abitare le culture

68
Marina Mannucci Abitare le culture Antologia degli articoli (2009-2011) pubblicati sulla rivista Editore

Upload: reclam-edizioni-e-comunicazione

Post on 31-Mar-2016

237 views

Category:

Documents


1 download

DESCRIPTION

Rassegna stampa degli articoli pubblicati dal 2009 l 2001, sulla rivista Trovacasa Premium, della rubrica di Marina Mannucci

TRANSCRIPT

Page 1: Abitare le culture

Marina Mannucci

Abitare le culture

Antologia degli articoli (2009-2011) pubblicati sulla rivista

Editore

ABITARE CULTURE cri 31-05-2011 10:07 Pagina 1

Page 2: Abitare le culture

RAVENNAVia M. Monti, 32 _ Bassette

Sede LegaleBAGNACAVALLOVia F.lli Bedeschi, 9

FAENZAVia S. Giovanni Battista, 11

La pubblicazione è stata realizzata grazie al contributo di:

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 22:06 Pagina 2

Page 3: Abitare le culture

fotografie di Alberto Giorgio Cassani

testi di Marina Mannucci

Abitare le culture

Antologia di articoli tratti dalla rivista dell’abitareTrovaCasa Premium - Ravennasettembre 2009 > maggio 2011

è una pubblicazioneED I Z I ON I E C OMU N I C A Z I O N E

ABITARE CULTURE cri 31-05-2011 10:11 Pagina 3

Page 4: Abitare le culture

Via Cassino, 69/BCell 393 9169427

P.zza Medaglie D’Oro, 4Cell 328 1455130

ASSOCIAZIONE MOLDAVA ROMENA

STUDIO DENTISTICODott. Marius Datcu

Non più viaggi all’estero per una soluzioneeconomica con la qualità italiana.

Via Car. Bezzi 24 - Santerno (RA)Tel. privato: 346 2297191

Per appuntamenti: 393 6616236

S.V.E.M.di MESSINA EMANUELE

Via V. E. Orlando n.10/12

[email protected]

Ringraziamo per il sostegno anche:

Questo fascicolo è stato ideato e pubblicato in occasione della Va edizione del

Artificerie Almagià - Ravenna - 3, 4, 5 giugno 2011

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 22:06 Pagina 4

Page 5: Abitare le culture

Viaggio nella sua etimologia latina è viaticum,cioè “alimenti necessari per compiere la via”, ciòche si consuma durante il viaggio. Il viaggio,potremmo dire, è ciò che lo alimenta. Partire inve-ce deriva dal sostantivo pars, partis, cioè parte,frazione. Quindi separazione e distacco, terminifacilmente applicabili alla morte e alla nascita.Dalla stessa radice si origina il verbo latino pare-re, cioè partorire. La morte e la nascita. Allo stes-so modo la casa del migrante è un punto di arrivoma anche di partenza.La parola ospitalità deriva dal latino hospitemcioè colui che riceve lo straniero. Parola compostada hostis “straniero” e potis “padrone”. Dallastessa radice deriva un altro termine italiano disegno diametralmente opposto: ostilità.Hostis è lo straniero che può essere accolto comericchezza, la ricchezza di chi ha viaggiato e quindiha qualcosa da raccontare per fecondare la comu-nità chiusa o temuto come pericolo. Pericolo dellaparola che ha il potere di destabilizzare un ordinecostituito. Viaggiare in lingua araba si dice safara da cui ilviaggio safar (safari in italiano), questo termine haradice comune con sifr, cioè libro, sempre dallastessa radice safir (= ambasciatore) quindi in defi-nitiva che porta con sé storie e messaggi e alquale non si può negare l’ospitalità, almeno fin-ché non ha finito di narrare le storie di cui è porta-tore, ospite al quale si deve dire in segno di bene-venuto: ahlan wa sahlan, contrazione dell’anticaforma: gi’ta ahlan wa wati’ata sahlan (sei appro-dato fra i tuoi parenti e la tua strada è stata tuttapianura).Tutto ciò non è dissimile dall’ambiguità semantica racchiusanella parola italiana “ospite” che rende difficile distinguerecolui che riceve e colui che è ricevuto, ambiguità che ponesullo stesso piano di valore colui chi narra e colui che ascol-ta.Marina Mannucci ha scelto di intitolare questa serie di artico-li, ora racchiusi in questa unica pubblicazione, “Abitare le cul-ture”. Un titolo che è un autentico dono: io abito in Italia conla mia cultura e la cultura abita in me come una secondainfanzia. Leggendo infatti questi articoli ci accorgiamo che la

casa è sempre un nido che protegge, mai una conchiglia cheisola: «Se la casa risponde al bisogno primario di mettereordine in contrapposizione al caos esterno, per Samir la suadimora di Piangipane è una superficie artificiale che, se purisola la sua famiglia in uno spazio di intimità condivisa, nonesclude gli elementi esterni, lasciando anzi che vi penetrinosia materialmente che simbolicamente. La sua storia, i suoiricordi, sono ormai quasi completamente legati all’Italia,paese che lo ha accolto ed in cui ha mescolato il passato conil presente. I luoghi e quindi la casa per il migrante diventanospesso cantieri, fucine in cui si forgiano incessantemente i

di Tahar Lamri

Lo scrittore di origini algerine Tahar Lamri.Vive e lavora a Ravenna dalla fine degli

anni’80, dove è direttore artistico del Festival delle Culture

«Tutte le rifiniture in questa casa sonoopera di Angelica»

5

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:19 Pagina 5

Page 6: Abitare le culture

6

ricordi, attraverso il racconto di sé nel tempo, ricomponendoframmenti di mondi che, se pur sommersi, sono sempre emo-tivamente vigili», dice Marina nella solitudine della scritturache non è più solitudine dopo aver conosciuto i bambini diSamir.C’è la dolce amicizia di Joanna, le antiche leggi dell’ospitalitàdi Arijon, l’eloquenza e la spiritualità di Mamadou che si fachimare Billy, dove l’autrice penetra in un mondo maschile esi meraviglia dell’assenza totale di ostilità. «Abitare le culture, andare oltre, cambiare lo sguardo.Approfondire, raccontare la storia e le storie, bypassare lachiacchiera, il pettegolezzo, la maldicenza, demolire i pregiu-dizi e denunciare le ingiustizie», ci lancia come una sfidaMarina. Sfida che può raccogliere soltanto il fotografo discre-to che la accompagna, Alberto Giorgio Cassani. C’è la magia dell’incontro con Carla Indira e come no? Lei cheviene dal Brasile, sa che la vita è l’arte dell’incontro come diceVinicius De Moraes. Lo conferma Oliver, rifugiato dalCamerun, il quale con un sorriso ti dice: «Il Camerun è unmondo in miniatura». Meho che ha il dono di farsi amare aprima vista, giovane tutto italiano e tutto macedone, padronedi casa in un momento di assenza dei genitori, che ti fa capi-re con lo slancio tipico della sua età che il futuro è già qui.Oppure Timo che dal lontano Bangladesh introduce aRavenna il badminton e il cricket. A casa di Angelica, Marinatrova una donna che è la sintesi della forza e della femminili-tà. Ha costruito la sua casa di Piangipane con le sue mani,mattone su mattone, pensando, mentre la costruiva, a impa-rare il mosaico per arredarla e decorarla, tesserla, come face-vano gli antichi a Ravenna ma anche perché «l’uomo è soltan-to un filo nel tessuto di tutti gli esseri viventi che laPachamama tesse». Poi ci sono Alina, Mahomi, Margarita e la “casa” dei senza

casa. I greci dicevano che lo straniero è atopos, senza luogo,la sociologia moderna ci dice che è doppiamente assente,eppure queste sono storie di luoghi e di presenza tangibile.Storie di luoghi dell’anima anche, di paesaggi che ci portiamoimpressi nei più reconditi recessi dell’anima: come i boschi ele foreste di Alina. Mi sorprende una foto scattata nella miacasa: ci sono due teiere, un libro aperto e un tbag, un cestinoper il pane, colorato, fatto più di trent’anni fa, fra una gravi-danza e l’altra da mia madre. Lo riconosco come se mi giun-gesse da un recesso della memoria, lo riconosco come se nonfosse mio, ma soltanto simile al mio. Però, vedo, in questafotografia scattata da Alberto, mia madre comprare la lanagrezza, lavarla, cardarla. Mi rivedo aiutarla a fare i fili, colorar-li con colori vegetali, vedo il tbag farsi sotto i miei occhi gior-no dopo giorno, con l’ago, la lana e l’alfa, una pianta deldeserto. Lo rivedo a Ravenna come compagno di una remotainfanzia o di una seconda infanzia. «Ma è l’atmosfera a con-traddistinguere questi spazi vissuti: la presenza, se purimpalpabile, della storia di questa famiglia», mi dice Marina.Abitare come estensione di un abito nel quale si scivola, comeun involucro che ci protegge oppure come ci insegna l’etimolo-gia della parola: habitare, da habere che nel senso proprio vale«continuare ad avere» o domicilio, domicilium da domus, casa,luogo d’abitazione, dimora e cilium dallo stesso tema del verbocelare, nascondere, coprire (cilium, ciglio, che copre l’occhio),dalla radice ki, ci, ossia, giacere, abitare, che è nel latino ci-vis,cittadino, qui-es, quiete, nel gotico hai-mas, villaggio, hei-va,casa, chi-wo coniuge, hi-wa moglie) nell’antico slavo po-ci-ti,riposare, po-koj, lit. pa-ka-jus, riposo. Tutte le declinazioni possibili sono racchiuse in queste storiedove la casa non sono soltanto mura, ma Heim e dove «Tuttele rifiniture in questa casa sono opera di Angelica», ci informaMarina.

«Abitare le culture, andare oltre, cambiare lo sguardo. Approfondire, raccontare la storia e le storie, bypassare la chiacchiera, il pettegolezzo, la maldicenza, demolire i pregiudizi e denunciare le ingiustizie», ci lancia come

una sfida Marina. Sfida che può raccogliere soltanto il fotografo discreto che la accompagna, Alberto Giorgio Cassani.

Leggendo questi articoli ci accorgiamo che la casa è sempre un nido che protegge, mai una conchiglia che isola

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:20 Pagina 6

Page 7: Abitare le culture

abitare

le c

ultu

reTrovacasa - settembre 2009

12

di Marina Mannucci

«Forse è questa l’operazione che ci manca: capire che l’altro èuno specchio, non un dannato della terra che viene a distruggere le nostre “radici”, la nostra civiltà».

Tahar Lamri

Fin dai tempi delle grandi migrazioni (così viene identi-ficato nei testi scolastici di molti stati europei il periodoche invece da noi, ahimé, troviamo sotto il nome diinvasioni barbariche), popoli di culture diverse, oltre adappropriarsi di alcuni luoghi delle città, hanno usufrui-to ed usufruiscono tuttora anche di alloggi. Le case diqueste persone non sono però costituite solo dai muri edalle rispettive comunità, ma sono il risultato dell’inte-razione tra materia e cultura, oltre che dall’insieme delleloro aspirazioni, abitudini e costumi.Questo ciclo di ricerche ha come obiettivo l’abitare aRavenna di persone originarie di differenti paesi del

mondo; in particolar modo mi propongo di delinearnele modalità attraverso cui vivono gli spazi privati del ter-ritorio. In alcuni articoli, potranno ricorrere riferimen-ti alla situazione politica ed economica dei paesi di ori-gine, indispensabili ad una maggiore consapevolezzadell’impatto della storia collettiva sulle vicende dei sin-goli. Lo spazio cui si fa riferimento, in questo caso, vieneinformato dalla presenza di individui, soggettività flui-de, portatori di cultura e di nuove e vivide reti di relazio-ni. Uno spazio elaborato ed esperito a partire da rappre-sentazioni fisiche e percezioni mentali: uno spazio vis-suto.

«Superiorità? Inferiorità? Perché non cercare semplicemente ditoccare l'Altro, di sentire l’Altro, di rivelare l’Altro?

La mia libertà non mi è dunque data per edificare il mondo del Tu?

Qualsiasi problema umano deve essere preso in esame a partire dal tempo. L’ideale infatti è che, sempre, il presente,

serva a costruire l’avvenire».?Franz Fanon

Abitare le cultureParte una ricerca in più puntate sugli spazi domestici privati e di relazione

dei migranti che risiedono nel nostro territorio

7

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:20 Pagina 7

Page 8: Abitare le culture

abitare le cultureTrovacasa - settembre 2009/Mannucci - A casa di Joanna

«Ogni lingua che impari è una nuova vita che incominci…»

Proverbio polacco

A Joanna, sorella del mio cuore

La mia amica Joanna abita da tre anniall’ultimo piano di uno degli alti edifici incemento armato, ubicati in fondo a viaRubicone. L’appartamento ammobiliato,che ha in affitto, occupa uno spazio dicirca 70 mq. Per Joanna, di origine polac-ca, stabilitasi a Ravenna da ormai noveanni, è stata una scelta importante decide-re di vivere in questo appartamento. Il timore di non riuscire ad affrontare ilcarico economico di un tale impegno, mal-grado la serietà nel lavoro che le ha sempreassicurato l’autonomia economica daquando si è trasferita in Italia, le ha fattotrascorrere alcune notti insonni. La mancanza di un familia-re a cui poter far riferimento in caso di bisogno e lo statusgiuridico di cittadina straniera, se pur regolarizzata secondole normative vigenti sul territorio italiano, le provocano spes-so un lacerante senso d’improvvisa paura. «Angoscia e nostalgia sono parte del destino dello stranieroche, non conoscendo le strade del paese estraneo, girovagasperduto.

Alcuni ambienti della casa di Joanna.Nella pagina a sinistra, le foto di famiglia in soggiorno.

Sopra, un particolare della stanza da bagno.Tutte le immaginidel servizio sono di Alberto Giorgio Cassani.

A casa di Joanna 70mq. in via

Rubicone a Ravenna

8

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:20 Pagina 8

Page 9: Abitare le culture

abita

re le

cul

ture

Trovacasa - settembre 2009/Mannucci - A casa di Joanna

Ordine e pulizia regnano sovrani a casa di Joanna...Sopra, la cucina “abitabile”;nella pagina a fianco, l’ingresso dell’appartamento.A pagina 17, due scorci del soggiorno e della camera da letto.

Se poi impara a conoscerle troppo bene, allora dimenticadi essere straniero, e si perde in un senso più radicale perché,soccombendo alla familiarità di quel mondo non suo, diven-ta estraneo alla propria origine» (Umberto Galimberti,Paesaggi dell’anima). Infine, ha prevalso in Joanna quellaforza arcaica che contraddistingue molte delle donne migran-ti dall’est: donne cariche di emozioni, di speranze e di appar-tenenze, di paure e di timori. Donne che, nei paesi che leaccolgono, diventano spesso promotrici di nuove strategie divita, avviando così innovative modalità di pensiero e di azio-ni che a loro volta testimoniamo e documentano il fenome-no migratorio contemporaneo. È utile sapere che, in genera-le, molte di queste donne che arrivano nel nostro paesehanno già avviato un processo di emancipazione e di affran-camento da situazioni di chiusura e di isolamento entro lemura domestiche, e quindi partono per ottenere una qualcheaffermazione umana. «L’immigrazione – afferma del restoTahar Ben Jelloun – è una rottura, una lacerazione dei riferi-menti della memoria, è un brutale cambiamento di esisten-za. Non si lascia la propria terra, non si intraprende quelviaggio per piacere». Molte donne partono dunque dall’estdell’Europa con una specifica qualifica professionale che inItalia non viene riconosciuta, ma proprio l’elevato grado diistruzione, oltre alla religione prevalentemente cattolica, lasimilitudine delle caratteristiche somatiche con le donne ita-liane favoriscono il loro inserimento nel settore assistenzialee domestico. Questa specificità lavorativa ha portato allanascita di stereotipi diffusi che vedono nelle donne dell’estuna predisposizione per i lavori di “cura”, quasi come si trat-tasse di un’inclinazione naturale di origine “etnica”. In real-tà, queste donne diventano, perlopiù, badanti perché questogli riserva il mercato del lavoro. Ma torniamo alla casa di Joanna: entrando, un singolareingresso, inutile da un punto di vista pratico, ma creativo perquanto riguarda l’irregolare geometria dello spazio, accoglie ilvisitatore. Con maestria, Joanna ha neutralizzato l’inevitabi-le anonimato dei mobili trovati in affitto, circondando dioggetti e piante questo primo locale adibito all’accoglienza.Su questo spazio si affaccia una piccola cucina, illuminata dauna finestra orientata ad est, che immette nella stanza unenergico ventaglio di luce. Ordine e pulizia – in questoambiente, come del resto in tutta la casa – regnano sovrani;una stufa a gas anni Novanta, pensili in formica bianca, unpiccolo tavolo rettangolare accostato al muro e rifinito da tresedie scompaiono sommersi dal verde lussureggiante di pian-te di ogni genere. Se è vero che Joanna non ha un debole par-ticolare per l’arte culinaria, ha sicuramente un’innata predi-sposizione per la cura delle piante, che realizza con semplicigesti di attenzioni quotidiane e di pazienza verso qualsiasiforma di vita vegetale; la sua e un’inconsapevole disciplinaestetica che le permette di evocare sia la forza della natura,che lo scorrere del tempo. La cucina polacca è in ogni casoabbondante e sostanziosa: un detto popolare recita «Jedzcie,pijcie, i popuszczajcie pasa» («mangiate, bevete e allentate lacintura»). Abbondano la carne e la cacciagione, dense zuppe,salse e una grande quantità di patate e ravioli. Gli aromi piùutilizzati sono la maggiorana, l’aneto e i semi di cumino.Sull’ingresso si affaccia anche una luminosa sala rettangola-

re, con vista panoramica sulla zona est di Ravenna. Oltre adun tavolo ricevuto in dono, il resto dei mobili d’arredo sonoun divano in stile moderno, un mobile basso e lungo su cuipoggiano televisore, videoregistratore e componenti Hi-Fi.Gruppi di cornici e di soprammobili riempiono il rimanentespazio d’appoggio del mobile, che con metodica costanza epremura viene spolverato. Le immagini delle fotografie nonsono solo dei parenti e dei figli rimasti in Polonia ma anchedi persone care conosciute in Italia, a Ravenna; ci sonoanch’io, e questo mi ha fatto sorridere. Joanna, però, mi haspiegato l’importanza di questa sua scelta: queste immaginiraccolte e riunite creano un ponte, una continuità tra passa-to e presente e le danno sicurezza e forza. Gli oggetti, tanti,sono perlopiù pezzi di artigianato polacco, che eccelle permanufatti di legno intagliato, pellame lavorato, incisioni dimetallo, icone votive, pizzi e centrini. Introduce alla zonanotte un corridoio cieco in cui domina un armadio a muroin legno impiallacciato, probabilmente anni Ottanta.Frontalmente, una porta introduce ad un semplice bagno,non privo però di ogni confort; tra il lavandino ed il muroJoanna ha inserito un mobiletto di bambù laccato bianco, dicui è giustamente molto orgogliosa: perché lo ha scelto, per-ché è suo e le appartiene, e perché è frutto del suo lavoro.

9

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:20 Pagina 9

Page 10: Abitare le culture

abitare le cultureTrovacasa - settembre 2009/Mannucci - A casa di Joanna

Nei cassetti di questo mobiletto si possono ammirare unamoltitudine di ampolle, boccettine, tubetti e creme: la passio-ne di Joanna! Anche in questo ambiente regnano ordine,pulizia e profumo di pulito. Infine eccoci arrivati alla camerada letto: è proprio come la camera dei miei genitori, intonsa,da guardare e non toccare, da riordinare in fretta la mattinae non sfiorare più fino a sera e guai a sedersi sul copriletto inpizzo munito di cuscini! Ma il pezzo forte, mi fa notareJoanna, è il televisore piatto, regalo di una cara amica: indi-spensabile compagnia nelle lunghe serate invernali in cui,stanca, torna dal lavoro.

«Siamo come uccelli che dormono nei nidiSui pentagrammi

Ci vuole uno che conosca il mistero Del nostro volo».

Leszek Dlugosz, Le note

Joanna è nata ed ha studiato a Sandomierez, una delle cittàpiù antiche della Polonia, situata a sud della regione diSwietokrzyskie (Santa Croce). Posizionata in una zona col-linare e non lontana da riserve naturalistiche,Sandomierez è bagnata dai fiumi Vistola e San, fonti pri-marie di prosperità economica e commerciale. L’assettourbano medievale, i numerosi monumenti che presentanointerventi d’arte gotica, i palazzi arricchiti da affreschibizantini e i musei con collezioni artistiche di notevoleinteresse hanno reso questa città una piacevole meta turi-stica. La Polonia, stato dell’Europa centrale, ha un territorio incui vi sono più di una ventina di parchi nazionali che siestendono dal Mar Baltico a nord fino ai Monti Carpazi alsud. Il paesaggio è molto diversificato: litorali, laghi, palu-di, pianure e montagne. La scienza etimologica propone laderivazione del nome di questo paese da polè, che significacampo; ma è presente anche un’altra interpretazione, chefa derivare Polonia dai Polani, i suoi primitivi abitanti. Sitrattava di una tribù slava il cui capo, Mieszko I, si conver-tì al cattolicesimo poco prima del Mille, sottomettendo lepopolazioni circostanti.

