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1 Giovanni Piana Commenti a Schopenhauer II Intuizione, intelletto, ragione 1990

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Giovanni Piana

Commenti a SchopenhauerII

Intuizione, intelletto, ragione

1990

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Questo testo è tratto da lezioni del corso di Filosofia Teoretica sul tema“Epistemologia e metafisica della natura in Schopenhauer” tenuto all’U-niversità degli Studi di Milano nel 1990. Le traduzioni italiane citate so-no le seguenti: La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, Iediz. 1813, a cura di A. Vigorelli, Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano1990 (Abbrev.: Quad_1), II ediz. 1847, a cura di Eva Amendola Kuhn,Boringhieri, Torino 1959 (Abbrev.: Quad_2); Il mondo come volontà erappresentazione, trad. di N. Palanga, Mursia, Milano 1969 (Abbrev. :M.); Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A.Vigliani, in Il Mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, Mondadori,Milano, 1989 (Abbrev.: Suppl.). Inoltre vengono citate le Lezioni berlinesi(1820), parte prima, da Theorie des gesammtenVorstellens, Denkens undErkennens – Philosophische Vorlesungen, Teil I, aus dem handschriftli-chen Nachlass, hrsg. von Volker Spierling, München, 1986 (Abbrev.:Lez. I). Nel caso che il luogo della citazione sia del tutto chiaro dal testo,viene indicato solo il numero di pagina. Nell’impiego delle traduzioni cisiamo riservati la possibilità di introdurre le modifiche ritenute necessariesenza esplicita segnalazione.

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INDICE

1.Il mondo come mia rappresentazione e la tradizione fenomenistica –Differenze e relazioni con Berkeley, Hume e Kant.

2.La revisione del trascendentalismo kantiano – Spazio, tempo e materia– Simultaneità e successione – Il temporale “puro” e lo spaziale “puro”.

3.La semplificazione del problema kantiano delle forme a priori e dellecategorie – Spazio, tempo e causalità come forme dell’esperienza – Av-viamento della discussione sul tema della materia.

4.La materia come prodotto del tempo moltiplicato per lo spazio – Mate-ria e relazione causale.

5.Un altro aspetto secondo il quale viene in questione la causalità inrapporto alla realtà materiale – Il problema della mediazione corporea– Il corpo come oggetto immediato – Tematica della sensazione –Passaggio dalla sensazione all’intuizione attraverso l’interpretazionecausale delle sensazioni.

6.Critica del realismo ingenuo – Spiegazioni integrative intorno al pro-blema dell’interpretazione causale delle sensazioni.

7.L’intellettualità dell’intuizione – La non razionalità dell’attività in-tellettuale – L’operare dell’intelletto – Il problema della “passività”delle operazioni causali.

8.Postilla sulla realtà del mondo esterno – Idealismo e realismo se-condo lo schema delle Lezioni berlinesi.

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9.Problematica della ragione – Concezione comune e concezione filosofi-ca della ragione – Il rapporto con gli animali – In che senso gli ani-mali hanno un intelletto – Ricordo riflessivo e ricordo intuitivo – Ra-gione ed errore – Il carattere riflesso del concetto – Gli ingannidell’intelletto e gli errori della ragione – Solo lo spirito e la conoscenzafanno l’uomo signore della terra.

10.Teoria del concetto – La rappresentazione astratta e la parola – Il si-gnificato della parola è qualcosa di interamente differente dalle even-tuali immagini concomitanti – La parola come telegrafo perfettissimodei concetti – Perché gli animali non parlano – L’astrarre inteso comeisolamento di una proprietà, lasciando tutto il resto indeterminato –L’individualità può essere solo intuita, e non pensata.

11.Teoria della logica – Interesse di Schopenhauer per la logica formale –La logica non ha nessuna utilità pratica ma un grande interesse teorico– La logica deve essere insegnata nelle università – L’importanza con-ferita alla rappresentazione figurativa dei rapporti logici – Una signi-ficativa citazione di Lambert.

12.Digressione sulla teoria del riso e del comico in Schopenhauer – In chemodo in essa sono implicati concetto e intuizione – La teoria dellasussunzione paradossale – Esempi – La distinzione tra spiritosaggi ebuffoneria – Sulle cause del riso – Il riso sorge dal piacere che genera loscacco della ragione – Il buffone che sbeffeggia il pedagogo.

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1.Il mondo come mia rappresentazione e la tradizione fenomenistica –Differenze e relazioni con Berkeley, Hume e Kant.

È in realtà importante, proprio per assumere il corretto atteg-giamento di lettori del Mondo come volontà e come rappresen-tazione, rendersi conto della struttura di questo libro e dellesue ragioni. Su di essa dice troppo poco un semplice sguardoall’indice: l’opera infatti si presenta suddivisa in quattro libri icui titoli richiamano due volte la rappresentazione e due voltela volontà, imitando e raddoppiando il titolo principale: cosìil libro primo si intitola “Il mondo come rappresentazione” eil secondo “Il mondo come volontà” – e gli stessi titoli com-paiono anche per il libro terzo e quarto con la sola precisazio-ne che si tratta di una “seconda considerazione” rispetto aduna “prima considerazione”. Inoltre vi è una suddivisione insettanta paragrafi che sono numerati progressivamente, quindisenza tener conto della suddivisione in libri, che vengono la-sciati per di più privi di titolo, cosicché manca nell’indice unasorta di guida che fornisca al lettore un primo orientamentosul contenuto e sulla forma dell’opera.

Questa relativa intrasparenza è del tutto intenzionale evuole sottolineare l’unitarietà dell’opera che viene concepitacome una discussione di una molteplicità di temi gravitantiintorno ad un unico centro piuttosto che come una succes-sione di problemi che vanno via via integrandosi nel loro svi-luppo in un sistema unitario. Questa concezione dell’operanon è tuttavia incompatibile con un’altra che appare semprepiù evidente man mano che si procede nella lettura: essa ha inrealtà la forma di un vero e proprio trattato di filosofia, con lesue classiche sudivvisioni interne. Il primo libro infatti può es-sere considerato come interamente dedicato al problema epi-stemologico, il secondo al problema metafisico, il terzo al pro-blema estetico ed il quarto al problema etico. Troviamo così legrandi partizioni in cui potrebbe consistere un trattato scola-

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stico di filosofia: epistemologia, metafisica, estetica ed etica.Questa concezione dell’opera è pienamente confermata

dalle lezioni che Schopenhauer tenne a Berlino nel 1820, le-zioni che vengono per lo più ricordate per il fatto che esse se-gnarono l’inizio e la fine della carriera accademica del filosofo.Esse non poterono essere ripetute, benché fosser state annun-ciate anche per gli anni successivi, per mancanza di studenti,che preferivano a Schopenhauer colui che egli definiva mag-gior ciarlatano della filosofia del tempo – G. W. F. Hegel. Aquesto risultato fallimentare del resto aveva contribuito lostesso Schopenhauer che, con un gesto un po’ perverso ed inogni caso sintomatico della sua personalità e del suo tempe-ramento, aveva disposto le proprie ore di lezione in modo dafarle coincidere perfettamente con quelle di Hegel.

A queste lezioni con un esito così sfortunato Schopen-hauer dedicò in ogni caso una grandissima attenzione, redi-gendo ad una una ogni lezione, così da proporre un vero eproprio commento di Schopenhauer a Schopenhauer. Questelezioni – a qui faremo riferimento parlando per brevità di Le-zioni berlinesi – vennero pubblicate nel 1913 e recentementeriedite. In esse, nel ridisegnare il proetto del Mondo, Scho-penhauer scegli proprio la forma del trattato di filosofia: il ti-tolo generale del corso si richiama infatti alla filosofia stessanella sua generalità (Vorlesung über die gesamte Philosophie),mentre le sue articolazioni, in corrispondenza ai quattro libridel Mondo, sono intitolate nell’ordine: Teoria del rappresenta-re, del pensare e del conoscere; Metafisica della natura; Metafisi-ca del bello; Metafisica dei costumi.

Il suo primo libro assolve indubbiamente la parte disviluppare le problematiche inerenti alla teoria della cono-scenza. Dando uno sguardo di insieme al suo contenuto ve-diamo subito che esso prende le mosse dall’esperienza percet-tiva, e quindi dal modo primario di conoscere la realtà, perpoi passare alla tematica di una sua apprensione propriamenterazionale, in un’accezione che in seguito andrà precisata, te-

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matica che si conclude con i §§ 15-16 dove si tirano le filaintorno al concetto del sapere e della scienza ed alla differenzatra spiegazione scientifica e filosofica.

La riflessione si apre naturalmente sul grande tema delmondo come “mia rappresentazione” che è, precisa S. un latodel problema; l’altro lato è quello per il quale posso dire: ilmondo è la “mia volontà”.

Secondo S. dire che “il mondo è la mia rappresentazio-ne” equivale a formulare una verità indiscutibile. La questionedel resto era già presente nella Quadruplice radice della ragionesufficiente. L’impianto teorico di quest’opera era rappresentatoda due tesi fondamentali: la tesi dell’identità di oggetto e rap-presentazione e la tesi della relazionalità delle rappresentazioni.Mentre quest’ultima riguardava propriamente la “radice” delprincipio di ragione sufficiente, la prima faceva valere la pos-sibilità di impiegare nello stesso senso le parole di oggetto erappresentazione. Questa sinonimia era motivata dal fatto chela parola oggetto indica sempre il polo di una correlazione, cheha dunque sempre un necessario contropolo: il soggetto. Ciòspiega anche il senso fondamentale della parola “rappre-sentazione” in questo contesto: benché nel suo impiego siasempre presente il rischio di considerare la parola rappresenta-zione nel senso di un atto o di un contenuto mentale, tuttavia,almeno per ciò che riguarda questo inizio del problema inSchopenhauer, questa parola significa anzitutto essere–un–og-getto–per–un soggetto.

Nella Quadruplice radice la tesi dell’identità di oggetto erappresentazione non sembrava andare molto oltre questapossibilità di stabilire una regola terminologica, o almeno nonsi effettuava nessun tentativo esplicito di andare oltre questapossibilità, mentre ora le cose stanno ben diversamente. Svi-luppando coerentemente quella posizione possiamo arrivare adire: il mondo intero è costituito da oggetti e da rapporti traoggetti, gli oggetti in genere sono rappresentazioni, dunque ilmondo intero è una rappresentazione.

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Inizialmente Schopenhauer non sembra particolarmentepreoccupato di difendere a fondo questa mossa iniziale, men-tre in tutta la discussione successiva egli si impegnerà a fondoper mostrare l’efficacia di una simile presa di posizione, con-fermandone la validità. Ma all’inizio ci si contenta di fare levasu due considerazioni: 1. l’ovvietà ovvero l’evidenza della cor-relazione soggetto–oggetto 2. il fatto che in questa assunzionenon facciamo altro che ricollegarci ad una tradizione filosoficain cui la questione del fenomenismo era stata variamente ri-presa e approfondita.

In effetti quella frase non è altro che una possibile for-mulazione di una presa di posizione fenomenistica, cosicchépossiamo ritenere che essa sia sufficientemente convalidatanelle sue linee generali dalle concezioni fenomenistiche che sisono affacciate in modo ricorrente nella storia del pensiero fi-losofico.

Conviene allora avviare alcune considerazioni propriointorno al fenomenismo. Intanto è bene sottolineare conSchopenhauer che gli uomini nella loro pratica quotidianacon la realtà provano una vera e propria “intima ripugnanza”nei confronti dell’idea che il mondo sia null’altro che una lororappresentazione. In effetti la realtà ci appare come piena-mente indipendente da noi e le cose come sussistenti in sestesse indipendentemente sia dal nostro sussistere sia dal fattoche noi in qualche modo le rappresentiamo. Se guardiamo aduna posizione fenomenisitica a partire da queste nostre radicinella “realtà empirica” – ovvero nella realtà così come ci appa-re ogni giorno e nella pratica che noi abbiamo con essa, alloranon possiamo che provare fastidio di fronte ad una formula-zione fenomenistica come di fronte ad una sorta di sofisma in-consistente. Ciò che invece dovremmo subito mettere in chia-ro è che lo scopo di una formulazione fenomenistica non èmai quallo di negare un simile modo di concepire la realtàempirica, ma è piuttosto quello – così almeno mi sembra dipoterla intendere – di riscuotere noi stessi in quanto siamo

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immersi in essa, di operare dunque uno sradicamento che ciconduca su un nuovo terreno, e precisamente sul terreno dellariflessione filosofica. Per questo sarebbe senz’altro sbagliato faragire subito, come tutti forse saremmo tentati di fare, quellanostra interna ripugnanza, facendo invece valere la grezzarealtà del mondo che ci circonda.

Ciò ci viene insegnato già dai primi argomenti fenome-nistici che vengano avanzati nella filosofia filosofia antica, daparte di scettici e sofisti. In questi argomenti si tende ad inde-bolire il “senso” della realtà proprio in direzione della sua ri-conduzione ad una mia rappresentazione, ma spesso questiargomenti hanno un carattere esplicitamente artificioso, espli-citamente paradossale: essi cercano di mettere in questione ciòche appare apertamente sotto i nostri occhi – ad esempio, sinega che esista il movimento, oppure che in generale esistaqualcosa, ecc. Cosicché essi sembrano avere il loro scopo piùche nell’effettivo contenuto che mettono in questione, nell’at-tivazione della riflessione filosofica, nell’invenzione e nell’im-piego di strumenti dell’argomentazione, nella messa in luce diproblemi e motivi teorici che in precedenza, senza quest’operadi sradicamento dalla realtà empirica sarebbero rimasti nasco-sti. Questo è un aspetto che, io credo, appartiene ad ogni pre-sa di posizione fenomenistica. Essa ha sempre il carattere diuno stimolo che mette in moto domande, possibili risposte,difficoltà e tentativi di soluzione, veri e propri processi di pen-siero che possono poi certamente divergere radicalmene nelloro sviluppo, che possono dar luogo a filosofie profonda-mente diverse.

Così, se noi diciamo, ad esempio, che ci sono cose che simuovono, una simile affermazione non genererà in noi néinteresse né curiosità, essendo niente altro che una verità ba-nalmente accertata ogni giorno. Ma non appena in una raffi-nata argomentazione di cui è difficile a tutta prima scoprire ilbandolo, si arriva alla conclusione che “nessuna cosa si muo-ve”, ecco che veniamo subito stimolati da mille interrogativi,

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da mille problemi – assumiamo senz’altro che quella conclu-sione sia errata, ma allora siamo spinti a chiederci dove sial’errore all’interno dello sviluppo argomentativo ed in gene-rale a riflettere sul concetto di movimento scoprendo proble-mi e difficoltà dove prima non ne vedevamo alcuno.

Così di fronte alla frase di Schopenhauer: “il mondo è lamia rappresentazione” dovremmo commentarla così: qui sisollevano dei problemi. A questi problemi, e non alla frase insé e per sé, dovremmo rivolgere tutta la nostra attenzione.

Ma come abbiamo osservato, Schopenhauer cerca anzi-tutto appoggio nella tradizione: egli nomina anzitutto Berke-ley come colui che per primo enunciò con chiarezza ed inmodo radicale la tesi del mondo come rappresentazione. Sitratta naturalmente della famosa enunciazione: esse est percipi.Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un’enun-ciazione dall’apparenza paradossale, dal momento che affermache l’esistenza obbiettiva delle cose, quindi del mondo intero,dipende dal fatto che io, o meglio, qualcuno in generale, lepercepisca. Il percipi sta dunque in luogo della rappresenta-zione, l’esse in luogo del mondo.

Ma anche in rapporto a Berkeley va detto che il suoprincipio ci appare paradossale solo se ci manteniamo in quelrealismo ingenuo che fa parte del nostro atteggiamento quoti-diano nei confronti della realtà. Siamo invece invitati a coglie-re le difficoltà di ordine concettuale che sorgono nel mo-mento in cui quel realismo ingenuo cessa di essere una tesipuramente praticata e si tenta invece di renderla esplicitadando di essa un’effettiva elaborazione teoretica.

Non appena muoviamo i primi passi in questa direzio-ne, si manifesta subito la difficoltà rappresentata dall’idea diun nucleo sostanziale delle cose che sia capace di garantire illoro essere in sé. Si tratta di un’idea difficile da teorizzare, tan-to più se vogliamo attenerci alla testimonianza dell’esperienzasensibile, dunque a ciò che ci appare sul piano dei fenomeni,come fonte primaria di ogni nostra conoscenza. Questa diffi-

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coltà era emersa con particolare forza, prima di Berkeley, inJohn Locke per il fatto che, da un lato, egli avanza l’istanzameodologica di un sapere tutto fondato sull’esperienza sensi-bile, dall’altro tenta di sostenere l’oggettività in sé del mondocon due assunzioni particolarmente impegnative: l’assunzionesecondo cui vi sarebbero qualità primarie, cioè qualità appar-tenenti alla cosa come tale indipendentemente dal modo incui essa viene appresa; e l’assunzione secondo cui tutte le qua-lità delle cose sarebbero tenute insieme da una unità soggia-cente che tuttavia sfugge all’esperienza sensibile e dunque nonpuò propriamente essere conosciuta.

Nell’esse est percipi di Berkeley si dice anzitutto: non visono qualità primarie; e non vi è nessuna sostanza nel senso diLocke. Ma naturalmente queste tesi negative debbono darluogo ad una costruzione filosofica positiva che sia in grado dimostrare la capacità di quel principio di rendere conto coe-rentemente della nozione di realtà così come la conosciamo edi superare del resto le obiezioni che possono essere rivoltealle sue possibili conseguenze. E proprio in rapporto a questacostruzione positiva. il giudizio di Schopenhauer è fortementecritico: al di là della sua formulazione esse est percipi, “il restodelle sue teorie non merita di vivere” (M., p. 39). Quel prin-cipio resta dunque soltanto una sorta di geniale intuizionepriva di effettivi sviluppi.

Gli sviluppi vi sono invece in Kant. In questo filosofo èindubbiamente presente una riduzione al fenomeno che gliproviene proprio dalla tradizione fenomenistico–empiristica,ed in particolare da Hume. Vi è effettiva conoscenza, secondoKant, solo in ambito intrafenomenico. Ma a differenza dellaposizione empiristica, si ammette all’interno delle operazioni diesperienza di componenti a priori, che rendono necessaria un’ac-centuazione del rapporto soggetto–oggetto che è per Scho-penhauer particolarmente importante. Mentre nell’esse est percipidi Berkeley la tematica della soggettività non può che essereimplicata, ma la discussione sul fenomenismo non scaturisce

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da una riflessione della relazione tra soggetto e oggetto. Che idue momenti possano essere nettamente separati lo dimostravistosamente la posizione di Hume. Poiché Hume è interes-sato a far valere un’istanza antimetafisica, la sua riduzione alfenomeno è tale da frantumare non solo la nozione della cosacome nucleo sostanziale, ma anche quella della soggettivitàcome sostanza spirituale. Così i fenomeni percettivi primitividi Hume, le sue impressioni non sono affatto da intenderecome date ad una soggettività, ma come atomi psichici va-ganti, per così dire, in un universo mentale che non ha alcuncentro fisso di riferimento.

In Kant le cose stanno diversamente: proprio l’ammis-sione di compoenti a priori che agiscono nelle formazioni diesperienza sembra esigere che queste componenti venganocollocate da qualche parte. Cosicché un modo di concepirel’esperienza come unità di contenuti direttamente tratti dallasensazione e di forme a priori corrisponde all’idea di una cor-relazione necessaria soggetto–oggetto, nella quale le forme apriori saranno appunto da considerare come attività della sog-gettività. Tutti gli oggetti dell’esperienza possibile sono dun-que fenomeni, ma lo sono all’iterno di una correlazione che fadelle soggettività con le sue forme e categorie a priori unacondizione necessaria di ogni unità di esperienza.

