terrore e terrorismo in epoca romana: due articoli per approfondire l’approccio del mondo classico...

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1 Roberta Lunetta- DOL- Master on line a.a. 2014/2015 Terrore e terrorismo in epoca romana: due articoli per approfondire l’approccio del mondo classico a un tema attuale

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Nell'ottica della valorizzazione di risorse spendibili per una didattica rinnovata delle lingue classiche nei licei, propongo la lettura di questi due articoli che riguardano un tema di grande attualità: il terrorismo.Lo scopo della mia proposta è quello di contribuire alla attualizzazione di alcuni temi e testi in latino e/o greco e al dibattito critico sulle fonti classiche come basilari per la riflessione e la comprensione della realtà contemporanea. Non lingue morte, dunque, ma culture vive e pulsanti, ancora straordinariamente capaci di dialogare con il nostro mondo globalizzato che necessita memoria delle proprie radici e profonda valorizzazione del proprio passato.La scelta di questi due articoli in particolare, è legata a specifiche esigenze didattiche: quello del prof. Giovannini presenta e introduce il tema del terrorismo e dell'antiterrorismo con ampi riferimenti al passato e al presente,individuando analogie e differenze concettuali e culturali legate alla percezione della paura collettiva e assume funzione introduttiva alla trattazione dell'argomento; l'articolo del prof. Grilli,punta all'analisi di un episodio storico celeberrimo nella storia romana, ampiamente legato allo svolgimento del programma di letteratura latina nei licei - la congiura di Catilina - che viene affrontato attraverso la lettura e l'analisi di passi del De Coniuratione Catilinae dello storico Sallustio e delle Catilinarie di Cicerone . I testi, benché firmati da docenti universitari e studiosi di spicco nel panorama della critica letteraria e storica, sono accessibili agli studenti,magari con la guida del docente in certi passaggi.

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Page 1: Terrore e terrorismo in epoca romana: due articoli per approfondire l’approccio del mondo classico a un tema attuale

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Roberta Lunetta- DOL- Master on line a.a. 2014/2015

Terrore e terrorismo in epoca romana: due

articoli per approfondire l’approccio del

mondo classico a un tema attuale

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Indice

Premessa__________________________________________________ p. 2 A. Giovannini , Terrorismo a antiterrorismo a Roma________________ p. 4 A. Grilli, Drammaticità e terrore nelle Catilinarie ___________________ p. 10

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PREMESSA

Nell'ottica della valorizzazione di risorse spendibili per una didattica rinnovata delle lingue classiche

nei licei, propongo la lettura di questi due articoli che riguardano un tema di grande attualità: il

terrorismo.

Lo scopo della mia proposta è quello di contribuire alla attualizzazione di alcuni temi e testi in

latino e/o greco e al dibattito critico sulle fonti classiche come basilari per la riflessione e la

comprensione della realtà contemporanea. Non lingue morte, dunque, ma culture vive e pulsanti,

ancora straordinariamente capaci di dialogare con il nostro mondo globalizzato che necessita

memoria delle proprie radici e profonda valorizzazione del proprio passato.

La scelta di questi due articoli in particolare, è legata a specifiche esigenze didattiche: quello del

prof. Giovannini presenta e introduce il tema del terrorismo e dell'antiterrorismo con ampi

riferimenti al passato e al presente,individuando analogie e differenze concettuali e culturali legate

alla percezione della paura collettiva e assume funzione introduttiva alla trattazione

dell'argomento; l'articolo del prof. Grilli,punta all'analisi di un episodio storico celeberrimo nella

storia romana, ampiamente legato allo svolgimento del programma di letteratura latina nei licei

- la congiura di Catilina - che viene affrontato attraverso la lettura e l'analisi di passi del De

Coniuratione Catilinae dello storico Sallustio e delle Catilinarie di Cicerone . I testi, benché firmati

da docenti universitari e studiosi di spicco nel panorama della critica letteraria e storica, sono

accessibili agli studenti,magari con la guida del docente in certi passaggi.

Gli articoli sono tratti dagli Atti del Convegno "Terror et pavor- Violenza, intimidazione, clandestinità nel mondo antico- Atti del convegno internazionale, Cividale del Friuli, 22-24 settembre 2005"

Tutti gli atti del Convegno sono disponibili in editoria elettronica in formato pdf al seguente link:

http://www.fondazionecanussio.org/atti2005.htm

L'articolo del prof. Adalberto Giovannini " Terrorismo a antiterrorismo a Roma" è disponibile al link:

http://www.fondazionecanussio.org/atti2005/16Giovannini.pdf

L'articolo del prof Alberto Grilli " Drammaticità e terrore nelle Catilinarie" è disponibile al link:

http://www.fondazionecanussio.org/atti2005/11Grilli.pdf

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ADALBERTO GIOVANNINI TERRORISMO E ANTITERRORISMO A ROMA*

Nel Dizionario di Devoto e Oli, i vocaboli ‘terrorismo’ e ‘terrorista’ vengono definiti in questi termini:

«Terrorismo: metodo di lotta, basato su violenze intimidatorie (uccisioni, sabotaggi, attentati dinamitardi ecc.), impiegato in genere da organizzazioni rivoluzionarie»; «Terrorista: appartenente ad una

organizzazione politica clandestina che si avvale, nella sua lotta, di metodi basati sulla violenza fisica e sugli

attentati dinamitardi». Nello Zingarelli le definizioni sono le seguenti: «Terrorismo: concezione e pratica di lotta politica che fa uso della violenza (sotto forma di omicidi, attentati, rapimenti, ecc.) per sconvolgere gli

assetti politici e istituzionali esistenti»; «Terrorista: chi appartiene a gruppi od organizzazioni che fanno uso della violenza contro persone o cose con l’intento di sconvolgere gli assetti politici e istituzionali esistenti o di

rivendicare l’indipendenza di uno stato o una regione». Di queste definizioni e di altre che ho potuto leggere altrove, vorrei ritenere quattro elementi determinanti:

1. Il terrorismo si manifesta con azioni violente di distruzione destinate a intimidire e terrorizzare le

popolazioni provocando un massimo di perdite umane o di danni materiali. 2. Gli autori di queste azioni di distruzione non sono individui che agiscono per motivi personali come la

vendetta, l’arricchimento o la pazzia, ma persone che appartengono ad un gruppo o una organizzazione che difende, con queste azioni, obiettivi comuni.

3. L’organizzazione è clandestina nel senso che i suoi membri cercano di tenere segreta la loro appartenenza

alla detta organizzazione e tentano di commettere le loro azioni violente senza essere identificati. Bande armate come quelle di Clodio e di Milone al tempo di Cicerone non sono, propriamente, terroristi nel senso

che intendiamo oggi. 4. L’azione terrorista è in genere politica nel senso che l’organizzazione cerca di distruggere l’ordine politico e

sociale esistente o di costringere il potere a cambiare politica in una questione particolare. Bande di

malviventi che terrorizzano e uccidono per rubare o per ricattare non sono terroristi. Nel mondo attuale, le armi più frequentemente utilizzate dai terroristi sono gli esplosivi. Nell’antichità non esistevano esplosivi ma

esisteva un mezzo di distruzione non meno temibile e efficace: il fuoco. Per ragioni ben conosciute (costruzioni di legno, strade strette, mezzi di lotta poco efficaci ecc.), molte città, villaggi, agglomerazioni,

hanno subito fino alla metà dell’Ottocento e anche dopo incendi di grande ampiezza che in alcuni casi hanno provocato perdite umane e danni materiali enormi. I più conosciuti sono l’incendio di Roma sotto il regno di

Nerone1, l’incendio di Londra del 16662, quelli di Amburgo nel 18423, di Chicago nel 18714, di San Francisco

del 1906 e di Tokio del 19235, che fu il più grande incendio della storia. A Roma come in tutte le città di una certa importanza, gli incendi erano estremamente frequenti6. Gellio riporta una conversazione tra due

capitalisti che assistono a un incendio; uno di loro dice che a causa della frequenza degli incendi esita molto a investire nell’urbs, benché il rendimento vi sia molto favorevole7. Ne conosciamo più d’una decina che

distrussero una parte importante della città: uno nel 210 durante la Seconda Guerra Punica (Liv. 26,27),

quattro sotto il regno di Augusto (nel 31, nel 26, nel 7 a.C. e nel 6 d.C.)8, due sotto Tiberio, nel 27 e nel 369, uno sotto Claudio e uno sotto Nerone10, uno sotto Tito nell’80 e un’altro sotto Antonino Pio11. Sono peraltro

riportati dalle fonti un gravissimo incendio a Lione nel 65, due incendi ad Antiochia nel 69 e sotto Antonino Pio, e due a Nicomedia all’inizio del IV secolo12.