Joanna è nata e ha studiatoa Sandomierez,

una delle città più antiche della Polonia

10

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:21 Pagina 10

Page 11: Abitare le culture

abita

re le

cul

ture

Trovacasa - settembre 2009/Mannucci - A casa di Joanna

Nel XVI secolo la Polonia era uno dei più ricchi e potentipaesi d’Europa e nel 1791 la Confederazione Polacco-Lituanadefinì la Costituzione Polacca di Maggio, la prima costituzio-ne scritta d’Europa. Poco dopo, la Polonia cessò di esistere percentoventitre anni e venne spartita tra Russia, Austria ePrussia. L’indipendenza venne riguadagnata nel 1918, inseguito alla Prima Guerra Mondiale, come SecondaRepubblica Polacca. La Polonia attuale deve le sue frontierealle decisioni dei leader della coalizione antihitleriana, fra il1943 e il 1945. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, divenneuno stato satellite dell’Unione Sovietica, conosciuto comeRepubblica Popolare Polacca (Polka Rzeczpospolita Ludowa oPRL). Bisognerà attendere il 1989 perché i polacchi riprenda-no in mano il loro destino, sulla scia della rivoluzione diSolidarnosc e con le prime elezioni parzialmente libere. Nel1999 la Polonia è stata ammessa alla Nato e dal maggio 2004è divenuta Stato membro dell’Unione Europea. Nell’immaginario collettivo, la Polonia si colloca spesso inuna sorta di nicchia per specialisti: grigia, fredda, polverosa eantiquata, con solo un pizzico di fascino mitteleuropeo. Finoa quindici anni fa lo stereotipo del lavoratore era racchiusonell’immagine “dell’idraulico polacco” che compariva nellebarzellette e negli sketch dei cabaret: ed era simbolo di lavo-ro mal fatto, disonestà e arroganza. Oggi il lavoratore polac-co che si muove verso Occidente se la cava benissimo, e fondaimprese singole, offre i suoi servizi su Internet, trasforman-dosi in un simbolo dell’espansione, dell’iniziativa, dell’elasti-cità del libero scambio. Negli ultimi anni la Polonia è divenu-ta anche un mercato importante, offrendo il vantaggio di uncontenuto costo del lavoro che può far prevedere un aumen-to sia degli investimenti stranieri che delle imprese già pre-senti sul territorio. Gioca un ruolo favorevole il fatto che ilgoverno abbia recentemente varato un piano di sostegno del-l’economia in previsione dell’entrata nella zona euro nel2012. Un’attestazione di fiducia verso la Polonia è stata larecente elezione di Jerzy Buzek a Presidente del ParlamentoEuropeo.In Polonia sono nati Henryk Sienkiewicz, premio Nobel perla letteratura e autore del celebre romanzo Quo Vadis, MariaSklodowska Curie, insignita del premio Nobel per la fisica, imusicisti e compositori Chopin e Feliks Ignacy Dobrzynski, e,naturalmente, Copernico. La Polonia è anche la patria diautori di successo internazionale, protagonisti a pieno titolodella contemporaneità, come Zygmunt Bauman, sociologo efilosofo, Zbigniew Herbert, poeta del dopoguerra, WislawaSzymborska, poetessa e saggista, premio Nobel per la lettera-tura, Czeslaw Milosz, poeta e saggista, Stanislaw Lem, scritto-re, medico e filosofo, o Ryszard Kapuscinski, giornalista escrittore (per citare solo alcuni nomi tra i più noti). Semprepolacchi sono i registi di fama internazionale Andrzej Wajda,Krzysztof Kieslowski, Konrad Swinarski, Jerzy Jarocki, JanJakub Kolski e Feliks Falk.

Nulla è in regalo

Nulla è in regalo, tutto è in prestito.Sono indebitata fino al collo.

Sarò costretta a pagare per mecon me stessa,

a rendere la vita in cambio della vita.

È così che è stabilito,il cuore va reso

e il fegato va resoe ogni singolo dito.

È troppo tardi per impugnare il contratto.Quanto devo

Mi sarà tolto con la pelle.

[…]

L’inventario è preciso,e a quanto pare

ci toccherà restare con niente.

Non riesco a ricordaredove, quando e perché

ho permesso che aprisseroquesto conto a mio nome.

La protesta contro di essola chiamiamo anima.

E questa è l’unica voceche manca nell’inventario.

Wieslawa Szymborska

11

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:21 Pagina 11

Page 12: Abitare le culture

abitare

le c

ultu

reTrovacasa - ottobre 2009/Mannucci - Lo scrittore algerino

102

di Marina Mannucci

«Voglio brutale la mia voce, non la voglio bella, nonpura, non di tutte le dimensioni. La voglio lacerata daparte a parte, non voglio si diverta, perché parlo infinedell’uomo e del suo rifiuto, del suo marcio quotidiano,della sua spaventosa rinuncia. Voglio che tu racconti».Sono gli anni della guerra di liberazione dell’Algeria; leparole di Franz Fanon, segneranno le scelte future dimolti giovani e in qualche modo anche dello scrittore egiornalista Tahar Lamri, nato ad Algeri e residente aRavenna. Scontri urbani, attentati di guerriglia e direpressione segneranno la fine della presenza colonialefrancese nel Nord Africa e l’inizio dell’indipendenza. Lacultura algerina risente sia di una forte influenza isla-mica che della passata dominazione francese; ed

entrambe hanno sottoposto le popolazioni berbere,come i Kabili ed i Tuareg, a forzati tentativi di assimila-zione. Algeria (il cui nome deriva dall’arabo al-jazã’ir,“isola”), Marocco, Tunisia e Sahara occidentale costi-tuiscono il vasto Maghreb (in arabo al-Maghrib chesignifica “occidente”) delimitato a nord dalla costa delMediterraneo e a sud dal vasto e arido Sahara. Un“Grand Tour” di questo territorio è consigliabile a chi,desideroso di comprensione della storia dei luoghi, deipopoli o più in generale di altre culture, invece dilasciarsi corrompere dai racconti altrui, cerchi di ricucirela propria storia d’individuo nel mondo, la propria geogra-fia dell’anima, incontaminata da filoni di pensiero e daconvinzioni precostituite.

I bambini che buttano sette sassolini nel MediterraneoA casa di Tahar Lamri, giornalista e scrittore, nato ad Algeri e residente a Ravenna

12

ABITARE CULTURE cri 31-05-2011 10:04 Pagina 12

Page 13: Abitare le culture

abitare le cultureTrovacasa - ottobre 2009/Mannucci - Lo scrittore algerino

11

«Il segreto della sopravvivenza sta nella mobilità. Perchi avanza nel deserto senza fine, in un immutabilescenario, non si tratta di un lungo vagabondaggio, mapiuttosto di una lunga dissidenza. Il deserto è la terradei ribelli e dei profeti»: così scrive Tahar nel suo libroI sessanta nomi dell’amore (Fara Editore). Ed ancora, inun’intervista, lo scrittore, racconta che ad Algeri, suacittà natale, i bambini in estate trascorrono liberi legiornate al mare e, prima di fare il bagno, lanciano nelMediterraneo sette sassolini. Questo gesto simbolicoracchiude un significato propiziatorio: dando da man-giare al mare, il mare non mangerà loro. Alla sera, le madri, al rientro dei loro figli, leccano leloro braccia per sentirne il sapore del sale; uno deitanti, degli infiniti modi di esprimere l’amore materno.Il ricordo di questi gesti, inscindibili dai luoghi dell’in-fanzia dello scrittore algerino, lasciano affiorare in luiuna sensazione di malinconica mancanza che viene bendelineata in un racconto in cui scrive di sentirsi similea un baobab. Questo albero, diffuso soprattutto inAfrica, quando è spoglio sembra avere le radici per aria– «anche le sue radici – scrive Tahar – sono in aria», sadi non appartenere a nessun luogo in particolare e diappartenere a tutti i luoghi che ha attraversato e che inun certo senso lo hanno attraversato. Le esperienze deiluoghi percorsi da Thar sono legate profondamente aisensi, agli odori, ai sapori, ai colori, alle consistenzemateriche di ciò che ha toccato e accarezzato e che avolte possono averlo ferito e a volte curato.

13

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:22 Pagina 13

Page 14: Abitare le culture

abita

re le

cul

ture

Trovacasa - ottobre 2009/Mannucci - Lo scrittore algerino

Di tutti i luoghi conosciuti dallo scrittore, ilMediterraneo rimarrà probabilmente il più emblemati-co; una metafora che si impone con forza, e che loobbliga a riconsiderare di continuo le relazioni umane,gli scambi culturali e sociali che vi si incrociano.Con la mia bicicletta, un po’ scassata, sfreccio veloceper via Canale Molinetto, imbocco una traversa sulladestra ed eccomi giunta da Tahar. La casa, nella formain cui si esprime all’esterno, nella scelta dei materiali,delle rifiniture, attraverso quindi un racconto formale,tramanda le tradizioni dell’abitare del territorio raven-nate, allo stesso modo in cui, una volta, di sera, i vec-chi raccontavano le loro storie intorno al focolare.Spesso l’inurbamento cancella questi segreti delcostruire, negando ai nuovi quartieri quell’armonia chederiva dall’umiltà (parola che deriva da “humus” edesprime un’affinità con la terra) e dai bisogni e deside-ri non tanto individuali quanto familiari.Prima di giungere alla soglia, attraverso un cortile, edappoggio la bicicletta ad un muretto. Tahar mi fa nota-re l’importanza dei muretti, piccole frontiere che deli-mitano le proprietà, che difendono le aree privateescludendole dalla fruizione pubblica e che ci obbliga-no, nel bene e nel male, a pensare a un mio e a un tuo.

Entrando in casa, un visitatore distratto potrebbe pen-sare di trovarsi in una delle tante case medio-borghesiravennati; bei mobili che assecondano la tradizione,tanti libri, soprammobili che definiscono la storia diquesta famiglia, confort tecnologici di ogni tipo. Delresto, come mi conferma Tahar, la casa è stata arredatada sua moglie Manuela, che, con maestria, ha curatoogni particolare. A ben guardare, in questi spazi siavverte però la presenza dello sguardo ricco, del fascinodi un’altra cultura, di altre tradizioni, che, senzamescolarsi arbitrariamente, si sono affiancate a quellepreesistenti. Queste prossimità hanno dato vita ad unabitare nuovo, creato e non subito.Entro e calpesto tanti bei tappeti – purtroppo midimentico di chiederne la provenienza... –, mi siedo suun comodo divano e ascolto, affascinata, i racconti diTahar. Il mio sguardo, anche se molto di sfuggita, siposa sugli ornamenti da lui scelti e collocati in alcunipunti della casa; oggetti che richiamano riti che si com-piono in luoghi a sud del Mediterraneo, un patrimoniodi sacralità accennate con estrema discrezione. Il ritua-le del tè, ad esempio, è molto complesso: occorre lateiera in cui porre il tè verde o erbe aromatiche deldeserto per poi versarvi l’acqua; la miscela così ottenu-

In basso, oggetti d’affezione di chiara impronta araba e nordafricana.Nella pagina a fianco i vassoi-tavolino disposti in soggiorno.

Nelle pagine precedenti, il particolare di una cassapanca e uno scorcio dello studio dello scrittore.Tutte le foto di questo servizio sono di Alberto Giorgio Cassani.

14

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:22 Pagina 14

Page 15: Abitare le culture

abitare le cultureTrovacasa - ottobre 2009/Mannucci - Lo scrittore algerino

ta potrà essere diluita o addolcita nelle fasi successivedel rito. Nel deserto, i Tuareg eseguono questo ritoseduti a terra, con una precisione assoluta, tenendo legambe incrociate e la schiena dritta. In una parete sonoappese tre maschere, ma molte altre sono riposte in unmobile della sala. Le maschere in questa casa manife-

stano con naturalezza il loro significato simbolico diunione tra uomo ed entità estranee, e inducono ariflettere sul perché nell’uomo sia emersa questa esi-genza di celare la propria identità dietro l’effigie di unaltro essere (uomo, animale, ibrido di animale e uomo,dio).

15

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:22 Pagina 15

Page 16: Abitare le culture

abitare

le c

ultu

reTrovacasa - ottobre 2009/Mannucci - Lo scrittore algerino

Accanto alle maschere, un tamburello testimonia lagrande tradizione musicale e i diversi stili musicali svi-luppatisi in terra algerina: la musica raï, quella degliarabi d’Oriente e d’Occidente, o l’arabo-andalusa, lamusica berbera e quella popolare tradizionale e moder-na, lo stile chaabi, la musica popolare urbana e la musi-ca religiosa.L’ampia sala si affaccia su un curatissimo giardino incui non potevano mancare alcune piante tipiche dellamacchia mediterranea, colori e profumi che forse avvi-cinano le distanze, che acquietano desideri e nostalgieimprovvise. Troppo intense, brucianti. Al piano superio-re: la camera matrimoniale, la camera del figlio in cuiuna bellissima chitarra elettrica e il manifesto del Checontraddistinguono un simbolismo tutto giovanile, poiil bagno e lo studio di Tahar.Varco appena la soglia di questo ambiente creativo, spa-zio che racchiude la concentrazione spirituale dell’arti-sta, del moderno umanista, una sorta di autoritratto,troppo privato, rivelatore, introspettivo, per andareoltre. C’è qualcosa di sacro in quelle pareti cariche dilibri, di video (Tahar è un appassionato cinefilo), dicontenitori: testimonianze di una vita dedicata allaricerca incalzante e imperativa di una e di molteplici veri-tà, lungi dai vasti palazzi della memoria.

«Io non so quel che cerco, lo nomino con prudenza, ritratto,ripeto, avanzo e mi tiro indietro. Nondimeno mi ingiungono di

dire i nomi, o il nome una volta per sempre. Allora io mi impen-no; ciò che ha nome non è già perduto? Posso almeno tentare didire questo». Albert Camus (nato a Mondovi, oggi Dréan, in

Algeria), L’enigma (da L’estate). p

Sopra, un luminoso soggiorno con tappeto,piatti e tavolini etnici, euna finestra affacciatasul giardino.A fianco, nella libreria,il Corano aperto alla lettura, il vassoio del pane e le teiere.

L’ampia sala della casa di Tahar si affaccia su

un giardino in cui non mancano le piante tipiche

della macchia Mediterranea

16

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:22 Pagina 16

Page 17: Abitare le culture

di Marina Mannucci

«Stiamo vivendo una situazione che metaforicamentepotrebbe essere rappresentata da un campo di calcio incui le squadre rappresentano le differenti forze politicheche, una volta iniziato il gioco, entrano in campo e gioca-no la loro partita, mentre noi stranieri siamo il palloneche è in mezzo e viene lanciato da una parte all’altra delcampo. Naturalmente ai giocatori delle due squadre

avversarie interessa vincere, mentre del pallone che pren-dono a calci, spesso non hanno alcun riguardo», mi spie-ga Arijon Abdyli, portavoce di Ravenna Solidarietà – coor-dinamento delle associazioni attive nell’ambito dell’im-migrazione, il cui scopo è di dare voce ai nuovi cittadiniravennati di origine straniera, che, in quanto tali, contri-buiscono ad alimentare l’economia del territorio.

Gëzuar! (auguri di felicità)Ospitalità tipicamente albaneseA casa di Arijon Abdyli, originario dell’Albania, oggi imprenditore ravennate

abitare le cultureTrovacasa - novembre 2009/Mannucci - A casa di Arijon

11

Un fotogramma dell’attore Timo Flloko nei panni

dell’eroe albanese Cerciz Topullinel film “Liri a Vdekje”

(La libertà o la morte)

17

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:23 Pagina 17

Page 18: Abitare le culture

abita

re le

cul

ture

Arijon, originario dell’Albania, risiede con la famigliaa Ravenna e, da alcuni anni, ha avviato con successoun’impresa sul territorio; quando c’incontriamo perl’intervista, cominciamo a parlare. Il tempo, però, correveloce, ed è necessario prendere un altro appuntamen-to. Mentre ci salutiamo, con immediato slancio, Arijonm’invita la domenica a pranzo, affinché il conviviofamiliare possa permetterci di approfondire, con calma,i temi che c’interessano. Accetto molto volentieri e, tor-nando a casa in bicicletta, constato con sorpresa di nonaver ricevuto un invito così generoso e spontaneo daitempi in cui abitavo nella mia amata Sicilia.Del resto avevo letto che in Albania il valore dell’ospi-talità è una delle leggi del Kanum (diritto consuetudi-nario di origini arcaiche secondo cui, per il capofami-glia, accogliere con gioia un ospite è un onore). Pergiungere a casa di Arijon è necessario percorrere quasicompletamente via Tommaso Gulli, e non posso nonrilevare, anche oggi che è domenica, quanto l’urbaniz-zazione di questa strada, a suo tempo, sia stata pensatae realizzata con cura. Gli edifici Ina-Casa, di stampopopolare, se pur datati, non hanno subito un particola-re degrado, grazie al lavoro di bravi artigiani e all’utiliz-zo di materiali di buona qualità. In questa mattinaautunnale, la luce è cristallina, ed è veramente piacevo-le percorrere questa strada incorniciata, su entrambi i

lati, dagli alberi. Anche l’edificio in cui abita Arijon conla sua famiglia è ben costruito: rivestito con mattoni,alto quattro piani, si affaccia sulla strada con ampi bal-coni; sono inoltre presenti, sul fronte, numerosi postimacchina, mentre, sul retro, si accede ad un piacevolegiardinetto. Dopo una calorosa accoglienza da parte ditutta la famiglia, iniziamo a parlare e a gustare un otti-mo pranzo preparato da Olimpia, la moglie di Arijon.Le vicende che hanno visto coinvolte Italia e Albaniasono state spesso oggetto, da parte dei mezzi d’informa-zione, d’indagini superficiali, mentre sono almeno tre imomenti, mi dice Arijon, riguardanti i nostri rispettivipaesi, che gli italiani dovrebbero conoscere.

Trovacasa - novembre/Mannucci - A casa di Arijon

In Albania il valore dell’ospitalità è una delleleggi del Kanun Per il capofamiglia è un

onore accoglierecon gioia un ospite

La credenza del salotto. Particolare con orologio da tavolo [tutte le foto del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani].

18

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:23 Pagina 18

Page 19: Abitare le culture

abita

re le

cul

ture

Trovacasa - novembre/Mannucci - A casa di Arijon

Il primo concerne il periodo in cui l’eroenazionale albanese Scanderbeg, opponendouna strenua resistenza all’avanzata degli otto-mani, si guadagnò la fama di “difensore impa-vido della civiltà occidentale”. Segue poi il periodo in cui, nel 1943, dopo l’ar-mistizio, alcune truppe italiane, di presidio inAlbania, organizzarono una resistenza armatacontro i tedeschi, e, a seguito delle rappresagliedei soldati di Hitler, molti militari italianifurono nascosti e salvati da famiglie albanesi. Infine, è importante ricordare la decisione daparte dell’Albania, negli anni Sessanta, diinterrompere i rapporti con l’UnioneSovietica, con il conseguente smantellamentodelle basi militari dalle coste albanesi che hareso più sicure anche le nostre coste. Se quin-di la storia dell’Albania, con i suoi problemi,può risultare a volte di difficile comprensionenel suo insieme, non si può prescindere dalfatto che, spesso, il grande pubblico non è rag-giunto da notizie complete ed approfondite suifatti, mentre purtroppo risulta essere moltoinfluenzato da vicende che trovano ampio spa-zio riguardo la cosiddetta “cronaca nera”. È perciò necessaria un’osservazione a tuttocampo delle cause che condizionano lo svilup-po di un popolo per poter provare a compren-derne i fenomeni attuali. Lo stretto braccio dimare che separa l’Italia dall’Albania ha deter-minato un’inevitabile osmosi culturale, di cuinon possiamo non tenere conto, contamina-zioni che nella storia si sono trasformate, avolte in progetti di espansione territoriale,altre volte in fenomeni di penetrazione econo-mica e culturale.La letteratura albanese, con le sue descrizioni sullatetraggine del passato regime e sull’attuale senso disradicamento e di delusione, è sicuramente un buoninizio per avvicinarsi alla cultura di questo popolo.

L’angolo dei soprammobili nella stanza dei figli.

19

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:23 Pagina 19

Page 20: Abitare le culture

abitare le cultureTrovacasa - novembre/Mannucci - A casa di Arijon

La peculiarità della letteratura dei Balcani affonda,infatti, le sue radici in luoghi di confine tra il reale el’immaginario, rappresentando i Balcani una delle tanteanime dell’Europa. Ed allo stesso tempo, proprio neiBalcani, lo stesso concetto di Europa viene spesso ridot-to alla mera apparenza di prosperità economica, che inlarga misura viene proiettata, in modo distorto, dallostesso Occidente. Anche l’arte contemporanea può fun-gere da interessante periscopio per capire meglio la sto-ria e la cultura dell’Albania. Alla Biennale di Venezia diquest’anno (nella sede di Forte Marghera) in collabora-zione con la Galleria Nazionale di Tirana, ad esempio,alcuni artisti di origine albanese, Artan Shabani, RobertAliaj (Dragot), Klodian Deda, Venera Castrati, ElizaHoxha (per citarne solo alcuni), attraverso le loro operehanno indagato il rapporto tra l’arte e temi quali l’emi-grazione, l’appartenenza ad una patria e la guerra.

