazione.

Sappiamo che è stata una visita veloce, non frettolosa però, e che di qualche ambito anche importante ci siamo accontentati di vederne uno scorcio; l’importante è che ci sia rimasta la voglia di ritornare a visitare tali luoghi, magari sostandovi un po’ di più con qualche altra pubblicazione che approfondisca un determinato aspetto dell’azione comunicativa.

La nostra speranza è che questo testo possa educarci a trasformare le nostre relazioni in luoghi di incontro autentico e non di battaglie, in cui non ci sono vincitori o vinti ma solo feriti e perdenti.

Prima di lasciarci vorremmo stilare una serie di istruzioni simili a quelle che si trovano nei giochi in scatola. Queste istruzioni del grande “viaggio” della comunicazione vogliono essere un piccolo promemoria di quanto abbiamo appreso, visitato e (speriamo) gustato durante l’itinerario di questo nostro testo.

Scopo del viaggio

Vivere bene comunicando bene e comunicare bene per vivere bene.

Da ricordare che bene non significa senza intoppi o difficoltà ma con la serenità di persone autentiche, trasparenti, in armonia con sé e con gli altri, nonostante le tante tempeste delle arrabbiature, del cattivo umore, delle incomprensioni con gli altri che ci accompagnano lungo tutta la nostra vita.

Dotazione del viaggio

Una buona dose di responsabilità.

Pazienza con se stessi e con gli altri.

Voglia di metterci in gioco.

Volere veramente bene a se stessi.

Ricordarci che l’altro è importante per una vita ben vissuta.

Ricordarci che noi siamo importanti affinché gli altri possano vivere bene.

Preparazione del viaggio

Essere consapevoli che non possiamo non comunicare e allora ci conviene farlo nei migliori dei modi.

Prendere consapevolezza del fatto che non è così immediato non distorcere la realtà. Il veleno di stereotipi, pregiudizi, effetti alone, pigmalione, ecc. è sempre in agguato e può contraffare la realtà.

Ricordarsi che non si comunica solo con le parole ma anche con i gesti, gli sguardi, gli occhi, la postura, l’intonazione della voce.

Succede che con le parole inviamo un messaggio e che con gli altri canali non verbali o paraverbali ne mandiamo un altro, a volte perfino contrario.

Rammentare che in noi stessi e negli altri c’è un continuo dialogo tra le varie istanze che ci derivano dai tre stati dell’Io descritti dall’Analisi Transazionale.

Essere consapevoli che per noi è vitale essere e sentirci riconosciuti: se non ci sentiamo degni di ciò avviamo modalità di comunicazione (i giochi nell’ambito dell’Analisi Transazionale) che ci permettono di raggiungere l’obiettivo, anche se non in maniera autentica e attraverso scambi comunicativi in cui alla fine si è tutti perdenti, perché si capisce che l’obiettivo è stato raggiunto solo apparentemente.

Come si viaggia

Occorre essere precisi e puntuali nella descrizione dei fatti o nelle richieste nei

confronti degli altri.

Prendersi la responsabilità di quello che si sente e si pensa (la famosa formulina: «Io mi sento...»).

Chiedere e dare sempre il feedback negli scambi comunicativi che riteniamo importanti.

Il feedback sia sempre improntato a restituire all’altro quanto egli voleva comunicare e non come un mezzo per offrirgli le nostre direttive, la nostra visione delle cose, ecc.

Ascoltare con attenzione ed empatia l’altro.

Offrire carezze positive ogniqualvolta ne vediamo l’opportunità.

Richiedere carezze in modo aperto e sincero.

Evitare i giochi (quelli descritti dall’Analisi Transazionale).

Essere autentici, rispettare se stessi e l’altro: quindi essere assertivi.

Fine del viaggio

Per alcuni come noi il viaggio non finisce mai, ma non sappiamo quali sorprese e con quali modalità andrà avanti questo grande, stupendo e meraviglioso cammino nel mondo della comunicazione.

