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PIANET PIANET A A MEDICO MEDICO ORGANO UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE MEDICA SUBLACENSE (A.M.S.) - Onlus Direttore Scientifico MASSIMO MARCI, Subiaco Redattore Capo SALVATORE RAFFA, Roma Comitato Scientifico Comitato di Consulenza Redazione LEONARDO ANTICO Roma PIER LUIGI ANTIGNANI, Roma ANTONIO CAROLEI, L’Aquila CLAUDIO CORTESE, Roma GIOVANNI DI MINNO, Palermo ELISABETTA FRANCO, Roma MARCELLO GRASSI, Roma ELMO MANNARINO, Perugia VINCENZO MARIGLIANO, Roma; MASSIMO PALLESCHI, Roma ALBERTO SIGNORE, Roma LUIGI G. SPAGNOLI, Roma GIANCARLO STAZI, Roma STEFANO M. ZUCCARO, Roma MICHELE ACQUI, Roma PIERINA BATTISTI, Subiaco DOMENICO CARNI’, Tivoli SERGIO CICIA, Tivoli SILVIO COMPAGNO, Tivoli VINCENZO DI CINTIO, Roma DOMENICO IZZI, Subiaco ALFREDO LA CARA, Subiaco FRANCESCO LUCARELLI, Tivoli MASSIMO MANCUSO, Roma UMBERTO NAPOLEONI, Subiaco ANTONIO ORLANDI, Subiaco RUGGERO PASTORELLI, Colleferro PASQUALE TRECCA, Colleferro PIERLUCA FUSARO, Subiaco GIOVANNA GRECO, Subiaco ALBERTO LOZZI, Subiaco GIOVANNI LUPI, Subiaco ROBERTO MICONI, Subiaco LUIGI MILANO, Subiaco ENRICO PANZINI, Subiaco ERCOLE TOZZI, Subiaco Periodicità quadrimestrale - Sped. in abbonamento postale - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 528 del 09/10/1992 - Abbonamento Annuo E 11,00 (Enti: E 52,00) Numero arretrato E 4,00. La produzione anche parziale dei lavori pubblicati è formalmente vietata senza la debita autorizzazione dell’Editore. Finito di stampare nel mese di Maggio 2002 per conto della C.E.S.I. dalla Litografica IRIDE - Via della Bufalotta, 224 - Roma Direttore Responsabile: ANTONIO PRIMAVERA Redazione: C.E.S.I. - Via Cremona, 19, 00161 Roma Tel. 0644290783 - FAX 0644241598; E-mail: [email protected]; www.congressline.net Associazione Medica Sublacense (onlus) Casella Postale, 127 - 00028 Subiaco (Roma) E-mail: [email protected] http://digilander.iol.it/assomedicasublacense Editore: C.E.S.I. - Via Cremona, 19, 00161 Roma Tel. 0644290783 - FAX 0644241598; E-mail: [email protected] www.congressline.net Ufficio Pubblicità Responsabile: Bruna Serrano Via Cremona, 19, 00161 Roma; Tel. 0644290783 - Fax 0644241598; Composizione: C.E.S.I. Quadrimestrale Vol. X n. 1 Gennaio/Aprile 2002 - Sped. in Abb. Post. 45% art 2 comma 20/B Legge 662/96 - Filiale di Roma

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PIANETPIANETAAMEDICOMEDICO

ORGANO UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE MEDICA SUBLACENSE (A.M.S.) - Onlus

Direttore ScientificoMASSIMO MARCI, Subiaco

Redattore CapoSALVATORE RAFFA, Roma

Comitato Scientifico

Comitato di Consulenza

Redazione

LEONARDO ANTICO RomaPIER LUIGI ANTIGNANI, RomaANTONIO CAROLEI, L’AquilaCLAUDIO CORTESE, RomaGIOVANNI DI MINNO, PalermoELISABETTA FRANCO, RomaMARCELLO GRASSI, Roma

ELMO MANNARINO, PerugiaVINCENZO MARIGLIANO, Roma;MASSIMO PALLESCHI, RomaALBERTO SIGNORE, RomaLUIGI G. SPAGNOLI, RomaGIANCARLO STAZI, RomaSTEFANO M. ZUCCARO, Roma

MICHELE ACQUI, RomaPIERINA BATTISTI, SubiacoDOMENICO CARNI’, TivoliSERGIO CICIA, TivoliSILVIO COMPAGNO, TivoliVINCENZO DI CINTIO, RomaDOMENICO IZZI, Subiaco

ALFREDO LA CARA, SubiacoFRANCESCO LUCARELLI, TivoliMASSIMO MANCUSO, RomaUMBERTO NAPOLEONI, SubiacoANTONIO ORLANDI, SubiacoRUGGERO PASTORELLI, ColleferroPASQUALE TRECCA, Colleferro

PIERLUCA FUSARO, SubiacoGIOVANNA GRECO, SubiacoALBERTO LOZZI, SubiacoGIOVANNI LUPI, Subiaco

ROBERTO MICONI, SubiacoLUIGI MILANO, SubiacoENRICO PANZINI, SubiacoERCOLE TOZZI, Subiaco

Periodicità quadrimestrale - Sped. in abbonamento postale - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 528 del 09/10/1992 -Abbonamento Annuo E 11,00 (Enti: E 52,00) Numero arretrato E 4,00. La produzione anche parziale dei lavori pubblicati èformalmente vietata senza la debita autorizzazione dell’Editore. Finito di stampare nel mese di Maggio 2002 per conto dellaC.E.S.I. dalla Litografica IRIDE - Via della Bufalotta, 224 - Roma

Direttore Responsabile: ANTONIO PRIMAVERARedazione: C.E.S.I. - Via Cremona, 19, 00161 Roma

Tel. 0644290783 - FAX 0644241598; E-mail: [email protected]; www.congressline.netAssociazione Medica Sublacense (onlus)Casella Postale, 127 - 00028 Subiaco (Roma)E-mail: [email protected]://digilander.iol.it/assomedicasublacense

Editore: C.E.S.I. - Via Cremona, 19, 00161 RomaTel. 0644290783 - FAX 0644241598; E-mail: [email protected]

Ufficio PubblicitàResponsabile: Bruna Serrano

Via Cremona, 19, 00161 Roma;Tel. 0644290783 - Fax 0644241598;

Composizione: C.E.S.I.

Quadrimestrale Vol. X n. 1 Gennaio/Aprile 2002 - Sped. in Abb. Post. 45% art 2 comma 20/B Legge 662/96 - Filiale di Roma

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Pianeta Medico

La rivista PIANETA MEDICO pubblica gratuitamente articoli originali, rassegne, descrizioni di casi clinici diparticolare interesse con testo e bibliografia limitati al minimo, revisioni o annotazioni sulla terapia in campomedico. Saranno altresì pubblicate Lettere al Direttore, recensioni di libri o monografie, programmi, resocontie atti di Congressi, Convegni e Rassegne Congressuali.I lavori dovranno essere inviati alla C.E.S.I. Via Cremona, 19, 00161 Roma, Tel. 06.44.290.783, Fax06.44.241.598 registrati su disco Word per Macintosh o Word per Windows (allegando una bozzadattiloscritta) o al seguente indirizzo di posta elettronica: E.mail: [email protected] accettati per la pubblicazione esclusivamente lavori ritenuti idonei.Il Direttore e l’Editore declinano ogni responsabilità circa le dichiarazioni e le opinioni espresse nei dattilo-scritti pubblicati. Qualora compaiano nel testo valutazioni statistiche, queste potranno essere controllate dallaredazione anche con richiesta agli autori dei dati in loro possesso.I lavori inviati devono essere dattiloscritti con spazio due, su una sola facciata (circa ventotto righe per pagi-na) e con margini laterali di circa tre centimetri. Gli autori devono inviare tre copie complete del lavoro (unoriginale e due fotocopie) e conservare una copia, dal momento che i dattiloscritti non verranno restituiti.Sulla prima pagina del dattiloscritto dovranno figurare: il titolo, nome e cognome degli autori; l’istituzioneove l’articolo è stato elaborato; nome, indirizzo completo di cap. e telefono dell’autore dove sarà inviata ognicorrispondenza. La bibliografia dovrà essere redatta secondo le norme internazionali (vedi Index-Medicine e Med-Line):Cognome, nome puntato, Anno; volume: pagina iniziale e finale.Le tabelle vanno dattiloscritte su fogli separati e devono essere contraddistinte da un numero romano (con ri-ferimento dello stesso nel testo), un titolo breve ed una chiara e concisa didascalia. Le didascalie delle illustrazioni devono essere preparate su fogli separati e numerate con numeri arabi corri-spondenti alle figure cui si riferiscono; devono contenere anche le spiegazioni di eventuali simboli che identi-ficano parti delle illustrazioni stesse.Le illustrazioni devono recare scritto sul retro, il numero arabo con cui vengono menzionate nel testo, il co-gnome del primo Autore ed una freccia indicante la parte alta della figura. I disegni ed i grafici devono essereeseguiti in nero su fondo bianco o stampati su carta lucida.Le fotografie devono essere nitide e ben contrastate.Le illustrazioni non idonee alla pubblicazione saranno rifatte a cura dell’Editore e le spese sostenute sarannoa carico dell’Autore.L’Autore dell’articolo: cede alla Rivista Pianeta Medico il diritto esclusivo di stampare, pubblicare, dare li-cenze e tradurre in altre lingue in Nazioni diverse rinunciando ai diritti d’Autori; garantisce la completa di-sponibilità di ogni proprietà letteraria ed esonera la rivista Pianeta Medico da ogni responsabilità; si impegnaa fornire permessi scritti per ogni materiale grafico o di testo tratto da altri lavori, pubblicati o no, incorporatinel dattiloscritto, ivi compresi farmaci o riproduzioni di figure; si impegna a rifondere la rivista PIANETA

MEDICO per qualunque perdita o per ogni somma da pagare in saldo di qualunque reclamo o giudizio, com-presi premi di consultazione, risultati da un’infrazione di tali garanzie; si impegna a non creare alcuna confu-sione nel godimento dei diritti ceduti; è responsabile di quanto riportato nell’articolo, di ogni riferimento, au-torizzazioni alla pubblicazione di figure, grafici ecc..I lavori accettati per la pubblicazione diventano di proprietà esclusiva della casa editrice della rivista e nonpotranno essere pubblicati altrove senza il permesso scritto dell’Editore.Le bozze di stampa dovranno essere rispedite definitivamente corrette entro dieci giorni dal loro ricevi-mento, altrimenti l’Editore si riserva la facoltà di eseguire le correzioni e pubblicare il lavoro.

NORME REDAZIONALI

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SOMMARIO

EDITORIALI

L’interdizione e l’inabilitazione nel soggetto con demenza senileMarci M. ................................................................................................................................

L’indispensabilità della Divisione di Geriatria nell’Ospedale GeneralePalleschi M. ...........................................................................................................................

L’assistenza al malato terminaleZuccaro S.M., Madaio R.A., Gramillano B. ..........................................................................

GERIATRIA

“Le grandi patologie del vecchio: inquadramento diagnostico e terapia”L’ipoglicemia e l’anzianoFiore V. ..................................................................................................................................

Le iponatriemie in GeriatriaVetta F. ...................................................................................................................................

Le sindromi linfoproliferative cronichePanzini E., Lozzi A., Serra F., Pittoni V., Marci M. ...............................................................

La piastrinopenia autoimmune dell’anzianoChistolini A., Mecarocci S., Gallucci C., Milano F. ..............................................................

La dispepsia nell’anzianoDi Cioccio L., Bucca C., Peppe T., Brighi S., Baldaccini A., Di Meo C. ..............................

L’epatite C nell’anzianoGrieco A., Alfei B., Forgione A., Gasbarrini G. ....................................................................

Il deliriumManor M. ...............................................................................................................................

Le sindromi parkinsonianeMarini C., Russo T. ................................................................................................................

“Assistere l’anziano oncologico”La terapia del dolore neoplastico: una sfida di tutti i tempi Greco G. .................................................................................................................................

Aspetti e problematiche nella somministrazione dei chemioterapici antiblastici Checchi A. .............................................................................................................................

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Attuali normative sulla preparazione di farmaci antiblasticiSantini G. ...............................................................................................................................

L’alimentazione enteraleProietti F. ................................................................................................................................

La nutrizione parenteralePontecorvo M. .......................................................................................................................

Assistenza domiciliare al paziente oncologico: oggi e domani alla luce delle normati-ve attualiTrecca P. .................................................................................................................................

OPINIONI

L’informazione in Oncologia tra i dubbi della comunicazionePastorelli R., Sandroni C., Falegnami L., Cifaldi L. .............................................................

STORIA DELLA MEDICINA

Una breve storia del vaioloRaffa S. ..................................................................................................................................

DRUGSa cura di Gentili R. e Lauriola M. ..........................................................................................

PASSAGGI LETTERARIa cura di Raffa S. ...................................................................................................................

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L'invecchiamento della popolazione nei paesiindustrializzati costituisce uno dei fenomenipiù importanti del nostro secolo; da una vitamedia di 36 anni nell'ultimo decennio, si èpassati ad una vita media attuale di 83 anniper le donne e 76 per gli uomini. Diretta con-seguenza di questo fenomeno è un aumentodegli individui affetti da patologie cronicheed in particolare da patologie degenerativedel Sistema Nervoso Centrale quali le demen-ze; tra queste la malattia di Alzheimer è unadelle più importanti emergenze che i sistemisanitari e la società si trovano sin da oggi adaffrontare. Dati recenti riportano infatti chenegli Stati Uniti la malattia di Alzheimer è, alpari con le malattie cerebrovascolari, la terzacausa di morte, e stime italiane riportano chetra gli anziani la demenza con il suo 31,7%rappresenta la prima causa di morte.Alla luce di questi dati assumono rilevanteimportanza gli istituti della interdizione edella inabilitazione in quanto collocano ilsoggetto in un particolare "status" in seno allacollettività (1). Effetto della interdizione edella inabilitazione è la collocazione del sog-getto in posizione negativa; l'incapace, inconseguenza della sua infermità, è un mino-rato giuridico, ossia un soggetto a capacità ri-dotta. L'importanza di questi istituti nonsfugge al legislatore, e quindi, le relative nor-me, pur collocate nel codice civile, sovrastanola normativa di diritto privato, assumendovalore di norme di ordine pubblico, quindiinderogabili. Anche sul piano processuale del

resto, la trattazione delle cause di interdizio-ne e di inabilitazione, benché condotte con ilrito civile ordinario, esigono la partecipazio-ne del Pubblico Ministero.La riduzione della capacità civile si presentasotto due distinte figure: l'una con riferimen-to alla capacità giuridica e l'altra con riferi-mento alla capacità ad agire. La capacità giu-ridica (2-3) è la capacità fondamentale e siidentifica nella attitudine ad essere soggettodi posizioni giuridiche e cioè essere punto diriferimento di diritti e doveri; la si acquisiscecon la nascita e con essa tutti i diritti dellapersona (diritto alla vita, all'incolumità, al ri-spetto, all'onore, al nome, ad ereditare, a rice-vere in donazione ecc.). Nessun uomo puòperdere la capacità giuridica nella sua totalitàin quanto la civiltà moderna non ammette laschiavitù come status giuridico. Si può per-dere, però, la capacità giuridica rispetto aqualche rapporto: l'interdetto non può con-trarre matrimonio né fare testamento, puòereditare ma non può disporre delle sue so-stanze quando egli morirà.La capacità ad agire consiste nella idoneitàdel soggetto giuridico ad esercitare i poteriinerenti ai diritti di cui sia titolare. Si tratta diuna qualità che non tutti i soggetti forniti dicapacità giuridica possiedono. Per esempiol'interdetto giudiziale per demenza senile po-trà vendere un suo bene con la rappresentan-za del suo tutore, mentre non potrà in modoassoluto contrarre matrimonio.

INTERDIZIONE

Art. 414 del Codice Civile (4-5): Persone chedevono essere interdette.Il maggiore di età e il minore emancipato i quali sitrovano in condizioni di abituale infermità dimente che li rende incapaci di provvedere ai propriinteressi devono essere interdetti.

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EDITORIALE

L’INTERDIZIONE E L’INABILITAZIONE NEL SOGGETTO CON DEMENZA SENILE

Marci M.

Unità Operativa di GeriatriaOspedale �A. Angelucci�, Subiaco ASL Roma G

Corrispondenza:Dott. Massimo MarciTel:07748115342e-mail: [email protected]

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La rubrica dell'art. 414 del C.C. contiene giàuna significativa indicazione. Si tratta di unanorma di ordine pubblico. Quelle persone "de-vono" essere interdette. È evidente la diversitàdalla rubrica che forma il titolo dell'art. 415:persone che "possono" essere inabilitate.Si possono articolare le condizioni che rendo-no attuale il poteredovere di pronuncia del-l'interdizione (6-7) nei seguenti punti:1) deve trattarsi di persona di maggiore età;2) deve trattarsi di persona inferma di mente;3) l'infermità mentale deve essere abituale;4) l'infermità deve essere di tale portata darendere il soggetto incapace di provvedere aipropri interessi.Riguardo al primo punto il nuovo diritto di fa-miglia ha fissato al compimento del diciottesi-mo anno il raggiungimento della maggiore età.Per il secondo punto la legge richiede, affin-ché si possa procedere alla interdizione diuna persona, che vi sia una infermità di men-te da qualunque causa determinata; se è veroche ogni malattia mentale costituisce una in-fermità, non è vero il reciproco, ossia non tut-te le infermità costituiscono malattia: peresempio l'ipnosi è indubbiamente una infer-mità, ma non una malattia (8).L'infermità mentale prescinde, invece, da unatipizzazione dello stato morboso e della suatendenza evolutiva, in quanto, l'alterazionementale può anche derivare da stati patologi-ci che non interessano il sistema nervoso.Nel caso della demenza senile, avendo que-sta un substrato ed un quadro clinico ben de-finito, non vi è dubbio che trattasi di malat-tia, rientrando quindi nel concetto di infer-mità mentale.Altro requisito caratterizzante l'infermità dimente è la sua abitualità; l'alterazione patolo-gica deve mostrarsi con il carattere della du-rata nel tempo; e la demenza senile proprioper le sue caratteristiche è progressiva.Incapacità di provvedere ai propri interessi:l'infermità di mente, nel ripercuotersi nell'a-zione del soggetto, coinvolge in modo più omeno intenso, la sfera degli interessi propridel soggetto stesso.Con il termine "interessi" generalmente si in-tende il significato più ampio. Vi si compren-dono non solo gli affari di tipo economico epatrimoniale, ma tutte le attività della vita ci-vile nelle loro espressioni giuridicamente ri-levanti, quali la cura della persona, l'adempi-mento dei doveri familiari e pubblici; secon-

do Gerin i "propri interessi" sono quelli equie moralmente giustificati che si fondano conquelli della famiglia e della società. La tesi èsuffragata, oltre che dal testo legislativo, ovesi discorre di "interessi" non di "interessi pa-trimoniali", anche dalla ratio dell'istituto cheè quella di tutelare la persona sia sotto il pro-filo economicopatrimoniale sia sotto l'aspettofisicomorale.E� stato deciso, che per legittimare la pronun-cia di interdizione è necessario e sufficienteche sia accertato "pure successivamente all'i-stanza" un pericolo attuale (desunto dallecondizioni morbose) di atti pregiudizievoli alpatrimonio dell'interdicendo, anche se nonoccorre la prova che il nocumento si sia giàverificato. Questa ultima opinione sembrapiù aderente alla funzione storica dell'istitutoe all'insegnamento giurisprudenziale secon-do cui la capacità di un soggetto di attendereai propri interessi non va valutata in astrattoma caso per caso, in relazione alla sua perso-nalità, alla sua condizione sociale, alla naturae all'entità degli interessi patrimoniali a suadisposizione ed affidati alla sua gestione.Quindi se nel procedimento di interdizionel'incapacità del soggetto di provvedere ai pro-pri interessi non è determinata dalle condizio-ni psichiche, ma dalla relazione di queste coni concreti interessi patrimoniali dell'interdi-cendo, ne deriva che fra due soggetti affettidalla stessa infermità mentale ma titolari dipatrimoni di diversa rilevanza economica, l'u-no potrebbe presentare le condizioni richiestedalla legge per essere interdetto, l'altro no.

INABILITAZIONE (9)

Art. 415 del Codice Civile (10): Persone chepossono essere inabilitate.Il maggiore di età infermo di mente, lo stato delquale non è talmente grave da dar luogo all'inter-dizione, può essere inabilitato. Possono anche es-sere inabilitati coloro che, per prodigalità o perabuso abituale di bevande alcooliche o di stupefa-centi espongono sé o la loro famiglia a gravi pre-giudizi economici. Possono infine essere inabilita-ti il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla pri-ma infanzia, se non hanno ricevuto una educazio-ne sufficiente, salva l'applicazione dell'art. 414C.C. quando risulta che essi sono del tutto inca-paci di provvedere ai propri interessi.L'inabilitazione agisce sulla capacità di agireriducendo la sfera degli atti che l'individuo

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può compiere in piena autonomia. Mentrel'interdizione elimina la capacità di agire so-stituendo, nell'attività negoziale, l'incapacecon altro soggetto ossia con il tutore, nell'ina-bilitazione la capacità è soltanto limitata agliatti di ordinaria amministrazione, mentre gliatti di straordinaria amministrazione sonoconsentiti con l'adozione di particolari caute-le, tra cui principalmente l'assistenza di uncuratore.L'importanza dell'istituto sta nel riconosci-mento di uno spazio di libertà negoziale del-l'incapace e nella rilevanza, almeno nel pro-gramma, della volontà dello stesso, anche re-lativamente agli atti di straordinaria ammini-strazione.Il curatore ha funzione di assistenza e non disostituzione della volontà dell'incapace, co-me avviene per il tutore dell'interdetto.L'attività del curatore, infatti, non consistenella sostituzione della volontà dell'incapace,ma si risolve nella sola assistenza dello stes-so, per cui mentre la mancata assistenza delcuratore rende l'atto annullabile, la mancanzadel tutore dell'interdetto rende l'atto inesi-stente.Tra le molteplici situazioni quali cause di ina-bilitazione, troviamo la prodigalità o partico-lari comportamenti come l'assunzione di be-vande alcooliche o sostanze stupefacenti.L'inabilitazione trova una sua giustificazionesotto il profilo della necessità di tutela del pa-trimonio del soggetto, legittimando accantoalla limitazione della capacità di agire delmalato mentale anche quella del soggetto col-pito da menomazioni fisiche pur essendo nelpieno dominio delle facoltà volitive. Essa puòcorrettamente definirsi come lo stato giudi-zialmente dichiarato di ridotta capacità diagire di persona che, per le sue condizionimentali o fisiche, non è pienamente in gradodi curare i propri interessi economici.