«L’uomo balcanico è una ricerca pittorica, non sottende nessuna morale, nessuna nostalgia»

Artan Shabani

Siamo ormai al caffè, sono le quattro e mezza del pome-riggio, alla televisione albanese passano le immaginidell’attore Timo Flloko che nel film Liri a Vdekje (Lalibertà o la morte) interpreta la figura dell’eroe albane-

se Cerciz Topulli che nel 1908 guidò una rivolta antiot-tomana. Il tempo è volato e la figlia di Arijon mi accom-pagna in visita alla casa; questa giovane donna, daidolci occhi profondi, puntati con serietà, fermezza eresponsabilità sugli importanti traguardi intellettualiche si è proposta di raggiungere, è la testimonianza con-creta della necessità, per una società, di investire suigiovani. «L’anima libera è rara, ma quando la vedi lariconosci, soprattutto perché provi un senso di benesse-re quando le sei vicino» (Charles Bukowski).L’abitazione si articola intorno ad un corridoio dalquale si accede ad una sala moderna, ad una cucinacompleta di ogni confort, ad una classica stanza matri-moniale, alla camera dei ragazzi e al bagno. Ma è l’at-mosfera a contraddistinguere questi spazi vissuti: la pre-senza, se pur impalpabile, della storia di questa famiglia,vicende in cui si sono alternate necessità, solidarietà eforza d’animo. I mobili e le suppellettili in questa casasembrano essere “di passaggio”: se ce ne sarà bisogno,senza traumi, tutto verrà spostato per far posto ad unospite inaspettato o ad evenienze improvvise. Lo spazio,a volte, ha un valore arcaico, mitologico, ed in questiluoghi i mobili, se pur ci sono, hanno le ali e sono sem-pre pronti a reinventarsi per seguire il corso della storia.

Atdheu imPërse kjo dashuri e çmendur për ty

Ti më ke lindurpër të qenë plagosja jote

(Mia patriaPerché questo amore folle

per teTu mi hai fatto nascerePer essere la tua ferita)

Gëzim Hajdari, Erbamara Barihidhur,Fara Editore, 2001

Il pianoforte nella stanza dei figli.A destra, Guardando indietro, installazione dell’artista albanese Klodian Deda.

20

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:24 Pagina 20

Page 21: Abitare le culture

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

a casa di BillyIcone - Immagini

Diagne Mamadou, per gli amici Billy, è nato a Louga una cittadina situata a nord ovest del Senegal, a circa200 km a nord di Daka e a 30 km dalla costa atlantica; ricopre l’incarico di Consigliere Aggiunto nei Con-sigli di Circoscrizione per la Sezione di San Pietro in Vincoli e svolge la professione di mediatore culturale.Le attività economiche della regione di Louga sono essenzialmente l’agricoltura, l’allevamento, la pesca,l’artigianato e il commercio. Louga è anche la sede del FESFOP, Festival del Folklore e delle Percussioni,un festival folcloristico di musica popolare molto importante e seguito nel Senegal. Tale manifestazione,che quest’anno si svolgerà a fine dicembre, può essere un ottimo spunto per una vacanza a tempo di mu-sica ed offre un’opportunità unica a chiunque sia interessato a conoscere la ricchezza artistica e musicaledel Senegal. Durante il FESFOP si può partecipare a laboratori di danza e di percussione africana tenutidai musicisti “griot” ed è possibile pernottare presso le famiglie del posto.«Il griot” (termine francese) – mi spiega Billy – è un poeta, un cantore che svolge il ruolo di conservare latradizione orale degli antenati». Le conoscenze di un griot spaziano dalla storia, alla cosmogonia, alla mi-tologia, alla storia politica e i repertori possono variare in base al contesto nel quale si trova ad operare.Gli strumenti di cui si avvale sono poliedrici, essendo una figura a metà strada fra l’attore, il musicista, ilnarratore ed, appunto, il poeta. L’accompagnamento musicale (kora, balafon, m’bira, djambè) riveste unruolo molto importante ed in alcune circostanze può essere utilizzato anche il canto. In genere il “me-stiere” di griot si trasmette di padre in figlio o, in ogni caso, all’interno della stessa famiglia”.È proprio attraverso un gruppo folcloristico che Billy giunge in Italia circa vent’anni fa. Da allora, ha sem-pre lavorato, acquisendo un’eccellente conoscenza della lingua italiana ed un’incredibile abbondanza

di Marina Mannucci

21

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:24 Pagina 21

Page 22: Abitare le culture

lessicale che, naturalmente, lo facilitano ad una comprensione deiconcetti esposti nel loro significato più analitico. Billy mi spiega chei bambini italiani nascono, imparano l’italiano, vanno a scuola e, du-rante il loro percorso di studi, crescendo, continuano a parlare e adapprofondire la conoscenza della lingua italiana; i bambini senega-lesi, invece, nascono, imparano la lingua madre, vanno a scuola, mala lingua che devono parlare ed anche studiare è il francese. Ciò si-gnifica che la conoscenza semantica delle parole si sposta sul fran-cese, proprio perché ogni materia scolastica è studiata in questalingua. In Senegal, per accedere anche al più elementare dei saperiè necessario quindi passare per una lingua importata, e questo com-porta un rallentamento nei processi di acquisizione delle cono-scenze. Sappiamo, infatti, che ogni lingua veicola una visione delmondo, una maniera specifica di delineare il reale e che il passaggioda una lingua all’altra non va da sé, perché vi sono una moltitudinedi espressioni intraducibili o difficilmente traducibili. Di conse-guenza, oltre ad un maggior impiego di tempo per spiegare i con-cetti, è necessario anche ricorrere di continuo a perifrasi per farcomprendere ciò che si è voluto dire nella lingua di partenza. Ed èper questo che la prima sfida della comunicazione in tutte le zonefrancofone non concerne soltanto i problemi di traduzione e traslit-terazione, ma la gestione stessa del plurilinguismo. Condividere infrancese la diversità del mondo può andare bene, ma poterla con-dividere anche nelle lingue locali (fra queste la principale e il wolof)è ancora meglio. Per far questo sono necessarie riforme che creinouna relazione reciproca e condivisa tra il francese come lingua vei-colare e le lingue locali. Si tratterebbe, in definitiva, di promuovereun multilinguismo che funga da strumento per liberarsi e allo stessotempo arricchirsi delle particolarità delle differenti lingue, organiz-zandone il confronto regolato.In tal senso la settima arte, il cinema, è stata un importante stru-mento di emancipazione socio-culturale e di rivendicazione del di-ritto d’espressione; intorno agli anni Sessanta del secolo scorso,infatti, i paesi africani si liberano dai sistemi di assimilazione cultu-rale imposti dalle potenze coloniali ed è proprio il Senegal il primostato ad avere una cinematografia indipendente e di qualità, grazie

anche ad una situazione politica abbastanza stabile. Nel 1963, Ou-smane Sembène realizza il primo film di finzione diretto da un regi-sta africano: Borom Sarret. Il titolo stesso, una fusione di linguawolof e francese, racchiude la spinosa questione della presenza-im-posizione del francese, una delle tante contraddizioni con cui que-sto paese si deve costantemente confrontare, da una parte per nonperdere una sua identità, dall’altra per poter restare al passo con ilresto del mondo. Per mettere a fuoco la cultura del Senegal è indi-spensabile perciò conoscere e riconoscere l’attaccamento alle ra-dici di questo popolo, la fedeltà alle tradizioni, che spesso si sonodovute scontrare con il “miraggio” di un Occidente che travolgetutto, in nome del progresso.

www.trovacasa.ra.it FEBBRAIO 2010

La “ritualizzazione”degli spazi

Nellla pagina a sinistrail “Kurus”, nome in lingua wolofdel rosario islamico; a fianco e apagina 14, ritratti di marabout .

Le foto del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani

22

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:24 Pagina 22

Page 23: Abitare le culture

Tradizioni che, trasformandosi in icone, nella loro apparente sem-plicità materica, attutiscono l’inevitabile “violenza” dell’impattosocio-culturale che il migrante deve affrontare. Nel tempo e nellospazio saranno proprio semplici oggetti, immagini, abiti o cibi il ter-reno su cui costruire i ponti per approdare ad un attivo pluralismoculturale. Quel pluralismo che è una delle caratteristiche delle so-cietà moderne, e nel quale si deve riconoscere, sempre più, un ele-mento propulsore di progresso sia scientifico che economico. La suatipica struttura di interazioni, che si contrappone a rigidi fanatismi,mostra infatti quanto attraverso il pluralismo si possa parlare di “ve-rità” pur senza ridurre tutta la realtà ad un unico punto di vista.Nell’appartamento che Billy condivide a Lido Adriano con alcuni suoiamici, la prima cosa che salta agli occhi è la quantità di immagini dipersonaggi (alcuni anziani) che ricoprono le pareti del soggiorno,

alle quali Billy mi dice essere molto attaccato. Sono fotografie cheriprendono famosi “marabout”: uomini considerati dai mussulmanisenegalesi guide spirituali che vengono consultate per qualsiasiquestione e il cui parere è considerato vincolante. Gli scatti foto-grafici a casa di Billy, oltre ad essere immagini, sono anche impronteche raccontano e che diventano preghiere, perché raccontano ciòdi cui si è rimasti privi. Ed è proprio partendo da queste manifesta-zioni del “divino particolare” che è possibile intravedere l’avvioverso un pluralismo che ci obblighi a lavorare insieme nel dialogo enel rispetto reciproci, nel rigore e nel superamento dei dogmi. È evi-dente, infatti, che i legami sociali devono essere ripensati nel mutuorispetto, e come terreno comune, di una moltitudine di persone ac-comunate dalla medesima condizione esistenziale.

www.trovacasa.ra.it

23

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:24 Pagina 23

Page 24: Abitare le culture

Magia

«[...] Il Brasile è la somma meravigliosa di ogni possi-bile contraddizione: in ogniuomo veramente brasiliano

scorre un sangue ricco di fermenti europei, africani,

indios, meticci, ed è proprioquesto che rende il Brasile

così magicamente colmo diluci ed ombre, così fragile,

allegro, violento, e tuttavia così impossibile

da dimenticare»Jorge Amado

MARZO 2010

24

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:25 Pagina 24

Page 25: Abitare le culture

a casa di Carla Indira

ABITARE LE CULTURE

23

www.trovacasa.ra.it

di Marina Mannucci

“Saudade”: è questa la parola che esprime il sentimento struggenteche con forza, anche a distanza, fa annusare i profumi, percepire co-lori, ascoltare la musica, mettendo in moto una foresta di emozioni.Un’attrazione fatale, frutto della coesistenza tra anime e corpi di-versi, testimonianza della capacità del popolo brasiliano di fondereed interpretare, piuttosto che cancellare; “saudade”, infatti, è moltodi più del termine italiano “nostalgia”. Solo la parola tedesca “seh-nsucht”, forse, arriva ad esprimere lo stesso sentimento.Il Brasile è dunque una terra di magia e per i suoi abitanti è normalestabilire contatti con il mondo invisibile. Per capire come siano natee si siano sviluppate alcune di queste pratiche è necessario risalireal periodo delle deportazioni di intere popolazioni che, dal Senegal,dall’Angola, dalla Nigeria, dal Congo, dal Mozambico e dal Mada-gascar venivano caricate e deportate nella nuova terra invasa daiportoghesi nel XVI secolo. Gli schiavi venivanodestinati al lavoro in miniera o alle coltivazioni,principalmente quelle della canna da zucchero,del tabacco e del cacao ed erano costretti al bat-tesimo dai missionari gesuiti. Naturalmente ci fuuna strenua resistenza a queste imposizioni emolti furono gli africani che, per l’attaccamentoai loro valori spirituali, vennero sterminati.Bahia divenne luogo d’incontro di persone divarie tribù che avviarono un importante inter-scambio culturale, linguistico, religioso, e le ri-tualità di questi gruppi etnico-spiritualiportarono a nuove forme concettuali di relazionetra la terra e l’universo, determinando la base diuna filosofia animistica che, come si sa, attribui-sce un principio vitale, un’anima, ad esseri viventi ma anche ad og-getti materiali. Col tempo, l’influenza della simbologia cristiana hastabilito un sincretismo con le figure delle divinità africane; divinitàche avevano come riferimento solo simboli, figure o statuette, manon un’immagine prestabilita, acquisiscono un volto. Avviene unacommistione (spesso forzata) di pratiche e credenze magico-reli-giose tra il panteismo naturale africano, importato dagli schiavi afri-cani con i riti, e i santi cattolici dei “patrões” europei. La divinità(orixà) Obaluaiê, raffigurata con il corpo ricoperto di ferite, viene pa-ragonata a San Lazzaro, protettore delle malattie e, Jemania, signoradelle acque, diventa la Madonna. In queste nuove forme religioseintervengono l’oracolo (Ifà) che lavora per portare agli uomini le pa-

role degli dèi (orixàs) e l’intermediario tra gli dèi e gli uomini (il mes-saggero Exu). Ancora oggi gli Ifà durante le loro sedute di divina-zione utilizzano come mezzo di comunicazione dalle dodici alleventuno conchiglie. Il consulto viene effettuato davanti ad un bic-chiere d’acqua che rappresenta l’elemento naturale, fonte di vita ecatalizzatore di energie negative e ad una candela accesa che servea dare la giusta concentrazione e la luce necessaria per vedere oltrela forma e per accedere a uno stato superiore di coscienza. La pra-tica magica segue il consulto e l’Exu al quale viene fatta un’offertaha il compito di portare i desideri degli uomini al cospetto degli ori-xàs. Questi culti “meticci” non sono certo meno importanti delle re-ligioni monoteistiche e per meglio comprendere il sincretismobrasiliano non si può non tener conto delle manifestazioni culturaliad esso strettamente collegate. Tra queste, oltre “il Barocco di Sal-

vador da Bahia”, vi sono naturalmente le musiche e le danze che ac-compagnano i rituali magico-religiosi, che, oltre ad offrireun’interpretazione alternativa della storia brasiliana, favorisconoanche una forma di contro-cultura, elaborata prima dagli schiavi nerie poi dalle classi subalterne, in opposizione allo sfruttamento delleclassi egemoni. Un’altra manifestazione corporeo-culturale è la “ca-poeira”, che, sviluppatasi in epoca coloniale come lotta di libera-zione dissimulata nella danza, trae le sue origini dalle tecniche dilotta tribali africane. Gli schiavi, infatti, si esercitavano nella lottacon l’intento di conquistare la libertà; l’apparenza di danza tribale limetteva al sicuro dalla punizione dei padroni. Oggi la capoeira è ladanza dello sviluppo fisico, mentale e spirituale.

a passo di Samba

25

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:25 Pagina 25

Page 26: Abitare le culture

«...Fu allora che una figura attraversò i cieli, e irrompendo per i sentieri più chiusi,vinse la distanza e l’ipocrisia, pensiero libero da ogni costrizione... Allora s’accese

un fuoco sulla terra, e il popolo bruciò i tempi della menzogna»Jorge Amado

Ed è vestita di un magnifico abito bianco usato dalle baiane per leritualità magiche (macumba) che Carla Indira Andrade Pithon, pe-dagogista nata a Baia e residente a Fosso Ghiaia da alcuni anni, haraccontato il suo Brasile attraverso immagini, oggetti e ricordi, il 2dicembre scorso presso la nuova sede di “CittAttiva”, in via Carduccial civico 14, nel ciclo di incontri organizzati dal Villaggio Globale.Nelle parole di Carla Indira ricorre spesso la parola “mistura” e le fo-tografie color seppia dei suoi avi testimoniano il suo “metissage”,risultato di una trisavola indios e di un trisavolo portoghese; ascol-tandola, mi riaffiora vivido il ricordo delle parole di Jorge Amadoquando in un’intervista raccontava: «La mia famiglia è molto me-scolata. La nonna materna era una piccola india e un cacciatore por-toghese se l’è presa». In un italiano perfetto, arricchitodell’inconfondibile cadenza-melodica tipica delle lingue latino-ame-ricane, Carla Indira racconta che il toponimo “Brasile” deriva pro-babilmente dall’albero “pau brasil” (albero brasil) e dal colore rossobrace (brasa) della resina contenuta nel suo legno. Il “pau brasil”,prima che arrivassero gli invasori, ricopriva interamente la forestadelle regioni litoranee; oggi questa pianta è purtroppo a rischio diestinzione a causa del suo sfruttamento da parte dell’industria tes-sile che lo utilizza per colorare i tessuti ed anche a seguito dei rovi-nosi disboscamenti attuati dalle multinazionali. Il Brasile, al tempodell’invasione portoghese, si stima fosse abitato, sulla costa e lungogli argini dei fiumi, da circa cinque milioni di indios semi-nomadi che

vivevano di caccia e pesca. Oggi dopo stermini, violenze, malattie esoprusi ne sono rimasti forse duecentoventimila e continuano a di-minuire sotto la pressione delle multinazionali minerarie, del le-gname, e dei grandi latifondisti. L’apertura di nuove strade interritori incontaminati e la creazione di Parchi nazionali per i turistiha facilitato l’importazione di malattie contro le quali gli indios nonhanno difese immunitarie; inoltre lo sfruttamento selvaggio dellerisorse, sia minerarie che idriche, ha reso impossibile la sopravvi-venza in molti dei territori riservati agli Indios.

«I lavoratori delle piantagioni recavano il vischio del cacao molle attaccato alla pianta dei piedi, come una spessa scorza

che nessun’acqua al mondo avrebbe mai lavato. Ma tutti avevano il vischio del cacao attaccato all’anima,

nel profondo del cuore»Jorge Amado

La casa di Carla Indira, una graziosa villetta su due piani edificatasulla strada che fiancheggia il “fosso ghiaia”, è testimonianza con-creta e materica di questa “mistura-mescolanza” che contraddi-stingue il popolo brasiliano e di cui Lei mi parla con orgoglio. Ilrisultato è un’originale miscellanea di geometrie e di colori, che per-mettendo l’incontro di oggetti che simbolicamente rappresentanotradizioni e culture differenti, danno vita “a forme nuove dell’abi-tare”. Un “nuovo” incontaminato e genuino, ed in quanto tale, ca-rico di energia e di forza. I colori vivaci di oggetti artigianali originaridel Brasile oltre a divenire forme che accarezzano gli spazi, ema-nano armonie ed un phatos di cui, spesso, altre case, se pur lus-suose, nella loro scontata omologazione, sono assolutamente prive.Carla Indira, oltre ad essere bella, colta e simpatica, emana un’alle-

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

di geometriee colori

Un’originale miscellanea

26

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:25 Pagina 26

Page 27: Abitare le culture

gria contagiosa. Con naturalezza mi mostra la sua casa, e rimangoaffascinata da un magnifico mandala che ha realizzato con semplicielementi naturali; lei si muove con calma per la casa, me ne indicacon naturalezza gli spazi intimi e, mentre mi parla, allatta anche lasua bimba: questo gesto, nella sua assoluta semplicità, racchiudequalcosa di divino.

O que serà (À flor da Pele)Chico Buarque

«O que será que me dáQue me queima por dentro, será que me dá

Que me perturba o sono, será que me dáQue todos os tremores que vêm agitar

Que todos os ardores me vêm atiçarQue todos os suores me vêm encharcar

Que todos os meus órgãos estão a clamarE uma aflição medonha me faz implorar

O que não tem vergonha, nem nunca teráO que não tem juízo...»