Descrizioni e testimonianze oculari, quando esistono, rivelano che nella maggior parte dei casi le cause della catastrofe furono accidentali. La distruzione di San Francisco nel 1906 e quella di Tokio nel 1923 furono le

conseguenze di terremoti eccezionalmente violenti. L’incendio di Londra del 1666, che conosciamo bene

attraverso il giornale di Samuel Pepys, ebbe inizio in una piccola casa di un quartiere popolare, un incendio banale come tanti altri, ma che fu propagato da un vento violento con una velocità tale che i mezzi a

disposizione furono totalmente inefficaci a fermarlo. Quasi identiche sono le origini dell’incendio di Chicago e lo furono anche, secondo la descrizione che Tacito fa dell’incendio di Nerone, le circostanze della catastrofe:

scoppiò nella zona delle botteghe accanto al circo, che Tacito stesso descrive come favorevole alla

propagazione di incendi, la stagione era molto secca (metà di luglio) e lo scirocco era molto forte13: non c’è per me nessun dubbio che l’incendio imputato a Nerone sia stato accidentale, come lo furono gli incendi di

Londra e di Chicago. Ma le descrizioni e le testimonianze oculari, quando esistono, rivelano nello stesso tempo che sempre o quasi

sempre la popolazione si convince che l’incendio sia doloso. La confusione, il panico, l’oscurità provocata dal

fumo, le scintille che cadono da tutte le parti e propagano il fuoco, l’esasperazione per le perdite umane e i danni subiti, i saccheggi e la natura umana che, come dice Tacito a proposito dell’incendio del 27 d.C.,

tendeva a cercare colpevoli per eventi fortuiti (Ann. 4,64,1: fortuita ad culpam trahentes), fanno sì che subito, già durante l’incendio, la voce pubblica cerca di identificare e di denunciare gli autori supposti di

quell’atto esecrabile. Tali dicerie sono attestate per gli incendi del 210, del 31, del 7 a.C. e del 6 e del 64 d.C.

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Sono inoltre attestati per l’incendio di Antiochia del 69, di Nicomedia del 302 e gli incendi di Londra, di Amburgo e di Tokio, benché quest’ultimo sia stato la conseguenza di un terremoto.

Com’è naturale, gli autori del disastro vengono ricercati tra i nemici reali o supposti dello Stato o della

società, o tra persone che per una ragione o un’altra sono insoddisfatte della situazione esistente. L’incendio del 210 fu imputato a nobili Capuani, la cui città era stata presa e distrutta dai Romani l’anno precedente.

L’incendio del 31 fu attribuito a liberti infuriati dalle tasse eccezionali imposte da Ottaviano per finanziare la guerra contro Marco Antonio. Quello del 7 a.C. sarebbe stato l’opera di debitori che speravano di ottenere

dallo Stato indennizzi per i danni subiti e quello del 6 d.C. di un certo Rufo e di altre persone sospettate di preparare un colpo di stato. I cristiani, considerati a quanto dice Tacito ‘nemici del genere umano’, furono

ritenuti, come tutti sanno, gli autori dell’incendio del 64. Quello di Antiochia del 69 fu attribuito agli Ebrei

allora in guerra contro Roma, quello di Nicomedia del 302 ai cristiani allora perseguitati da Diocleziano. Nell’incendio del 1666, la popolazione di Londra fu convinta che la catastrofe fosse stata l’opera degli

Olandesi, allora in guerra contro l’Inghilterra, e dei papisti, gli Amburghesi accusarono gli Inglesi e gli abitanti di Tokio gli odiati Coreani. A Londra come ad Amburgo e a Tokio molti ‘nemici’ furono linciati

durante l’incendio stesso. Inversamente, l’opinione pubblica poteva e doveva temere che persone o gruppi di

persone ostili allo Stato o alla società provocassero incendi per terrorizzare e destabilizzare la popolazione, o per vendicarsi. Nella repressione dei baccanali del 186 a.C., sulla quale tornerò più avanti, una delle prime

misure del Senato fu di rinforzare la sicurezza nella città e più particolarmente di impedire adunanze notturne (coetus nocturni) e di essere attenti a eventuali incendi (Liv. 39,14,10). Il Senato prese le stesse

disposizioni nel 63 quando fu finalmente convinto della realtà della congiura di Catilina, e se dobbiamo credere a

Sallustio, Catilina avrebbe effettivamente ordinato a Cetego e a Lentulo di accendere fuochi da tutte le parti

della capitale (Cat. 30,5-7 e 32,2). Molto interessante è a questo proposito un’osservazione dello stesso Sallustio sul comportamento della plebe urbana in questa faccenda (Cat. 48,1-2): inizialmente sarebbe stata

piuttosto favorevole a Catilina, poiché sperava che una guerra civile fosse l’occasione di far bottino e di arricchirsi; ma poi si sarebbe ravveduta, temendo di perdere i propri beni in un incendio indomabile e

avrebbe finalmente lodato Cicerone per la sua determinazione. Che queste paure non siano state infondate

fu confermato alcuni anni dopo, nel 52, quando i partigiani di Clodio assassinato dalle bande di Milone incendiarono la Curia. Disordini simili successero dopo la caduta di Seiano nel 31 d.C.: malgrado i

provvedimenti dell’imperatore Tiberio, i soldati infuriati incendiarono e saccheggiarono la città (Dione 58,12,2). Paura ossessiva, ma giustificata, del fuoco, paura ossessiva, ma comprensibile, che nemici dello

Stato o della società provocassero incendi per intimidire e terrorizzare la popolazione o per vendicarsi, convinzione generalmente erronea, ma comprensibile, che gli incendi di grande ampiezza siano l’opera

di nemici dello Stato o della società: abbiamo qui riuniti tutti gli elementi che caratterizzano il terrorismo e la

paura dei terroristi. E come fanno gli Stati moderni contrapposti al terrorismo, lo Stato romano tentò di combattere con mezzi adeguati questa forma antica di terrorismo, mezzi che erano, come oggi, la

repressione e la prevenzione. Comincerò con la repressione. La legislazione romana contro gli incendiari era estremamente severa: venivano bruciati vivi (Dig. 47,9,9 e 48,19,28,12) e fu questa effettivamente la sorte

dei cristiani dopo l’incendio del 64. Ma la difficoltà era l’identificazione dei criminali, innanzi tutto per

rassicurare la popolazione, ma anche per proteggere gli innocenti. Come ho detto, gli abitanti esasperati dalla catastrofe e dalle sue conseguenze erano propensi a linciare quanti sospettavano di aver appiccato il

fuoco. Fu esemplare a questo riguardo il comportamento del legato di Siria, Gneo Collega dopo l’incendio di Antiochia del 69: protesse gli Ebrei contro il furore cieco degli abitanti della città, benché fossero allora in

guerra contro Roma, fece un’inchiesta approfondita e scoprì che i colpevoli erano in realtà debitori che

avevano incendiato l’archivio pubblico per distruggere le prove dei loro debiti (Fl. Gius., Bell. Jud. 7,41 sgg.). La cosa più importante era tuttavia identificare, arrestare ed eliminare gli autori del fuoco. Negli Stati

moderni, l’inchiesta su atti terroristici spetta alla polizia giudiziaria o alla polizia di sicurezza dello Stato. Nella Roma antica non esisteva, almeno fino alla tarda antichità, un’istituzione analoga alla polizia giudiziaria o alla

polizia di sicurezza degli Stati moderni. Lo Stato dipendeva pertanto dalla collaborazione degli abitanti, cioè dalla delazione. Per ragioni storiche, l’incitamento alla delazione viene generalmente biasimato negli Stati

democratici moderni, ma a Roma era un mezzo indispensabile alla protezione dello Stato e della società. La

delazione faceva parte del meccanismo giudiziario romano e fu sistematicamente utilizzata dal Senato quando necessario, promettendo ai delatori premi diversi, denaro e privilegi alle persone di condizione libera,

libertà agli schiavi, col rischio evidente di commettere errori giudiziari e di condannare innocenti14. Ne è un’illustrazione molto significativa l’inchiesta che seguì l’incendio del 210 a.C. (Liv. 26,27). Come ho detto, gli

abitanti erano convinti che l’incendio fosse stato doloso e per far tacere le dicerie il Senato incitò con un

editto dei consoli la popolazione a denunciare i colpevoli, promettendo denaro alle persone di condizione libera e libertà agli schiavi. Uno schiavo denunciò i propri maestri, che erano Capuani, e cinque altri giovani

nobili di questa città. In un primo tempo, la sua delazione fu messa in dubbio perché era stato punito severamente dai suoi maestri il giorno prima; ma finalmente gli accusati sottomessi alla tortura confessarono