VALUTAZIONE DELL’INFERMITÀ DI MENTE NEL SOGGETTO CON DEMENZA SENILE

Come è stato riferito i presupposti medicole-gali sui quali va fondato il giudizio di interdi-zione o di inabilitazione sono:� infermità di mente;� abitualità di questa;� incapacità di provvedere ai propri interessi.È evidente che non vi può essere la pronun-

cia di interdizione o di inabilitazione se noncoesistono le tre condizioni. Quale primo pre-supposto andrà valutata l'infermità di mentee la sua abitualità; nella demenza senile ( 11 )si dovrà eseguire una anamnesi mirata, unesame obiettivo, una valutazione funzionale,una valutazione cognitiva mediante tests psi-cometrici, test di laboratorio, esami di neuroi-maging cerebrale come TC ed eventualmenteRM, EEG.Dopo tutto questo se sarà accertata una for-ma demenziale nosologicamente ben defini-ta, non sussisteranno problemi circa l'infer-mità di mente e la sua abitualità; dal collo-quio e dai tests psicometrici si dovrà accerta-re se questa infermità di mente raggiunge ungrado tale da rendere il soggetto totalmente oparzialmente incapace a provvedere ai propriinteressi.Non vi è dubbio che la terza condizione èquella decisiva ai fini del giudizio, in quantopuò verificarsi il caso di una infermità dimente, che pur essendo abituale non è tale daraggiungere l'incapacità di provvedere aipropri interessi.L'indagine sulla infermità mentale non dovràessere limitata alle facoltà intellettive (intelli-genza e memoria), ma deve riguardare anchele facoltà volitive (formazione e manifestazio-ne della volontà), potendo verificarsi dei casidi sufficiente conservazione dell'intellettocon grave decadimento eticosentimentale econ conseguente turbamento dell'atto voliti-vo che dall'affettività è sempre condizionato.L'infermità mentale deve essere la causa fon-damentale dell'incapacità del soggetto ad in-dirizzare, secondo una conseguenza logica, ilproprio comportamento; va altresì tenutoconto che le graduazioni rilevanti sotto il pro-filo medico sono da valutare in relazione aipericoli che il soggetto corre proprio nellasua attività negoziale.In tale ottica la graduazione degli stati di in-capacità riscontrabili va dalla incapacità tota-le a curare i rapporti necessari alla vita di re-lazione a quelle forme di incapacità che con-sentono una certa autonomia. Un criterio diindividuazione dell'infermità mentale rile-vante per i due istituti, sembra essere offertoda un approccio sistematico che tenga contodel tipo di protezione che i provvedimenti as-sicurano ed accertare se il soggetto mantengal'idoneità ad amministrare il proprio patri-monio. Occorre accertare se l'infermità ponga

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o meno chi ne sia affetto in uno stato di inca-pacità generale o parziale a provvedere aipropri interessi; significa, in altri termini, ac-certare se il soggetto mantenga in linea diprincipio l'idoneità ad amministrare il pro-prio patrimonio, rendendosi necessario sol-tanto un controllo sugli atti di maggiore rile-vanza economica.Il riferimento al pericolo economico è insuffi-ciente perché esso è dato presente sia nellainterdizione che nella inabilitazione. È dallaindagine sui rapporti tra intensità della infer-mità mentale e propri interessi che dovrà de-rivare il giudizio relativamente ai provvedi-menti restrittivi della capacità ad agire; ossiasi tratta della proiezione della forma morbo-sa, così configurata, nel mondo del facere, diun procedere rilevante ai fini del diritto,quello relativo agli "interessi". Per cui, puòipotizzarsi il ricorrere di una infermità dimente abituale che per essere priva di riflessisui "propri interessi" si mostra giuridicamen-te irrilevante. Alla luce di tutta la problematica sovraespo-sta ci si meraviglia quando solo attraverso uninterrogatorio da parte del giudice si esprimeuna diagnosi sulle condizioni mentali di uninterdicendo o di un inabilitando; si deve bendire che l'empirismo regna sovrano in tal sor-ta di accertamenti e di questo noi medici non

possiamo che dolerci. Indubbiamente ciò ri-sente ancora delle vecchie, sorpassatissimeconcezioni in tema di "alienazione mentale" edell'erronea convinzione che ogni infermitàdi mente abituale, tale da rendere l'individuoincapace di provvedere i propri interessi,debba balzare evidente agli occhi di ogni pro-fano, solo perché questi si ponga in contatto(attraverso un semplice interrogatorio) con ilsoggetto in esame.Lo stato di mente va valutato con correttametodologia che solo i medici ed in particola-re i geriatri ed i medici legali sono in grado diapplicare; non ci si può giustificare dicendoche l'amministrazione della giustizia mira arendersi conto direttamente dello stato dimente dell'individuo e cerca di evitare a que-st'ultimo una indagine lesiva della sua perso-nalità; qui è in discussione proprio la difesadell'individuo, il suo interesse ad essere sot-tratto ai pericoli di influenze e coercizioni acui l'alterazione psichica lo rende esposto,minacciandolo nel suo patrimonio e nella suaintegrità morale.D'altronde la stessa norma giuridica consenteal giudice di farsi assistere, nell'esame dell'in-terdicendo e dell'inabilitando da un consu-lente tecnico; non ci si spiega quindi come atale disposizione non si ricorra assai più lar-gamente di come avviene in realtà.

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Pianeta Medico

1. BRUSCUCLIA L.: L'interdizione per infermità dimente. Giuffré Ed., Milano, 1983.2. CASSAZIONE CIVILE SEZIONE 1a, 8101955,Presidente Acampora. Zacchia 1958, massima n. 93,commento di A. Carella e A. Semerari.3. CORTE D�APPELLO DI FIRENZE SEZIONE 1a,1011959, Presidente Renis. Zacchia 1959, massiman. 117, commento di A. Semerari.4. CASSAZIONE CIVILE SEZIONE 1a, 371971,Presidente Caporaso. Zacchia 1972, massima n. 430.5. CORTE D'APPELLO DI ROMA SEZIONE 1a,851952, Presidente Cataldi. Zacchia 1952, massiman. 11, commento di C. Gerin.6. GERIN C., ANTONIOTTI F., MERLI S.: MedicinaLegale e delle Assicurazioni. S.E.U., Roma, 1991.

7. LISELLA G.: Interdizione "giudiziale" e tuteladella persona. Ed. Scientifiche Italiane, Napoli,1984.8. DE VINCENTIS G., CALLIERI B., CASTELLANIA.: Trattato di psicopatologia e psichiatria forense.Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1973.9. NAPOLI E.V.: L'inabilitazione. Giuffré Ed.,Milano, 1985.10. CORTE D'APPELLO DI ROMA SEZIONE 1a,2511954, Presidente Manca. Zacchia 1954, massiman. 50, commento G. Franche.11. BONAVITA V., CALTAGIRONE C., CANONI-CO P.L. et al. Malattia di Alzheimer. Documento diConsenso. Giorn. Gerontol 2000; 48: 7591.

BIBLIOGRAFIA

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I malati che si ricoverano nell�Ospedale gene-rale per acuti sono sempre più frequentementeanziani. Questo dato spesso non è interpretatoin maniera corretta. Infatti la presenza massiccia di anziani nel-l�Ospedale viene erroneamente attribuita allacarenza di strutture extraospedaliere. In realtà iricoveri impropri e incongrui vi sono, ma nonhanno in questo senso una responsabilità de-terminante: i malati anziani sono così numero-si negli Ospedali, perché gli anziani sono sem-pre di più e ad ammalarsi sono soprattutto lepersone di età avanzata. Attualmente gli anziani, che nei Paesi industria-lizzati rappresentano meno del 20% della popo-lazione generale (in Italia il 18%), costituisconoil 40% della popolazione ospedaliera, se la per-centuale è riferita ai ricoveri propriamente detti(valutati come il numero di ingressi e/o dimis-sioni) e il 50-60% se si considerano le giornateospedaliere (percentuale degli ultra65enni pre-senti in Ospedale in un determinato momento).I malati anziani sono spesso curati male, a vol-te in maniera vergognosa, in numerosi repartiOspedalieri. Non si tratta di un�affermazione generica epolemica, esistendo al riguardo dati inequi-vocabili. L�espressione �Ospedale fabbrica di cronici�può sembrare una frase provocatoria, corri-sponde invece ad una triste realtà sanitaria daGeriatri giustamente sottolineata, ampiamentedocumentata e ritenuta sconvolgente. Se non vi è un approccio clinico globale, tipicodella metodologia geriatrica, i malati anzianivengono ulteriormente cronicizzati durante ladegenza ospedaliera. Infatti un autorevole studio (1) eseguito su

1181 pazienti anziani (ultra65enni) ospedaliz-zati prima del ricovero, ha messo in evidenzache il 17% di essi ha perso tale capacità propriodurante e a causa della degenza in Ospedale. Inoltre una verifica eseguita a tre mesi di di-stanza dalla dimissione ospedaliera ha eviden-ziato che questa perdita di autonomia è risulta-ta correlata con una più alta necessità di istitu-zionalizzazione e una maggiore mortalità. Questi inconvenienti non si verificano neiReparti specialistici di Geriatria dove, tra l�al-tro, non si assiste all�impiego indiscriminatodella cateterizzazione vescicale. Il cateterismo vescicale è indispensabile in pre-senza di ritenzione urinaria e consigliabile soloin pochi altri casi. I bambini sono tutti incontinenti fino all�età didue anni, ma a nessuno viene in mente di ap-plicare loro un catetere vescicale perché nonsono in grado di controllare la minzione. Una indagine condotta su 60 Ospedali italiani,nell�ambito del Progetto IVU promosso dalComitato Nazionale per la valutazione dellaqualità dei servizi sanitari, ha evidenziato chesu 13.402 pazienti studiati, il 18% era sottopo-sto a cateterismo vesciacale in un determinatogiorno (2).Le motivazioni più comuni sono risultate lagestione del paziente chirurgico nella imme-diata fase postoperatoria, ma soprattutto �l�as-sistenza� al paziente anziano compromessofunzionalmente ed incontinente. Questa pratica è particolarmente censurabilenella persona anziana, se si considera che nonraramente viene praticata, soprattutto neipronti soccorsi ospedalieri, nel solo timore cheil paziente possa essere incontinente, effettuan-do pertanto una sorta di prevenzione dell�im-brattamento con urine. La possibilità di mantenere e di incrementarel�efficienza psico-fisica di un paziente anzianoricoverato in Ospedale non solo deve esseresempre tenuta presente, ma dovrà costituire unaspetto irrinunciabile e costante della prassimedica ospedaliera dei prossimi anni. Anche per riduzioni avanzatissime dell�autosuf-

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L’INDISPENSABILITÀ DELLA DIVISIONEDI GERIATRIA NELL’OSPEDALE GENERALE

Palleschi M.

Primario f.r.I Divisione di GeriatriaComplesso Ospedaliero “S. Giovanni-Addolorata”, Roma

Corrispondenza:Prof. Massimo PalleschiVia Apuania, 1300162 Roma

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BIBLIOGRAFIA

ficienza vi sono sempre degli spazi di recupero.È questa una delle ragioni per la quale ritengoche il concetto di cronicità debba essere sotto-posto ad una profonda revisione (3). Io ritengo, inoltre, che nelle forme più gravidi sindrome da immobilizzazione vi sia co-munque un errore di impostazione consisten-te nella mancanza di un valido programmaantiinvalidante. In presenza di piaghe da de-cubito, contratture, posizioni viziate, disidra-tazione, cateterizzazione vescicale, ecc., vi so-no sempre delle responsabilità mediche checonferiscono un carattere iatrogeno al quadromorboso (Sindrome iatrogena da immobi-lizzazione secondo Palleschi). La metodolo-gia geriatrica nel mantenere ed incrementarel�autosufficienza del paziente anziano, ovvia-mente, non si esaurisce nel semplice allonta-namento dal letto del malato. Pur tuttavia èin questo settore che si ritrovano ancora i piùfrequenti errori nella prassi assistenzialeospedaliera abituale. Io credo che tra i numerosi fattori che favori-scono la cronicità, così come comunemente èintesa, vi è da menzionare la mancata stan-dardizzazione internazionale della duratadella prescrizione del riposo assoluto a letto

nelle varie condizioni morbose nelle quali èindicata (4,5). Un settore nel quale si è rivelata estremamenteutile la figura del Geriatra all�interno del-l�Ospedale Generale è rappresentato dal suoruolo peculiare nell�ambito di numerosi pro-blemi di farmacoterapia geriatrica. La terapia farmacologica è certamente diffe-renziata in età senileI rischi di danno iatrogeno per gli anziani du-rante il ricovero ospedaliero in ambiente nongeriatrico sono molteplici. Negli ultimi anni le più prestigiose RivisteScientifiche del mondo hanno pubblicato unaserie di lavori controllati che dimostrano la va-lidità della Geriatria e del suo approccio clinicomultidimensionale (6-12). Un recentissimo studio controllato, condottoda Cohen et al. (13) su 1388 pazienti ultra65en-ni che venivano seguiti nei reparti o negli am-bulatori di Geriatria, ha evidenziato un miglio-ramento dello stato funzionale e della capacitàcognitiva rispetto al gruppo controllo seguitoda reparti o ambulatori di medicina interna. Questi e numerosi altri dati non potranno nonessere tenuti presenti nella programmazionesanitaria dei prossimi anni.

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Possiamo definire terminale un paziente af-fetto da una malattia a prognosi infausta, cheha una aspettativa di vita limitata, ma nonnecessariamente molto breve, quando le curespecifiche volte alla guarigione o al controllodell�evoluzione della malattia non trovanopiù indicazione, o quando egli stesso, consa-pevole della sua situazione, chiede che que-ste vengano sospese. Ciò non significa, ov-viamente, che l��incurabile� non necessiti dicure appropriate. In effetti la terapia palliati-va è la cura ( in inglese to care= prendersi cu-ra di) attiva e totale del paziente nel momen-to in cui la sua malattia non è più responsivaal trattamento curativo (in inglese to cure =curare una malattia) e il controllo del dolore edegli altri sintomi e dei problemi psicologici,sociali e spirituali diventa la cosa più impor-tante. Il suo fine è raggiungere la migliorequalità della vita possibile per il paziente e lasua famiglia, offrendo un sistema di supportoper affrontare la malattia e il lutto(1).È di rilevante importanza l� applicazione dialcuni aspetti delle cure palliative (trattamen-to del dolore, comunicazione delle informa-zioni), precocemente nel corso della malattia,in associazione al trattamento specifico (2, 3).La terapia palliativa afferma la vita e accettala morte come un evento fisiologico (�) nonaffretta ne pospone la morte (�) offre un sup-porto per aiutare il paziente a vivere il più at-tivamente possibile fino alla morte � (4).In questo modo il malato inguaribile non èpiù un malato incurabile.I pazienti con una malattia terminale sono sog-getti a sconforto e stress mentale, hanno paurache lo sconforto si protrarrà e che nessuno po-trà controllarlo, quindi, ridurre lo sconforto erassicurare il paziente che esso verrà controlla-to, consente loro di vivere più completamentepossibile e di focalizzarsi su l�unica problema-tica rappresentata dall�approccio alla morte.

Quando ci si attende che la sopravvivenzasarà ridotta si impone la scelta del trattamen-to in base alla gravità dei sintomi. Un sinto-mo può avere diverse cause e i pazienti stessipossono rispondere in maniera differente allaterapia in relazione al deterioramento delleloro condizioni, i trattamenti pertanto devo-no essere strettamente controllati e continua-mente rivalutati.Tra i sintomi fisici di frequente riscontro neipazienti terminali si annoverano il dolore, ladispnea, l�anoressia, la nausea e il vomito, lastipsi e le ulcere da decubito.Il dolore grave colpisce circa la metà dei pa-zienti terminali per cancro. Il trattamento de-ve essere comunque individualizzato perchèi pazienti percepiscono il dolore in manieradiversa. Deve essere scelto l�analgesico piùdisponibile e appropriato e deve essere som-ministrato utilizzando la via meno invasivapossibile. L�analgesico va scelto in base all�in-tensità del dolore e somministrato regolar-mente piuttosto che al bisogno.Nei casi di dolore grave, persistente, la ca-pacità di sentire dolore può essere eliminatamediante tecniche neurochirurgiche o ane-stetici.La dispnea per i pazienti morenti è un sinto-mo temuto e sconfortante deve essere sop-pressa quando la sua origine fisiologica puòessere individuata. Quando si verifica affanno, può essere utiliz-zato un oppiaceo per rallentare la respirazio-ne e alleviare i sintomi cronici lievi, permet-tendo così al paziente di dormire più confor-tevolmente.L�anoressia è, di solito, più sconfortante per ifamiliari del paziente che per il paziente stes-so. Solo raramente si ricorre alla nutrizioneenterale o parenterale. L�assunzione naturaledi cibi semplici da deglutire, come sorbetti egelatina, accompagnati da piccoli sorsi di ac-qua, si rivelano spesso più appropriati.Nausea e vomito possono essere causati dastipsi, ridotto svuotamento gastrico ostruzio-ne intestinale, effetti centrali degli oppiacei,

ASSISTENZA AL MALATO TERMINALE

Zuccaro S.M., Madaio R.A., Gramillano B.

Divisione di Geriatria Servizio di Assistenza Domiciliare OncologicaOspedale Israelitico, Roma

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aumento della pressione intracranica, gastri-te, ulcera peptica, ipercalcemia, uremia o tos-sicità farmacologica. Trattamenti specificipossono essere giustificati se la causa è facileda trattare, specialmente se il trattamento fasentire meglio il paziente. Come gli analgesi-ci per il controllo del dolore, gli antiemeticidevono essere somministrati regolarmenteper prevenire la nausea e migliorare il benes-sere del paziente.La stipsi è frequente tra i pazienti terminalipoichè essi sono inattivi, consumano pochefibre alimentari, sono disidratati o ricevonooppiacei o farmaci anticolinergici. I lassatividevono essere somministrati profilatticamen-te per prevenire la formazione di fecalomi.Le ulcere da decubito colpiscono molti pa-zienti terminali perchè immobili, scarsamen-te nutriti e cachettici. La misura preventivapiù importante è la rotazione del pazienteogni due ore, l�uso di materassi speciali o diun letto gonfiabile ad aria.Ai sintomi fisici si aggiungono sintomi psico-logici quali confusione, tristezza e depressio-ne, ansia e agitazione, insonnia, stress e le re-lative problematiche.La confusione è frequente durante lo stadioterminale della malattia. Le cause che la deter-minano includono la terapia farmacologica, l�i-possia, i disturbi metabolici e i disturbi intrin-seci del sistema nervoso centrale. La confusio-ne è trattata se la causa può essere determinatae se il trattamento consente al paziente di co-municare in maniera più cosciente con familia-ri ed amici.La tristezza è presente in molti pazienti termi-nali, può essere dovuta a rammarico circa la vi-ta o a preoccupazione per problemi legali, so-ciali o economici. Fornire supporto psicologicoe permettere ad un paziente di esprimere leproprie preoccupazioni e i propri sentimenti èil protocollo migliore di comportamento.Devono essere a questo proposito valutati se-gni vegetativi, inclusi i disturbi del sonno; puòessere giustificata la farmacoterapia.L�ansia e l�agitazione possono essere conse-guenti a situazioni gestibili quali il dolore, il di-stress respiratorio, la deprivazione del sonno,l�eccessivo riempimento vescicale, i fecalomi,la nausea o la terapia farmacologica. La terapiadi supporto, compreso l�ascoltare e il parlarecon i pazienti, deve precedere e supportare laterapia farmacologica.La depressione e l�ansia sono le cause princi-

pali dell�insonnia,come anche il dolore, lamancanza di attività, i disturbi metabolici e ifarmaci. Tali cause devono essere determinatee, quando possibile, trattate o modificate.Terapie di rilassamento, come la meditazione,il rilassamento muscolare progressivo, eserci-zi di respirazione profonda, possono essereutili, come anche la terapia farmacologica.All�avvicinarsi della morte i pazienti possonosentire stress dovuto alla paura dell�abbando-no e della separazione, ansia, sentimenti diperdita della speranza o anche dell�autostima,poichè la loro immagine corporea è alterata. Ifamiliari che assistono il paziente possono aloro volta presentare stress fisico ed emotivo.Di solito, il trattamento migliore per i pazientiterminali e per i familiari con stress è la com-passione, l�informazione e, quando opportu-no, la psicoterapia.A tutto ciò si aggiungono problematiche dicarattere spirituale e strettamente legate almomento della morte.I pazienti terminali spesso chiedono il signifi-cato della loro vita, chi sono realmente, per-chè la malattia li ha colpiti e cosa accadràquando moriranno. Possono chiedere dell�esi-stenza di Dio e del suo amore o possono sen-tirsi abbandonati da Dio. In questi casi nonsempre hanno bisogno di sperare in una cura,ma piuttosto di sperare di avere il tempo diriconciliarsi con i propri cari, condividere iltempo con la famiglia, finire un progetto im-portante o fare pace con Dio. I pazienti religiosi devono avere l�opportunitàdi pregare, leggere letture e rituali religiosi edi ricevere la benedizione.Gli ultimi momenti della vita possono avereeffetti duraturi su familiari amici e assistenti.Perciò, quando la morte è imminente il perso-nale deve sforzarsi di rendere il momento del-la morte il più confortevole e ricco di signifi-cato possibile e aiutare i familiari a prepararsi,dicendo loro con esattezza ciò che accadrà almomento della morte del paziente. Se ci siaspetta che il paziente muoia a casa, si devedire loro chi chiamare (il medico) e chi nonchiamare (l�ambulanza), e come ottenere con-sigli legali e organizzare il servizio.I membri del gruppo di assistenza devono as-sicurarsi che le necessità psicologiche e spiri-tuali dei familiari siano soddisfatte, garanten-do loro un supporto appropriato.In Italia le realtà operanti in questo settore(principalmente rappresentate da strutture di

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assistenza domiciliare) sono sorte negli ulti-mi decenni da iniziative diversificate: struttu-re ospedaliere (Divisioni di Oncologia eTerapia Antalgica ), associazioni di volonta-riato (spesso in convenzione con il SSN), ser-vizi territoriali delle ULSS.Alcune Regioni (Lombardia, Piemonte,Emilia Romagna), attraverso atti di indirizzoe coordinamento, hanno istituito Unità oServizi di cure Palliative variamente articola-te sul territorio tra territorio e ospedale (5).La recente legislazione illustra il programmanazionale per la realizzazione di strutture perle cure palliative nel nostro paese e prospettauna ricomposizione organizzativa di funzioniospedaliere e territoriali insieme alla risorsadella solidarietà sociale (6, 7).La rete si articola nelle seguenti linee organiz-zative: ambulatori, assistenza domiciliare inte-grata (distrettuale) e specialistica (ospedaliera),ricovero ospedaliero in regime ordinario e di

day hospital, ricovero nei centri residenziali dicure palliative-hospice.In base ad adeguati criteri di accesso, è previ-sta una valutazione e presa in carico del pa-ziente con formulazione di un piano terapeuti-co personalizzato attraverso il coinvolgimentodi varie figure professionali (mediche, infer-mieristiche, psicologiche, sociali).Sono di grande importanza i programmi di ve-rifica della qualità della assistenza attraverso ilriferimento a indicatori di struttura (composi-zione dell�équipe, accessibilità telefonica, pos-sibilità di esecuzione di particolari procedurediagnostico-terapeutiche) di processo (volumedi attivitàdel servizio, modalità del lavoro diéquipe, collaborazione col MMG, interventodei volontari), di risultato (strumenti di valuta-zione della qualità della vita, questionari disoddisfazione familiari/paziente, valutazionedel lavoro di équipe).

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INTRODUZIONE

L�incremento dell�età media della popolazio-ne a cui si è assistito negli ultimi decenni, so-prattutto nei paesi occidentali, ha indiretta-mente portato i sanitari ad occuparsi di unnumero sempre maggiore di quadri morbosispecifici della senescenza. Tra gli ultrasessan-tacinquenni, i disturbi metabolici sono am-piamente rappresentati; in questo ambito me-ritano un attenzione particolare le sindromiipoglicemiche.Alla base di questo interesse coesistono sia lamaggior morbilità del soggetto anziano (e diconseguenza, la più alta probabilità di intera-zioni farmacologiche anche con presidi nondirettamente destinati al controllo glícemico)sia le modificazioni del metabolismo glicidi-co correlate all�età e le variate abitudini ali-mentari durante l�invecchiamento.Il glucosio è il substrato fondamentale per ilmetabolismo e la funzione cerebrale ed è l�uni-co substrato endogeno in grado di assicurareenergia ai neuroni sebbene in condizioni speri-mentali, il cervello possa utilizzare substratidiversi (chetoni o lattato).Sul piano metabolico il cervello dipende daun apporto ematico costante di glucosio.Nell�anziano, l�apporto cerebrale di questosubstrato è più problematico che nel giovanegiacchè la concomitante presenza di arterio-patia obliterante dei vasi epiaortici può deter-minare riduzione del flusso ematico. Dal mo-mento che l�apporto di glucosio cerebrale èfunzione della glicemia (arteriosa) e del flussoematico, una riduzione di quest�ultimo, deveessere compensato da un aumento del primo(o da una sua non diminuizione) affinchè nonsi verifichi neuroglicopenia (1, 2).Con l�aumentare dell�età si verifica un lentoma continuo deterioramento dell�equilibrioglicometabolico che tende a divenire precariopredisponendo l�anziano sia al diabete che

all�ipoglicemia - anche solo relativa - anche inassenza di trattamenti farmacologici ipoglice-mizzanti (3).Le cause di questo lento declino dell�omeo-stasi glicemica e metabolica sono chiare soloin parte (Fig. 1).

