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FILI CHE SI INTRECCIANO - NODI CHE SI SCIOLGONO PROGETTO DI FORMAZIONE - RICERCA Roberta Bonetti

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Fascicolo realizzato in occasione del progetto realizzato con le scuole Abitare il vestito

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FILI CHE SI INTRECCIANO - NODI CHE SI SCIOLGONO

PROGETTO DI FORMAZIONE - RICERCA

Roberta Bonetti

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Roberta Bonetti

FILI CHE SI INTRECCIANO - NODI CHE SI SCIOLGONO

PROGETTO DI FORMAZIONE - RICERCA

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Presentazione

Sembra ormai consolidato il concetto pedagogico per cui il bambino è il cuore delle attività e da molto tempo tutti i momenti formativi per gli insegnanti lo considerano al centro dell’attenzione.

Quando però in una classe arrivano bambini immigrati o figli di immigrati questo principio sembra non essere più vero. Anche se si moltiplicano in questi anni i corsi di italiano ed i vari sostegni, il bambino straniero ed il suo nucleo familiare non sempre vengono messi al centro delle attività, non sempre sono valorizzate le loro capacità pregresse. Bambino e famiglia non hanno la rilevanza maggiore nel percorso didattico, ma sono loro che si devono adeguare ad un percorso già pensato.

L’idea di centralità del bambino viene in questo caso negletta, anche se ci si preoccupa di dargli strumenti per integrarsi e se gli si concedono momenti, peraltro estemporanei, in cui gli si chiede di diventare protagonista e di presentare aspetti culturali ‘tipici’ del paese d’origine dei genitori. Questo tipo di attenzione anzi lo isola in una differenza che viene sottolineata anche se non sempre corrisponde alla realtà e non di rado viene rifiutata dal bambino stesso che non vuole sentirsi diverso dagli altri.

Per questo ci è sembrato importante avviare un lavoro in cui il bambino, ogni bambino in quanto tale e non in relazione al luogo di nascita suo o dei genitori, vede intorno a sé il lavoro congiunto degli adulti, degli insegnanti e dei genitori, in un rapporto collaborativo di pari dignità pur nella differenza dei ruoli. La presenza di una antropologa assume qui il significato di portare alla luce, far risaltare, evidenziare i nuclei culturali fondativi delle persone partecipanti nella loro concretezza ed individualità, senza generalizzazioni e giudizi preconcetti. Ricercare elementi di conoscenza reciproca permette di superare la fase della buona volontà che può non reggere alle difficoltà ed alle delusioni, consente una valorizzazione di tutte le capacità ed una vicinanza di scuola e famiglia che rende più facile e proficuo operare.Per fare crescere in armonia il bambino e porre le basi di una società futura che sarà sicuramente diversa da quella conosciuta ma che si spera anch’essa armonica e felice.

Per Il Gioco degli Specchi

Lina Facchinelli

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Abitare il vestito FILI CHE SI INTRECCIANO - NODI CHE SI SCIOLGONO

Il progetto “Abitare il Vestito” promuove l’educazione alla reciprocità, riconoscendo che le diversità umane hanno come elemento fondante l’unicità delle persone. Qualsiasi diversità, infatti, prima di essere un dato culturale, legato a fenomeni migratori, attiene fondamentalmente alla sfera dell’individuo.Alla luce di questo si intende evidenziare come nei rapporti umani si incontrino persone, non culture rigidamente predeterminate. Persone che hanno una particolare visione del mondo e vivono abitudini che possono anche cambiare nel tempo.Lo scopo ultimo del progetto è, pertanto, quello di favorire relazioni autentiche che migliorino la vita sociale ed il benessere nel microcosmo in cui si vive e si agisce.

A CHI È INDIRIZZATO / OBIETTIVIDestinatari dell’iniziativa sono bambini, genitori e insegnanti delle scuole materne di Trento e provincia. L’iniziativa prevede inoltre, nel corso del suo svolgimento, la formazione e il coinvolgimento di tirocinanti e dottorandi dell’Università di Verona, Trento, Bologna.Il progetto di ricerca-formazione è in stretta attinenza con il tema dell’integrazione e con i percorsi di educazione alla convivenza civile, all’educazione interculturale, all’educazione ambientale e affettiva concernenti il rapporto tra gli individui nelle diverse culture. La proposta è orientata alla formazione di educatori e genitori su contenuti specifici e sulle modalità comunicative di tali contenuti. Agli educatori sono inoltre offerti sussidi e strumenti didattici per dare continuità al percorso di ricerca-azione nel corso dell’anno scolastico.

ATTORI ED ESPERTI DEL PROCESSO FORMATIVOIl progetto si articola sviluppando la dinamica della ricerca-azione1. In campo educativo, la ricerca – azione costituisce un elemento cardine sia per quanto riguarda la formazione dei soggetti coinvolti sia per quanto riguarda l’analisi della pratica educativa. Il tutto

Foto 1: Incontro insegnanti, genitori, coordinatrici di Mani a Pergine

1 Barbier R. 2007. La ricerca-azione, Roma: Armando Editore; Trombetta C. e L. Rosiello, 2000. La ricerca-azione. Il modello di Kurt Lewin e le sue applicazioni, Trento: Erickson; Elliott J., Giordan A., Scurati C., 1993. La ricerca-azione. Metodiche, strumenti, casi, Torino: Bollati Boringhieri.

Un ringraziamento particolaread Alberta Pisoni che sognando un’attività festosa che valorizzasse le capacità dei bambini ha dato l’avvio al progetto, a Lina Facchinelli e Maria Rosa Mura, de “Il Gioco degli Specchi”, per il coraggio e l’impegno profusi nel mondo dell’educazione, nonché per essere state il motore di questa iniziativa.

Grazie anche ad Antonella Giurato, coordinatrice pedagogica per le scuole dell’infanzia e gli asili nido presenti nel comune di Pergine, gestiti dall’”ASIF CHIMELLI”, Azienda Speciale Servizi Infanzia e Famiglia, e a Flavia Ioris, coordinatrice pedagogica Circolo 6 scuole dell’ infanzia provinciali. Senza il loro premuroso, paziente e fiducioso sostegno questo progetto condotto dall’associazione Mani Altri Sguardi non sarebbe stato possibile.

Grazie a Rita Bianchi, Francesca Crotti e Gianni Albanese per il loro prezioso contributo a questa pubblicazione.

E grazie infine alla Fondazione Cassa Rurale di Trento che ha creduto nell’importanza sociale di questo lavoro e ne ha reso concretamente possibile l’attuazione.

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8 9è finalizzato a fornire risoluzione ai problemi emersi e a introdurre cambiamenti migliorativi nei contesti indagati.Tale metodologia si è rivelata produttiva in quanto permette a tutti i soggetti in formazione di essere “attori” ed “esperti” del processo formativo.Il metodo seguito, prevedendo l’implicazione degli attori sociali nella ricerca – come soggetti e non come oggetti –, presuppone una conversione epistemologica rispetto alla ricerca e al metodo di formazione classici. Le parole chiave sono:“complessità” (attenzione a tutti gli aspetti di un fenomeno e a tutte le dimensioni dell’essere umano);“ascolto sensibile” (basato sull’empatia);“ricercatore collettivo” (il soggetto della ricerca è costituito dal ricercatore e da tutti gli attori implicati);“cambiamento” (scopo della ricerca non è la conoscenza fine a se stessa, ma l’introduzione di cambiamenti migliorativi in una pratica);“negoziazione” (dinamica relazionale);“processo” (trasformazione in itinere);“autorizzazione” (intesa come diventare autore di se stesso per appropriarsi della propria esistenza). Tale modalità si sviluppa in un processo a spirale (riflessione permanente) che tocca quattro tematiche centrali: l’individuazione del problema e la contrattazione; la pianificazione e la realizzazione; l’utilizzo di tecniche congruenti con l’approccio di ricerca-azione; la teorizzazione, la valutazione da parte di tutti i soggetti e la pubblicazione dei risultati.

TEMPI E FASI PROGETTUALIIl progetto “Abitare il vestito” si è avviato, attraverso una prima fase sperimentale, in due istituzioni scolastiche della provincia di Trento (Pergine Valsugana e Melta). Si è sviluppato in un ciclo di tre incontri per gruppo, nella primavera 2010. In futuro, ogni anno il progetto ruoterà attorno ad un argomento scelto in base delle esigenze formative che emergeranno, in via informale, durante i momenti di incontro tra tutti i soggetti coinvolti nell’iniziativa. Tali temi saranno il nucleo centrale, attorno al quale si giungerà di volta in volta all’elaborazione di un progetto educativo da realizzarsi nelle scuole materne, nel corso dell’intero anno scolastico.Il progetto nel complesso ha una durata triennale. Si svolgerà in linea con la durata del ciclo scolastico (da settembre sino a giugno). Nella prima fase, nel corso dell’anno scolastico 2010-2011 si conta di coinvolgere altri insegnanti, lavorando quindi con molti altri bambini e relativi genitori.

METODO E CONTENUTINella sua fase iniziale, l’incontro tra soggetti diversi (insegnanti, genitori, coordinatori del progetto) ha l’obiettivo di accrescere la conoscenza reciproca in modo da facilitare il processo di familiarizzazione del gruppo. Questa prima tappa è fondamentale e necessaria al fine di conoscere i punti critici sui quali basare l’azione formativa, per renderla conseguentemente esperibile grazie ad un’adeguata strategia comunicativa sulla base dei linguaggi e del background culturale dei partecipanti. I temi emersi nel corso del primo ciclo di incontri avvenuto nel 2010, e sui quali abbiamo scelto di orientare il nostro progetto formativo, ruotano attorno ai concetti di cultura e identità.

STRUMENTIGli strumenti utilizzati sono: l’indagine di campo; la redazione di un diario da parte dei ricercatori, dei coordinatori e degli insegnanti; gli strumenti dell’antropologia visuale (telecamera, macchina fotografica, ogni modalità di espressione grafica e pratica); le pratiche (il fare) a partire dai progetti didattici elaborati insieme; l’osservazione della cinesica e della prossemica per evidenziare non solo l’esternazione verbale ma ogni modalità di espressione

corporea finalizzate ad accrescere la capacità di osservazione e l’analisi autoriflessiva di tutti i soggetti coinvolti.

PUBBLICAZIONI/SUSSIDI OPERATIVI Il metodo di ricerca costituisce linea d’orientamento anche per la scrittura e la revisione delle diverse fasi della pubblicazione finale. Il testo dovrà emergere nel corso del processo di ricerca-azione come “testo condiviso”, attraverso una partecipazione e una collaborazione dei diversi soggetti coinvolti.Nel corso del primo anno saranno redatte due pubblicazioni, una “partecipata” e una a carattere scientifico. Sarà inoltre realizzato un breve documentario.

Pubblicazione partecipataQuesta prima pubblicazione dovrà rendere visibile ed esperibile, anche attraverso la lettura, la modalità di formazione-ricerca attuata per fasi con un andamento ciclico e caratterizzato dai continui rimandi e connessioni con le fasi precedenti. Il testo finale esporrà la metodologia utilizzata e il materiale didattico scaturito da tale metodo.

Pubblicazione scientificaIl testo emergerà dal lavoro di riflessione e osservazione di dottorandi e tirocinanti che seguiranno il progetto. Si tratta di uno strumento valido ai fini di una lettura critica e autoriflessiva sull’utilità della partecipazione, prezioso per una auto-formazione nel campo dell’educazione e in grado di far emergere insidie e criticità nella modalità di conduzione del progetto.

DocumentarioIl documentario si focalizzerà sulle modalità di lavoro all’interno di un gruppo e sulle relative rappresentazioni finali.

Progetti didatticiL’esperienza condotta con il gruppo e le storie emerse saranno raccolte al fine di renderle disponibili ai partecipanti, con l’intento finale di trarne un progetto educativo da svolgere nel corso dell’anno scolastico. Data la diversa conformazione dei gruppi, nei quali sono affiorate di volta in volta esigenze e caratteristiche diverse, sono sorte molteplici e peculiari linee progettuali che sono state discusse nel corso dell’ultimo incontro.Per la scuola materna di Melta sarà realizzato un progetto dal titolo “Al mercato” (foto 2) che, intrecciandosi ad una storia, metterà in mostra, alla fine del percorso, i prodotti dell’esperienza sensoriale, visiva e tattile, realizzata nel corso dell’intero anno scolastico.Per la scuola materna di Pergine si è pensato alla realizzazione di una rappresentazione presso il Teatro delle Garberie di Pergine. Lo spettacolo teatrale dal titolo “Un vestito fatto di veli - Pergine di tutti noi”, durante il quale si metteranno in scena alcune storie di vita emerse, vedrà la partecipazione di genitori, bambini e insegnanti.Tutte le fasi del progetto saranno aperte all’osservazione partecipata del personale della scuola, ai tirocinanti dell’Università e a tutti gli altri soggetti coinvolti.