«Che sarà che mi accadeChe mi brucia qui dentro, che sarà che mi accade

Che mi turba il sonno, sarà che mi accadeChe tutti i tremori che mi vengono ad agitare

Che tutti i calori mi vengono a stimolareChe tutti i sudori mi vengono a bagnare

Che tutti i miei organi stanno a reclamareE un’afflizione spaventosa mi fa implorare

Che non ha vergogna, né mai ce l’avràChe non ha governo, né mai ce l’avrà

Che non ha giudizio...»(traduzione di Ivano Fossati)

Costume da samba e, nella pagina a sinistra, maracas brasiliane. Le immagini del servizio sono

di Alberto Giorgio Cassani

27

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:25 Pagina 27

Page 28: Abitare le culture

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

Costruita con manidi donna

A casa di Maria Angelica

28

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:26 Pagina 28

Page 29: Abitare le culture

Maria Angelica risiede dal 2006 a Piangipane in via Rubboli. La casa in cuiabita l’ha costruita con le sue mani nel vero senso della parola: ha infattiaderito ad un progetto di autocostruzione del comune di Ravenna, di-ventando presidente della cooperativa “Ventisei ali”, composta da quat-tordici famiglie italiane e dodici straniere. La metodologia di lavorodell’autocostruzione rientra in un progetto di Social Housing (edilizia so-ciale) e rappresenta uno dei temi più attuali a sostegno delle politiche diwelfare. Il termine welfare, “benessere“, “star bene”, coniato in Gran Bre-tagna dopo la prima Guerra mondiale, definisce attualmente in Italia ilsettore dello Stato che dovrebbe occuparsi delle politiche sociali per ilsostegno di varie categorie. L’autocostruzione è un processo di edifica-zione a cui possono prendere parte utenti che non hanno alcuna espe-rienza nel settore, utilizzando materiali e tecnologie facilitate. «Il prodottodella costruzione facilitata deve provenire da processi produttivi indu-striali; deve avere una bassa complessità strutturale; deve essere con-cepito, progettato e costruito con l’obiettivo di semplificare il montaggio;avere poche funzioni facilmente identificabili, deve essere appetibile eco-nomicamente» («Tetto & Pareti», settembre 2008). Lo scopo è quello ditrasferire una porzione, anche rilevante, della complessità del costruirein cantiere verso il prodotto industriale.Nata a Lima, in Perù, dopo gli studi Angelica si dedica per un certo pe-riodo al giornalismo, specializzandosi soprattutto in eventi culturali na-zionali ed internazionali. Trasferitasi in Italia, studia e si specializza comeinfermiera professionale e dal 2004 è tra i membri della redazione di“Città Meticcia”. Il nostro primo approccio, in cui le chiedo un appunta-mento per un’intervista, è telefonico; il timbro della sua voce ed il tonocordiale mi confortano riguardo alla sua disponibilità; inevitabilmente micreo una sua immagine ideale, non tanto visiva, quanto mitologica, per-ché collegata a reminiscenze scolastiche sul popolo Inca.Quando per la prima volta c’incontriamo a casa mia, la conoscenza devisu non smentisce le mie impressioni telefoniche ed Angelica inizia ilsuo racconto; il suo essere donna, il volto, le parole, i gesti mi fanno ca-pire quanta vicinanza d’esperienze c’è realmente tra noi esseri umani. Lasua vita si è sviluppata come un rampicante intorno ad un percorso diemozioni simili alle mie e a quelle di milioni di altre donne ed uomini: lasento sorella, vicina ed amica. Al suo fianco irraggia la presenza della sto-ria del Perù e quindi degli Inca, del dominio degli Spagnoli fino a quando,nel 1820, non fu proclamata l’indipendenza, una storia che dal 1919 è se-gnata anche da una serie di dittature e colpi di stato, fino al trattato del1998 che riporterà la pace. Anche le caratteristiche del territorio risaltanodi continuo dai racconti di Angelica: le Ande dividono il paese in tre re-gioni; sulla costa, che si dipana in un’arida striscia di terra che si estendeper tutta la longitudine del paese, sono situati i maggiori centri urbani. Lazona della Sierra si estende tra due rami della Cordigliera ed è abitata damolti contadini organizzati in ayllus (comunità di origine inca) che prati-cano un’agricoltura di sussistenza (mais e patate). A sud-ovest di questaregione si trova il lago Titicaca con la superficie lacustre navigabile più

elevata al mondo; in questa zona è presente anche un’intensa attività si-smica. L’allevamento di lama e di alpaca, negli ultimi anni, si è spostatoverso le zone più elevate a causa dell’avanzare dell’attività mineraria edell’allevamento commerciale degli ovini. La regione orientale, formatadalle pianure amazzoniche e dalla foresta pluviale, è poco popolata ed haun clima tropicale.Angelica mi spiega che le differenze del territorio influiscono anche sui co-stumi degli abitanti: se la fascia costiera è caratterizzata, infatti, da unostile di vita molto simile a quello europeo, la popolazione andina, chesvolge in prevalenza un lavoro di tipo rurale, avendo subìto con violenzail dominio spagnolo e il conseguente stato di abbandono, si distingueora per quel velo di dolce tristezza che traspira da ogni più sempliceazione del vivere quotidiano. Gli abitanti del territorio amazzonico si qua-lificano invece per il carattere allegro; ed anche se, secondo gli standardeconomici della nostra società, rientrano nelle categorie definite di “po-vertà”, bisogna considerare che questo giudizio si basa esclusivamentesulle entrate economiche e sull’accesso ai servizi considerati fondamen-tali nell’ottica della civiltà occidentale. La realtà di queste popolazioni vaperò considerata anche dalla prospettiva dell’ambiente in cui vivono; agliindigeni non è mai mancato nulla: benessere, istruzione, cibo ed altre ri-sorse essenziali, ma soprattutto la libertà. Tutto ciò non è poco se con-frontato al livello di accesso ai beni e ai servizi di un “povero” di unquartiere urbano dei cosiddetti “paesi sviluppati”. È forse necessario,perciò, rivedere alcuni giudizi in termini di qualità di vita, e cioè in rela-zione agli standard che queste popolazioni considerano adeguate alleloro necessità. Andrès Nuningo, indigeno Wampis, Presidente del Consi-glio Aguaruna Y Huambisa e, sindaco di Rìo Santiago nella Regione Amaz-zonica, durante uno dei suoi viaggi, ha fotografato alcune personecostrette a cercare del cibo nella spazzatura, ed al ritorno, mostrando le

www.trovacasa.ra.it

di Marina Mannucci

APRILE 2010

29

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:26 Pagina 29

Page 30: Abitare le culture

foto ai suoi compaesani, ha esclamato: «Guardate il progresso». Dai rac-conti degli indios traspare spesso l’inevitabile malinconia del com’eraprima e com’è adesso: «Nella mia terra la mattina mi svegliavo sereno.Non dovevo preoccuparmi dei vestiti perché la mia casa era isolata, cir-condata dalle mie “chacras” e dalla montagna. In tranquillità restavo aguardare l’immensa natura del fiume Santiago mentre mia moglie ac-cendeva il fuoco. Mi rinfrescavo nel fiume e con la canoa, alle prime lucidel giorno, andavo a fare un giro per cercare qualche cunchis [una spe-cie di pesce gatto] o per catturare qualche mojarra [un altro tipo locale dipesce]. Con il progresso le cose sono cambiate, ora si lavora nelle colti-vazioni di riso fino a tardi e torniamo a casa a mani vuote. Già vedo tuttii miei compaesani frugare nelle discariche di Lima». È evidente che gliindigeni aspirano ad avere certe comodità e qualche beneficio dal pro-gresso, ma quel che vogliono soprattutto è di non rimanere travolti dalfinto progresso del consumismo esasperato, perché la maggior parte diessi ama la propria libertà e un modo di vivere coerente con la loro vi-sione del mondo. È un dato di fatto inoltre che le popolazioni indigenesono depositarie di buona parte del “ricco tesoro” della selva amazzo-nica, che fornisce un prezioso ed indispensabile servizio ambientaled’inestimabile importanza per l’intera umanità.Entro in casa di Angelica in una fredda mattina di domenica e obbligol’intero nucleo familiare ad un traumatico risveglio. L’abitazione, inte-grata in un nucleo di case a schiera, si articola su due piani: al piano terra,la sala, moderna e confortevole, è come pervasa da un’entità sopranna-turale; un genius loci giunto da oltre oceano che si mescola a questo mo-derno luogo fisico. Sulla libreria è appoggiato un bellissimo retablo;Angelica, accortasi del mio interesse, lo prende e mi permette di osser-varlo da vicino. È un “armadietto” di legno, le cui porticine sono decoratecon motivi floreali; all’interno, nella parte superiore, sono rappresentatescene celesti ed in quelle inferiore scene terrene. Tali scene variano a se-conda delle correnti religiose, o delle credenze di chi commissiona il re-tablo. I mulattieri portavano con sé questi armadietti durante i loro lunghiviaggi, per assicurarsi la protezione del santo contro i briganti. Dalla salache si affaccia su un giardino si passa direttamente alla moderna cucinache si apre su un utile giardinetto in cui, quando il clima lo permette, èpossibile mangiare all’aperto. Una doppia rampa di scale accompagnaalla moderna zona notte; tutte le rifiniture in questa casa sono opera di

Angelica, che oltre ad essere appassionata di svariati generi di bricolage,sperimenta anche la tecnica del mosaico. Le sue mani, la sua forza, oltread avere contribuito alla costruzione dei muri della sua abitazione inter-vengono ora anche “sulle strutture ornamentali” che così, oltre ad es-sere emblemi estetici, diventano anche simboli delle forti passioni checaratterizzano la natura di questa piccola grande donna.Mentre ci stiamo salutando, Angelica mi si avvicina e, improvvisamenteseria, mi sussurra: «Non dimenticare di scrivere che lo spirito degli Incaè sempre presente nel corso dei secoli nella storia del Perù ed è radicatonelle popolazioni indigene perché aspettano ancora che i discendentiInca vengano a liberarli». Prima dell’arrivo degli spagnoli, l’Inti Raymi erala festa principale dell’impero e si svolgeva durante il solstizio d’inverno,periodo in cui il sole si trova nel punto più lontano dall’equatore. I “figlidell’impero” temevano che il sole, loro dio, fonte di vita, scomparissenell’universo ed allora, con pianti e lamenti lo imploravano di non allon-tanarsi dalla terra e gli giuravano eterna fedeltà e amore. Oggi, a Cusco,la Festa del Sole ha uno scopo propiziatorio; viene celebrata in giugnocon canti e danze accompagnati dalle melodie delle quenas (flauti) e dairintocchi del tamburo. In quest’occasione si insegna ai ragazzi che perdiventare uomini è necessario ”vivere in armonia con la natura”, e che lapeggiore ignoranza è pensare di poter essere padroni della terra, perchél’uomo è soltanto un filo nel tessuto di tutti gli esseri viventi che la Pa-chamama tesse. Pachamama è il termine quechua, l’antica lingua degliIncas ancora parlata dai popoli andini, che designa la madre cosmica.

«La terra è un immenso giardino, e prendersene cura induce a coltivare se stessi

e il proprio giardino interiore»

Hernan Huarache Mamani

Nelle pagine precedenti: Patchwork su motivo andino e disegno di Angelica in stile Botero;

qui sopra uno scorcio del soggiorno e un retablo.Le foto sono di A. G. Cassani.

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

30

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:26 Pagina 30

Page 31: Abitare le culture

“Se i razzi diventasseropalme...”

Nella casa “autocostruita” di Marcus Samir

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

31

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:27 Pagina 31

Page 32: Abitare le culture

Nel 1972, la pensatrice tedesca Hannah Arendt, nel testo La menzogna inpolitica: Riflessioni sui Pentagon Papers, riflette sulla manipolazionedella storia a fini politici, attraverso la ricostruzione delle motivazioniposte a fondamento dell’entrata in guerra degli Stati Uniti contro il Viet-nam e scrive: «La manipolabilità umana è diventata una delle merci prin-cipali venduta sul mercato dell’opinione pubblica colta». Oltre adenunciare la pratica “eterna” della manipolazione che i poteri domi-nanti compiono dei fatti, della loro rappresentazione e trasmissione, l’au-trice segnala un fenomeno assolutamente nuovo: la nascita diun’opinione pubblica, dotata di peso politico e facilmente influenzabile,e l’avvento del mercato delle notizie, componente dell’industria cultu-rale e nuova fucina della manipolazione da parte dei poteri dominantidella nostra epoca.Dopo aver letto sulla storia contempo-ranea dell’Iraq ed aver cercato appro-fondimenti svincolati da visionieurocentriche che rendono miopi nellacomprensione dei fatti, mi sono resaconto che gli studi storici si trovano difronte ad una chiara sfida: la trasfor-mabilità della memoria e della storia inmerce dell’industria culturale. Le veritàaccertate in sede storica, nel mercatoculturale si trasformano spesso inmerci obsolete che vengono manipo-late affinché riacquistino un caratteredi sensazionalità. Sono verità storicheche somigliano sempre più a “news” e,come queste, si pretende che sianosempre nuove e ogni giorno diverse. Neconsegue che «la storia vera, quellache si basa su ricerche non può cheriappropriarsi dell’agone pubblico,unico luogo in cui è permesso reinter-rogare il passato per poter rispondere abisogni spirituali e conoscitivi presenti» (www. giornaledistoria.net). Laforza della storia, della verità storica, sta proprio nel fatto che è “verità di-scutibile”, ma le sue narrazioni, per quanto opinabili, si raccordano in-torno a principi, valori, dati di fatto, certezze di fondo, che devonorimanere estranee ad un certo genere di polemica politica. Per tenere invita le verità “discutibili” della storia è imprescindibile valorizzare i pre-sidi culturali, avere una comunità scientifica forte ed “attrezzata”, e so-prattutto avere luoghi di formazione non subordinati ad interessiparticolari. Sono problemi questi la cui soluzione, oggi, io credo possa ar-rivare solo attraverso la capacità di una profonda e sperimentata esplo-razione della rete e della comunicazione via Internet. Naturalmente nonparlerò in questa sede della storia contemporanea dell’Iraq, ma ho rite-nuto opportuna tale premessa proprio perché la storia di questo paeseè spesso diventata una “merce”; e quindi consiglio a chi volesse andare

oltre di indagare e “navigare” in prima persona.Bagdad viene fondata nel 762 d.C. con un piano urbanistico che disponegli edifici a cerchio intorno ad uno spazio vuoto al cui centro vengonoedificati il palazzo del califfo e la moschee; a delineare il limite della cit-tadella vengono erette una muraglia e torri cilindriche. I califfi che si sus-seguono, utilizzando le migliori tecniche ingegneristiche, farannocostruire palazzi, scuole ed università, bagni pubblici, minareti. Al centrodelle vie commerciali tra Oriente e Occidente, Bagdad diviene una dellepiù ricche città del mondo ed i suoi palazzi lussuosi, i quartieri dei mer-canti e le banchine affollate concorrono a far da sfondo ai racconti delleMille e una notte. Nel 1258 i mongoli però la distruggono quasi comple-tamente e gettano nel Tigri oltre un milione e seicentomila volumi della

biblioteca di Bagdad.Nelle Mille e una notte si narra di un repersiano che, essendo stato tradito dauna delle sue mogli, ha deciso di ucci-dere tutte le sue spose dopo la primanotte di nozze. Sherazade, andatasposa al re, escogita un trucco per sal-varsi: ogni sera racconta al re una sto-ria, rimandando il finale al giorno dopo.Va avanti così per mille e una notte; ealla fine il re, innamoratosi, le rendesalva la vita.Le donne irachene usano ancora oggi lastessa astuzia: ingannano, infatti, il de-stino con racconti che narrano veritàspesso trascurate dai mass media ditutto il mondo.Nel libro Parole di donne irachene, acura di Inaam Kachachi, donne di Bas-sora e di Baghdad che hanno dovutocombattere contro la censura della dit-tatura, contro gli ostacoli dell’embargo,che hanno conosciuto la tortura o che

sono in esilio raccontano del loro universo e, attraverso la scrittura, oltread esprimere sentimenti, svelano un Iraq inedito.«Scrivere non è certamente facile. Ma oggi scrivere in Iraq diventa unavera impresa, quando si conoscono le innumerevoli difficoltà, materialied etiche, causate dalla guerra e soprattutto dall’embargo. D’altronde,l’attività dell’editore è quasi una missione impossibile in un Paese dovemanca carta, inchiostro, pezzi di ricambio per stampanti. E soprattuttomanca quella bella rosa dai petali splendenti, ovunque agognata: la li-bertà di espressione. Laggiù, dopo aver messo a letto i bambini, le donnescrivono nell’oscurità di eterne interruzioni di elettricità. L’ispirazione rag-giunge occhi affaticati e spenti. Occhi che non possono permettersi unamatita di kajal importata, perché ha un prezzo esorbitante: come centobiro, tre polli o ottanta gallette di pane. Insomma, l’intero stipendio diun mese! Gli iracheni scrivono su fogli di carta scura, scarti di stampa,

di Marina Mannucci

MAGGIO/GIUGNO 2010

32

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:27 Pagina 32

Page 33: Abitare le culture

fogli già usati, vecchi quaderni di scuola. Scrivono una strofa di poesia oil passaggio di un romanzo su tutto ciò che sia utilizzabile: una vecchiaricevuta, una fattura non pagata, un sacchetto di carta spiegazzato cheuna volta è servito per portare frutta a casa (per coloro che allora pote-vano permetterselo). Scrivono anche sul retro delle ricette mediche».Alla fine degli anni ‘70 a Bagdad sono state costruite nuove strade, ponti,centrali elettriche e naturalmente raffinerie di petrolio, ma sarà proprioil tema della competizione globale per l’energia a far sì che Iraq e Afgha-nistan diventino in poco tempo i due paesi del continente asiatico al cen-tro ininterrotto di conflitti bellici.Nel 1991, durante le sei settimane di bombardamenti americani, le esplo-sioni distruggono molti quartieri di Bagdad e riducono in macerie scuole,ospedali, industrie, ponti e centrali, con alte perdite di vite umane anchetra i civili. Scompare buona parte del patrimonio e della memoria con-servata negli edifici simbolo del popolo iracheno ed il sistema urbano diBagdad si trasforma in maniera traumatica; ha il sopravvento un’archi-tettura dell’occupazione fatta di barriere, di spartitraffico eretti frettolo-samente con terra e macerie, di muri di cemento e torri di guardia, in cuipredominano le sfumature del grigio e del marrone. In questo scenariodi distruzione, ingegneria e architettura vengono chiamate in causa consoluzioni che dovrebbero tracciare un paradigma progettuale per il re-cupero di intere porzioni di città. Marc Augé sottolinea come però «oggianche nei luoghi di guerra la distruzione e la ricostruzione sono parte diuno stesso programma, si pianificano entrambe prima dell’inizio del con-flitto» e questo è quanto è avvenuto e sta avvenendo sia in Iraq che in Af-ghanistan. L’allegra macchina da guerra degli appalti nel martoriato Iraqha uno sfondo a base di petroldollari e appalti le cui sigle più ricorrentidelle imprese-acchiappatutto sono: Becthel, Berger, Fluor e Parsons,oltre alla tentacolare Halliburton guidata fino al 2000 dal numero due diBush, Dick Cheney.Si può solo sperare che queste città irachene ferite, la cui caratteristicacomune è di avere un’enorme resistenza, in quanto entità fortemente di-namiche, sappiano svincolarsi dalle eccessive manipolazioni dei “porta-tori di pace e di democrazia”, affrontando la “topografia del trauma

bellico” seguendo due fronti: quello della scala urbana, dell’assetto delterritorio e delle città di fondazione, e quello della scala architettonica edella possibilità di integrare nelle nuove progettazioni gli effetti dei di-sastri bellici.Marcus Samir nasce a Bagdad nel quartiere Dora ed all’età di diciannoveanni si trasferisce in Italia, a Ravenna, dove gli viene riconosciuto la statodi rifugiato politico; si specializza come tecnico manutentore antincendio,acquisisce la cittadinanza italiana, si sposa con Susanna, ha due figli,David e Christian, e dopo aver aderito ad un progetto di autocostruzionedel comune di Ravenna, abita ora in una casa di sua proprietà a Piangi-pane. Samir appartiene all’antica chiesa caldea, nata direttamente dallapredicazione degli apostoli, una comunità cattolica che parla l’aramaicoe che ha sempre convissuto pacificamente in mezzo ai musulmani. A se-guito della guerra del 2004 hanno inizio però le violenze contro questaminoranza religiosa, i cui componenti sono considerati dalle frange mu-sulmane intransigenti, “crociati” ed amici della forza occupante. Da allorai caldei residenti in Iraq vengono costretti a convertirsi all’Islam e a vi-vere una quotidianità fatta di uccisioni, rapimenti, minacce e soprattuttodi fuga dalle città, e quindi dal paese.Se la casa risponde al bisogno primario di mettere ordine in contrappo-sizione al caos esterno, per Samir la sua dimora di Piangipane è una su-perficie artificiale che, se pur isola la sua famiglia in uno spazio di intimitàcondivise, non esclude gli elementi esterni, lasciando anzi che vi pene-trino sia materialmente che simbolicamente. La sua storia, i suoi ricordi,sono ormai quasi completamente legati all’Italia, paese che lo ha accoltoed in cui ha mescolato il passato con il presente. I luoghi e quindi la casaper il migrante diventano spesso cantieri, fucine in cui si forgiano inces-santemente i ricordi, attraverso il racconto di sé nel tempo, ricompo-nendo frammenti di mondi che, se pur sommersi, sono sempreemotivamente vigili. Ma quello che più colpisce di Samir, oltre all’ener-gia e alla forza che sprigiona, è la sua allegria, il carattere aperto e gio-viale. Durante il servizio fotografico i suoi bambini ci seguono incuriositied allegri e, giustamente, si frappongono fra noi adulti, per partecipareall’incontro ed essere anche ascoltati. Susanna la giovane madre è al la-

Nelle pagine precedenti: La facciata e l’ingresso della

casa “autocostruita” di Samir, nella frazione a Piangipane;

un servizio per bevande; a sinistra, il soggiorno;

a destra un disegno del nome inarabo di uno dei bambini.

Le foto sono di A. G. Cassani.

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

33

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:27 Pagina 33

Page 34: Abitare le culture

voro, e percepisco che Samir, da padre contemporaneo, non è solo unfornitore di materiale genetico, ma è coinvolto con molta scioltezza, esoprattutto molto garbo, nell’educazione e nello sviluppo dei suoi figli.Ancora una volta, non posso non constatare quanto sia importante an-dare oltre i pregiudizi; infatti in Samir il valore simbolico della figurapaterna è un elemento che travalica i confini delle singole culture e rap-presenta un carattere universalmente valido al di là dei contesti socialie culturali differenti.Salendo al piano superiore, sulle porte delle camere dei bambini, sopradue tele rettangolari, spiccano i nomi in arabo di David e di Christian:li ha dipinti Susanna. Quanta profonda e forse inconsapevole saggezza,in un semplice gesto! Ecco, io credo, che, quando riesce ad esprimersi,la forza rivoluzionaria del femminile si manifesta attraverso gesti ap-parentemente normali che possono persino passare inosservati. Isegni-simbolo, realizzati con affetto da questa giovane madre, rac-chiudono in nuce la volontà di andare oltre, di oltre-passare quel pen-siero, che, nel bene e nel male, ha interessato la storia millenaria diOccidente ed Oriente e fungono da ponte che, in modo concreto,guarda al futuro più di tante inutili parole.

«D’un tratto,in piena siesta dei cannoni,

tra due guerre,ci siamo incontrati,

insieme abbiamo sognato che i cimiteridiventassero piste da ballo.

Hai detto: “Ciò che fu distruttodelle nostre speranze

si ergerà come un miraggio”.Ho detto: “I cannoni sono morti,

le guerre dormono da tempo”.E più in fretta del fischio di una pallottola,

un esercito è passato.Oscillavamo tra spaesamentoE un sussurrare d’innamorati,

rimasti sognatori:“Ah, se i razzi diventassero palme!”

Un breve istanteE la nostra terza guerra è scoppiata.

Niente più posto per i desideri:del mutismo, tu hai fatto la tua professione,

e io, della catastrofe, il mio mestiere».Rim Qaïs Kobba, Desideri (in Inaam Kachachi, Parole di donne irachene: Ildramma di un Paese scritto al femminile, Milano, Baldini&Castoldi, 2003)

MAGGIO/GIUGNO 2010

34

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:27 Pagina 34

Page 35: Abitare le culture

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

Storia di Oliver

Partire, viaggiaree, forse, giungere

Oliver Kamela, rifugiato politico del Camerun ai giardini di Ravenna.In alto a destra, la sua bici.