Si noti che qui abbiamo operato una sorta di identifica-zione terminologica tra oggetti e fenomeni: in questa impo-stazione problematica troviamo il senso profondo della tesidell’identità tra oggetti e rappresentazioni. Il fenomenismo diSchopenhauer è dunque attraversato dalla problematica kan-tiana delle forme dell’esperienza, e dunque dall’idea che essopossa essere in certo senso se non dedotto almeno giustificatoa partire dall’idea della correlazione necessaria tra soggetto eoggetto.

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2.La revisione del trascendentalismo kantiano – Spazio, tempo e materia– Simultaneità e successione – Il temporale “puro” e lo spaziale “puro”.

Tutto ciò ha un’importante conseguenza: l’idea di una realtàesistente in se stessa e verso la quale ci rivolgiamo come aqualcosa che possiede un’oggettività indipendente da noi,l’idea – come ci siamo espressi – di una “realtà empirica” delmondo non è incompatibile con l’idea della sua “idealità tra-scendentale”, cioè con l’idea che essa rimane “sempre sotto lacondizione assoluta del soggetto”. Questo punto è partico-larmente messo in rilievo all’interno del Mondo (cfr. I, §4) nelquale si sviluppa una discussione molto ampia sul problemadell’idealismo e del realismo. In essa si afferma che l’“idealitàtrascendentale” del mondo non mette in questione il fatto cheesso sia esattamente quel mondo nel quale viviamo la nostravita. Si afferma perciò molto nettamente che “soltanto ad unamente rovinata da sofismi può venire l’idea di contestare lasua realtà” (M., p. 51).

Eppure proprio in questo contesto viene toccato unproblema che, pur essendo presente in ogni fenomenismo, as-sume in Schopenhauer un’inclinazione particolare che contri-buisce in maniera determinante, più che ad arricchire di con-tenuto teorico il suo sistema filosofico, a delineare la sua“fisionomia”, a istituire la tonalità complessiva nella quale es-so si sviluppa.

Ogni riduzione al fenomeno contiene sempre il proble-ma della distinzione tra fenomeni che sono provvisti di un in-dice di realtà e fenomeni che sono invece sprovvisti di questoindice: in una parola, la distinzione tra ciò che è soltanto unarappresentazinoe mentale e ciò che è invece “reale”, tra realtàe fantasticheria, dunque tra la veglia e il sonno.

Già Cartesio, come egli racconta nelle sue Meditazionimetafisiche, in quella rigida notte di inverno, in cui serena-mente addormentato nel proprio letto, sognava di essere esse-

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re sveglio a godere il calduccio del caminetto, traeva da questaesperienza la riflessione che tutto potrebbe essere esattamentecome in questo momento ci appare, senza tuttavia poter esse-re realmente essere certi di essere svegli oppure addormentati.

Nella riduzione al fenomeno sembra si giochi sull’equi-vocità che caratterizza il verbo italiano apparire – e quindi ingenerale la nozione di fenomeno: da un lato fenomeno signi-fica letteralmente ciò che appare, così da farci pensare a qual-cosa che si manifesta con chiarezza così come essa è; dall’altro cipuò far pensare invece ad un apparire che contrasta conl’essere vero, ad un’apparire come apparenza; ma dobbiamoanche prestare attenzione, in particolare in rapporto a Scho-penhauer, ad un’inclinazione di senso che non coincide con laprecedente, all’apparizione come qualcosa che è privo di con-sistenza, che è illusoria nel senso in cui possiamo dire illusoriauna figura che ci sembra di intravvedere nella nebbia e che poinon riusciamo a raggiungere ad afferrare, ad identificare: allaapparizione proprio nel senso di un fantasma che ha una vitainstabile e precaria. Tutto ciò interessa parole come fenome-no, apparenza, apparizione, parvenza; ma anche la parola rap-presentazione.

In effetti nel Mondo la differenza tra sogno e veglia, giàaccennata nella Quadruplice radice, viene nuovamente ridi-scussa e riconfermata nei termini in cui veniva formulata inquell’opera: non si può sperare di venire a capo della distin-zione tra sogno e veglia né con la pretesa di una differenza diqualità tra le immagini del sogno e le immagini della veglia,dunque la “minore vivacità e chiarezza del sogno rispetto allapercezione reale” dal momento che “nessuno ha potuto finoad ora mettere a confronto le due cose” essendo questo con-fronto possibile solo se le une e le altre sono simultaneamentealla nostra presenza; e nemmeno con la risposta kantiana cheritiene di poter cogliere questa differenza nella connessionecausale che sarebbe imperfetta e lacunosa nel caso dei sogni.Nulla infatti impedisce che anche un sogno abbia la stessa

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coerenza causale della realtà. Se mai il problema della causalitàva considerato nel rapporto tra sogno e veglia: il sogno, chepuò essere stato internamente coerente, non arriva a connet-tersi coerentemente con la sequenza di eventi che cominciacon il mio risveglio, ed anzi questa sequenza si integra coe-rentemente con gli avvenimenti che sono accaduti prima delsonno.

Schopenhauer cita a riprova una stravagante osservazio-ne di Hobbes secondo la quale quando ci siamo coricati ve-stiti, confondiamo più facilmente la realtà con il sogno: osser-vazione certo non molto persuasiva, ma che dobbiamo sfor-zarci di intendere nel senso delle considerazioni or ora svolte:il fatto che quando mi sveglio vedo di essere vestito può farmipensare di non essermi mai addormentato, e ciò certo compli-ca le cose per ciò che riguarda gli eventi a cui ho assistito insogno!

Ma il punto fondamentale della distinzione è in ogni ca-so la discontinuità tra sogno e veglia, cosicché

“l’unico criterio sicuro per tale distinzione è quello del tutto em-pirico del risveglio, il quale rompe in modo effettivo e palpabile laconnessione causale fra gli avvenimenti del sogno e della veglia”(M., 53).

Questa analisi ha in ogni caso di mira una tematica più gene-rale ed impegnativa. Se le cose stanno in questo modo dovre-mo certo riconoscere l’esistenza di una stretta parentela tra lavita e il sogno. Così scrive in proposito Schopenhauer.

“La vita e i sogni sono pagine dello stesso libro. La lettura suc-cessiva è la vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (ilgiorno) è trascorsa, ed arriva il momento del riposo, noi conti-nuiamo spesso a sfogliare oziosamente il libro, aprendo a casoquesta pagina o quella, senz’ordine e senza seguito, imbattendociora in una pagina già letta, ora in una pagina nuova, ma il libroche leggiamo è sempre il medesimo. La singola pagina isolata,pur priva di connessione con l’ordinata lettura dell’intera opera,

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non ne differisce tuttavia gran che, quando si pensa che cominciae finisce all’improvviso anche la lettura regolare, e può quindi rite-nersi come una pagina unica, sebbene un po’ più lunga” (p. 54).

Ora, il dire che “la vita e i sogni sono pagine di uno stesso li-bro” significa certamente cogliere un’effettiva verità psicologi-ca intorno ai nostri sogni. E può essere che Schopenhauerpensi anche a questa verità psicologica, ma certamente nonsolo ad essa; in realtà pensa anche e soprattutto a qualcos’altroche riguarda in certo modo il senso della nostra vita.

Qui si dice: l’unica differenza è tra i sogni lunghi e i so-gni brevi, e la nostra vita non è altro che un lungo sogno.Quindi vivendo ci muoviamo tra fantasmi sullo sfondo di unmondo fantasmagorico. La frase “il mondo è la mia rappre-sentazione” dice dunque anche che il mondo è una fantasma-goria. Ed è appena il caso di rammentare che questo modo diintendere questa frase è uno dei motivi importanti che con-sentono a Schopenhauer quegli agganci con il pensiero india-no che egli ritiene di poter riconoscere come profondamenteaffini al proprio orientamento filosofico.

Se consideriamo l’esposizione che Schopenhauer fa diquesto problema nelle Lezioni berlinesi ci rendiamo conto chein fin dei conti gli accenni presenti nella Quadruplice radice,che ad un primo sguardo non sembrano contenere queste im-plicazioni, in realtà contengono già questa possibilità di in-tendere il principio del mondo come rappresentazione inmodo da portare l’accento sulla sua fantasmagoricità.

Non si tratta più soltanto di attirare l’attenzione sulla te-si dell’identità di oggetto e rappresentazione: ora si tratta in-vece di fare riferimento alla tesi della relazionalità di tutte lerappresentazioni. In realtà in quelle due tesi sono presenti i mo-tivi interpretativi fondamentali del principio del mondo comerappresentazione.

Parlando del principio di ragione sufficiente Schopen-hauer insiste particolarmente sul fatto che in esso abbiamo a

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che fare con il problema della possibilità del sapere, della co-noscenza, della scienza in genere. La scienza è sempre ricercadei fondamenti e da questo punto di vista la frase secondo cui“ogni rappresentazione è una rappresentazione fondata” puòessere proposta come un asserto che fissa la possibilità stessa diuna considerazione scientifica della realtà. Ma ciò vale ancheper la tematica dell’agire, e dunque per quella della volontà edei motivi. In questo ambito avremo a che fare soprattuttocon momenti della nosra vita psichica ed in particolare dellavita affettiva. Parlare di una legge della motivazione significaallora la stessa cosa che parlare della possibilità che si dia ditutto ciò una scienza autentica: anche in rapporto ad ognifatto della vita psichica si possono dare spiegazioni autentiche.

Nelle Lezioni berlinesi Schopenhauer mostra un’altrapossibile interpretazione della tesi della relazionalità, un altromodo di leggerla. Insistere su questo aspetto relazionale nonpotrebbe voler anche significare che l’accento viene postosulla relatività di ogni cosa, sulla sua essenziale dipendenza daaltro, e quindi – qui si interpola un nuovo pensiero – sulla suaessenziale inconsistenza? In quanto dipendente da altro ognicosa è in se stessa precaria e instabile. Schopenhauer parla ad-dirittura di nullità (Nichtigkeit) delle cose (Lez 1, p. 474).

Una simile inclinazione del discorso potrebbe già esserecolta nel fatto che la relazione temporale può essere conside-rata come una sorta di modello comune ad ogni forma delprincipio di ragione sufficiente, come una relazione sempliceche illustra esemplarmente la sua radice, e che perciò può es-sere indicata come “lo schema (Schema) e il modello origina-rio (Urtypus) di tutte le sue forme” (Lez. I, p. 471). Ma questoriferimento ci serve ormai per illustrare altrettanto esemplar-mente il tema dell’instabilità e della nullità.

“Quella instabilità di cui il principio di ragione sufficiente rendepartecipe gli oggetti trova la sua manifestazione più chiara e chepiù salta all’occhio nella sua forma più semplice, il tempo: in essoogni istante c’è soltanto in quanto ha soppresso l’istante prece-

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dente, suo padre, per venire esso stesso a sua volta nuovamentesoppresso, altrettanto celermente: passato e futuro sono un nullaal pari di un qalunque sogno, il presente soltanto c’è realmente;ma esso è soltanto il limite privo di estensione tra passatto e futu-ro: ciò che era poco fa presente, è già passato. Questa nullità, checi appare qui con tanta evidenza è tuttavia inerente al principio diragione sufficiente in ogni sua forma e ad ogni classe di oggettoche esso domina...” (Lez. I, pp.. 474–5)

Vogliamo considerare in questa stessa angolatura il problemadello spazio. In questo contesto, lo spazio di cui si parla non èlo spazio geometrico, e dunque non è in questione la ratio es-sendi di cui si parlava nella Quadruplice radice. Si tratta piut-tosto della nostra esistenza nello spazio, e precisamente di unospazio concepito come una catene di infinite posizioni chesono determinate solo relativamente l’una all’altra. Se allora ciinterroghiamo sul luogo in cui siamo, questa domanda in parteè ovvia, in parte è invece profondamente enigmatica: il luogoin cui ci troviamo è circoscritto da un confine: ma questoconfine a sua volta ha intorno altri confini, e così all’infinito.Vi è allora una sorta di conflitto tra la finitezza (delimitazionedei confini) del luogo nel quale mi trovo e l’infinità (l’essereoltre ogni confine) dello spazio, cosicché il nostro essere in unluogo piuttosto che in un altro tende a perdere qualunque si-gnificato (Bedeutung) ed “il nostro essere in un qualche luogonon è molto più che essere in nessun luogo” (Lez. I, p. 475).Si noti in margine che con ciò si comprende anche per qualemotivo Schopenhauer parli non solo della nullità, ma anchedella finitezza dei fenomeni: si tratta infatti di una finitezzache, come in questo esempio, si misura con l’infinità e daquesta viene “annientata”.

“Nello spazio il luogo è sempre soltanto relativo, è determinato daun altro. Noi non conosciamo mai il nostro luogo assoluto, masolo quello relativo. Dove siamo? – in questo o quel luogo: i con-fini che anzitutto ci circondano li conosciamo; ma essi hanno al-tri confini, e così in infinito; infatti lo spazio è infinito; i rapporti

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del nostro luogo con lo spazio circostante li conosciamo; ma perquanto estendiamo la nostra conoscenza, questa parte dello spa-zio resta finita e limitata, lo spazio stesso infinito e illlimitato, co-sicché rispetto ad esso il luogo e la posizione che noi occupiamoperdono di qualunque significato, scompaiono interamente, di-ventano qualcosa di infinitamente piccolo e il nostro essere in unqualche luogo non è molto più che essere in nessun luogo” (Lez.I, p. 475).

Si noti come stia facendosi strada una sorta di rovesciamentoparadossale in forza del quale immagini di sradicamento e diperdita si affollano proprio intorno al tema del fondamento.Ora si cerca di dire: ogni esistenza è un’esistenza presa a pre-stito (erborgte Existenz), ed è dunque priva di radici.

Riflessioni analoghe riguardano anche la legge causale.Qui sembra che qualcosa in certo modo reagisca al puro flus-so temporale. Si tratta della materia stssa. Ma la materia comequalcosa di costante e permanente è una pura astrazione. Ciòa cui invece assistiamo è un continuo sorgere e trapassare diforme materiali, proprio in forza della legge causale che è quivigente: l’essenza stessa del mondo ci sembra, da questo puntodi vista, null’altro che “un cambiamento ed una evoluzionecontinua” (ivi).

Proprio stando alla tematica della causalità, possiamo di-re che “nulla è in forza di se stesso; perciò nulla ha consistenza(Bestand): tutto scivola via tra le nostre mani: noi stessi noneccettuati” (ivi).

Con altrettanto chiarezza che nell’osservazione prece-dente intorno allo spazio, anche in questa sulla causalità, ilpunto di vista è tale da implicarci: noi non siamo puri osser-vatori di relazioni causali, eventualmente da mettere in rilievoa scopi conoscitivi, ma siamo immersi e portati via dal fiumedelle cause. Forse solo ora siamo realmente in grado di com-prendere per qualche motivo Schopenhauer abbia indicato lalegge causale come principio di ragione sufficiente del divenire.

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3.La semplificazione del problema kantiano delle forme a priori e dellecategorie – Spazio, tempo e causalità come forme dell’esperienza – Av-viamento della discussione sul tema della materia.

Il compito che ora ci attende è naturalmente quello di rendereespliciti quei molti problemi che la tesi del mondo come miarappresentazione ha il merito di sollevare. Almeno nella loroimpostazione iniziale essi non sono troppo lontani da quelliche Kant ha posto nella sua Estetica trascendentale e nella suaAnalitica. Come nel caso di Kant, si tratta di rendere contodel fatto che c’è per noi un mondo – ed anzitutto un mondodi cose materiali, restando naturalmente strettamente sul ter-reno della rappresentazione del fenomeno e facendo valerenello stesso tempo la distinzione, di origine kantiana, tra i pu-ri contenuti di esperienza attinti alla sensazione e le forme incui questi contenuti ricevono una strutturazione. Peraltro èbene sottolineare che il richiamo kantiano è utile soltantoall’inizio, dal momento che profondamente diverso è l’orien-tamento complessivo così come l’impostazione dei problemiparticolari e la loro soluzione. Di conseguenza intervengonoanche modificazioni terminologiche di non secondaria im-portanza.

Potremmo anzi prendere le mosse proprio da una que-stione terminologica: si tratta di una semplificazione dellaterminologia kantiana che parlava di forme solo per lo spazio eper il tempo, mentre per le nozioni a priori “dedotte” dallatavola dei giudizi parlava di categorie. Il termine di categoriadipende naturalmente dal modo in cui esse vengono ottenute– esso contiene il rimando alla “predicazione” e dunque allastruttura fondamentale della proposizione (giudizio). In realtà,il termine di categoria, così importante in Kant non trova inSchopenhauer alcuna effettiva legittimazione. Ma ciò accadenaturalmente perché di fatto l’intera tematica kantiana dellecategorie viene messa sottosopra, anzi, viene spazzata via da

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Schopenhauer come una costruzione fortemente artificiosa einutilizzabile così come si trova. L’impressione che ogni letto-re di Kant ha sempre avuto e continua ogni volta ad avere difronte al modo in cui egli propone il tema delle categorie ver-rebbe ampiamente confermata da Schopenhauer. Di quellateoria viene conservata l’idea fondamentale dell’esistenza dicondizioni a priori di strutturazione del reale; mentre delledodici categorie resta soltanto la causalità, intesa come formadell’esperienza accanto ed dello stesso tipo dello spazio e deltempo. Inoltre la forma causale non è affatto dedotta dal giu-dizio ipotetico, come accadeva in Kant, benché si ammettaovviamente che il giudizio ipotetico possa dare espressione aduna relazione causale. Per quanto riguarda il suo carattereapriorico, questo è semplicemente garantito dalla apriorità delprincipio di ragione sufficiente di cui la causalità non è altroche un aspetto.

Venendo meno il riferimento al giudizio, non ha piùsenso applicare alla causalità il termine di categoria (se noncome un ricordo di Kant); ed in conseguenza di ciò perdeogni ragion d’essere anche il modo caratteristicamente kantia-no di impiegare il termine di intelletto (Verstand).

Uno dei primi risultati interessanti di questa imposta-zione del problema consiste nel proporre una tematica stret-tamente unitaria per ciò che concerne la questione delle formedello spazio, del tempo e della causalità.

Dando per scontati gli argomenti intorno all’apriorità diqueste forme, siamo ora soprattutto interessati a mostrare inche modo esse entrano in rapporto tra loro, cominciando cosìa rendere conto del problema della realtà del mondo: come sicomprende su questo problema il principio del mondo comerappresentazione pone un grosso punto interrogativo. Questocadrà anzitutto sulla nozione di materia. Già il fenomenismodi Berkeley aveva tra i suoi motivi ispiratori la convinzioneche, se si fosse riusciti a fornire una giustifiazione soddisfa-cente della tesi dell’esse est percipi, sarebbe con ciò stato messa

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in questione la consistenza della nozione di materia e di con-seguenza di sarebbe tagliata alla radice la mala pianta del ma-terialismo, che Berkeley teme per le sue implicazioni ateistichee irreligiose.

Peraltro la dissoluzione della nozione di materia potreb-be assumere la forma di un’obiezione nei confronti della tesifenomenistica alla quale si potrebbe imputare di non riuscire avenire a capo di essa. Analogamente per la nozione di sostan-za: la tesi del mondo come rappresentazione sembra implicar-ne la pura e semplice soppressione. Ma di essa possiamo real-mente fare a meno?

Kant ritenne di dover rispondere di no, e poneva la so-stanza tra le categorie. Ed anche Schopenhauer dà una rispo-sta negativa, ma la soluzione è diversa.