Foto 2: Presentazione del progetto “Al mercato”

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Il kanga è un rettangolo di tessuto di puro cotone, con stampe appariscenti e colori brillanti. È alto circa un metro e mezzo e lungo quanto basta per coprire il corpo dal collo al ginocchio oppure dal seno alla caviglia. Il kanga è spesso venduto in coppia. Gli uomini lo indossano raramente ma lo usano di notte per coprirsi quando dormono. Le donne lo indossano ovunque e in ogni occasione. I bambini sono spesso portati sulla schiena dalle madri avvolti in una fascia ricavata dal kanga.Il tessuto si diffuse sulle coste dell’Africa orientale verso la metà del XIX° secolo. L’idea nacque quando, a Zanzibar, alcune giovani ed eleganti donne, anziché comprare sei fazzoletti di stoffa singolarmente, cominciarono a comprare la striscia intera per poi tagliarla secondo la lunghezza. In questo modo potevano unire varie strisce di colori e disegni differenti, “personalizzando” così il proprio vestito. Questo nuovo stile fu chiamato “leso”. Solo più tardi i compratori - specialmente gli uomini -, cominciarono a chiamare questi vestiti “kanga”, dal nome della chiassosa gallina faraona della Guinea tipica per le sue piume variopinte. I disegni raffigurati sui kanga si sono evoluti con il passare degli anni. Da semplici “macchie” e bordi si è passati a un’enorme varietà di motivi e colori. All’inizio il kanga era disegnato e stampato in India, in Estremo Oriente e in Europa. Oggi se ne trovano molti provenienti dalla Cina o dal Giappone. A partire dal 1950, però, la produzione di kanga si è sviluppata anche in Tanzania, in Kenya e in altri paesi africani. Ai complicati disegni sono stati aggiunti proverbi, aforismi e slogan. Una volta erano scritti in arabo, oggi si preferisce il Kiswahili.

Eccovi alcuni esempi: USINISUMBUE (non darmi fastidio), ADUI MPENDE (ama il tuo nemico), NJIA MWONGO FUPI (la strada del bugiardo è breve).

COPRICAPO TRADIZIONALEPiega e arrotola lungo la diagonale.Poi stendilo sul retro della testa.Arrotola stretti i due capi in direzioni opposte intorno alla testa.Alla fine annoda i capi sul davanti.

VARIANTE prova questo modello al contrario.

IL KANGA appariscente e brillante

MetodologiaCULTURA E IDENTITÀDalle vivaci interazioni intercorse tra genitori e insegnanti, i concetti di “cultura” e di “identità” sono emersi come gli elementi più critici. In particolare è stato da tutti riconosciuto l’alto grado di ambiguità che li caratterizza. Tutti i soggetti si sono resi conto di non poter fare a meno di ricorrere a questi termini nel linguaggio corrente, senza però riuscire a spiegare concretamente che cosa essi significhino. Dato non irrilevante, in quanto, come hanno fatto notare a più riprese i partecipanti, è proprio attorno a queste definizioni che si sviluppano gli aspetti più conflittuali e problematici del vivere quotidiano.I temi si sono progressivamente delineati in modo spontaneo nel corso delle interazioni, attraverso un dialogo a “intreccio”, caratterizzato dalla narrazione libera delle diverse storie di vita, delle memorie, e delle problematiche riscontrate nel contesto di vita attuale dei diversi soggetti. Dalla “matassa” che a mano a mano, nel corso delle interazioni, si veniva disegnando grazie all’intrecciarsi dei diversi “fili” narrativi, è sorta, in modo informale, una modalità di auto-formazione, dalla quale è poi scaturito un progetto, “aperto” e flessibile, da realizzarsi all’interno delle classi di bambini nel corso dell’intero anno scolastico. Il progetto, nel suo insieme, si è via via perfezionato come la confezione di un vestito, caratterizzata dall’incontro dei diversi habitus abitati, vissuti e indossati nella quotidianità dai diversi partecipanti. L’esperienza si è svolta in ambienti sempre diversi, dentro e fuori la scuola, compresi gli spazi privati delle famiglie (foto 3).Grazie al metodo adottato, è interessante rilevare come siano stati gli stessi partecipanti al progetto a delineare, in modi più o meno consapevoli ed impliciti, i loro significati dei concetti di cultura e identità. Va segnalato anche un altro aspetto: le cognizioni

Foto 3: Un incontro accogliente in una casa privata

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12 1313teoriche di partenza dei partecipanti, concernenti la cultura e l’identità, erano molto diverse e spesso in contrasto con quanto emergeva in modo spontaneo dalle interazioni e dai racconti che essi stessi formulavano durante gli incontri.In questo modo si delineava già, spontaneamente, uno dei possibili compiti della coordinatrice del progetto: portare in superficie, in modo che i partecipanti ne fossero consapevoli, tale divergenza contraddittoria. Questo aspetto sarebbe poi emerso nella fase di trascrizione dell’esperienza, come lavoro auto-riflessivo curato dalla coordinatrice, per essere infine restituito ai partecipanti per un’azione di confronto e di presa di consapevolezza dei nodi critici riscontrati.

NOTE CRITICHE SUL METODOIl nucleo centrale del progetto è consistito nel riposizionare i partecipanti in un ruolo significativo, diverso da quello solitamente attribuito al pubblico, spesso relegato a essere fruitore “passivo”. Per realizzare ciò, la strada intrapresa è stata quella di trasformare la modalità di trasmissione del sapere. Da una forma unidirezionale di comunicazione (da “chi sa” a “chi non sa”), si è passati a una modalità collettiva e partecipata di “fare esperienza” di esso, con un processo ciclico e a spirale. In tale modo tutti i soggetti erano in-formazione, essendo “attori” ed “esperti” del processo formativo.A livello di ricerca tale metodo ci ha permesso di compiere, tutti insieme, un tragitto di raccolta di dati per arrivare poi ad articolare delle ipotesi progettuali. I dati emersi riguardavano alcuni aspetti importanti della quotidianità: esperienze di vita, percezioni di vario genere, situazioni conflittuali dei genitori.In sostanza, abbiamo creato un reale contatto con le persone coinvolte e con i loro modi di vivere. In alcuni casi, avendo avuto accesso alle dimore private di alcuni partecipanti, abbiamo potuto creare un rapporto ancora più intimo tra i soggetti coinvolti. Con tutte le imperfezioni che questo metodo può aver avuto, ancor più perché avviato in via sperimentale, il suo punto di forza è consistito nell’aver dato vita ad uno spazio condiviso, condizione ineludibile per un dialogo aperto tra genitori, insegnanti, dirigenti scolastiche e la coordinatrice del progetto.È altresì utile annotare quanto questo metodo abbia sollevato alcune questioni controverse.La prima riguarda la forma di relazione che era stata proposta. Per molti la fase di approccio si è rivelata spiazzante e imbarazzante; per altri conflittuale; per i più liberatoria. Per le insegnanti si è trattato di vincere la resistenza prodotta dalla consolidata prassi quotidiana di avere – anche per esigenze dettate dalla routine scolastica – progetti e schemi da seguire già pronti e strutturati, di solito calati dall’alto, pensati come adatti a ogni contesto.Questo aspetto ha toccato anche il ruolo sensibile della coordinatrice, mettendo a nudo la sua reale disponibilità a farsi formare da un gruppo di persone solitamente percepite solo come “recettori del sapere”. Invece, nel nostro caso, i recettori hanno avuto la possibilità di mettere in campo esperienze e abilità di vario genere, dimostrando di poter esprimere il proprio punto di vista e la propria capacità di giudizio, anche nei confronti della persona dalla quale si attendevano di “ricevere” formazione. Se questi punti hanno moltiplicato le potenzialità del metodo, al contempo hanno aperto il varco a possibili rischi, ostacoli e resistenze. Per esempio, la metodologia dialogante avviata nel gruppo poteva essere sfiduciata da uno o più partecipanti. Ciò avrebbe messo in discussione, fin da subito, l’efficacia dell’iniziativa. E questo, in minima parte, è accaduto.Osservazioni del tipo: “Noi ci aspettavamo di poter realizzare il nostro vestitino, e su questo avevamo preparato l’incontro con i genitori”, evidenziano il peso ereditato da un metodo consueto e consolidato di ricevere conoscenza già preconfezionata, munita di “istruzioni per l’uso”. Questa maniera di ragionare, però, non tiene conto che la vera formazione è un processo esperienziale, un cammino di apprendimento concreto che può nascere e attuarsi soltanto a partire da una fase di conoscenza del contesto specifico in cui si opera. La vera formazione, in definitiva, non è mai la sterile trasmissione/acquisizione di dati. Questa riflessione ci conduce direttamente al nucleo centrale del problema, quello relativo al tema dell’apprendimento1 che appare essere così il risultato della mediazione delle diverse prospettive dei partecipanti, che negoziano e adattano continuamente il significato da attribuire agli eventi e alla realtà.Per questo, pur se in via sperimentale, abbiamo scelto di attivare un discorso che teneva nettamente separate due diverse “qualità” del sapere: da una parte il sapere trasmesso da qualcuno che parla, spiega e racconta alla presenza di qualcun altro, più o meno passivo, che ascolta; dall’altra un sapere negoziato e costruito con un grado di coinvolgimento più ampio, dove la compartecipazione è la condizione indispensabile e ineludibile perché tale trasmissione avvenga e sia realmente efficace.Inoltre, quanto più la conoscenza è prodotta in prima persona in un contesto in cui tale trasmissione è informale, tanto più questa modalità risulta pertinente a ciò che viene trasmesso, aumentando di conseguenza l’efficacia di questa azione.E, poiché parliamo di apprendere attraverso l’esperienza, è evidente che una dinamica di questo tipo non smette mai di acquisire senso e di potenziarsi, perché si alimenta ogni volta che la si mette in atto.

1 Lave J., Wenger E., 2006. L’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti sociali, Trento: Erickson.

Quando sono venuta in Italia, ho lasciato il mio paese e la guerra. Ho preso l’aereo e sono partita.Era la prima volta che viaggiavo; non sapevo dove stavo andando esattamente e sentivo come delle “farfalle” dentro lo stomaco (espressione di scombussolamento ed emozione).Nel mio paese ho visto tante persone morire; molte erano donne. A un certo punto ho pensato che era giunto il momento per me di andarmene. Avevo paura di non farcela. Pensavo, “morirò”. Ma sono partita lo stesso.Sono salita sull’aereo e sono arrivata a Milano. Lì è venuta a prendermi mia sorella. Appena scesa dall’aereo ho visto che tutti correvano. Ho pensato “c’è la guerra anche qua!”. Poi ho visto che nessuno portava armi ma solo valigie. Così mi sono tranquillizzata. […]Arrivata a casa, ho dormito per quasi due giorni senza toccare cibo. Non avevo mangiato nemmeno durante il viaggio. Mi credevano morta, invece ero soltanto molto stanca.Quando mi sono svegliata, ho mangiato. Mi hanno dato un piatto appoggiato su una cosa lunga che ha quattro zampe… e l’acqua. Aspettavo che tutti venissero a mangiare con me, invece ero sola… (ride). Allora ho chiamato gli altri. Ho detto “venite a mangiare”. E loro mi hanno risposto “stai scherzando? Quello è il piatto tuo, tu devi mangiare!”. Ma io non capivo. Mi sentivo sola ed egoista. Sì, mi sentivo proprio sola! Da noi non si mangia mai da soli. Il piatto si condivide sempre con altre persone. Poi mi hanno detto “mangia con la forchetta!”.Io volevo tornare a casa. Invece sono rimasta e ho lavorato a Milano. Poi mia sorella mi ha portato a lavorare a Trento, da una signora che era incinta. Il marito di quella signora era marinaio ed era spesso in viaggio. Anche la signora lavorava; usciva di casa la mattina e rientrava la sera. Io stavo a casa con i dieci figli. Quando è nato il bambino l’ho allevato io. A un certo punto mi chiamava mamma. Io non parlavo italiano.