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il delitto e furono condannati. Può darsi che siano stati effettivamente colpevoli, ma è altrettanto verosimile che siano stati le vittime di un errore giudiziario. Il ricorso alla delazione, sempre su iniziativa del Senato, è

anche attestato per il già menzionato affare dei baccanali, per la congiura di Catilina del 63 e per l’incendio

del 7 a.C. Sono peraltro abbastanza sicuro che anche i cristiani condannati dopo l’incendio del 64 siano stati le vittime innocenti di delazioni sollecitate dal Senato.

Vengo adesso all’altro aspetto della lotta antiterroristica, che corrisponde al titolo iniziale della mia relazione: la prevenzione. Una delle caratteristiche, anzi la caratteristica più importante del terrorismo è che gli autori

di atti di distruzione non sono individui che agiscono per motivi personali ma persone che appartengono a un gruppo che persegue obiettivi comuni di carattere generalmente politico e che ricorre o è disposto a ricorrere

ad atti di distruzione per raggiungere questi obiettivi. Per combattere il terrorismo, lo Stato deve pertanto

proibire i gruppi o le associazioni di questo tipo, impedirne la creazione ed eliminare quelli che esistono. E fa questo attraverso la legislazione sulle associazioni. Il codice penale svizzero contiene un articolo

relativamente recente sulle associazioni criminali (260ter) che corrisponde esattamente a questo obiettivo: «Chiunque fa parte di una organizzazione che tiene segreta la sua struttura e la sua composizione e che ha

per scopo di compiere atti violenti o di arricchirsi con mezzi criminali, chiunque sostiene una tale

organizzazione nelle sue attività criminali sarà condannato a cinque anni di prigione al massimo». Il commento a questo articolo elenca i reati considerati ‘atti violenti’: sono i delitti contro le persone e i beni, il

furto, il ricatto, il rapimento, la presa di ostaggi, l’incendio e l’uso di esplosivi a scopi dolosi. Il punto che vorrei rilevare in questa sede è che questo articolo non punisce atti dolosi effettivamente commessi, ma il

fatto di appartenere a un’associazione o di sostenere un’associazione che ricorre o è disposta a ricorrere ad atti criminali per raggiungere i propri obiettivi, anche in assenza di atti dolosi effettivamente commessi.

Conosciamo relativamente bene, attraverso i Digesti e altre fonti, la legislazione romana sulle associazioni15.

Questa legislazione era molto più restrittiva di quella vigente negli Stati democratici moderni: legali erano solo le associazioni che avevano esplicitamente ricevuto dal Senato o dall’imperatore l’autorizzazione esplicita

ad esistere (Dig. 47,22,3 (Marcianus): nisi ex senatus consulti auctoritate vel Caesaris collegium vel quodcumque tale corpus coierit, contra senatus consultum et mandata et constitutiones collegium celebrat). Tutte le altre associazioni erano illicita, ‘non autorizzate’. È tuttavia importantissimo rilevare che ‘non

autorizzato’ non significa ‘proibito’: esistevano nell’impero romano centinaia e migliaia di associazioni di ogni genere che non avevano ricevuto dal Senato o dall’imperatore l’autorizzazione esplicita ad esistere ma che

erano tollerate o ignorate dal governo. Il fatto di appartenere a un’associazione non autorizzata, a un collegium illicitum, non era di per sé un delitto punibile e il governo interveniva contro tali organizzazioni solo

in caso di disordini, di sovversione o di atti delittuosi effettivamente commessi. In tali casi, il governo ordinava lo scioglimento dell’associazione, condannava i responsabili dei disordini o degli atti delittuosi e

minacciava di pene severe i membri dell’associazione che non ubbidissero all’ordine di dissoluzione. Ma per il

resto, i membri dell’associazione disciolta non venivano puniti e potevano anzi ricuperare le loro contribuzioni alla cassa comune16. Due esempi basteranno. Sotto il regno di Tiberio, il prefetto d’Egitto Avillio Flacco

ordinò lo scioglimento di tutte le ‘eterie’ della provincia (l’equivalente latino per il greco eteria è sodalicium), col motivo che queste eterie erano il pretesto ad attività politiche sovversive, e minacciò di pene severe

chiunque non avesse ubbidito al suo editto. Ciò facendo, Flacco non fece altro che applicare un

provvedimento della legislazione sulle associazioni che prescriveva ai governatori provinciali di non tollerare i collegia sodalicia (Dig. 47,22,1). L’altro esempio è una grave sciagura accaduta nel 58 d.C. a Pompei (Tac.

Ann. 14,17). Durante uno spettacolo di gladiatori organizzato in questa città scoppiò una rissa tra gli spettatori di Pompei e quelli venuti da Nuceria e molti rimasero uccisi o gravemente feriti. In seguito a

questa strage, che fa pensare a quella accaduta vent’anni fa all’Heysel di Bruxelles, il Senato ordinò la

dissoluzione di tutte le associazioni illecite e condannò all’esilio i responsabili della sciagura. Finora ho parlato di associazioni piuttosto innocue. La strage di Pompei doveva essere punita, ma i colpevoli

erano pochi mentre la maggioranza degli spettatori non aveva fatto altro che incoraggiare i propri campioni e fischiare i loro avversari. Riunirsi per cenare insieme e parlare di politica come facevano le eterie d’Egitto

non era di per sé un’attività reprensibile. Delle numerose associazioni che conosciamo in Grecia molte, chiamate eranoi, non avevano altro scopo che aiutare i propri membri in situazioni difficili e tante altre si

riunivano soltanto per celebrare un culto e cenare insieme. Ma l’affare dei baccanali al quale ho già

accennato ci fa conoscere una categoria di associazioni totalmente differenti e molto più pericolose17. La ricerca moderna vede in questo affare innanzi tutto un problema politico-religioso e così facendo ha

completamente trascurato l’aspetto legale della repressione del culto di Bacco ordinata dal Senato. Per evidenziarlo vorrei in primo luogo ricordare la struttura della relazione di Tito Livio nei primi capitoli del

trentanovesimo libro, che comprende quattro parti ben distinte. La prima parte, che è la più lunga, riporta la

rivelazione dei reati commessi dai baccanti con il pretesto di celebrare il culto di Bacco. È un racconto romanzesco i cui eroi sono un ricco giovane, Ebuzio, e la sua amica Hispala. Hispala rivela a Ebuzio i delitti

mostruosi commessi dai baccanti, adulteri, omicidi, falsificazioni di testamenti ecc.; il console Postumio viene informato della faccenda, fa un’inchiesta e finalmente riferisce il tutto al Senato. La seconda parte, molto