... che fantastico viaggio è la vita!

BIBLIOGRAFIA

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INDICE

Prefazione (mons. Renzo Bonetti)

Premessa

1. COMUNICAZIONE!? COMINCIAMO DAI FONDAMENTI

1.1. Comunicare... perché?

1.2. Il modello lineare

1.3. Il modello circolare

1.4. Percezione della realtà e comunicazione

1.4.1. La percezione e i suoi effetti speciali

1.5. Il DNA della comunicazione

1.6. Una piccola sosta per assaporareil cammino compiuto

2. IL GALATEO DELLA COMUNICAZIONE

2.1. Breve introduzione

2.2. La comunicazione descrittiva

2.3. La comunicazione rappresentativa

2.4. Feedback

2.5. Il ruolo del ricevente

2.5.1. L’ascolto empatico e attivo

2.5.2. Fattori fondamentalidell’ascolto attivo

2.5.2.1. Tanti messaggi in un messaggio

2.5.2.2. Problemi di decodifica

2.5.2.3. Far emergereil messaggio implicito

2.5.3. Gli stili comunicativi

2.5.3.1. Tecniche non direttive

2.5.3.2. Stili inefficaci di comunicazione

3. L’ANALISI TRANSAZIONALE: NOI E LE NOSTRE RELAZIONI AL MICROSCOPIO DELLA PSICOLOGIA

3.1. Struttura della personalità e stati dell’Io

3.2. Come funzionano gli stati dell’Io

3.2.1. Lo stato dell’Io Adulto

3.2.2. Lo stato dell’Io Genitore

3.2.3. Lo stato dell’Io Bambino

3.3. Rafforzare e indebolire i propri stati dell’Io a piacimento

3.3.1. La costruzione dell’Egogramma

3.4. Le transazioni

3.5. Un dialogo ai raggi xdell’Analisi Transazionale

3.6. Ma perché dialoghiamo e comunichiamo? Le “carezze” uno dei motivi fondamentali

3.7. Ma ci servono le carezze? Sì, per tutta la vita

3.8. I giochi

3.8.1. Un gioco per una carezza

3.8.2. Ciak, si gira... una vita passataa recitare un copione

3.8.2.1. Come nasce un copione

3.8.2.2. Ingiunzioni e permessi

3.8.2.3. Spinte

3.8.2.4. Esempi di copioni esistenziali

3.8.3. Ritorniamo al gioco

3.8.4. A che gioco giochiamo?

3.8.5. Altri esempi di giochi

4. DALLA COMUNICAZIONE ASSERTIVA ALL’AUTOSTIMA: COMPIMENTO E RADICE DELLA BUONA COMUNICAZIONE

4.1. L’assertività

4.1.1. Tecniche assertive

4.2. L’autostima

4.2.1. Alle radici dell’autostima: si riceve o si ottiene?

4.2.2. Alla ricerca dell’autostima perduta

EPILOGO

Istruzioni per il grande viaggio nella comunicazione

Bibliografia

Alberto D’Auria è psicologo, psicoterapeuta, counselor educativo, operatore di Training Autogeno ed esperto in processi comunicativi.

Si è laureato in Psicologia Clinica e dell’Educazione presso UPS (Università Pontificia Salesiana); ha inoltre conseguito la laurea in Scienze Politiche ad indirizzo politico-sociale e varie specializzazioni in campo psico-pedagogico.

È vice-presidente della SIPsi (Società Italiana di Psicologia e Psichiatria) per la regione Veneto. Esercita la professione di psicologo clinico ad indirizzo psicodinamico, e tiene seminari e corsi di formazione su tutto il territorio nazionale.

È autore di numerosi articoli e trasmissioni radiofoniche su argomenti psico-educativi. Ha scritto Il caso di Cinzia, in P. Causin ~ S. De Pieri, Disabili e rete sociale, Franco Angeli, Milano 2006. Per ulteriori approfondimenti consultare il sito web www.studiopsicoeducativo.it.