Parlavo somalo. Parlavo somalo anche al bambino che ha imparato la mia lingua. Mi sono affezionata a lui.Le montagne per me erano una cosa nuova. La prima volta che le ho viste sembrava che mi venissero addosso. In inverno in mezzo alle montagne io abbassavo la voce e allora la gente mi diceva “ma che cosa fai, alza la voce!”. Allora io dicevo “ma no, se alzo la voce le montagne crollano”. Allora mi dicevano “ma tu stai scherzando!”. Un giorno mia cugina mi ha detto “Nasra, dai che andiamo a fare un giro in macchina!”. Quando siamo entrati nella prima galleria, verso Pergine, mi è venuta un’ansia che non avete idea. Ho detto a me stessa “povera me, stiamo entrando nel buco della morte, qui ci seppelliscono!” (ride). Mia cugina mi ha risposto “no, no”. Ma io ormai ero nel panico. Volevo uscire. Credevo che il corpo mi stava esplodendo. Mia cugina insisteva “non ti preoccupare, adesso usciamo, qui hanno scavato la montagna per andare dall’altra parte, è la stessa cosa che hanno fatto gli italiani in Somalia. Ti ricordi? Anche lì hanno fatto i ponti per far passare le macchine dall’altra parte.Qui è la stessa cosa, solo che non c’è molto spazio perché ci sono le montagne. Per questo le hanno scavate dentro e hanno fatto la strada”. Ma la galleria era per me come scendere nel buio, era tutto nero… e mi dicevo “mamma mia ho paura!” (ride). Poi la galleria è finita. E io ho cominciato ad abituarmi. Arrivava l’inverno, il freddo, le maglie, le calze, le coperte… mamma mia, quante cose soffici… Tutto quello che vedevo era novità [...] la mattina, appena mi svegliavo, aprivo le finestre e vedevo la montagna tutta bianca. Allora pensavo “tutto il sapone è andato fuori… chi l’ha portato? che cosa sta succedendo? […] il freddo, le nubi, la pioggia, qui c’è la montagna che crolla!”.

(Nasra, Pergine, 9 giugno 2010).

RACCONTO DI UN VIAGGIO

in un paese straniero: l’Italia

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ContenutiCONNESSIONIIl tema “cultura e identità” è emerso in modo spontaneo dall’intreccio dei dialoghi e delle memorie narrate dai partecipanti al percorso. Le seguenti riflessioni sui contenuti discussi durante gli incontri riportano parti di questi dialoghi e la loro reale concatenazione, così come sono spontaneamente emersi. Estratti dei dialoghi ad intreccio, sono qui utilizzati al fine di circoscrivere e rendere facilmente esperibile, a tutti i partecipanti, gli aspetti problematici così come sono affiorati, assieme al loro tentativo di ridefinire tali concetti all’interno di una particolare cornice relazionale.

Tale metodo ha inoltre l’obiettivo di porre in evidenza come, proprio grazie ad esso, sia potuta emergere sotto lo sguardo di tutti i soggetti coinvolti una comprensione più tangibile e meno astratta dei concetti inafferrabili di cultura, di identità e di tradizione. L’interazione ha condotto, infatti, tutti i partecipanti a riconoscere come la cultura non sia qualcosa che gli individui possiedono e di cui possono rivendicare il possesso. Essa è il risultato di un processo ecologico e negoziale, che si compie nell’interazione e si significa in un contesto.

LA CULTURA NON È UN BAGAGLIO DI COSEAffrontare un percorso di formazione per la convivenza sociale impone scelte epistemologiche tutt’altro che neutre. L’emergere di concetti chiave come cultura e identità quando si affronta il tema delle differenze, non soltanto nel contesto scolastico, si ricollega al più ampio dibattito sulla riformulazione di tali categorie conoscitive nell’attuale dibattito antropologico.Quando si parla di cultura, o culture, bisogna ricordare che abbiamo a che fare con costruzioni concettuali prodotte da circostanze storiche. Declinare il termine cultura al plurale, se può sembrare più incline a riconoscere la complessità, di fatto chiama in causa la ragione antropologica figlia dell’ideologia coloniale, in quanto classifica la realtà fluida e sempre interconnessa del proprio oggetto di studio in parti isolate e incomunicanti1, come se i gruppi umani fossero composti da soggetti che condividono in modo omogeneo la lingua, le tradizioni, le pratiche culturali, trasmesse per lo più uniformemente di generazione in generazione.Anche l’impiego dei termini “cultura” e “etnico”, quando si usano in relazione agli alunni o ai genitori alloctoni, legittima più o meno implicitamente discorsi impropri, che fanno riferimento alle culture degli altri, come se gli “altri” fossero dei prodotti pronti e confezionati con tanto di etichetta; e come se una persona “avesse” una sola cultura ereditata sulla linea di discendenza.Nelle interazioni tra i genitori emerge quanto l’intento di trasmettere un “bagaglio culturale” - considerato naturale ed implicito - da un generazione all’altra, sia al contempo accompagnato da un aspetto conflittuale che evidenzia il divario esistente tra generazioni diverse.Tale dato emerge chiaramente nel racconto di Kadija, mentre descrive le foto tratte da un album di famiglia, al gruppo dei partecipanti al progetto:

«Allora, lì nella foto (che mostra) siamo nel periodo di carnevale. Avevo portato il vestito arabo e l’avevo fatto indossare al mio bambino, l’avevo messo con forza perché lui non vuole, e vedete che nella foto sto parlando con lui: (gli dicevo) che era bello, che ci voleva, che agli altri bambini sarebbe piaciuto. Ma lui non vuole. Allora io adesso approfitto quando i compleanni vengono fatti a casa nostra. Nelle feste nostre, gli metto (a mio figlio) il vestito a casa, faccio solo la foto e glielo tolgo subito dopo, senza farlo mostrare in giro». (Kadija, Pergine 9 giugno 2010).

Interessante è l’uso del verbo “non vuole” declinato al tempo presente, che enfatizza il rifiuto del figlio di rappresentarsi in una veste già data e precostituita. Al contempo emerge la necessità di Kadjia di fissare la tradizione, anche se “soltanto” nell’attimo di

1 Amselle, J. L. 2001. Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture. Torino. Bollati Boringhieri.

una foto. La fotografia diviene comunque un’immagine “permanente” che servirà per mostrare a parenti e amici lontani i modi di rappresentare alcuni momenti salienti della vita in Italia. In tal caso la tradizione viene assunta da Kadjia quasi come un dovere. In altri casi la tradizione appare invece più come un peso, la cui trasgressione necessita di una giustificazione:

«Per esempio, io ho un cugino che quando è iniziata la guerra in Somalia è scappato in America e proprio lì, ha mandato le foto della sua famiglia, perché da noi quando esce un figlio la famiglia – è come la famiglia allargata – considera tutti, si resta tutti legati. E lui ha mandato le foto, l’ha fatto apposta perché è uscito fuori… e dalle foto si è visto che era proprio moderno, nella foto aveva (indossava) la collana. Mamma mia! Allora lì è proprio come se il mondo crollasse, “Ah, è andato proprio fuori strada!”. Mia parente mi chiama e dice: “Guarda lì nella foto, tuo cugino è diventato proprio fuori legge”. E io subito non capisco, poi vedo le foto e dico: “Ah, ora capisco! Lui ha mandato foto con collane sul collo, ma che cosa è successo? Si è cambiato il sesso? (dice con ironia) Perché la collana la porta la donna”. E una parente risponde: “È diventato donna!”.Allora lì le ho spiegato: No, non è diventato donna, è gioventù! Non è una cosa brutta, lì, gli uomini mettono collane quando sono giovani e poi quando diventano grandi e adulti le lasciano, è solo gioventù. Ah, è proprio solo gioventù hanno ripetuto tutti a voce alta! Allora lì si è sentito veramente un sospiro! Nessuno metteva in discussione la tradizione, non se ne parlava proprio… Quindi queste cose ci sono, sono solo parte delle persone…». (Nasra, Pergine 9 giugno 2010) .

In questo passaggio si avverte chiaramente il “disagio della cultura”2, ciò che provoca il camuffamento e l’occultamento della scelta arbitraria a fondamento di ogni tradizione. Mettersi le collane provoca disagio in quanto mette in evidenza quanto ogni cultura, come ogni identità, non sono fatti naturali, bensì eventi precari, frutto di scelte arbitrarie tra le tante possibili. L’imbarazzo della collana provoca incrinature nel sistema chiuso della cultura - la tradizione non si discute, si preferisce non parlarne, infatti - inducendo all’opposto al gusto possibile della diversità, al desiderio di alterità. La collana indossata provoca una fenditura nel confine della tradizione, dimostrando ancora una volta quanto l’alterità sia presente come elemento indispensabile e costitutivo della stessa identità.Dai dialoghi intercorsi tra genitori ricorrono spesso anche parole come bagaglio o patrimonio culturale (di solito precedute dal verbo portare o avere); oppure si utilizzano espressioni quali “la nostra e la loro tradizione”, “le nostre o le loro abitudini”, il “nostro o il loro stile di vita”, “i nostri o i loro vestiti”, associate in tal caso al verbo avere.Si tratta di scelte terminologiche che confermano la tendenza fuorviante a considerare la cultura come qualcosa che l’individuo acquisisce per osmosi con l’ambiente in cui cresce e, pertanto, come un’entità della quale può rivendicare il possesso. Nei dialoghi tra insegnanti, per ciò che concerne le pratiche educative, emerge anche una tendenza implicita che rimanda alla classificazione generazionale del bambino. Avviene così che l’insegnante di scuola materna spieghi con “naturalezza” ai bambini che il loro compagno di origine marocchina «non mangia carne semplicemente perché è mussulmano e di origine marocchina». In casi come questo, si corre spesso il rischio di attribuire una capacità esplicativa esaustiva al luogo di nascita dei genitori, finendo per ingabbiare le infinite possibili traiettorie di vita in schemi che soffocano l’originalità dei percorsi individuali. È facile osservare come spesso, bambini etichettati di “seconda generazione”, rifiutino di dover portare, come il figlio di Kadija, abiti e habitus quali metonimie della “loro cultura”, esprimendo chiaramente una voluta presa di distanza da quell’idea di cultura-stereotipo, al contempo vissuta come zavorra ed etichetta scomoda.In questo modo, non solo si ignora l’esperienza quotidiana di bambini che vestono tendenzialmente allo stesso modo, ascoltano la stessa musica, mangiano gli stessi cibi e parlano la stessa lingua, ma si trascura l’importanza che per i processi di identificazione assume la coscienza di appartenenza ad un gruppo.Al contempo, in molti progetti interculturali, tendenzialmente rivolti a favorire l’accoglienza e l’integrazione dell’alunno straniero, spesso le origini del bambino venuto da altrove assumono un peso così forte e sono a volte enfatizzate a tal punto che egli viene rinchiuso in una culturalizzazione reificata che può imprigionarlo in un nuovo determinismo. Allora lo si rimanda alla “sua” cultura, alla “sua” lingua, dimenticando ciò che egli costruisce o sta costruendo nel Paese che lo accoglie.