Realtà, materia e sostanza: appare subito chiaro che que-ste tre parole sono in qualche modo apparentate tra loro, alpunto da proporsi come angolature diverse di un’unica que-stione. Le cose di cui è fatto il mondo nella sua “realtà empi-rica” possono essere caratterizzate come cose materiali e reali –queste due qualificazioni sembrano fare tutt’uno: oltre natu-ralmente al fatto di essere “cose”, cioè entità provviste di de-terminate proprietà, dunque: sostanze.

Nell’affrontare questo nodo problematico, vogliamomettere al centro dell’attenzione anzitutto il tema della mate-ria. Ciò ci consente di avviare subito una discussione intornoalle forme del tempo e e dello spazio, che si dimostrerà benpresto ricca di implicazioni inattese.

Il tema della materia si ricollega anzitutto a quello dellospazio e del tempo per il fatto che essa rappresenta la condi-zioni della loro percepibilità (M., p. 44).

Ciò significa: spazio e tempo sono forme a priori, sonocondizioni e presupposti dell’esperienza, essi dunque non de-rivano da essa. Esiste inoltre la possibilità di un’intuizione pu-ra, la possibilità dunque di afferrrare proprietà del tutto gene-rali che spettano a quelle forme come tali. Ma ciò non implica

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per nulla che si dia una percezione dello spazio e del tempo cometali. L’idea di un’intuizione pura è qualcosa completamentediverso dall’idea che lo spazio e il tempo siano dati alla nostrapercezione. Affinché siano colte percettivamente queste formedebbono essere riempite e ciò che le riempie è appunto lamateria:

“Lo spazio vuoto e il tempo vuoto sono certamente oggetti di unacostruzione matematica per mezzo della pura intuizione a priori,ma non di una percezione autentica: solo se riempiti essi diven-tano percepibili. La materia è qui la percepibilità (Wahrnembar-keit) dello spazio e del tempo: infatti essa li riempie entrambinello stesso tempo, dà ad entrambi nello stesso tempo un conte-nuto” (Lez. I, 161).

Si parte da una premessa che ha una sua evidenza: una tempo-ralità vuota o uno spazio vuoto sono pure astrazioni, mentrelo spazio e il tempo vengono percepiti in inerenza alla cosamateriale. Naturalmente, se ci limitassimo a questa considera-zione, la nozione di materia sembrerebbe presupposta. Tutta-via si suggerisce anche che la materia, in quanto rende perce-pibile lo spazio e il tempo possa essere considerata una loromanifestazione: ciò significa che essa debba essere “analizzata”e quindi anche in qualche modo “tratta” da quelle forme. Tesimolto forte, il cui fondamento può apparirci alquanto dub-bio. Vediamo allora come procede l’argomento di Schopen-hauer.

Egli propone una sorta di esperimento mentale. Pro-viamoci ad immaginare che dalla percezione che noi abbiamodella realtà venga meno la forma dello spazio. Quale immagi-ne del mondo otterremo in questo caso?

La risposta a questa domanda è strettamente correlataall’idea della temporalità che in realtà deve essere affrontataper prima. Abbiamo in precedenza parlato della successionedegli istanti temporali e del fatto che l’istante attuale è desti-nato ad essere subito soppresso dall’istante successivo. Questa

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è la condizione che Schopenhauer caratterizza come un “puroessere l’uno dopo l’altro” (ein blosses Nacheinander); in questacondizione viene meno qualunque possibilità di permanere(Beharren), anzi di una durata (Dauer). In questo contesto“durata” è termine da intendere nel senso del perdurare,quindi come una sorta di sinonimo di permanenza.

Si tratta di un’affermazione che è assai più controversadi quanto potrebbe sembrare ad un primo sguardo.

In generale si parla di un permanere attraverso il tempo,cosicché viene sottintesa l’idea di qualcosa che mantiene la suaidentità nel passare del tempo, che non passa con questo pas-sare.

Ma che cosa impedisce di ritenere che questa identitàattraverso il tempo non si possa costituire restando per cosìdire totalmente all’interno del flusso temporale?

Si consideri l’esempio di un suono che mantiene per uncerto tratto di tempo la stessa altezza. Possiamo allora certa-mente dire che è lo stessso suono che si è mantenuto nella suaidentità attaverso quel tratto di tempo, e questa identità si è asua vuolta costituita per noi restando all’interno del flussotemporale. Ciò che ci impedisce di seguire questa via èl’assunto implicito in essa che viene apertamento negato daSchopenhauer: in questo esempio infatti la successione tem-porale è concepita come continua, ovvero il tempo non è inte-so, secondo la tesi di Schopenhauer, come incessante inabis-sarsi di istanti, quindi come una variazione intesa in sensotanto forte da poter dire che il passare del tempo è un passarea qualcosa di sempre nuovo, di sempre diverso.

Un mondo ridotto a pura temporalità sarebbe un mon-do interamente dominato dal cambiamento e dall’assoluta va-riazione. Di qui si trae la conseguenza che in esso non sarebbenemmeno possibile la simultaneità: ciò sempre implicatonell’idea del puro “essere l’uno dopo l’altro”. L’argomenta-zione che sembra stare alla base di questo punto sembra ri-collegarsi al problema dell’identità. Si argomenterebbe allora

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che si può parlare di simultaneità soltanto in rapporto a cose oeventi riconosciuti come distinti, solo di cose che sono alme-no due si può dire che esse sono simultanee. Ma dove non c’èalcun criterio per l’identità non c’è nemmeno un criterio au-tentico della distinzione, cosicché viene meno anche la possi-bilità di parlare di simultaneità.

In realtà non ho trovato in Schopenhauer una similespiegazione: egli ribadisce più volte che nella riduzione al tem-porale puro non potremmo conoscere alcuna simultaneità, sen-za indugiare nei commenti, ma la spiegazione proposta misembra che corrisponda allo spirito dle problema che è quellodi un’accentuazione estrema del cambiamento e del muta-mento che comporterebbe l’impossibilità di qualunque opera-zione di identificazione.

Veniamo ora alla finzione opposta, sempre suggerita daSchopenhauer: proviamoci ad immaginare lo spazio senzatempo, più precisamente uno mondo da cui via venuta menol’intera forma temporale. In certo senso questa finzione ci dàmeno problemi che nel caso precedente. Verranno meno tuttii cambiamenti, il mondo ci apparirà nei rapporti che vengonomantenuti nella condizione di una completa immobilizzazio-ne. Gli stati di cui consta il mondo saranno fissati l’uno ac-canto all’altro, senza naturalmente che vi sia alcuna altra pos-sibile relazione. Avremo dunque a che fare con una assolutapermanenza. Ciascuna cosa semplicemente è, c’è dunque soloidentità e nessum mutamento. Questa identità ammette pe-raltro anche la distinzione. La tal cosa è in un luogo, edun’altra in un altro luogo – accanto ad essa, alla sua destra,alla sua sinistra...

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4.La materia come prodotto del tempo moltiplicato per lo spazio – Mate-ria e relazione causale.

Lo scopo della finzione di un tempo senza spazio e di unospazio senza tempo è ormai abbastanza evidente. Affinché cisia per noi un’esperienza del permanenere e della modifica-zione è necessario che spazio e tempo confluiscano in unastretta unità. Il problema della permanenza, e quindi dell’i-dentità, non può essere separato da quello del mutamento. Ilpermanere di qualcosa può infatti assumere risalto – così ar-gomenta Schopenhauer – solo in rapporto a qualcos’altro chemuta, e inversamente. Questo rapporto può essere istituitosolo nella condizione della simultaneità di ciò che viene ap-preso come permanente o come mutevole, e la simultaneità asua volta, pur essendo una condizione temporale, non può es-sere costituita sulla base della semplice temporalità, ma ha bi-sogno dell’intervento di una dimensione spaziale. La spazialitàè in grado di fornire un criterio della differenza dal momentoche già la differenza di luogo può bastare a porre quella di-stinzione delle cose che rappresenta un presupposto affinchéabbia senso il parlare di simultaneità.

Nelle Lezioni berlinesi Schopenhauer dice esattamentecosì:

“Il permanere di un oggetto viene tuttavia conosciuto attraversol’opposizione al mutamento di altri che sono ad esso simultanei.Questo essere simultaneo non è tuttavia possibile nel mero tem-po per sé, ma è determinato in parte dallo spazio; perché neltempo tutto è soltanto l’uno dopo l’altro, nello spazio invece l’unoaccanto all’altro: affinché due cose siano nello stesso tempo, cia-scuna deve essere in un luogo (Raum) diverso” (Lez. I, p. 161).

A questo punto possiamo ritornare sul problema della mate-ria. Questo problema si pone proprio in rapporto alla neces-sità di giungere ad una vera e propria unificazione della forma

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dello spazio con la forma del tempo: questa unificazione puòavvenire, osserva Schopenhauer, solo se vi è un terzo elementoche “riempie entrambe le forme, e proprio in modo da esserenell’una e nell’altra, e da portare in sé essenzialmente e insepa-rabilmente le proprietà di entrambe, dunque in modo tale cheesso sia permanente e senza variazione come lo spazio puro esemplice, e fugace, variabile e inconsistente come il tempo pu-ro” (Lez. I, p. 162). Questo terzo elemento è appunto la ma-teria: rispetto alla fugacità del tempo, la materia ha quellapermanenza e stabilità che possono essere riconosciute allospazio; mentre rispetto allo spazio “pensato senza tempo”,privo di modificazione e di movimento, la “materia che riem-pie questo spazio e lo rende percepibile viene concepita comein continua modificazione (Veränderung), in continuo muta-mento (Wechsel)” (Lez. I, p. 162).

Mentre parliamo di materia, parliamo anche di sostanza.La questione della sostanza affiora infatti ogni volta chel’attenzione viene attirata sulla tematica del permanere comedel resto su quella ad essa strettamente collegata dell’identità.Potremmo dire in una parola che la distinzione tra sostanza e“accidenti” (Substanz, Accidenzien), ovvero tra sostanza e pre-dicati, può essere ricondotta rispettivamente al tema dellapermanenza e della variazione, secondo l’idea antica dellamateria come sostrato comune che tuttavia si trova in unacontinua modificazione di stato.

Questa integrazione del problema della sostanza all’in-terno di questa impostazione avviene in un modo interamentediverso da quello kantiano: la sostanza non è qui una catego-ria, non è una produzione o una funzione del pensiero. Incerto modo, se ci è consentito di considerare il livello dell’ana-litica trascendentale kantiana come un livello più elevato diquello su cui si situa l’estetica trascendentale, potremmo direche l’operazione compiuta da Schopenhauer sia quella di unoschiacciamento del livello superiore a quello inferiore, inquanto riporta quella tematica, per così dire, tra lo spazio e il

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tempo, essendo la nozione di sostanza preferibilmente riferitaallo spazio e quella degli accidenti al tempo: e questa opera-zione è resa possibile dall’interpretazione della materia comeunità mediatrice tra spazio e tempo.

Ora, se sul problema non avessimo proprio null’altro daaggiungere, il nostro commento a questo punto potrebbe es-sere all’incirca il seguente: benché certamente ci siano ovun-que qui motivi di interesse, tutto il problema sembra il fruttodi un’argomentazione astratta, di una “speculazione” qui e làforse abbastanza artificiosa e non sempre particolarmenteconvincente. In particolare sembra poco convincente ancheda un punto di vista puramente interno, proprio questa ideadella materia come unificazione di spazio e tempo, come“prodotto del tempo moltiplicato per lo spazio” (Lez. I, p.163), ovvero come prodotto i cui fattori sono il tempo e lospazio. Sarebbe subito il caso di chiedersi: proprio il fatto chela materia viene considerata come pienezza, cioè come capacedi riempire lo spazio e il tempo, come può risultare da questedue vuotezze? Il prodotto di zero con zero dovrebbe ancoradare zero.

Io credo che questa impressione critica sia giustificata,anche se occorre subito aggiungere che essa è probabilmentedestinata ad attenuarsi notevolmente non appena portiamo acompletamento la nostra esposizione che in realtà non puòinterrompersi a questo punto. Nulla infatti finora abbiamodetto sull’aspetto del problema che può considerarsi come ilcoronamento conclusivo dell’argomentazione di Schopen-hauer, e che peraltro va forse considerato come lo spuntofondamentale che sta, non tanto al termine, quanto all’inizioed all’origine dell’intero sviluppo argomentativo.

Quando Schopenhauer parla della materia come pro-dotto i cui fattori sono il tempo e lo spazio aggiunge esplici-tamente che ciò significa, tra le altre cose, che la materia“contiene” questi fattori e non può essere rappresentata senzadi essi. In particolare la materia non è rappresentabile senza

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una forma: la parola usata è qui Gestalt (e non Form). Si trattacioè della forma concretamente delimitata di una cosa cheimplica dunque un rimando alla spazialità. Inoltre essa non èrappresentabile senza qualità (Qualität). Il termine di qualitànon si richiama tuttavia ad una proprietà qualunque della co-sa – ad esempio al colore, che potrebbe anch’esso richiamare illato dello spazialità. Si tratta invece di qualità che manifestanospecificamente la materialità, come la durezza, la resistenza,l’elasticità, ecc. e che sono caratterizzate dal fatto di poter es-sere messe alla prova esercitando un’azione su di esse oppurefacendo esercitare un’azione da parte di una cosa su un’altra(si pensi ad una prova della durezza attaverso ad un tentativodi scalfire). Questa precisazione non si trova in Schopenhauerma mi sembra del tutto conforme al senso del problema.

Se una simile interpretazione è corretta, è facile ritrovareil tema che si trova alla fine ed all’inizio di tutta la nostra in-terpretazione. Si tratta di un tema di origine descrittiva (e nondi un’astratta speculazione): la materia – qualora non voglia-mo subito adottare una caratterizzazione fisica o metafisica diessa – si manifesta in qualità caratterizzate dal riferimentoall’agire. Nelle Lezioni berlinesi si parla di Wirkungsart (Lez. I,p. 163), ma la parola agire deve essere intesa nel senso del te-desco wirken, che significa propriamente agire provocando uneffetto, effettuare nel senso più letterale possibile, realizzare:questo stesso agire come wirken è presente nella parola Wir-klichkei (realtà).

Ci troviamo così ad avere a che fare con l’altro termineche fa parte dell’area della discussione che stiamo conducen-do. Il termine di realtà ci viene ora riproposto con un esplicitorichiamo al produrre effetti e quindi alla connessione causale:

“Meravigliosa è dunque la precisione del termine Wirklichkeit –esclama Schopenhauer – con cui i tedeschi designano l’insiemedelle cose materiali: termine ben più preciso che non quello direaltà (Realität). Ciò su cui la materia agisce è ancora e sempremateria: la sua intima essenza consiste dunque unicamente nella

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regolare modificazione che una parte di essa produce sull’altra;un’essenza, quindi, del tutto relativa, e di una relatività valida sol-tanto nei limiti del mondo materiale, proprio come il tempo e lospazio” (M., §4, p. 45).

Considerando l’intera questione da questo punto di vista essariceve una nuova luce ed una particolare vivacità teoretica.Ciò che la doppia finzione che è servita come introduzionealla nostra esposizione fa venire meno – dobbiamo dire ora –è soprattutto la possibilità dell’apprensione di un rapportocausale. Quest’apprensione è certamente tolta nel “puro spa-zio” dove ogni cosa si trova semplicemente l’una accantoall’altra; ma è tolta anche nel caso del “puro tempo”, dal mo-mento che si ha qui al massimo una condizione di contiguitàtemporale che non va confusa con il nesso causale.

Mancando l’apprensione di questo nesso, manca anchel’apprensione della materialità – l’un problema sta stretta-mente nell’altro (keine Kausalität; aber auch keine Materie).

Tutta la tematica dell’unificazione dello spazio e deltempo conduce dunque alla riproposizione del problema dellacausalità, come problema nel quale riconfluiscono il temadella materia, della sostanzialità e della realtà stessa. Inversa-mente nel considerare la legge causale, dovremo tener contoche in essa è presente il rapporto spazio/tempo:

“Ciò che viene determinato attraverso la legge della causalità,non è quindi la successione di stati nel tempo puro, ma la suc-cessione in rapporto ad un determinato spazio; e non l’esistenzadi stati in un determinato luogo, ma in questo luogo in un deter-minato tempo... Qui non si conferma soltanto che la materia èciò che unifica in sé lo spazio e il tempo; ma si mostra anche chela legge di causalità è connessa strettamente con l’essenza dellamateria: essa interviene insieme alla possibilità di questa e senzadi essa non sarebbe nulla... Dove e come ci rappresentiamo lamateria, ci rappresentiamo anche il suo “agire” (wirken): il suoessere è il suo agire: e non è possibile nemmeno pensare il suoessere diverso da questo” (Lez. I, p. 164).

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5.Un altro aspetto secondo il quale viene in questione la causalità inrapporto alla realtà materiale – Il problema della mediazione corporea– Il corpo come oggetto immediato – Tematica della sensazione –Passaggio dalla sensazione all’intuizione attraverso l’interpretazionecausale delle sensazioni.

In una concezione del mondo come “mia rappresentazione” lanozione della realtà intesa come insieme di cose materiali si ri-solve dunque in quella del rapporto causale. L’esperienza dellarealtà è fondamentalmente esperienza di rapporti di causazione.

Si tratta di una presa di posizione interessante, che sem-bra imporsi in particolare quando non si voglia per ragionimetodiche far riferimento ad un’idea precostituita di materiache potremmo trarre ad esempio dalla fisica o da qualche co-struzione metafisica e si punti piuttosto ad una nozione direaltà che si sostenga unicamente sull’esperienza che noi ab-biamo di cose materiali. Sembra allora che la via indicata daSchopenhauer, per quanto possa essere discutibile la strutturaargomentativa complessiva, contenga spunti praticabili.

L’intera discussione che abbiamo sviluppato può essereconsiderata come un’esplicitazione del nesso tra materialità ecausalità che potremmo cogliere già nel quadro della proble-matica del principio di ragione sufficiente – e precisamente inrapporto alla prima classe di oggetti dove si discute appunto laforma causale del principio.

Schopenhauer non manca di segnalare questo puntoquando dice che “chi ha ben penetrato la forma speciale delprincipio di ragione che regge il contenuto delle forme... dellospazio e del tempo e la loro percepibilità, cioè la materia, equindi la legge di causalità, ha con ciò stesso già coltol’essenza della materia come tale, non essendo la materia chemera causalità: verità questa di cui ognuno si rende imme-diatamente conto” (M., § 4. pp. 44–45).

Ma questo è solo uno degli aspetti secondo il quale il

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problema della causalità può essere richiamato in rapporto altema della realtà materiale. Vi un secondo aspetto che riguar-da piuttosto la funzione di apprensione del mondo attraversol’esperienza nel suo esercizio concreto. Non si tratta allora diargomentare più o meno astrattamente sui rapporti tra leforme a priori dell’esperienza, ma di considerare la strutturadella nostra percezione concreta del mondo. Ed il primo ele-mento che deve essere messo in risalto è che questa percezioneè sempre mediata – cioè avviene sempre attraverso e per mez-zo di qualcosa e questo qualcosa è il nostro corpo (Leib).

In Schopenhauer il problema della corporeità, benchénon venga portato ad effetti sviluppo, si pone comunque connotevole vivacità. Vi sono diverse ragioni interne al suo di-scorso che lo portano almeno a porre l’accento su questo pro-blema che in Kant, ad esempio, nonostante si parli di conti-nuo di sensazioni e di organi di senso, non trova una menzio-ne realmente significativa.

Una di queste ragioni, ma forse non quella di primariaimportanza, è una certa propensione di Schopenhauer ad ab-bandonare la purezza della posizione trascendentalistica, ri-conducendo le strutture a priori a vere e proprie predisposi-zioni psicologiche, al modo in cui è fatta la nostra mente, senon addirittura alla nostra conformazione fisiologica, dovealla mente subentra il cervello.