35

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:28 Pagina 35

Page 36: Abitare le culture

«Il Camerun è un mondo in miniatura, ci sono tante religioni e circa 260etnie ed il modo di vivere non è poi così diverso dal vostro, siamo moltopiù simili di quello che voi immaginate». Così Oliver Kamela risponde sor-ridendo alla mia domanda di banale curiosità occidentale sul “come sivive in Camerun?”.Oliver ha ventotto anni ed è nato nella capitale del Camerun, Yaoundé;la sua famiglia d’origine era composta dal padre, sposato con tre mogli,commerciante di prodotti alimentari, e da quattordici fratelli. Dopo averfrequentato la scuola primaria e la scuola secondaria fino all’età di di-ciotto anni, nel 2000 entra anch’egli nel commercio ed avvia un’attivitàin proprio. Nel 2006, a seguito di uno sciopero per rivendicare dei dirittisindacali, in cui la polizia interviene sparando su alcuni dimostranti educcidendo un giornalista, Oliver viene indicato tra i responsabili della di-mostrazione ed è costretto a fuggire. Aiutato da un amico, racimola i soldinecessari, il controvalore di circa 700 euro e, senza avere il tempo di sa-lutare nessuno, privo di documenti, il 16 maggio 2008, nascosto all’in-terno di una stiva di una nave mercantile, lascia il Camerun; dopo circaventi giorni di viaggio giunge a Ravenna. Sceso dalla nave, i suoi piedi cal-pestano il suolo di un paese sconosciuto, in cui le persone comunicanocon una lingua a lui incomprensibile. Mi racconta che quel giorno si avviaverso la stazione e chiede (immagino a gesti) indicazioni per i luoghi d’ac-coglienza: non ha soldi e, come già detto, nemmeno documenti. Neigiorni successivi fa richiesta di asilo politico alla Questura di Ravenna;nel frattempo trova accoglienza presso la Caritas. Dopo circa otto mesi,nel gennaio 2009, ad Oliver viene concesso l’asilo politico che gli rico-nosce una copertura di protezione sussidiaria per tre anni.Attualmente, tramite l’Asp (ex Consorzio dei Servizi Sociali) di Ravenna,Oliver usufruisce di vitto e alloggio da dividere con altre persone e di unminimo intervento economico settimanale; non è però riuscito a trovareun lavoro. Ad agosto forse si sposterà in Trentino dove, gli hanno detto,potrebbe esserci qualche possibilità come bracciante. Ascoltandolo, miaccorgo che per quanto io mi sforzi di comprendere la sua situazione, lamia percezione sulla reale precarietà del suo vivere è carente. Per Oliver,spostarsi di qualche centinaio di chilometri significa dover affrontare unaspesa, per il biglietto del treno, fuori budget, e rinunciare, a quei prezio-sissimi, se pur minimi, benefici “materiali” di cui dispone a Ravenna; nelcaso, quindi, non trovasse lavoro, la sua situazione potrebbe diventaredisperata. Nelle mie considerazioni, non avevo assolutamente valutatosia che il prezzo del biglietto del treno potesse essere un problema, sialo stato di assoluta mancanza di riferimenti affettivi a cui fare riferimentoin caso di un bisogno estremo ed improvviso. E, allora, mi rendo contoche se voglio continuare seriamente il mio lavoro di scrittura sulle vite esugli spazi delle persone, come sosteneva Ryszard Kapuscinski, devocondividerne ulteriormente la “loro” vita, altrimenti mi sarà impossibile“restituire”, di queste storie, il reale senso del destino, che è poi la parteessenziale di questi racconti. Nessuna denuncia, nessun articolo di gior-nale sugli abusi e le ingiustizie subite da persone oppresse, potrà avere

l’effetto sperato se non in una prospettiva di empatia e di sentirsi partedi un destino comune.La definizione di rifugiato e la legislazione che lo riguarda ci obbliga a ri-flettere sulla necessità di non rimanere in un campo “astratto”, perché siargomenta intorno a persone, identità, storie individuali e storia collet-tiva. Il rifugiato, il richiedente asilo, il clandestino, l’irregolare, il senzadocumenti, il beneficiario di protezione umanitaria/sussidiaria, il pro-fugo ha un volto ed una fisicità. Queste parole che nell’uso comune ven-gono spesso pronunciate con leggerezza producono seri effettiistituzionali, politici, giuridici e di percezione sia su chi ne è oggetto siasu chi le pronuncia.Per creare un po’ di ordine con le parole, la prima distinzione da fare èquella tra il migrante, colui che decide, che sceglie di partire, e il rifugiatoil cui esodo invece è obbligato; vi sono quindi motivazioni di partenza econdizioni di arrivo concretamente diverse. Dino Frisullo nel libro Con losguardo delle vittime ben esprime la condizione del rifugiato: «Sradicatocon violenza dal suo ambiente, ridotto a merce nelle anticamere dei traf-ficanti, a profugo nella stiva di una nave, a postulante nelle questure onelle mense del volontariato, l’esule vive doppiamente l’esperienza del-l’estraniamento. Non ha minimamente scelto di vivere nella società incui è stato scaraventato. Il suo orizzonte temporale dipende totalmentedall’arbitrio della burocrazia in Europa, ma anche dalle vicende del paeseche è stato costretto ad abbandonare, in cui teme di essere rinviato, main cui desidera, pure, un giorno ritornare». Parlando di rifugiati, si parlainevitabilmente di luoghi; dei paesi di partenza dai quali sono costretti afuggire, di un viaggio con mezzi di fortuna attraverso aree di transito edello stato di arrivo che a volte non è quello in cui ci si ferma.

www.trovacasa.ra.it

di Marina Mannucci

LUGLIO/AGOSTO 2010

36

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:28 Pagina 36

Page 37: Abitare le culture

È indispensabile tenere insieme questo quadro spazio-temporale per ca-pire le personalità del rifugiato, la sua diffidenza ed il suo disorienta-mento, i traumi e la complessità della sua condizione.Il principale strumento giuridico relativo alla protezione e all’assistenzadei rifugiati a disposizione della Comunità Internazionale è la Conven-zione di Ginevra, approvata in una conferenza speciale dell’ONU nel 1951,alla quale hanno aderito tutti gli stati europei. La convenzione stabiliscechi può essere considerato un rifugiato e le forme di protezione legale,di assistenza e di diritti sociali che il rifugiato dovrebbe ricevere daglistati aderenti al documento. Al contempo, la Convenzione stabilisceanche gli obblighi del rifugiato nei confronti dei governi ospitanti e di al-cune categorie, ad esempio i criminali di guerra, che non possono acce-dere allo status di rifugiati. Un protocollo del 1967 ha rimosso lelimitazioni temporali e geografiche fissate nel testo originario della Con-venzione, che consentiva di fare richiesta per lo status di rifugiato esclu-sivamente ai cittadini europei coinvolti in eventi antecedenti il 1951.L’articolo 1 della Convenzione definisce rifugiato colui che «temendo a ra-gione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità,appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni po-litiche, si trova fuori dal paese di cui è cittadino e non può o non vuole, acausa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese; op-pure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori dal paese incui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può onon vuole tornarvi per il timore di cui sopra». I 140 paesi firmatari dellaConvenzione, qualora ospitino dei rifugiati, sono i principali responsa-bili della loro protezione; l’UNHCR, United Nations High Commissionerfor Refugees, esercita una funzione di controllo su questi obblighi; l’agen-zia cerca inoltre di assistere i rifugiati nel tentativo di ricostruirsi unanuova vita, sia attraverso l’integrazione locale, sia attraverso il ritornovolontario nella propria terra natale, o, se questo dovesse essere im-possibile, attraverso il loro reinsediamento in un paese terzo. Natural-mente ai rifugiati è richiesto il rispetto delle leggi e delle regole dei propripaesi d’asilo.È bene sapere che la Libia non ha aderito alla Convenzione di Ginevra, néal protocollo del 1967, ed inoltre non riconosce il Protocollo delle NazioniUnite per i Rifugiati, rifiutando di conseguenza il “principio di non refou-lement”, ovvero il divieto di espulsioni e rimpatrio di profughi verso paesi

dove la loro vita o la loro libertà sia in pericolo. In questo paese sono ri-petutamente inoltre violati: il diritto al “giusto processo”, che comprendela possibilità di difendersi e di fare appello contro una decisione ammi-nistrativa, il diritto ad ottenere una decisione motivata e di essere infor-mati sui fatti su cui si basa la sentenza, il diritto all’integrità fisica, alladignità umana e non di rado anche alla vita. Sono molte le organizzazioniumanitarie che hanno raccolto una fitta documentazione su quanto ac-cade a chi viene respinto in Libia una volta intercettato nel Canale di Si-cilia: stupri, pestaggi e torture operati dalla polizia libica nei campi didetenzione per chi è senza documenti. Campi che, va detto, sono in partefinanziati dall’Italia ed in parte dall’Unione Europea (in merito, consigliosoprattutto agli insegnanti, affinché sensibilizzino all’argomento gli stu-denti, la visione del film-documentario Come un uomo sulla terra di Ric-cardo Biadene, Andrea Segre e Dagmawi Yemer).Ogni mattina, uscendo dall’alloggio in cui condivide una stanza con unaltro rifugiato proveniente da un paese con usanze molto diverse dallesue, Oliver inizia la giornata avvicendandosi a sportelli associativi, co-munali, provinciali e di agenzie di lavoro. Finiti questi giri, non ha altro dafare se non passare un po’ di tempo alle postazioni Internet messe a di-sposizione dalla Casa delle Culture, in Piazza delle Medaglie d’Oro e,quando il bel tempo lo permette, ritrovarsi con alcuni amici sulle pan-chine “del parco”; pranzo e cena sono assicurati dalle mense sociali.Giornate per lo più noiose “costruite” intorno a lunghe file, ad attese,alla fatica del comprendere le procedure burocratiche, a rimandi fatti di“torna la prossima settimana”. Giorno dopo giorno, nel proprio mondo intimo, le ansie, le preoccupa-zioni, i desideri e i bisogni inespressi devono abituarsi a fare i conti conla sensazione costante di perdere tempo prezioso: il tempo di una vitache non si riesce a vivere perché la natura assistenziale alla quale il rifu-giato deve assoggettarsi, lo priva del controllo diretto dei propri spazi divita, del proprio tempo, del proprio cibo.

In alto a sinistra, la custodia della carta di soggiorno; particolare della vetrina

di un’agenzia interinale frequentata da Oliver.Tutte le foto di questo servizio

sono di Alberto Giorgio Cassani

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

37

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:28 Pagina 37

Page 38: Abitare le culture

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

A casa di MehoUn giovane macedone

alla “conquista” del mondo

38

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:29 Pagina 38

Page 39: Abitare le culture

Ho conosciuto Meho al Festival delle Culture, in giugno, durante unsuo intervenuto in qualità di rappresentante dell’associazione di vo-lontariato per l’immigrazione “Città Meticcia”, nel corso dell’incon-tro “Generazioni in movimento: le esperienze di Pillole d’identità,Rete TogethER, Crossing TV e Juvenilia a confronto”, al quale sonointervenuti anche Sun Wen Long di Associna e Azeb Lucà Trombettadi Crossing Tv.Il suo volto allegro e il suo modo di fare carico di quella forza chesolo la mente incontaminata di un giovane possiedono mi hannofatto capire che avrei dovuto assolutamente intervistarlo. Meho Su-lemanski, nato nel novembre del 1989 a Rostuse, Macedonia, si tra-sferisce a Ravenna con la madre ed i suoi tre fratelli nell’estate del2004 per ricongiungersi con il padre che, partito dalla Macedonianel 2001, regolarizza la sua condizione di soggiorno a Ravenna e dilavoratore straniero con la sanatoria del 2003.Meho appartiene alla cosiddetta “seconda generazione” (quando siparla di seconda generazione d’immigrazione si fa riferimento ai figlidi immigrati nati in Italia, oppure arrivati nel Paese in tenera età o infase adolescenziale); la sua esperienza personale di migrazione gliha comportato, infatti, il distacco dal suo paese d’origine e l’inter-ruzione di un precedente percorso scolastico quando era già un ado-lescente. La terminologia attinente alle 2g (seconde generazioni) èstata anche arricchita nel tempo dal concetto di “metissage”, unasorta di ibridazione culturale che si realizza attraverso i processi diincontro tra le differenti culture, che portano il giovane immigrato aricercare una propria identità all’interno della società che li ospita,per stabilire un approccio con gli abitanti autoctoni della città.Giunto a Ravenna il 17 settembre 2004, il giorno dopo Meho fre-quenta già il primo anno del Liceo Linguistico e la sera partecipa adun corso d’italiano per studenti stranieri. Per quanto riguarda l’in-serimento nel nuovo contesto scolastico, Meho ha dovuto confron-tarsi con due diverse strumentalità linguistiche: la lingua italiana delcontesto concreto, indispensabile per comunicare nella vita quoti-diana (lingua del comunicare); la lingua italiana specifica, necessa-ria per comprendere ed esprimere concetti e svilupparel’apprendimento delle diverse discipline (lingua dello studio). Lacompetenza linguistica è, in effetti, il “requisito minimo” per ren-dere possibile l’integrazione dello studente straniero, in quanto per-mette sia le relazioni paritarie fra compagni che le relazioni diautorevolezza fra insegnante e studente. Facendosi beffa di qual-siasi indagine di tipo sociologico, Meho è riuscito, in circa due annidal suo arrivo in Italia, ad acquisire un’ottima padronanza della com-petenza linguistica e a superare il suo ciclo di studi nei tempi do-vuti. La sua mente fervida e curiosa, la sua prorompente vitalitàgiovanile, sostenuta sempre da modi educati, è riuscita a coinvol-gere positivamente anche i professori del suo corso di studi chehanno saputo trovare tutti quei supporti didattici indispensabili perrendere l’inserimento scolastico di Meho meno periglioso in con-fronto a quello dei suoi coetanei italiani.Dai racconti di questo ragazzo che, al momento, oltre ad essereiscritto al primo anno di Scienze internazionali e diplomatiche, fre-quenta anche il servizio civile come volontario al centro emigrati, siha la netta percezione che il fatto di aver vissuto l’esperienza dellamigrazione, le difficoltà connesse alla comprensione linguistica, l’es-sersi dovuto inserire in un nuovo contesto sociale e culturale – constili di vita spesso dissimili da quelli del proprio nucleo familiare –

non siano stati elementi che abbiano ostacolato o rallentato il suoprocesso di crescita intellettuale.Da alcuni mesi la famiglia Sulemanski si è trasferita in uno spaziosoappartamento di una bella casa costruita probabilmente intorno aglianni ’50-’60, ubicata subito all’inizio di via Tommaso Gulli, ed in que-sti giorni Meho si gusta la libertà di avere tutto lo spazio domesticoper sé, dal momento che i suoi familiari sono in Macedonia a tra-scorrere le vacanze. Attraverso una scala esterna, che parte da uncortile che si trova nel retro della casa, si giunge ad un luminoso bal-latoio dal quale si accede direttamente ad una sala spaziosa e lu-minosa; da qui, un corto corridoio accompagna sia alla zona deltinello e cucina che alla zona letto, in cui, oltre alla camera dei geni-tori e a due bagni, c’è la camera dei ragazzi. Nella camera di Mehoe dei suoi fratelli spicca “il fatidico” letto a castello; non posso farea meno di guardarlo con un pizzico d’invidia e di nostalgia: da pic-cola, quando andavo a trovare alcune mie amiche che avevano lafortuna di averlo nella loro stanzetta, rimanevo sempre affascinatada questo pratico elemento d’arredo per famiglie numerose, ed im-maginavo i fantastici arrembaggi notturni che si potevano improv-visare tra fratelli. Mi guardo attorno: computer accesi, chitarreappoggiate sul muro, libri dell’università, sacchetti sul ballatoiopieni di lattine di bibite, sono le spie accese di un mondo di fer-mento, in movimento, in “costruzione”.

Ravenna, Rostusa e il macedonedi Meho Sulemanski[estratto da «Città Meticcia», ottobre 2009, periodico di comunicazione in-terculturale dell’omonima Associazione di Volontariato per l’immigrazionedi Ravenna]

È finita l’estate. Per molte persone questo vuol dire tornare alla vita di sem-pre: il lavoro, la scuola e tutti gli altri impegni quotidiani. Per molti immi-grati, significa anche lasciare i propri paesi d’origine dopo averci trascorsole vacanze. Come si dice, “home sweet home”, però in questo caso solo per

di Marina Mannucci

SETTEMBRE 2010

39

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:29 Pagina 39

Page 40: Abitare le culture

un breve periodo, prima di ritornare nella vita da “stranieri” nei paesi ricchid’Europa e a lavorare, spesso lavori duri, senza nemmeno essere rispettatiper questo. Ecco perché, per un immigrato, trascorrere il breve periodo divacanza “a casa propria” è una cosa di grande importanza. Si sfrutta ognioccasione per farlo, soprattutto se la “casa” è relativamente vicina, come èil caso per noi macedoni [...] Questi giovani italo-macedoni sono quelli che,a differenza dei loro genitori, ancora abbastanza legati alle proprie origini,vivono davvero queste vacanze come qualcosa di passeggero, prima di tor-nare là dove veramente stanno costruendo la loro vita, e dove voglionocontinuare a vivere e a lavorare. Dico a differenza dei loro genitori, perchéquesti ultimi hanno sempre in serbo l’alternativa del ritorno a casa, magaridopo aver lavorato faticosamente fuori.

La Democrazia Federale di Jugoslavia (in ambito locale denominataDruga Jugoslavija, ovvero Seconda Jugoslavia) nasce nel pieno dellaSeconda guerra mondiale; nel 1943, il Consiglio antifascista di libe-razione popolare proclama l’associazione di sei repubbliche: Slo-venia, Croazia, Serbia (con le sue regioni autonome della Vojvodinae del Kosovo), Montenegro, Bosnia-Erzegovina e Macedonia. La Co-stituzione entra in vigore nel 1946 ed il nome dello Stato viene mo-dificato in Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia. Josip Broz,detto Tito, capo dei partigiani, dopo aver condotto la guerra di libe-razione dall’occupazione nazista, nazionalizza vari settori dell’eco-nomia e del terziario ed avvia una riforma agraria. Grazie alla suaautorità, che lo porta ad avere anche la leadership dei paesi non al-lineati all’orientamento filo-sovietico, riesce anche nell’intento dicreare un’identità nazionale “ideologica”. Nel 1980, anno dellamorte di Tito, il processo di unità non è però consolidato: il progettodi autogestione fallisce e riappaiono le differenze socio-economi-che tra le regioni che portano ad accentuare le spinte separatiste, fa-cendo sì che il potere delle istituzioni federali si vada affievolendo.All’inizio del 1992, con la proclamazione unilaterale dell’indipen-denza di Slovenia e Croazia, ha inizio la guerra civile che terminerà

solo nel 1994. Nel 1995, a Dayton, in Ohio, viene raggiunto l’accordodi pace, ma nel 1996 compare l’Uck, esercito albanese per la libera-zione del Kosovo ed ha inizio una guerra civile anche in questa re-gione; scatta immediatamente l’offensiva dei serbi che verrannoattaccati dalla Nato nel 1999. Nello stesso anno, nella base Nato diKumanovo in Macedonia, viene firmato l’accordo che prevede il ri-tiro dei militari serbi dal Kosovo.La Macedonia ha ottenuto l’indipendenza nel 1991 ed è quindi unodegli stati creatisi dopo la dissoluzione della ex-Jugoslavia; ha unterritorio in gran parte montuoso, con la valle del fiume Vardar chedivide le catene più importanti del paese.La terra da cui Alessandro Magno mosse alla conquista del mondoantico nel IV secolo a.C. ed in cui si diffuse l’evangelizzazione por-tata dai discepoli di San Metodio, è stata anche provincia dell’im-pero bizantino, bulgaro, serbo e ottomano. Passaggi culturali chespiegano l’eccellenza di alcune produzioni architettoniche, che sepur hanno dovuto sempre fare i conti con la povertà dei mezzi,hanno saputo realizzare monasteri e chiese utilizzando con singo-lare maestria ed eleganza pietra contornata e laterizi; anche i cicli diaffreschi dell’XI e XII secolo della cattedrale di Sveta Sofija e di SvetiCliment a Ohrid e di Sveti Pantelejmon nel villaggio di Nerezi, oltread avere una sorprendente libertà narrativa, colpiscono per l’atten-zione ai risvolti psicologici e ai dettagli del racconto.

Alcuni scorci della casa del macedone Meho Sulemanski (classe 1989), in via Tommaso Gulli.