L’ALTERITÀ È DENTRO DI NOILe insegnanti hanno a più riprese chiesto chiarimenti sulle ragioni di una metodologia didattica che privilegi il tema dell’unicità del soggetto piuttosto che quello centrato sull’alterità culturale. Da un punto di vista metodologico, trattare temi interculturali, conducendo progetti che si limitano a presentare i tratti peculiari di un singolo Paese o regione (presuntivamente omogenei) del mondo ci è parso, a seguito dell’esperienza condotta in diverse

2 Remotti F. 2010. L’ossessione identitaria, Bari: Laterza, pag. 14.

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16 17scuole, controproducente. È all’ordine del giorno la conduzione di progetti sulle “culture altre” che provocano una reazione negativa, se non addirittura una fuga dal contesto scolastico da parte dei bambini ai quali tali progetti sono rivolti. Discutere con le insegnanti di ricerche svolte nell’ambito della scuola primaria ci è parso utile ai fini di un ripensamento della progettazione didattica a partire dalla scuola materna, fase che la precede e predispone il particolare atteggiamento dei bambini verso l’idea della complessità. Dalle conversazioni informali effettuate con il corpo docente di alcune scuole primarie è emerso come le alunne e gli alunni stranieri siano spesso considerati, insieme ai “diversamente abili”, la sola vera “differenza”. Nella routine dell’amministrazione della scuola e nel linguaggio comune delle insegnanti per “intercultura” si intende un’attività specifica, fatta con/o per le alunne e gli alunni stranieri, oppure un discorso fatto in classe esplicitamente attinente all’immigrazione, al razzismo, alle differenti tradizioni dei Paesi d’origine dei ragazzi. L’idea che l’approccio interculturale debba interessare trasversalmente tutta la didattica e le dinamiche relazionali degli allievi – quelle che hanno luogo a scuola tutti i giorni –, emerge assai di rado. Sempre in tale ambito, si manifesta la coincidenza, terminologica e pratica, fra intercultura e alfabetizzazione (termine impropriamente usato per indicare l’insegnamento della lingua italiana agli alunni non madrelingua). Tale aspetto si intreccia con le difficili condizioni di lavoro delle insegnanti, non soltanto per l’alto numero di alunni/e, ma anche per le richieste contraddittorie di un sistema che se da un lato raccomanda di rispettare le diversità, dall’altro impone metodi di insegnamento e di valutazione che richiedono alunni “uniformati”, in particolare dal punto di vista linguistico3.Nella pratica scolastica questi fraintendimenti riguardanti le pratiche interculturali celano insidie non prive di effetti. Da un lato permane l’idea che la diversità e l’imprevisto siano un’eccezione, o addirittura un’emergenza che viene dall’esterno, più che una normale prassi quotidiana che accompagna la pratica e la relazione in ambito educativo. Dall’altro, si determina una sorta di silenzio sulle diversità interne, presenti o passate, e un’interpretazione dei dilemmi educativi in termini culturalistici. Vi è, infine, l’errata convinzione che un certo livello di competenza linguistica in italiano costituisca un prerequisito per l’apprendimento di tutte le altre materie, matematica compresa. Ciò contribuisce alla creazione del fallimento scolastico perché, in sostanza, chi non raggiunge un adeguato livello di competenza linguistica – o meglio, chi non è “italianizzato” –, è considerato fallimentare. Tutto questo impoverisce le diverse capacità espressive dei bambini. Le ricadute che certe metodologie e contenuti didattici determinano sull’apprendimento dei bambini emerge chiaramente dal progetto interculturale “Mai dire squola”4 che agisce come strumento di indagine etnografica. In esso, gli individui giungono a generare informazioni sugli effetti determinati dai loro modelli di insegnamento, all’interno dei loro processi di apprendimento e di quello dei loro pari. Con l’ausilio di tale “metodo”, “Mai dire squola”, un percorso espositivo caratterizzato da circa 150 segnali del tipo “Attenzione bambini” di diversi paesi del mondo, ha portato alla luce alcune peculiarità. A titolo di esempio è stato interessante rilevare come i ragazzi italiani, davanti al segnale del loro Paese (foto 4), alla domanda «perché il bambino è più grande della bambina?», abbiano risposto in più del 90 per cento dei casi5 «perché negli altri Paesi la femmina non ha la stessa importanza del maschio», oppure «negli altri Paesi c’è maggiore discriminazione nei confronti della femmina». Benché avessero davanti agli occhi, senza rischi di ambiguità, il segnale italiano, i ragazzi tendevano a leggerlo facendo riferimento

3 Vedi Acquistapace A. 7 settembre 2010. “Intercultura e apprendimento della lingua italiana L2”, in Agorà, Vannini Editrice. Sulla questione relativa all’insegnamento della lingua italiana vedi anche: Favaro, G. 2002. Insegnare l’italiano agli alunni stranieri, Firenze: La Nuova Italia; Favaro G. (a cura di) 1999. Imparare l’italiano, imparare in italiano, Milano: Guerini; Luise M.C. (2006) Italiano come lingua seconda, Novara: UTET; Pallotti G. e AIPI (Associazione Interculturale Polo Interetnico) (a cura di) 2005. Insegnare e imparare l’italiano come seconda lingua. DVD + libro. Roma: Bonacci.4 Per maggiori informazioni sui contenuti e obiettivi della mostra vedi Bonetti R. 2010. Beware Children. When the Other is a street sign. Atti del Convegno “Perceiving Children”. Visual Anthropology and childhood. Århus, Denmark (In fase di stampa).; Ibidem 2009. Ti parlo con un vestito. Esempi, riflessioni e criticità circa le pratiche interculturali. Provincia di Genova, Assessorato alle Pari Opportunità; ibidem, 2007 “Dalla retorica dell’interculturalità alla comunicazione interpersonale”, in L’Educatore, Milano: Fabbri Editori, n. 4. pp. 152-154; ibidem 2005, “Etnografia di una mostra didattica. “Mai dire squola. Percorsi educativi dal mondo”, in Antropologia Museale, Imola: La Mandragora n. 12.5 Su un campione di circa 30.000 visitatori.

Foto 4: Segnale italiano di “Attenzione bambini”

all’immaginario stereotipato dei Paesi altri. È emerso in modo molto chiaro come l’alterità sia sempre e solo l’altro, anche quando siamo davanti a uno specchio. Il modo con il quale guardiamo le immagini fa emergere una visione del mondo condivisa che dirige la nostra attenzione. Tale sguardo determina e conferma un’assunzione implicita e sottintesa (ancorché storicamente determinata e funzionalmente orientata) di ciò che è dentro e di ciò che è fuori, di chi sono i noi, e di chi sono gli altri, giungendo a definire i confini di una comunità e a strutturare la vita emotiva e cognitiva dei suoi membri.Ciò ha indotto a riflettere gli insegnanti su come, normalmente, i percorsi interculturali tendano sì ad accrescere la conoscenza delle culture altre, ma con il rischio di associare qualsiasi problematica ai Paesi altri. La conseguenza è che i concetti di altro e di diverso finiscono per essere percepiti come qualcosa che è esterno a noi. Non è quindi sufficiente parlare in termini più appropriati delle altre culture. Occorre anche trovare un giusto equilibrio per non insistere troppo nel definirle; altrimenti si rischia di produrre l’effetto, non voluto ma reale, di creare un cortocircuito da «eccesso di culture»6. Per tali motivi “Mai dire squola”, più che la cultura cui la segnaletica fa riferimento, pone al centro il luogo dove si realizza l’esperienza, osservandolo in tutta la sua complessità. L’uso dell’immagine segnaletica è parso uno strumento efficace per orientare una didattica interculturale che ponesse la percezione del concetto di “altro” e “alterità”, come un viaggio verso l’interno, alla scoperta di quell’ignoto e diverso che è dentro ognuno di noi. In tal caso, l’altro, il diverso, lo sconosciuto, sono i segnali stradali stessi, non le ipotetiche culture cui essi fanno riferimento.L’ ”esotico” non appartiene soltanto a mondi lontani ma ha a che fare con le esperienze vicine e familiari della nostra quotidianità. In tal modo lo sconosciuto, lo straniero, è anche il mare di Rimini, così come ci racconta Giancarlo:

«Io sono nato sui monti e ho sempre vissuto in mezzo alle montagne. La prima volta che ho lasciato le montagne, l’ho fatto dopo sposato su insistenza di mia moglie.Sono andato a Rimini… mi ricordo ancora, appena ho visto quella distesa immensa di acqua mi sono detto… ma che cos’è questa cosa piatta e infinita mai vista prima? Poi, sono andato in Sardegna e lì il mare mi è piaciuto ancora di più. Vi sembrerà strano ma per me questa esperienza mi ha cambiato la vita. Senza dover andare tanto lontano io ho vissuto la mia esperienza esotica a Rimini.Adesso sono qui, insieme a tante mamme, per seguire il lavoro educativo che riguarda i miei figli… e mia moglie è a casa. Anni fa sarebbe stato impensabile per me fare tutto questo. Seguire i figli era soltanto una cosa da donne». (Giancarlo, Pergine, 19 maggio 2010).

L’incontro con situazioni inedite, più che con il “diverso” o con “gruppi geograficamente lontani”, può essere un’occasione straordinaria per imparare ad esprimere una propria autonomia grazie allo sviluppo di un elevato grado di fantasia e di immaginazione. Invece di creare ponti tra culture diverse, abbiamo sperimentato quanto sia molto più efficace, sul piano delle pratiche educative, creare ponti tra codici comunicativi differenti, attraverso i quali tutti i partecipanti al “gioco” possono sentirsi riconosciuti nella loro unicità – vale a dire diversità –. E “tutti” si sentono anche liberi di manifestare modalità comunicative e affettive differenziate al di fuori della logica dicotomica del vero-falso, giusto-sbagliato, interno-esterno.

IL VELO, IL RITRATTO E L’IDENTITÀNei dialoghi intercorsi tra genitori e insegnanti, emerge chiaramente come ogni soggetto non possa fare a meno di riconsiderare la “propria cultura”, la “propria tradizione”, la “propria identità”. Ma ciò che ci interessa rilevare è che, proprio grazie a questo spazio di incontro, il rimando alle tradizioni di ognuno non può avvenire solo come uno sguardo che ogni soggetto può rivolgere alla propria storia in assoluta autonomia e solitudine. Infatti, proprio nel momento in cui il soggetto cerca di guardare a se stesso vi è sempre al contempo un altro sguardo, di cui egli deve tener conto, ed è lo sguardo che gli altri presenti gli rivolgono. Gli altri però, non sono solo coloro che vengono da lontano, gli altri sono i “nostri” figli che non vogliono indossare i “nostri” vestiti, gli altri sono coloro che ci ascoltano e ci osservano. Nessuno di questi sguardi è lontano, sono tutti sguardi ravvicinati che si incrociano con i nostri sul nostro stesso terreno di dialogo, all’interno del nostro stesso spazio vissuto e abitato.Per essere più espliciti, come avrebbe potuto ognuno di noi guardare al proprio passato o concentrarsi sul proprio presente senza prendere in considerazione i rapporti che nel proprio passato o nel presente, abbiamo intrattenuto e intessuto con gli altri, e dunque inevitabilmente con il modo in cui gli altri ci hanno guardato, ovvero il giudizio che hanno espresso sui nostri comportamenti?Questo metodo di formazione incentrato più sulle connessioni sincroniche che sulle rappresentazioni di fattori culturali lontani e isolati, ha posto in evidenza anche i possibili fraintendimenti linguistici che possono nascere nel momento stesso in cui diversi soggetti si incontrano e definiscono in modi differenziati i diversi habitus che li caratterizzano. A titolo di esempio, in uno dei primi

6 Aime M. 2004. Eccessi di culture, Torino: Einaudi.

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18 1919incontri, Sofia, una signora del Marocco, aveva espressamente manifestato il suo risentimento per un fatto accadutole di recente, quando si era recata a scuola per accompagnare il figlio:

«Un bambino aveva indicato il foulard che porto in testa alla propria mamma chiedendo spiegazioni. La signora aveva spiegato al figlio che quello che io portavo in testa era semplicemente un “fazzoletto”! Non mi piace che le persone chiamino “fazzoletto” il foulard che porto in testa! Così davanti al figlio le ho detto: io non mi soffio il naso con il “fazzoletto” che mi metto in testa!» (Sofia, Pergine, 19 maggio 2010).

Continuando la conversazione, un’altra mamma presente all’incontro, con estrema delicatezza, interviene dicendo:

«Stai attenta perché questo è semplicemente un fraintendimento, quella signora non intendeva essere offensiva. Noi, qui in Trentino, chiamiamo “fazol” il foulard che mettiamo sulla testa, quindi non l’abbiamo detto nel senso denigratorio che tu intendevi…» (Silvia, Pergine, 19 maggio 2010).

Nasra, una mamma somala, incalza:

«Ah!, ma si, è vero… perché noi abbiamo avuto il colonialismo italiano e infatti noi diciamo nella nostra lingua “garbasàr” ma anche “fazzoletto”, per indicare quella cosa di telo colorata che si mette in testa…» (Nasra, Pergine, 19 maggio 2010).