In realtà Schopenhauer ama parlare spesso del cervellodell’uomo quando il discorso verte sulle modalità di appren-sione del mondo, facendo leva su un motivo naturalistico dacui Kant si tiene accuratamente lontano, ma forse più nellaterminologia di cui si avvale che nella sostanza del problema.Vi è già in Kant un’inclinazione teorica che, nonostante tutto,non riesce ad elaborare difese sufficienti nei confronti di unapossibile interpretazione psicologistica e naturalistica dellaproblematica delle strutture aprioriche e Schopenhauer tendead approfittare di questa inclinazione in misura crescente conil passare degli anni.

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Ciò rappresenta uno dei motivi dell’accento che cade inSchopenhauer sul tema della corporeità. Ma vi è anche un al-tro motivo che è meno generico e più interno alla problemati-ca da lui sviluppata.

Si sarà forse notato che in tutta la nostra esposizione ab-biamo evitato di commentare quell’aggettivo possessivo che èpresente nel principio del mondo come mia rappresentazione.Abbiamo in certo senso tentato di “glissare” su di esso per ilsemplice fatto che avremmo avuto certamente difficoltà arenderne realmente conto. “Mia” rappresentazione – ma pro-priamente di chi? Qui certamente non si parla della soggetti-vità individuale, io stesso, con una conseguente moltiplicazio-ne monadologica dei mondi. Quell’aggettivo dunque rimandaalla polarità soggettiva del rapporto conoscitivo in genere, cheperaltro è sottratta all’ambito della conoscenza. Nel Mondo (§2) si parla del soggetto in generale come “sostegno del mon-do” e “condizione universale di ogni fenomeno” e si dice an-che che ognuno “sente come tale soggetto se stesso”. Ma ba-stano queste notazioni per giustificare l’uso di quell’aggettivotanto impegnativo?

Temo che si dovrà “glissare” un’altra volta. Quel che ri-sulta realmente chiaro è la tendenza a ritenere che nell’espe-rienza in genere si ha a che fare soltanto con oggetti ovverorappresentazioni. C’è tuttavia qualcosa che sfugge almeno inparte a questa generale oggettivazione: ed è appunto il corpostesso – il mio corpo, il tal caso l’espressione “mio” sembra nonporre problemi. Naturalmente il mio corpo è anch’esso unarappresentazione o un insieme di rappresentazioni, e ciò si-gnifica che io posso guardarlo come qualunque altra cosa, econ una mano posso toccare l’altra o afferrare un mio orec-chio così come guardo e tocco una cosa qualunque. Ma aSchopenhauer non sfugge che non è sufficiente limitarsi aquesta considerazione. Infatti, se è vero che per certi aspetti ilmio corpo è una cosa materiale come tutte le altre (e dunqueper essa vale il rapporto di causalità), tuttavia il mio corpo è

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l’unico oggetto nell’intero universo di oggetti, l’unica rappre-sentazione che funge da mediazione rispetto all’apprensione ditutti gli altri oggetti, e proprio per questo esso merita di esserecaratterizzato come oggetto immediato.

Si tratta di una terminologia sulla quale vi sarebbe forsequalcosa da eccepire e lo stesso Schopenhauer mostra qualchevolta di dubitare dell’effettiva opportunità di parlare di og-getto immediato, ovvero di oggetto colto senza mediazioni.Come abbiamo già notato, vi sono sensazioni di mediazioneanche rispetto al mio corpo. Il vero punto della questione, cheviene colta ma malamente impostata da Schopenhauer, sta nelfatto di stabilire il modo in cui io mi approprio del mio corporiconoscendolo come il mio e quindi differenziandolo da ognialtra cosa materiale del mio mondo circostante. Questo pro-blema viene eluso e Schopenhauer preferisce ricorrere ad unadifferenziazione di tipi di oggetti, parlando quindi di oggettoimmediato e sorvolando su eventuali difficoltà.

Il tema dell’oggetto immediato è già presente nella Qua-druplice radice ed è proposto fin dalle prime battute del Mon-do. Nel suo secondo paragrafo si dice:

“Il nostro stesso corpo è già un oggetto e perciò noi sotto un talpunto di vista lo chiamiamo rappresentazione. Il nostro corpo in-fatti è un oggetto tra oggetti, sottoposto alle leggi degli oggetti:soltanto che esso è un oggetto immediato” (M., p. 41).

Il corpo opera dunque una “mediazione”. Esprimendoci cosìintendiamo dire anzitutto che la coscienza, la soggettività co-noscitiva non è qualcosa di assimilabile ad uno specchio nelquale si riflettono le cose nelle loro proprietà obbiettive. Chevi sia una mediazione corporea significa ad esempio che unaproprietà che viene percettivamente attribuita alla cosa – adesempio la ruvidità della sua superficie – viene avvertita anzi-tutto come sensazione tattile, e ciò significa che viene avver-tita non già sulla cosa, ma anzitutto sulla mia pelle, esatta-mente come avverto sul mio corpo il dolore conseguente alla

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puntura di uno spillo. L’esempio della tattilità, e in particola-re quello della puntura, ha una particolare efficacia illustrativaperché ci consente di distinguere chiaramente tra il momentopuramente sensoriale e l’apprensione dell’oggetto come di unoggetto appuntito che avviene sulla base di quel momentosensoriale. Considerando gli altri organi sensoriali l’esem-plificazione potrà forse essere meno chiara, ma una distinzio-ne analoga dovrà essere ammessa in ogni caso.

Ad esempio, una cosa è l’essere dolce come proprietàobbiettivamente riferita ad un frutto ed un’altra è la sensazio-ne che avverto sulla lingua mentre la mangio. E così un contoè il colore come proprietà di una superficie che vedo di frontea me ed un altro è la sensazione cromatica che non è riferibilead alcuna oggettività determinata, come quella che può essereprovocata da una leggera pressione di un dito sulle palpebre.A parte la maggiore o minore capacità illustrativa degli esem-pi, dobbiamo essere in grado di distinguere con chiarezza lasensazione (Empfindung) dall’intuizione (Anschauung): que-st’ultimo termine, usato all’interno di questa opposizione, siriferisce alla percezione in quanto essa è in grado di porgere leproprietà di un oggetto come proprietà oggettivamente attri-buite ad esso. Ma questa distinzione è un classico problemadella riflessione filosofica. Esso si esprime nella domanda: inche modo è possibile effettuare il passaggio dalla sensazione al-l’intuizione, dall’impressione puramente sensoriale avvertitacome qualcosa che accade sul proprio corpo (come una“modificazione dell’oggetto immediato”) alla percezione pienae completa, all’intuizione che si avvale di sensazioni, ma uni-camente come mediazioni che portano al di là del corpo versoil mondo obbiettivo?

Si tratta di un passaggio necessario, dal momento cheuna coscienza che restasse sul piano della pura sensazione sa-rebbe una coscienza ottusa, in qualche modo simile a quellache può essere attribuita ad una pianta, una coscienza“vegetale” (pflanzenartiges) in quanto in essa verrebbero av-

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vertite stimolazioni di ogni genere che non sarebbero in gradodi superare la loro immediatezza: in breve si tratterebbe di unacoscienza senza mondo.

Naturalmente un simile problema sorge tipicamenteall’interno di una posizione fenomenistica. La riduzione al fe-nomeno può essere intesa come una riduzione alla sensazione,come una riduzione ad una coscienza vegetale, e diventa dun-que obbligatorio rendere conto della possibilità del passaggioda una coscienza senza mondo all’intuizione di un mondo perla coscienza.

Per Kant la chiave per venire a capo di questo problemaera rappresentata dall’intero apparato delle categorie. PerSchopenhauer essa è invece rappresentata ancora una voltadalla tematica della causalità. Secondo lui, vi sarebbe in noiuna tendenza ad interpretare causalmente le sensazioni e quan-do questa tendenza entra in opera avviene uno spostamentodalla sensazione come effetto all’idea della cosa come causache lo produce, e proprio in questo spostamento consiste ilpassaggio dalla sensazione all’intuizione. Questa tendenza adun’interpretazione causale della sensazione e più in generaleogni attività tendente ad istituire nessi causali viene chiamatada Schopenhauer attività intellettuale.

Nell’impiego di questo termine vi è una sorta di medi-tato omaggio a Kant. Ma vi è anche un’intenzione polemica,perché sulla base di ciò che abbiamo detto or ora è possibiledire che “ogni intuizione è intellettuale”, affermazione chenon avrebbe nessun senso in un contesto kantiano.

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6.Critica del realismo ingenuo – Spiegazioni integrative intorno al pro-blema dell’interpretazione causale delle sensazioni.

Fin dall’inizio abbiamo sottolineato che la formula del mondocome rappresentazione considerata nella sua generalità è so-prattutto un modo di sollevare problemi che andranno poiconsiderati in tutta la loro portata e determinatezza. In essa èimplicata la critica del realismo ingenuo – quella posizione checonsidera il mondo come qualcosa che esiste in sé e per sé – epoiché anche il realismo non può ignorare che questo mondoreale è dato per noi in una rappresentazione, questa potrà es-sere concepita soltanto come una sorta di duplicato in imma-gine del mondo stesso.

Nel § 21 della seconda edizione della Quadruplice radi-ce, dove la tematica dell’intelletto viene trattata più estesa-mente che nel Mondo, si osserva che

“Bisogna essere abbandonati da tutti gli dei per credere che ilmondo della percezione – che è al di fuori, così come esso riem-pie lo spazio nelle sue tre dimensioni, si muove con il camminoinesorabilmente rigoroso del tempo e ad ogni passo è regolatodalla legge di causalità. – che un simile mondo esista là fuori tut-to oggettivo e reale e senza il nostro concorso, e poi per mezzo diuna semplice impressione sensibile giunga nella nostra testa, do-ve esso ora esiste una seconda volta nello stesso modo che al difuori” (Quad_2, p. 93).

Non dobbiamo dunque supporre – come fa la posizione reali-stica – anzitutto la cosa come esistente in se stessa e poieventualmente come data in una rappresentazione, ma rove-sciare questo ordine: assumere la cosa come senz’altro data inuna rappresentazione, e poi rendere conto del suo essere in sestessa.

Facendo ricorso alla nozione di sensazione è possibileproporre la critica in forma più precisa. Alla posizione realisti-ca si può infatti obbiettare che se guardiamo al lato soggettivo

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della relazione di esperienza non abbiamo affatto a che fareanzitutto con immagini nel senso di figure riflesse in unospecchio, ma con sensazioni. Facendo riferimento esemplifi-cativo alla tattilità, si comprende subito che mancano addi-rittura le condizioni essenziali affinché si possa parlare di un“rapporto di somiglianza” tra la sensazione e la cosa – tra lasensazione di ruvido sulla punta delle mie dita e la proprietàdella cosa di avere una superfice striata. Tra l’una e l’altra videve essere certamente qualche relazione, ma non una relazio-ne di somiglianza che possa essere valutata in un’autenticaoperazione di confronto. Proprio il fatto che la ruvidità vieneaccertata mediante una sensazione tattile esclude che io possamettere l’una accanto all’altra la sensazione di ruvidità e laproprietà di una cosa di essere rugosa per effettuare un con-fronto.

Anche là dove parliamo di immagini in un’accezionepiù plausibile – come nel caso della vista – non abbiamo a chefare con una corrispondenza semplice tra la cosa e la sua im-magine retinica, ma con una relazione particolarmente com-plessa che richiede qualche speigazione aggiuntiva: in propo-sito basterà rammentare che nella retina l’immagine della cosasi presenta rovesciata, mentre nalla visione effettiva non vi ètraccia di questo rovesciamento; oppure il problema postodalla visione stereoscopica: noi vediamo le cose disposte nellaterza dimensione mentre l’immagine della retina è priva diprofondità, ma è come un dipinto le cui figure siano rappre-sentate prospetticamente.

Peraltro, la sensazione rappresenta un problema nonsolo per la posizione realistica, ma anche per il punto di vistadel mondo come rappresentazione.

In generale, restando sul puro terreno della sensazione,nel cui concetto in senso esteso possiamo annoverare le“immagini retiniche” – non potremo mai pervenire alla posi-zione di qualcosa che “stia al di là della pelle, quindi fuori dinoi” (Quad_2, p. 93). La sensazione si produce “all’interno

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del nostro corpo” (p. 94) e resta in esso come uno stato fugaceche viene avvertito nella pura forma temporale del “senso in-terno”. In certo senso il mondo intero si contrae sul nostrocorpo – potremmo dire addirittura: si dissolve in esso.

Resta persino dubbio se in rapporto alle sensazioni sipossa parlare di rappresentazioni e di coscienza rappresentati-va in senso autentico.

Dice in proposito Schopenhauer:

“Le semplici modificazioni provate dagli organi dei sensi in virtùdelle rispettive impressioni specifiche esterne possono già esserechiamate rappresentazini, in quanto l’impressione non producené dolore né piacere, non ha cioè un significato diretto per lavolontà e viene tuttavia percepita: e quindi non esiste che per laconoscenza. E tale è il senso in cui dico che il corpo è conosciutoimmediatamente, cioè è oggetto immediato. Tuttavia non bisognaprendere la parola oggetto nella sua accezione più stretta...” (M.,p. 56).

In questo passo è avvertibile un certo imbarazzo che rimandadel resto a difficoltà irrisolte nell’impostazione del problemadella mediazione corporea. Si dice qui che in rapporto allesensazioni si può parlare di rappresentazioni, ma in un sensomolto debole, per indicare la loro appartenenza all’area dellaproblematica conoscitiva, piuttosto che a quella della volontà.Potremmo dire che le sensazioni possono essere dette rappre-sentazioni solo impropriamente, ed in ogni caso le sensazionipuramente corporee non riescono a coagularsi in un’og-gettività come oggettività appartenente al mondo circostante.Ciò che manca in esse è l’azione dell’intelletto con la sua ca-pacità di realizzare interpretazioni causali.

Le sensazioni in genere non sono neutre per ciò che ri-guarda le distinzioni del gradevole e dello sgradevole, del pia-cevole o dello spiacevole. Possiamo anzi osservare che alcunicampi sensoriali sono meno neutri degli altri: si pensi ad e-sempio all’odorato: non è possibile nessuna sensazione olfatti-va che non sia caratterizzata fortemente da un più o da un

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meno, che non sia accompagnata da una reazione di attrazio-ne o di disgusto. Lo stesso si può dire per il gusto. Vi è unamaggiore neutralità nel caso della vista e del tatto, e la massi-ma neutralità va forse attribuita alla vista. Ma perché mai atti-riamo l’attenzione su un aspetto apparentemente così minutoe marginale?

Ritorniamo allora sull’esempio della puntura. Noi affer-riamo una cosa e ci pungiamo con essa: abbiamo dunque unasensazione di dolore da cui viene messo in questione non giàil soggetto conoscitivo, ma il soggetto che ora reagisce rabbio-samente gettando lontano da sé la punta malefica da cui èstato ferito. Questo gesto richiama l’attenzione sul fatto checiò che viene messo in agitazione è l’io come volontà che, co-me sappiamo, non si esprime soltanto negli atti espliciti delvolere, ma in ogni comportamento ed in ogni rapporto affet-tivo e pratico–attivo con la realtà. Ma l’emergere in primopiano della volontà significa anche il passare in secondo pianodel mondo come rappresentazione.

Cerchiamo ora di introdurre una piccola variazionenell’esempio: pensiamo ad una puntura tanto lieve da nonmettere in agitazione la volontà, ed allora potremmo dire disperimentare la forma appuntita della cosa distinguendo, inquesta esperienza, due momenti: il momento della sensazionee il momento intuitivo, essendo questo niente altro che la“percezione di una cosa di forma appuntita”. Ma l’intuizioneè data da una operazione intellettuale applicata alla sensazionee precisamente da un’interpretazione causale di essa.

La puntura (sensazione) viene dunque interpretata comeeffetto, cioè viene intesa come risultato di un’azione, di unwirken, e di conseguenza viene posta una materia capace diesercitarla. La sensazione come effetto viene completamentesuperata, cosicché il risultato dell’interpretazione è semplice-mente: c’è qui intorno qualcosa che ha una forma appuntita.Naturalmente, si presti attenzione a non invertire grossola-namente il problema: non stiamo dicendo che ci sono delle

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cose come cause delle nostre sensazioni! Stiamo invece dicen-do che la posizione di qualcosa come una cosa esistente in sestessa nel mondo esterno è condizionata dall’interpretazione cau-sale della sensazione.

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7.L’intellettualità dell’intuizione – La non razionalità dell’attività in-tellettuale – L’operare dell’intelletto – Il problema della “passività”delle operazioni causali.

La “possibilità di conoscenza del mondo esterno”, che è unodei temi centrali del primo libro del Mondo, richiede duecondizioni che mettono entrambe in questione la causalità: laprima condizione riguarda la “facoltà che hanno i corpi diagire gli uni sugli altri”; la seconda condizione è invece rap-presentatata dalla “sensibilità dei corpi animali” ovvero “laproprietà che hanno certi corpi di essere oggetti immediati delsoggetto”. In emtrambi i casi l’intelletto interviene nella suafunzione essenziale ed esclusiva di istituzione di nessi causali.L’intelletto può essere definito come “il correlato soggettivodella materia o della causalità” e la sua unica funzione ed“unica potenza” è “conoscere la causalità” (M., p. 48).

In particolare l’intelletto interviene nella seconda condi-zione, che è anche quella originaria in quanto si consente dieffettuare il passaggio dalla sensazione alla cosa.

“Se io premo la mano contro il tavolo, nella sensazione che ricevonon è affatto contenuta la rappresentazione della solida consi-stenza delle parti della massa, anzi di niente di simile; è soltantoquando il mio intelletto passa dalla sensazione alla causa che essocostruisce un corpo avente la proprietà della solidità, dell’impe-netrabilità e della durezza” (Quad_2, pp. 98–99).

In rapporto al movimento di qualcosa nello spazio si osservache la rappresentazione del movimento non potrebbe maisorgere su base sensoriale:

“È invece l’intelletto che deve portare in se stesso, prima di qual-siasi esperienza, l’intuizione dello spazio, del tempo e della conse-guente possibilità del movimento non meno che la rappresentazio-ne della causalità per poter passare poi dalla semplice sensazioneempirica ad una causa di essa e costruirsela come un corpo che simuove che possiede una determinata forma” (Quad_2, p. 100).

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Ci troviamo di fronte ad un’impostazione di cui è ancoranettamente avvertibile l’origine kantiana e che tuttavia si mo-stra particolarmente distante da Kant nel suo spirito ed anchenella problematica che da essa viene aperta. La distanza puòessere messa soprattutto in rilievo facendo notare che nelcontesto del problema così come è posto da Schopenhauerpossiamo parlare dell’intellettualità dell’intuizione; ma possia-mo anche sottolineare che l’attività intellettuale non è affattoun’attività razionale, cioè un’attività che procede per concettie dunque attraverso argomentazioni. Infatti l’espressione ra-gione ritorna ad avere in Schopenhauer quel significato cheaveva sempre avuto nelle filosofie prekantiane, rimandandoalla produzione dei concetti ed alla loro connessione argo-mentativa. L’attività razionale è allora un’attività argomenta-tiva, è un pensiero mediato: invece, dice letteralmente Scho-penhauer: “l’intelletto, facoltà essenzialmente distinta dallaragione... conserva in sé, anche nell’uomo un carattere non–razionale (Unvernunftig)” (M., § 6). Alcune traduzioni italia-ne rendono quest’ultimo termine con “irrazionale” – ma“irrazionale” indica una sorta di opposizione attiva alla ragio-ne, mentre qui si allude semplicemente ad un’attività che sisvolge interamente al di fuori del campo di azione del pensie-ro mediato.

Prestando attenzione al lato epistemologico della que-stione, l’idea della non-razionalità dell’attività intellettuale sitraduce fondamentalmente nell’idea di una capacità di coglie-re direttamente, ovvero senza mediazione riflessiva, un nessocausale e più in generale un nesso relazionale.