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breve, elenca le decisioni del Senato, che ordina l’arresto dei baccanti e dà mandato ai consoli di giudicarli e di condannare i colpevoli. La terza, relativamente lunga, riporta il discorso del console Postumio

alla plebe urbana, nel quale Postumio l’informa delle decisioni del Senato e le giustifica. La quarta descrive in

poche frasi l’arresto, l’interrogatorio e la condanna dei baccanti e finisce con l’elenco delle decisioni prese dal Senato dopo il rapporto dei consoli, in particolare il divieto di celebrare in avvenire il culto di Bacco. Dal

punto di vista stilistico, c’è un assoluto contrasto tra la prima e la terza parte da un lato, e la seconda e la quarta dall’altro. La storia di Ebuzio e di Hispala che finisce con la rivelazione al console Postumio dei delitti

abominevoli commessi dai baccanti è una composizione letteraria elaborata da Tito Livio, come anche il discorso dello stesso Postumio alla plebe. La seconda e la quarta parte sono all’opposto liste aride e

monotone di decisioni e di fatti che non hanno niente di letterario e appartengono al genere dei processi

verbali. Basta conoscere un po’ lo stile dei senatoconsulti romani per capire immediatamente che Tito Livio non ha fatto altro che parafrasare documenti ufficiali dell’archivio di Stato e lo conferma una copia del

senatoconsulto finale trovata a Tiriolo. Con questa premessa possiamo ora esaminare l’aspetto legale della repressione dei baccanali. Nella seconda parte, che contiene le decisioni del Senato in seguito al rapporto del

console Postumio, i patres danno tra altro mandato ai consoli di investigare in priorità assoluta sui baccanti

«che si siano associati e legati con giuramenti allo scopo di commettere reati» (Liv. 39,14,8: ante omnia ut quaestio de iis habeatur, qui coierint coniuraverintve, quo stuprum flagitiumve inferretur). I termini

stuprum e flagitium sono abbastanza vaghi e servono a designare, l’uno delitti sessuali di ogni genere e l’altro ogni tipo di reato di diritto comune. Ma troviamo nella quarta parte precisazioni sulla natura dei reati

imputati ai baccanti: secondo il verbale trasmesso da Tito Livio, i baccanti che si erano legati per giuramenti a commettere reati senza tuttavia avervi partecipato furono semplicemente trattenuti in carcere (39,18,3:

qui tantum initiati erant … nec earum rerum ullam in quas iure iurando obligati erant in se aut in alios admiserant, eos in vinculis relinquebant). Quelli invece che avessero partecipato a delitti sessuali o ad omicidi, a false testimonianze, a falsificazioni di documenti, a sostituzioni di testamenti e ad altre frodi furono

condannati a morte (39,18,4: qui stupris aut caedibus violati erant, qui falsis testimoniis, signis adulterinis, subiectione testamentorum, fraudibus aliis contaminati, eos capitali poena adficiebant). I reati imputati ai

baccanti erano dunque delitti di diritto penale: innanzi tutto omicidi e falsificazione di documenti, in

particolare di testamenti. Insomma: modalità criminali di impadronirsi di eredità. Ho sostenuto dieci anni fa la tesi che i baccanti abbiano effettivamente commesso questi delitti di diritto

penale e che questo sia stato il solo e unico motivo della repressione18: le vittime sarebbero state giovani ricchi come lo era Ebuzio, rimasti come lui orfani a causa della guerra annibalica (secondo Tito Livio 23,12

molti senatori e cavalieri morirono nella battaglia di Canne). Ne sono più che mai convinto ma i fatti che m’interessano in questa sede sono la formula qui coierint coniuraverintve quo stuprum flagitiumve inferretur, «quelli che si fossero associati e legati con giuramenti allo scopo di commettere reati» e la distinzione fatta

dai consoli tra i baccanti «che si erano legati per giuramento a commettere reati senza tuttavia avervi partecipato » e quelli «che avessero partecipato a delitti sessuali o a omicidi, a false testimonianze, a

falsificazioni di documenti, a sostituzioni di testamenti e altre frodi ». Siamo qui messi di fronte a una definizione giuridica estremamente precisa e concisa del tipo delle associazioni proibite dall’articolo del diritto

penale svizzero che ho citato prima e che chiamiamo oggi ‘associazioni a delinquere’.

La caratteristica fondamentale di questo tipo di associazioni è che l’appartenenza a una tale associazione è di per sé un delitto punibile, anche in assenza di reati effettivamente commessi. A quanto ne so, non esiste

nessun’altra attestazione diretta di questa disposizione legale sulle associazioni a delinquere, e ciò potrebbe spiegare perché sia stata trascurata dalla ricerca. Ma ne abbiamo indirettamente un’altra, secondo me, nella

lettera di Plinio a Traiano sui cristiani (ep. 10,96). Di questa lettera trattata e interpretata tante e tante volte

vorrei ritenere qui solo gli elementi importanti sotto l’aspetto legale19. Plinio comincia la sua lettera spiegando all’imperatore che ha dubbi sulla maniera di giudicare i cristiani della provincia. Non sa in

particolare se si debba punire l’appartenenza alla setta dei Cristiani anche in assenza di atti criminali o se si debba punire gli atti criminali connessi all’appartenenza alla setta (10,96,2: an ... nomen ipsum, si flagitiis careat, an flagitia cohaerentia nomini puniantur). Vorrei sottolineare in primo luogo che ritroviamo nell’esitazione di Plinio l’alternativa dei consoli nei confronti dei baccanti: i baccanti «che si erano legati per

giuramento a commettere reati senza tuttavia avervi paromicidi, a false testimonianze, a falsificazioni di

documenti, a sostituzioni di testamenti e altre frodi» dall’altro. Plinio non esita perché sia incapace di assumere le sue responsabilità, ma perché si trova di fronte a un reale problema giuridico. La mia seconda

osservazione è che per designare i reati imputati ai cristiani Plinio usa lo stesso vocabolo della disposizione legale sulle associazioni a delinquere: flagitium (flagitia cohaerentia nomini). E la terza è che queste stesse

parole flagitia cohaerentia nomini dimostrano che per Plinio il fatto di appartenere alla setta dei cristiani

implicava atti criminali. Plinio descrive poi all’imperatore la procedura che ha finora seguito nei riguardi delle persone accusate di essere cristiane. Distingue tre categorie di accusati. Alla prima categoria appartengono

gli accusati che riconoscono di essere cristiani e si ostinano a rimanerlo: Plinio li condanna senza nessuna esitazione alla pena capitale. Della seconda categoria fanno parte gli accusati che negano di essere cristiani

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e lo dimostrano sacrificando agli dei pagani e maledicendo il nome di Cristo: Plinio si accontenta di questa prova e li rilascia. La terza categoria è quella che pone problemi al governatore e che ci interessa di più: è la

categoria degli accusati che riconoscono essere stati cristiani, ma che pretendono avere abbandonato la

setta. Plinio spiega all’imperatore che ha ordinato agli apostati di sacrificare agli dei per assicurarsi che avessero effettivamente abbandonato la setta dei cristiani e gli trasmette informazioni fornitegli dagli

apostati sulla loro religione. Questi gli hanno detto di non far altro che riunirsi regolarmente prima dell’alba, cantare inni a Cristo e impegnarsi con giuramenti non a commettere reati (scelus), ma al contrario a non

commettere né furti, né atti di brigantaggio, né adulteri, a rispettare la parola data e a non negare un deposito reclamato in giustizia (§ 7: seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta, ne latrocinia, ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appellati abnegarent). Dissero

peraltro che si riunivano per cenare insieme e che il loro cibo, contrariamente a quanto si poteva sospettare, era ordinario e innocente. Plinio giudicò necessario controllare le loro asserzioni interrogando sotto la tortura

due diaconesse e non scoprì altro che una superstizione irragionevole. Ad una prima lettura, e l’ho pensato per molti anni, Plinio comunica all’imperatore informazioni fornite spontaneamente dagli apostati per

spiegargli chi fossero e per convincerlo della loro innocenza. Ma l’interrogatorio sotto la tortura delle due

diaconesse esclude questa interpretazione: non si tratta di una discussione libera ma di un interrogatorio giudiziario. A Plinio non bastava che gli apostati sacrificassero agli dei pagani per dimostrare che avessero

effettivamente abbandonato il cristianesimo, voleva inoltre sapere che cosa avessero fatto quando erano membri della comunità dei cristiani, e voleva saperlo perché era convinto, come dice all’inizio della sua

lettera, che l’appartenenza alla comunità dei cristiani implicava atti delittuosi (flagitia cohaerentia nomini). Attraverso le dichiarazioni degli apostati possiamo pertanto ricostituire l’interrogatorio di Plinio: voleva sapere

se si fossero impegnati con giuramenti a commettere atti criminali, quali fossero questi reati e se li avessero

effettivamente commessi. Possiamo anzi identificare i delitti che Plinio sospettava che i cristiani commettessero: adulteri, cannibalismo, furti e false testimonianze. Ma il risultato dell’interrogatorio fu

negativo: non trovò altro che un’assurda superstizione. La similitudine tra le risposte degli apostati all’interrogatorio di Plinio e i reati imputati ai baccanti è evidente

ed è stata riconosciuta da tutti gli studiosi che si sono occupati della questione delle persecuzioni contro i

cristiani. Ma questa similitudine non è stata interpretata correttamente perché è generalmente ammesso che sia i baccanti che i cristiani siano stati condannati per motivi politico-religiosi. Non credo in particolare che