SINTOMI DI IPOGLICEMIA

Il quadro clinico dell�ipoglicemia nell�anzianoè caratterizzato dalla variabilità e spesso dallaaspecificità dei sintomi, spesso minimi, anchea valori di glicemia estremamente bassi tantoda confondersi con sfumate sindromi psico-neurologiche o di incerto significato. La perce-zione dei disturbi da parte del malato può es-sere attutita e, inoltre, non necessariamente siassiste ad una pronta regressione della sinto-matologia dopo somministrazione di glucosio.La variabilità del �corteo sintomatologico� èdovuta alla neuroglicopenia che si verificaquando la glicemia �cade� al di sotto del va-lore di 45 mg/dl senza che si realizzi unapronta risposta degli ormoni della controre-golazione cosicchè si instaurano sintomi neu-rologici aspecifici e nei casi più estremi defi-cit focali fino al coma (4).L�esperienza proveniente da studi in cui l�i-poglicemia era indotta sperimentalmente inanziani non diabetici, la �consapevolezzadell�imminente verificarsi di qualcosa dispiacevole� (unwareness degli autori anglo-sassoni) era scarsa, con una minore percezio-ne dei sintomi �autonomici� riferiti come diminore intensità rispetto a quanto riportatoda giovani adulti sani. Negli anziani diabeti-ci, la ridotta capacità di ricognizione dei sin-tomi può essere messa in relazione anche aduna inadeguata educazione e preparazioneall��evento ipoglicemia� (5, 6,7).Uno studio condotto su una coorte di anzianidiabetici in Manchester, in terapia insulinicae/o con ipoglicemizzanti (OHA) rivelava chei sintomi di ipoglicemia più comunemente ri-conosciuti erano non specifici ed includeva-no: sensazione di debolezza e svenimento, in-

L’IPOGLICEMIA E L’ ANZIANO

Fiore V.

Divisione di Medicina InternaOspedale “Angelucci” Subiaco; ASL Roma G.

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stabilità, vertigini e sonnolenza (6,8). Allo stesso modo uno studio retrospettivo inEdimburgo che riguardava anziani con dia-bete di tipo 2 (T2DM) in terapia con insulinaverificava come più frequenti sintomi: l�insta-bilità di equilibrio, la scarsa concentrazione euna lieve sensazione di �testa vuota�. Inoltre,venivano ampiamente segnalati il tremore(71%) e la sudorazione (75%) (6,9). L�analisi fattoriale dei sintomi di ipoglicemiain persone anziane ha rivelato distinti rag-gruppamenti di sintomi neuroglicopenici eautonomici mentre la cefalea e la nausea, tipi-che espressioni dell�ipoglicemia dei giovaniadulti, sono rare (6).Matyka et al comparavano le risposte ad unamoderata ipoglicemia in non diabetici anzia-ni e giovani. Negli anziani, la soglia glicemi-ca alla quale si ha consapevolezza di ipogli-cemia e quella per l�inizio di disfunzione co-gnitiva sono simultanee, a conferma di unpiù alto rischio di sviluppare neuroglicope-nia poiché la reazione di allarme dell�ipogli-cemia non precede l�insorgenza della disfun-zione cognitiva. Non è possibile in tal modoprendere le appropriate precauzioni primache ci sia la progressione alla confusione di-sabilitante e alla incoordinazione neuro-psi-chica associata alla neuroglicopenia (10).In definitiva, l�anziano ha una minore perce-zione dei sintomi dell�ipoglicemia, specie diquelli autonomici. Tale difetto è rilevabile siaper quanto riguarda la �soglia� glicemica(l�anziano li avverte a una glicemia più bassadel normale), sia per quanto riguarda l�inten-

sità (ridotta nell�anziano). Riguardo alla fun-zione cognitiva, è stato dimostrato che il suodeterioramento, nell�anziano, inizia prima(cioè ad una glicemia più alta) che nel giova-ne. È verosimile, anche se non dimostrato, chele risposte di ormoni, sintomi e deterioramen-to della funzione cognitiva dopo alcune ipo-glicemie precedenti nell�anziano diano luogoallo stesso quadro di �hypoglycaemia unawa-reness� descritta nel giovane (6,11). Questo fe-nomeno va quindi tenuto presente ogni qualvolta un anziano diabetico venga trattato confarmaci ipoglicemizzanti orali o insulina (11).Quanto detto ha una grande rilevanza clinicagiacchè la preminenza di sintomi neurologicidurante ipoglicemia in persone anziane puòerroneamente essere interpretata come even-to cardiocircolatorio acuto (ischemia cerebra-le transitoria, insufficienza vertebro-basilare,attacco vaso-vagale o aritmia cardiaca). La severa caduta ipoglicemica rimane quindiuna possibilità da tenere presente nella dia-gnosi differenziale di fronte ad un pazienteanziano in stato stuporoso o comatoso.Di questo avviso è Mori che raccomanda aimedici emergentisti di considerare l�ipoglice-mia nella diagnosi differenziale dello stuporee del coma negli anziani anche in assenza disomministrazione di farmaci antidiabetici;giacchè possono essere fattori predisponentila malnutrizione dovuta a malattie croniche ela disfunzione epatica e renale oltre che unanon corretta gestione dell�alimentazione (12).La mancata identificazione dello �stress ipo-glicemico� può indirizzare il sanitario a ma-

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Fig. 1 – Fattori che influenzano l’equilibrio glicemico nell’anziano.

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novre e/o a procedimenti diagnostici costosi,fuorvianti e non ultimo, dannosi per il pa-ziente stesso. Certo è che i dati scientifici anostra disposizione anche se non numerosisono indicativi: l�ipoglicemia nell�anziano èsottostimata (6).L�analisi retrospettiva dei ricoveri ospedalierinei primi 6 mesi del 2000 nel nostro Repartodi Emergenza confermava questo �trend�con una statisticamente significativa inciden-za di ricoveri per vasculopatie cerebrali inluogo di severe ipoglicemie (4).Le manifestazioni neuroglicopeniche dell�i-poglicemia possono inoltre essere confusecon eventi primitivamente neurologici comenei casi in cui si hanno episodi di emiparesi.D�altra parte l�ipoglicemia negli anziani ul-traottantenni, se non prontamente ricono-sciuta può essere realmente causa di severodanno cerebrale tanto da determinare segni esintomi focali (emiparesi) (5). Concomitanti disturbi circolatori causati dadifetti di pompa o da arteriosclerosi, possonorendere critico l�apporto ematico a livello ce-rebrale. Il cattivo apporto di glucosio, comeprecedentemente detto, in una situazione didifettoso apporto ematico per patologia va-scolare concomitante, può essere motivo disofferenza cerebrale: ovviamente nei soggettianziani questa condizione appare particolar-mente evidente per la più estesa arterioscle-rosi, per condizioni morbose concomitanti eper multiple carenze nutrizionali (15,16).Una componente rilevante nell�insorgenzadel deficit neurologico transitorio viene inve-ce attribuita da Silas allo spasmo vascolarepiù facile ad insorgere nell�età anziana (19).L�importanza di effettuare una rapida valuta-zione della glicemia con il verificarsi dei pri-mi segni di emiplegia appare evidente; infattise riconosciuta con tempestività la condizio-ne di ipoglicemia, tutto il quadro clinico puòessere corretto con la somministrazione diglucosio endovena.

L’EZIOLOGIA

Dati relativi all�omestasi glico-metabolica indi-viduano modificazioni sin dalla III°-IV° deca-de di vita con una tendenza progressiva al de-terioramento durante la fase senile. Nel corsodegli anni si assiste alla perdita di quel sottileequilibrio esistente tra secrezione insulinica,produzione epatica di glucosio e utilizzazione

periferica di glucosio insulino-mediata. Nonbisogna dimenticare, inoltre che l�anziano hafrequentemente un�alterazione dell�assorbi-mento gastroenterico anche se non strettamen-te legato a gravi patologie in atto. Sicuramentela malnutrizione da malattie croniche e la fi-siologica involuzione del metabolismo epaticoe renale possono essere fattori predisponenti aslatentizzare l�ipoglicemia (19).È sicuramente da non sottovalutare la ridu-zione della massa muscolare tipica dei sog-getti anziani legata a varie cause: meccanismidi fisiologica involuzione, riduzione dell�atti-vità fisica, riduzione della quota di nutrienti,in particolare di minerali, alterazioni metabo-liche. La riduzione della massa muscolare av-viene a spese della componente adiposa chetende ad avere un incremento relativo; tutta-via va precisato che se si prende in considera-zione una popolazione come quella diabetica,l�obesità frequentemente associata al diabeti-co di tipo 2 più giovane non è così comunetra i diabetici anziani, a conferma di una per-dita netta della quota muscolare (19).La riduzione della massa muscolare rende ra-gione di una ridotta captazione del glucosio in-sulino-mediata; poiché il ricambio proteico èinfluenzato dall�insulina, possibili variazioninel pattern di secrezione e/o di sensibilità so-no stati chiamati in causa. I dati in letteraturasembrerebbero indicare che il numero dei re-cettori per l�insulina è praticamente immutatonegli anni così come la sensibilità insulinica neiconfronti del metabolismo proteico, sia chevenga espressa per il peso corporeo che per lamassa magra. Tale normalità riguarda sia l�ef-fetto soppressivo dell�insulina sulla degrada-zione proteica che la stimolazione dell�ossida-zione della leucina osservata in presenza diiperaminoacidemia ed iperinsulinemia. Sicchè,il decremento della massa magra nell�invec-chiamento non pare dovuto a difetti nell�effettodell�insulina (20). È stato pure preso in consi-derazione un difetto nella dinamica postrecet-toriale tuttavia non confermato a dimostrazio-ne della ancora non univocità di vedute (21).

IPOGLICEMIA E DIABETICO ANZIANO

La causa più frequente di ipoglicemia nell�an-ziano è una terapia inappropriata del diabetemellito. Tuttavia è necessario distinguere frala forma di diabete di tipo 1 ad esordio giova-nile, insulino-dipendente (T1DM) e di tipo 2

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(T2DM) nella forma T1DM è importante chela terapia insulinica mimi il più possibile la fi-siologia (insulina regolare ai tre pasti, insulinaad azione in tarda serata -bed time -) allo sco-po non di ottimizzare l�HbA1c, ma di preve-nire l�ipoglicemia. Occorre tenere presente, in-fatti, che i diabetici con T1DM nel periodo se-nile hanno una elevata probabilità di esseregravati da complicanze micro e/o macroan-giopatiche in misura superiore a quella diT2DM invecchiati o con diabete senile; questopuò voler dire minore capacità di avvertire isintomi adrenergici della reazione ipoglicemi-ca. Qualora invece, ci si trovi nella condizionedi dover limitare il fabbisogno insulinico a 1 o2 somministrazoni (utilizzando insuline ritar-do o premiscelate) è necessario che la glice-mia 4-6 h dopo l�iniezione sia mantenuta al disopra dei 150-160 mg/dl al fine di mantenereuna glicemia di �sicurezza�.Nel T2DM esiste un ritmo circadiano dellaglicemia con elevazione nelle prime ore delgiorno e decremento nel tardo pomeriggio.Questo fenomeno è spesso ignorato nellapratica clinica e può spiegare frequenti episo-di di ipoglicemia (11,17,21).Peraltro, la maggiore incidenza di episodiipoglicemici nei diabetici anziani non è da ri-condurre unicamente agli errori terapeuticigiacché esistono altre motivazioni non ancorachiarite completamente; abbiamo già citatocirca la possibilità che i segni adrenergici del-l�ipoglicemia siano del tutto assenti, masche-rati da terapie o patologie concomitanti. Pochi sono gli studi che hanno confrontato lerisposte di ormoni controregolatori, dei sinto-mi e del deterioramento della funzione co-gnitiva nel soggetto anziano (normale e nondiabetico) rispetto al soggetto giovane. In an-ziani sani che diabetici la risposta controrego-latoria alla caduta glicemica sperimentalmen-te indotta era pressoché sovrapponibile perquanto concerne l�adrenalina e la noradrena-lina normale (18,10); mentre si osservava undiscreto rallentamento nella cinetica della ri-sposta del GH e del cortisolo. Né d�altra par-te esiste unità di vedute sulla risposta delglucagone che viene osservata ridotta (22, 10)ma anche normale (10).Altro difetto osservato nel diabetico anzianoal contrario del giovane è la mancanza deldawn phenomenon caratterizzato da un�iper-glicemia nelle prime ore della mattina moltoprobabilmente conseguente al picco secreto-

rio notturno del GH: poiché tale picco secre-torio del GH è risultato assente in tutti i sog-getti anziani ed in grandissima parte di quellidiabetici esaminati, è stata quindi postulataun�alterata regolazione del metabolismo gli-cidico notturno a causa del mancato stimoloiperglicemico di tale ormone (18).La prima conseguenza di quanto detto è lanecessità di utilizzare molecole a più brevedurata d�azione introducendo il concetto diuna terapia sempre più personalizzata in-staurata e gestita da personale specialistico.Vale la pena di ricordare come gli anziani ab-biano necessità di seguire schemi terapeuticiappropriati che li proteggano al massimo dainvolontari errori di assunzione dei farmaci.

IPOGLICEMIE ASSOCIATE A TUMORI

Una caduta dei livelli glicemici può essere laconseguenza della presenza di tumori chepossono essere insulino secernenti a sedepancreatica, di frequenza rara nell�anziano,così come a sede extrapancreatica (18). Nelcaso degli insulinomi l�ipoglicemia è legataalla iperincrezione di insulina; nei rimanentitumori extrapancreatici l�ipoglicemia apparein relazione a diversi meccanismi (23).Nei grandi tumori mesenchimali è noto chela causa dell�ipoglicemia è stata ricondotta al-la produzione neoplastica di IGFII; sebbenele ipoglicemie che derivano da tumori extra-pancreatici non necessariamente sono asso-ciate ad elevati livelli di IGFII o iperreattivitàrecettoriale e questi non rappresenta l�unicomeccanismo. Infatti la presenza di metastasiepatiche determina riduzione della riservadel glicogeno e della quantità di glucagone einsulina utilizzati, nonché in caso di massivainvasione epatica l�ipoglicemia è quindi do-vuta a insuccesso nella risposta controregola-toria del glucagone e epinefrina. Nei casi dimassiva invasione epatica metastatica posso-no verificarsi ulcere peptiche con produzionedi gastrina e malassorbimento (24, 25). In ogni caso, quale che sia la causa, vuoi lecondizioni del paziente, vuoi la natura mali-gna e/o la stadiazione del tumore stesso nerendono impossibile l�asportazione chirurgi-ca, e purtroppo non sempre la sola terapiamedica e la somministrazione di glucosiopossono essere sufficienti ad impedire l�exi-tus (10, 25).

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IPOGLICEMIA E CARENZA DI MICRONUTRIENTI

L�importanza di un adeguato regime dieteti-co rappresenta il presidio imprescindibile perprevenire l�ipoglicemia nella popolazione an-ziana sana; è stato osservato, infatti che l�au-mentare dell�età si associa ad una modifica-zione delle concentrazioni di micronutrientínell�organismo (26).Gli individui anziani hanno un rischio piùelevato, rispetto ad individui giovani sani disviluppare una deficienza di elementi tracciae micronutrienti: alla base vi sarebbero modi-ficate abitudini e rischieste dietetiche, modifi-cazioni fisiologiche età-correlate, il frequenteuso di farmaci e la presenza di malattie croni-che che si associano ad un consumo o escre-zione di tali elementi. La carenza di micronutríenti od il loro altera-to metabolismo possano influenzare l�omeo-stasi glicidica: anche se il meccanismo diazione non è ancora del tutto chiaro

Cromo, zinco, rame, selenio, fluoro e ferro so-no tra i principali elementi in discussione (26).Una differenza statisticamente significativanelle donne anziane si è anche osservata conriferimento ai livelli sierici di alfa-tocoferolo,e Vitamina C, associate a carenza di zinco eselenio (27).Il Cromo, in particolare è un elemento essen-ziale indispensabile per il metabolismo deicarboidrati e dei lipidi; una sua carenza è sta-ta associata al diabete dell�adulto e a malattiecardiovascolari. Quando viene supplementa-to nella dieta non solo si produce un migliora-mento della tolleranza ai carboidrati e dei li-velli serici di HDL ma si osservano pure unanormalizzazione dei livelli di glicemia con al-leviazione dei sintomi della ipoglicemia (28).Esistono dati suggestivi del ruolo beneficosvolto dal cromo. In primo luogo si assistead una regressione del corteo sintomatologi-co dell�ipoglicemia. Pazienti con forma sin-tomatica la cui alimentazione era integratadi cromo per tre mesi riferivano la scompar-

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Principio interferente

Ac acetisalicilicoSalicilatiCloruro ammonioCloramfenicoloDiltiazemAntiacidiFANSCimetidinaCiprofloxacinaClofibrato Gemfibrozil

Alcoolβ-Bloccanti

AntibioticiFluconazoloFurosemideMiconazoloNifedipinaRanitidina

Meccanismo

↑ risposta all'insulina↑ assorbimento periferico del glucosio↓ clearance della Cl.↑ emivitanon noto↑ assorbimento della Glnon noto↓ metabolismo della Cim.(severo) non notospiazzamento della Glibenclamide dai siti di lega-me proteico;competizione per la secrezione tubu-lare renaleInibisce la neoglucogenesibloccano l'azione iperglicemizzante delle catecola-mine blocco dei recettori β↑ azione dell'insulina - ↓ sistema adrenergico↓ fabbisogno insulinico in corso di infezione↓metabolismonon notonon notonon notonon noto

Tab. 1 - Interazioni farmacologiche che potenziano l’effetto ipoglicemizzante

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sa della astenia con miglioramento del tre-more, della instabilità e dei sintomi di diso-rientamento (29).Inoltre, a 4 h da un pasto di glucosio, dopodieta con supplemento di cromo, si verificavail ripristino dei valori di glucosio verso la nor-ma ed in vitro, il legame dell�insulina al recet-tore insulinico presente su globuli rossi ed ilnumero dei recettori insulinici incrementava-no a dimostrazione di un ruolo dell�elementonella eziologia dell�ipoglicemia Esistono ulte-riori dati che sembrerebbero indicare un effet-to anche su altri ormoni controregolatori (30).Occorre precisare, ad ogni modo che i miglio-ri risultati sono stati finora ottenuti nei casi diipoglicemia reattiva (29, 30).

IPOGLICEMIE IN CORSO DI TRATTAMENTI FARMACOLOGICI

Occorre anche considerare quelle sostanzefarmacologiche e non, che possono essere

causa di ipoglicemia particolarmente marcata:queste sostanze interferiscono con il metaboli-smo glicidico influenzando per lo più la secre-zione e/o la sensibilità tissutale (nella tabella1 sono illustrati i meccanismi di azione delleprincipali interazioni farmacologiche).

CONCLUSIONI

Da questa revisione dell�argomento possiamoaffermare che la migliore comprensione deimeccanismi fisiopatologici alla base dei feno-meni ipoglicemici che si verificano è necessa-ria al fine di prevenire ricoveri superflui e co-stosi e/o eventi drammatici, non solo nei pa-zienti affetti da diabete mellito ma più in ge-nerale nell�età avanzata. La consapevolezzadel frequente verificarsi di tale quadro mor-boso potrà contribuire ad una sempre mag-giore conoscenza dei processi glicometabolicidell�invecchiamento.

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BIBLIOGRAFIA

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Il metabolismo del sodio è determinante nel-l�omeostasi idroelettrolitica intra ed extracel-lulare ed il suo contenuto nell�organismo di-pende dall�equilibrio tra introito alimentareed escrezione urinaria, dato che, in condizio-ni fisiologiche, le perdite extrarenali sono discarso rilievo. In Italia un recente studio hamesso in evidenza che l�introito alimentarequotidiano medio di Na+ oscilla tra i 160 ed i190 mmol/die, mentre la quota raccomanda-ta dall�OMS è fino a 100 mmol/die. L�intakealimentare, nell�anziano, sembra oscillare infunzione del grado culturale, di condizionisocio-economiche e fisiopatologiche quali l�i-pogeusia e l�iposmia che comunemente si as-sociano alla senescenza. Il Na+, eccezion fattaper una percentuale del 2-5% è contenuto perla massima parte nel liquido extracellulare.Mentre il 40% del Na+ totale è localizzato neltessuto osseo, dove non prende parte ai prin-cipali processi fisiopatologici di omeostasidell�organismo, circa il 60% è prontamentedisponibile per le reazioni biochimiche voltealla regolazione dell�omeostasi cellulare edell�organismo in toto. Considerando che ilvolume extracellulare rappresenta circa il20% del peso corporeo totale (5% sotto formadi volume plasmatico e 15% come liquido in-terstiziale), in un soggetto di 70 Kg con unanatremia di 140 mmol/L, il contenuto extra-cellulare di Na+ sarà di circa 1.960 mmol.Inoltre, sebbene il liquido intracellulare svi-luppa un volume circa doppio di quello ex-tracellulare, corrispondendo pertanto al 40%del peso corporeo totale, la quota corrispon-dente di Na+ sarà di appena 120-150 mmol,stante la bassa concentrazione dell�elettrolitaa questo livello (< 5 mmol/L).Nel soggetto anziano intervengono numero-se condizioni fisiopatologiche in grado di in-terferire con l�omeostasi idroelettrolitica. Inlinea generale, nonostante le fisiologiche va-riazioni della composizione corporea con un

incremento della Fat Mass a detrimento dellaFat Free Mass, con conseguente riduzionedell�acqua corporea totale (dal 65-70% delventenne al 45-50% del peso corporeo totaledel settantacinquenne), i livelli sierici basalidegli elettroliti, l�osmolarità e la secrezione diADH non si modificano con l�età. Per que-st�ultimo ormone, che viene liberato princi-palmente in funzione dell�osmolarità plasma-tica, si è visto che la soglia di secrezione nonvaria in funzione dell�età, quantunque vi siauna minor capacità di risposta, età-relata, allostimolo volume-pressione.Quando l�azione dell�ADH non è sufficiente,interviene lo stimolo della sete a garantire unadeguato equilibrio idro-elettrolitico. Questostimolo deriva dalla disidratazione di alcuniosmocettori localizzati nel SNC in una regio-ne che si estende dall�area preottica dell�ipo-talamo fino a coinvolgere, posteriormente, laporzione circostante il III ventricolo e la zonaincerta. Quando si manifesta una deplezionedi volume del liquido extracellulare, il siste-ma Renina-Angiotensina congiuntamente alsistema barocettoriale cardiaco stimolanol�assunzione di liquidi. Nel soggetto anzianola riduzione dei livelli plasmatici di RA e l�al-terazione barocettoriale giustificano la ridu-zione dello stimolo della sete così comune inmolti pazienti anziani.Anche per quanto concerne la funzioneemuntoria esistono delle differenze fisiopato-logiche rispetto a soggetti più giovani. Infatti,mentre la deprivazione idrica negli adulticomporta una riduzione della diuresi fino a0.5 ml/min, con una osmolarità urinaria finoa 1100 mOsm/Kg, nei soggetti anziani si po-trà notare una contrazione della diuresi nonsuperiore a 1 ml/min, con una osmolaritàplasmatica massima di circa 880 mOsm/Kg. La prevalenza di iponatremia (< 130 mEq/L)nei soggetti anziani varia in funzione dellecondizioni generali risultando pari al 8% insoggetti home residents, e salendo rispettiva-mente al 11 e 22% in soggetti ospedalizzati eresidenti in RSA. Il riscontro di iponatremia è

LE IPONATREMIE IN GERIATRIA

Vetta F.

Unità Operativa di Medicina InternaOspedale “S.S. Gonfalone”, Monterotondo, ASL Roma G.

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importante, visto che, a parità di patologieconcomitanti, questa risulta associata ad unaumento della mortalità di circa 7 volte, ri-spetto a soggetti di pari età con normali livel-li di Na+. Nella tabella I sono riportati i prin-cipali segni clinici di questa disionia, mentrenella figura 1 è descritto l�algoritmo diagno-stico per riconoscere le varie forme di ipona-tremia.L�iponatremia vera, che nel soggetto anzianoè spesso causata da un deficit nella escrezio-ne renale di acqua libera, deve essere distintadalla �pseudoiponatremia�, una condizionepiù frequente nell�età avanzata rispetto ad al-tre classi di età, caratterizzata da bassi livelliserici di Na+ associati a osmolarità sierica au-

mentata o normale. La riduzione dei livelli diNa+ sono causati dalla elevata concentrazionedi altre sostanze osmoticamente attive qualiil glucosio, in caso di diabete scompensato,trigliceridi, in caso di dislipidemia ed infineplasmaproteine in caso di mieloma multiplo.

IPONATREMIA ISOTONICA

La forma di pseudoiponatremia da dislipide-mia o da plasmaproteine può essere definitaisotonica, visto che i valori dell�osmolaritàplasmatica non sono influenzati dai trigliceri-di o dalle proteine. Oltre alla forma isotonica,dobbiamo ricordare l�iponatremia ipotonica equella ipertonica.