Pensiamo a due stati che ci appaiono inizialmente comese l’uno non avesse nulla a fare con l’altro e poi all’improv-viso, senza che io abbia compiuto intorno ad essi alcuna parti-colare operazione riflessiva ci appaiono l’uno determinatamen-te connesso all’altro: ad una figura abbastanza complessa eintricata che inizialmente ci sembra “priva di senso” e poi cimostra invece, all’improvviso, una ben precisa strutturazione

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interna che in precedenza non eravamo riusciti a cogliere –come se le relazioni necessarie per questa strutturazione ci ap-parissero finalmente al nostro sguardo. È come se il disegno,dapprima opaco, si illuminasse dall’interno mostrando il suosenso. Oppure si pensi ad un puzzle – un esempio che illustraefficacemente la componente intuitiva come una componentelegata allo sguardo. Lo sguardo deve essere in grado di vedereciò che dapprima non si vede affatto, l’“inerenza” dell’unaforma all’altra, la possibilità che l’una possa essere agganciataall’altra. Questo afferramento diretto della relazione vienechiamato da Schopenhauer intuitivo, ma in un’accezione inrealtà diversa da quella con la quale abbiamo finora impiegatoquesto termine. E purtroppo vi è anche una differenza nell’e-spressione verbale tedesca che in italiano non è possibile man-tenere: intuitivo è, in questo caso, intuitiv e non anschaulich;ed intuitiv è termine usato in esplicita opposizione alla co-scienza riflessa (reflektiertes Bewusstsein), dunque alla media-zione razionale (mentre Anschuung si contrappone a sensazio-ne). Cosicché si enuncia qui un motivo che ritorna di conti-nuo nelle pagine di Schopenhauer: il motivo secondo cui lescoperte fondamentali della scienza sono dovute in ultimaanalisi ad “intuizioni” nell’accezione or ora illustrata, quindinell’afferramento diretto di nessi, di rapporti di somiglianza einfine di rapporti causali, e che il pensiero propriamente ra-zionale abbia essenzialmente la funzione di dare a simili cono-scenze intuitive stabilità e chiarezza, di formularle chiara-mente in parole, così “da poterle esprimere e spiegare ad al-tri”; oltre che di conferire ad esse un’organizzazione sistemati-ca. Una funzione di fondamentale importanza che tuttavianon potrebe nemmeno essere esercitata se non potesse contaresu quelle idee che sono “opera di un momento” (Das Werk desAugenblick), che hanno carattere di aperçu, ovvero di idea im-provvisa e illuminante (Einfall), dell’afferramento immediatoed evidente del sussistere di una relazione.

In una simile posizione è chiara l’intenzione di dare la

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massima esaltazione ai momenti di creatività nell’attività scien-tifica che sarebbero da ricercare nelle grandi intuizioni genialipiuttosto che nelle più pazienti elaborazioni sistematiche: unproblema che fa intravvedere l’intenzione di trasferire anchenel campo dell’attività scientifica l’immagine romantica delgenio che si fa valere anzitutto nella filosofia dell’arte.

Tuttavia della non–razionalità e dell’immediatezza del-l’attività intellettuale, può essere anche proposta una diversainterpretazione. Anzitutto occorre sottolineare che all’internodel titolo di “teoria della conoscenza” spesso vengono confusidue versanti che debbono invece essere tenuti distinti: da unlato, vi è il problema del conoscere, quindi in generale quellodella scienza e delle sue acquisizioni, dall’altro il problemadella costituzione esperienziale del mondo. Potremmo util-mente distinguere tra conoscenza ed esperienza del mondo. Ledue nozioni non sono affatto identiche: mentre sto parlando,ho esperienze di vario genere, ad esempio un’esperienza uditi-va della mia voce e dei rumori dell’ambiente, un’esperienza vi-siva delle persone e delle cose che si trovano in esso, anche sela mia attenzione prevalente è tutta tesa a dipanare il filo delmio discorso. Sarebbe una forzatura parlare di queste espe-rienze come di “conoscenze”. Il conoscere ha relazione con unsapere e si mette in moto, per esprimerci così, a partire da unnon–sapere. Ciò significa che se non so che cosa vi sia in uncassetto e voglio saperlo, allora lo apro e, guardando in esso,vengo a conoscere ciò che esso contiene. Questo guardare persapere è del tutto diverso dal vedere ciò che accade intorno ame mentre sto parlando; ed ora la parola “conoscere” cominciaqui a poter essere usata, sia pure in senso debolissimo dalmomento non si trova integrata in un piano di ricerca ed inun sistema di conoscenze.

Gran parte della nostra discussione si è svolta sul ver-sante dell’esperienza del mondo. Ci siamo chiesti infatti comefosse possibile l’esperienza di un mondo una volta che ilmondo stesso è stato ridotto a rappresentazione. Si è presen-

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tato così un compito ricostruttivo esattamente come si erapresentato a Berkeley ed a Hume e, sia pure in modo diverso,anche in Kant. Per Schopenhauer questo compito è assoltodall’interpretazione causale delle sensazioni che diventa cosìun’interpretazione costitutiva dell’esperienza come esperienzadi un mondo. Per Schopenhauer questa è in realtà la vera di-mostrazione della natura apriorica della causalità.

Stando così le cose, l’operare intellettuale si esplica intutt’altro modo che nella forma di idee geniali, di intuizionifulminee, di cui in ogni caso sono perfettamente consapevoleanche se non lo sono necessariamente del processo che hamesso a capo ad esse, e che del resto posso sempre portare amaggiore chiarezza ed elaborazione nel pensiero riflessivo. Sitratta invece di un vero e proprio meccanismo interpretativoda sempre in opera che effettua incessantemente la metamor-fosi dalla sensazione all’intuizione e che si trova come tale inte-ramente al di fuori del mio controllo cosciente. Non è nelle miefacoltà sospendere temporaneamente quest’attività interpre-tante, anche se come esercizio filosofico posso cogliere la dif-ferenza sull’aspetto sensoriale piuttosto che su quello del rife-rimento all’oggetto. Si tratta dunque di un’attività intellet-tuale che, esercitandosi interamente alle nostre spalle, non èun’attività per me – piuttosto io sono suo tramite passivo: sitratta in qualche modo di una passività (benché Schopenhauernon usi questo termine) esattamente nel senso in cui po-tremmo parlare di passività nel caso della nozione di abitudi-ne di Hume. Ed è interessante notare che questo tema hu-meano viene richiamato proprio a proposito della difficoltà didistinguere tra sensazione e intuizione:

“Da principio ciò è difficile perché siamo tanto abituati a passareimmediatamente dalla sensazione alla sua causa che questa ci sipresenta senza che noi badiamo alla sensazione...” (Quad_2, p.97).

L’aspetto comune sta proprio nel fatto che sia l’ “azione” delle

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leggi associative in Hume sia quella dell’intelletto in Scho-penhauer avviene “alle mie spalle” senza che io possa disporredi essa.

Proprio questo aspetto differenzia profondamente anco-ra una volta la posizione di Schopenhauer da quella di Kant.Questi parla infatti della spontaneità delle operazioni intel-lettuali – spontaneità che viene proposta non tanto tenendoconto della forma e della struttura effettiva dei processi di co-struzione della realtà dei quali in generale Kant si interessa as-sai poco, quanto per via del riferimento all’attività giudicativada cui le categorie sono “dedotte”, dunque per una motiva-zione astrattamente filosofica, e non sulla base di un’analisidelle concrete procedure dell’esperienza.

Proprio l’automatismo con cui opera l’intelletto con-sente secondo Schopenhauer di rendere conto delle illusionipercettive – egli pensa ai classici esempi del bastone nel-l’acqua, della luna che appare più grande all’orizzonte piutto-sto che allo zenit, alle alte montagne che appaiono più vicinequando il cielo è terso, ecc. Esse sono sempre da riportare nongià alla sensazione, che non può sbagliare, ma alla sua inter-pretazione, e quindi ad un inganno dell’intelletto. Una prova diciò è il fatto stesso che l’illusione percettiva continua a persi-stere anche se ne abbiamo svelato le ragioni. L’illusione per-cettiva

“si genera quando un semplice ed unico effetto può essere pro-dotto da due cause completamente differenti, di cui l’una agiscefrequentemente e l’altra di rado; l’intelletto non avendo alcun da-to per decidere qualche delle due cause agisca nel caso presente,poiché l’effetto è identico ricorre sempre alla causa ordinaria, esiccome la sua attività non è riflessiva e discorsiva, ma intuitiva ediretta, questa falsa causa ci si presenta dinanzi come oggetto in-tuito; ed ecco la falsa apparenza... Tutte queste illusorie apparen-ze ci si presentano nell’intuizione immediata e nessun sillogizzaredella ragione è capace di sopprimerle; la ragione non può cheprevenire l’errore, e cioè un giudizio senza prove sufficienti, con-trapponenendone un altro contrario e vero... però a dispetto di

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ogni conoscenza astratta, l’illusione resta e resterà sempre immu-tabile in tutti i casi riferiti” (M., p. 61)

Naturalmente la spiegazione qui accennata della doppia causanon è troppo convincente – e nemmeno facilmente applica-bile agli esempi. Nel caso del bastone che appare spezzatosiamo indotti ad assumere che esso lo sia perché nella maggiorparte dei casi bastoni che appaiono spezzati lo sono veramen-te, mentre è più rara l’esperienza di un bastone nell’acqua edel resto non facilmente attingibile la causa, che richiede chesi sappia qualcosa delle leggi di rifrazione. Ma il punto inte-ressante in questa discussione non è la spiegazione di detta-glio, ma il quadro generale del problema.

Occorre aggiungere che vi sono aspetti del tema dell’im-mediatezza dell’intelletto e della sua caratterizzazione essen-ziale come facoltà di afferramento di nessi causali, che non ri-guardano nè la teoria della conoscenza, né la teoria dell’e-sperienza, ma piuttosto la vita pratica con i suoi interessiquotidiani.

Osserva infatti Schopenhauer che quelle caratteristichedell’intelletto fanno sì che noi, quando le riscontriamo in formaeminente in una persona, parliamo di assennatezza (Klugheit),acume (Scharfsinn), penetrazione (Penetration), sagacia (Sagazi-tät). Si tratta certo di nozioni vaghe, e tuttavia rimandano tuttealla capacità di stabilire connessioni causali e soprattutto moti-vazionali, quando sono in questione i comportamenti degliuomini. Un simile ingegno non si manifesta solo nella scienzae nella tecnologica, ma anche ad esempio nella capacità di“sventare intrighi e macchinazioni” oppure di esercitare il poteresugli altri uomini proponendo motivi opportuni, così daorientare la loro azione secondo i propri fini (M., p. 59).

Al lato opposto dell’assennato e del sagace vi è, manco adirlo, lo stupido (dumm), il quale è detto tale soprattutto perla difficoltà di operare nessi.

Il mio lettore si chiederà perché sia il caso di soffermarsi

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su simili considerazioni apparentemente del tutto marginali enelle quali forse si avverte anche un certo abbassamento di tono.

Io credo in effetti che esse meritino due parole di com-mento: in primo luogo esse dànno una sorta di giustificazionedell’impiego del termine di intelletto non più nel pesante qua-dro della terminologia filosofica, e tantomeno con dotti rife-rimenti alla posizione kantiana, ma facendo riferimento piut-tosto agli impieghi correnti di parole che in un modo onell’altro riguardano intelligenza e stupidità nei sensi più con-sueti possibili dei termini. Si tratta dunque anzitutto di unmodo di raccordarsi al senso comune, che rappresenta in realtàuno dei tratti caratteristici dell’atteggiamento intellettuale diSchopenhauer.

Ma in queste osservazioni si annuncia anche un interesseche diventerà dominante in Schopenhauer nei confronti dellavita quotidiana in genere, dunque verso i comportamentidella gente, verso la “psicologia” delle persone, verso le tipolo-gie psicologiche, verso i “caratteri” in genere. Si tratta di unaspetto apparentemente molto lontano e per certi versi con-trapposto alle ardite speculazioni teoretiche che troviamo nelMondo, ma che tuttavia è profondamente radicato nella per-sonalità di Schopenhauer.

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8.Postilla sulla realtà del mondo esterno – Idealismo e realismo se-condo lo schema delle Lezioni berlinesi.

Alla luce della impostzione pospettata la questione del reali-smo e dell’idealismo riceve una sistemazione e una schematiz-zazione particolarmente semplice.

Secondo Schopenhauer l’una e l’altra posizione sono ca-ratterizzate anzitutto come posizioni dogmatiche, e ciò natu-ralmente significa che esse poggiano su pure e semplici assun-zioni prive di un effettivo fondamento filosofico. Come taliesse sono esposte alle critiche scettiche che possono essereesercitate portando a conseguenze estreme quelle assunzionidi base e mostrandone in questo modo l’insostenibilità. Puressendo contrapposte, esse hanno tuttavia un aspetto comuneche riguarda il tema causale riferito al rapporto soggetto–og-getto. Rammentando che la relazione causale rappresenta laprima forma del principio di ragione sufficiente, nelle Lezioniberlinesi (p. 499) Schopenhauer propone il seguente schema:

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La figura illustra il sussistere di una connessione causale tra idue termini dell’oggetto e del soggetto. Essa potrà agire inentrambe le direzioni, cosicché nell’una direzione, dall’ogget-to al soggetto

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verrà rappresentato il realismo che fa del soggetto un effetto,muovendo la produzione causale dall’oggetto. L’idealismo in-vece

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viene schematizzato come posizione ciò che fa del soggetto ciòche produce causalmente l’oggetto – l’oggetto è per l’idea-lismo un “effetto del soggetto” (M., p. 50).

A questi schemi Schopenhauer ne propone uno rappre-sentativo della propria posizione:

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Con esso egli vuol sottolineare che l’idea del rapporto causaleè applicabile solo fra oggetti, mentre non lo è tra oggetto esoggetto. Si noti di passaggio che il parlare del corpo comeoggetto immediato è importante anche per ribadire che ilcorpo stesso deve essere annoverato tra gli oggetti e che le sen-sazioni, con il loro rimando ad azioni causali, non pongonoaffatto in questione una relazione causale tra soggetto e og-getto. Dire dunque che il mondo è la mia rappresentazionenon significa dire che esso è prodotto dalla soggettività (idea-lismo) e nemmeno che la rappresentazine abbia bisogno a suavolta di qualcosa di diverso da essa che possa valere come cau-sa che la produce. In quest’ultimo senso mi sembra debba es-sere interpretata l’affermazione contenuta nel § 5 del Mondosecondo la quale l’origine del problema della realtà del mondo

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esterno sia dovuto, oltre che all’applicazione indebita dellacausalità al rapporto soggetto–oggetto, anche alla confusione,per usare ancora la terminologia della Quadruplice radice, traratio fiendi e ratio cognoscendi. Credo che questa affermazionesi possa interpretare nel modo seguente: mentre ha senso nelcaso dei giudizi cercare un fondamento al di fuori del giudizioda fondare (ciò fa parte del concetto di fondamento conosci-tivo), non ha invece senso in rapporto agli oggetti della “pri-ma classe” cercare un fondamento al di fuori del rapportocausale che li lega, utilizzando un criterio che ha appunto ap-plicazione solo nell’ambito dei giudizi. Mentre stando alla ra-tio cognoscendi possiamo affermare che il fondamento può es-sere di natura diversa da ciò che viene fondato, il fondamentocausale di una rappresentazione deve essere sempre un’altrarappresentazione. Se si afferma che vi sono cause di rappre-sentazioni che non sono rappresentazioni si fa valere nel cam-pio della ratio fiendi ciò che può valere solo in quello della ra-tio cognoscendi.

“La conoscenza del modo di agire di un oggetto di intuizioneesaurisce l’idea di questo oggetto in quanto tale, cioè in quantorappresentazione, poiché all’infuori di questa non resta nell’og-getto alcunché di inconoscibile. In questo senso il mondo perce-pito nel tempo e nello spazio e che si manifesta come pura cau-salità è perfettamente reale ed è proprio quello che ci si presenta:ovvero è rappresentazione regolata dalla legge di causalità” (M.,p. 51).

È importante sottolineare che in forza di queste considerazio-ni si può asserire la piena intelligibilità del mondo:

“Esso si manifesta per quello che è ovvero come una rappresenta-zione, o meglio come una serie di rappresentazini aventi come le-game comune il principio di ragione. Come tale esso è intelligi-bile, fin nel senso più profondo, ad ogni sano intelletto e gli parlaun linguaggio perfettamente chiaro” (M., p. 51).

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9.Problematica della ragione – Concezione comune e concezionefilosofica della ragione – Il rapporto con gli animali – In chesenso gli animali hanno un intelletto – Ricordo riflessivo e ricor-do intuitivo – Ragione ed errore – Il carattere riflesso del concetto– Gli inganni dell’intelletto e gli errori della ragione. Solo lo spi-rito e la conoscenza fanno l’uomo signore della terra.

Il termine di ragione è già stato da noi introdotto: di esso ave-vamo bisogno almeno in negativo per caratterizzare l’intelletto.Abbiamo allora notato che quando con pensare intendiamopropriamente l’argomentare, allora viene in questione l’attivi-tà razionale vera e propria – la ragione, dunque. L’argomen-tare, d’altro lato, è un concatenare proposizione a proposizio-ne, giudizio a giudizio e il giudicare può avvenire solo me-diante concetti. Ala radice, l’attività della ragione è proprio ilformare concetti e lo stabilire relazioni tra essi.

La formazione del concetto – dice anzi drasticamenteSchopenhauer – è l’unica funzione della ragione, così come laconoscenza della causa e dell’effetto è l’unica funzione dell’in-telletto. Quanto alla domanda, che subito si pone, che chiedeche cosa si intenda qui con concetto, cominciamo con il direche esso è una rapprsentazione astrattamente generale cheprende corpo nel significato di una parola, come “cavallo”,“rosso”, “giustizia”...

In effetti Schopenhauer si avvale di una nozione di con-cetto così genericamente tratteggiata per sviluppare un insie-me di considerazioni che riguardano un’idea piuttosto latadell’attività razionale, manifestando esplicitamente l’intenzio-ne di ricollegarsi più alla concezione comune della ragione (all-gemeine Kenntnis der Vernunft) che alle elaborazioni filosofi-che – un motivo che abbiamo già trovato in precedenza e chequi si presenta in modo particolarmente vivace. In fin deiconti, osserva Schopenhauer, tutti gli uomini sanno ricono-scere molto bene le manifestazioni di questa facoltà, per quan-

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to esse possano essere varie e differenziate, ed anche i filosofiin generale non possono che prendere le mosse da questa con-cezione comune, benché poi se ne distacchino e si perdanospesso in elucubrazioni forzate e non giustificabili. È invecenecessario sapere riconoscere attaverso le molteplici manife-stazioni che chiamiamo razionali un’unica funzione – quelladel formare concetti – come capacità di astrarre dall’intui-zione e quindi dalla presenza immediata degli oggetti, conser-vando tuttavia gli elementi conoscitivi e informativi intuiti-vamente attinti. Si tratta appunto di produrre rappresentazioniastratte, ma in questa capacità dobbiamo vedere il profilarsi ditutto un insieme di possibilità formidabili, che sono poiquelle possibilità che contraddistinguono gli uomini daglianimali, questi “nostri fratelli privi di ragione”. (Noto di pas-saggio che in alcune traduzioni italiane Tiere – animali – vie-ne tradotto con bruti. Lascio al mio lettore il giudizio su que-sta scelta).

Vogliamo intrattenerci un poco su questo confronto chegioca del resto un ruolo piuttosto importante nelle discussionidi Schopenhauer, secondo il quale il modo in cui si costituisceper noi la vita animale è in grado di insegnarci, per affinità edifferenza, molte cose sul modo d’essere dell’uomo stesso.