Plinio si sia ispirato, nel suo interrogatorio, alla relazione di Tito Livio sull’affare dei baccanali come ha ipotizzato il Pailler: non siamo nel campo della letteratura ma in quello della giustizia: i governatori di

province avevano il dovere di giudicare secondo le leggi e dovevano tra altro rispettare la legislazione sul diritto di associazione. A mio avviso, la similitudine tra le risposte degli apostati all’interrogatorio di Plinio e i

reati imputati ai baccanti è piuttosto dovuta al fatto che i cristiani furono condannati come i baccanti sulla

base della legge romana sulle associazioni a delinquere definita con l’espressione qui coierint coniuraverintve, quo stuprum flagitiumve inferretur. Posso ora concludere ritornando al tema della mia

comunicazione: il terrorismo e il ricorso all’incendio a fini terroristici. Se riconsideriamo i diversi gruppi di persone sospettate di aver provocato un incendio o di cui si sospettava che potessero provocare un incendio,

possiamo osservare che per quasi tutti l’incendio era o poteva essere uno strumento occasionale in

circostanze particolari e per ragioni concrete e precise. L’incendio di Roma nel 210 sarebbe stato una vendetta di Capuani per la distruzione della loro patria ad opera dei Romani. Gli incendi che temeva il Senato

durante la repressione dei baccanali sarebbero stati una reazione violenta dei baccanti alla detta repressione. Catilina e i suoi complici volevano il potere ed erano pronti a tutto per ottenerlo. I liberti che provocarono

incendi nel 31 a.C. erano infuriati dalle tasse imposte da Ottaviano. I debitori del 7 a.C. speravano in

indennizzi dello Stato, quelli che incendiarono l’archivio pubblico di Antiochia nel 69 d.C. volevano distruggere le prove dei loro debiti. Secondo me, persone che ricorrono ad azioni di distruzione violenta per

vendicarsi di torti subiti, per trarne vantaggi materiali o per prendere il potere sono criminali, ma non sono terroristi nel senso che intendiamo oggi.

Il caso dei cristiani è fondamentalmente differente. Furono arrestati, giudicati e condannati dopo l’incendio del 64 come autori di questo incendio. Sappiamo tutti che erano innocenti ed è anzi praticamente sicuro che

l’incendio sia stato accidentale. Ma rimane il fatto che dal punto di vista del governo romano erano gli autori

del reato. E questo reato non l’avrebbero commesso per vendicarsi di ingiurie subite, né per trarne vantaggi materiali e neppure per prendere il potere; l’avrebbero commesso, come dice Tacito «per odio del genere

umano». A differenza degli altri gruppi di cui abbiamo parlato, i cristiani avrebbero perseguito, sempre dal punto di vista del governo romano, obiettivi esclusivamente ideologici secondo la definizione del terrorismo

moderno: sconvolgere gli assetti politici e istituzionali esistenti. Infatti i cristiani avrebbero riunito, dal punto

di vista del governo romano, tutti i criteri che definiscono il terrorismo moderno: 1) avrebbero ricorso ad azioni violente di distruzione destinate a intimidire e a terrorizzare le popolazioni provocando un massimo di

perdite umane o di danni materiali; 2) si sarebbero legati con giuramenti nell’intenzione di commettere atti criminali secondo la definizione qui coierint coniuraverintve, quo stuprum flagitiumve inferretur; 3) sarebbero

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stati un’organizzazione clandestina che teneva le sue riunioni di notte (ante lucem) come l’avevano fatto i baccanti e i congiurati di Catilina; 4) e soprattutto avrebbero perseguito obiettivi esclusivamente politici:

sconvolgere per odio del genere umano gli assetti politici, istituzionali e sociali dello Stato romano. Per i

Romani i cristiani sarebbero stati in definitiva un’organizzazione terroristica nel senso moderno del termine e non ne conosco nell’antichità classica nessun’altra. È un paradosso e un’ingiustizia della storia, ma è così.

* Sono molto grato alla mia collega e amica Alessandra Lukinovich per aver riletto il manoscritto

NOTE

1 Descritto in dettaglio da Tac. Ann. 15,38-44, la cui fonte è a mio avviso Plinio il Vecchio. Cfr. A. GIOVANNINI, Tacite, l’ «incendium Neronis» et les chrétiens, in “REAug” 30 (1984), pp. 3-23. 2 Cfr. W.G. BELL, The Great Fire of London in 1666, London 1920; D. DE FOE, Le Grand Incendie de Londres, tr. fr. di P. CERDAGNE, Lausanne 1943. 3 Cfr. C.H. SCHLEIDEN, Versuch einer Geschichte des grossen Brandes in Hamburg vom 5. bis 8. Mai 1842, Hamburg 1843. 4 Cfr. H.M. MAYER - R.C. WADE, The Growth of a Metropolis, Chicago 1972; D. LOWE, The Great Chicago Fire, New York 1979. 5 Cfr. N.F. BUSCH, Midi moins deux, tr. fr. di S. FLOUR, Paris 1963. Busch scrisse il suo libro sulla base di testimonianze di sopravvissuti. 6 Cfr. H.V. CANTER, Conflagration in Ancient Rome, in “CJ” 27 (1931-1932), pp. 270-288; J. VAN OOTEGHEM, Les incendies à Rome, in “LEC” 28 (1960), pp. 305-312. 7 Gell. 15,1,3; cfr. anche Giuv. Sat. 3,6-9 e 197-202; Prop. 2,27,9 e Hor. Sat. 1,1,76-77. 8 Dione 50,10; 53,24; 55,8,5; 55,26-27. 9 Tac. Ann. 4,64 e 6,45. 10 Suet. Claud. 18 e Tac. Ann. 15,38-44. 11 Suet. Tit. 8,7; Dione 66,24; Vita Antonini 9. 12 Tac. Ann. 16,13,3; Fl. Gius., Bell. Jud. 7,41 ss.; Eus. H.e. 8,6,6 e Lact. Mort. pers. 14-15.

13 Tac. Ann. 15,38,2: initium in ea parte circi ortum quae Palatino Caelioque montibus contigua est, ubi per tabernas, quibus id mercimonium inerat quo flamma alitur, simul coeptus ignis et statim validus ac vento citus, longitudinem circi corripuit. 14 Cfr. Y. RIVIÈRE, Les délateurs sous l’Empire romain, Paris 2002; A. LINTOTT, Delator and Index. Informers and accusers at Rome from the Republic to the early Principate, in “ARP” 9 (2001-2003), pp. 105-122; A. GIOVANNINI, Pline et les délateurs de Domitien, in A. GIOVANNINI (ed.), Opposition et resistances à l’Empire d’Auguste à Trajan, Entretiens Hardt 33, Genève 1987, pp. 219-248.

15 Cfr. per tutti J.-P. WALTZING, Etude historique sur les corporations professionnelles chez les Romains, I, Louvain 1895, pp. 61-160; E. KORNEMANN, RE IV 1 (1900), cc. 380-480, s.v. Collegium; F. DE ROBERTIS, Il diritto associativo romano, Bari 1938; ID., Storia delle corporazioni e del regime associativo nel mondo romano, Bari 1971; J.H. WASZINK, RAC X (1978), s.v. Genossenschaft, cc. 99-117; A. GIOVANNINI, L’interdit contre les chrétiens: raison d’État ou mesure de police?, in “CCG” 7 (1996), pp. 103- 134, alle pp. 129-134. 16 Dig. 47,22,3: permittitur eis, cum dissolvuntur, pecunias communes si quas habent dividere pecuniamque inter se partiri. 17 Sull’affare dei baccanali in generale, cfr. J.-M. PAILLER, Bacchanalia. La répression de 186 av.J.-C. à Rome et en Italie: vestiges, images, tradition, Rome 1988; e per l’interpretazione qui proposta, A. GIOVANNINI, art. cit. (supra, n. 15), pp. 104-112. 18 A. GIOVANNINI, art. cit. (supra, n. 15), pp. 104-112. 19 A. GIOVANNINI, art. cit. (supra, n. 15), pp. 112-121.