Nelle pagine precedenti la camera-studio; qui sopra la cucina e il ballatoio sul cortile

Le foto sono di Alberto Giorgio Cassani

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

40

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:29 Pagina 40

Page 41: Abitare le culture

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

A casadi Timo

Imprenditoriad’Oriente

Tre simboli del Bangladesh: lo shari, il panjabi e la racchetta da badminton.A destra, la sala da pranzo; nella pagina seguente, particolare della credenza.Le foto degli interni sono di Alberto Giorgio Cassani

41

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:30 Pagina 41

Page 42: Abitare le culture

Hossain Borat, soprannominato “Timo”, è laureato in Economia ed è natoa Dhaka, capitale del Bangladesh; ha quattro fratelli e tre sorelle, il padreè stato medico e ha lavorato anche nel settore delle assicurazioni, lamadre, oltre ad avere cresciuto otto figli, rappresenta per tutti i compo-nenti della famiglia una figura di riferimento molto importante. Il doppioimpiego in settori lavorativi così distanti tra loro è una caratteristica cheho riscontrato nei racconti di persone di diversi paesi, è un interessantefenomeno sociale da approfondire perché comincia a riguardarci da vi-

cino: è infatti in via di espansione anche nel territorio europeo. Nel 1989,all’età di vent’anni, Timo lascia la sua città con un gruppo di amici e, at-traversando Russia, Bulgaria e Jugoslavia, giunge a Roma dove si accorgeche l’aspettativa di trovare facilmente un lavoro in Italia non è poi cosìsemplice da realizzare; si trasferisce a Milano, poi a Vicenza; nel frat-tempo si specializza nel settore edile e ottiene anche la licenza per lavo-rare nel settore commerciale. Trasferitosi infine a Ravenna, Timo lavoraattualmente come mediatore culturale a livello internazionale ed è ancheresponsabile dell’inserimento di studenti del suo paese all’interno di

corsi di formazione professionali e universitari in Italia. Nel 2009, attra-verso un’agenzia interinale italiana che richiedeva personale specializ-zato nel settore infermieristico, di cui l’Italia risulterebbe esserecompletamente sprovvista, appoggiandosi ad un’agenzia del Bangla-desh, Timo riesce a far concludere un contratto che vedrà l’inserimento,negli ospedali italiani, di cento infermieri del suo paese natale. Dhaka hatredici milioni di abitanti, un quarto circa della popolazione dell’Italia;ogni mattina, mi spiega Timo, seicentomila persone povere si avviano

per le strade di tutto il paese a chiedere l’elemosina. Fino a qualche annofa, questo stato era infatti tra i più poveri al mondo; ultimamente si se-gnala una lenta ripresa e una lenta espansione di alcune branche del-l’economia, come ad esempio il settore operativo dell’informatica,l’ingegneristica, soprattutto nel campo dei cantieri navali, e il settore tes-sile di cui il paese detiene il terzo posto della produzione mondiale. Timoè presidente dell’Associazione Onlus SUNRISE, con sede presso la Casadelle Culture di Ravenna, un’associazione multiculturale che promuovela solidarietà, la pace, l’integrazione sociale e culturale, il volontariato,

di Marina Mannucci

OTTOBRE 2010

42

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:30 Pagina 42

Page 43: Abitare le culture

l’assistenza e la promozione sportiva. L’associazione avvierà quest’announ corso di badminton, sport in forte espansione e inserito, tra l’altro,dal 1992, fra le gare olimpiche; per il prossimo anno è previsto anchel’avvio di un corso di cricket. Con Timo, oltre a parlare della miseria di cuisoffre ancora una buona parte della popolazione, affrontiamo anche ilproblema dello sfruttamento minorile: per meglio farmi comprenderequesta realtà inaccettabile, mi spiega che la situazione non è molto dis-simile da quella dell’Italia fino alla Seconda guerra mondiale e nell’im-mediato dopoguerra, periodo in cui, anche nel nostro paese, i ragazzinilavoravano (pensiamo al lavoro nelle risaie), a causa dell’inadeguatezzadel reddito della famiglia a far fronte ai bisogni primari. Il riconoscimento“dell’infanzia” in Bangladesh è comunque, per ora, ancora lento e gra-duale, ma, grazie anche a importanti campagne sociali che ne promuo-vono i diritti, si sta cercando di smantellare anche in questo paese illavoro clandestino dei minori e di alzare il tasso di alfabetizzazione. Almomento, però, anche se è possibile boicottare le grandi industrie, ob-bligandole a non assumere bambini se vogliono esportare i loro prodotti,con le piccole imprese il controllo risulta ancora difficile. Un altro datopreoccupante di questo paese è la percentuale altissima di morti colle-gate alla contaminazione da arsenico delle acque. A tal proposito, l’arti-colo Arsenic exposure from drinking water, and all-cause andchronic-disease mortalities in Bangladesh, HEALS: a prospective cohortstudy, pubblicato nel giugno scorso dalla versione on-line della rivistainternazionale di medicina «The Lancet», ha aperto uno scenario inquie-tante definendo la situazione attuale come «il più grande avvelenamentodi massa nella storia di una popolazione». Paradossalmente, questa si-tuazione gravissima è anche il risultato dello sforzo del governo e delleagenzie per il sostegno allo sviluppo a partire dagli anni ’70. Nel tenta-tivo di ridurre le malattie collegate all’acqua non potabile, come colera edissenteria, si sono infatti costruiti almeno dieci milioni di pozzi. Questi,se hanno ridotto la capacità di azione dei microbi che provocano patolo-gie anche mortali, hanno però consentito la concentrazione nell’acquadell’arsenico, un materiale metallico che si trova in natura nel sottosuolodel paese. Un rimedio sarà costruire pozzi più profondi, almeno oltre idieci metri nel sottosuolo, una pratica avviata negli anni recenti ma dicui finora beneficiano, secondo gli esperti della Columbia University, sol-tanto centomila persone. Durante la visita alla casa di Timo, un apparta-mento spazioso e luminoso di un condominio moderno adiacente aiGiardini pubblici, conosco la sua giovane moglie che per l’occasione haindossato un magnifico abito tradizionale dai colori accesi. Farhana restadapprima rispettosamente e silenziosamente in disparte, poi, dopo chei nostri sguardi s’incontrano ripetutamente, comunicando il linguaggiomuto dell’intesa, che, appunto tacitamente, da secoli noi donne ci tra-mandiamo, pian piano si avvicina; io le sorrido, e dopo averle rivolto al-cune domande, Farhana corre a prendere dalla sua camera l’album difotografie del suo matrimonio e, orgogliosa, me lo porge. È un magnificodono poter sfogliare e osservare in silenzio gli scatti che riprendono unevento della sua vita così “intimo”, e che ora, mi accorgo, lei è così felicedi condividere con me. Le foto ritraggono una bellissima donna-bambinapudicamente seduta ed avvolta da uno shari dai colori unici ed indescri-vibili delle sete indiane. Timo e Farhana hanno una bimba di sette anni;il suo nome è Nafisa, che significa “Donna di Valore”.La zona dell’odierno Bangladesh era conosciuta anticamente con il nome

di Bengala, una terra in cui la popolazione buddista e quella induista sisono contese per secoli il predominio e il controllo territoriale, e in cui,sotto la dinastia imperiale moghul, l’arte e la letteratura fiorirono e il com-mercio aumentò considerevolmente aprendosi anche al traffico marit-timo mondiale. Verso il XV secolo giunsero i primi commercianti europeie la Compagnia inglese delle Indie Orientali cominciò a tassare le pro-vince della regione impostando, di fatto, un meccanismo di egemoniacoloniale a caratterizzazione prettamente economico-finanziaria.Nella prima metà del XX secolo, il Congresso Nazionale Indiano, suppor-tato da altre organizzazioni politiche, avvia una lotta per l’indipendenzaa livello nazionale, fino a che, nel 1947, l’India ottiene l’indipendenzadalla Gran Bretagna. È in quest’occasione che il Bengala Unito viene di-viso: la parte occidentale diventa uno stato dell’India, e la parte orientalesi unisce al Pakistan, malgrado le due “regioni” fossero separate da 1600chilometri attraverso l’India. Negli anni successivi, discriminazioni lin-guistiche, politiche ed economiche conducono ad agitazioni popolaricontro il Pakistan Occidentale e inizia così una sanguinosa guerra chevede, tra l’altro, l’uccisione sommaria di numerosi studenti del campusdella Dhaka University. A seguito di questi violenti disordini l’India inter-viene contro il Pakistan in quella che si ricorda come la terza guerra indo-pakistana che porta, nel 1971, all’indipendenza ed alla costituzione delloStato del Bangladesh. Nel 1991, le prime elezioni democratiche avvianouna fase di democratizzazione che è tuttora in bilico tra autoritarismomilitare e la concessione di maggiori libertà. Dalla metà degli anni ’90,l’emergenza climatica, le carestie e le inondazioni provocano ingenti

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

16

43

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:30 Pagina 43

Page 44: Abitare le culture

danni economici e strutturali all’interno del paese generando scontentie scontri sociali, spesso sfociati nel banditismo rurale e nella criminalitàurbana. Ed è proprio in questi anni che Muhammad Yunus fonda la Gra-meen Bank, una banca rurale (“grameen” in bengalese significa conta-dino) che concede prestiti e supporto organizzativo ai più poveri,altrimenti esclusi dal sistema di credito tradizionale. Fino ad oggi labanca ha concesso prestiti a più di due milioni di persone, il novanta-quattro per cento delle quali donne, ha inoltre 1.048 filiali ed è presentein 35.000 villaggi e in diverse città nel mondo. La particolarità della bancanon è solo quella di prestare denaro ai poveri ma anche di essere di pro-prietà di questi ultimi, che nel tempo ne sono diventati azionisti. I clientidi Grameen riescono via via ad avviare attività redditizie (come la venditadi focacce, la fabbricazione di sgabelli di bambù, la coltivazione del riso)che consentono loro di sfuggire sia alla miseria che agli usurai. Molto dipiù di quanto possano fare i clienti “normali” delle banche tradizionali,i clienti della Grameen rimborsano puntualmente i prestiti ricevuti; se-condo Yunus questo è dovuto a un motivo molto semplice: «I più poveridei poveri lavorano dodici ore al giorno e per guadagnarsi da mangiaredevono vendere i loro prodotti. Non c’è ragione perché non ci rimbor-sino, soprattutto se vogliono avere un altro prestito che consenta loro diresistere un giorno di più. È la miglior garanzia che possiate mai avere:la loro vita!».Raccontare il Bangladesh, parlare della sua capitale Dhaka ci induce ine-vitabilmente ad accennare al palazzo del Parlamento progettato dalgrande architetto Louis I. Kahn; ci sono voluti ventitre anni per realizzarequest’imponente complesso, proprio come per il Taj Mahal. Realizzatocompletamente a mano da operai che si arrampicavano portando i sac-chi di cemento in testa, è ora il luogo più bello del Bangladesh e rappre-senta l’Istituzione stessa della democrazia.

Il palazzo del Parlamento del Bangladesh a Dhaka, progettato dall’architetto Louis I. Kahn.

44

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:31 Pagina 44

Page 45: Abitare le culture

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

Nostalgia che fa crescere

A casadi Alina

«À la lisière des bois»(Ai margini del bosco)Artur Rimbaud, Les illuminations

45

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:31 Pagina 45

Page 46: Abitare le culture

La Moldova è un paese di cui, oltre a ricordare la sua colloca-zione geografica all’oriente dell’Europa, ben poco si conosce.Confina a ovest con la Romania e la restante parte conl’Ucraina; la sua superficie è di circa 40.000 kmq (circa un de-cimo del territorio italiano) ed è situata tra due fiumi: il Nistroe il Prut. Nel primo secolo d.C. il territorio allora chiamato Daciafu trasformato dall’imperatore Traiano in provincia romana;nella Colonna traiana, eretta a Roma, si trovano incise le gestadella guerra che hanno poi portato alla romanizzazione del po-

polo della Dacia, che prende appunto il nome di popolo ro-meno. Nei secoli successivi, il territorio romeno viene scisso intre nuovi stati: la Romania, la Moldova e la Transilvania. La Mol-dova è occupata successivamente per lungo tempo dai turchi e,durante la seconda guerra mondiale, dai russi che la rinomi-nano Moldavia. Nel 1988, con la Perestrojka, la Moldova tornaad essere uno stato autonomo e nel 1991 dichiara la propria in-dipendenza. La conformazione del territorio fisico di questo

stato ricco di pianure e colline è resa esplicita dal suo stessonome, molis-dava, morbida-città.

Alina Patrasco, originaria della Moldova, trascorre i suoi priminove anni di vita con i suoi genitori, al numero 24 di una stradadi Telenesti; 24 è anche il numero del giorno della sua nascitaed è il numero d’iscrizione sul registro scolastico.Dopo questo primo periodo, sua madre si trasferisce in Italiaalla ricerca di una sistemazione lavorativa ed Alina trascorre un

periodo di circa otto anni con la famiglia del fratello di suopadre che abita in una casa vicino ad una foresta.Se ognuno di noi porta con sé un paesaggio della memoria idil-liaco, nei ricordi di Alina sono molto presenti le immagini deiluoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, spazi agresti popolatida piante e da animali che scorazzano nell’aia, di boschi e fo-reste il cui profilo degli alberi lungo la strada attraversa le pia-nure di notte.

di Marina Mannucci

NOVEMBRE/DICEMBRE 2010

46

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:32 Pagina 46

Page 47: Abitare le culture

Un racconto che riporta ad un’atmosfera pastorale e agli sce-nari “vagamente surreali” della poesia bucolica, in cui si re-spira un senso di quiete profonda, di intima comunione con lanatura e di edenica serenità. Sono anni in cui Alina deve peròfare i conti anche con la lontananza delle persone a lei più care:il padre lavora lontano e riesce a vederlo ogni tanto, mentre lamamma è in Italia. Se il pianto e la nostalgia le tengono com-pagnia per alcuni mesi, gli impegni scolastici e quel senso diabitudine alla sopportazione in previsione di un futuro miglioreche forgia il carattere delle donne dell’est, la aiutano ad “an-dare oltre” ad “affrontare” un’inevitabile realtà.Nel 2009, all’età di diciassette anni, Alina, emozionata, parte

dall’aeroporto di Chisinau, capitale dellaMoldova, e si ricongiunge con la madre econ la zia. Giunta a Ravenna, città in cui lamadre abita e lavora, inizia subito a fre-quentare, con ottimi risultati, la mattina, ilCorso per Operatore Amministrativo segre-tariale presso il Centro di Formazione Pro-fessionale Engim, e, il pomeriggio, la scuolaMedia Statale Ricci Muratori. Trascorsipochi mesi dal suo arrivo a Ravenna, vinceil 1° Premio del Concorso “Scegliere. In unasocietà complessa”, promosso dal Punto diincontro “Ai Cappuccini” di Ravenna e so-stenuto dall’Assessorato alle Politiche Gio-vanili del Comune di Ravenna. Dopo averconseguito la licenza della terza mediaanche in Italia, attualmente è iscritta sia alsecondo anno del Corso per Operatore Am-ministrativo segretariale che al Corso seraledi Ragioneria. Alina, sua mamma e sua ziaabitano in via Alfredo Badiali ed alloggianoin una casa a schiera di una signora, la cuicura è affidata da alcuni anni alla zia diAlina. I racconti di questa ragazza moldava,le sue riflessioni sull’affetto profondo cheprova sia nei confronti del padre che dellamadre, figure che, pur nella forzata di-stanza, hanno modellato il suo percorso dicrescita, inducono a riflettere intorno ai mo-delli socio-culturali dei paesi dell’est che avolte fatichiamo a condividere. Nello speci-fico, mi riferisco a come in occidente perce-piamo il modello femminile delle donne edil modello maschile degli uomini dell’est. Glistereotipi tendono a racchiudere entrambiin ambiti di giudizio spesso negativi, in cuil’uomo risulta essere tendenzialmente undebole, con poca voglia di lavorare, spessodedito al vizio del bere, mentre alla donna,

costretta a farsi carico della conduzione materiale della fami-glia, vengono attribuiti tratti di durezza, alterandone gli aspettifemminili, e mostrandola solo interessata ad una mera siste-mazione economica. Ed è per questo, per non rimanere vittimedi giudizi legati all’ignoranza, che credo sia importante sfo-gliare alcune pagine della storia. Mi riferisco, ad esempio, alpiano di emancipazione della donna e della famiglia realizzatodallo stato sovietico subito dopo la rivoluzione d’Ottobre, che,tenendo conto del contesto e del tempo in cui fu scritto, costi-tuisce ancora oggi una punta avanzata della legislazione sulladonna e sulla famiglia e la cui influenza ha interessato anchetutte le “allora” repubbliche socialiste.L’attuazione del piano di emancipazione della donna e di so-

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

Iartà-ma Mamà

«Iartà-mà MamàCà Ti-am spus cuvinte moarteIartà-mà mamàCà din umbrà te-am privit departeCà somnul nu ti-e linistitIartà-mà mamàPentru tut ce am gresitNu plinge mamàCà soarta ne-a fàcut sà nu fim alàturisi dorul-l càutàm in deserturiCà viata ne-a faclit a suferiSà speràm cà depàrtàrile noastre odatà se vor alipi»

Alina Patrasco

Perdonami madre

«Perdonami madrese ho pronunciato parole mortePerdonami madrese nell’ombra ti ho guardata lontanase il tuo sogno non è silenziosoperdonami madreper tutto quello che ho sbagliatonon piangere madrese il destino ci ha costrette a non essere vicinela nostra mancanza l’abbiamo cercata nei desertie se la vita ci ha costrette a soffriresperiamo che in futuro le nostre distanzesi ricongiungano»

47

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:32 Pagina 47

Page 48: Abitare le culture

stituzione della forma di famiglia patriarcale-feudale con unastruttura familiare che non fosse in contraddizione con la piùampia rivoluzione in atto nei rapporti economici e sociali èstato sicuramente uno dei compiti più difficili e ambiziosi delgoverno rivoluzionario bolscevico. Nei primi anni di governosovietico, fu avviato il “Soviet-style affirmative-actions pro-gram”, ed alcune leggi abolirono formalmente la discrimina-zione sessuale sul posto di lavoro e in famiglia; maggioriopportunità professionali e d’istruzione aprirono alle donnespazi e carriere nuove riservate, prima, solo al sesso “forte”;agevolazioni permisero loro di conciliare meglio l’attività la-vorativa con quella domestica e familiare. Furono concessicongedi di maternità e istituite precise norme sui luoghi di la-voro a protezione delle donne in stato di gravidanza; nellavita politica e lavorativa molti furono i reclutamenti al femmi-nile in posizioni dirigenziali. Negli anni Venti, le donne pote-vano già contare su questi diritti e su una rete di consultoripubblici. Dopo aver conquistato l’istituto del divorzio con ilcodice del matrimonio e la famiglia del 1918, le donne pote-rono infine godere, nel 1926, di una legge che autorizzaval’aborto. Nel contempo, la dirigenza sovietica non ha saputo,però, avviare un reale confronto sociale sul ruolo dell’uomo edella donna all’interno di una società i cui cambiamenti eco-nomici e sociali erano in veloce evoluzione, lasciando così ir-risolte importanti problematiche. Nodi tematici che segnanoin ogni caso anche la vita e la cultura delle donne dei paesi oc-cidentali, come ad esempio le contraddizioni tra emancipa-zione e ruolo coniugale familiare, spesso non risolte sul pianodell’organizzazione sociale.Per quanto riguarda il problema dell’alcolismo, se ne può tro-vare una spiegazione socio- psicologica, tenendo conto siadelle condizioni climatiche abbastanza rigide che di quelleeconomiche di estrema povertà e di carenza di servizi sociali.I piccoli centri abitati autonomi ed autosufficienti, costituitiper lo più da poche case, sono spesso provvisti di un uniconegozio che è anche il punto d’incontro in cui ci si ritrova abere vodka. L’abuso di questa bevanda nei paesi dell’est hauna lunga storia alle spalle ed i diversi governi che si sonosucceduti, approfittando del monopolio sul commercio dellebevande alcoliche, ne hanno sempre tratto enormi profitti.Questa brevissima e non esaustiva disamina intorno a questeproblematiche vuol quantomeno invitare a riflettere sulla ne-cessità di conoscere ed essere informati sugli argomenti in-torno ai quali si esprimono spesso giudizi superficiali, al finedi evitare di incorrere in pregiudizi che il più delle volte sonoil risultato dell’ignoranza.

Tutte le foto sono di Alberto Giorgio Cassani

48

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:33 Pagina 48

Page 49: Abitare le culture

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

Conversandocon Mahomi

Il rito della vita

49

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:33 Pagina 49

Page 50: Abitare le culture

Mahomi Kusutani nasce e cresce ad Osaka (grande collina),città situata nella regione del Kansai, nell’isola di Honshu, allafoce del fiume Yodo. Storica capitale commerciale, Osaka an-cora oggi è uno dei maggiori distretti industriali e portuali delGiappone. Mahomi è cresciuta in un quartiere tranquillo dellasua città e con entusiasmo mi racconta di alcuni momenti divita serena trascorsi circondata dall’affetto dei suoi cari edanche dei vicini. I genitori ed i nonni materni gestivano un ne-gozio di abbigliamento con adiacente, e comunicante, l’ap-partamento di residenza di tutta la famiglia. Superata la portadi casa scorrevole che separa l’esterno dall’interno, la “casagiapponese” si affaccia su un ingresso in cui solitamente c’èun piccolo gradino che indica il punto in cui si devono lasciarele scarpe. Gli ambienti che si susseguono sono due camere dabagno, una con lavandino, bidet e water ed un’altra adibitaall’ofuru, il rito del bagno, una tradizione importata dalla Cinainsieme al Buddhismo. Dopo essere entrati nella stanza dabagno, i giapponesi si siedono su uno sgabbellino, si insapo-nano, si risciacquano con l’acqua di un catino, ed entrano poinella vasca da bagno, dove non usano mai il sapone; immer-gersi nell’acqua calda e pulita è un modo per rilassarsi, di-stendersi e scaricare lo stress accumulato durante il giorno.Una volta usciti dalla vasca, non la si svuota, perché la stessaacqua sarà utilizzata dagli altri componenti della famiglia perfare il bagno; ed è per questo che ci si deve lavare molto ac-curatamente prima di entrarvi. Le camere, a parte la cucina,sono pavimentate con tatami, pannelli rettangolari fatti conpaglia di riso intrecciata e pressata. Il tatami è utilizzato comeunità di misura degli ambienti; così, se si dice che una stanzaè di dieci tatami, o di quattro, l’interlocutore ne ha ben chiarala dimensione. I margini sono squadrati e i due lati più lunghisono orlati con una fettuccia larga di lino nero o cotone; quellidelle case nobiliari hanno, intessuti nella fettuccia, dei motiviornamentali in bianco e nero. In Giappone il tatami accompa-gna tutta la vita familiare; anche la tradizionale cerimonia deltè si svolge sui tatami – o con un braciere appoggiato o conuna modifica di uno dei tatami –, ricavando, in un angolo, unabuca quadrata (ro) con cornice laccata detta robuchi. Le ca-mere da letto hanno armadi a muro che contengono i futon, ti-pici materassi giapponesi confezionati secondo antichetecniche orientali utilizzando materiali naturali come ad esem-pio strati di fibre di cotone grezzo racchiusi con fodere di tes-suto. Nella casa tradizionale giapponese si avverte uno strettorapporto tra abitazione e natura, un’atmosfera intima e rac-colta tra materiali naturali come il legno, il bambù, le porteshoji (i pannelli mobili che formano le pareti interne) e i giar-dini zen di natura contemplativa. Ed è anche per questo che ilGiappone ha da sempre influenzato le idee di numerosi archi-tetti, a partire dagli esponenti del Movimento Moderno e del-

di Marina Mannucci

GENNAIO/FEBBRAIO 2011

«Immaginiamo l’architettura come una sorta di parco;

perché nei parchi si trovanopersone di tutte le età.