A quel punto della conversazione il “fazzoletto” è divenuto un oggetto attivatore di memorie familiari e riflessioni sociali:

Sofia: «Anche da noi si usa la parola fazzoletto… ».Flavia: «Noi chiamiamo fazzoletto quello delle nostre nonne, che avevano sempre il fazzoletto in testa». (Melta, 26 maggio 2010)Diego: «Fino a 50, 60 anni fa, c’era l’usanza del copricapo maschile e femminile. Ricordo che quando andavo in un paese qui vicino a fare le vacanze estive da mia nonna, sia i maschi che le femmine usavano coprirsi il capo. C’era il cappello maschile, c’era il fazzoletto delle donne ed era una necessità per coprirsi dal sole d’estate o dal freddo d’inverno. Era una cosa più che normale. Poi […] dal dopo guerra queste usanze sono andate via via scomparendo. Adesso anche per i maschi l’uso del cappello è raro. Quella che dai primi del Novecento era la tradizione del cappello, del copricapo, … è andata scomparendo e di conseguenza anche la donna ha cominciato ad usarlo soltanto in certe condizioni che sono le festività, dall’andare a messa, a cose del genere e poi, è completamente sparito». (Melta, 26 maggio 2010)Fiorenza: «E poi […] la donna doveva coprirsi». (Melta, 26 maggio 2010)Diego: «Doveva andare in campagna, andare a fare la spesa, o cose del genere. Ci voleva il fazzoletto per fare tutte queste cose e l’uomo si metteva il copricapo. Come mai dal dopoguerra è andato via via scomparendo? È (forse) subentrato un fatto di vergogna, un qualche cosa che è venuto dall’esterno…». (Melta, 26 maggio 2010)

Sofia, la mamma di provenienza marocchina, che nel corso dell’incontro indossa il velo perché, come ci farà sapere in seguito a casa sua, è d’obbligo nelle situazioni in cui vi è una presenza maschile, interviene in questo preciso momento dell’incontro dicendo, non senza un tocco di ironia, che forse una delle ragioni ad aver fatto cadere in disuso l’uso del “fazzoletto” femminile è:

«…la Vergine Maria... !» (risate del gruppo). (Melta, 26 maggio 2010)Diego: «Non lo so, io ho pensato a certi modi che cominciavano ad arrivare dall’America, come la brillantina, il farsi vedere i capelli agghindati ad una certa maniera, non so… il subentrare del fatto che la donna andava frequentemente dal parrucchiere». (Melta, 26 maggio 2010)Erica: «Consideriamo anche che è stato tolto l’obbligo per la donna di entrare in chiesa a capo coperto». (Melta, 26 maggio 2010)Sofia: « […] (La Vergine) Maria è sempre rappresentata col velo tutta coperta e non capisco perché quando vedete noi tutte coperte vedete una cosa strana!». (risate) (Melta, 26 maggio 2010)X: «La mia mamma è friulana e il mio papà è trentino e ho notato questa differenza. Noi quando andiamo al mare, passiamo dal paese della mia mamma dove io sono stata molto. Io vado sempre al cimitero a salutare i miei nonni, la mia nonna è morta negli anni ’90 ed è rappresentata senza foulard. Però nel cimitero del paese la maggior parte delle donne sono ritratte con un foulard nero, – ci sono moltissime tombe[…] –. Quando ero piccola fino agli anni ’60 le donne friulane portavano il foulard nero, e parlo soprattutto della zona veneta, non parlo del Friuli di montagna, parlo della zona di Aviano in provincia di Pordenone. Ci sono moltissime foto delle donne che portano il foulard nero, legato qua dietro (la nuca). Quelle che erano un pochino più anziane della mia nonna, – la mia nonna era del ’13 –, quelle che avevano quei dieci anni in più della mia nonna, forse erano vedove, avevano il foulard nero tenuto legato molto stretto dietro la nuca. E le mie bambine, soprattutto Francesca che adesso è in prima elementare, si sorprendono nel vedere queste immagini. Francesca guardando le foto delle tombe mi dice: “Ma mamma guarda questa signora!” perché sono moltissime le vecchie sepolture, e c’è ancora la mia bisnonna che è rappresentata nella foto con la testa coperta, perché da quando è rimasta vedova ha sempre portato il foulard sia in casa che fuori, e lo toglieva solo di notte,

Il velo come mediatore culturale che passa dal Marocco alla Somalia, alla valle dei Mocheni, alla Calabria e alla Puglia.Veli colorati dal colore che meglio ci rappresenta arricchito da luci, brillantini, luccichii. Importanti sono i colori emersi nella serata: il bianco della neve, l’azzurro del mare, il verde della montagna, il nero del tunnel o del lutto.Il velo dovrà essere il tramite con i bambini. È importante sapere che i bambini della scuola dell’infanzia amano colori vivaci, con brillantini e luccichii, non solo le bambine ma anche i maschi amano scarpe che si illuminano quando corrono.Veli sonori. Nella prima serata abbiamo parlato di danze e di suoni: il velo è il risultato di onde e colori in movimento. Il velo come un materiale sensibile alla forma imprevedibile dell’energia.Quando la mamma somala ci riportava i suoi ricordi, è stato detto: “È come essere dentro un film”. Il velo è paragonabile alla pellicola fotografica che reagisce alla luce.Sono stati riportati gli odori. Il ricordo a volte si assottiglia, svanisce, gli odori invece no. La mamma, che ci ha ricordato l’esperienza dell’Erasmus a Parigi, ha parlato di un odore acido e forte, un odore che allontana piuttosto che avvicinare. Ma, quando hai la possibilità di poter entrare in contatto con questi odori, ecco che allora non li senti più. Il vestito di veli potrebbe essere così bello, elegante, splendente in tutte le sue sfumature ma impregnato da un odore acido, forte, che crea reticenze. Il vestito potrebbe essere intriso da essenze forti e ostili.

Si potrebbe creare un vestito per un adulto e uno per una bambina o un bambino e fare in modo di farlo entrare con queste caratteristiche nella scuola per permettere ai piccoli di cogliere tutte queste percezioni sensoriali favorendo, nell’indossarlo, curiosità e desiderio, così travolgenti da far dimenticare l’odore che emana. Volendo usare un simbolo, potrebbe essere un uccello dalle tante piume colorate che sorvola le frontiere geografiche e le diffidenze di ognuno di noi.Materiale da usare: stoffa rigida da cartamodello, stoffe velate, rasi, sete bianche, colori per stoffe, colle con brillantini, essenze da spruzzare sull’abito.

Libera, Pergine, 26 maggio 2010.

IL VELO come mediatore culturale

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20 21sia d’estate che d’inverno, ne aveva uno più leggero e uno più pesante. Allora le mie figlie mi chiedono “ma tutte queste nonne hanno il foulard nero?”, poi considerate che tutto queste foto sono in bianco e nero, e comunque i foulard sono tendenzialmente scuri». (Melta, 26 maggio 2010) Erica: «Io ricordo che mio nonno raccontava della sua mamma quando andava nei campi, a lavorare, in piena estate, sudando e trafficando, ma rigorosamente in abito lungo. Non ci si poteva smanicare [...]». (Melta, 26 maggio 2010)Flavia: «Ma forse non è che non si poteva, magari era necessario coprirsi dal sole… la nostra preoccupazione era di mantenere la pelle bianca perché avere il segno dell’abbronzatura voleva dire essere contadina, insomma, per cui a lei dava veramente fastidio, per questo ci si metteva il foulard». (Melta, 26 maggio 2010)

Varie connessioni sul tema del fazzoletto e del velo (parte non riportata in questo testo) stimola Libera, insegnante della scuola materna di Pergine, a ad elaborare un progetto per la scuola materna:

«L’ho scritto per non dimenticare. Ho pensato ad un abito fatto di veli, perché abbiamo parlato di foulard, di fazzoletti... è stato il filo conduttore del nostro ultimo incontro perché è passato dal Marocco, poi è andato in Somalia e poi nella Valle dei Mocheni. […] Sono stati riportati gli odori. Il ricordo a volte si assottiglia, svanisce, gli odori invece no. La mamma che ci ha ricordato l’esperienza dell’Erasmus a Parigi, ha parlato di un odore acido e forte, un odore che allontana piuttosto che avvicina. Ma quando hai la possibilità di poter entrare in contatto con questi odori ecco che allora non li senti più. Il vestito di veli potrebbe essere così bello, elegante, splendente in tutte le sue sfumature ma impregnato da un odore acido, forte che crea reticenze. Il vestito potrebbe essere intriso da essenze forti e ostili»7. (Pergine, 26 maggio 2010)

Il riferimento agli odori conduce Nasra a ricordare un momento significativo della sua vita:

«C’è una cosa che mi hai tolto dalla bocca. Quando sono arrivata qui a Trento cercavo anche il profumo e gli odori della mia terra, odori che non trovavo. Allora un giorno, nella famiglia per cui lavoravo – il signore è siciliano, la moglie è trentina, mi hanno portato l’arancio di Sicilia. Quando l’ho assaggiato mi sono sentita come se fossi ritornata a casa. Chi, come noi, ha lasciato la terra dove ha vissuto, il ricordo svanisce ma l’odore no, infatti ti potrà capitare di ritrovarti in un posto attraverso l’odore, e quando lo senti ti dici “ma io in questo posto ci sono già stata. Sì, credo che per i bambini noi dobbiamo giocare con questi elementi sensoriali». (Pergine, 26 maggio 2010)

Dalla serie seguente di esternazioni fatte dai genitori emerge chiaramente l’importanza del coinvolgimento corporeo nelle attività da realizzarsi con i bambini. Quel corpo che è tabù ma al contempo elemento ineludibile nell’esperienza educativa. Il corpo emerge come centro dell’affettività, del contatto, delle sensazioni, dei ricordi, dei colori:

«Io giocherei anche sull’associare dei colori a delle storie molto forti come quella di Nasra, però lascerei anche la possibilità ai bambini di scegliere i loro colori, ognuno porta un suo colore e lo associa ad un odore o ad una sensazione, inoltre utilizzerei elementi naturali odorosi, come spezie, piante, cose da fare scegliere, e magari anche da usare come stampi, come patterns per i vestiti». (Silvia, Pergine, 8 giugno 2010)

Antonella, la coordinatrice scolastica di Pergine, sottolinea l’importanza di rendere “tangibili e toccabili” le immagini emerse attraverso i racconti e le interazioni tra i genitori e le insegnanti. Qualcun altro propone che “il racconto che il bambino sceglie, poi possa anche dipingerlo, attraverso i veli. Così potrebbe nascere il velo della neve, quello del mare, quello della galleria...”.La coordinatrice scolastica invita a scegliere una di queste storie, mentre Giancarlo preferirebbe che ognuno potesse scegliere la propria perché, come sottolinea:

«nessuno di noi indossa lo stesso vestito, così i bambini saranno vestiti uno differente dall’altro. Come è emerso più volte nel corso dei nostri dialoghi il bambino non sempre vuole riconoscersi nel vestito della famiglia. Così il bambino sceglierà e costruirà la sua storia come il suo vestito». (Pergine, 8 giugno 2010)

Tutti i presenti a questo punto manifestano la curiosità di vedere come i bambini plasmeranno le storie, come risponderanno a questa nuova esperienza. Giancarlo si dimostra sempre più attivo nel contesto dell’ideazione progettuale da realizzare nelle classi:

«Sì, va bene il foulard, il velo, il vestito, però per me la cosa più importante sono gli occhi, perché si dice che sono lo specchio della vita, gli occhi!. Truccandoli bene, con dei colori a modo, risaltano molto più del vestito, perché quando ti guardano, gli occhi

risaltano più dello stesso colore». (Pergine, 8 giugno 2010)A questo punto ci rendiamo conto che stiamo elaborando un progetto didattico sul tema dell’identità. Guardare negli occhi un individuo è un gesto forte, perché significa “entrare” nel soggetto. Se li guardiamo bene negli occhi, i “noi” presentano confini sfumati e arbitrari, divenendo molteplici. Se la distanza omologa, imponendo confini netti e indiscutibili, la vicinanza ci rende tutti più diversi ma al contempo uguali nelle nostre reciproche diversità. “Io è l’altro” diceva Rimbaud, mentre Amadou Hampâté Bâ a proposito della complessità umana scriveva: “le persone di una persona sono numerose in ogni persona”8:

«l’idea del ritratto è molto bella, perché se io sono ritratta contemporaneamente da venti persone mi ritroverò con venti diverse immagini di me stessa. Alla domanda: “Chi sono io?” il bimbo si rende conto che “io sono tante persone quante le relazioni che ognuno dei miei osservatori ha con me, perché ognuno di loro mi vede a seconda della sua esperienza e del proprio punto di vista». (Roberta, Pergine, 9 giugno 2010)