Bassorilievo con scena di

Amazzonomachia dalla cella

del tempio di Apollo a

Bassae.

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ALBERTO GRILLI DRAMMATICITÀ DEL TERRORE NELLE CATILINARIE

Rendersi conto di qual è la reazione di una collettività di fronte a un episodio che susciti (o possa suscitare)

terrore o paura è difficile, tanto più quanto più ci si allontana indietro nel tempo. A parte il fatto che nemmeno la reazione odierna è identica in ognuno di noi, differenze da popolo a popolo, differenze di

situazioni contingenti alterano le forme e l’intensità di una reazione in età antica. Ci può essere di aiuto a

una corretta valutazione il prendere in considerazione come si sono espresse concretamente le fonti contemporanee all’avvenimento, specie se più d’una; benché anche così occorra esaminare con ogni cura

quali possano essere stati gl’intendimenti della nostra fonte, tuttavia ci troviamo davanti a molto minori stratificazioni, almeno temporali.

Negli anni della vita di Cicerone il popolo romano avrebbe avuto più di un’occasione di panico collettivo. Ricordo solo la calata di Cimbri e Teutoni negli anni 105-102 o la strage di cittadini romani e italici nell’89, in

ossequio a Mitridate. Non cito le proscrizioni sillane, perché non toccarono il popolo, rivolte come erano ai

grandi nobiles, senatori o cavalieri, nemici di Silla1. Solo per i Cimbri abbiamo tracce di terrore dopo la sconfitta di Cepione, che causò la morte di 120.000 uomini. Nella scarsità di fonti conservate, dobbiamo

arrivare a un misero cenno di Eutropio (5,1), che sicuramente riflette Livio: Timor Romae grandis fuit, quantus vix Hannibalis tempore Punico bello, ne iterum Galli Romam redirent. «Ci fu a Roma un timore davvero grande, paragonabile appena a quello per Annibale ai tempi delle guerre

puniche, d’un ritorno dei Galli a Roma». Timor non è termine che segnali uno sconvolgimento interiore, è termine molto scolastico, se Cicerone lo

definisce metum mali appropinquantis (Tusc. 4,8,19). È più che probabile che realmente il terror sia esistito, ma certo i colores sono ormai puramente letterari, col doppio riferimento ad Annibale e all’invasione gallica.

Il primo avvenimento, registrato nella letteratura, che dovremmo trovare accompagnato da terrore dovrebbe

essere la congiura di Catilina: ce ne restano due resoconti, uno assolutamente contemporaneo attraverso le Catilinarie di Cicerone, uno di ben poco posteriore nell’opusculo sallustiano.

Senza dubbi, avvenimenti nel lontano passato c’erano stati, come il tumultus Gallicus o la vicenda dei Baccanali. Ma nel primo abbiamo solo qualche cosa che è tra leggenda e fantasia; della seconda la

descrizione che c’è rimasta è di Livio – quindi posteriore a Cicerone e Sallustio su Catilina, anche se poggia su fonti annalistiche – e per giunta i colori sono molto stemperati e letterari, tanto più che si tratta d’episodio

fin dall’origine manipolato per motivi politici, visto che investe l’ambito religioso. Non si può infatti capire

tutto lo svolgimento della vicenda, se non si ha presente che la religione romana è religione di stato: come tale è inaccettabile che possa essere incrinata dal di fuori2. Ma prendere in esame la congiura di Catilina, che a noi pare clamoroso tentativo di sovvertire l’ordine politico costituito nella res publica Romanorum, è estremamente problematico. Dire quale sia stata la

reazione del popolo a Roma alla rivelazione del complotto è difficile, dato che non ebbe particolare evidenza.

È difficile anche mettere Sallustio d’accordo con se stesso nella sua Coniuratio Catilinae; per lo storico, se c’è un momento di panico, non è quando Cicerone rivela al popolo il complotto, ma abbastanza in precedenza,

al comparire delle prime misure di sicurezza (31,1-3): Quibus rebus permota civitas atque inmutata urbis facies erat. Ex summa laetitia atque lascivia quae diuturna quies pepererat repente omnis tristitia invasit: festinare trepidare neque loco neque homini quoiquam satis credere neque bellum gerere neque pacem habere, suo quisque metu pericula metiri. Ad hoc mulieres, quibus rei publicae magnitudine belli timor insolitus incesserat, adflictare sese, manus supplices ad caelum tendere, miserari parvos liberos, rogitare omnia, <omni rumore> pavere, <adripere omnia>, superbia atque deliciis omissis, sibi patriaeque diffidere. «Da queste misure era stata profondamente scossa la cittadinanza e disastrosamente cambiato l’aspetto della città. Da uno stato di somma gioiosità, generato dal lungo periodo di quiete, d’un tratto furono presi

tutti dallo sconforto: correvano qua e là, non conoscevano requie, non si sentivano sicuri né dei luoghi né

delle persone, non erano in guerra, ma neanche in pace, ciascuno misurava i rischi in base ai suoi timori. In più le donne, in cui era entrato il timore d’una guerra (a cui non avevano mai pensato, vista la grandezza

dello stato romano), continuavano a battersi il petto, levavano le braccia al cielo, commiseravano i loro bambini, continuavano a far domande su tutto, a ogni notizia erano terrorizzate, s’aggrappavano a tutto,

lasciato perdere fasto e raffinatezze, non confidavano né in sé né nella patria».

Il quadro, molto felice formalmente, è abbastanza convenzionale, salvo la considerazione della causa del repentino capovolgimento; tradizionale è anche che il metus sia degli uomini, il pavor delle donne; c’è

un’attenta gradazione nell’uso dei termini: nell’ordine metus, terror, pavor. Sallustio parla di civitas, “cittadinanza”, e di omnis, senza far distinzioni.

Ma pochi capitoli più avanti (37,5) una netta distinzione c’è:

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Sed urbana plebes, ea vero praeceps erat de multis causis. Primum omnium qui ubique probro atque petulantia maxume praestabant, item alii per dedecora patrimoniis amissis, postremo omnes quos flagitium aut facinus domo expulerat ii Romam sicut in sentinam confluxerant. «Ma la plebe urbana, quella sì si buttava a ogni disordine per molti motivi. Prima di tutto quelli che si distinguevano dovunque al massimo grado per infamia e sfrontatezza, ancora altri grazie ad attività

disonorevoli per la perdita del patrimonio, infine tutti quelli che un’azione infamante o delittuosa aveva cacciato dalla loro terra erano confluiti a Roma come in una sentina».