In questo spazio alcuni vengono soli,altri in gruppi più numerosi per ballare

e i bambini per giocare. È un tipo di spazio in cui ognuno può godere

della compagnia degli altri o anche starsene da solo

continuando a sentirsi parte della società»

Kazuyo Sejima, Direttore della 12a Biennale

di Architettura di Venezia

Uno scorcio del soggiorno della casa di Mahomi a Ravenna; a sinistra, origami.

50

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:34 Pagina 50

Page 51: Abitare le culture

l’Architettura Organica fino a molti architetti contemporanei.Primo fra tutti Frank Lloyd Wright che così descrive il suo in-contro con la cultura nipponica: «L’arte e l’architettura giap-ponesi hanno un carattere organico. L’arte dei giapponesi èvicina alla terra, è un prodotto autonomo generato dalle più au-toctone condizioni di vita e di lavoro, quindi a mio avviso si ac-costa al moderno assai più che non l’arte di qualsiasi altraciviltà europea o tramontata».Oltre la facciata altamente tecnologizzata delle grandi metro-poli giapponesi, dove più evidente appare il fenomeno dell’ur-banizzazione contemporanea, emerge in mille modi l’animatradizionalista del Giappone che, nonostante le infinite solleci-tazioni alla globalizzazione, mantiene solidi gran parte dei va-lori originali, non rinunciando ai riti millenari del passato, intotale antitesi con le più avanzate e futuristiche tecnologie.Tutto il moderno sistema economico e sociale si basa sul la-voro di ogni singolo individuo in totale e piena dipendenza dalgruppo o “famiglia” a cui appartiene; un lavoro incessante ecomunitario che pone la collettività al di sopra di ogni altro in-teresse. Ogni azione, in Giappone, deve tener conto dell’altro:si usa la mascherina, quando si è raffreddati, per non propa-gare la propria virulenza ai vicini e si usano i guanti alla guidadi un’auto che potrà essere utilizzata daaltri. L’inchino è un dovere, sentito e pro-fondo, è un segno della tradizione e digrande rispetto con cui si sottolinea lascala gerarchica.Mahomi mi parla dell’importanza riservataall’interno delle case ad un luogo-altare de-dicato al culto ed in cui si depongono quoti-

dianamente offerte di riso, sakè, pesce frutta e verdura. «Quandotorno a casa – mi racconta – la prima cosa che faccio è andare allacredenza-altare e salutare i miei nonni morti». Sono circa centomilioni i giapponesi che praticano una combinazione di Shintoi-smo e Buddhismo. Lo Shintoismo (da shinto, “via degli dei”) è lareligione autoctona del Giappone e nasce come pratica di cre-denze frutto della mescolanza di riti, miti, e tecniche divinatorieprofondamente radicate nella vita quotidiana del popolo giappo-nese. La filosofia di vita shintoista ruota intorno all’idea che vi siaun’armonia profonda tra gli esseri umani, la natura e le numerosedivinità che popolano l’universo. Gli esseri divini si chiamanokami, sono generalmente benigni e proteggono coloro che si ri-volgono a essi. I kami si identificano con numerosi oggetti natu-rali (montagne, ruscelli, animali, alberi, ecc.), con alcunipersonaggi mitici o storici e con gli antenati.Mahomi mi parla anche dell’importanza del giardino che nellatradizione Zen è inteso come luogo che si trasforma seguendoil costante mutamento dell’universo, creando uno spazio dipace tranquilla e di grande armonia. Il giardino Zen in stile ka-resansui è composto di due elementi: grani di sabbia biancarastrellata che rappresentano l’oceano, pietre e rocce per deli-neare le montagne e gli animali marini sacri. Dopo aver posi-

zionato le rocce secondo la propriasensibilità, occorre rastrellare la granigliadi sabbia in modo continuo senza mai fer-mare il “rastrello“. A differenza del giar-dino occidentale, che è concepito comespazio aperto e fruibile per trascorrere mo-menti di relax, il karesansui è concepitocome giardino di meditazione. Lo si os-

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

«Né un fiore, né un’ombraDov’è l’uomo?Nel trasporto di rocce,nella traccia del rastrello,nel lavoro della scrittura»

Poesia Zen

I nomi dei due figli di Mahomi in caratteri giapponesi: Isamu (Samurai) e Akimi (Raggio di sole)

51

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:34 Pagina 51

Page 52: Abitare le culture

serva e contempla da ununico lato esterno al suoperimetro, svuotando lamente per meglio perce-pire le sensazioni che co-munica attraverso lasistemazione di pochielementi dai significatisimbolici. Attraverso iracconti di Mahomi, ac-compagnati da una suapersonale aura di tran-

quillità, traspare ancora una volta l’atavica caratteristica deigiapponesi “di non litigare mai” che, d’altra parte, presup-pone un sistema molto rigido di autocontrollo e di adesioneal dovere. Inevitabilmente ci soffermiamo a confrontarci sulgrave fenomeno sociale che pone il Giappone al primo postoper numero di suicidi, un problema che gli ultimi governihanno cercato di combattere con leggi che però si sono rive-late inefficaci. Le motivazioni che spingono a questo gestoestremo hanno radici storiche nel seppuki, il suicidio ritualecon il quale gli eroi sconfitti, i samurai, si uccidevano pian-tandosi una corta spada, tantoo, nello stomaco. All’internodelle moderne megalopoli giapponesi, in cui si mescolano ar-moniosamente grattacieli dalle vertiginose altezze e quartierile cui strade sono bordate da botteghe e ristorantini, si per-cepisce quanto profonda e viscerale sia la combinazione traantiche tradizioni e modernità. Uno stile di vita che, malgradoi maxischermi pubblicitari pulsanti di pixel, trasuda ancoradel codice d’onore del samurai: un senso di obbligo, il bu-shido (via del guerriero) che accompagna i giapponesi pertutta la loro esistenza, fino alla morte; un senso di autodisci-plina e del dovere che se non viene mantenuto può appuntoportare al suicidio. Mahomi ed io non potevamo concludere la nostra lunga edamichevole chiacchierata se non parlando della cerimonia deltè (cha no yu) che per i giapponesi non è un passatempo persorseggiare in compagnia una bevanda conversando, e nem-meno un modo raffinato di dissetarsi, ma un rito dal profondosignificato filosofico, estetico ed anche artistico. Gli ospiti chepartecipano a questa “cerimonia” sono consapevoli di sod-disfare un antico ed umano bisogno di serenità, che permet-terà loro di meditare e riflettere sulle umane vicende. Allabase della filosofia della cerimonia del tè vi è l’armonia con lanatura; utensili e tazze utilizzati sono in materiale naturale evariano durante i diversi mesi dell’anno per essere sempre inaccordo con la stagione. L’ambiente in cui si svolge il rito èquasi spoglio di arredi; tutto è semplice ed il “maestro” cheesegue la cerimonia nutre un assoluto distacco dai suoi gesti:la loro raffinatezza ed eleganza sono rappresentazioni dellacalma interiore raggiunta.

Le foto sono di Alberto Giorgio Cassani

«Quando si preparanole foglie di tè, sono necessarie un’affinità particolare con l’acqua e il calore, una tradizione di ricordi da evocare, un modo tutto personale di offrire una storia»

Kakuzo Okakura

52

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:34 Pagina 52

Page 53: Abitare le culture

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

Il mondo di Margarita

Il piacere della

“tertulia”

53

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:34 Pagina 53

Page 54: Abitare le culture

È in un freddo pomeriggio di gennaio che incontroMargarita Sanchez, avvocatessa specializzata in dirittocivile e penale, nata in Colombia, a Cartagena, allegracittà caraibica ricca di storia e, dopo aver affrontatoqualche veloce preambolo su come organizzare l’in-tervista, mi sento immediatamente invadere da unamarea di buonumore.Margarita, attraverso i suoi lineamenti femminili, lasua voce, il suo sguardo e le sue movenze, trasmetteinconsapevolmente uno studio antropologico dellaColombia, di popoli – indios, spagnoli e africani – ches’incontrano e che mescolano la loro storia e le lorovite; con un entusiasmo travolgente inizia la sua nar-razione e lentamente scivolo all’interno dei suoi rac-conti, completamente assorbita da situazioni e luoghiche mi affascinano e che sento vicini. L’ascolto dellebiografie delle persone, sorseggiando un caffè, un tè,una tisana o bevendo una birra, si trasforma spessoin un’opportunità per approfondire la conoscenza dise stessi, per scoprirsi e ri-scoprirsi, oltre ad essereun’occasione unica per meglio imparare a leggere lastoria dei popoli e la geografia dei loro territori. Mar-garita mi racconta di aver conosciuto Gabriel GarcíaMárquez a Barranquilla, quando era ancora un gior-nalista poco conosciuto, durante la tertulia. In Colom-bia con il termine tertulia si indica una riunione,informale e periodica di persone interessate ad untema o ad un ramo concreto dell’arte o della scienza,per discutere, informarsi o condividere idee ed opi-nioni. A Cartagena, tutti i venerdì pomeriggio, verso lesette di sera, le persone giunte alla fine della setti-mana lavorativa, s’incontrano e, su sedie di legno, in-torno ad alcuni tavoli disposti all’aperto, all’ombra diun grande albero, intrecciano dei racconti, si scam-biano opinioni su interessi culturali, parlano dei fer-menti che animano la vita sociale, leggono alcunepagine di un libro che sono rimaste impresse e ne con-dividono il senso in un gruppo aperto, non precosti-tuito. Al gruppo con cui Margarita s’intratteneva aparlare di libri e di cultura capitava si aggiungesse Ga-briel García Márquez con alcuni suoi amici e mentretutti fumavano (tantissimo) e bevevano birre (unadopo l’altra), man mano che la birra (a bassissimo con-tenuto alcolico) cominciava ad invadere pacatamentei corpi, gli improvvisati partecipanti del convivio distrada, inarrestabili, iniziavano a raccontare interes-santi aneddoti e racconti impregnati di realismo ma-gico. Una sorta di magia caleidoscopica trasuda delresto da tutti i romanzi di Gabriel García Márquez; i leg-gendari protagonisti delle sue opere vivono in luoghifisici che si trasformano spesso in impalpabili ed affa-scinanti spazi mitologici dell’immaginazione, creati da

MARZO 2011

«Poeti e mendicanti,guerrieri e malandrini,

tutte noi creature di quella realtà eccessiva

abbiamo dovuto chiedere molto pocoall’immaginazione,

perché la sfida maggiore per noi è stata l’insufficienza

delle risorse convenzionali per rendere credibile la nostra vita.

È questo, amici, il nodo della nostra solitudine»

Gabriel García Márquez

di Marina Mannucci

54

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:35 Pagina 54

Page 55: Abitare le culture

un’inedita miscellanea di saggezza popolare e patrimonio onirico. Ilrealismo magico della figura del colonnello Aureliano Buendia, natoa Macondo, che dopo avere promosso trentadue insurrezioni fal-lendole tutte e i cui diciasette figli maschi vengono tutti uccisi,sfugge a svariati attentati finendo i suoi giorni in una bottega a fab-bricare pesciolini d’oro, si insinua così, senza trovare alcuna resi-stenza accanto a Margarita e a me, tra le tazze colme di liquidofumante che stiamo sorseggiando sempre più a nostro agio. «Se adun lettore straniero il modo di scrivere di Gabriel Garcia Marquezpuò sembrare complesso, non lo è per noi» – mi spiega Margarita –«che conosciamo tutti i luoghi e le situazioni a cui lo scrittore fa ri-ferimento. Del romanzo L’amore ai tempi del colera, epopea di unapassione narrata in modo fiabesco, con continue descrizioni di luo-ghi caraibici e delle genti che li abitano, conosco tutti i riferimenti ele situazioni». Il piccolo quartiere Manga di Cartagena citato nel libro–mi spiega ancora Margarita – è per lei un luogo familiare perché viè nata sua zia.Dopo quattordici anni di permanenza a Ra-venna, Margarita è orgogliosa di aver conser-vato e preservato nel suo modo d’essere la«struttura originaria di significati» che caratte-rizza la sua cultura, perché, mi dice, «la culturaè l’arte del coltivare – noi in spagnolo diciamocultivo; la mia cultura è il risultato di ciò che hoseminato e coltivato lungo l’arco della mia vita eche ora aspetta solo di essere raccolto, ed è perquesto che, quando mi chiedono di dove sono,con orgoglio rispondo: colombiana di Carta-gena».Poi continua: «Ora sono qui è sto imparando aconoscere la cultura romagnola e osservo con at-

tenzione i semi della vostra cultura e mi piace, ascolto, imparo, ag-giungo. “Guardare con gli occhi dell’anima”: quest’insegnamento,che noi colombiani riceviamo fin da piccoli, ci segue tutta la vita. Miopadre mi ripeteva spesso: “È molto importante stare bene con gli altri,ed allora bisogna stare attenti quando si parla, perché le cattiveriesono molto veloci a dirsi: è importante crescere imparando a dire lecose, magari anche più dure del mondo, ma senza ferire”».I detti popolari in Colombia svolgono un’importante funzione pe-dagogica in quanto racchiudono il senso di esperienze comuni, ele-mentari ed inevitabili e cercano di svelarne, attraverso una visionedel mondo arcaica ed essenziale, i meccanismi che nei secoli si ri-petono nell’agire umano. Ed è interessante verificare come alcunedi queste riflessioni siano più o meno simili in tutto il mondo: “las pa-redes tienen oidos”, insegnano i genitori ai figli in Colombia per ri-cordare loro che è importante riflettere prima di parlare e checomunque dire delle sciocchezze può essere pericoloso; situazione

che si può aggravare e diventare drammatica in re-gimi totalitari in cui il gusto di spiare è grandequanto la paura di esprimere un’opinione, comeci ricorda in un reportage del 1997 Joseph Roth,che scrive: «Anche i muri hanno orecchie. Prima diparlare, qui sparano».Mentre ascolto con attenzione Margarita e pensoche sono stata fortunata ad averla conosciuta, leiinterrompe bruscamente i miei pensieri dicendomiallegramente: «Vedi, noi adesso stiamo facendotertulia, siamo sedute intorno ad un vecchio tavolodi legno, siamo rilassate e ci stiamo regalando deiracconti»; appoggio la tazza e la guardo: è propriovero, stiamo facendo tertulia, peccato, penso, nonpoter godere anche del paesaggio caraibico. Ma,

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

«Yemayà la saggia, lagenerosa, madre di tutto edi tutti, decise di dare dellevene alla terra e creò i fiumidi acqua dolce e potabile,perché Olofi potesse crearegli esseri umani. Fu così chenacque Ochun. Le due siunirono in un abbraccio diamicizia che diede al mondoun’inestimabile ricchezza»

Natalia Bolívar Aróstegui, Opolopo Owó: Los sistemas

adivinatorios de la Regla de Ocha

55

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:35 Pagina 55

Page 56: Abitare le culture

per ora, accontentiamoci.Non ricordo come, ma,arrivate a questo puntodell’intervista, ci soffer-miamo a parlare della di-stanza e della solitudinefisica e mentale che inqualche modo caratte-

rizza il vivere contemporaneo, lontananze che a noi migrantida territori in cui ogni incontro è onorato da un abbraccio, ri-flettono a volte, improvvise, un senso di saudage, una dolcenostalgia di quel luogo e di quel tempo in cui attraverso l’ab-braccio quotidiano si trapassano gli umani corpi e per pochiattimi si arriva all’essenziale; poi, naturalmente, la vita ri-prende, ma con un senso diverso di condivisione.

«Noi, costeños colombiani – mi dice Margarita – gente chevive sulla costa in una zona portuale, non siamo “incuriositi”dai diversi colori della pelle delle persone; la Colombia è l’es-senza della multicultura, gli incroci sono la nostra normalità,non siamo un popolo di emigranti, o per lo meno non lo era-vamo e, nel bene e nel male, abbiamo sempre accolto gli stra-nieri. Gli italiani, invece, hanno alle loro spalle un’importantestoria vissuta da emigranti e, nel corso dei loro viaggi forzati,hanno sperimentato sulla loro pelle forme di razzismo nei loroconfronti. Da alcuni anni l’Italia, a seguito anche della strate-gica posizione geografica che occupa al centro del Mediter-raneo, si è però trasformata anche in nazione ospitanteimmigrati, rifugiati politici e richiedenti asilo; purtroppo, però,a causa anche di una cattiva informazione, alcuni italiani sistanno riscoprendo razzisti. Quando mi presento come co-lombiana gli stereotipi più comuni che mi sento ripetere ri-guardano il narcotraffico e la prostituzione, ed allora credoche sia molto importante lavorare su queste forme di pregiu-dizio». Rispondo a Margarita che il senso di questa rubrica –“abitare le culture” – è proprio questo: andare oltre, cambiarelo sguardo, approfondire, raccontare la storia e le storie, by-passare la chiacchiera, il pettegolezzo, la maldicenza, demo-lire i pregiudizi e denunciare le ingiustizie.Infine, affrontiamo anche il discorso della situazione politica edeconomica della Colombia, ci scambiamo opinioni riguardo al nar-cotraffico, alla contaminazione economica che ha pervaso la guer-riglia attraverso l’inarrestabile insinuarsi nel territorio dellemultinazionali; su questi argomenti ci sarebbe molto da scrivere,ma mi accorgo di non avere più battute a disposizione. Sono molti,in ogni caso, i siti che riportano notizie reali in merito alla situa-zione governativa della Colombia. Trascorsi alcuni giorni dall’in-tervista, mi reco a Casalborsetti a far visita a Margarita perrealizzare il servizio fotografico, in quest’occasione conosco labella figlia Laura del Mar; poi la mia amica colombiana mi prendela mano e mi accompagna a visitare la casa, mi stringe con forzatutto il tempo, è un contatto profondo e mi piace, perché è unmodo tacito di confermare che sentiamo le nostre vicinanze, è unmodo semplice, antico, per onorare il nostro incontro e la nascitadella nostra amicizia.