IPONATREMIA IPOTONICA

È caratterizzata da una riduzione dell�osmo-larità plasmatica (< 280 mOsm/Kg) e richie-de una valutazione delle condizioni di vole-mia, potendosi distinguere a sua volta unaforma euvolemica, iper ed ipovolemica.

a. Iponatremia ipotonica ipovolemicaIn questa forma è presente una riduzionecontemporanea del patrimonio di Na+ ed

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Pianeta Medico

Tab. 1 – Quadro clinico delle iponatremie

� Cefalea � Astenia � Stato confusionale � Dismnesie � Nausea � Vomito � Sonnolenza � Letargia � Convulsioni � Coma

Fig. 1 � Algoritmo diagnostico nell�iponatremia.

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idrico extracellulare provocata da perdite diliquidi in sede renale o extrarenali. La quotadi Na+ complessiva dell�organismo è ridotta,e per mantenere un adeguato volume intra-vasale, si nota un aumento nella secrezionedi ADH. Per tale motivo le perdite di Na+ edacqua vengono bilanciate soltanto da un au-mento dell�acqua libera. È opportuno effet-tuare una valutazione della quota di Na+ uri-nario, visto che concentrazioni < 10 mEq/Lindicano una perdita extrarenale come nel ca-so di vomito, diarrea o disidratazione.Concentrazioni urinarie > 20mEq/L sonospecifiche, invece, di perdite renali, per: � danni parenchimali diretti; � forme iatrogene (ACEI, diuretici); � deficit degli ormoni mineralcorticoidi;� Cerebral sodium wasting syndrome.Quest�ultima sindrome sembra in relazionead una aumentata secrezione del peptide na-triuretico cerebrale con soppressione della se-crezione di Aldosterone ed incremento dellaquota circolante di ADH volta al riequilibriodella volemia.La terapia si basa sulla somministrazione diuna soluzione salina isotonica (ipotonica incaso di natremia molto bassa, per evitaredanni neuronali da richiamo osmotico di flui-di intracellulari), o Ringer lattato. In caso disospetto morbo di Addison è opportuno in-staurare una terapia steroidea in attesa delladefinizione bio-umorale.

b. Iponatremia ipotonica euvolemicaNumerose sono le condizioni patologiche ingrado di favorire questo tipo di disionia:� SIADH. Questa sindrome è caratterizzata

da una primaria iperincrezione di ADH, inassenza di stimoli osmotici o di volemia,ma quale conseguenza, in genere, di lesionicerebrali o dei barocettori toracici. Nel sog-getto anziano cause meno insolite, rispettoad altre classi di età, possono essere le for-me iatrogene da SSRI (Fluoxetina) e soprat-tutto forma paraneoplastiche come nel casodel carcinoma polmonare a piccole cellule.In alcuni anziani, in genere quale sequeladi danni organici cerebrali, ma anche incorso di malnutrizione proteico-energetica,infezioni polmonari, etc., si riscontra unriequilibrio transitorio o permanente dell�o-smostat a livelli più bassi, in presenza,quindi, di una normale risposta dell�ADH,ma per valori osmolari minori. Clinica-mente questa sindrome è caratterizzata daiponatremia, ridotta osmolarità plasmatica(< 280 mOsm/L), aumentata osmolaritàurinaria (> 150 mOsm/L) con sodio urina-rio > 20 mEq/L, assenza di insufficienzacardiaca, epatica e/o renale e normale fun-zione tiroidea e corticosurrenalica. Un altroaspetto tipico di questa sindrome è il ri-scontro di bassi livelli di azotemia con BUN< 10 mg/dL, tanto che valori elevati, indicedi ipovolemia, escludono la diagnosi diSIADH. Un altro dato di laboratorio di fre-

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Tab. 2 – Principali cause di SIADH nel soggetto anziano

Patologie SNC

Neoplasie

Pneumopatie

Farmaci:1) che aumentano la produ-

zione di ADH

2) che potenziano l�azione diADH

Traumi craniciStrokeEmorragie subaracnoidee

K bronchiale � pancreatico - Prostatico- renale � colon

TBC � Polmonite Bronchiectasie - Aspergillosi

Antidepressivi: amitriptilina, desipramina, IMAO, fluoxetinaCarbamazepina, Clofibrato

Carbamazepina, Clorpropamide,Tolbutamide, FANS

Encefaliti � MeningitiNeoplasie Porfiria intermittente acuta

Linfoma � LeucemiaTimoma � Sarcoma

Ventilazione a pressione positivaK polmonare

Neurolettici: Aloperidolo, flufena-zina, tioridazinaChemioterapici: VincristinaCiclofosfamide

Ciclofosfamide, Somatostatinaed analoghi

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quente riscontro è un valore di uricemia ailimiti bassi, anche qui, come per l�azotemiaper una aumentata clearance in risposta al-l�overload di volume. Il riscontro di sodiourinario > 20 mEq/L trae origine dalla na-triuresi compensatoria all�aumentato volu-me extracellulare, dato che l�attivazione delnetwork neuro-endocrino a ciò preposto,con inibizione del sistema simpatoadrener-gico, del SRA ed aumentata secrezione delpeptide natriuretico atriale. Questa sindro-me tuttavia tipicamente non presenta maiuna espansione della volemia tale da in-durre ipervolemia e quindi ipertensione oedemi. Le cause più frequenti di SIADH so-no riportate nella Tabella 2.

� Ipotiroidismo. Rappresenta una rara causadi iponatremia, che tuttavia è opportunoconsiderare ogni qualvolta ci si trovi difronte a questo tipo di disionia. Si pensache alla base di questa forma di iponatre-mia vi sia una ritenzione idrica causata dalivelli inappropriatamente elevati di ADH.

� Polidipsia psicogena. È caratterizzata da unaeccessiva assunzione di liquidi (in generesuperiore a 10 L/die), con una situazionedi euvolemia che è garantita da una poliu-ria secondaria, con sodio urinario elevato(> 20 mEq/L), osmolarità urinaria e con-centrazione serica di ADH ridotte. Questaforma è in genere associata a demenza, in-dipendentemente dall�etiologia, nonché adistubi della sfera psico-affettiva. Un qua-dro simile si riscontra nei soggetti con po-tofilia nei confronti della birra che, per ilsuo basso contenuto in Na+ ( < 5 mEq/L),può favorire una iponatremia soprattuttoin soggetti con cirrosi epatica per la consen-suale presenza di valori aumentati di ADH.

� Reazione idiosincrasica a diuretici. È una si-tuazione che si verifica soprattutto in don-ne anziane in trattamento con tiazidici en-tro pochi giorni dall�inizio della terapia.Questa forma euvolemica, si differenziadalla forma classica di iponatremia da diu-retici che è associata ad una ipovolemia Ilmeccanismo alla base di questa situazionenon è noto, ma si ritiene che derivi dallacoincidenza di una eccessiva perdita renaledi sodio e di una ritenzione idrica.

�Reazione idiosincrasica ad ACEI. Questi far-maci possono favorire una polidipsia di ori-gine centrale, nonché un�aumentata secre-zione di ADH. Entrambe queste alterazioni

concorrono ad una ridotta concentrazionedi Na+.

�Iponatremia post-chirurgica. Questa forma,che si sviluppa più comunemente nei primidue giorni dall�intervento chirurgico, non-ché nelle donne in fase premenopausale, èin genere determinata da una eccessiva libe-razione di ADH in risposta allo stress chi-rurgico. Può essere favorito anche dall�im-piego di soluzioni ipotoniche somministrateper via parenterale.

Il trattamento farmacologico è ovviamente ri-volto a correggere prontamente i sintomineurologici. A tal fine sarà opportuno pro-grammare una strategia terapeutica tesa araggiungere una concentrazione sierica diNa+ di circa 125-130 mEq/L in modo nontroppo rapido, per evitare i fenomeni di de-mielinizzazione osmotica descritti in lettera-tura. Le linee guida consigliano di aumentarela concentrazione sierica di Na+ non oltre 1-1.5 mEq/L/h per un limite che tuttavia nondeve essere inferiore a 25-30 mEq/L nelle pri-me 48 h. Quando i sintomi neurologici regre-discono sarà opportuno rallentare il tasso diincremento nella concentrazione sierica diNa+ a non più di 0.5-1 mEq/L/h. Si utilizze-ranno soluzioni saline ipertoniche (3%) asso-ciate a somministrazione parenterale diFurosemide. La quantità di soluzione salina,la sua velocità di infusione, nonché la quotadi diuretico da somministrare, devono esserevalutati in funzione del bilancio idro-elettro-litico, che dovrà essere minitorato ogni 6 h,almeno fino a quando non siano regrediti isintomi neurologici. Da questo momentopossono essere utilizzate anche strategie tera-peutiche meno aggressive, basate sulla asso-ciazione di furosemide con soluzioni salineisotoniche, da utilizzarsi in pazienti asinto-matici con valori di Na+ < 120 mEq/L, oppu-re sulla semplice restrizione idrica (0.5-1L/die). La Demeclociclina, al dosaggio di600-1200 mg/die, può essere vantaggiosa inquesti pazienti, vista la capacità di inibire l�a-zione di ADH sul tubulo distale. L�utilizzo diquesto farmaco, tuttavia, è gravato sia dalfatto che la sua azione può iniziare a manife-starsi anche a distanza di una settimana, chedall�aumentato rischio di una sindrome epa-to-renale in pazienti con cirrosi epatica.Infine, in caso di cerebral sodium-wastingsyndrome è consigliato l�utilizzo di Fludro-cortisone.

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c. Iponatremia ipotonica ipervolemica.Questa forma è caratterizzata dalla presenzadi edemi, essendo in genere associata a con-dizioni cliniche quali: insufficienza cardiaca,renale, epatica, o a sindrome nefrosica. Inquesta forma la quota complessiva di Na+ èaumentata anche se in misura minore rispet-to al compartimento idrico per un consen-suale incremento sia dell�ADH che del-l�Aldosterone. La concentrazione urinaria diNa+ è in genere < 10 mEq/L, a meno che ilpaziente non sia in terapia con diuretici.In questi pazienti il trattamento medico elet-tivo si basa sulla restrizione idrica (< 1L/die) associata a terapia con diuretici estretto monitoraggio del bilancio idro-elettro-litico. L�utilizzo di soluzioni ipertoniche (3%)deve essere fatto con estrema prudenza al fi-ne di evitare un sovraccarico di volume, limi-tandolo a pazienti con sintomi neurologici si-gnificativi e con livelli di natremia < 110

mEq/L. Anche in questo caso sarà opportu-no utilizzare una posologia contenuta in 100-200 cc associandola alla terapia diuretica.

IPONATREMIA IPERTONICA

Questa forma è in genere associata ad iper-glicemia, soprattutto in presenza di rapidi in-crementi della stessa. L�aumentata concentra-zione extracellulare di glucosio richiama li-quidi, favorendo una riduzione della concen-trazione di Na+, che è pari a circa 1.6 mEq/Lper ogni 100 mg/dL di glucosio al di sopradella soglia dei 200 mg/dL. Questa forma diiponatremia, che può essere causata anchedalla somministrazione parenterale di solu-zioni ipertoniche (mannitolo, glicerolo, etc.)va distinta dalla pseudoiponatremia vistoche la concentrazione di Na+ realmente si ri-duce. L�approccio terapeutico è volto a ri-muovere il momento etiologico.

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BIBLIOGRAFIA

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Le Malattie Linfoproliferative Croniche (Tab.1) rappresentano un gruppo eterogeneo dipatologie neoplastiche del linfocita che predili-gono l�età avanzata e che sono legate da alcunecaratteristiche comuni: � la espansione di un clone cellulare B o T � decorso clinico in genere abbastanza lungo� possibilità di remissione completa quasi nulla.Tratteremo di seguito le forme di più frequenteriscontro e con implicazioni cliniche e terapeu-tiche di maggior rilievo nella popolazione an-ziana: la Leucemia Linfatica Cronica e laLeucemia a Cellule Capellute (Hairy CellLeukemia ) o Tricoleucemia.

LEUCEMIA LINFATICA CRONICA

La Leucemia Linfatica cronica (LLcr) in occi-dente costituisce il 25% delle leucemie, con unaincidenza annua per fasce di età di 5,2 ca-si/100.000 abitanti (55-59 anni) e di 30,4 ca-si/100.000 (80-84 anni). È una malattia dell�etàavanzata con una mediana d�età di insorgenzaintorno a 70 anni; solo il 10% dei pazienti è dietà < 55 anni (1).La LLcr è una malattia linfoproliferativa a de-corso cronico caratterizzata da linfocitosi persi-stente nel sangue periferico (> 5000linfociti/mm3) per l�accumulo di cellule linfoi-di monoclonali, e quindi monomorfe, di picco-la taglia, a cromatina nucleare addensata, connucleolo non rilevabile, citoplasma scarso, pal-lido o lievemente basofilo con caratteristicheimmunofenotipiche di cellule apparentementemature, funzionalmente immunoincompetenti.Allo striscio periferico, in una percentuale dicasi intorno al 25-30% la morfologia delle cel-lule linfoidi non è omogenea per la presenza dielementi più grandi, con caratteri prolinfocitici,immunoblastici e linfoplasmocitoidi.Il gruppo Franco-Americano-Britannico (FAB)considerando la percentuale di elementi non ti-pici nel periferico ed integrando lo studio

morfologico con quello immunofenotipico, ci-tochimico e citogenetico ha individuato duesottogruppi: � LLcr Tipica con elementi prolinfocitoidi <

10%, con sopravvivenza mediana 8,2 anni.� LLcr Atipica (a cellule miste) con elementi

con caratteri prolinfocitoidi in quota >10%ma < 55 %, con prognosi peggiore, spesso as-sociata a trisomia del cromosoma 12 , so-pravvivenza mediana di 7,2 anni (2).

Dal punto di vista immunologico in oltre il95% dei casi le cellule linfatiche della LLcr pre-sentano un fenotipo di membrana di tipo Bcon coespressione di antigeni pan-B quali ilCD19, CD20, CD23, Cd79b, con livelli diImmunoglobuline di superficie (Sig) moltobassi, ma è caratteristicamente e costantementecoespresso l�antigene pan-T CD5.

STADIAZIONE

Negli ultimi 15-20 anni si è tentato di indivi-duare un sistema di stadiazione che avesse lecaratteristiche di una facile applicabilità e nellostesso tempo di forti implicazioni in terminiprognostici e terapeutici. I sistemi più utilizzatisono quelli proposti da Rai e Binet (Tab. 2) esuccessivamente modificati (3,4). Questi duesistemi permettono di stratificare ulteriormen-te i pazienti in tre diverse classi di rischio conrelativa aspettativa di vita: basso rischio oltre10 anni; rischio intermedio circa 5 anni ; alto ri-schio 1-2 anni (Tab. 3).Da tali sistemi restano esclusi quei pazienti chepresentano alcune peculiarità alla diagnosi,che non necessitano di terapia e che andrebbe-ro identificati come LLcr Indolente (Tab. 4) (5).Oltre allo stadio clinico sono da considerare aifini prognostici i seguenti fattori:� Infiltrazione midollare di tipo diffuso. I pa-

zienti con infiltrato midollare di questo tipohanno una aspettativa di vita di 2-4 anni;quelli con infiltrato midollare di tipo non dif-fuso (interstiziale, nodulare, misto) una atte-sa di vita di 8-10 anni.

� Linfocitosi periferica > 50.000/mm3 (6)� Tempo di raddoppiamento della linfocitosi

LE SINDROMI LINFOPROLIFERATIVE CRONICHE

Panzini E., Lozzi A., Serra F., Pittoni V., Marci M.

Unità Operativa di GeriatriaOspedale “A. Angelucci”, Subiaco, ASL Roma G

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periferica < 12 mesi� Livello sierico della beta2 Microglobulina > 3,5� Anomalie cromosomiche e molecolari. Si rin-

vengono più facilmente negli stadi avanzati;la più frequente anomalia è rappresentatadalla trisomia del cromosoma 12 e pare cor-relata con la LLcr atipica.

� Percentuale di espressione del CD38 (una al-ta espressione di tale antigene implica unaprognosi più sfavorevole).

MANIFESTAZIONI CLINICHE E CRITERIDIAGNOSTICI

Esiste una estrema variabilità di quadri clini-ci potendosi riscontrare pazienti asintomatici,nei quali viene messa in evidenza una linfoci-tosi periferica con inversione della formulaleucocitaria come puro riscontro occasionale,e pazienti più gravemente compromessi conpresenza di linfoadenopatie superficiali, epa-to e/o splenomegalia, con astenia intensa dagrave stato anemico, spano con manifastazio-ni emorragiche cutaneo-mucose da piastrino-

penia, con febbre di origine infettiva spessoper processi flogistici a carico dell�apparatorespiratorio ed urinario.Tali considerazioni cliniche hanno implicatouno sforzo notevole nell�evidenziare criteridiagnostici quanto più possibile standardiz-zati e quindi riproducibili (Tab. 5).Nonostante ciò esistono tutta una serie diproblematiche ancora da risolvere, per esem-pio non è infrequente il riscontro di un pa-ziente ritenuto a basso rischio prognosticoche invece presenta un decorso clinico estre-mamente aggressivo ed ancora resta da defi-nire il problema della prevenzione della evo-luzione della patologia mancando, al mo-mento, evidenza circa la importanza di mar-catori precoci che possano permettere unapredizione della stessa.

LE SCELTE TERAPEUTICHE

Estremamente complicata appare la scelta circail tempo nel quale iniziare la terapia e conse-guentemente il tipo di terapia più idoneo.

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Classificazione secondo Rai

Stadio 0: Linfocitosi periferica e midollare

Stadio 1: Linfocitosi con linfo-adenomegalie

Stadio 2: Linfocitosi con splenoe/o epatomegalia

Stadio 3: Linfocitosi con anemia ± linfoadeno-sple-noepatomegalia

Stadio 4: Linfocitosi con piastrinopenia con o senzaanemia, linfoadenomegalie o epato lenemegalia

Classificazione secondo Binet

Stadio A: Linfocitosi perifeirica e midollare con in-teressamento di meno di 3 aree linfoidi

StadioB: Linfocitosi periferica con interessamentodi 3 o più aree linfoidi

Stadio C: Linfocitosi con anetnia ± linfoadenome-galia e/o Piastrinopenia

Tab. 2 – Classificazione deffa LLcr in Stadi

Origine B Linfocitaria

Leucemia Linfatica cronica B

Leucemia Prolinfocitica B

Linfoma Splenico a linfociti villosi

Leucemia a cellule capellute

Leucemia Plasmacellulare

Origine T linfocitaria

Leucemia Linfatica cronica T

Leucemia Prolinfocitica T

Sindrome di Sezary

Leucemia a grandi linfociti granulati

Leucemia/Linfoma a cellule T dell�adulto

Tab. 1 – Classificazione delle Sindromi Lifoproliferative Croniche (11)

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Numerosi studi hanno evidenziato il fatto cheiniziare la terapia in pazienti che presentavanoun quadro clinico di LLcr Indolente non pro-lungava la sopravvivenza ed allo stesso tempoè esperienza oramai consolidata che pazienticon stadio di malattia avanzato spesso riman-gono stabili nel tempo.Si è così adottata la proposta del NCI (NationalCancer Institute ) (7) che consiglia di controlla-re il paziente ogni tre mesi e di iniziare il tratta-mento qualora il paziente presenti caratteristi-che cliniche e di laboratorio che definiscono ilconcetto di Malattia Attiva (Tab. 6).In sintesi possiamo affermare che non necessi-tano di trattamento i pazienti con:� LLcr Indolente alla diagnosi fino a comparsa

di progressione;� LLcr alla diagnosi in stadio di rischio basso e

intermedio, in assenza di malattia attiva confattori prognostici favorevoli;

� LLcr in prima ricaduta in assenza di malattiaattiva ed età >65 anni;

� LLcr in remissione dopo terapia;Devono essere trattati i pazienti con:� LLcr in progressione;� LLcr alla diagnosi in stadio intermedio o

avanzato, con malattia attiva e/o fattori pro-gnostici sfavorevoli;

� LLcr in prima ricaduta con malattia attiva edetà > 65 anni;

� LLcr in prima ricaduta di età < 65 anni.

Va, come si può evincere, sempre consideratal�età del paziente per ovvie considerazioni: peresempio, al paziente di età inferiore a 55 anninon può di certo andar bene l�aspettativa di vi-ta proposta al paziente di 70 anni .L�approccio terapeutico, che ha rappresentatoper anni il trattamento di scelta in tale patolo-gia, è stata l�associazione Clorambucil eCorticosteroidi con modalità di somministra-zione a basso dosaggio a cicli di uno o piùgiorni ogni 2 o 4 settimane.Negli anni �90 il Gruppo Francese comparò ilClorambucil con una associazione polichemio-terapica COP e CVP; non si vide una differen-za statisticamente significativa in termini diRemissione Completa (RC) per i pazienti instadio intermedio o alto. Soltanto nei pazientiin stadio avanzato si evidenziò una differenzastatisticamente significativa in termini di RC afavore di uno schema di polichemiterapia ag-gressiva (CHOP) verso il trattamento conven-zionale con Clorambucil (8).Tali studi inaugurarono l�epoca della introdu-zione di trattamenti più aggressivi, nell�intentodi eradicare il clone leucemico, con Cloram-bucil ad alte dosi e l�utilizzo di nuovi farmaciquali gli analoghi delle Purine (Fludarabina, Pento-statina, 2-Clorodeossiadenosina).

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Tab. 3 – Classi di rischio di sopravvivenza

Categoria di rischio

Basso( stadio O )

Intermedio( stadio I e II )

Alto( stadio III e IV )

Caratteristiche

Linfocitosi periferica e midollare

Linfocitosi + adenomegalia + splenomegalia+ epatomegalia

Linfocitosi + anemia + piastrinopenia

Soprav. Mediana (anni)

12

5

2

Tab. 4 – Criteri di definizione di LLC indolente

� Stadio Rai 0 ( Binet A)� Istopatologia del midollo osseo non diffusa� Emoglobina ≥ 13 g/dl� Linfociti del sangue periferico ≤ 30.000/mm3

� Tempo di raddoppio dei linfociti ≥ 12 mesi

Tab. 5 – Criteri diagnostici della LLC

� Linfocitosi periferica > 5.000/mm3

� Linfocitosi midollare > 30%� Monoclonalità della popolazione linfocitaria� Elementi linfoidi ad abitus prolinfocitico nel

midollo < 10% sono compatibili con diagnosidi LLC-B tipica e fra 10-55% con LLC variante

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Tra questi ultimi quello che è stato più impie-gato e per il quale si hanno più risultati è laFludarabina. Nella maggior parte degli studi èstato utilizzato al dosaggio di 20-30mg/m2/die per 5 giorni ogni 3-4 settimane edha consentito una Risposta Globale intorno al45% (9). Anche se ha dimostrato una signifi-cativa efficacia la scelta della Fludarabina co-me trattamento standard di prima linea neipazienti con LLcr potrà avvenire solo dopo laeventuale dimostrazione di un suo effetto si-curo e duraturo sulla sopravvivenza globale.Del tutto recentemente sono stati inseriti neiprotocolli terapeutici, con un approccio biolo-gico del tutto nuovo, gli Anticorpi Mono-clonali diretti contro antigeni espressi sullasuperficie delle cellule leucemiche; risultatiincoraggianti si intravedono per il Rituximab,diretto in modo specifico verso l�antigeneCD20 e il Campath�1H, diretto verso il CD52.Accanto alla terapia convenzionale deve, inparticolari situazioni cliniche, essere instauratauna terapia di supporto che può prevedere:� l�uso di Immunoglobuline ev in caso di in-

fezioni ricorrenti batteriche gravi con ipo-gammaglobulinemia.

� l�uso di Concentrati Eritrocitari per Hb < 8gr/dl; di Piastrine se la conta è <20.000/mm3 con sintomatologia emorragica

cutaneo e/o mucosa in atto.� Splenectomia e/o Radioterapia splenica in

casi selezionati di splenomegalia progressi-va senza altri segni di malattia attiva.

LEUCEMIA A CELLULE CAPELLUTE (HAIRY CELL LEUKEMIA)

Fu descritta per la prima volta nel 1958 con iltermine di �Reticoloendoteliosi leucemica�per indicare la presenza nel sangue perifericodi cellule mononucleate con sottili proiezionicitoplasmatiche a forma di villo divenute pa-tognomoniche della malattia (Tricoleucemia).L�origine cellulare della Leucemia a CelluleCapellute dalla linea B-linfocitaria è indicatadalla presenza sulla membrana cellulare diantigeni B-specifici (CD19, CD20, CD22,FMC7 Positivi) e dalla presenza all�analisimolecolare del DNA di riarrangiamenti clo-nali dei geni delle Immunoglobuline.Rappresenta circa il 2% di tutte le leucemie,ha una incidenza massima intorno alla sestadecade di vita con un rapporto maschi-fem-mine di 4:1.