La molteplicità dei ritratti di me stesso mettono in scena la labilità, la porosità e la provvisorietà dei confini tra me e l’altro, indicando che l’alterità è già dentro e parte di noi. Silvia, a questo punto, suggerisce un’idea straordinaria, quella di costruire delle maschere rivestite a specchio con delle aperture al posto degli occhi, in modo che chi vi si specchia possa vedere riflesso il proprio viso ma con gli occhi dell’altro. Il ritratto ed il vestito emergono in questo modo come strumento ideale anche per un percorso sul tema dei generi:

«Si potrebbe ideare un percorso dove ogni bambino è libero di scegliere il proprio vestito. Allo stesso modo il bambino sarà libero di scegliere il suo carattere, il suo aspetto e, perché no, anche il suo genere. Se così non fosse il vestito rischierebbe di divenire un segno di rigidità. Perché il bambino deve portare per forza il vestito della mamma o della famiglia? Il bambino sceglie il proprio vestito, eredita una storia della famiglia ma al contempo la reinterpreta e la trasforma. I bambini si troveranno con le nostre storie, storie che sceglieranno e reinterpreteranno a partire dal loro gusto personale». (Roberta, Pergine, 19 maggio 2010)

Travestirsi per provare a giocare con l’identità, con il genere, con diverse forme di appartenenza e con la moda. Travestimento come nostalgia e memoria dell’infanzia. I genitori hanno più volte ricordato l’importanza che il travestimento ha assunto non solo nella loro infanzia:

«Ero in Piemonte che lavoravo e ho partecipato al carnevale ed ero vestito da paggio da corte in calza maglia, poi sono venuto qua e nel periodo di carnevale mi sono vestito da donna. Io ho due sorelle, così è stato facile per me recuperare calze a rete, minigonna, trucchi. Non so come fanno le donne a portare le calze a rete (ride) perché ti schiacciano dappertutto! (All’epoca) ero senza barba e avevo più capelli. E tutti quelli che mi vedevano dicevano “però, non male come donna”. Ero diventato una donna!». (Giancarlo, Pergine, 19 maggio 2010).

Il tema del travestimento riporta a galla una serie di memorie in tutti i partecipanti al progetto. Antonella, ricorda alcuni momenti della sua infanzia:

«Se pensiamo alla nostra infanzia credo che i giochi dei travestimenti, nelle case, ce li facevamo tutti”. Era un modo per giocare con l’identità, quasi per provare a vedere quella che, come un vestito, si adattava meglio alla nostra personalità». (Pergine, 9 giugno 2010)

Allo stesso tempo però, il tema del travestimento ci conduce ad una situazione altamente insidiosa soprattutto nel momento in cui, uscendo dallo spazio libero e legittimo del gioco, esso diviene un comportamento reale e permamente:

«Non è che perché hai un figlio che vuole vestirsi da donna o da bambina lo devi castigare… io ho sentito, non so se è vero, che qualcuno è addirittura arrivato ad abbandonare il proprio figlio perché voleva vestirsi da donna e girare vestito da donna! L’atteggiamento giusto sarebbe invece quello di aiutarlo. Se tuo figlio ha un problema, si guarda di aiutarlo, però certi hanno ancora quella mentalità… tu sei un maschio, e devi essere maschio» (Giancarlo, Pergine, 19 maggio 2010).

L’esternazione di Giancarlo evidenza le reali difficoltà che ogni genitore potrebbe avere nel doversi confrontare con comportamenti considerati culturalmente illeciti, al di fuori degli schemi precostituiti. “Aiutare il figlio” che sceglie un habitus diverso, significa considerare tale differenza come un’anomalia del sistema mettendo in luce lo scarto tra la libertà e la legittimità di scelta di una qualsiasi identità da parte di un bambino nello spazio del gioco, e la scelta, considerata illegittima, nello spazio della vita reale e quotidiana. Al contempo, nell’esternazione di Giancarlo, questa frattura sembra voler essere risolta dalla manifesta presa di

8 . Hampâté Bâ 2001. Amkoullel, il bambino fulbe, Ibis: Como-Pavia.7 Vedi box Il velo come mediatore culturale, pag. 17

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22 23distanza rispetto a coloro che “hanno ancora una certa mentalità”, spostando “fuori da sé” tutti quelli che pensano che siccome “tu sei un maschio, allo devi esserlo per forza”.È proprio in tale punto limine che appare evidente la volontà espressa da più di un genitore di superare la visione naturalizzata e non naturale di una certa differenza, come una mamma quando, intervenendo con forza, dichiara:

«Ma quali fattori naturali! L’identità di genere è un’identità culturalmente applicata e non certo un dato naturale». (X, 26 maggio 2010)

La discussione conduce i partecipanti a riflettere anche sul tema della vergogna sociale e sul significato culturale della nudità. Tanti sono gli argomenti emersi. Per qualcuno è stato utile confrontarsi con modi diversi di considerare l’essere vestiti o nudi. Accanto a popoli che mantengono pressoché inalterato il valore della “nudità”, come capita presso alcuni gruppi del Sudan meridionale, troviamo popolazioni che invece usano coprire rigorosamente il corpo, in particolare quello femminile. Anche la nudità è un dato culturale, quindi assume significati diversi a seconda delle usanze locali. Una bambina sudanese, si sente “vestita” quando ha il corpo unto d’olio, esattamente come si sente “vestita” una bambina italiana quando indossa jeans e maglietta. Tra le donne nuba, nel Kordofan sudanese, la nudità del corpo non crea scandalo e anzi va mostrata. Questa è una regola soprattutto per le ragazze giovani, che hanno la libertà di non celare il corpo quando è nel pieno della sua prestanza. Solo all’inizio della gravidanza, quando il corpo gradualmente si modifica, deve essere nascosto dai vestiti. Fino all’età di quattro anni il “vestito” delle bambine nuba è un velo d’olio, mischiato a pigmenti colorati, con il quale si cospargono tutti i giorni il corpo, il viso e i capelli. Una ragazza non unta si sentirebbe nuda. Se non è l’olio, allora il vestito è costituito dalla cintura, cioè da una sottile striscia di cuoio legata attorno ai fianchi. Questo tema ha suscitato alcuni interrogativi nei genitori: come affrontare la questione della nudità così come si manifesta nel nostro ambito culturale? Come spiegare la nudità che appare sui “luoghi” mediatici e, in particolare, su quello televisivo?

«Il grande adesso ha sette anni. L’anno scorso, quando vedeva pubblicità o spettacoli che (normalmente) vedono i ragazzi, con le persone vestite in quel modo diceva: “Mamma, ma perché queste donne sono nude mentre la gente fuori (dallo spazio televisivo) è vestita? Ma perché miliardi e miliardi di persone fuori (dalla televisione) si nascondono?”. Allora io ho cercato di spiegargli, solo che non trovavo il modo, anche perché non volevo offendere. Allora gli ho detto: “Vedi qui (nella televisione) vogliono vendere dei prodotti che la gente non può vedere fuori e allora mettono corpo nel reggiseno, mettono corpo nelle mutande o magari nel… come si chiama… il boxer… e allora in questo modo la gente lo compra, allora in quel modo lì passa il messaggio”. (Nasra, Pergine, 26 maggio 2010)

Come fili che s’intrecciano, i dialoghi sin qui descritti hanno permesso a tutti i partecipanti di affrontare una serie di aspetti che altrimenti sarebbero rimasti ancorati a un piano esclusivamente teorico. Il tema del vestito, come habitus, è emerso in modo spontaneo nelle relazioni aperte tra i diversi soggetti. Mentre l’idea del vestito come tessitura, come azione, ha orientato metodologicamente il progetto sin dai suoi inizi.Questo metodo ha condotto i partecipanti a scoprirsi parte di una stessa cultura, continuamente negoziata e molteplice. Una cultura che non proviene da lontano ma dal contesto relazionale di cui fanno parte i diversi soggetti. Le storie di vita sono nate da un progetto familiare, in cui ogni memoria determinava la storia degli altri in un processo a spirale. Storie narrate e che continuamente ritornano, rinnovate e reinventate.Alla fine si è creata una matassa di fili diversi, diversamente intrecciati, unica e irripetibile. Forse è questa la migliore definizione di concetti inafferrabili, come quelli di cultura e di identità, che siamo riusciti a darci finora.

Proposte progettuali a cura di Elisa Rossignoli

SUGGERIMENTISeguono alcune proposte progettuali nate dagli incontri con insegnanti e genitori. Nella loro stesura si è tenuto conto di ciò che è emerso nel gruppo di lavoro in termini di storie di vita, suggerimenti didattico-pratici, note metodologiche e suggestioni estemporanee sgorgate dalla condivisione delle esperienze personali dei partecipanti e da ciò che esse suscitavano di volta in volta nelle memorie degli altri. È nato così un intreccio, un tessuto di storie, che può diventare una nuova esperienza da proporre ai bambini e agli adulti che li accompagneranno lungo il percorso di “abitare il vestito”.Le proposte che seguono, non intendono quindi essere esaustive né vincolanti, ma vanno intese come uno strumento atto a facilitare la realizzazione delle attività all’interno delle diverse classi, rielaborando, eliminando, sostituendo e aggiungendo ciò che il gruppo di lavoro riterrà più utile e adeguato ai bambini coinvolti.Sarà cura del gruppo di lavoro composto da insegnanti e genitori pianificare le attività nel calendario scolastico, così come la scelta di quante e quali esperienze proporre ai bambini. A scadenze programmate verrà fatto il punto della situazione con le coordinatrici dell’Associazione MANI.Alla fine di ciascuno dei due percorsi vi sarà un momento conclusivo (ovviamente diverso e specifico nei contenuti) che raccoglierà tutta l’esperienza vissuta insieme.

Alcune note di metodo Sarà utile far uso di volta in volta di oggetti, di storie, di elementi che coinvolgano il più possibile in prima persona i genitori e gli insegnanti presenti. I suggerimenti che seguono potranno essere liberamente declinati a ciò che il gruppo riterrà più adatto ai bambini al fine di facilitarne l’esperienza, mettendo in campo tutte le risorse disponibili. Ad esempio, nella bancarella del mercato in cui si incontrano le stoffe, se c’è un tipo di vestito particolare legato ad una memoria, una tradizione, una storia, si potrà inserire.

Sarebbe interessante che le maestre e i genitori potessero utilizzare, dove lo si riterrà opportuno, giochi, canzoncine, musiche, ritmi, ninnenanne, filastrocche da insegnare ai bambini, nella loro lingua originale.

Per facilitare l’”immersione” di bambini nell’esperienza, può essere utile proporre attività che sottolineino l’uso di una combinazione di sensi non scontata. Ad esempio:

un’esperienza che escluda la vista (al buio o bendati) e richieda l’utilizzo di olfatto, tatto e udito; la richiesta di muoversi o danzare, in un ambiente piccolo e stretto (ma in alcun modo costrittivo) che faciliti il contatto del corpo con alcuni elementi (ad esempio, “sgusciare” tra le stoffe);

un’esperienza che escluda il linguaggio verbale e spinga ad esprimersi attraverso sguardi e movimenti; infine, l’associazione del vestito a un odore e/o a una memoria, i sogni/desideri ad un colore, una melodia ad un movimento o ad un colore e così via.

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1 Ravishankar A., 2008. Al mercato al mercato!, Milano: ed. Babalibri.

Odori: le spezie, i profumi (“Mi sento un fiore ed ho un buon odore”, “starnuto al peperoncino”)4.

I sapori È azzardato provare a cucinare qualcosa e mangiare da un piatto comune? (la storia di Nasra e il riferimento alla ‘ngera5. Anche in questo caso sarebbe molto utile la memoria di un genitore o insegnante).

Il movimento: far danzare il vestito e gli accessori Ad esempio i braccialetti, provare a farli danzare (“Le mie braccia come ali si riempiono di bracciali”)6 differenziandone i suoni (i braccialetti di metallo hanno un suono diverso da quelli di vetro e da quelli di plastica, e così via).

L’udito, il tatto, l’olfatto Le stoffe da attraversare, poterne sentire il fruscio e le diverse consistenze (“furtiva furtiva”)7, far suonare i vestiti e annusarli... che diversi odori avranno?

Il vestito come identità La storia dell’elefantino che, trovatosi a vivere con i bufali, alla fine si abitua a questa nuova, diversa “normalità”. E anche quando è cresciuto, ritrovandosi a contatto con il branco di elefanti, sceglie comunque di “restare bufalo”8. A ciò si può agganciare, anche sulla falsariga della storia, un’attività su come si muovono gli animali. Che animale sei? Come danza il tuo animale? (ad esempio, i pesci, gli uccelli, il serpente, l’elefante...che differenza c’è nella “danza” di questi animali?).