Di ciò si parla, oltre che nel § 6 del Mondo, anche nelCapitolo Quinto dei Supplementi. In questo capitolo in parti-colare si formula la domanda: in che modo possiamo attribui-re agli animali qualcosa di simile ad una coscienza? L’animalenon è forse un essere che ci è completamente estraneo, benchésia anch’esso un essere vivente? In realtà domande come que-ste si potrebbero porre anche in rapporto a soggettività diversedalla mia, ma in questo caso possiamo in qualche modo iden-tificarci nell’altro, possiamo metterci nei suoi panni, e perciògli possiamo attribuire quella vita di coscienza che è da noi di-rettamente vissuta.

Ma è possibile mettersi nei panni di un cane, di un ca-vallo o di un elefante – per stare solo agli esempi di animali

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“superiori”? Ha senso attribuire un’esperienza agli animali,quindi una coscienza? Domande che poi possono particolariz-zarsi: è legittimo chiedersi se un cane spera oppure se sia capa-ce di fingere?

Schopenhauer pensa che simili domande abbiano per-fettamente senso: e dunque anche che abbia senso parlare diuna coscienza degli animali, anche se la conoscenza che po-tremmo avere di essa deriva da una vera e propria costruzionecompiuta a partire da noi stessi; e sulle domande particolariche riguardano gli stati “psichici” degli animali occorrerà unariflessione apposita che chiama in causa appunto l’idea dellarazionalità.

La mancanza di razionalità negli animali ovvero la pre-senza in essi del puro intelletto non razionale (come dice il ti-tolo del Capitolo Quinto dei Supplementi) ha come conseguen-za generale un diverso modo di rapportarsi alla dimensionetemporale.

L’animale manca di una memoria autentica, di un veroricordo. Questo passaggio, apparentemente singolare dall’ideadella razionalità a quella della capacità memorativa, è resopossibile in realtà già dal fatto che il ricordo (l’immagine me-morativa) va inteso come rappresentazione di una rappresen-tazione, e quindi, pur non trattandosi di un vero e proprioconcetto, in esso è inerente una componente di ordine con-cettuale. La premessa di questa argomentazione è obiettabile:si può infatti sostenere che la differenza indubbia tra perce-zione di una situazione presente e ricordo di una situazionepassata non toglie che si tratti in entrambi i casi di atti di af-ferramento diretto, e non mediato, cosicché il parlare di rap-presentazione di rappresentazione in rapporto all’immaginememorativa è ingannevole altrettanto quanto lo è il parlare diimmagini nel caso delle percezioni. Ma nonostante l’incli-nazione erronea iniziale di questa impostazione, essa portal’attenzione su una differenza effettiva.

Una cosa è infatti il ricordo come un riandare con la

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memoria ad un determinato punto del passato (Rücherinne-rung), come esplicita rievocazione di “scene” (Szene) singoledel passato, un’altra è il ricordo inteso come presenza del pas-sato appena trascorso o anche di un passato lontano nel sensodel presente stesso.

Il vero ricordo di cui si parlava in precedenza è appuntoil ricordo come Rücherinnerung, e per Schopenhauer questaforma del ricordo è connessa più o meno direttamente conuna capacità concettuale e astrattiva. Lo stesso fatto che si puòdire di ricordare che cosa è avvenuto il tal giorno e la tal oramostra la presenza di questa componente, dal momento che ladata si richiama ad un sistema razionale di ordinamento deldecorso temporale che non è certamente compreso nella situa-zione vissuta. Nell’assegnazione di date si ha in effetti un veroe proprio pensare il tempo.

Ma accanto a questo ricordo che presuppone una capa-cità razionale vi è un ricordo puramente intuitivo (anschauen-des Erinnerungsvermögen) che è null’altro che la sedimentazio-ne di un’esperienza passata in un’esperienza presente: un’e-sperienza presente rinnova direttamente e senza alcuna media-zione un’esperienza passata che non viene puntualmente ri-cordata, dando luogo ad un’effettiva scena del passato, ma es-sa partecipa direttamente alla scena presente facendo sì chequesta ci appaia come scena iterata, e con il senso che derivada questa iterazione. Si pensi a circostanze che del resto ci so-no ben note per diretta esperienza, dal momento che il nostrostesso comportamento è da esse determinato: ad esempio,all’atto di riconoscere una persona – cosa che non implica af-fatto che ci si ricordi dell’incontro che abbiamo avuto con es-sa in passato, oppure di una situazione che sentiamo comepenosa, benché in essa non vi sia alcun aspetto intrinsecamen-te penoso, ma che è stata tale per noi in un diverso contestoin passato.

Così quando io levo minacciosamente il braccio e il ca-ne si acquatta strizzando gli occhi in attesa del colpo, questa

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condotta è orientata da un ricordo del passato “che è parteci-pato sempre mediante ciò che ora è realmente presente”(Suppl., cap. V).

Di qui deriva l’idea che la vita animale sia per lo più unavita immersa nella pura dimensione del presente: la mancanzadel pensiero è anzitutto mancanza di un’autentica dimensionedi passato e di futuro.

Ciò comporta anche una profonda diversità nel modod’essere del presente e nel rapporto con il mondo stesso. I no-stri pensieri sono infatti per l’uomo adulto delle vere e propriepareti nelle quali ce ne stiamo racchiusi, e queste pareti ci im-pediscono talora di raggiungere il mondo esterno, di coglierloper quello che propriamente è: in certo modo il mondo si na-sconde al di là dei nostri pensieri ed anche: noi stessi possia-mo nasconderci dietro i nostri pensieri. Il fatto che l’uomo siarazionale vuole anche dire che egli può incorrere in errore, chepuò celare se stesso o celare la realtà, che può fingere o mentire.

Al contrario, dice Schopenhauer, “gli animali giocanosempre a carte scoperte” – e il dire: un cane non può fingeresignifica ancora una volta dire semplicemente che la sua espe-rienza è puramente intuitivo–intellettuale. La “schiettezza el’ingenuità dell’animale” in contrasto con la capacità di simu-lare è strettamente connessa con questo problema.

Inoltre vi saranno differenze graduali nelle diverse speciedi animali. La stessa capacità intellettuale sarà presente in gra-di maggiori o minori. Alcune specie saranno mlto prossime aquella coscienza vegetale di cui abbiamo parlato a suo tempocome una coscienza priva di intuizione, e quindi priva dimondo. Ma a partire da questi gradi inferiori si sale verso ca-pacità intellettuali sempre più elevate – il che vuol dire versouna forma di mondo sempre più evoluta ed articolata. Fino acasi in cui lo stesso limite intuitivo–intellettuale sembra quasisuperato, anche se incompletamente e imperfettamente, co-sicché certi comportamenti animali si presentano a tal puntoevoluti da farci sospettare almeno un barlume di ragione au-

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tentica. In questo contesto Schopenhauer – con un tratto as-sai caratteristico del suo stile – dà libero sfodo alle piccole cu-riosità del naturalista che non dimentica di registrare annedotied episodi minuti intorno alla vita degli animali, raccolti unpo’ dovunque, da libri di zoologia e di storia naturale, ma an-che storie di viaggi e dalla lettura dei giornali e delle gazzette.

Così nel Mondo si narra di quell’elefante

“il quale, dopo aver attraversato nel suo viaggio in Europa ungran numero di ponti, si rifiutò un giorno di passarne uno chepure aveva visto traversare come al solido dal seguito di uomini ecavalli che erano insieme e ciò perché il ponte non sembrava po-ter reggere il suo peso” (M., p. 60).

Oppure di quell’altro elefante che si vendicò di un sarto chel’aveva punto con un ago o di quell’altro ancora che schiacciòun custode due anni dopo essere stato da lui maltrattato(Suppl., V).

Ma questi non sono altro che barlumi di quelle capacitàche solo nell’uomo sono pienamente dispiegate. Si tratta dicapacità che riguardano in primo luogo il sapere e il conosce-re, che consentono la fissazione e la stabilizzazione delle cono-scenze e che non possono in alcun modo essere operatedall’intuizione e sono d’altronde essenziali affinché si possadare una conoscenza. Su questo punto Schopenhauer è moltochiaro: la nozione del sapere, e quindi della scienza in genere ènecessariamente connessa con quella del giudizio, cosicché sipuò affermare che “solo la conoscenza astratta è un sapere”che sapere non vuol dire qualcosa di diverso dal “conoscereastrattamente” (M., § 10).

Questa capacità di astrazione ha in ogni caso un raggiodi azione molto ampio e conseguenze che vanno al di là di unproblema di teoria della scienza o di epistemologia. Si tratta diuna capacità che caratterizza l’uomo nella sua essenza antro-pologica.

Essa è legata al suo modo di essere nel tempo, al modo

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tipicamente umano di vivere nella temporalità. Alla ragionenon dobbiamo dunque connettere solo il ricordo e la capacitàdi fare progetti, ma anche determinati sentimenti che hanno ache vedere in modo essenziale con la dimensione temporale,come il timore. Ed è del resto significativo di questa inclina-zione del discorso il fatto che Schopenhauer rammenti perben due volte il fatto che l’uomo può avere il pensiero dellamorte ed elaborarlo variamente: “può ad esempio prenderecon la massima calma le opportune disposizioni riguardo allasua morte” così come può “avvicinarsi alla morte ogni giornocon piena coscienza” (M., p. 74) – e d’altronde proprio daquesta elaborazione del pensiero della morte, un pensiero chenon può sussistere nell’animale – che “solo nella morte haidea della morte” – sorgono le religioni e le filosofie.

Alla ragione, organo indispensabile della scienza, spettapoi la possibilità dell’errore. Spesso dalle filosofie ci vengonoopinioni “le più sorprendenti ed arrischiate” – per non diredelle religioni di cui Schopenhauer rammenta “i riti più stra-ni, ed anche talvolta più crudeli, dei preti delle diverse reli-gioni” (M., p. 75).

Passare dalle intuizioni ai concetti – opera essenzialedella ragione – è la stessa cosa che passare dalla luce diretta delsole alla luce riflessa della luna: vi è dunque un oscuramento,un indebolimento. Ad un atteggiamento immediatamente ri-volto all’afferramento delle cose, delle loro proprietà e relazio-ni, subentra una nuova modalità della coscienza che il lin-guaggio quotidiano caratterizza “con meravigliosa e istintivaesattezza” (p. 73) con il termine di riflessione, cogliendo così ilpunto essenziale: in questa modalità della coscienza si pre-sentano non già le cose in se stesse, ma i loro riflessi, cosicchése la presenza intuitiva di una cosa la chiamiamo rappresenta-zione, i concetti meritano certamente quel titolo di rappre-sentazioni di rappresentazioni secondo la caatterizzazione giàpresente nella Quadruplice radice.

Riemerge qui il ricordo della tradizione empiristica che

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ha sempre parlato – come accade in Hume nella sua contrap-posizione tra idee e impressioni – di una sorta di indeboli-mento del concetto rispetto al contenuto intuitivo diretto,benché naturalmente con diversa terminologia, Si tratta diun’impostazione del problema che può soggiacere a critiche eche può essere fuorviante perché conferisce all’intero proble-ma un’inclinazione psicologizzante, ma che tuttavia ha, alme-no superficialmente, una singolare forza di convinzione. Pen-siamo ad una qualunque parola di colore – rosso, azzurro. –ed alle percezioni corrispondenti; oppure ad una parola come“leone” che noi comprendiamo certamente nel suo senso: maquale incolmabile differenza vi è fra la comprensione del si-gnificato della parola e la comparsa qui ed ora di fronte a medi un leone in carne ed ossa, con tanto di zanne e tutta la suacriniera!

Tuttavia il motivo per cui viene rammentata questa vi-vacità dell’intuizione non è solo quello, anch’esso di origineempiristica, che tende a sottolineare che il contenuto ultimodella coscienza, o meglio, l’origine di ogni conoscenza è da ri-cercare nell’esperienza sensibile, ma soprattutto per sottolineareche la possibilità dell’errore sorge unicamente con la ragione.

Ciò ha certamente bisogno di qualche spiegazione.Schopenhauer nota che stando nel campo dell’intuizione

“tutto risulta chiaro, determinato e certo. Non ci sono problemi,non dubbi, non errori; non si vuole né si potrebbe andare più inlà; si riposa nell’intuizione, in tutto paghi del presente. L’intui-zione basta a se stessa: tutto quanto ne procede con purezza econ fedeltà (ad esempio, una vera opera d’arte) non può esserefalso né smentito: infatti non c’è qui luogo per l’opinione(Meinung), avendosi la cosa stessa (die Sache selbst)” (M., p. 42).

A tutta prima affermazioni come queste sembrano discutibili.Basti pensare al problema delle illusioni percettive a cui si èaccennato nella nostra esposizione nel contesto della proble-matica dell’intelletto. Le formulazioni che abbiamo or ora ci-

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tato sembrano qui e là confondere le acque, come il rapidocenno all’opera d’arte, di cui non riusciamo qui a cogliere lapertinenza. Il vero nodo della questione si presenta inveceproprio al termine del passo citato laddove si dice: “non c’èluogo per l’opinione, avendosi la cosa stessa”.

Il punto fondamentale, infatti, è dato dalla nozione diopinione. Quando parliamo dell’evidenza dell’esperienza in-tuitiva (perché di questa evidenza qui si tratta) non si intendeper nulla negare l’esistenza di illusioni percettive, di errori nelsenso ampio del termine. Si accenna invece ad un problemache era affiorato proprio nella discussione sulle illusioni per-cettive: in essa si distingueva tra la verità “che è ciò che la ra-gione ha correttamente riconosciuto” – e che si deposita in ungiudizio, in una formulazione linguistica, e che si contrappo-ne all’errore come inganno della ragione – e la realtà (Realität)come “ciò che è stato correttamente riconosciuto dall’intellet-to”, ed a ciò corrisponde sul versante opposto l’illusione omeglio la parvenza come inganno dell’intelletto. Ma ancheuna simile distinzione diventa realmente comprensibile soloalla luce del problema dell’opinione.

C’è verità e dunque anche errore solo dove vi è una opinio-ne. Ed una opinione vi è solo se un giudizio è stato effettiva-mente formulato, mentre nell’attività percettiva non si fa altroche percepire e il percepire non è affatto qualcosa di simile aformulare giudizi, nemmeno impliciti. Così vedere nell’acquaun bastone spezzato non significa per nulla essere dell’opinio-ne che nell’acqua ci sia un bastone spezzato. Lo vedo, e nullapiù, così come vedo di fronte a me un uomo o un albero.Naturalmente il bastone spezzato (come l’uomo o l’albero) èla cosa stessa – anche se possono incorrere in un inganno del-l’intelletto. Invece, nel momento in cui formulo il giudizio“Vi è nell’acqua un bastone spezzato”, esso mette in causa, neisignificati generali ed astratti di cui è costituito, molto altrecose al di là di questa esperienza considerata nella sua singola-rità e determinatezza: l’intero mio sapere intorno ai bastoni in

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genere, al comportamento delle cose materiali, all’acqua, allesue proprietà, alle azioni che possono generare la rottura diuna cosa materiale, ecc.: tutto ciò ci rende avvertiti che quelgiudizio è appunto una opinione, che dunque può essere vero,ma anche falso.

È possibile che in questa nostra spiegazione siamo an-dati un poco oltre la lettera del testo di Schopenhauer, ma iocredo che in questo modo si porti chiarezza ad una proble-matica che è comunque avvertita, sia pure in mezzo a qualcheoscurità ed ambiguità.

Con la ragione si apre la tematica dell’errore per il fattoche solo nell’astrazione dei concetti, solo nel pensiero, si pos-sono formulare opinioni. Ma affermare questo è anche la stes-sa cosa che affermare la ragione stessa come organo della ve-rità. Cosicché, l’ammonimento nei confronti dell’errore dellaragione i cui effetti disastrosi anche in rapporto alla vita so-ciale degli uomini vengono brevemente e vivacemente de-scritti, termina nell’esortazione a combattere ogni errore“quand’anche non se ne veda danno”, dal momento che “ognierrore porta nelle sue viscere un veleno” e “non ci può essereerrore innocuo, e tanto meno rispettabile e sacro”, essendoinfine “solo lo spirito (Geist) e la conoscenza (Erkenntnis) chefanno l’uomo signore della terra” (M., p. 73).

Parole forse un po’ “retoriche”, ma che meritano di esse-re ben sottolineate in rapporto ad un autore che viene per lopiù considerato come un modello, sia esso deprecato o esal-tato, di irrazionalismo. Ed esse possono essere rammentateanche per mostrare quanto Schopenhauer, sia convinto di unanozione di filosofia il cui compito deve essere proprio quello diuna lotta contro l’errore, mantenendosi lontana da ogni inde-bolimento scettico della nozione della verità.

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10.Teoria del concetto – La rappresentazione astratta e la parola – Il si-gnificato della parola è qualcosa di interamente differente dalle even-tuali immagini concomitanti – La parola come telegrafo perfettissimodei concetti – Perché gli animali non parlano – L’astrarre inteso comeisolamento di una proprietà, lasciando tutto il resto indeterminato –L’individualità può essere solo intuita, e non pensata.

Può forse essere considerata una delle caratteristiche del pen-siero di Schopenhauer il fatto che l’interesse per l’insieme, edunque per il sistema, prevalga nettamente sull’accurata edapprofondita elaborazione delle sue parti, talora con nostrorincrescimento nel vedere spunti ricchi di interesse abbando-nati a loro stessi. Ciò accade in particolare, per la teoria delconcetto che appartiene naturalmente all’ambito della tematicadella ragione.

Abbiamo già accennato al carattere riflesso del concettocosì come al fatto che questo carattere contenga almeno il ri-cordo della tematica empiristica. Si coglie invece il peso dellaformazione kantiana nell’attenzione posta ad evitare le impli-cazioni psicologizzanti. In questo senso va rammentta l’ideache il soggetto conoscente non può essere conosciuto, ideache agisce anche nel senso di dare rilievo a ciò che viene pro-dotto piuttosto che alla forma del produrre. Più precisamente,la forma del produrre, dunque nel caso della ragione, l’astrarreviene introdotta a partire dai suoi prodotti. Ciò significa, adesempio, che se venisse chiesto di dire che cosa è la ragione, cipotremmo accontentare di spiegare che “la ragione è il corre-lato soggettivo delle rappresentazioni astratte”, evitando cosìqualunque riferimento alla mente ed a processi mentali chepotrebbero risultare più o meno misteriosi. Analogamentenon si sentiamo affatto impegnati, parlando di capacità diastrarre, ad illustrare in che modo si esplichi questa capacità,in che cosa consista il processo dell’astrazione.

Anche per quanto riguarda la rappresentazione astratta,

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per caratterizzarla si tenta di riportarla all’interno di conside-razioni formali–strutturali, evitando il rischio di una caratte-rizzazione qualitativa. Mentre Schopenhauer è disposto a ri-badire con Hume che una rappresentazione astratta è una co-pia (Nachbildung) ed una ripetizione (Wiederholung) di rap-presentazioni intuitive, ed anche ad approfittare di questo ca-rattere riflesso per contrapporre le une alle altre, non è invecedisposto ad affermare, come accadeva in Hume, che le rappre-sentazioni astratte sono caratterizzate come tali dalla scarsa vi-vacità, dal loro “pallore”, essendo questa indubbiamente unacaratterizzazione qualitativa psicologizzante. Il problema dellacopia viene utilizzato in altra direzione. Già nella Quadrupliceradice si era affermato che la forma del principio di ragionesufficiente dominante in una determinata classe costituiscel’essenza di quella classe. Ora, se chiediamo quale sia il fon-damento di un concetto potremo certamente essere rimandatiad altri concetti, ma iterando la domanda dovremo infinepervenire a concetti il cui fondamento è la cosa stessa.