Dobbiamo pensare quindi che la plebs urbana non faceva parte della civitas e che cittadini erano solo i benpensanti? Ciò che però ci lascia ancor più sorpresi è che quando leggiamo che Cicerone denuncia davanti

al popolo la congiura, tutta quella paura non c’è, anzi la plebe, che – come abbiamo appena visto – era stata

fino ad allora ben disposta verso i rumori che le giungevano sulle intenzioni dei congiurati, passò dall’altra parte: Interea plebs coniuratione patefacta, quae primo cupida rerum novarum nimis bello favebat, mutata mente Catilinae consilia exsecrari, Ciceronem ad caelum tollere, veluti ex servitute erepta gaudium atque laetitiam agitabat: namque alia belli facinora praedae magis quam detrimento fore, incendium vero crudelem inmoderatum ac sibi maxume calamito sum putabant, quippe quoi omnes copiae in usu cottidiano et cultu corporis erant. «Nel frattempo, una volta che la congiura era stata resa pubblica, la plebe urbana, proprio quella che in un primo momento, avida di mutamenti, era del tutto propensa alla guerra, cambiato modo di pensare, prese a

maledire i piani di Catilina, a portare alle stelle Cicerone; come se fosse stata strappata alla schiavitù, si dava alla pazza gioia: pensava che altre vicende di guerra procurassero piuttosto preda che non danno, che poi

l’incendio della città fosse un atto di ferocia, eccessivo ed estremamente disastroso per loro, dato che tutte

le loro risorse stavano nella roba d’uso e nel vestiario» (48,1-2). Può essere che Sallustio, convinto sostenitore di Cesare, avesse un suo interesse a sminuire gli aspetti

‘terribili’ della congiura: il discorso di Cesare in senato (cap. 51) è duro, ma assolutamente privo di drammaticità: ancor meno lo è nel resoconto che Cicerone ne dà nella III Catilinaria (4,7-5,10). Si può

obiettare che si tratta di una proposta avanzata in senato, cioè davanti a un corpo deliberante

particolarmente catafratto di fronte a ogni carica passionale del complotto. Quello però che non posso dimenticare è che la stessa mancanza di passionalità troviamo nelle orazioni di Cicerone, che si sente ben

responsabile di fronte al senato e al popolo della sicurezza dello stato. Questa asetticità può avere una spiegazione nella prima orazione, tenuta in senato davanti a Catilina, anzi rivolgendosi a Catilina stesso; cito

il momento più concitato: Etenim quid est, Catilina, quod iam amplius exspectes, si neque nox tenebris oscurare coetus nefarios nec privata domus parietibus continere voces coniurationis tuae potest, si inlustrantur, si erumpunt omnia? Muta iam istam mentem, mihi crede, obliviscere caedis atque incendiorum. «Infatti, Catilina, che aspetti più, se la notte con le sue tenebre non riesce a nascondere le riunioni nefande

del tuo complotto e una casa privata a trattenere entro i suoi muri i vostri discorsi, se tutto viene alla luce, se tutto erompe? Cambia le tue intenzioni, dammi retta, dimenticati di strage e incendi» (1,3,6).

Le parole sono grosse, sopra tutto l’accenno a strage e incendi, messo in rilievo in fine del periodo, che è

destinato a essere l’elemento battuto e ribattuto anche nelle successive orazioni, a sottolineare l’atrocità verso le persone e le cose; ma il tono è dato da quel freddo e pesante etenim che introduce questa prima

conclusione. Un discorso freddamente politico; proprio – mi si può dire – perché siamo in senato. È giusto dire che nella II Catilinaria, tenuta davanti al popolo, per dar notizia della congiura, i toni sono un po’ più

pieni; ma non troppo.

Quod si iam sint id quod summo furore cupiunt adepti, num illi in cinere urbis et in sanguine civium, quae mente conscelerata ac nefaria concupiverunt, consules se aut dictatores aut etiam reges sperant futuros? «Nel caso poi abbiano ottenuto ciò che desiderano come colmo della loro follia, nella città ridotta in cenere e nel sangue dei cittadini, sperano ciò che hanno sognato nella scelleratezza collettiva dei loro infami progetti,

cioè di essere consoli o dittatori o addirittura re?» (2,9,19). Tornano l’incendio di Roma e le uccisioni di cittadini, retoricamente rilevate dal rovesciamento delle immagini

(si veda – in latino – non ‘la città in cenere’, ma ‘la cenere della città’); come mozione degli affetti si veda la

veemenza nel capitolo iniziale: Quod vero non cruentum mucronem, ut voluit, extulit, quod vivis nobis egressus est, quod ei ferrum e minibus extorsimus, quod incolumis civis, quod stantem urbem reliquit quanto tandem illum maerore esse adflictum et profligatum putatis? «Ecco, non ha estratto – come avrebbe voluto – una lama assetata di sangue, è uscito da Roma me vivo, gli

abbiamo strappato dalle mani le sue armi, ha lasciato noi cittadini incolumi e la città in piedi; alla fin fine per tutto ciò da quanto grande dolore pensate che sia stato abbattuto e annientato?» (2,1,2).

C’è una virulenza nella descrizione delle nefandezze progettate da Catilina, che culmina con l’allitterazione coperta dei due verbi finali e manca quando Cicerone presenta la congiura.

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Non è che sia molto diverso nella III Catilinaria: di nuovo davanti al popolo; c’è anzi un tono di soddisfatta esaltazione per aver salvato tutti ex flamma atque ferro (3,1,1). Soddisfazione che si dispiega subito dopo:

Nam toti urbi templis, delubris, tectis ac moenibus subiectos prope iam ignis circumdatosque restinximus, idemque gladios in rem publicam destrictos rettudimus mucronesque eorum a iugulis vestris deiecimus. «Io ho estinto i focolai già quasi pronti tutt’attorno sotto alla città intera, ai suoi templi, ai sacrari, alle case e

alle mura, sempre io ho spuntato le spade già snudate contro lo stato e gettato a terra le loro lame puntate alla vostra gola» (3,1,2).

Qui i particolari s’addensano; ancor più nella confessione di Volturcio: nella lettera di Lentulo a Catilina si sarebbe detto che si doveva preparare tutto ut, cum urbem ex omnibus partibus quem ad modum descriptum distributumque erat incendissent caedemque infinitam civium fecissent, praesto esset ille qui et fuggenti exciperet et se cum his urbanis ducibus coniungeret. «perché, quando avessero messo a fuoco la città da tutti i punti come era stato determinato e come era

stato assegnato a ciascuno e avessero fatto strage senza fine di cittadini...» (3,4,8). Qui siamo in un netto crescendo: per l’incendio si precisa che doveva essere appiccato con un gran numero

di focolai e per la strage compare il terribile aggettivo infinitam. È chiaro che Cicerone vuol fare più

impressione sui suoi ascoltatori non dando queste atrocità come fantasie sue, ma rendendole credibili, in quanto dichiarate da uno dei congiurati; ma è anche chiaro che né negli ordini né nella lettera era detto

niente del genere, dato che si trattava di azioni già san cite fin dal momento in cui il complotto aveva deciso di mettersi in moto. Di questa montatura, che chiamerei ‘scenografica’, troviamo conferma quando più oltre

Cicerone fa motivare la supplicatio agli dei con le parole quod urbem incendiis, caede civis, Italiam bello liberassem (3,6,15). Anche qui l’attendibilità del tutto è raggiunta attraverso l’autorevolezza del senato.

Ancora in questa orazione lo stesso gioco si rivela – ma qui con una forma evidente di autoincensazione –

quando l’oratore si presenta come l’esecutore prescelto dagli dei, il salvatore di Roma: Quo etiam maiore sunt isti odio supplicioque digni qui non solum vestris domiciliis atque tectis sed etiam deorum templis atque delubris sunt funestos ac nefarios ignis inferre conati. «Perciò di tanto maggior detestazione e condanna sono degni costoro che hanno avuto l’intenzione di metter

a fuoco le vostre abitazioni e le vostre case, ma anche i templi e i santuari degli dei con fiamme luttuose e

delittuose» (3,9,22). Qui, com’è ovvio, gli ammazzamenti non compaiono, perché in questa unità tra dei salvatori e Romani salvati

gli dei potevano avere i templi incendiati, ma non potevano essere accoppati. È naturale che il vertice di questa scenografia compaia nell’ultima Catilinaria, in senato; la celebrazione di se stesso è condotta da

Cicerone con mossa estremamente abile, fin dall’inizio: Nunc si hunc exitum consulatus mei di immortales esse voluerunt ut vos populumque Romanum ex caede miserrima, coniuges liberosque vestros virginesque Vestalis ex acerbissima vexatione, templa atque delubra, hanc pulcherrimam patriam omnium nostrum ex foedissima flamma, totam Italiam ex bello et vastitate eriperem, quaecumque nmihi uni proponetur fortuna subeatur. «Ora, se gli dei immortali hanno voluto che questa fosse la conclusione del mio consolato, che io strappassi voi e il popolo romano3 a una sventuratissima strage, le vostre mogli e i vostri figli, le vergini Vestali a una

dolorosissima persecuzione, i templi e i santuari, questa stupenda patria di noi tutti a un’atrocissima vampa,

l’Italia tutta a una guerra e a una devastazione, qualunque sarà il mio destino, di me solo, sono pronto ad affrontarlo» (4,1,2).