I ritratti e le maschere (“così tanti me”) 9

Tutti i bambini possono ritrarre uno o più compagni10. Alla fine sarà interessante commentare con i bambini la non univocità della rappresentazione.

Tutti i bambini possono creare la loro maschera, dopo aver magari incontrato alcuni tipi diversi di maschere con diverse funzioni (anche qui sarà fondamentale il ricorso al bagaglio di esperienze personali degli adulti coinvolti nel progetto).

IL MERCATO (Scuola materna di Melta)

Seguendo la traccia del libro AL MERCATO AL MERCATO! di A. Ravishankar1, e i suggerimenti emersi dagli incontri con genitori ed insegnanti, si propone di realizzare con i bambini, durante l’anno scolastico, una serie di esperienze sensoriali che attraversano il tema del vestito. Al termine del progetto si propone di concludere l’esperienza realizzata nelle classi con la realizzazione di un vero e proprio mercato con la partecipazione attiva dei genitori e degli insegnanti, utilizzando ciò che i bambini avranno prodotto.Il contenuto del libro, destinato a lettori in età di scuola materna, è l’avventura di una bambina indiana che si reca al mercato con in tasca una manciata di spiccioli, ma nessuna idea di cosa comprare. L’esperienza di colori, profumi, suoni e suggestioni in questo mondo magico la coinvolgono a tal punto che, alla fine, felice e appagata dall’esperienza fantastica che ha vissuto, dimentica addirittura di comprare! Con pochi soldini si può comprare una cosa sola, al massimo due o tre, ma non è necessario spendere per vivere un’avventura emozionante che arricchisce assai di più! La proposta è dunque di preparare alcune esperienze come diverse “tappe” del percorso da proporre direttamente con i bambini insieme agli insegnanti e ai genitori che si rendono disponibili, seguendo sempre il filo conduttore del mercato. Alcuni spunti su come strutturare il lavoro:

Partiamo dall’ esperienza che i bambini hanno del mercato Ci sono mai andata/o? Come me lo immagino? Com’è? Che cosa c’è di bello? Mi interessa? Non mi interessa? Cosa vorrei poter trovare al mercato? A questo si può legare un’attività pratica, come la visita al mercato del quartiere dopo un momento di condivisione che chiami in causa l’immaginario di ciascun bambino. Ad esempio: disegno il mercato così come me lo immagino. È importante far emergere l’immaginazione dei bambini, che non necessariamente corrisponde alla realtà, soprattutto se si tratta di un’esperienza che ancora non hanno avuto modo di vivere (quanti di loro hanno già visto un mercato?);

esprimo cosa penso di poter comprare nel “mio” mercato, disegnandolo, sulla falsariga della pagina del libro in cui la protagonista immagina cosa può comprare con le monete di cui dispone, oppure scegliendo da una serie di oggetti predisposti anche tenendo conto di eventuali suggerimenti dei bambini;

alcuni adulti possono raccontare mercati diversi e i bambini li disegnano, scegliendo quello che preferiscono e possibilmente motivando le ragioni della loro scelta. Sarà interessante raccogliere i commenti e leggerli insieme riportandoli nel gruppo di lavoro.

Cesto dei vestiti/storie Si pescano i vestiti e si raccontano le storie ad essi associate, oppure si estraggono le storie e si associano i vestiti colorati ad esse corrispondenti. Ad esempio: lo scialle rosso che toglie la paura2, come nella storia della piccola Mara, che si aiuta con lo scialle regalatole dalla zia per vincere le proprie paure. E un giorno, dimenticando lo scialle, scoprirà di essere in grado di affrontare la realtà anche senza il supporto di questo “amuleto”. Si renderà conto che ciò che temeva non era una reale minaccia ma un mondo interessante e vario dal quale non avrebbe avuto nulla da temere;

il vestito della natura e le stagioni. Dipingere un vestito seguendo i colori delle stagioni. Disegnare su una stoffa una storia legata all’ambiente e alle stagioni (qui sarebbe davvero bello se entrasse in campo la memoria di qualche adulto) che poi si indossa;

scegliere come utilizzare diversi vestiti, diverse stoffe (seguendo il suggerimento di Diego che chiedeva di utilizzare l’idea dei kanga e degli wax print)3;

i cappelli, il copricapo (la memoria della generazione passata proposta da un papà), fare esperienza di come si indossano copricapi e foulard in modi diversi... e come i bambini li mettono, lasciati liberi di indossarli come preferiscono.

2 Mylo I., Sacré M. J. 1994. Lo scialle magico, Milano: ed Arka.3 Vedi box Il Kanga (pag. 8) e box Wax print (pagg. 27-28). Il kanga e il wax print sono stati presentati ed esposti nel corso degli incontri.

4 Ravishankar A. idem.5 La ‘ngera, piatto diffuso in molte aree dell’Africa orientale, è una sfoglia di pasta di miglio. Si mangia strappandola con le mani da un unico grande piatto per pizzicare salse piccanti, carne, lenticchie e insalata. 6 Ravishankar A. idem.7 Ibidem.8 Ravishankar A. 2007. L’elefante non dimentica, Mantova: ed. Corraini.9 Ibidem, Al mercato al mercato.10 Suggerimento di Roberta Bonetti, Melta, 9 giugno 2010.

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Questa storia potrebbe essere affiancata da un altro racconto opportunamente adattato, tratto dal libro di Harper Lee “Il buio oltre la siepe”. Qui, i due bambini protagonisti che non hanno mai visto la neve hanno delle reazioni molto naturali e simpatiche sia alla sua vista che al contatto (“È bollente! Ma no, è così fredda che brucia…”)17.

Attività correlate: la natura cambia il suo vestito: rappresentare visivamente, attraverso il disegno e l’uso dei colori, il “vestito” della natura nelle diverse stagioni;

“vestire” un prato, un bosco, la città, il paese con la neve utilizzando il cotone, la colla pasta di colla vinilica e fazzoletti di carta, il colore a tempera o a dita;

la neve ovatta i rumori e cambia la percezione del mondo. Farne un’esperienza dal vivo (se nevica...).

Il velo blu come superare la paura, come realizzare i desideri.

Per questa tappa si può utilizzare la fiaba “Viaggio nella notte blu”18. Il principino protagonista della fiaba supera la paura del buio proprio con l’aiuto del lupo, un lupo buono che lo accompagna nella notte e lo aiuta a realizzare i suoi desideri. Il desiderio di vedere un circo. Il desiderio, più profondo, di diventare coraggioso (che realizzerà proteggendo il suo amico lupo da un gruppo di pastori che lo credono cattivo)… infine, il desiderio di vedere il mare per la prima volta, proprio come è capitato a Giancarlo, un papà partecipe al gruppo di lavoro:

«Io sono nato sui monti e ho sempre vissuto in mezzo alle montagne. La prima volta che ho lasciato le montagne, l’ho fatto dopo sposato su insistenza di mia moglie. Sono andato a Rimini…mi ricordo ancora, appena ho visto questa distesa immensa di acqua mi sono detto…ma che cos’è questa cosa piatta e infinita mai vista prima? Poi, sono andato in Sardegna e lì il mare mi è piaciuto ancora di più. Vi sembrerà strano ma per me questa esperienza mi ha cambiato la vita».

Attività correlate: i sogni e i desideri. I sogni del principino e i miei sogni. Quali sono i miei sogni?; i sogni che faccio di notte e i desideri che ho. Li disegno o li racconto; “come mi immagino…” sarebbe bello che i bambini potessero descrivere come immaginano un luogo mai visto ma che vorrebbero vedere, come il principino della fiaba con il mare.

Il suono del mare, il fruscio. Realizziamo un vestito con i colori del mare. Qui si può giocare con le consistenze dei tessuti, non solo sui colori e sul fruscio delle stoffe. E poi quanti sono i colori del mare? Come mi muovo con il vestito del mare? Il mare tranquillo, il mare che gioca, il mare arrabbiato, il mare addormentato… I diversi suoni del mare si possono ricreare con diversi strumenti fatti a mano e non, e poi chiedere a ciascun bambino, ad occhi chiusi, di scegliere qual è per lui/lei il suono del mare. Si può provare a combinare i diversi suoni e a costruire insieme i diversi strumenti musicali, anche attaccandoli al vestito in modo da renderlo ancor più sonoro.

Se vogliamo lavorare sul “cattivo” che in realtà non lo è, si possono utilizzare il film “Kirikù e la strega Karabà”, di Michel Ocelot19, oppure, più in chiave umoristica, “Prendete quel coccodrillo!” di Anushka Ravishankar20, che è un racconto in rima in cui un coccodrillo che si è perso, cercando di tornare al suo fiume, porta un divertente scompiglio nel mercato di un villaggio.

19 M. 1998. Kirikù e la strega Karabà, Roma: Lucky Red.18 Landmann B. 1997. Viaggio nella notte blu, Milano: ed. Arka.

20 Ravishankar A. 2008. Prendete quel coccodrillo!, Mantova: ed. Corraini.16 Ibidem.

17 Lee H. 2008. Il buio oltre la siepe, Milano: Feltrinelli 2008, pag. 74.

UN VESTITO FATTO DI VELI11, PERGINE DI TUTTI NOI(Scuola materna di Pergine)

La proposta delle attività da realizzare nelle classi nasce principalmente dalla condivisione delle suggestioni e delle idee operative legate alle storie di vita dei partecipanti al gruppo di lavoro.L’idea è quindi quella di proporre un “cesto delle storie” dal quale estrarre di volta in volta dei veli colorati, ciascuno legato ad una “memoria”, ad una storia raccontata nell’incontro con gli adulti. Dalle storie emerse dal cesto si sviluppano: un’attività legata al vestito che coinvolga attivamente i bambini; la produzione di un vestito o di parte di esso, secondo modalità da decidere insieme.

Dopo aver raccontato diverse storie, quelle scelte e rielaborate attivamente dai bambini, insieme alle loro produzioni artistiche, confluiranno in una rappresentazione teatrale finale. In essa i veli estratti dal cesto e “trasformati” dall’esperienza, divenuti vestiti, potranno anche diventare, ad esempio, un unico tessuto fatto di intrecci, dove ogni velo/vestito sarà un filo12, oppure potranno essere assemblati ed associati in modo da diventare un “vestito” unico.La prima attività da proporre potrebbe ruotare intorno al velo-vestito. È un fazzoletto? Un velo? Un foulard? O è tutto insieme? E se diventasse un vestito?13 Si può anche fare riferimento ai Kanga14 dell’Africa orientale che, nati dall’idea del fazzoletto, sono divenuti in seguito vestito, velo, grembiule e molto altro.

I veli e i colori Il velo nero il racconto dell’arrivo in Italia di Nasra.15

Questa storia è incentrata sul tema della paura, sul sentimento di solitudine e sullo smarrimento provato davanti al nuovo. Tutto pare minaccioso. Il velo nero che introduce il racconto rimanda al colore del buio e della notte. Per riuscire a vincere la paura, la si deve poter smascherare e guardare da vicino, o meglio, in questo caso, la si deve attraversare.

Attività correlate:

realizzare la galleria di Nasra, in modo che i bambini la possano attraversare. Preparazione del “rito di passaggio” con gli adulti (il “rituale” dell’attraversamento può richiedere per qualche bambino un accompagnamento più o meno intenso da parte dell’adulto);

far illustrare ai bambini con un disegno la storia di Nasra, osservare quali elementi sono raccolti a livello emozionale dai bambini. Il vestito nero fa paura: come possiamo modificarlo perché ci piaccia da poterlo indossare?;

mangiare da soli, mangiare insieme. Come mangi tu? Come preferisci mangiare? Si potrebbero provare modi diversi di mangiare, ad esempio cucinare qualcosa e mangiare tutti insieme da un piatto comune.

Il velo bianco la neve, il vestito della natura che cambia con le stagioni.

«Arrivava l’inverno, il freddo, le maglie, le calze, le coperte… mamma mia, quante cose soffici… Tutto quello che vedevo era novità [...] la mattina, appena mi svegliavo, aprivo le finestre e vedevo la montagna tutta bianca. Allora pensavo “tutto il sapone è andato fuori… chi l’ha portato? che cosa sta succedendo? […] il freddo, le nubi, la pioggia, qui c’è la montagna che crolla!»16.