Così potremmo illustrare il concetto di essere viventecon i concetti di vegetale o animale e il concetto di animalecon i concetti di cavallo o di elefante, ma alla fine dovremorinviare ad un cavallo o ad un elefante effettivamente “intuito”.

Tenendo conto di ciò la stessa nozione di rappresenta-zione astratta può essere definita come quella rappresentazio-ne che esige in ultima analisi il passaggio ad una rappresenta-zione appartenente ad un’altra classe come proprio fonda-mento. Si aggira in questo modo una caratterizzazione quali-tativa di impronta psicologistica. In questa stessa direzioneagisce soprattutto il richiamo al versante del linguaggio.

A questo proposito è il caso di mettere in guardia dal la-sciarsi fuorviare da alcune formulazioni generiche nelle qualici imbattiamo intorno al rapporto tra linguaggio e ragione:

“Il linguaggio è la prima creazione e lo strumento necessario dellaragione; così in greco e in italiano, linguaggio e ragione sono due

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concetti espressi da un’unica parola: logos, discorso (in italianonel testo). La parola tedesca Vernunft deriva da vernehmen (affer-rare, comprendere) che non è sinonimo di hören (udire), ma vale:acquistare coscienza dei pensieri comunicati per via di parole...Soltanto con l’aiuto del linguaggio la ragione ottiene i suoi piùgrandi effetti, ad esempio l’azione concorde di più individui, lacooperazione di più migliaia di uomini per eseguire un piano pre-stabilito, l’incivilimento, lo stato; e inolte la scienza, la conserva-zione dell’esperienza precedente...” (M., p. 74).

Affermazioni come queste non sono certo particolarmentenuove ed originali. Ma esse diventano subito assai più pre-gnanti se si tiene conto dell’impostazione che abbiamo espo-sta: parlare della ragione a partire dai suoi prodotti significaparlare dei concetti, i quali, concretamente considerati, nientealtro sono che i significati della parole – e non dunque qual-che particolare contenuto mentale. L’apprensione del signifi-cato di una parola è del tutto indipendente dal fatto che inconcomitanza con la sua enunciazione si presentino immaginiattinenti ad essa – ad esempio: la parola “leone” potrebbeevocare nella mia testa l’immagine di un leone, ma il signifi-cato della parola e questa immagine sono cose interamenteindipendenti.

Questo problema viene in certo senso risolto in un col-po solo quando Schopenhauer fa notare quale tumulto vi sa-rebbe nella nostra testa se, leggendo un libro, i significati delleparole non fossero altro che “immagini della fantasia che sisuccedono davanti a noi con la rapidità di un baleno”, “che siincatenano, trasformano e si colorano diversamente, secondol’affluire delle parole, secono le loro inflessioni grammaticali”(M., § 9, p. 77).

La parola è invece veicolo diretto del concetto stesso, un“telegrafo perfettissimo” attraverso il quale “la ragione, senzauscire dal suo dominio, parla con la ragione” (ivi).

Proprio in forza di questa relazione così stretta tra ilmomento della razionalità e il momento linguistico, assumeun particolare rilievo il fatto che gli animali non parlino.

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Questa circostanza non deve essere ritenuta accidentale enemmeno dipendente esclusivamente dalla mancanza di or-gani vocali sufficientemente evoluti. Gli animali non parlanoper il fatto che non sono capaci di operare astrazioni. Essi nonhanno una ragione. Se l’avessero, parlerebbero.

Un altro aspetto che merita di essere messo in evidenza èche, secondo Schopenhauer, la funzione essenziale della pa-rola e quindi dell’astrazione operata dal concetto non è prima-riamente quella di riunire e di raccogliere insieme una molte-plicità di oggetti singoli e individuali. Naturalmente questa èuna funzione fondamentale – in base ad essa qualunque pro-prietà che viene predicata di un concetto viene attibuito anchead ogni oggetto che viene da esso sussunto. Ma Schopenhauertiene a sottolineare che questa funzione di “comprendere” nelsenso di “abbracciare” una molteplicità di cose è secondaria,nel senso che essa è derivata da una caratteristica primitiva delconcetto che è propriamente quella di lasciare sempre inde-terminato qualcosa della singolarità individuale – ed è proprioin questa operazione del lasciare indeterminato che consiste lageneralità che rende possibile la sussunzione di un moltepli-cità di oggetti sotto il concetto. In questo accenno sembra sivoglia negare la teoria secondo la quale la procedura astrattivaconsisterebbe nel cogliere, a partire da una molteplicità di og-getti, una caratteristica comune contrapponendo ad essa l’ideache la procedura astrattiva possa essere concepita come unaprocedura che isola una certa proprietà e rende indeterminataogni altra. Si tratta di una differenza non da poco. La proce-dura di isolamento può essere applicata ad un solo oggetto, edè perfettamente in grado di rendere conto, in modo diversodalla precedente, dell’applicabilità del concetto ad una molte-plicità di oggetti proprio in forza dell’indeterminazione ri-spetto alle altre proprietà che sta alla sua origine.

Ancora una volta dobbiamo notare che Schopenhauernon approfondisce questo punto. Eppure egli tiene ad esso inmodo particolare non esitando a trarre di qui quella che sem-

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bra essere una conseguenza necessaria: nel concetto abbiamo ache fare sempre con una generalità, persino quando ci servia-mo di parole che rinviano a oggetti individuali. Così se affer-mo che “questa cattedra è di legno”, benché con il termine“questo” voglia intende proprio la cattedra su cui poggio lemani, l’espressione verbale “questa cattedra” contiene certa-mente meno determinazioni di quanto siano contenute nellamia percezione concreta di essa, cosicché essa sarebbe caratte-rizzata da una generalità di principio.

Naturalmente non è qui importante decidere se una si-mile interpretazione dei “giudizi singolari” sia più o meno so-stenibile. Più interessante è attirare l’attenzione sull’intentoche la guida che è certamente quello di ribadire con particola-re forza che l’individualità può essere solo intuita, e non pen-sata e che il carattere astratto del concetto deve essere intesoalla luce della sua minore ricchezza di determinazioni rispettoall’individualità intuita. Potremmo dire che questa minorericchezza di determinazioni è la forma finale che assume ilproblema della fissazione della differenza tra concetti e intui-zioni. Come ci si esprime chiaramente nelle Lezioni berlinesi:

“... il giudicare è esclusivamente un’operazione del pensiero, nondell’intuire, e si mantiene perciò esclusivamente nel campo deiconcetti astratti, non delle cose singole, e un concetto è sempregenerale anche quando vi è una cosa sola che viene pensata at-traverso di esso, anche se vi solo un’intuizione che dà ad esso uncontenuto... Il mio concetto di questa cattedra non è mai questacattedra stessa: esso rimane qualcosa di astratto, di universale...nel concetto non può mai essere contenuto tutto ciò che è con-tenuto nell’individuo” (Lez. I, p. 293).

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11.Teoria della logica – Interesse di Schopenhauer per la logica formale –La logica non ha nessuna utilità pratica ma un grande interesse teorico– La logica deve essere insegnata nelle università – L’importanza con-ferita alla rappresentazione figurativa dei rapporti logici – Una signi-ficativa citazione di Lambert.

Con le ultime considerazioni siamo ormai passati dal piano diuna teoria del concetto a quello di una teoria della logica – pianiche sono naturalmente l’uno la continuazione dell’altro. Vasubito notato che intorno al problema della logica Schopen-hauer ha alcune idee molto precise, maturate sulla base di uninteresse per la logica molto maggiore di quello che l’imma-gine comune di Schopenhauer farebbe sospettare. A docu-mentare questa circostanza è opportuno segnalare che alla de-cina di pagine dedicate all’argomento nel Mondo corrispon-dono non meno di centocinquanta pagine nelle Lezioni berli-nesi, nelle quali risulta evidente una preparazione estrema-mente minuziosa ed accurata, e dunque un interesse certa-mente non marginale.

La logica di cui parla Schopenhauer è sempre la sillogi-stica di tradizione scolastica, e questo va segnalato come unodei tanti tratti violentemente anticonformistici di Schopen-hauer. Infatti benché all’epoca continuasse ad essere essere in-segnata nelle scuole e nei collegi, la sillogistica aveva ormai datempo cessato di interessare i filosofi, e in primo luogo i filo-sofi della corrente idealistica. A cominciare da Kant con la sualogica trascendentale sino a Hegel con la sua logica dialettica,vi è tutto un affaccendamento intorno alla nozione di logicache tende a mutarne radicalmente il significato e la portata se-condo una prospettiva in cui i problemi della logica formalepropriamente detta, il cui nucleo era rappresentato appuntodalla teoria del sillogismo, venivano considerati come deltutto sterili e frutto di una mentalità pedantesca e di una con-cezione limitata delle reali procedure del pensiero. Di essasi

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parla come di un residuo del passato che aveva avuto giusta-mente la sua massima fioritura in quel periodo considerato“oscuro” chiamato Medioevo e che non era certo il caso inqualche modo di rinnovare. Si tratta di una valutazione gene-ralmente condivisa in tutto il corso del secolo XIX negli am-bienti filosofici con pochissime eccezioni e che si modificheràsoltanto verso la fine del secolo.

Di questa linea di tendenza Schopenhauer sembra nonaccorgersi nemmeno. La logica formale appartiene di pienodiritto alla problema della ragione nell’accezione spiegata, erappresenta, all’interno di questa problematica, un capitoloparticolarmente importante.

“La logica è la conoscenza generale dei modi di procedere dellaragione, conosciuti attraverso l’osservazione di sé della ragione eattraverso l’astrazione da ogni contenuto ed espressa in forma diregole” (M., p. 83).

Un simile riconoscimento è accompagnato da una importantepresa di posizione. La logica non ha nessuna utilità praticanel senso che l’apprendimento della logica non è una condi-zione del ragionare corretto. Quando si ragiona le regole logi-che sono certamente operanti, ma lo sono nello stesso senso incui sono operanti le leggi della meccanica quando compiamo imovimenti del nostro corpo. E come la conoscenza di questeleggi non è necessaria per imparare a camminare e in generaleper muoversi, così la conoscenza esplicita delle regole logichenon è necessaria per argomentare correttamente. In una similepresa di posizione non si vuol affatto dire che le nostre argo-mentazioni siano sempre corrette. Sarebbe questa un’interpre-tazione ingenua e inconsistente. Si tratta invece di sottolineareche l’argomentare non va inteso come se da un lato ci fosserole proposizioni e dall’altro le regole, ed esso consistesse innull’altro che nell’applicare le regole alle proposizioni. Difronte ad un simile modo di impostare il problema, S. è di-sposto a calcare la mano arrivando a sostenere, ad esempio,

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che “anche il logico più consumato, quando ragiona per ra-gionare, mette da parte tutte le sue regole”; oppure ad appros-simare l’attività razionale con un’attività istintiva simile aquella del castoro o addirittura ad un’attività fisiologica comequella di digerire il cibo.

Ma l’accento che cade sull’inutilità pratica della logica,intesa in questo modo, è nello stesso tempo un accento postosul suo interesse filosofico. Benché non sia vero che ragionareabbia come condizione l’apprensione di regole e la loro appli-cazione esplicita, tuttavia possiamo sempre dire, di fronte adun qualunque ragionamento effettivamente effettuato che inesso sono state applicate queste e quelle regole, cosicché inogni caso è giusto dire che attraverso la logica mettiamo inchiaro il funzionamento della ragione, così come sarebbe giustodire che le leggi della meccanica rendono conto anche dei mo-vimenti che io faccio con le mani e con i piedi.

L’interesse filosofico della logica consiste dunque pro-prio nel fatto che essa rappresenta “una conoscenza specialedell’organizzazione e dell’attività della ragione” che può essereconsidera “una scienza completa, autonoma, perfetta, ben co-struita e assolutamente sicura”. Essa deve essere trattata a sé,indipendentemente da ogni altra scienza,”, anche se il suoreale valore può essere apprezzato soltanto “dalla sua connes-sione con l’insieme della filosofia, nello studio della conoscen-za, e specialmente della conoscenza razionale e astratta” (M.,p. 83), Per tutte queste ragioni essa “deve far parte dell’inse-gnamento universitario”.

“La sillogistica non ha né valore né utilità né interesse se essaviene esercitata superficialmente come oggi accade per lo più: in-vece essa ha il massimo valore per la conoscenza filosofica del-l’essenza della ragione e diventa molto interessante, e persino at-traente, se viene trattata veramente a fondo e se si penetra neisuoi dettagli. Quindi non dovrete passare oltre a nessuno dei no-stri argomenti, ma darvi la pena di seguirli con attenzione: alloral’intero meccanismo che la ragione esercita nel dedurre (la suafunzione più alta) vi apparirà con la stessa chiarezza e distinzione

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con la quale vi appaiono gli oggetti che accadono sotto i vostriocchi” (Lez. I, p. 311).

Ma vi è un altro aspetto non secondario su cui dobbiamo ri-chiamare l’attenzione. Nel § 9 del Mondo Schopenhauer ram-menta l’idea di dare una rappresentazione figurativa ai rapportitra concetti considerati nelle loro estensioni, che egli chiamatalvolta “sfere dei concetti”. Si tratta di un l’idea estremamentefelice, ricordando in proposito Ploucquet che si serviva di qua-drati, Lambert che invece impiegava semplici linee sovrapposteed Eulero che ha fatto la proposta più appropriata servendosi dicerchi. La rappresentazione tramite linee e cerchi era impiegataanche da Leibniz in un saggio che non poteva essere noto aSchopenhauer, e che certamente gli sarebbe molto piaciuto,essendo stato pubblicato da Couturat all’inizio del nostro se-colo e da lui intitolato Sulla prova della forma logica mediantegrafici lineari (lo puoi trovare in Leibniz, Scritti di logica, a curadi F. Barone, Zanichelli, Bologna 1968, pp. 384 sgg,).

Naturalmente ancora oggi, come sa chiunque abbia se-guito qualche lezione di logica, può accadere che l’insegnantevolendo illustrare una relazione insiemistica o anche volendosoltanto caratterizzare graficamente un insieme tracci un cer-chio sulla lavagna. Ma nell’impiego di simili rappresentazioniè sempre sottinteso che esse esse sono prive di interesse dalpunto di vista teorico, ed anzi esse vengono esplicitamentecontrapposte come rappresentazioni “intuitive” ad una “for-malizzazione” adeguata del rapporto che in esse viene propo-sto, cioè ad una formulazione in una notazione convenzionaleappositamente escogitata a questi scopi. Proprio perché inquesti nostri commenti a Schopenhauer tanto spesso ricorro-no parole come “intuizione” e “intuitivo”, è bene che si tengapresente anche questa accezione dei termini: intuitivo si con-trappone qui a non–formale e significa per lo più, per il logicodi oggi, qualcosa di simile ad approssimativo, non rigoroso, disenso comune, ed anche rozzo, grossolano, ecc.

È chiaro che ci attenessimo a questi impieghi recenti deltermine non vedremmo le ragioni dell’interesse di Schopen-

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hauer a metterci sotto gli occhi queste grossolane rappresenta-zioni delle “sfere” dei concetti, e tanto meno potremmo av-vertire l’interesse dell’affermazione da cui sono accompagnate,secondo la quale con simili figurazioni è possibile “dedurrel’intera dottrina dei giudizi” (M., p. 81). Nelle Lezioni berli-nesi si dedica peraltro il massimo sforzo proprio nell’operareuna simile deduzione insistendo soprattutto sulla costruzionefigurativa dei rapporti logici mediante cerchi.

In realtà in rapporto a questa problematica dobbiamo ri-mandare all’esposizione contenuta nella Quadruplice radice, inparticolare al modo in cui Schopenhauer affronta la questionedella verità delle proposizioni geometriche. Questa verità eraper lui connessa all’afferramento di relazioni funzionali tra leposizioni spaziali. Ora naturalmente abbiamo a che fare conun ambito interamente diverso, eppure, benché sarebbe im-proprio parlare ora di una sorta di “geometrizzazione” dellalogica, tuttavia vi è una un’unità di stile nell’approccio al pro-blema perché anche qui si tratta di dare forma visiva concretaa relazioni astratte, in modo da poter cogliere visivamentenelle figure quelle relazioni. L’“intuizione” deve dunque essereancora chiamata in causa, ma non come un modo di illustrarealla buona, per le teste incapaci di elevarsi al pensiero astratto,relazioni fra concetti, ma per sollevare tutto un complesso diinterrogativi che riguardano la natura della logica, della dimo-strazione e delle regole logiche. Se voglio illustrare la relazio-ne tra animale e cavallo, potrei tracciare la seguente figura:

Quel che ci interessa qui è il modo in cui determinate regolelogiche sono direttamente esibite da questa semplice rappre-

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sentazione. Ad esempio, dalla figura possiamo trarre senz’altrola regola secondo la quale soggetto e predicano non possonoscambiarsi di posto oppure lo possono solo a partto di mutarela “quantità” del giudizio: in altri termini: mentre è vero chetutti i C sono A, è falso che tutti gli A sono C; ed è vero inve-ce che alcuni A sono C. Diversamente stanno le cose se il rap-porto fosse invece caratterizzato dalla figura seguente:

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Per quanto l’esempio possa sembrare troppo semplice, essoillustra il punto essenziale, e cioè il fatto che nella logica siamointeressati da un lato a caratterizzare formalmente i tipi diproposizione, dall’altro a mostrare la possibilità di trasforma-zione di una forma proposizionale nell’altra. Detto in altromodo: siamo interessati al tipo di rapporto che intercorre tratutti e alcuni, al modo in cui i termini di cui è composta laproposizione possono scambiarsi il ruolo logico, a determina-re che cosa accade di questi rapporti prendendo in considera-zione la negazione, e così via. Così il seguente grafico:

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può essere considerata come una rappresentazione del sillogi-smo di prima figura, ad esempio “se tutti gli uomini sono

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mortali e tutti i profeti sono uomini, tutti i profeti sonomortali”, ma in essa possiamo soprattutto cogliere con evi-denza la legge logica secondo cui, come dicevano gli scolastici,nota notae est nota rei ipsius – la cosa stessa è naturalmente ilprofeta, il primo predicato è uomo e il predicato di questopredicato è la mortalità; o anche: la parte di una parte è partedell’intero. Ed ancora: quidquid vale de genere, valet etiam despecie.

Forse il modo migliore di rendere conto di ciò che è quiin questione è tracciare una qualunque configurazione di cer-chi traendo da essa considerazioni sulle forme proposizionaliconseguenti e sulle regole logiche che le concernono.

Ad esempio:

���

Qui leggeremmo: Alcuni A sono C; tutti i C sono B –>Alcuni Bsono A oppure Alcuni A sono B (Lez. I, p. 335).

In breve: Schopenhauer, guidato certmente dal proprio intui-zionismo, riesce a cogliere ciò che era indubbiamente un pen-siero presente più o meno esplicitamente in Lambert, Eulero eLeibniz e che è andato perduto nelle elaborazioni future dell’i-dea di un linguaggio simbolico convenzionale per le strutturelogiche e che affiora nuovamente nel Tractatus di Wittgen-stein (almeno secondo l’interpretazione da me proposta). Inquelle proposte di traduzione grafica dei rapporti logici non vi

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era certamente soltanto l’idea di facilitare la strada alla com-prensione della logica, usando mezzi grossolani. Certamentevi è un motivo importante di semplificazione, ma questo mo-tivo è profondamente immerso in una riflessione sul simboli-smo capace in certo modo di funzionare da sé. Questa capa-cità a sua volta sembra poter essere assicurata solo da una pre-cisa corrispondenza strutturale tra la forma logica e la formadelle connessioni figurali.