MANIFESTAZIONI CLINICHE E DI LABORATORIO

I sintomi di più frequente riscontro sono rap-presentati da perdita di peso ed astenia cherisulta sproporzionata alla entità della ane-mia, comunque sempre presente; dolori ad-dominali con sensazione di ingombro addo-minale legato alla notevole splenomegalia(presente nell�80% dei casi); ricorrenti episodiinfettivi prevalentemente a carico dell�appa-rato respiratorio.Le linfoadenopatie superficiali e/o profonde,anche se di raro riscontro, ad attente indaginistrumentali possono riscontrarsi in un 10%dei casi; l�epatomegalia è presente in circa il30% dei casi.Il laboratorio mette in evidenza una anemia digrado variabile nell�80-90% dei casi; leucope-nia nel 65% dei casi e la piastrinopenia nel 50% dei casi. Pancitopenia globale è presente nel40% dei casi.La insufficienza midollare è legata alla infiltra-zione del midollo da parte della popolazioneleucemica, ad un discreto grado di fibrosi, all�i-persplenismo e per ultimo all�effetto inibitorioda parte di fattori solubili e citochine prodotte

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Tab. 6 – Definizione di malattia attiva

1. Almeno uno dei seguenti sintomi di malattia:� Perdita del 10% del peso negli ultimi sei mesi� Profonda astenia� Febbre > 38°C che dura da almeno 15 giorni

in assenza di infezione evidente o sospetta, dialtra malattia neoplastica o autoimmune

� Sudorazione notturna profusa in assenza dialtra patologia che la giustifichi

Oppure almeno uno dei successivi:

2. Progressiva insufficienza midollare con com-parsa di anemia e/o trombocitopenia

3. Anemia e/o trombocitopenia autoimmune re-sistente agli steroidi

4. Splenomegalia progressiva o superiore a 6 cm5. Linfoadenomegalie progressive o massive al-

la diagnosi6. Linfocitosi progressiva con aumento > del

50% in meno di 2 mesi o LDT in meno di 6mesi; oppure linfocitosi > 50.000/mm3 confer-mata da due determinazioni consecutive di-stanziate di un mese.

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da ed in risposta all�infiltrato neoplastico.Da un punto di vista delle indagini citochimi-che le cellule neoplastiche mostrano una affi-nità tintoriale elevata per la Fosfatasi acidache risulta resistente all�effetto inibitoriodell�Acido Tartarico (Fosfatasi acida positivatartrato resistente).L�agoaspirato midollare può, per l�intenso gra-do di fibrosi, risultare non aspirabile. La bio-psia ossea può invece mettere in evidenza oltreche una aumentata cellularità la presenza diun infiltrato di tipo focale o diffuso.In sintesi possiamo affermare che il sospettodiagnostico di Leucemia a Cellule Capellutenel soggetto anziano deve essere seriamentepreso in considerazione allorchè ci si trovi difronte ad un quadro caratterizzato da: Pancito-penia periferica, Splenomegalia, Midollo nonaspirabile.

INDIRIZZI TERAPEUTICI

La splenectomia che un tempo rappresentavala scelta terapeutica iniziale, al momento, vieneriservata solo nei casi di notevole splenomega-lia o allorquando la milza sia sede di infarti ri-correnti. Va considerato che la splenectomianon ha modificato in modo significativo la so-pravvivenza globale dei pazienti e va attenta-mente valutato, nel porre la indicazione all�in-tervento di splenectomia, il rischio operatorioelevato nei pazienti anziani.Da alcuni anni (1984) la terapia di questa for-

ma si basa sull�utilizzazione dell�Interferon al-fa ad un dosaggio di 3 milioni di unità interna-zionali sotto cute per tre volte la settimana peralmeno 9-12 mesi con una normalizzazione delquadro periferico in circa l�80% dei casi; la du-rata mediana dell�intervallo libero da malattiavaria nelle diverse casistiche tra 12 e 24 mesi.Dopo sospensione della terapia può aversi unaripresa della malattia con le stesse caratteristi-che dell�esordio e comunque tale recidiva ri-sponde comunque nuovamente alla terapiacon Interferon. Diversi studi hanno evidenzia-to l�utilità di una terapia continua a basse dosicon diminuzione del rischio di ricaduta.L�Interferon sia come terapia di prima lineache dopo splenectomia ha migliorato significa-tivamente l�aspettativa di vita dei pazienti af-fetti da Leucemia a Cellule Capellute.Sono inoltre stati utilizzati la Pentostatina cheha mostrato di produrre risposta più rapideche l�Interferon però con un maggiore rischioinfettivo e la 2-Clorodeossiadenosina (2-CDA),questa ultima per la sua migliore efficacia intermini di durata della risposta, minore tossi-cità rispetto alla Pentostatina , minor rischio in-fettivo sembra essere il farmaco nel quale lamaggior parte degli Ematologi ripone notevolefiducia nella terapia attuale e futura di tale pa-tologia. Si somministra in un unico ciclo al do-saggio di 0,1 mg/Kg/die per 7 giorni con otte-nimento di una Remissione Completa intornoal 90% dei casi (10).

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DEFINIZIONE

La porpora trombocitopenica idiopatica (ITP)e� una malattia autoimmune, caratterizzatadalla distruzione delle piastrine da parte diautoanticorpi.Le proteine di membrana, legate alla superfi-cie piastrinica, possono, infatti, acquisire ca-ratteristiche antigeniche e stimolare il sistemaimmunitario, determinando la produzione diautoanticorpi. Le piastrine, da essi adese,vengono poi distrutte principalmente per fa-gocitosi. Gli autoanticorpi sono diretti, in ge-nere, contro le glicoproteine IIb/IIIa (GPIIb/IIIa) della membrana piastrinica (1); èstata dimostrata, inoltre, la presenza anche diautoanticorpi diretti contro le glicoproteineIb/IX (GP Ib/IX) (2).

INCIDENZA

Si ritiene che l�incidenza della ITP sia di 10-125 casi per 100.000 persone per anno (3).Recentemente è stato condotto uno studioepidemiologico (4) che ha dimostrato un rap-porto di incidenza annuo di 2.68 per 100.000persone per un cut-off di livello piastrinicopari a 100.000/mm3 e di 2.25 per 100.000 per-sone per un cut-off di 50.000/mm3.Il rapporto femmine/maschi è di 1.7.L�età mediana dei pazienti affetti da ITP è di56.4 anni, con una più elevata incidenza nellapopolazione al di sopra dei 60 anni di età(4.62 vs 1.94/100.000 persone/anno).Gli adulti hanno un rischio di mortalità di 1.3volte superiore rispetto alla popolazione ge-nerale (3).

CRITERI DIAGNOSTICI

Viene generalmente definita piastrinopeniadell�anziano la piastrinopenia che colpiscesoggetti al di sopra dei 65-70 anni di età.

Anche in questo caso, come per i soggetti di etàinferiore, la diagnosi di piastrinopenia autoim-mune è una diagnosi di esclusione. Una piastri-nopenia isolata, infatti, può rappresentare unepifenomeno di numerose altre patologie.L�iter diagnostico inizia quando si ha un ri-scontro di livelli piastrinici al di sotto di130.000/mm3. La presenza di megalia deilinfonodi e degli organi ipocondriaci, il ri-scontro di uno stato anemico non correlato alsanguinamento, una alterazione dei leucocitinon sono compatibili con la diagnosi di ITP.Importante è l�esame citomorfologico delsangue venoso periferico e la valutazione dieventuali aggregati piastrinici (pseudopia-strinopenia).Il test per la ricerca degli anticorpi anti HIVdeve essere seguita in tutti i casi sospetti diavvenuto contagio. Utile è effettuare, soprat-tutto nei soggetti anziani, una attenta valuta-zione della funzionalità epatica e renale, siaai fini diagnostici che ai fini terapeutici. Deveessere inoltre condotto uno studio degli au-toanticorpi per escludere la presenza di unaconnettivite o altra patologia autoimmune.La ricerca degli anticorpi antipiastrinici nonappare essere essenziale né ai fini diagnostici,né ai fini della necessità di intraprendere laterapia o della valutazione della risposta altrattamento.La determinazione degli anticorpi associati allepiastrine (PAIgG) con la metodica di Dixon (6)modificata da Kelton (7), non risulta attual-mente valida perché altamente aspecifica.Uno dei tests attualmente più utilizzati è ilMAIPA (monoclonal antibody immobilizationof platelet antigens). Tale test è basato sull��im-mobilizzazione� di un anticorpo monoclonalespecifico per una glicoproteina di membranapiastrinica, su un supporto solido al quale ven-gono aggiunte le piastrine del paziente o pia-strine normali sensibilizzate con il plasma delpaziente stesso. In questo modo, l�antigenepiastrinico e qualsiasi anticorpo umano ad es-so associato vengono �catturati� a livello delsupporto solido e possono essere determinati,

LA PIASTRINOPENIA AUTOIMMUNE DELL’ANZIANO

Chistolini A., Mecarocci S., Gallucci C., Milano F.

Dipartimento di Biopatologia Umana ed EmatologiaUniversità degli Studi di Roma “La Sapienza”

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in una seconda fase, con l�uso di anticorpi antiimmunoglobuline umane, mediante test im-munoenzimatico. Svantaggi del MAIPA testsono rappresentati dai falsi negativi e dalla ne-cessità di un buon numero di piastrine.Altra metodica che può essere utilizzata perla determinazione degli anticorpi antipiastri-ne è la citofluorometria (8).Nei soggetti anziani, l�agoaspirato midollare,ai fini diagnostici, trova, in genere, una indi-cazione maggiore di quanto non avvenga neisoggetti più giovani: infatti, nei soggetti an-ziani è più elevato il rischio di non individua-re precocemente una sindrome mielodispla-stica: molto frequentemente, infatti, nei sog-getti di età superiore ai 65-70 anni di età, unapiastrinopenia isolata può rappresentare unaprima manifestazione di una sindrome mie-lodisplastica (9,10).

SINTOMATOLOGIA

Un importante aspetto della piastrinopeniadell�anziano è rappresentato dall�incidenza edall�entità delle manifestazioni emorragicheall�esordio.Si possono distinguere quattro gradi di entitàe/o di sintomatologia emorragica: � grado 0: sintomatologia emorragica assente� grado 1: petecchie� grado 2: ecchimosi; stillicidio con perdita

ematica moderata� grado 3: emorragie mucose maggiori, con

perdita ematica abbondante senza sequele� grado 4: emorragie mucose maggiori con

perdita ematica con sequele e/o pericolo divita.

È dimostrato (11) che, per livelli equivalentidi piastrine, l�incidenza di complicanzeemorragiche maggiori è più elevata in sog-getti di età superiore ai 60 anni rispetto aquelli più giovani e che una precedente storiadi sanguinamento rappresenta un fattoremaggiore di rischio emorragico nei pazientipiù anziani.L�incidenza di emorragie fatali in pazienticon piastrine inferiori a 30.000/mm3 (12) ten-de, inoltre, ad aumentare con l�aumentaredell�età del paziente (0.4% anno in pazienti dietà inferiore ai 40 anni; 1.2% anno in pazientitra i 40 e i 60 anni; 13% anno in pazienti dietà superiori ai 60 anni).

TERAPIA

L�approccio terapeutico del paziente anzianopresenta alcune peculiarità rispetto al pazien-te più giovane.Per quanto concerne la terapia, dobbiamoconsiderare:� quando iniziare la terapia;� il tipo di terapia più adatto a tale particola-

re caratteristica di pazienti;� la terapia nell�emergenza emorragica.La decisione di iniziare la terapia dipende dadue fattori: 1) il numero delle piastrine; 2) l�entità della sintomatologia emorragica.Per quanto riguarda il numero delle piastri-ne, in considerazione del maggiore rischio digravi emorragie in tali pazienti, il cut-off perl�inizio della terapia è di 30.000 piastri-ne/mm3. Nei pazienti che non necessitano diun immediato intervento terapeutico, è op-portuna una attenta osservazione, con l�ese-cuzione dell�esame emocromo ogni 4-6 mesi.Per quanto riguarda la sintomatologia emor-ragica, la terapia deve essere iniziata in pre-senza di emorragie mucose maggiori (grado3) e, naturalmente, in caso di emorragie gravicon sequele e/o pericolo di vita (grado 4).Farmaco di prima scelta rimane il cortisone. Icortisonici, negli anziani, possono determina-re una maggiore incidenza di effetti collatera-li (iperglicemia, ipertensione arteriosa, emor-ragie gastrointestinali).Le dosi del prednisone oscillano, in genere, tra0.25-1 mg/Kg/die per almeno tre settimane.Come terapia di prima linea, si possono uti-lizzare le alte dosi di immunoglobuline o leimmunoglobuline anti D, seguite da bassi do-saggi di cortisone. Questo tipo di trattamentoavrebbe lo scopo di evitare gli effetti indesi-derati dei cortisonici e di determinare una ri-salita rapida del numero delle piastrine.Ai fini della valutazione della risposta alla te-rapia, si distingue: � risposta completa (piastrine >130.000/mm3), � risposta parziale (piastrine >50.000<130.000/

mm3), � risposta minima (piastrine <50.000<30.000/

mm3), � non risposta (piastrine <30.000/mm3).In caso di risposta completa o parziale, la te-rapia può essere gradualmente ridotta fino asospensione. In caso di risposta minima o dinon risposta, in assenza di sintomatologia

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emorragica, il paziente può continuare con ilprednisone a dosaggio più basso; in presenzadi sintomatologia emorragia, si possono va-lutare altre terapie (azatioprina, alte dosi didesametasone).Come terapia di seconda linea, la splenecto-mia deve essere riservata solo a casi selezio-nati, sia per il rischio che l�intervento in sépuò rappresentare in tali pazienti, sia per lepiù basse percentuali di risposta rispetto aisoggetti più giovani. In genere, la splenecto-mia viene eseguita solo quando sia necessa-rio, in pazienti non rispondenti a terapie diprima linea, somministrare dosi troppo ele-vate di cortisonici per mantenere livelli pia-strinici di sicurezza.Terapie più recenti, come quelle che prevedo-no l�uso dell�anticorpo monoclonale antiCD20 (13), necessitano, al momento, di ulte-riori sperimentazioni.Per quel che riguarda la terapia delle emer-genze emorragiche, in presenza di gravi san-guinamenti che possono mettere in pericolola vita del paziente, si ritiene indispensabilela trasfusione di concentrati piastrinici, anchese la presenza di anticorpi antipiastrine necontroindicherebbe l�uso. La resa è maggiorese la trasfusione piastrinica e� preceduta dal-l�infusione di un �bolus� di immunoglobuli-ne ad alte dosi. Altra procedura terapeuticadi emergenza è rappresentata dalle alti dosidi metilprednisolone per infusione endove-nosa (1 g/die) o desametasone (40 mg/dieper 4 gg. consecutivi).

ESPERIENZA PERSONALE

Viene riportata l�esperienza dell�Istituto diEmatologia dell�Università La Sapienza diRoma. Tra il 1991 e il 1998, sono stati studiati179 pazienti, affetti da ITP di età compresa tra

65 e 87 anni, con un follow up medio di 46 me-si. Alla diagnosi, la conta piastrinica media eradi 55.000/mm3 (range 1.000�139.000/mm3).Le complicanze emorragiche erano presentiin 73/179 pazienti (40.8%): grado 0:59.3%;grado 1: 29%, grado 2: 10.6%; grado 3: 1.1%,grado 4: 0. Alla diagnosi, 113/179 (63%) pa-zienti non venivano sottoposti ad alcuna te-rapia, ma solo controllati periodicamente. In66/179 pazienti (10.6%) veniva iniziata, dopoun periodo medio di follow up di 23.2 mesi,una terapia prednisonica.Dei 113 pazienti in osservazione, 90 risultava-no ancora in osservazione alla fine del perio-do di valutazione; in 11 pazienti (9.7%), dopoun periodo medio di follow up di 39.7% me-si, venivano diagnosticate altre patologie:sindrome da anticorpi antifosfolipidi, sindro-mi mielodisplastiche, neoplasie.In 12/113 pazienti (10.6%) veniva iniziata,dopo un periodo medio di follow up di 23.2mesi, una terapia prednisonica.

CONCLUSIONI

La nostra esperiernza dimostra che:1) nella maggior parte dei pazienti anziani

non è necessario, al momento della dia-gnosi, iniziare alcuna terapia specifica. Intali pazienti, comunque, è necessario un at-tento monitoraggio clinico e di laboratorio,sia per la necessità in un certo numero dicasi (9.7%) di iniziare successivamente unaterapia cortisonica, sia per il possibile svi-luppo di altre patologie.

2) Nei pazienti sottoposti alla diagnosi a tera-pia, il farmaco di scelta rimane il predniso-ne, con percentuali di risposta e di mante-nimento della stessa sovrapponibili a quel-le riscontrate in soggetti più giovani.

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DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

La dispepsia è una sindrome molto diffusama anche sottostimata, soprattutto in età ge-riatrica nella quale risulta difficile differen-ziare i segni dell�invecchiamento fisiologicoda quelli secondari ad altre patologie. Alcunistudi epidemiologici hanno evidenziato chela dispepsia compare nel 10-40% della popo-lazione generale e che nel nostro Paese su1000 persone che si rivolgono al proprio me-dico 34 presentano disturbi dispeptici.Inoltre più della metà dei pazienti con tali di-sturbi tende ad autogestire il proprio corteosintomatologico (1,2). Fortunatamente nel-l�anziano come nei soggetti giovani la dispe-psia non sempre è sostenuta da una patolo-gia organica.Gli anziani che si rivolgono al proprio medi-co di medicina generale con un disturbo ga-stroenterologico in atto rappresentano il37,2%. Il 19% lamenta dispepsia e il 13.3%sintomi da reflusso gastroesofageo (brucioreretrosternale, eruttazioni frequenti, rigurgitoacido) (3).Gran parte degli studi effettuati hanno tenta-to di dare una definizione chiara al terminedispepsia cercando di favorire e quindi facili-tare una diagnosi precoce e corretta. Dal 1968ad oggi sono state date diverse definizioni.Nel 1988 Colin-Jones e coll. la definirono co-me: �ogni tipo di dolore o fastidio retroster-nale o addominale, pirosi, nausea, vomito, edaltro sintomo riferibile al tratto digestivoprossimale�. Questa definizione fu criticatain quanto troppo dispersiva perché include-va la maggior parte delle malattie gastrointe-stinali. Successivamente altri gruppi di stu-dio diedero altre definizioni fino ad arrivarea quella di Talley et al. che nel 1991 la defini-vano semplicemente come: �dolore o fastidioaddominale, persistente o ricorrente localiz-zato ai quadranti superiori dell�addome (4)�.

Successivamente tale definizione fu modifi-cata dallo stesso autore in: Dolore o fastidiolocalizzato prevalentemente nella parte cen-trale dei quadranti superiori dell�addome.Intendendo per centrale l�area intorno alla li-nea mediana dell�addome (5). Tale definizio-ne esclude i pazienti che hanno una sintoma-tologia in altri quadranti in particolare quellicon colon irritabile e quelli con malattia dareflusso gastroesofageo. Per fastidio si inten-de una sensazione negativa soggettiva chesecondo il paziente non raggiunge il livellodi dolore (disconfort dagli autori anglosasso-ni) e comprende la ripienezza post-prandia-le, il gonfiore epigastrico, la sazietà precoce ela nausea.

CLASSIFICAZIONE ED EZIOPATOGENESI

Nel 60% dei disturbi dispeptici non è possi-bile identificare il meccanismo eziologico, eall�esame endoscopico non è dimostrabile al-cuna lesione organica; in questi casi si parladi dispepsia funzionale o idiopatica, mentre,quando i disturbi dispeptici si accompagna-no a cause organiche ben definite (ulcerapeptica, neoplasia gastrica, lesioni da FANS)o ad anomalie fisiopatologiche e microbiolo-giche ben documentate (gastrite da Helico-bacter pylori, HP) si parla di dispepsia se-condaria. Nell�anziano la dispepsia è il sintomo piùfrequente in presenza di ulcera peptica,quando si manifesta è localizzato nella regio-ne epigastrica, si verifica da due � tre ore dalpasto serale e migliora con l�assunzione delcibo e degli antiacidi.Con l�obiettivo di favorire una migliore ge-stione diagnostico-terapeutica, la dispepsiafunzionale è stata classificata in base al sinto-mo predominante in tre sottogruppi: � simil ulcerosa (ulcer like dyspepsia)� dismotoria (dismotility like dyspesia)� aspecificaNel primo il sintomo predominante è rappre-sentato dal dolore epigastrico che regredisce

LA DISPEPSIA NELL’ANZIANO

Di Cioccio L., Bucca C., Peppe T., Brighi S., Baldaccini A., Di Meo C.

Unità Operativa Complessa di Geriatria, CassinoArea Dipartimentale Geriatrica, ASL Frosinone

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con l�assunzione di cibo, compare a digiuno espesso determina risveglio notturno. Nel se-condo predomina il fastidio epigastrico (ri-pienezza, gonfiore, sazietà precoce, nausea)mentre nel terzo i sintomi non soddisfano icriteri dei precedenti sottogruppi.Il sottogruppo ulcer like prevale nel dispepti-co giovane, mentre la forma dismotility likeprevale nel dispeptico anziano, molto proba-bilmente legata ad una ipotonia della musco-latura liscia. La patogenesi della dispepsia funzionale nonè ancora nota, viene considerata una sindro-me a genesi multifattoriale al cui determini-smo concorrono: a) infezioni da HP: in circa il 50% dei pazienti

si è riscontrata una coesistente gastrite HPassociata, però al contrario dell�ulcera pep-tica dove è stato dimostrata una stretta as-sociazione tra HP e lesione ulcerativa dellamucosa gastrica, ciò non è stato possibiledimostrarlo nella dispepsia funzionale.Molto probabilmente l�infezione da HP in-terviene determinando alterazioni della se-crezione acida, della funzione motoria del-lo stomaco e della sensibilità viscerale.Nell�anziano meno frequentemente la di-spepsia si associa ad infezioni da HP (6).

b) Alterazioni motorie: ipomotilità antralenella fase post-prandiale e rallentamentodello svuotamento gastrico che risultanopiù evidenti con il progredire dell�età.

c) Alterata sensibilità: diminuzione della so-glia dolorifica viscerale

d) Secrezione acida gastrica: aumentata sensi-bilità alla secrezione acida che non dimi-nuisce parallelamente con l�età.

e) Stress, fattori psicologici, dietetici ed am-bientali: non esistono evidenze del ruolo dieventi stressanti (lutto, divorzio) nella pa-togenesi ne c�è relazione con il tipo di per-sonalità. Fumo, alcool e caffè non rappre-sentano importanti fattori di rischio men-tre le intolleranze alimentari sono riscon-trabili in una minoranza di pazienti (7).

Data la sua aspecificità, la dispepsia è unacondizione difficile da gestire. Il primo ap-proccio è quello di rassicurare il paziente econdurre un�attenta anamnesi e valutazioneclinica al fine di differenziare le forme orga-niche da quelle funzionali. Dalla valutazioneclinica si possono evidenziare dei fattori pro-babili di rischio per patologia organica inpresenza dei quali è necessario procedere ad

un approfondimento diagnostico.� Età maggiore di 45 anni;� la presenza di sintomi e segni di allarme

(calo ponderale, vomito ricorrente, anemia,disfagia, sintomatologia notturna, masseaddominali, linfoadenopatie);

� familiarità per neoplasie, ulcera peptica ecolelitiasi;

� consumo di sigarette, alcool, aspirina eFANS;

� mancata risposta a terapia medica.

L�età è di grande interesse, perché l�insorgen-za di dispepsia in un soggetto anziano deveorientare maggiormente verso una forma or-ganica poiché entrano in gioco fattori diversicome il maggiore uso di FANS o la maggiorepredisposizione a patologie tumorali mentrenel soggetto giovane orienta maggiormenteverso una forma funzionale. Il management del paziente geriatrico con di-spesia è per acuni aspetti più semplice percheè d�obbligo un esauriente approfondimentodiagnostico. In un recente studio effettuato inUK è stato dimostrato che endoscopie effet-tuate precocemente in soggetti dispeptici an-ziani, hanno permesso nel 5% dei pazientiuna diagnosi precoce di neoplasia gastrica.Il limite di età di 45 anni permette di ridurreil ricorso all�esame endoscopico che è invasi-vo, comporta oneri economici e spesso lun-ghi tempi di attesa (8).Quindi si ricorre all�esame endoscopico solo neipazienti con sintomi e segni di allarme o sugge-stivi di patologia organica e a coloro i quali nontraggono giovamento dalla terapia empirica.