Le foto sono di Alberto Giorgio Cassani

«Ci sentiamo in diritto dicredere che non sia troppotardi per iniziare a crearel’utopia contraria. Una nuovaimpetuosa utopia della vita»

Gabriel García Márquez

56

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:35 Pagina 56

Page 57: Abitare le culture

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

«Homeless, homeless Moonlight sleeping on a midnight lake»

Paul Simon, Homeless

Una “struttura di accoglienza a bassa soglia” a Ravenna

Homeless

57

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:36 Pagina 57

Page 58: Abitare le culture

Sono le 16 e un quarto quando giungo in via Manga-gnina al centro di accoglienza notturna e diurna “Il redi Girgenti”, convenzionato con Asp-Azienda Servizialla Persona; ho un appuntamento per un colloquio-in-tervista con la gerente del centro, Carla Suprani. L’edi-ficio che accoglie il centro è dell’Istituto Autonomodelle Case Popolari, ente morale istituito il 10 novem-bre 1905 e trasformatosi successivamente in AziendaCasa Emilia-Romagna A.C.E.R., ente pubblico econo-mico con funzioni operative nel campo dell’edilizia re-sidenziale pubblica che opera attraverso lacostruzione e ge-stione di alloggi sulterritorio della pro-vincia. Suono il cam-panello: mi accoglieun operatore spie-gandomi che Carla èappena uscita per an-dare a mangiare unboccone fugace. Ilmartedì (oggi) ed ilgiovedì dalle 12 alle15 vengono distribuitialle famiglie segna-late dai servizi socialii pacchi alimentari;questo servizio com-porta un notevole im-pegno organizzativoe manuale nel gestirel’arrivo e la consegnadelle derrate alimen-tari, nonché la loro di-stribuzione agliaventi diritto, e, così,la tabella di marcia diCarla, come spessosuccede, è slittata. Miaccomodo in cucina;un ospite del centrosta preparando laprima parte dei pastiserali che, dopo essere stati confezionati e deposti inbuste, tra circa un’ora, verranno distribuiti gratuita-mente alle persone che intendono consumarli nelleloro abitazioni (Take Away: “Portare Fuori”); a seguire,vengono preparati i pasti per gli ospiti esterni ed in-terni che invece cenano nella mensa pubblica del cen-tro. Mi guardo attorno: alcuni ospiti mi scivolano

accanto, ci guardiamo in silenzio, con rispetto, accen-niamo dei sorrisi, non sappiamo nulla l’una degli altri,condividiamo uno spazio conviviale nella sua essen-zialità rassicurante; per ora è sufficiente, le parole sa-rebbero di troppo. Trascorso un quarto d’ora, giungeCarla, una donna minuta, i capelli bianchi ed un’aurapotente di forza, esperienza, coraggio ed ironia; mimostra i locali di questa “Struttura di accoglienza abassa soglia” ed infine ci sediamo in ufficio. Apertodall’8 febbraio del 2003, il centro di via Mangagnina,in cui lavorano operatori e volontari, offre ospitalità ad

un massimo di ventunpersone, tutte maggio-renni. L’ospitalità è ar-ticolata secondo tredifferenti tipologie:pronta accoglienza, ac-coglienza breve, acco-glienza lunga. Hannoaccesso al servizio del-l’alloggiamento gra-tuito notturno uomini edonne che si trovino instato di necessità, cit-tadini comunitari, stra-nieri extracomunitaricon permesso di sog-giorno, richiedentiasilo, rifugiati. Nel cen-tro diurno è possibileusufruire di alcuni ser-vizi, come ad esempio:accoglienza ed ascolto,colloqui di segretariatosociale, attività labora-toriali, corsi d’italiano,piccola colazione, uti-lizzo della doccia edella lavanderia. Gliospiti sono tenuti amantenere un compor-tamento adeguato allavita comunitaria, in

stretta osservanza delle norme igienico-sanitarie e diordine pubblico; sono inoltre obbligati al rispetto di unregolamento interno. Il termine inglese homeless – initaliano senza tetto, senza casa, senza dimora – si ri-ferisce a persone prive di una sistemazione conven-zionale che vivono nei parchi o che comunquedormono all’aperto in condizioni di precarietà; situa-

APRILE 2011

di Marina Mannucci

58

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:36 Pagina 58

Page 59: Abitare le culture

zione che li distingue dalle persone appartenenti ad una cultura no-made (come il popolo Rom) per le quali questa condizione è un fattonormale legato ad una storia antica. Le esperienze degli homelesssono quindi individuali, e le risposte devono essere flessibili e capacidi adattarsi a bisogni vari e complessi. Le circostanze che obbliganoo inducono a queste scelte di vita possono essere: la disoccupa-zione, improvvise situazioni di precarietà, crisi finanziarie, accumulodi debiti, sfratti, alto costo delle abitazioni, carente costruzione dialloggi pubblici, vicende di esclusione sociale, abusi, mancanza di

controllo sugli spazi, la sensazione di non essere accettati nella co-munità di appartenenza, situazioni di svantaggio quali disabilità emalattie croniche, vedovanza, mancanza di un luogo dove andaredopo anni di carcere, dipendenza da sostanze, traumi. All’internodella popolazione dei senza fissa dimora esistono gruppi distinti,famiglie, donne, giovani, rifugiati che necessitano di servizi specifici.Alcune di queste persone, i senza tetto, scelgono deliberatamentedi non avere una residenza permanente, come i viandanti a piedi oquelli che hanno forti convincimenti spirituali personali e non ac-

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

Le foto del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani

In questa pagina dueimmagini del centro diaccoglienza notturna ediurna di via Mangagnina,capace di accogliere ventuno ospiti che si trovino in stato dinecessità

59

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:36 Pagina 59

Page 60: Abitare le culture

cettano le condizioni delle strutture assistenziali, pro-mosse dalle amministrazioni pubbliche. Il tempo tra-scorso in strada modifica profondamente le abitudini e lavisione di queste persone che preferiscono la strada, li-bera da vincoli e costrizioni, ad un sicuro posto letto inun dormitorio. Anche a Ravenna vi sono persone chehanno fatto la scelta di trovare soluzioni abitative provvi-sorie (in grado cioè di essere montate e smontate intempi celeri) inventandosi spazi privati all’interno dei luo-ghi pubblici, vivendo la città con regole e ritmi spesso sco-nosciuti ai più e riscoprendo nuove prospettive urbanecontraddistinte da una costante mobilità all’interno dellacittà. Passando di mattina all’alba in uno dei due pas-saggi pedonali di Porta Adriana potreste imbattervi in unsimpatico cittadino del mondo che mentre ricompone ilsuo rifugio notturno vi augura una buona giornata: lo sa-luto mentre mi sorride, ci scambiamo qualche battutasulla giornata, scesa dalla bicicletta resto un po’ accantoa lui ed insieme guardiamo via Maggiore in silenzio. Al-lora, decido che in questo caso un’intervista sarebbeun’inutile curiosità.Sean Godsell (www.seangodsell.com), nativo di Mel-bourne, progettista new wave, si contraddistingue per lasua particolare sensibilità sociale ed è famoso anche peril motto «Tutti possono trarre beneficio dal buon design».Tra le sue soluzioni abitative, La casa rifugio FutureShack, una scatola di compensato con bagno, cucina emobili a scomparsa, completamente riciclabile; si puòmontare e smontare in 24 ore ed è destinata a”personein stato di emergenza”; ed è interessante anche il pro-getto La casa-panchina che cambia funzione a secondadell’ora: di giorno è appunto una panchina; di notte siapre trasformandosi in ricovero per i senzatetto. Anche ilteam abruzzese di Zo-Loft Architecture & Design ha rea-lizzato un progetto di modulo abitativo per senzatetto:Whelly, un carrello strutturato per fornire un rifugio mo-bile. Basato sul sistema del cuscinetto a rullo, è una ruotarealizzata in gomma, alluminio e cartone pressato per es-sere riciclabile al 100%, montata su un carrello di circa150 x 40 cm, delle dimensioni giuste per attraversarequalsiasi soglia. Grazie a due tende pieghevoli in polie-stere, il carrello diventa un rifugio sicuro ed intimo, prov-visto di uno spazio isolato dal terreno per dormire ed unoper poter stipare gli oggetti. La chiusura del rifugio è dop-pia: da una parte, il disco di gomma funge da isolante ri-spetto al terreno; dall’altra, l’apertura si blocca con ilsacco studiato per contenere gli effetti personali. L’ultimorapporto sulla povertà risalente all’ottobre 2010 attesta lapresenza in Italia di oltre otto milioni di poveri ed un au-mento del 25% delle richieste d’aiuto da parte di personeimpoverite che vivono in condizioni di fragilità economicae che hanno dovuto modificare in modo sostanziale il pro-prio tenore di vita. Si è fatto buio, e per strada il numerodelle persone che aspettano di entrare per consumare ilpasto serale sta aumentando. Saluto Carla, e, inaspet-tato, ricevo un graditissimo invito alla mensa di questoluogo d’accoglienza di Ravenna.

60

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:37 Pagina 60

Page 61: Abitare le culture

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

«We don’t own the land / the land owns usThe land is my mother / my mother is my land»[«Noi non siamo proprietari della terra /

la terra è la nostra padronaLa terra è la nostra madre / mia madre è la mia terra»]Dreamtime (L’era dei sogni / Il momento della Creazione)

A casa di Dave l’australiano

La Musicadella Terra

61

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:37 Pagina 61

Page 62: Abitare le culture

Un aspetto particolarmente interessante della mitologia abo-rigena australiana riguarda la percezione del territorio e, piùin generale, del mondo (per gli aborigeni, le due cose so-stanzialmente coincidono) come di un grandissimo corpo vi-vente, caratterizzato dal legame inscindibile fra le rocce, lepiante, gli animali e gli esseri umani: tutte creature del Sognoe tutte viventi di una vita cosmica interconnessa.«In quel bel giorno un raggio di sole illuminò quella pianurainfinita. La terra cominciò a tremare, a sussultare, a ingob-birsi e infine ad aprirsi in squarci sparsi qua e là. Fu da quelleaperture che uscirono Loro. Loro erano le “creature so-gnanti” i capostipiti di tutti gli uomini e le donne e di tutte lespecie animali e vegetali che avreb-bero in seguito popolato il mondo».La tradizione aborigena prevedeinoltre che determinati racconti nonpossano essere rivelati che a parti-colari individui. Vi sono, per esem-pio, storie del Dreamtime che solo ledonne conoscono, o solo gli uomini;molte storie che gli aborigeni si ri-fiutano di raccontare ai bianchi sonolegate a luoghi vietati ai turisti e solouna minima parte della mitologiaaborigena è effettivamente nota agliantropologi. Secondo quanto ripor-tato da Bruce Chatwin in Le vie deicanti, i racconti del Dreamtime tra-mandati sotto forma di canti; descri-vono i percorsi delle creatureancestrali nei loro viaggi originari ehanno una struttura musicale checorrisponde, come una sorta dimappa, alla morfologia del territorioattraversato da tale percorso.Quando, nel XVIII secolo, giunsero icolonizzatori europei, i nativi au-straliani erano prevalentemente po-poli di cacciatori-raccoglitori inpossesso di questa ricca cultura orale basata sulla venera-zione della terra e sulla fede nel “sogno”. Una combinazionedi malattie, perdita della terra e omicidi ridusse però la po-polazione aborigena di circa il 90%. Anche l’indipendenzadell’Australia dal Regno Unito cambiò poco nelle relazioni trabianchi ed aborigeni rifugiatisi nell’arido centro del conti-nente; nel contempo divennero però una rilevante fonte diforza lavoro, solitamente su base volontaria, ma a volte, difatto, in condizioni di schiavitù. Durante la prima metà del XXsecolo, diversi stati si dotarono di istituti di assistenza so-ciale per i nativi; questo fece sì, tuttavia, che circa centomila

bambini aborigeni, soprattutto meticci, vennero sottratti conla forza alle loro famiglie e fatti crescere sotto la custodiadello stato, delle missioni cattoliche, o affidati a genitori adot-tivi bianchi, con la motivazione di una più adeguata “prote-zione morale”, per essere educati come bianchi e inseritinegli stereotipi della civiltà occidentale: la Stolen Generation,la “generazione rubata”. Tale “protezione morale” includeval’imposizione religiosa, lo sfruttamento ed il lavoro obbliga-torio, maltrattamenti fisici e lo stupro, praticato su quasi ilnovanta per cento delle ragazze aborigene uscite dalle mis-sioni. Solo il 13 febbraio 2008 il neo-primo ministro KevinRudd ha presentato le scuse ufficiali alle popolazioni abori-

gene: «Chiediamo scusa per leleggi e le politiche di successivi par-lamenti e governi, che hanno in-flitto profondo dolore, sofferenze eperdite a questi nostri fratelli au-straliani. Chiediamo scusa in modospeciale per la sottrazione di bam-bini aborigeni e isolani dello strettodi Torres dalle loro famiglie, dalleloro comunità e dalle loro terre. Peril dolore, le sofferenze e le ferite diqueste generazioni rubate, allemadri e ai padri, fratelli e sorelle,per la distruzione di famiglie e dicomunità chiediamo scusa. Per lesofferenze e le umiliazioni inflittesu un popolo orgoglioso e una cul-tura orgogliosa chiediamo scusa.Noi parlamento d’Australia rispet-tosamente chiediamo che questescuse siano ricevute nello spirito incui sono offerte come contributoalla guarigione della nazione. Noioggi compiamo il primo passo nelriconoscere il passato e nel riven-dicare un futuro che abbracci tuttigli australiani. Un futuro in cui que-

sto parlamento decide che le ingiustizie del passato non deb-bano accadere mai, mai più».

Finiti gli studi, nell’anno 1999, all’età di ventitre anni, DaveKaye, nato a Perth (Australia Occidentale), giunge in Europaper fare un anno sabbatico nel Regno Unito; dopo essere an-dato a trovare la sorella in Gran Bretagna, si trasferisce in Ir-landa dove incontra Laura, una ragazza di Ravenna invacanza studio per imparare la lingua: i due giovani s’inna-morano. Trascorso circa un anno, Dave si trasferisce a Ra-venna per vivere con Laura; l’idea era di rimanerci qualche

MAGGIO 2011

di Marina Mannucci

62

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:37 Pagina 62

Page 63: Abitare le culture

mese, dopo di che i due giovani avrebbero dovuto trasferirsi in Au-stralia. Dave e Laura sono rimasti invece a Ravenna, lavorano edhanno due incantevoli bambini.Giunto in Italia con l’idea di esercitare la professione di musicista,ricordando le prime esperienze di lavoro, Dave mi racconta diquanto sia stato difficile adattarsi ai nuovi modelli lavorativi. In Au-stralia il mondo del lavoro, puntando su una meritocrazia legata airisultati, offre molte opportunità, ma presuppone anche la capa-cità di adeguarsi alla flessibilità richiesta dal mercato; chi ha qua-lità e si dà da fare può quindi raggiungere qualsiasi traguardolavorativo. Questo modello, legato al settore finanziario, produt-tivo ed anche culturale, si avvicina a quello degli Stati Uniti nel-l’eliminare con una certa brutalità i punti deboli riscontrabiliall’interno di un’organizzazione aziendale; del resto, come si può

perdere facilmente lavoro, lo si trova anche abbastanza agevol-mente e l’alto tasso di mobilità si bilancia con un buon grado di le-altà nei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore. Attualmente Daveesercita l’attività da libero professionista come docente di lingua in-glese e si dedica alla sua vera passione: la Musica.

Durante l’intervista, Dave mi spiega di come, negli anni tra-scorsi in Italia, la sua professione di musicista abbia vissuto«diverse fasi di crescita, di metamorfosi, di letargo, di evolu-zione» e di come, negli ultimi due anni, questa sua passione«si sia arricchita di nuovi significati capaci di cogliere e tra-smettere con più intensità e magia sentimenti di ogni colore,dalla gioia più vivida alla tristezza più cupa e profonda». «Lamusica», mi dice, è per lui «un veicolo plasmabile, manipola-bile, in grado di assumere anche grandezze diverse; questoanche grazie a sonorità particolari create da strumenti di varieprovenienze (didgeridoo, tablas, dobro, birimbau, corna-musa), una ricerca legata, forse in modo inconscio, ad un ata-vico bisogno, tipicamente australiano, di unire, mescolare efar uscire suoni e armonie che vengono da mondi mai incon-trati». Negli arrangiamenti delle sue composizioni il suonodella chitarra acustica si combina in modo fluido e naturalecon altri suoni e, nell’album This Functional, uscito nel feb-braio del 2010, le influenze folk ed etniche (ma non solo) simescolano armoniosamente creando un suono unico e rico-noscibile. In questo ultimo lavoro, Dave ha raggiunto una raffi-natezza e una maturità musicale molto apprezzate da intenditorie fans sia italiani che australiani. Nella scia di questa rinnovata

ABITARE LE CULTURE www.trovacasa.ra.it

Le foto del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani

«Gli Uomini del Tempo Antico percorserotutto il mondo cantando; cantarono ifiumi e le catene di montagne, le saline ele dune di sabbia. Andarono a caccia,mangiarono, fecero l’amore, danzarono,uccisero: in ogni punto delle loro pistelasciarono una scia di musica. Avvolseroil mondo intero in una rete di canto»

Bruce Chatwin, Le vie dei canti[The songlines], Adelphi, 1988

Nella foto in apertura, lo studio con tre didgeridoo, strumentotradizionale degli aborigeni australiani; in questa pagina, in alto a destra, la foto di copertina del prossimo cd di Dave,“Cruise Control”, e, a fianco, Frank O. Gehry, University of Technology di Sydney, plastico.

63

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:38 Pagina 63

Page 64: Abitare le culture

vena artistica è in uscita il suo ultimo lavoro, Cruise Con-trol, in cui il musicista attinge anche ai suoni del jazz, delrock e del funk. Nei suoi cd, tutti autoprodotti, Davesegue di persona tutti i passaggi del lavoro; questa curadi tutti i dettagli si riscontra nei prodotti musicali, tutti dialtissima qualità e disponibili su iTunes e sul sitowww.myspace.com/davekaye.Parlando con lui, Dave mi spiega che un aspetto del viveresociale del territorio italiano che apprezza molto è il diffusosenso di appartenenza ad una comunità, inteso non solocome rete di protezione, ma anche come luogo dove svi-luppare obiettivi di solidarietà. «Sono rimasto particolar-mente colpito dai laboratori sulla pace avviati in questigiorni da alcune scuole del comune di Ravenna; in Austra-lia le scuole non possono gestire autonomamente inizia-tive di questo genere, la programmazione didattica di tuttoil territorio è completamente curata da un’amministrazionecentrale; questa rigidità, pur garantendo un’uniformità for-mativa, ha, come puoi immaginare, dei limiti». Un’altra par-ticolarità della scuola australiana, in questo caso di segnopositivo, è l’importanza dedicata al gioco, sia nel rapportotempo-studio-gioco, sia nella sua dimensione legata allospazio. In Australia, l’orario scolastico prevede molto tempoda trascorrere in spazi aperti (a partire dalle scuole secon-darie di primo grado) nei cortili ampi e privi di recinzioni;sulle panchine si consuma il pasto che gli studenti portanoda casa, si gioca, si fa sport, alternando il tempo dello stu-dio al tempo del rilassamento. E a proposito di edifici sco-lastici mi piace chiudere con il progetto di Frank Gehry dellaUniversity of Technology di Sydney, un edificio di undicipiani avvolto in un involucro frammentato e asimmetrico,pensato per ospitare le attività degli studenti. Un edificio-albero nel quale coesistono un tronco con il nucleo centraledelle attività e i rami per consentire alle persone di mettersiin contatto e svolgere le proprie occupazioni. «L’edificioavrà due distinte facciate esterne, una composta di mattoniondulati, con riferimento alla pietra arenaria e all’impor-tante tradizione del laterizio nella città di Sydney, e un’altracon ampie inclinate superfici di vetro per rifrangere e riflet-tere l’immagine delle costruzioni circostanti» (architecture-anddesign.com.au).

L’aborigeno raccoglie una manciata di terra e dice: «La terra è il nostro cibo,la nostra cultura, il nostro spirito e lanostra identità. Noi non abbiamoconfini o recinzioni come i contadini,noi abbiamo solo collegamentispirituali fra noi e la terra perché noisiamo la terra come lei è parte di noi».

Dreamtime (L’era dei sogni / Il momento

della Creazione)

64

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:38 Pagina 64

Page 65: Abitare le culture

INDICE DEGLI ARTICOLI

PAG_5. “Tutte le rifiniture di questa casa sono opera di Angela”. Introduzione di Tahar Lamri.

PAG_7. Abitare le culture. Parte una ricerca in più puntate sugli spazi domestici privati e di relazione dei migranti che risiedono nel nostro territorio. A casa di Joannain «Trova Casa», V, n° 52, settembre 2009, pp. 12-16.

PAG_12. I bambini che buttano sette sassolini nel Mediterraneo. A casa di Tahar Lamri, giornalista e scrittore, nato ad Algeri e residente a Ravennain «Trova Casa», V, n° 53, ottobre 2009, pp. 10-14.

PAG_17. Gëzuar! (auguri di felicità). Ospitalità tipicamente albanese.A casa di Arijon Abdyli, originario dell’Albania, oggi imprenditore ravennatein «Trova Casa», V, n° 54, novembre 2009, pp. 11-15.

PAG_21. Icone-Immagini a casa di Billy. La ritualizzazione degli spaziin «Trova Casa Premium», n° 55, febbraio 2010, pp. 12-14.

PAG_24. Magia a passo di Samba. A casa di Carla Indirain «Trova Casa Premium», n° 56, marzo 2010, pp. 22-25.

PAG_28. Costruita con mani di donna. A casa di Maria Angelicain «Trova Casa Premium», n° 57, aprile 2010, pp. 12-14.

PAG_31. “Se i razzi diventassero palme...”. Nella casa “autocostruita” di Marcus Samirin «Trova Casa Premium», n° 58, maggio-giugno 2010, pp. 16-19.

PAG_35. Storia di Oliver. Partire, viaggiare e, forse, giungerein «Trova Casa Premium», n° 59, luglio-agosto 2010, pp. 14-16.

PAG_38. A casa di Meo. Un giovane macedone alla “conquista” del mondoin «Trova Casa Premium», n° 60, settembre 2010, pp. 14-16.

PAG_41. A casa di Timo. Imprenditoria d’Orientein «Trova Casa Premium», n° 61, ottobre 2010, pp. 14-17.

PAG_45. Nostalgia che fa crescere. A casa di Alinain «Trova Casa Premium», n° 62, novenbre-dicembre 2010, pp. 14-17.

PAG_47. Il rito della vita. Conversando con Mahomiin «Trova Casa Premium», n° 63, gennaio-febbraio 2011, pp. 14-17.

PAG_53. Il piacere della “tertulia”. Il mondo di Margaritain «Trova Casa Premium», n° 64, marzo 2011, pp. 14-17.

PAG_57. Homeless. La “Struttura di accoglienza a bassa soglia” a Ravennain «Trova Casa Premium», n° 65, aprile 2011, pp.14-17

PAG_61. La Musica della Terra. A casa di Dave l’australianoin «Trova Casa Premium», n° 66, maggio 2011, pp.14-17

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 22:07 Pagina 65

Page 66: Abitare le culture

In copertina: l’angolo studio nel salotto di Marina MannucciIn ultima di copertina: particolare della cucina, dove si sono svolte gran parte delle interviste

(le foto sono di Alberto Giorgio Cassani)

Testi e foto sono proprietà degli autori e dell'editore© Tutti i diritti riservati

Trovacasa è una testata Reclam edizioni e comunicazione srl

Redazione: viale della Lirica 43 - Ravennatel. 0544 271068 - email. [email protected]

Direttore responsabile Fausto Piazza

Editore Reclam edizioni e comunicazione srlSede e direzione commerciale: viale della Lirica 43 - Ravenna

tel. 0544 408312 - email. [email protected] generale Claudia Cuppi

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 22:07 Pagina 66

Page 67: Abitare le culture

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 22:07 Pagina 67

Page 68: Abitare le culture

ABITARE CULTURE cri 30-05-2011 21:39 Pagina 68