Questo problema è formulato in forma estremamenteesplicita da Lambert nel presentare la sua proposta di designa-zione dei rapporti tra concetti mediante linee. Nel § 194 delsuo Neues Organon si legge infatti:

“Da tutto questo si vede che il modo di designazione qui addottoarriva, in verità, altrettanto lontano quanto determinata è la no-stra conoscenza, e inoltre ci mostra ancora in modo evidente co-me, e dove, essa comincia ad essere indeterminata, e dove ancorprima dobbiamo ricavare l’ulteriore determinazione partendodalla natura dell’oggetto stesso. Inoltre, da ciò vediamo pure che,se fosse possibile rendere complete queste determinazioni, la no-stra conoscenza potrebbe diventare figurativa ed essere trasfor-mata in una specie di geometria e di aritmetica. Notiamo qui solooccasionalmente che anche l’espressione un concetto è contenutoin un altro getta pure la base per una designazione dei concetti...D’altronde è per sé chiaro che mediante tali designazioni non sisimboleggia niente altro che i rapporti più generali dei concetti, iloro collegamenti e le loro connessioni generali. Questo però nonè proprio così irrilevante perché... tali designazioni ci indicanonon solo i rapporti che noi in verità, senza pensare ad altri, vole-vamo simboleggiare, ma con uno sguardo anche gli altri che coe-sistono insieme nell’oggetto designato. Un pregio che finora solol’algebra aveva” (trad. it. a cura di R. Ciafardone, Laterza, Bari1977, p. 97).

Se consideriamo l’intera questione da questo punto di vistacogliamo in essa una complessità che forse in precedenza nonavremmo potuto sospettare. Nel presentare questi schemi in-tuitivi – come li chiama Schopenhauer – dovremmo subitodire che essi sono anzitutto simboli di relazioni astratte, e

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quindi qualcosa di completamente diverso da illustrazionigrossolane di esse – ed è inutile dire che il senso della parolasimbolo è qui del tutto diverso da quello in uso nella logicamoderna nella quale esso significa “segno per il quale è statadeterminata una sintassi”. La densità problematica sta poinell’idea che, a partire da considerazioni come queste, si possaaprire sia il problema della comprensione intuitiva delle regolelogiche, sia il versante, apparentemente ad esso contrapposto,della riconduzione della tematica della dimostrazione al pro-blema più generale del calcolo, come si legge già nella prece-dente citazione di Lambert.

Di qui Schopenhauer coglie alcune importanti conse-guenze che peraltro non approfondisce – ed in primo luogol’idea che è in via di principio privo di senso tentare di dareuna dimostrazione delle stesse regole logiche, dal momentoche qualunque dimostrazione non può andare oltre o dire dipiù di ciò che è mostrato dallo schema intuitivo.

“In particolare questi schemi intuitivi ci possono facilitare di mol-to la conoscenza delle regole della sillogistica e dispensarci dalladimostrazione delle regole. Aristotele infatti diede sempre perogni regola sillogistica una dimostrazione, cosa che in realtà èsuperflua, anzi, a rigore, impossibile; infatti, la dimostrazionestessa è una deduzione e presuppone conseguentemente le rego-le: ma queste regole possono al massimo essere rese chiare... Ciòche Aristotele faceva con le sue dimostrazioni possono fare i no-stri schemi per noi, e molto meglio e più facilmente: infatti essihanno una completa ed esatta analogia con l’estensione dei con-cetti: cosicché essi ci consentono di afferrare con evidenza i rap-porti dei concetti tra loro e nel modo più facile, cioè in modo in-tuitivo e riusciamo a portare alla più facile comprensibilità le ne-cessità che sorgono da questi rapporti. Già da tempo le dimostra-zioni aristoteliche sono state messe da parte dalla logica; ma nonsi è ancora operata la loro completa chiarificazine e sostituzionecon schemi intuitivi, così come mi accingo ora a fare” (Lez. I, p.289).

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12.Digressione sulla teoria del riso e del comico in Schopenhauer – In chemodo in essa sono implicati concetto e intuizione – La teoria dellasussunzione paradossale – Esempi – La distinzione tra spiritosaggine ebuffoneria – Sulle cause del riso – Il riso sorge dal piacere che genera loscacco della ragione – Il buffone che sbeffeggia il pedagogo.

Vogliamo concludere la nostra discussione sul tema della ra-gione – concludendo in realtà questi nostri commenti intornoal contenuto del primo libro del Mondo – prendendo in con-siderazione un’interessante e inattesa digressione che Scho-penhauer compie nel § 13, quasi scusandosi di allontanarsidall’argomento principale “ritardando così il nostro cammi-no”. In questo paragrafo Schopenhauer abbozza una vera epropria teoria del riso, forse anzi dovremmo parlare più am-piamente di una teoria del comico. Si conferma qui – detto inmargine – l’impressione che nel Mondo la preoccupazionedominante danneggi la portata di argomenti che vengonoproposti quasi in sordina, mentre meriterebbero, se non unatrattazione organica che certamente svierebbe dal filo con-duttore principale, almeno una qualche più netta evidenzia-zione. Qui ci troviamo di fronte a tre paginette, nelle quali sicondensa una proposta di teoria del comico, la cui sintesi oc-cupa un paio di capoversi senza esempi illustrativi perché,spiega Schopenhauer, la mia teoria è così semplice e chiarache “i ricordi di ogni lettore in materia di riso bastano da solia sostenerla ed a confermarla” (M., p. 97).

Per fortuna possiamo invece disporre di un Supplementoa questo paragrafo (Cap. VIII) intitolato Sulla teoria del ridi-colo che ci offre le integrazioni necessarie e gli esempi oppor-tuni.

Ad ogni teoria del riso si pone un duplice problema:quello di rendere conto del modo in cui il riso viene prodotto,dunque della struttura delle situazioni comiche, e quello dispiegare le cause che fanno sì che noi ridiamo di fronte a de-

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terminate situazioni. Questo duplice problema è presente an-che in Schopenhauer, benché il primo sia più sviluppato delsecondo.

Ci chiediamo dunque: che cosa caratterizza una situa-zione come situazione comica? In questa domanda è già im-plicata l’idea – passibile in ogni caso di contestazioni – chetutte le situazioni che ci fanno ridere abbiano un tratto co-mune e che il nostro problema sia appunto quello di indivi-duare questo tratto comune. Così la pensa anche Schopen-hauer: la grande varietà delle situazioni comiche può essere ri-condotta ad un’origine comune, che chiama in causa proprioil problema della ragione e della sua distinzione dall’intellettoe dall’intuizione. Ciò significa: se non ci fossero concetti, non visarebbe riso: al riso è necessaria la capacità di operare astrazionie precisamente nel senso spiegato, secondo il quale l’astrarre èil lasciare indeterminato qualche aspetto dell’oggetto, con-sentendo in questo modo il passaggio alla generalità. Se è così,tra le determinazioni antropologiche significative, cioè traquelle determinazioni che contraddistinguono l’uomo dall’a-nimale, non dovremmo annoverare solo le facoltà del futuro,come la speranza, oppure la capacità del linguaggio. Diventaanche significativo il fatto di poter rilevare che un elefante oun cane non ridono.

Queste singolari affermazioni derivano direttamentedall’idea che sta a fondamento della teoria di Schopenhauer.In base ad essa

“l’origine del ridicolo è sempre la sussunzione, paradossale e per-ciò inaspettata, di un oggetto sotto un concetto che gli è estraneoper tutti gli altri aspetti: pertanto il fenomeno del riso indicasempre la percezione improvvisa di un’incongruenza tra quelconcetto e l’oggetto reale che mediante esso viene pensato, quin-di tra l’astratto e l’intuitivo” (Suppl., p. 852).

Vi è dunque in questa teoria, che vogliamo chiamaresenz’altro teoria della sussunzione paradossale, l’idea di un con-

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trasto, di un conflitto interno, di un’incongruenza che carat-terizza la situazione comica e questa incongruenza riguarda ilrapporto tra pensiero e intuizione, tra rappresentazione a-stratta e rappresentazione concreta, tra il modo in cui unacerta situazione viene prospettata nel pensiero e la sua realtàeffettiva. Inoltre, la sussunzione è inaspettata, e dunque ilconflitto ci appare improvvisamente come una sorta di cortocircuito che non può essere controllato, ed ovviamente questocarattere improvviso ha una particolare importanza per loscatenamento del riso.

Veniamo ora agli esempi finalmente proposti nei Sup-plementi per quei lettori che non sanno fare da sé per la loro“prigrizia intellettuale”.

A dire il vero non tutti gli esempi sono egualmente felicied efficaci per illustrare la tesi proposta. Cosicché converràscegliere quegli esempi che assolvono meglio il loro scopo.Tra questi vi è certamente l’esempio del predicatore noioso.Vi è un predicatore quanto mai noioso che ottiene il risultatodi fare addormentare il pubblico dei suoi fedeli. Ecco dunqueun esemplare buon pastore che, secondo a quanto dice la Bib-bia, è il solo a vegliare quando tutto il suo gregge è addor-mentato!

Se analizziamo la situazione troviamo in essa un con-cetto – essere un buon pastore – e la sussunzione sotto di essodi un caso particolare, e dunque concreto e reale: la sussun-zione è manifestamente paradossale, essa genera sorpresa e cifa sorridere. In riferimento al piccolo racconto si può anchecostruire una sorta di stravagante sillogismo la cui conclusione– “allora il tale è un buon pastore” – sorge dalla premessamaggiore che caratterizza il buon pastore secondo la Bibbia eduna premessa minore che caratterizza il risultato che egli ot-tiene quando parla.

Questo esempio può essere citato anche come esempiodi una delle due grandi classi in cui secondo Schopenhauer sisuddivide il comico e che naturalmente si potranno interseca-

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re tra loro, avere articolazioni interne ecc. Per caratterizzarleSchopenhauer parla di spiritosaggine (Witz) e buffoneria (Nar-rheit).

La spiritosaggine è legata soprattutto al linguaggio,mentre la buffoneria all’azione ed al comportamento. In ef-fetti il nostro esempio riguarda propriamente l’impiego spiri-toso dell’espressione “buon pastore” – siamo appunto nel-l’ambito del motto di spirito. Questa classe sarebbe anche ca-ratterizzata, secondo Schopenhauer, dal fatto che in essa siprocederebbe dal concreto all’astratto piuttosto che nella dire-zione inversa. Ciò significa, in rapporto all’esempio, che coluiche crea il motto prende le mosse dalla situazione reale di unpredicatore reale molto noioso a cui applica poi paradossal-mente il concetto di buon pastore.

Diversamente stanno le cose nel caso della buffoneria. Iltermine tedesco Narrheit richiama in effetti il buffone di corte(Hofnarr) con i suoi comportamenti stravaganti, ma nel ter-mine è anche implicata la follia, spesso del resto attribuita aibuffoni. Il buffonesco deriva dunque dal fatto che viene pro-spettato un concetto – ad esempio si prospetta un comporta-mento secondo determinate norme oppure si genera l’aspet-tativa di un’azione caratterizzabile con un concetto astratto –mentre la realtà entra in conflitto con queste aspettative o conla normativa astrattamente presupposta. Il percorso è qui dun-que dal concetto all’ “intuizione” (ovvero al caso concreto).

I comportamenti di Don Chisciotte possono vale comebuon esempio di comico buffonesco proprio nel senso or oraillustrato. La comicità non riguarda qui il piano linguisticoma piuttosto quello dell’azione e l’esempio illustra anche ilfatto che si tratta di un percorso dall’astratto al concreto. DonChisciotte prende infatti le mosse da concetti, l’intero suocomportamento è determinato da una trama di rappresenta-zioni astratte sotto le quali – dobbiamo ammettere di poteresprimerci così – vengono sussunte situazioni concrete con es-se apertamente in contrasto.

Un altro esempio che sembra illustrare efficacemente

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l’idea della situazione buffonesca – peraltro in una direzinoesensibilmente diversa dalla precedente – è quella di un attoreche, nel bel mezzo di una tragedia, scoppiò a ridere per il fattoche uno spettatore per asciugarsi il sudore aveva temporanea-mente posato la propria parrucca sulla testa di un grosso caneche guardava verso le scena con le zampe appoggiate al pro-scenio.

L’analisi nei termini della teoria della sussunzione para-dossale sembra qui particolarmente efficace purché si sia di-sposti ad intendere la nozione di concetto in un senso abba-stanza lato, come del resto accadeva anche negli esempi pre-cedenti. In particolare occorre notare che il concetto, e dun-que l’attività razionale, è operante ogni volta in cui ci trovia-mo di fronte ad aspettative, e l’aspettativa ha una grande im-portanza per l’origine del riso.

Ora, un attore ha evidentemente un’aspettativa in rap-porto al proprio pubblico: potremmo dire allora, in base allenostre precedenti considerazioni, che egli ha un concetto(rappresentazione astratta) di spettatore. Ecco dunque chequando vede il cane con la parrucca guardare sul palcosceniconon può fare a meno di sussumerlo sotto il concetto di spet-tatore, e qui accade il cordo circuito tra l’astratto e l’intuitivo.La sussunzione è manifestamente paradossale e inattesa.

Citando questo esempio S. accenna al fatto che certianimali come scimmie canguri, lepri, ecc. possono sembrarciridicoli se più o meno consciamente intravvediamo nelle lorofigure tratti umani – la comicità del cane che cammina su duezampe ha questa natura.

Il “minimo incidente” – la classica caduta sulla buccia dibanana – rappresenta un altro buon esempio: il riso di frontealla caduta potrebbe essere spiegato attraverso aspettative do-vute alla rappresentazione di un uomo normalmente cammi-nante, nella quale sono comprese rappresentazioni di dignità ebuon portamento che diventano incongruenti con la situazio-ne che ci si presenta visivamente nel caso della caduta.

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Della pedanteria (Pedanterei) si parla per le sue possibilirelazioni con il comico. D’altra parte che cos’altro è la pe-danteria se non un comportamento governato da normeastratte che sono spesso incongruenti con la realtà delle cose?Ed intanto Schopenhauer ne approfitta per dare una stoccatapiuttosto pesante in direzione di Kant che viene, sia purecortesemente, annoverato tra i pedanti in rapporto alla suateoria morale.

Questi sviluppi sul comico suggeriscono alcune conside-razioni conclusive intorno alla questione generale del rapportotra attività razionale ed attività intuitiva.

Come abbiamo detto, accanto al problema della struttu-ra della situazione comica vi è anche quello di una spiegazionedelle cause del riso. In effetti, anche se arrivassimo ad approva-re la tesi della sussunzione paradossale, resterebbe da spiegareperché, di fronte alle situazioni in cui si verifica una similesussunzione, noi ridiamo. Perché mai il contrasto tra intui-zione e pensiero genera proprio questa reazione? La spiegazio-ne proposta da Schopenhauer richiama i motivi filosofici difondo intorno alla priorità del principio dell’intuizione, e quin-di si integra pienamente nell’impostazione complessiva dataalla questione e merita di essere ricordata proprio per questomotivo.

Che il riso sia riferito alla capacità razionale non signifi-ca che ci sia una relazione positiva tra il riso e la capacità diastrazione. Questa sarebbe un’interpretazione erronea della te-si di Schopenhauer. Ciò che egli propriamente sostiene è cheil comico sorge da uno scacco della ragione di fronte all’in-tuizione – ciò che vedo non concorda con ciò che penso, anzi,ci appare subito incongruente con esso e questa incongruenzabalza subito ai nostri occhi con la vivacità e la forza che spettaappunto alle rappresentazioni intuitive in genere. Anche quiaccade ciò che accade nel caso delle illusioni percettive: essesono tanto forti da permanere anche quando di esse abbiamodato una spiegazione razionale e sappiamo dunque perfetta-

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mente che sono illusioni. Con questa stessa forza la situazionereale si impone nei confronti della situazione pensata, nellasua particolarità, nelle sfumature che la caratterizzano e che ilconcetto non è in grado di dominare. Proprio per via dell’in-determinazione del concetto, esso è necessariamente schema-tico e unilaterale, e non può rendere conto di ogni dettaglio;quando descrive la realtà non può che descriverla all’ingrosso,togliendo di mezzo quelle differenze graduali, quelle sfumatu-re che invece l’afferramento diretto del reale ci pone di fronteagli occhi. La rappresentazione astratto–razionale è come unmosaico; la rappresentazione concreto–intuitiva è invece comela pittura, e non è in alcun modo possibile ricondurre il mo-saico alla pittura, in alcun modo il mosaico può rendere quel-le sfumature nelle quali eccelle invece la pittura. L’incon-gruenza si radica proprio in questa circostanza: il concettonell’“universalità e rigidezza della sua determinazione” non ri-esce ad adeguarsi alle “fini sfumature”, alle “svariate modifica-zioni della realtà”.

In questo sta propriamente lo scacco della ragione: la ra-gione può formulare il concetto di “spettatore” e poi un belgiorno ci accade di vedere un cane con la parrucca, e questocaso inaspettato porta lo scompiglio nel concetto. Di questo noiridiamo – non tanto per il cane con la parrucca, ma per il con-cetto scompigliato. Ciò che ci rallegra è proprio questo scacco.In questa allegria vi è l’idea di uno sforzo risparmiato. L’eser-cizio del pensiero richiede sforzo in quanto la facoltà che isti-tuisce mediazioni ci obbliga di continuo a prendere le distan-ze dall’immediatezza. Naturalmente qui il termine di pensie-ro, a partire da una simile teoria del concetto, tende a dilatareil suo senso. Ciò accade anche, corrispondentemente, per iltermine di intuizione: il modo intuitivo di rapportarsi almondo è il modo che richiede lo sforzo minore. In questa e-stensione del termine, l’intuizione è anche legata al piacere. Intermini temporali: essa è legata al presente, mentre la ragioneal passato ed al futuro. Alla ragione soprattutto appartengono

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dunque sentimenti come il rimorso, che contiene il rigurgitodel passato, ed il timore, che anticipa il futuro. Si prospettacosì un’immagine della ragione come una attività che ponefreni e controllo al libero sviluppo dei nostri desideri – con-cetto e desiderio sono l’uno contro l’altro come Schopenhauerdice in una frase che apparirebbe certamente sibillina se nonfosse preceduta dall’esposizione del suo contesto: “I concetti sioppongono alla soddisfazione dei nostri desideri” (Suppl.,Cap. VIII).

Diventa così chiara la natura del riso: nella percezionedella situazione comica sperimentiamo inaspettatamente ed inmodo irrefrenabile una condizione di adesione senza remoreal reale, nella quale la ragione con i suoi ammonimenti, con lesue raccomandazioni, con il suo moralismo e la sua pedanteriaviene finalmente posta a tacere:

“Vedere una volta convinta di insufficienza questa rigida e in-stancabile precettrice della ragione deve perciò farci molto piace-re” (Suppl., p. 861).

Vi sono qui due parole nel testo tedesco che meritano di esse-re messe in evidenza: il convincere (überführen) è detto nelsenso giuridico dell’adduzione di prove che mettono l’impu-tato con le spalle al muro: ciò che abbiamo qui tradotto nelmodo più letterale con precettrice (Hofmeisterin) – malamentetradotta in italiano talora con governante o addirittura conmaestra di casa (De Lorenzo) – si richiama alla figura del“maestro di corte”, quindi del pedagogo, del precettore a cuile famiglie aristocratiche affidavano i propri rampolli: figurache può certo facilmente diventare immagine di pedanteria edi moralismo. È notevole che dal termine Hofmeister si sia co-niata l’espressione verbale hofmeistern che significa dare inse-gnamenti indesiderati (non richiesti) e che Hofmeisterei è unaltro termine possibile per indicare la pedanteria. L’intuizionesvolge qui la parte dell’Hofnarr che sbeffeggia l’Hofmeister – e

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vorremmo quasi dire che la sua teoria del comico sta tuttaproprio in questa dialettica tra il buffone e il pedagogo.