TRATTAMENTO

Per quanto riguarda il trattamento una sem-plice regolamentazione dietetica può risulta-re efficace nel trattamento della dispesia e leraccomandazioni sono ispirate al buon senso.L�effetto di fumo ed alcolici considerati fatto-ri di dispepsia è più rilevante nei pazienticon patologia ulcerosa rispetto a quelli condispepsia funzionale. Oltre il 30% dei pazien-ti geriatrici con dispepsia fa uso di FANS pertale motivo è opportuno assumerli solo in ca-so di necessità e comunque consigliare quellimeno gastrolesivi.Studi clinici controllati hanno dimostrato chegli antiacidi non sono più efficaci del placeboin tutte le forme di dispepsia funzionale.

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Pertanto l�impiego di questi farmaci dovreb-be essere limitato a casi ben selezionati, qualipazienti che riferiscono sintomi simil ulcerosie presentano ipersecrezione acida gastrica oipersensibilità all�acido della mucosa.Una recente metanalisi ha dimostrato che inpazienti con dispepsia funzionale il guada-gno sul placebo in termine di successo tera-peutico degli antisecretivi è del 18-25%, neipazienti con dispepsia funzionale dismoti-lity-like, il guadagno terapeutico sul placebosui procinetici risulta più marcato nel 46%.Nel paziente anziano con gastrite cronicaatrofica, una inibizione troppo protratta dellasecrezione acida può non essere indicata.Gli inibitori della pompa protonica rappre-sentano la più recente innovazione nella tera-pia dell�ulcera peptica e delle infiammazionigastroduodenali, essi agiscono sul meccani-smo post recettoriale responsabile della pro-duzione di acido cloridrico. L�omeprazolo, al-la dose di 20 mg al giorno riduce la secrezio-ne acida gastrica di circa l�80%, mentre gli an-tagonisti dei recettori H2 (cimetidina, raniti-dina, e famotidina determinano una riduzio-ne inferiore). L�omeprazolo è in grado di in-durre la cicatrizzazione dell�ulcera duodena-le nel 90-100% di casi dopo solo quattro setti-mane di trattamento. Recentemente sono sta-ti introdotti nuovi derivati, come lansoprazo-lo, e rabeprazolo la cui efficacia terapeuticasembra sovrapponibile a quella dell�omepra-zolo; il pantoprazolo oltre ad avere una mi-gliore efficacia non presenta interferenze dicarattere farmacologico con gli anticoagulantiorali e con la digossina di così frequente som-ministrazione nell�anziano.

Un effetto terapeutico rilevante è stato osser-vato con uso di procinetici-antiemetici, pur inassenza di gastroparesi ed anomalie motoriedell�intestino tenue.Tra gli antidopaminergici, l�uso della meto-clopramide sembra limitato dalla comparsadi sintomi legati al passaggio del farmaco at-traverso la barriera emato-encefalica, mentreil domperidone non presenta effetti collatera-li di tipo extrapiramidale, come anche utilesembra essere la levosulpiride nello stimolarela motilità gastrica e colecistica.In attesa di studi chiarificanti il ruolo dell�infe-zione da HP, la decisione di eradicarlo o menodeve essere valutata in ogni singolo caso, e laterapia si basa su un trattamento settimanalecon associazione di un inibitore della pompaprotonica, 1-2 compresse al dì e due tra i se-guenti antibiotici, claritromicina (250-500 mgogni 12 ore), amoxicillina (1 grammo ogni 12ore), metronidazolo (250 mg ogni 12 ore).Prospettive future prevedono l�utilizzo dimolecole appartenenti a svariate classi farma-cologiche, quali gli antagonisti serotoninergi-ci, agonisti oppiacei, analogo dell�ormone dirilascio gonadotropina (Gn-RH), antagonistidella colecistochinina (CCK), eritromicina esuoi derivati (9, 10).L�uso empirico dei farmaci antiulcera senzaindagini diagnostiche può essere appropriatosolo nel soggetto giovane con sintomi epiga-strici lievi o intermittenti e senza disturbi ocomplicanze sistemiche. L�intervento chirur-gico per ulcera peptica viene riservato ai solipazienti refrattari alla terapia medica o chepresentino complicanze.

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BIBLIOGRAFIA

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EPIDEMIOLOGIA

Il virus dell�epatite C (HCV) infetta circa 170milioni di persone nel mondo (1). Nei paesiindustrializzati l�HCV rappresenta il 20% deicasi complessivi di epatite acuta, il 70% deicasi di epatite cronica, il 40% dei casi di cirro-si avanzata, il 60% dei casi di carcinoma epa-tocellulare (HCC) e il 30% dei trapianti di fe-gato. L�incidenza delle nuove infezioni è statastimata a 1-3 casi/100000 persone per anno,ma il dato è probabilmente sottostimato datala sintomaticità della malattia (2,3). Tra i por-tatori di infezione cronica, ben il 25% ha tran-saminasi normali, pur avendo una viremiapositiva, mentre il 75% ha transaminasi ele-vate. Una peculiare caratteristica di questainfezione è pertanto l�elevata percentuale dicronicizzazione e la natura alquanto insidiosadel decorso clinico. La prevalenza dei pazienti anti HCV-positiviaumenta progressivamente con l�età come siosserva in uno studio condotto in una localitàitaliana ad elevata endemia da HCV, dove laprevalenza dei soggetti anti-HCV positivinella popolazione generale è del 12,6% (pre-valenza in Italia 2% circa) (Tab. 1). Il genotipo 1b è il più frequente nei pazientianziani, rappresentando l�80% di tutti i sog-getti infetti (4). Nousbaum et al. (5) hanno ri-portato in un loro studio che l�infezione dagenotipo 1b costituisce il 30,8% delle infezio-ni da HCV in pazienti al di sotto dei 40 anni ela percentuale aumenta all�80,3% nei pazienticon infezione cronica da HCV di età superio-re a 60 anni.Un recente studio clinico ha correlato la pre-valenza dell�infezione per fasce di età allamodalità di trasmissione del virus. In Italia, ilmaggior numero di soggetti con positivitàanticorpale per HCV, è riscontrato nelle per-sone anziane ed è espressione del fatto che ilmaggior rischio di contagio è avvenuto in

epoca probabilmente lontana ed è correlatoad una trasmissione avvenuta attraverso l�u-so di siringhe non sterili, materiale sanitario,trasfusioni e procedure chirurgiche (6).

STORIA NATURALE

La storia naturale di tale malattia è caratteriz-zata da una forma lieve di epatite cronicasenza fibrosi ad una cirrosi conclamata(7,8,9), spesso complicata da alcune manife-stazioni cliniche, quali l�ascite, le varici esofa-gee, l�encefalopatia, l�epatocarcinoma (10,11).La progressione di tale malattia sembra esse-re influenzata da alcuni fattori correlati al vi-rus e da altri correlati all�ospite (12-17).Tra i fattori correlati al virus, il ruolo svolto daldifferente genotipo e quasispecie e dalla mo-dalità di contagio, come fattori indipendentipredittivi nella progressione della malattia, è atutt�oggi un argomento largamente dibattuto(18-21). In particolare, se da un lato questi fat-tori sembrano condizionare la risposta ad unaeventuale terapia antivirale, non è ancora cer-to se esista una correlazione certa tra genotipoe carica virale e markers biochimici e istologicidi progressione di malattia (22-,24) ed in chemodo questi fattori possano influenzare la sto-ria naturale della malattia (25-27).Tra i cofattori correlati all�ospite il sesso fem-

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L’EPATITE C NELL’ANZIANO

Grieco A., Alfei B., Forgione A., Gasbarrini G.

Istituto di Medicina Interna e Geriatria, Policlinico “A.Gemelli”, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.

Tab. 1

Età N° positivi/N° testati %

0-9 1/106 0,910-19 1/162 0,620-29 1/184 1,730-39 5/215 2,340-49 8/161 550-59 28/152 18,4>60 123/372 33,1TOT 170/1352 12,6

Modificata da Guadagnino V. e coll. Hepato-logy 1997; 26: 1006.

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minile è sicuramente associato ad una piùlenta progressione della malattia ed a unaprognosi migliore. Nello stesso modo sembraavere una grande rilevanza anche l�età delcontagio: le persone che contraggono l�infe-zione in età avanzata hanno sicuramente unquadro di malattia più severo ed una progres-sione più rapida rispetto ai giovani (28, 29).L�alcolismo cronico e la coinfezione con il virusdell�epatite B sono invece sicuramente implica-ti nella progressione a fibrosi severa e nell�in-sorgenza dell�epatocarcinoma (21, 30, 31-34).

TERAPIA

La terapia con interferone rappresenta un ar-gomento estremamente dibattuto in merito al-la possibilità che tale trattamento possa modi-ficare la storia naturale dell�infezione da HCV(35). Molti studi condotti su pazienti con epa-topatia cronica HCV relata che hanno una ri-sposta virologica sostenuta alla monoterapiacon interferone o alla terapia di associazionecon la ribavirina, hanno mostrato risultati in-coraggianti in termini di regressione di fibrosi,riduzione del rischio di insorgenza di HCC, ri-duzione del rischio di altre complicazioni cor-relate alla malattia epatica e miglioramentodella qualità di vita (36-38). Anche quei pa-zienti che risultano relapser o non responder aprecedenti trattamenti, ottenendo nella mag-gior parte dei casi una riduzione dei livelli diipertransaminasemia e di viremia, traggonocomunque beneficio da una terapia antivirale(39,40) poiché in questi casi si ottiene comun-que un rallentamento della progressione dellafibrosi ed un effetto di prevenzione del rischiodi insorgenza dell�epatocarcinoma (41,42).Esistono alcuni fattori che possono influenzarela risposta alla terapia interferonica. Una bassacarica virale, il genotipo 2 e 3, alti livelli ditransaminasi, assenza di fibrosi e/o cirrosi, labreve durata dell�infezione, il sesso femminile,la giovane età sono sicuramente tra gli ele-menti che vengono presi in considerazione co-me fattori predittivi di una risposta positiva altrattamento (43-46). Anche la maggiore dosecomplessiva di interferone somministrato, siain termini di numero di cicli sia in termini dischedula settimanale praticata, si è visto esse-re in grado di incrementare la possibilità di ri-sposta al trattamento e di svolgere un�azionedi prevenzione sulla progressione in cirrosi esull�insorgenza dell�HCC (47- 49).

La valutazione di una adeguata scelta tera-peutica è ancora più ardua se il paziente datrattare è un soggetto anziano. Di fronte aquesta categoria di persone è necessarioidentificare ancora con maggiore attenzione ifattori di risposta del trattamento e gli even-tuali effetti collaterali che si associano alletradizionali terapie antivirali.Lo scopo della terapia nei pazienti con epati-te cronica C è quello di normalizzare gli indi-ci di funzionalità epatica (risposta biochimi-ca), eradicare il virus (risposta virologica),prevenire l�evoluzione verso la cirrosi el�HCC, migliorare la sopravvivanza dei pa-zienti e offrire una migliore qualità di vita. Ilprimo farmaco utilizzato per il trattamentodell�epatite cronica HCV relata è stato l�inter-ferone. I primi interferoni usati sono stati glialfa ricombinanti 2a o 2b, utilizzati indiffe-rentemente con analoghi risultati. Gli schemiterapeutici utilizzati sono stati diversi. Le pri-me esperienze sono state fatte con la posolo-gia di 3 MU t.i.w. per 6 mesi che è sembratain un primo momento la migliore possibiletanto da divenire il protocollo standard (50-53). L�alto numero delle recidive insorte dopola sospensione della terapia e soprattutto lagrande percentuale dei non responder hannostimolato nuove ricerche per verificare se iltipo di interferone impiegato, l�eventuale au-mento della posologia e/o la durata nel tem-po della terapia potevano influenzare la per-centuale delle risposte e ridurre il numerodelle recidive. Sono così stati condotti nume-rosi trials clinici che hanno confrontato nuovischemi terapeutici con quello tradizionale.Queste ricerche hanno dimostrato che incre-mentando la dose a 6 MU t.i.w. e prolungan-do la durata per un periodo di 12 mesi si ot-teneva un incremento delle percentuali di ri-sposte che tuttavia rimanevano temporanee.Le ricerche riportano un guadagno del 10-16% dei pazienti �non responders� ad un pri-mo ciclo a secondo della posologia e duratadel nuovo trattamento (54-58).Altra promettente alternativa all�interferonealfa è stato l�impiego del consensus IFN, unamolecola sintetica di 166 amminoacidi assem-blati con segmenti �attivi� di alfa IFN. I risul-tati nei pazienti che non erano stati trattatiprecedentemente sembrano simili a quelli ot-tenuti con IFN alfa e anche la tolleranza è lastessa, mentre sembrerebbe dare risultati mi-gliori nei non responders con percentuali di

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risposte sostenuta nel tempo pari al 50% deipazienti trattati (59-61).L�analisi dei risultati ottenuti dopo 10 anni diesperienza di monoterapia con intererone hadimostrato la necessità di sperimentare tera-pie alternative, suggerendo l�opportunità ditrattamenti di combinazione, capaci di agirecon meccanismi diversi sulle diverse fasi delciclo vitale del virus. Il razionale per l�intro-duzione di terapie di combinazione si basa sustudi di cinetica virale che hanno evidenziatoche la curva di decadimento plasmatico diHCV in risposta all�interferone si basa su 2fasi successive. La prima componente è rapi-da (da 1,5 a 4 ore) e rappresenterebbe l�effettoinibitorio dose dipendente dell�interferonesulla produzione di HCV, mentre la seconda,più lenta, (fino a 70 ore) è il risultato dellaclearance delle cellule infette. Sulla compo-nente rapida si potrà agire quando si svilup-peranno farmaci antivirali diretti contro gliinibitori delle proteasi HCV, dell�elicasi o del-la polimerasi (62-64). Per agire sulla secondacomponente si deve favorire la distruzionedegli epatociti infettati o, comunque, si devedisporre di un secondo farmaco in grado dipotenziare gli effetti dell�interferone sulle cel-lule infette o che rispondono poco all�interfe-rone. Sulla base di tale razionale sono stateproposte varie terapia di associazione e traqueste quella che è sembrata più efficace èstata sicuramente la terapia di associazionedi interferone + Ribavirina, analogo guanosi-dico che inibisce la replicazione in vitro di unlargo spettro di virus ad RNA e DNA. Taleassociazione (schemi di IFN 3 X 3 t.i.w o 6 x 3t.i.w. + 1000-1200 mg/die di ribavirina) sem-bra determinare una risposta sostenuta neltempo del 45-52% dei pazienti, mai trattati inprecedenza (naive). Meno confortanti sono irisultati sui �non-responders� dove le rispo-ste a lungo termine sono dell�ordine del 10-16% (64-66). In considerazione del numeroelevato dei �non responders� si è provatal�associazione con amantadina. L�amantadinaè un�amina triciclica impiegata nella terapiadel morbo di Parkinson ed utilizzata al do-saggio di 200 mg/die per os. Usata in mono-terapia anche come agente anti influenzale,viene impiegata nella terapia dell�epatite Ccon una risposta nei �non responder� pari al27% dei pazienti e di risposta sostenuta parial 18% (67-69).Recentemente è stato impiegato l�interferone

peghilato che sembra ottenere risultati più si-gnificativi in termini di efficacia e di tollera-bilità. Tale farmaco si è ottenuto coniugandouna molecola di interferone tradizionale adun polimero inerte di polietilenglicole. Taleinterferone ha il vantaggio di avere un emivi-ta prolungata rispetto all�interferone stan-dard tanto da consentire la somministrazionedel farmaco una volta alla settimana. La per-centuale di risposta virologica nella terapia diassociazione interferone peghilato/ribavirinasembra essere pari al 65-70% a fine tratta-mento mentre la risposta virologica si è os-servata nel 54-56% dei casi (70-73).È diffusa la consuetitudine di non trattaresoggetti di età superiore a 65 anni perché lepersone più anziane hanno una più lentaprogressione dell�epatite verso la cirrosi e l�e-patocarcinoma. In linea teorica non vi è alcunlimite di età per la terapia interferonica, tutta-via in questi casi tale opzione terapeutica de-ve essere accuratamente vagliata, tenuto con-to della relativa asintomaticità dell�infezione,del �costo umano e sociale� che tale terapiarichiede, delle possibilità di successo, deglieffetti collaterali (�indice terapeutico�) e dellafrequente comorbidità. I più comuni effetticollaterali dell�interferone sono caratterizzatidall�insorgenza di una sintomatologia di tipoinfluenzale soprattutto nel primo mese ditrattamento. Le manifestazioni cliniche che ipazienti riferiscono sono caratterizzate darialzo febbrile, astenia, anoressia, mialgie edaltralgie. Altri effetti collaterali sono la de-pressione, spesso già presente nelle personepiù in avanti con gli anni e lo slatentizzarsi ditireopatie su base autoimmune. I pazienti intrattamento, soprattutto se anziani, richiedo-no uno stretto monitoraggio laboratoristicoperché molti di essi presentano leucopenia epiastrinopenia. Le terapie di associazione conribavirina, inoltre, presentano l�insorgenza dianemie emolitiche e complicanze cardiocirco-latorie soprattutto in soggetti portatori di unapresistente cardiopatia ischemica. La storia naturale dell�HCV nell�anziano dif-ferisce in base alle popolazioni studiate. Unostudio eseguito su una comunità americanasuggerisce un decorso relativamente benigno(74). Risulatati analoghi sono stati riscontratiin uno studio italiano (4). Al contrario unostudio inglese su pazienti ospedalizzati conHCV ha trovato una grande percentuale dipazienti con cirrosi ed epatocarcinoma.

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L�opinione generale è che l�età dell�infezione,la durata della malattia, l�abuso di alcool, ilgrado di infiammazione epatica e fibrosi so-no i parametri che si correlano meglio allavalutazione prognostica della malattia.L�indicazione al trattamento è molto dibattu-ta: l�efficacia della terapia è minore nell�an-ziano probabilmente perché l�interferone agi-sce come immunomodulatore e il sistema im-mune dell�anziano è meno responsivo. Ci sono in letteratura almeno 3 studi che ana-lizzano l�effetto dell�età sull�efficacia della te-rapia interferonica e le complicazioni dellaterapia. Nel primo, condotto da Van-Thiel et all., sonostati compararati 25 pazienti tra i 65 e gli 81anni a un gruppo di 25 soggetti tra i 35 e i 47anni, entrambi sottoposti a terapia antivirale.È stata osservata solo una piccola differenzadi risposta tra i 2 gruppi. Anche la quota dieventi avversi è stata essenzialmente la stessanelle due popolazioni (75). Un secondo stu-dio condotto in Italia ha mostrato le stesseconclusioni, con miglioramenti istologici neipazienti �responders� analoghi in tutte le età(76) Uno studio virologico condotto inGiappone su un gruppo di anziani (età media63 anni) e un gruppo di controllo (età media34 anni) ha dimostrato che un basso titolo diHCV RNA rappresenta un fattore prognosti-co favorevole di risposta al trattamento nelgruppo di anziani, ma in genere questi ultimipresentavano cariche virali maggiori.(77). Inun altro lavoro è stato osservato che l�età nonè un fattore predittivo di risposta all�interfe-rone, mentre parametri significativi sono lacarica virale, il genotipo e la dose di interfe-rone (78).

LA NOSTRA ESPERIENZA

Presso l�Istituto di Medicina Interna delPoliclinico A. Gemelli di Roma è attivo l�Ambulatorio per le Malattie del Fegato doveafferiscono molti pazienti di età superiore ai65 anni con epatopatia cronica attiva HCVpositiva sia �naive� sia �non responders� o�relapser� a precedenti terapie antivirali.Negli ultimi anni abbiamo trattato 17 pazien-ti �over 65�. dieci di essi erano �naive� e 7non responders o �relapsers� a predenti trat-tamenti. Il criterio di scelta dei pazienti datrattare è stato la presenza di una ipertransa-minasemia elevata (ALT almeno 5 volte la

norma). L�età media al momento del tratta-mento era 66,5 anni (range 64-70) con un rap-porto maschi: femmine di 8 : 9. Il follow-upmedio, calcolato dal momento dell�inizio del-la terapia è, di 54 mesi (range 8-100 mesi).Il numero dei pazienti con risposta bichimicae/o virologica al termine della terapia e� statopari a 9/17 pazienti (52%), con una rispostasostenuta (valutazione eseguita dopo 6 mesidalla sospensione della terapia) osservata in5/17 pazienti (29%). Dei 9 pazienti respon-ders, ben 6 (66%) erano al primo ciclo di tera-pia. Altro dato significativo è che i pazienti�responders� sono stati coloro che presenta-vano una diagnosi istologica migliore, men-tre coloro che avevano diagnosi istologica difibrosi severa/cirrosi (8 pazienti) sono statiquelli che non hanno risposto alla terapia.L�insorgenza di HCC si è verificata in 2 casicon una incidenza dell�11%. Gli effetti collaterali più frequentemente osser-vati sono stati: febbre, artro-mialgie, tiroiditi,depressione, leuco/piastriponenia (Tab. 2).