11 Suggerimento di Libera, Pergine, 19 maggio 2010.12 Suggerimento di Lina, Pergine, 9 maggio 2010.13 Suggerimento emerso nell’incontro a Pergine il 19 maggio 2010.14 Vedi box Il Kanga, pag. 815 Vedi box Racconto di un viaggio in un Paese straniero: l’Italia, pag. 11.

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Nell’Africa occidentale un posto particolare spetta all’uso diffuso del pagne industriale. A seconda delle dimensioni, il pagne si trova, nella sua versione industriale, in una straordinaria varietà di disegni e di colori e può essere utilizzato come gonna, toga, sciarpa, velo, turbante e fascia porte-enfant. Lo si trova anche adibito a coperta. Il pagne più diffuso oggi è quello di cotone realizzato industrialmente, il wax print o African print23. Il prodotto African print, da tempo sedimentato nel continente, è estremamente valorizzato dalle donne che lo considerano espressione “autentica” dell’identità femminile urbana africana. Questo nonostante che molti dei pagnes in circolazione nei mercati dell’Africa occidentale e centrale siano di provenienza europea e asiatica.In realtà l’intera storia dell’African print ci pone di fronte ad un processo di costruzione dell’autenticità per “appropriazione” e a una forma di inventiva culturale che sfrutta in maniera esemplare i meccanismi dell’ibridazione e del collage. Questa stoffa, ritenuta “tipica” dell’Africa, è confezionata in Olanda, Inghilterra, Cina e solo raramente sul continente. È stata introdotta in Africa poco più di un secolo fa (1893), quando dei soldati ghaneani, partiti per combattere in Asia per conto dell’Olanda, ritornarono nel loro paese diffondendo gli usi giavanesi, trasferendo le caratteristiche del batik nell’uso del pagne nelle regioni che si affacciano sul Golfo di Guinea. La nuova moda si estese, nel giro di qualche decennio, a tutta l’Africa occidentale.È nei primi anni del XX secolo che si attua una vera rivoluzione nell’industria del pagne, messo in produzione come wax print, dopo lunghe ricerche dall’azienda olandese Vlisco, grazie ad una tecnica in grado di riprodurre industrialmente il procedimento, tipico del batik, della tintura “con riserve” mediante applicazione di cera.Insieme all’Olanda e all’Inghilterra, fra i paesi produttori si annoverano oggi, oltre a varie nazioni dell’Africa occidentale e alla Repubblica Democratica del Congo, il Giappone e la Cina. Le donne possono usare la stoffa del wax in mille modi, annodandola attorno al collo, alla vita o all’altezza delle ascelle. Può anche coprire la testa. È in genere fissato sulla spalla sinistra dagli uomini, fasciato intorno alle reni, che usano ripiegarne un lembo sull’omero sinistro.

Per gli uomini, col wax si possono realizzare camicie, gilet, giacche e pantaloni. La misura “standard” del wax è di due “yards”, quasi due metri di lunghezza. Però ci sono in commercio tessuti lunghi anche quattro e sei yards, occorrenti per ricavare la caratteristica combinazione dei tre pagnes: una gonna, una blusa e un terzo rettangolo di tessuto adibito a più usi, fra i quali prevale quello di fascia per il trasporto dei lattanti.Indossare il pagne è un’arte. Richiede una padronanza dei gesti – acquisiti per imitazione e per apprendimento, ma a tal punto assimilati da apparire del tutto spontanei e naturali – necessari per avvolgerselo intorno al corpo, per sistemarselo e continuamente risistemarselo addosso, o per annodare intorno alla testa.Espressioni e proverbi associati ai diversi motivi delle stoffe costruiscono un vero e proprio linguaggio in cui si riflettono le aspirazioni e le problematiche inerenti all’universo femminile. Ciò che le donne non possono dire direttamente al loro marito, sarà il pagne a dirlo. Non sempre, infatti, la donna ha diritto alla parola.Il linguaggio dell’abbigliamento e il fenomeno della moda costituiscono un tema antropologicamente rilevante che, assieme al linguaggio del corpo, trasmette informazioni in merito ad appartenenze, posizioni e ruoli sociali.In Costa d’Avorio, è interessante l’uso che le donne fanno dell’abbigliamento per trasmettere messaggi attraverso le centinaia di nomi, proverbi, aforismi, motti, abbinati ai vari motivi dei tessuti. I proverbi e le espressioni – solitamente evocativi e didascalici i primi, spesso fantasiose, ironiche o mordaci le seconde – che circolano nel linguaggio delle stoffe, s’ispirano alla vita di ogni giorno, alla saggezza popolare, ai media. Gli appellativi che hanno più successo e che ritornano più insistentemente sono quelli che richiamano le strategie sentimentali femminili, relative alla travagliata esistenza degli attuali ménage.Numerosi sono, infatti, i nomi dei tessuti che evocano la fragilità e la conflittualità dei legami sentimentali, con accenti in genere provocatori.Nell’indossare il tessuto chiamato “Il tuo piede, il mio piede”, la moglie diffidente minaccia di pedinare il marito. Il tessuto porta stampate le orme del piede. In questo modo la moglie

23 Bonetti R. 2002. “L’antropologia attraverso il tessuto africano contemporaneo” in DIPAV, quadrimestrale di psicologia e antropologia culturale, Milano: Franco Angeli, n. 3, pp. 129-142.

WAX PRINT straordinaria varietà di segni e di colori

Il velo trasparente l’alterità e l’identità che si sceglie.

Per rappresentare l’identità non come una condizione rigida e precostituita ma come una possibilità di scelta dell’individuo, come un “vestito” che si può assumere per scelta, più o meno consapevole. Utile è il riferimento alla storia dell’elefantino e dei bufali21.

Attività correlate: il velo trasparente cela e al tempo stesso rivela. Proviamo ad indossarlo ed esprimere cosa vediamo e cosa no, e come si sta dietro ad un velo trasparente;

si può proporre a tutti i bambini di disegnare uno dei compagni, in modo che lo stesso bambino/a sia ritratto da tutti. Alla fine, una volta esposti tutti i disegni, si noteranno le specificità e le differenze di ciascuna rappresentazione;

come suggerito da Silvia durante un incontro del gruppo di lavoro, si potrebbero costruire delle maschere rivestite a specchio con delle aperture al posto degli occhi, in modo che chi vi si specchia possa vedere riflesso il proprio viso ma gli occhi dell’altro.

Il velo arancione l’odore, il sapore di casa.

«…cercavo anche il profumo e gli odori della mia terra, odori che non trovavo. […] Chi, come noi, ha lasciato la terra dove ha vissuto, il ricordo svanisce ma l’odore no, infatti ti potrà capitare di ritrovarti in un posto attraverso l’odore, e quando lo senti ti dici “ma io in questo posto ci sono già stata”. Sì, credo che per i bambini noi dobbiamo giocare con questi elementi sensoriali»22.

Attività correlate: il vestito si abita come una casa. Il vestito è una casa. Si potrebbe realizzare un gioco in cui ci sono delle “case” e si possono utilizzare i fazzoletti arancio a questo scopo, oppure si fanno scegliere i colori dei fazzoletti ai bambini o li si fanno decorare, o altri tessuti con accessori a scelta perché rappresentino la loro casa;

il vestito profumato di casa. Che profumo ha il mio vestito? I bambini potrebbero scegliere tra diversi aromi, spezie o piante aromatiche, o profumi di frutta, di fiori, e associare i diversi profumi al “loro” vestito;

il sapore di casa: il vestito diventa un cibo! Coloriamo il vestito del cibo che preferiamo, quello che ci fa sentire a casa, disegnamolo sul fazzoletto da indossare.

Il velo che suona e danza il vestito non ha solo un colore ma anche un suono.

Attività correlate: proviamo ad ascoltare il suono delle diverse stoffe ad occhi chiusi; possiamo arricchire il nostro velo-vestito con elementi che lo facciano “suonare”, scegliendoli da una serie di oggetti. Ogni bambino sceglierà il suo;

come mi muovo con il mio vestito? Quale vestito “danza”? Quale “corre”? Quale striscia, vola, salta? Chiediamo ai bambini di utilizzare il loro velo “vestendosi” in modo da compiere il movimento che preferiscono. Possono anche colorarlo o decorarlo nel modo che ritengono più adeguato al movimento che hanno scelto.

21 Idem, 2007. L’elefante non dimentica, Mantova: ed. Corraini.22 Nasra, Pergine, 19 maggio 2010.

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3030 3131comunica all’uomo la volontà di seguirlo “passo passo” per controllarlo. Sono trasferite in tal modo su un piano ludico le tonalità aspre che caratterizzano i conflitti del rapporto, sia nella sfera familiare sia nella partita fra donne potenzialmente rivali.Esiste un legame intenso fra pagne e sfera femminile, fra pagne e identità femminile. In effetti, il pagne onnipresente nell’esistenza muliebre, è associato a tutte le principali cerimonie inerenti al ciclo della vita individuale femminile, ed è per questa rilevanza che, fin dall’infanzia, le bambine, imitando le madri, imparano a padroneggiare le diverse sfumature della significativa maniera di avvolgerselo intorno al corpo. I temi dei wax sono anche ispirati dall’attualità, legati

alla vita sociale e politica di un paese.Un wax, diffuso in Africa occidentale rappresenta un disegno, giallo su fondo blu, contenente una mano che porta nel palmo delle monete e le dita (sempre della mano) staccate e rappresentate una per una foto 5). Il contenuto del messaggio è evidente: le dita, separate l’una dall’altra, non hanno alcun potere, non sono in grado di fare forza. Quando invece si uniscono (e diventano mano) sono potenti e possono produrre anche cose che hanno valore (le monete).Altri wax “celebrano” fatti molto più commerciali, e in un certo senso pubblicizzano l’arrivo sui mercati di telefonini, acqua minerale, saponi, creme di bellezza. Vere e proprie operazioni di marketing.

Foto 5: Wax Print

Indice7 ABITARE IL VESTITO7 A chi è indirizzato / obiettivi

7 Attori ed esperti del processo formativo

8 Tempi e fasi progettuali

8 Metodo e contenuti

8 Strumenti

9 Pubblicazioni / sussidi operativi

10 IL KANGA appariscente e brillante

11 METODOLOGIA11 Cultura e identità

12 Note critiche sul metodo

13 RACCONTO DI UN VIAGGIO in un paese straniero: l’italia

14 CONTENUTI14 Connessioni

14 La cultura non e’ un bagaglio di cose

15 L’alterita’ e’ dentro di noi

17 Il velo, il ritratto e l’identità

19 IL VELO come mediatore culturale

23 PROPOSTE PROGETTUALI23 Suggerimenti

24 Il mercato (scuola materna di Melta)

26 Un vestito fatto di veli - Pergine di tutti noi (scuola materna di Pergine)

29 WAX PRINT straordinaria varietà di segni e di colori

33 Bibliografia

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Ciò che viene presentato nel volume è una breve e intensa esperienza di incontro con genitori e insegnanti in due scuole materne della provincia di Trento.

Ciò che l’autrice intende far emergere è che l’apprendimento, più che una forma unidirezionale di comunicazione - da “chi sa” a “chi non sa” – risulta essere una modalità collettiva e partecipata di fare esperienza all’interno di una cornice partecipativa, in uno specifico contesto. La formazione appare essere così il risultato della mediazione delle diverse prospettive dei partecipanti, che negoziano e adattano continuamente il significato da attribuire agli eventi e alla realtà.

I temi emersi e discussi si sono progressivamente delineati in modo spontaneo, attraverso un dialogo a “intreccio”, caratterizzato dalla narrazione libera delle diverse storie di vita, delle memorie, e delle problematiche riscontrate nel contesto di vita attuale dei diversi soggetti. Dalla “matassa” che mano a mano, nel corso delle interazioni, si veniva disegnando grazie all’intrecciarsi dei diversi “fili” narrativi, è sorta, in modo informale, una modalità di auto-formazione, dalla quale è poi scaturito un progetto, “aperto” e flessibile, da realizzarsi all’interno delle classi di bambini nel corso dell’intero anno scolastico. Tale progetto che, come un processo a spirale, rimarrà a sua volta disponibile e aperto alla negoziazione molteplice e imprevedibile dei bambini, si è via via perfezionato come la confezione di un vestito, caratterizzata dall’incontro dei diversi habitus abitati vissuti e indossati nella quotidianità dai diversi partecipanti.

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