È la descrizione più meticolosa delle minacce, ormai eluse, del complotto; ma non è certo per suscitare o spavento o timore come reazione per una congiura che non esiste più. Il ‘clou’ di tutte le quattro orazioni, in

particolare della IV, è però nel VI capitolo, un quadro veramente passionale:

Videor enim mihi videre hanc urbem, lucem orbis terrarum atque arcem omnium gentium, subito uno incendio concidentem. Cerno animo sepulta in patria miseros atque insepultos acervos civium, versatur mihi ante oculos aspectus Cethegi et furor in vestra caede bacchantis. Cum vero mihi proposui ... tum lamentationem matrum familias, tum fugam virginum atque puerorum ac vexationem virginum Vestalium perhorresco et, quia mihi vehementer haec videntur misera atque miseranda, idcirco in eos qui ea perficere voluerunt me severum vehementemque praebebo. «A me pare di vedere questa nostra città, faro del mondo e roccaforte di tutte le genti, d’un tratto crollare in

un unico incendio. Scorgo col pensiero infelici e insepolti cumuli di cittadini nella nostra patria sepolta sotto le macerie. M’appare davanti agli occhi il fantasma di Cetego e la furia di lui che smania delirando in mezzo

alla vostra strage. Ma quando mi vedo davanti agli occhi il pianto disperato delle madri, la fuga delle ragazze e dei ragazzi, la persecuzione delle vergini Vestali, sono sconvolto dall’orrore e siccome questi fatti mi

appaiono infelici e miserevoli, è per questo che mi mostrerò rigoroso e determinato nei riguardi di coloro che

ebbero ferma intenzione di compierli» (4,6,11). Un quadro a tinte fosche, come d’una città conquistata da un nemico in armi; si staglia sullo sfondo lo

spettro dell’incendio gallico: l’unico flagello che conveniva mettere a confronto con la rivoluzione minacciata da Catilina; in giusto risalto è posto il bacchantis, che suscita un altro spettro, quello dei Baccanali. È anche

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l’unica volta in cui compare l’horror, un termine che comporta con sé, immediata, un’immagine visiva. Ma ci sono anche altri segnali, che non erano comparsi nelle precedenti orazioni; ad esempio qui compaiono due

allitterazioni iniziali, per giunta ravvicinate e con la seconda quasi in paronomasia: vehementer ... videntur e

misera ... miseranda; ‘coperta’ ma fortissima, compare una terza allitterazione nel primo periodo: sepulta ... in-sepultos. Occorre tener presente che la figura è arcaica e peculiare del teatro tragico; se ci rivolgiamo al

teatro, allora più particolari acquistano significato, a cominciare da cerno. Cerno è verbo vivissimo in poesia e Cicerone vi ha aggiunto animo, perché la sua non è una vera visione da invasato, ma una fantasia della

mente; sepulta patria è un traslato forte, che Cicerone non ama4, ma evidente, così com’è evidente l’antitesi tra la patria sepulta sotto le sue fumanti rovine e i cittadini insepultos; poetico è anche insepultos acervos civium, sia per l’immagine, sia per l’uso di acervos5, sia per l’enallage. In più da cerno a civium c’è un netto

andamento giambico, che ovviamente non dà un verso perfetto (il che in buona prosa non sarebbe stato consentito), ma che serve a risvegliare attenzione e reminiscenze negli ascoltatori. I poeti che avevano

legato, secondo una tradizione già greca, le origini di Roma alla caduta di Troia, avevano reso famigliare ai Romani un altro incendio, quello appunto di Ilio. A Cicerone Roma, minacciata dagli incendi dei catilinari,

appare come la novella Troia che entro le sue stesse mura ha il fatale cavallo da cui le doveva venire la

distruzione improvvisa e totale. Un’allusione molto chiara e imponente, che non doveva sfuggire ai qualificati ascoltatori di Cicerone.

Questo è tanto più vero, se è valida l’ipotesi che ho avanzato tanti anni fa6 e di cui sono ancora convinto, cioè che l’origine di questa quasi citazione poetica va vista nel canticum di Cassandra nell’Alexander di Ennio;

un canticum che per la sua passionalità commoveva Cicerone7 ed era opera del suo poeta preferito, Ennio. Ma è ora di tornare al nostro tema e vedere quali conclusioni si possono avanzare. Premetto che le quattro

orazioni sono state pronunciate quando ormai Cicerone era riuscito a smascherare il giuoco del complotto,

non però i pericoli che comportava. È per questo che avevo preso prima in esame Sallustio; anche in Sallustio, ad ogni modo, l’unico accenno a un trambusto terrorizzato è al momento in cui ancora il popolo

nulla sa della congiura, ma è spaventato alla vista di misure di sicurezza del tutto insolite. Da tutto l’insieme, a me pare inevitabile trarre almeno una conclusione: nel 63 a.C. i cittadini romani non avevano esperienza di

che cosa volesse dire realmente un terrore politico o militare; tanto che neanche l’oratoria politica aveva

elaborato un linguaggio ‘ad hoc’. La miglior prova è data dall’ultima Catilinaria: per concretizzare le minacce dei catilinari, Cicerone non ha di meglio che rifarsi al linguaggio della poesia teatrale e agitare davanti al

senato i fantasmi dell’incendio, dei massacri dell’antica Troia. Tutto questo mondo che non conosceva l’esperienza vissuta del terrore doveva tramontare, travolto da eventi come i tumulti di Clodio (e di Milone),

la guerra tra Cesare e Pompeo, ancor più quella tra i secondi triumviri e i cesaricidi.

NOTE

1 Nella perorazione della pro Sexto Roscio Amerino Cicerone dichiarava: «Nessuno c’è di voi che non comprenda come il popolo romano, ritenuto una volta mitissimo verso i nemici, sia ai giorni nostri malato d’una crudeltà quasi domestica. Questa, o giudici, espellete dalla società, questa non lasciate che più imperversi nel nostro stato: perché non solo ha in sé ciò di male, d’aver tolto di mezzo nel modo più atroce tanti cittadini, ma anche d’aver soppresso nel cuore dei più miti la misericordia per via dell’abitudine alle violenze. Infatti, quando a tutte le ore noi vediamo o sentiamo avvenire qualche cosa d’atroce, anche se di natura mitissimi, per la frequenza dei misfatti, dall’animo nostro perdiamo ogni senso d’umanità» (53,154; trad. A. Rostagni). Non era facile dirlo in quei momenti, ma non compare neanche una sfumatura del terrore, solo la crudeltà. 2 Liv. 39,17,4: Contione dimissa [quella convocata dai consoli per comunicare al popolo la scoperta della coniuratio] magnus terror urbe tota fuit nec moenibus se tantum urbis aut finibus Romanis continuit, sed passim per totam Italiam ... trepidari coeptum est. Piuttosto colpisce il termine usato per il senato: patres p a v o r ingens cepit cum publico nomine, ne quid eae coniurationes coetusque nocturni fraudis aut periculi importarent, tum privatim suorum cuiusque vicem, ne quis adfinis ei noxae esset (14,4). Pavor è termine usato normalmente a indicare una paura irrazionale e mutevole, che di solito è caratteristica delle donne; non è improbabile che Livio l’abbia scelto per sottolineare lo sgomento di chi non riesce a misurare l’entità del pericolo. Sull’episodio dei Baccanali si veda il contributo di A. Luisi, in questi atti. 3 Formula ufficiale: Senatus populusque Romanus. 4 Gli usi di sepelio in traslato sono assai rari e hanno sempre un voluto rilievo, cf. per es. Tusc. 2,13,32. 5 Se ne veda un bell’esempio in Accio, Epinausimache 322-323 R.2: Scamandriam undam salso sanctam obtexi sanguine atque acervos alta in amni corpore explevi hostico. 6 A. GRILLI, Miscellanea latina, “RIL” 97, 1963, pp. 94-96. 7 Cf. Cic. div. 1,31,66.

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Cesare Maccari, 1880, " Cicerone denuncia Catilina", affresco a Palazzo Madama,

sede del Senato della Repubblica

Roberta Lunetta- DOL- Master on line a.a. 2014/2015