HCV E EPATOCARCINOMA

L�infezione da virus dell�epatite C (HCV) èconosciuta come il maggior fattore di rischioper lo sviluppo del carcinoma epatocellulare(HCC). Dal 1990, quando questo virus fuidentificato come la causa maggiore di epati-te post-trasfusionale non-A non-B, un cre-scente numero di ricercatori hanno focalizza-to la loro attenzione sulle relazioni tra l�epati-te cronica HCV e l�incidenza dell�HCC. Il car-cinoma epatocellulare relato all�HCV sembraessere più comune nelle aree con un interme-dio tasso di prevalenza dell�HCC, ad es.Italia, Sud Europa, Giappone, mentre il virus

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Tab. 2 – Effetti collaterali insorti durante la terapia

Effetti collaterali N° %

Febbre 7/17 41%Artro-mialgie 6/17 35%Piastrinopenia/leucopenia 4/17 23%Depressione 2/17 11%Tiroidite 1/17 5%Nessuno 2/17 11%

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dell�epatite B è ancora la causa maggiore diHCC nelle zone ad alta prevalenza comeAfrica o Asia del Sud. Studi recenti confer-mano l�aumento di incidenza dell�HCC negliStati Uniti, ma la percentuale dei casi relatiall�infezione HCV varia notevolmente da re-gione a regione e potrebbe riflettere differen-ze regionali nella composizione etnica dellapopolazione (79,80,81,82,83).Il meccanismo con cui l�infezione da HCVesita in HCC è ancora da comprendere.L�epatite da virus B è caratterizzata da un�in-tegrazione del DNA virale all�interno dei cro-mosomi ospiti, il che rappresenterebbe un ef-fetto carcinogenico diretto, questo fenomenonon sembra avvenire nel caso dell�HCV, che èun virus a RNA. Senza dubbi, la cirrosi HCVrelata sembra condurre a un incremento delrischio di trasformazione neoplastica causatada insulti metabolici o altri virus. Natural-mente, non tutti i pazienti affetti da cirrosiHCV relata vanno incontro allo sviluppo diHCC. Oggi, c�è maggiore attenzione sulla preven-zione dell�HCC. Sono stati identificati trepossibili livelli di intervento: 1) profilassi pri-maria, basata sulla eliminazione/riduzionedell�esposizione a carcinogeni e virus epatici;2) profilassi secondaria, basata sulla preven-zione della cirrosi in pazienti che hanno giàcontratto una epatite virale; 3) profilassi ter-ziaria basata sulla prevenzione dello svilup-po dell�HCC stesso nei fegati cirrotici.L�influenza del trattamento con IFN sulla sto-ria naturale dell�epatite C e cirrosi è ancoracontroversa. Negli ultimi dieci anni, è statoprovato l�effetto dell�alfa-IFN nel ridurre lanecrosi cellulare e le modificazioni infiamma-torie associate all�epatite cronica C, ma il suoeffetto sullo sviluppo dell�HCC è ancora og-getto di studio (84).In uno studio con 1643 pazienti affetti da epa-tite cronica C, Ikeda et al. (85) trovarono che ilrischio di carcinogenesi era significativamentepiù basso nei pazienti con livelli ALT normali,indipendentemente dal livello sierico di HCVRNA, e che l�IFN riduceva significativamenteil tasso di sviluppo dell�HCC. Questi risultatidevono essere interpretati con cautela, comun-que. In molti casi, l�HCC è stato diagnosticatodopo il trattamento con IFN, evento suggesti-vo di presenza già all�inizio del trattamento diun HCC occulto. Mazzella et al (86). hannoanalizzato la storia di 347 pazienti con cirrosi

compensata, 277 trattati con IFN e 120 nontrattati. Durante il follow-up di 32 mesi,l�HCC fu diagnosticato in 9/83 (10.8%) pa-zienti cirrotici HCV relati non trattati contro5/188 (2.6%) di quelli che hanno ricevutol�IFN. Nishiguchi et al. (87) hanno seguito perun periodo di 2-7 anni 90 pazienti con cirrosicompensata HCV relata, 45 dei quali doporandomizzazione hanno ricevuto 6 MU/die dialfa-IFN per 12-24 settimane. L�HCC si è svi-luppato in 2 pazienti del gruppo in trattamen-to con IFN e in 19 del gruppo dei non-IFN.Di recente Bonino (88) in uno studio retro-spettivo di coorte su 913 pazienti con HCC,ha notato che il trattamento con Interferoneriduce il tasso di progressione verso il carci-noma epatocellulare in pazienti con infezionecronica da HCV senza confezione da HBV,sottoposti a terapia con Interferone.Allo scopo di identificare i fattori predittiviper lo sviluppo di HCC, stiamo attualmentestudiando (nell�ambito di uno studio multi-centrico italiano) la storia clinica di 228 pa-zienti cirrotici (131 maschi, 97 femmine, età31-73 anni; media età 55.6±7.7 anni) con epa-tite cronica C, tutti sono stati trattati con alfa-IFN. I criteri di arruolamento includevano ladiagnosi istologia di cirrosi senza l�evidenzadi noduli epatici, avere effettuato un ciclo diIFN per almeno 3 mesi, e un follow-up di 12mesi o più dopo la fine del trattamento. Leschedule di trattamento e la durata della tera-pia sono state varie, il totale delle dosi som-ministrate varia da 72-2040 MU (mediana:566 MU). Il follow-up è stato basato su aspet-ti clinici, parametri emato chimici, ecografia eTC ogni 6 mesi. Ad oggi, la mediana del fol-low-up è 66 mesi (range 18-70 mesi) dopo lafine del trattamento, o 80 mesi (range 14-134mesi) qualora consideriamo la diagnosi isto-logica di epatite come tempo zero.L�HCC è stato rilevato in un totale di 28 pa-zienti. L�analisi di sopravvivenza standardindica che la probabilità di sviluppo di HCCè 4.9% 24 mesi dopo la fine del trattamentocon IFN, 7.3% a 36 mesi, e 13% a 78 mesi.Utilizzando come punto di partenza del fol-low-up la diagnosi istologica, il rischio è di3.1% a 24 mesi, 5.3% a 36 mesi, 12.2% a78 me-si, 19.4% a 143 mesi. Gli individui di sessomaschile, di età >55 anni, alcolisti, ed una piùlunga durata di malattia sono emersi comefattori di rischio per lo sviluppo di HCC inquesta popolazione. I dati circa un ruolo po-

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tenzialmente protettivo della terapia con IFNin pazienti con epatopatia cronica HCV (inparticolare gli effetti della durata del tratta-mento, della dose totale, e la risposta del pa-ziente) sono ancora dubbi, sebbene una anali-si preliminare possa suggerire che le più altedosi totali di IFN potrebbero ridurre il rischiodi HCC in questo gruppo ad alto rischio. Èindubbio che studi prospettici multicentricipotranno chiarire il ruolo dell�Interferonenella prevenzione dello sviluppo dell�HCC.

CONCLUSIONI

In accordo con quanto osservato in letteratu-ra ed emerso dal nostra esperienza diretta sipuò concludere questa breve trattazione di-cendo che è opportuno trattare pazienti di etàsuperiore ai 65 anni che presentano buonecondizioni cliniche. È necessario sottoporlisempre ad un attento esame clinico di baseed a una accurata valutazione della funziona-

lità dell�apparato cardio-circolatorio e respi-ratorio, della funzionalità tiroidea, delle con-dizioni psichiche, ecludendo la presenza diforme importanti di depressione. È necessa-rio, inoltre, accertarsi che il paziente presentiuna buona compliance sia in termini di con-grua assunzione dell aterapia sia in terminidi disponibilità a sottoposri a frequenti con-trolli laboratoristici durante tutto il periododel trattamento. È preferibile trattare pazienti che hanno unelavato grado di attività di malattia con unincremento importante degli indici di citone-crosi ed una buona condizione istologica (as-senza di fibrosi severa e di cirrosi), escluden-do dal trattamento coloro che presentano unaforma �mild� di malattia con rialzo modestodelle transaminasi e bassa carica virale, ricor-dando il già citato rapporto �costo-benefi-cio�e la nacessità di garantire a tali pazientiuna soddisfacente qualità di vita.

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Il Delirium è un�alterazione della coscienzacon associati disturbi delle capacità attentivee di altre funzioni cognitive, comportamenta-li, affettive e neurovegetative, con esordioacuto, intensità sintomatologia fluttuante edurata transitoria (1-4).Tale sindrome, molto più frequente nella po-polazione anziana, e soprattutto nei cosid-detti anziani fragili, assume rilevanza signifi-cativa, come fattore di rischio per un�aumen-tata morbilità e mortalità, per un più lungoperiodo di degenza, per ulteriore istituziona-lizzazione e per un deterioramento delle ca-pacità cognitive, funzionali e di qualità di vi-ta dei pazienti che vi soffrono.La prevalenza del delirium nei pazienti ospe-dalizzati in ambienti acuti varia tra 10% e30%; tra i pazienti geriatrici vi si trova unaprevalenza del 38%, mentre tra quelli oncolo-gici terminali il delirium arriva anche ad 85%di prevalenza (5). Riassumendo vari altri stu-di su pazienti geriatrici si rileva una preva-lenza di delirium in 15% dei pazienti al mo-mento del ricovero, di un altro 5-15/durantela degenza, e del 25-35% dei pazienti ad 1 me-se dal ricovero. Tra i settantenni la prevalenzapuò arrivare al 50%, con un ulteriore aumen-to al 60% tra i 75enni. In pazienti geriatricichirurgici è stata rilevata una prevalenza deldelirium in circa 15%, con un aumento fino al50% tra quelli operati per frattura di femore.Infine la prevalenza del delirium tra i pazien-ti con precedente demenza arriva al 40%.I fattori di rischio per l�insorgenza del deli-rium sono molteplici e sono correlati al pa-ziente stesso (età, preesistente disturbo co-gnitivo, pregressi episodi di delirium, severacomorbidità), ad eventuale intervento chirur-gico (grado di emergenza, durata, decorsopostoperatorio), a fattori farmacologici (poli-farmacoterapia, uso di psicofarmaci, abusod�alcool) e/o a fattori ambientali (immobilità,isolamento sociale, stress) (6). Più in partico-lare, tra gli anziani residenti in comunità, i

maggiori fattori di rischio per insorgenza deldelirium nei 3 anni di follow-up, risultavanoessere la presenza di ipertensione sistolicaisolata ed un punteggio al Mini Mental State(MMS) minore di 24 (7). Invece i fattori di ri-schio per delirium in pazienti operati perproblemi ortopedici sono stati identificatinell�èta più avanzata, nel pregresso deterio-ramento cognitivo, nella presenza di depres-sione e nel basso livello educazionale; altrifattori risultavano essere l�alterata natriemiae la leucocitosi preoperatorie, i deficit uditivie visivi, la comorbidità, l�uso di farmaci psi-cotropi e la presenza di frattura all�amissione(8). Tra anziani ricoverati in reparto acuto as-sume rilievo di fattore di rischio per il deli-rium la severità della malattia, la presenza dimalattie croniche e di stato febbrile al mo-mento del ricovero (9). Eziologicamente, il delirium avviene in corsodi malattie sistemiche (Insufficienze d�orga-no � cardiaca, epatica, renale, polmonare; in-fezioni, ustioni, traumi multipli), di squilibrimetabolici (ipotiroidismo, ipo- ed iper-adre-nalismo, ipoglicemia, ipercalcemia), di di-sturbi neurologici (evento cerebrovascolare,trauma cranico, emorragia subaracnoidea,massa intracranica, confusione, meningite),di disturbi vari (astinenza da alcool o sedati-vi, in periodo postoperatorio o durante lapermanenza in unità di terapia intensiva) emolte volte per cause iatrogene, i farmaci im-plicati essendo gli anticolinergici, i sedativo-ipnotici, gli antipsicotici e gli antidepressivitriciclici, alcuni antipertensivi, la digitale, icorticosteroidi etc.Fattori facilitanti l�insorgenza del deliriumsono stati identificati nello stress psicosocia-le, nella deprivazione del sonno, nell�imobi-lizzazione e nella deprivazione o iperstimo-lazione sensoriale. Precipitano il delirium lamalnutrizione, l�uso di mezzi di contenzione,l�uso di catetere vescicole, l�aggiunta simulta-nea di più di 3 farmaci o qualsiasi altro even-to iatrogenico (10).I criteri diagnostici del delirium così come

IL DELIRIUM

Manor M.

Divisione di Geriatria, Ospedale Israelitico, Roma.

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vengono fissati dal DSM IV (1) sono:A. alterazione della coscienza (cioè, riduzio-ne della lucidità della percezione dell�am-biente), con ridotta capacità di focalizzare,mantenere o spostare l�attenzione.B. modificazione cognitiva (quale deficit dimemoria, disorientamento, alterazioni dellinguaggio), o lo sviluppo di una alterazionepercettiva che non risulta meglio giustificatada una preesistente demenza, stabilizzata oin evoluzione.C. l�alterazione si sviluppa in un breve perio-do di tempo (generalmente di ore o giorni), etende a presentare fluttuazioni giornaliereD. vi è la dimostrazione, fondata sulla storia,sull�esame fisico, o sugli esami di laboratorioche il disturbo è causato da:-conseguenze fisiologiche dirette di una con-dizione medica generale o

� sintomi A e B si sono sviluppati duranteuna intossicazione da sostanze o con uso difarmaci correlati al disturbo, o durante opoco dopo una sindrome da astinenza o

� il delirium ha più di una eziologia

La diagnosi differenziale più frequente del deli-rium si fa nei confronti della sindrome demen-ziale, dalla quale lo differenziano, soprattutto,l�esordio acuto, il decorso fluttuante, la coscien-za obnubilata, il marcato deficit attentivo.A seconda del quadro sintomatologico, il deli-rium viene diviso in 4 sottotipi: il tipo iperatti-vo, quello ipoattivo, il tipo misto e quello nonclassificabile. A seconda di vari studi, la preva-lenza dei 4 sottotipi varia tra 15-21% per il tipoiperattivo, 19-29% per il tipo ipoattivo, 43-52%per il tipo misto e 7-14% per il tipo indifferen-ziato (5, 11).Il delirium iperattivo è caratterizzato da sinto-mi psicotici (deliri, allucinazioni), da illusionicon agitazione psicomotoria e da sintomi vege-tativi come, tachicardia, diaforesi, midriasi, tre-mori, secchezza delle fauci, iperpiressia. Il tipoipoattivo è caratterizzato da un atteggiamentoritardato, silente, passivo, con disartria, atassiaed incontinenza sfinterica.Mentre la durata media della degenza dei pa-zienti con delirium risultava maggiore rispettoa quella dei pazienti esenti dal delirium (9,87gg vs. 6,95 gg) (9), quella dei pazienti affetti dadelirium ipoattivo o misto era doppia rispettoalla durata di degenza dei pazienti con deli-rium ipoattivo (11).Per quanto riguarda gli esiti, generalmente75% dei pazienti con delirium morivano en-

tro 3 anni, mentre la mortalità dei pazientisenza delirium, nello stesso periodo di fol-low-up si fermava ad un tasso di 51% (RR =2,19-2,24) (12). Un ulteriore studio su pazientiresidenti in nursing-homes, ricoverati inospedale con delirium, ha rilevato persisten-za dello stesso in 72% dei pazienti alla dimis-sione (o decesso); tale quadro persisteva in55% dei pazienti dopo 1 mese, mentre ancorail 25% dei pazienti presentavano segni di de-lirium a 3 mesi dalla dimissione (13). I pa-zienti affetti da delirium sovrimposto ad unstato demenziale sono più a rischio rispettoai loro controlli non dementi per un maggiordeterioramento cognitivo (misurato con ilMMSE) e funzionale (misurato col BarthelIndex) a 12 mesi dall�evento acuto necessitan-te di ricovero; inoltre i pazienti con deliriume demenza avevano più probabilità di istitu-zionalizzazione rispetto ai soggetti esenti daqueste 2 patologie (OR 3,18) (14).Tenuto conto degli effetti negativi del deli-rium sulla qualità di vita dei pazienti, sulpericolo maggiore di deterioramento psico-fisico e sulla loro più alta mortalità, risultamolto importante la messa a punto di inter-venti preventivi il delirium in questi pazien-ti; tali interventi, - in gran parte non farma-cologici, - come, mezzi per migliorare le ca-pacità visive od acustiche, interventi di mo-bilizzazione e di orientamento temporo-spa-ziale, correzione dell�insonnia o dei disturbimetabolici, - comportano un�incidenza mi-nore degli episodi di delirium, con minordurata e successivo miglioramento delle ca-pacità cognitive, di mobilità e sensoriali ri-spetto ai pazienti in cui tali misure preventi-ve non erano state effettuate (15).Il trattamento farmacologico del delirium ne-cessita di adeguate considerazioni riguardoal bilanciamento tra i benefici da ottenere e ipotenziali effetti collaterali. L�uso di farmacipsicotropi, se da un lato può migliorare lostato di agitazione con minor pericoli per ilpaziente stesso, dall�altro inficia una correttavalutazione dello stato cognitivo del pazientee lo pone a maggior rischio di cadute. I tran-quillanti antipsicotici sono quelli più usatinel trattamento del delirium, soprattutto ditipo iperattivo o misto; tra questi, l�aloperido-lo è il neurolettico più studiato ed accettato,in quanto meno sedativo ed ipotensivo, conmeno metabolici e con minori effetti collate-rali anticolinergici, rispetto alla clorpromazi-

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na. Invece, l�uso di benzodiazepine (es. Lora-zepam e.v.o.i.m.) permette di abbassare il do-saggio dei neurolettici. Inoltre le benzodiaze-pine sono indicate maggiormente nel deli-rium da astinenza da alcool o da sedativo-ipnotici (6).Per quanto concerne la gestione non-farmaco-logica del paziente con delirium è importanteprovvedere ad un corretto e semplice modo dicomunicazione col paziente, incluso un tenta-tivo di migliorare le sue capacità di orienta-mento; il paziente deve soggiornare in un am-

biente confortevole, senza sbalzi di luce, ru-mori, temperatura; vanno identificati e correttideficit sensoriali, va mantenuta un�attività fisi-ca continua, con congrui periodo di riposo.Infine, è importante ricordare che nella popo-lazione anziana i sintomi del delirium persi-stono anche dopo la fase acuta, quindi la pia-nificazione della terapia domiciliare posto-spedaliera deve focalizzarsi sulla riduzionedei fattori di rischio continui e sulla gestionedei deficit funzionali residuanti.

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Il Morbo di Parkinson è una delle più comunicause di disabilità, essendo la sua prevalenzacompresa tra 74 e 254 casi per 100.000 abitantinella popolazione generale e di circa l�1% aldi sopra dei 55 anni. L�incidenza varia tra 4.5e 21 casi per 100.000 per anno, è leggermentepiù elevata nel sesso maschile (rapporto ma-schi/femmine di 1.3) ed aumenta con l�età, al-meno fino alla nona decade di vita. Diversistudi hanno indagato fattori di rischio occu-pazionali nella eziologia del morbo diParkinson, ed in particolare il lavoro in agri-coltura collegato all�uso di erbicidi, ma i risul-tati sono stati discordanti. Il fumo di sigaretta,al contrario sembra essere un fattore protetti-vo, tramite meccanismi non ancora chiariti.I sintomi cardine del morbo di Parkinson so-no costituiti da tremore di riposo, rigidità atubo di piombo, acinesia e bradicinesia, com-promissione dei riflessi posturali. L�esordioperò è spesso subdolo, con sintomi limitatiad un emilato, spesso costituiti da faticabilità,disturbi della personalità e depressione del-l�umore. Sintomo precoce, di cui però il pa-ziente non è consapevole, è un deficit olfatti-vo. In fase conclamata si associano altre tipi-che manifestazioni, quali la facies figée, laparola abburattata, l�andatura a piccoli passicon ipercinesia paradossa, la micrografia lalimitazione dello sguardo verso l�alto, distur-bi autonomici. Vanno infine menzionati i di-sturbi psichici, costituiti da ansia e depressio-ne dell�umore e da demenza. Nella patogenesi del morbo di Parkinson èfondamentale la carenza di dopamina a livel-lo striatale, associata ad una ridotta a attivitàdella tirosina-idrossilasi ed a degenerazionedei neuroni della via nigro-striatale. Conco-mita una riduzione dei livelli di noradrenali-na nel locus coeruleus e di serotonina nei nu-clei del rafe mediano. Un contributo impor-tante alla conoscenza della patogenesi è statofornito dalla scoperta accidentale dell�effetto

tossico esercitato sulle cellule della sostanzanera da parte dell�MPTP, anche se l�ipotesitossica non ha ricevuto successivamente il so-stegno di studi epidemiologici.La diagnosi di morbo di Parkinson si basa

esclusivamente su criteri clinici ed è basatasul riscontro di bradicinesia e di almeno unodei seguenti sintomi: rigidità plastica, tremo-re di riposo, instabilità posturale. Criteri piùrecenti permettono però di effettuare unadiagnosi di certezza solo in presenza di un ri-scontro autoptico. Le recenti Linee guida per il trattamento delmorbo di Parkinson prevedono che nella fasecompensata di malattia, in casi ad esordioprecoce (<50 anni) deve essere preferita lamonoterapia con dopaminoagonisti, in quan-to la L-DOPA è più efficace ma determina inmolti casi una sindrome tardiva con fluttua-zioni motorie e discinesie dipendente dalladose somministrata oltre che da durata e gra-vità della malattia. In caso di tremore sonoconsigliati gli anticolinergici e l�amantadina.Al contrario, nei casi con esordio oltre i 70anni, decadimento cognitivo, episodi psicoti-ci o ipotensione ortostatica, contemporaneaassunzione di farmaci sedativi è preferibilel�uso di L-DOPA in monoterapia. Le opzioni terapeutiche in caso di deteriora-mento di fine dose sono: aumento del dosag-gio del dopaminoagonista, incremento deldosaggio o frazionamento delle dosi di L-DOPA, associazione di un inibitore delleCOMT, formulazioni L-DOPA a rilascio con-trollato, inibitori delle MAO-B. Le formula-zioni a rilascio controllato possono essere uti-li per migliorare l�acinesia notturna anche sepossono indurre allucinazioni notturne. In fase avanzata la malattia presenta una ri-sposta instabile alla terapia, per cui accantoalla terapia medica deve essere consideratol�impiego di presidi non farmacologici, qualideambulatori, dieta, fisioterapia. Il trattamen-to della depressione comprende psicoterapia,SSRI o antidepressivi triciclici. L�ipotensioneortostatica deve essere trattata con domperi-

LE SINDROMI PARKINSONIANE

Marini C., Russo T.

Clinica NeurologicaUniversità degli Studi di L’Aquila.

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done, collant elastici, aumento dell�apportoidro-salino ed uso di noradrenergici.Il morbo di Parkinson rappresenta circa l�80%di tutti i parkinsonismi. Altre forme sono co-stituite dai parkinsonismi degenerativi e daiparkinsonismi sintomatici o secondari. La Paralisi sopranucleare progressiva è il pro-totipo dei parkinsonismi degenerativi. È ca-ratterizzata da rapida evoluzione, risposta de-bole o transitoria alla L-DOPA, associazione aparalisi sopranucleare dello sguardo e/o defi-cit piramido-cognitivi. In particolare i pazien-ti presentano precoce instabilità posturale efrequenti cadute, deambulazione a base allar-gata, bradicinesia simmetrica e rigidità assia-le, paralisi pseudobulbare (precoce disartria edisfagia), aprassia dell�apertura degli occhi.Altra forma di parkinsonismo degenerativo èla Degenerazione corticobasale che si manife-sta con aspetti neurocomportamentali (apras-sia ideomotoria, sindrome dell�arto alieno,afasia disturbi visivi, comportamento di tipofrontale), disordini del movimento (acinesia erigidità asimmetrici non sensibili alla L-DO-

PA, distonia degli arti, mioclono focale stimo-lo-sensitivo, tremore d�azione) deficit sensitivocorticale, paralisi sopranucleare dello sguardo,segni piramidali, e paralisi pseudobulbare.L�Atrofia multisistemica è caratterizzata daparkinsonismo scarsamente responsivo allaL-DOPA, prevalentemente bradicinetico econ scarso tremore. Coesistono sintomi cere-bellari, soprattutto atassia della marcia, e di-sturbi autonomici costituiti da sincopi fre-quenti e disturbi sfinterici, urinari e fecali. Lademenza con corpi di Lewy si associa ad unquadro di parkinsonismo e a tipiche inclusio-ni neuronali a livello corticale. Si associanofrequentemente allucinazioni visive ed a vol-te depressione dell�umore. Tra le forme secondarie va ricordato ilparkinsonismo dovuto a farmaci, soprattuttoneurolettici, il parkinsonismo post-encefaliti-co, il parkinsonismo aterosclerotico, ilparkinsonismo post-traumatico, il parkinso-nismo tossico e quello da malattie metaboli-che ereditarie.

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“Tra le cure da somministrare all’ammalato termi-nale vanno annoverate quelle analgesiche. Queste,favorendo un decorso meno drammatico, concorro-no all’umanizzazione e all’accettazione del morire”.

(Carta degli Operatori Sanitari – PontificioConsiglio Pastorale per gli operatori sanitari.

Città del Vaticano, 1995)

In un�epoca in cui, come ha notato G. Gorer,la morte è diventata un tabù, l�essenza delle cu-re palliative, e tra esse della terapia del dolo-re che ne rappresenta uno dei primi obiettivi,è il riconoscimento della dignità e del valoredella vita, nonché della sua qualità.�Un giorno incontrai una persona che stavamorendo di cancro e la vidi lottare controquesta sofferenza terribile e le dissi: - Sai,questo non è che il bacio di Gesù, il segno chesei giunta così vicino a Lui sulla croce, cheEgli ti può baciare-. Ella congiunse le mani emi disse: - Suor Teresa, la prego, dica a Gesùdi smettere di baciarmi.�.Questo aneddoto, scritto da Madre Teresa diCalcutta, può aiutare a capire come nei mala-ti di cancro la dimensione del dolore rappre-senti l�espressione di un disagio vitale chedeve essere più attentamente valutata daglioperatori sanitari, anche perché la capacità didare sollievo dal dolore è un dovere per ilmedico e un diritto per il malato.Nel paziente anziano, la terapia del dolore as-sume caratteristiche peculiari, riguardo alla va-lutazione e al controllo, in relazione al ridottoperformance status legato all�età, alle patologieassociate, in primo luogo quelle cronico-dege-nerative, all�assunzione contemporanea di piùfarmaci, alle frequenti carenze nutrizionali.I fenomeni primari dell�invecchiamento, a li-vello cellulare, si manifestano con alterazionidelle attività enzimatiche e dei meccanismirecettoriali. Con l�invecchiamento, la massacorporea magra diminuisce ed aumenta quel-la adiposa con modificazioni della distribu-

zione dei farmaci in funzione della loro idro eliposolubilità. Infine, nell�anziano vi è una ri-duzione variabile della clerance renale, cau-sata dalla diminuzione del flusso sanguignorenale e dei processi di filtrazione glomerula-re e secrezione tubulare, che riducono l�elimi-nazione renale dei farmaci.I dati della letteratura evidenziano che moltipazienti con cancro in età avanzata non ricevo-no alcuna terapia analgesica e, in particolare,morfina e altri oppioidi forti vengono prescrittiin percentuale significativamente inferiore.Anche nell�anziano, va riconosciuta al doloredignità, non di semplice sintomo di una pato-logia primitiva, ma di malattia a se stante che,in quanto tale, deve essere affrontata il piùprecocemente possibile, al fine di evitare che ilsuo perdurare sconvolga la vita del soggetto.In tal senso, vanno alcuni provvedimenti le-gislativi italiani come il decreto �Verso unOspedale senza dolore� del 29/06/01, chemira a diffondere la cultura della terapia deldolore in tutti i settori dell�assistenza medica,e la legge n.12 del 8/12/2000 che ha modifi-cato la prescrizione di oppioidi, semplifican-do le procedure e rimuovendo gli ostacoli bu-rocratici che prime ne limitavano l�impiego ascopo terapeutico. Nel 2000 l�Italia era all�ul-timo posto, in Europa, nella prescrizione dianalgesici narcotici per la terapia del dolore(Fig. 1). La nuova legge prevede che la ricettapossa essere scritta a ricalco (e non più a ma-no) in duplice copia, dal medico di famiglia oda quello ospedaliero, e che la prescrizionepossa comprendere fino a due preparazioni odosaggi della terapia necessaria per 30 giorni(contro gli 8 della precedente legge). Inoltre,essa consente ai medici di praticare la terapiadel dolore al domicilio del paziente, evitandole sanzioni previste per la violazione dellenormative sul trasporto delle sostanze stupe-facenti. Con una dichiarazione del medico, eprevia identificazione da parte del medico odel farmacista, anche gli infermieri o un fa-miliare possono ritirare e consegnare a domi-cilio le sostanze.

LA TERAPIA DEL DOLORE NEOPLASTICO: UNA SFIDA DI TUTTI I TEMPI

Greco G.

Servizio di Anestesia e RianimazioneOspedale di Subiaco, ASL Roma G.

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I benefici sono estesi a tutti i pazienti affettida dolore severo con patologia neoplastica odegenerativa.

APPROCCIO AL DOLORE

La terapia farmacologia non è l�unica strategiada utilizzare per ottenere il controllo del dolo-re. Essa da sola può non essere sufficiente e vaassociata ad altre terapie concomitanti, qualiquelle fisiche (elettrostimolazione, agopuntura,fisioterapia ecc.) e, soprattutto, ad un adeguatorapporto medico-paziente o infermiere-pazien-te, basato su un�adeguata preparazione psico-logica, che consenta al personale sanitario diriuscire ad entrare nel vissuto del soggetto sof-ferente e, nello stesso tempo, di non esserecoinvolti dall�ansia e dall�angoscia che, inevita-bilmente, i pazienti con dolore trasmettono.Come ha scritto S.Natoli nel 1986: “Il dolore èsolo di chi soffre, ma di fronte ad una qualsiasisofferenza irrompe, tremenda, la possibilità di sof-frire: da qui la tresca, il sentirsi in un certo sensotutti coinvolti, il colloquio senza parole tra i se-gnati dal dolore e i candidati possibili.”.In base alle indicazioni dell�American Societyof Anesthesiologist del 1996, per gestire almeglio il dolore, il medico deve conoscere l�e-satta diagnosi e la situazione clinica del pa-ziente, comprese le altre patologie associate. La valutazione del dolore deve tener contodella possibile compromissione delle funzio-ni cognitive che spesso si accompagna al pro-cesso dell�invecchiamento.Le persone anziane riportano meno frequen-temente e con minore intensità il dolore, pro-babilmente perché con l�età subentra unamaggiore accettazione del dolore.I metodi più comunemente utilizzati per lamisurazione dell�intensità del dolore sono le

scale di intensità, di sollievo e questionarimultidimensionali.Le scale di intensità sono scale analogiche vi-sive (VAS), numeriche (NRS) e verbali (VRS).Le VAS sono linee rette lunghe 10 cm con leestremità ancorate ad una definizione, adesempio �nessun dolore� e �massimo dolorepossibile�.Nelle NRS da 0 a 10, si considera la soglia di5 il limite tra un dolore lieve ed un doloremoderato che inizia a interferire con le atti-vità quotidiane del paziente.Le VRS utilizzano aggettivi per descriverel�intensità del dolore.I questionari multidimensionali sono strumentipiù complessi, dei quali il McGill PainQuestionnaire è stato formulato da Melzack nel1975 ed è basato sull�uso di 78 descrittori deldolore che comprendono 3 dimensioni (senso-riale, affettiva e valutativa) e 20 sottoclassi.Mentre l�anziano senza profonda compromis-sione cognitiva è in grado di utilizzare corret-tamente le VAS,le NRS e le VRS, esse sonoinutili nei pazienti con demenza. In questipazienti è importante l�osservazione compor-tamentale e l�uso di scale verbali più sempli-ci, tipo quella di Likert nella quale è previstol�utilizzo di termini molto semplici come �no,un po�, molto, moltissimo�.

FISIONOMIA DEL DOLORE

Il dolore è stato definito dalla IASP(International Association of Study on Pain)�un�esperienza sensoriale o emotiva spiace-vole associata ad un danno tissutale poten-ziale o in atto�.Nella metà degli anni ottanta è stato propo-sto di definire il dolore come �l�avvenuta pre-sa di coscienza di un messaggio nocicettivo�.La classificazione del dolore in acuto e croni-co non è di univoca interpretazione, ancheperché il termine �acuto� non rappresentanecessariamente il contrario di �cronico�.Il dolore neoplastico, ad esempio, è conside-rato cronico per definizione, mentre può trat-tarsi di un dolore insorto da poco tempo ov-vero regredibile o, ancora, essere legato aduna nuova situazione algogena acuta che sisovrappone al precedente dolore.Classicamente, si effettua anche la distinzionetra dolore cronico benigno (non oncologico) emaligno (oncologico) indipendentemente dal-la prognosi e dall�impatto sulla qualità di vita.

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Fig. 1 – Terapia del dolore: uso di analgesici narcoticiin Europa Unità/abitante.

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Da un punto di vista fisiopatologico, è utiledistinguere il dolore in:1. nocicettivo somatico, dovuto alla stimola-

zione di terminazioni nervose libere;2. nocicettivo viscerale, quando origina da

un danno a carico di organi innervati dalsistema nervoso simpatico;

3. neuropatico, prodotto dal danno a livellodel sistema nervoso periferico e centrale.

Nel 1986, l�Organizzazione Mondiale dellaSanità (OMS) ha pubblicato le prime lineeguida di trattamento del dolore oncologico,riadattata nel 1996. Esse prevedono l�uso sequenziale di tre classidi farmaci: 1) FANS; 2) Oppioidi Minori; 3) Oppioidi Maggiori (Fig. 2).Questi farmaci possono essere associati a far-maci adiuvanti. La via di somministrazionedi prima scelta è quella orale.Affinché una terapia antalgica sia efficace, es-sa: a) deve prevenire l�insorgenza del dolore;b) deve essere di facile somministrazione; c)deve essere personalizzata.Solo quando l�approccio farmacologico risul-ta inefficace è indicato il ricorso a blocchi ner-vosi e tecniche neuroinvasive.

FANS

I FANS esplicano la propria azione principal-mente attraverso l�inibizione competitiva, pe-riferica e centrale, dell�enzima ciclo-ossigena-si (COX), che catalizza la conversione dell�a-cido arachidonico in un endoperossido insta-bile (PGG2), substrato per la formazione diprostaglandine, trombossani e prostacicline.La ciclo-ossigenasi esiste in due isoforme,COX-1 e COX-2, inibite in maniera non selet-tiva dai FANS tradizionali. Dall�inibizionedella COX-1 sembrano derivare gli effetti tos-

sici, mentre l�inibizione della COX-2 sarebbealla base dell�azione antinfiammatoria, anti-piretica ed analgesica.Con l�obiettivo di evitare gli effetti collaterali,sono stati introdotti in commercio degli inibi-tori selettivi della COX-2.I FANS sono efficaci nel trattamento di dolorida cancro dovuti alla stimolazione delle termi-nazioni nervose libere delle fasce muscolari,dei tendini, delle membrane sierose e del pe-riostio; da distensione meccanica del sottocute,della pleura e del peritoneo. È ormai ampia-mente accettato che essi abbiano anche un�a-zione centrale non prostaglandino-mediata.I loro effetti collaterali sono subdoli e noncontrollabili, primi tra tutti i sanguinamentigastrointestinali. La tossicità renale è minimanei soggetti normali mentre effetti lesivi pos-sono manifestarsi in pazienti con insufficien-za cardiaca congestizia, cirrosi epatica conascite, nefropatia cronica o ipovolemia. IFANS possono anche provocare ritenzioneidrica, edemi ed esacerbazione di una iper-tensione. Inoltre, inibendo l�attivazione pia-strinica, essi portano ad un aumento del tem-po di sanguinamento.Nell�anziano, sono senz�altro da preferireFANS a breve emivita (ac.acetilsalicilico abasse dosi, ketoprofene, ibuprofene) con po-sologie iniziali ridotte, tali da provocare mi-nor effetto gastrolesivo e capacità di indurrepiastrinopenia.Si deve tener presente che nell�anziano l�usodi anti-H2, a scopo gastroprotettivo, è grava-to da una maggiore incidenza di effetti colla-terali (disorientamento, bradicardia).

OPPIOIDI MINORI

Gli oppioidi minori sono principalmente:� Codeina, alcaloide dell�oppio con una poten-

za di circa 1/10 rispetto alla morfina ed un

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Fig. 2 – Terapia del dolore: uso di analgesici narcotici in Europa Unità/abitante.

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effetto tetto alla dose di circa 360mg.È di-sponibile in associazione con il paracetamo-lo (30 mg di codeina e 500 di paracetamolo).La dose giornaliera di 6g di paracetamolo èconsiderata tossica e, pertanto, il dosaggiomassimo consigliato è di 1 cp ogni 6 ore.

� Tramadolo, farmaco sintetico che si è dimo-strato efficace nel dolore neuropatico.Haun�azione combinata in quanto agisce suirecettori degli oppioidi ed inibisce il re-up-take della serotonina. La dose massimagiornaliera è di 400mg al giorno. L�85% diuna dose orale è metabolizzata nel fegatodando origine ad un metabolica attivo, 2-4volte più potente del precursore. L�emivitadi eliminazione è di circa 5-6 ore e raddop-pia in pazienti con alterazioni epatiche o re-nali. Pertanto, nel paziente anziano l�inter-vallo tra le dosi deve essere aumentato e vagarantita un�adeguata idratazione.

OPPIOIDI MAGGIORI

È documentato un aumento della sensibilitàad essi in età avanzata, legato alla rallentataeliminazione nell�anziano.� Morfina Orale: esiste in diversi tipi di for-

mulazioni, da quella a breve o immediatorilascio, che devono essere somministrateogni quattro ore, a quella a lento rilascio.Poiché la clearance della morfina diminui-sce oltre i 50 anni, nell�anziano sono prefe-ribili le formulazioni a più breve emivita.

� L�associazione di morfina orale e ranitidinain pazienti con una anche lieve insufficien-za renale provoca un aumento dell�azionedella morfina orale e sono stati riportati ca-si di tossicità soprattutto a carico del siste-ma nervoso centrale, che si manifestanocon sedazione, confusione e delirio e regre-discono con la sospensione della ranitidina.

� Metadone, oppioide sintetico, ha, rispetto al-la morfina, il vantaggio di non avere meta-boliti attivi e appare particolarmente indi-cato nel trattamento del dolore oncologiconel paziente in età avanzata.

� Fentanyl, 75 volte più potente della morfi-na, è disponibile in formulazioni transder-miche a rilascio controllato per 72 ore. È in-dicato nei pazienti che non possono assu-mere oppioidi per via orale e che utilizzanouna dose di oppioide stabile.Sintomi daastinenza (dolore addominale, diarrea,nausea, sudorazione e agitazione), nono-

stante un adeguato controllo della sintoma-tologia algica, si sono registrati in pazientinelle prime 24-48 ore dopo la sostituzionedi morfina orale o sottocutanea con fen-tanyl transdermico, e sono regrediti con lasomministrazione di morfina. Essi sono at-tribuiti all�azione dei due oppioidi su sotto-classi diverse di recettori. Da tener presenteè anche la possibilità di depressione respi-ratoria in pazienti trattati con 5-fluorouraci-le e fentanyl transdermico.

Il passaggio sequenziale da oppiacei deboliad oppiacei forti è oggetto di discussioni per-ché, sotto il profilo farmacologico, a dosiequianalgesiche non esistono differenze tra idue gruppi.Gli effetti collaterali, come già sottolineatoamplificati nell�anziano, comprendono l�ipo-tonia della muscolatura liscia, con frequentecomparsa di stipsi, fino a casi estremi di oc-clusione intestinale.Temibili sono gli effetti depressivi sul S.N.C.con riduzione della frequenza respiratoria,della ventilazione alveolare e della rispostaall�ipercapnia o all�ipossia.Il fenomeno della tolleranza, per il quale permantenere la stessa azione analgesica è ne-cessario un aumento progressivo della dose,è meno importante nel paziente anziano.

FARMACI ADIUVANTI

In tutti i gradini della scala OMS, è previstol�uso di adiuvanti, gruppo eterogeneo dicomposti, comprendenti principalmente lebenzodiazepine, gli antidepressivi triciclici,gli anticonvulsivanti e i corticosteroidi.� Tra gli antidepressivi, l�aminotriptilina è po-

co maneggevole nel soggetto anziano su-scettibile ad effetti collaterali anticolinergi-ci.Rispetto al giovane, a parità di dosaggio, ilivelli circolanti risultano più elevati a causadella ridotta clearance metabolica epatica, diun maggiore legame proteico (i triciclici silegano alle alfa -1 glicoproteine acide, la cuiconcentrazione è spesso aumentata nel pa-ziente oncologico e nell�anziano) e del mag-giore volume di distribuzione. Pertanto, èconsigliato l�uso di dosi iniziali inferiori e diincrementi di dosaggio più contenuti.

� Tra gli anticonvulsivanti, la carbamazepi-na può esser di difficile gestione nell�anzia-no che non raramente è affetto da compro-missione della funzione midollare ossea,

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per la sua tendenza a ridurre i globuli bian-chi. Inoltre, interferisce con il dosaggio difarmaci come la digossina, la teofillina e glianticoagulanti orali.

� Di più recente utilizzo nel dolore neuropa-tico è la gabapentina che, a livelli di anal-gesia sovrapponibili, mostra effetti collate-rali minori.

� I corticosteroidi, infine, restano un�opzioneterapeutica fondamentale anche nell�anzia-no. Bisogna ricordare che quelli potenti, co-me il desametasone, specie per uso prolun-gato, possono favorire complicanze neuro-logiche, gastrointestinali e metaboliche.

� Un cenno a parte va fatto ai bifosfonati, uti-lizzati nel trattamento dei dolori ossei meta-statici. Essi hanno mostrato una relativa si-curezza anche in pazienti con funzionalitàcompromessa. Gli unici effetti collaterali di-mostrati sono stati una diminuzione dellacalcemia in pazienti con malattia metastati-ca diffusa ed una febbre transitoria. Studirecenti hanno mostrato una buona efficaciadel pamidronato se utilizzato secondo il se-guente schema: 3 infusioni in 15 giorni, 3

settimana di pausa, 3 infusioni in ulteriori15 giorni e, in seguito, una infusione ogni 3settimane per un totale di 30 infusioni. Ibifosfonati hanno un buon effetto analgesi-co, che si traduce in una diminuzione delconsumo di farmaci antidolorifici, influen-zando positivamente la qualità di vita.

CONCLUSIONI

La terapia antalgica nell�anziano deve ispi-rarsi alle cinque regole di Portenoy:1. Utilizzare farmaci con emivita breve.2. Prescrivere un farmaco per volta, per evita-

re l�insorgenza di effetti tossici cumulativi.3. Iniziare con dosi basse di farmaco, pari a

metà o due terzi della dose che si sommini-strerebbe nel paziente più giovane.

4. Essere consapevoli delle possibilità di effet-ti sedativi.

5. Perseverare nei tentativi farmacologici perun adeguato periodo di tempo, soprattuttose, come è consigliabile, si inizia con bassedosi e si aumenta gradualmente la posologia.

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L�adeguatezza delle modalità e delle forme disomministrazione dei farmaci costituisce unaproblematica centrale dell�assistenza infer-mieristica nella gestione del paziente oncolo-gico e richiede necessariamente competenzetecniche specifiche.La conoscenza dei farmaci, dei dosaggi, dellavia e velocità di somministrazione, degli effetticollaterali, delle misure preventive per ridurreal minimo la tossicità, le modalità di tratta-mento delle possibili reazioni avverse, sono es-senziali per la corretta informazione del pa-ziente, l�accuratezza nella somministrazione ela prevenzione di complicanze importanti ol-treché per l�adozione di misure di profilassi deirischi per il personale infermieristico.La preparazione culturale, l�addestramento alriguardo, ivi compresa la valutazione delleconoscenze e delle capacità tecniche acquisi-te, devono far parte della formazione di basedell�infermiere circa la manipolazione e lemodalità di somministrazione della chemio-terapia antiblastica.A tale scopo, le istituzioni dovrebbero elabo-rare delle linee guida per la pratica infermie-ristica oncologica prevedendo sin dai corsi dibase dell�iter professionale, una preliminarespecifica informazione sulla materia.

MODALITÀ DI SOMMINISTRAZIONE

La chemioterapia può essere somministrata se-condo varie modalità: per via orale, sottocuta-nea, intramuscolare, endovenosa, intraperito-neale, intra-arteriosa ed intraventricolare.I pazienti che ricevono la chemioterapia pervia orale necessitano di istruzioni accuratesul dosaggio e sul regime di somministrazio-ne oltre ad una verifica sistematica degli ef-fetti collaterali e dell�aderenza allo schema ditrattamento.

Analoghe conoscenze si considerano indi-spensabili anche nel ricorso alla via endove-nosa che rappresenta la modalità di sommi-nistrazione più comune della chemioterapia.Peraltro anche per le vie di somministrazionemeno frequenti, quali la via sottocutanea, in-tramuscolare, si impongono le stesse atten-zioni e lo stesso impegno nell�informazioneal paziente e nella verifica della corretta effet-tuazione del trattamento.

ACCESSI VENOSI

Rappresentano le vie di somministrazione dipiù frequente riscontro associando ad unasemplicità di attuazione la garanzia di unaadeguata introduzione dei principi terapeutici.a) Accesso venoso periferico: realizzato con

ago o agocannula rappresenta la più sem-plice modalità di accesso venoso, da utiliz-zarsi preferibilmente per i trattamenti che-mioterapici a breve termine o intermittente.

b) Accessi venosi centrali: nel paziente onco-logico costituiscono indicazioni all�uso dicateteri venosi centrali in regimi chemiote-rapici intensivi, le infusioni continue e unaccesso venoso periferico difficoltoso, le te-rapie a lungo termine, i trattamenti di du-rata indefinita, i pazienti ospedalizzati cherichiedano terapie di supporto intensive odi lunga durata.

c) Cateteri venosi a breve termine: la duratalimitata della terapia, sia essa chemiotera-pia o di supporto costituisce l�indicazionepiù comune all�impiego di cateteri a brevetermine. Essi sono radio-opachi di piccolocalibro, da inserire per via percutanea conposizionamento di un punto di sutura. Lascelta di un catetere può dipendere dai de-sideri del paziente, dalle necessità di assi-stenza al catetere, da fattori legati all�istitu-zioni, come dalle preferenze dei medici,dei pazienti e dalle consuetudini nellasomministrazione della chemioterapia.

ASPETTI E PROBLEMATICHE NELLASOMMINISTRAZIONE DEI

CHEMIOTERAPICI ANTIBLASTICI

Checchi A.

Unità Operativa di Oncologia MedicaOspedale di Tivoli, ASL Roma G.

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FORME E VIE DI SOMMINISTRAZIONE

1. Somministrazione endovenosaPrimo requisito di una somministrazione affi-dabile dei farmaci è la conoscenza delle loroindicazioni, delle dosi di somministrazioni edegli effetti collaterali. È essenziale quindiuna valutazione prima del trattamento ed ilconsenso informato del paziente. Prima della somministrazione vera e propria,l�infermiere dovrebbe verificare che il medicoabbia fornito per scritto una prescrizionecompleta, siano stati controllati tutti i dati dilaboratorio del paziente e le necessarie misu-re di supporto (come l�idratazione e la tera-pia antiemetica) sia previste ed incluse nelprogramma di somministrazione.

2. Somministrazione venosa continuaLa somministrazione di farmaci chemiotera-pici per via endovenosa continua è divenutarealizzabile negli ultimi anni grazie alla di-sponibilità di pompe per infusione e di cate-teri per accesso venoso a lungo termine.Il principio cardine di tale modalità sommini-strativa si fonda sulla constatazione che l�a-zione terapeutica della chemioterapia endo-venosa continua (CEC) si esplica contro lecellule neoplastiche solo quando queste ulti-me si trovino in fase di ciclo replicativo.Esistendo una notevole eterogeneità nella du-rata del ciclo cellulare tra i vari tumori uma-ni, la CEC può superare questo problemapratico e quindi risultare più efficace di unasomministrazione in bolo.

3. CronoterapiaUna somministrazione alternativa a quellatradizionale viene rappresentata dalla �cro-noterapia� attuata mediante somministrazio-ne di farmaci chemioterapici secondo ritmi ditempo precisi.Lo studio del processo infusivo dei chemiote-rapici, attuato nell�arco delle 24 ore secondotempi stabiliti, ha evidenziato l�influenza di-retta che può assumere l�ora di somministra-zione sull�assorbimento, la distribuzione el�eliminazione del farmaco, sulla minore tos-sicità e migliore efficacia terapeutica.La crono-chemioterapia quindi che si fondasulla individuazione di ore e tempi specificiper la somministrazione, diffusa soprattuttoin Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, si im-piega per ora nel trattamento di masse tumo-

rali di organi e apparati sui quali è più facileintervenire con biopsie mirate, utili al moni-toraggio degli effetti dei farmaci impiegati.Particolarmente rispondenti a tale metodicasono risultati il carcinoma del colon retto,della mammella e del pancreas.Un ulteriore importante vantaggio della cro-no-chemioterapia è rappresentato anche perla possibilità di essere somministrata al difuori della struttura sanitaria migliorando intal modo anche la vita del paziente stesso .Dal punto di vista tecnico, i farmaci antitumora-li vengono preparati ed inseriti nel sistema infu-sionale portatile chiamato �pompa� che a suavolta viene collegata ad un catetere d�infusione.Il picco di maggiore efficacia e di minore tossi-cità del farmaco coincide sempre e corrispondead un migliore effetto farmacologico e terapeu-tico che di realizza allorché la sostanza attivaraggiunge le cellule tumorali in fase di prolife-razione, (situazione intracellulare che nei tessu-ti neoplastici del colon, della mammella e delpancreas avviene durante le ore pomeridiane.

4. Somministrazione endoperitonealeI tumori maligni confinati al cavo peritonea-le, come il carcinoma ovario, possono non ri-spondere alla terapia sistematica per l�inca-pacità dei chemioterapici di attraversare labarriera peritoneale.La somministrazione del farmaco direttamen-te in cavo peritoneale determina concentra-zioni locali più elevate e una maggiore esposi-zione del tumore all�effetto antiblastico.Per l�effettuazione della chemioterapia intra-peritoneale viene posizionato un catetere at-traverso la parete addominale anteriore, all�in-terno del cavo peritoneale, che garantisce unaccesso per la somministrazione della terapiain peritoneo, consente un esame citologico epermette l�evacuazione dell�eventuale ascite.La somministrazione della chemioterapia in-traperitoneale segue i principi fondamentalidella dialisi peritoneale.I farmaci sono preparati in 1�2 lt di soluzio-ne, rimangono 1� 4 ore nel cavo peritoneale eal paziente si richiede di cambiare posizioneperiodicamente per garantire una distribu-zione ottimale nella cavità addominale diquanto introdotto.

5. Altre vie di somministrazione Vie di somministrazione meno frequenticomprendono quella infusionale intra-arte-

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riosa quella intra-cavitaria (vescica cavopleurico) e quella perfusionale intra-arterio-sa, a carico degli arti.Le implicazioni per l�assistenza infermieristi-ca dipendono dalla sede anatomica di som-ministrazione della chemioterapia, dagliagenti specifici utilizzati e dagli effetti colla-terali prevedibili in rapporto ai farmaci, alledosi ed alle procedure seguite.

ASPETTI OPERATIVI

Il trattamento con farmaci chemioterapici èun processo collaborativo interdisciplinare.Il medico, l�infermiera il farmacista e/o il tec-nico farmacista sono i principali professioni-sti responsabili per una somministrazione si-cura dei farmaci.Per evitare qualsiasi errore di somministra-zione nella chemioterapia, si raccomanda for-temente che le istituzioni abbiano un sistemadi controllo, che descriva i passaggi nel pro-cesso di prescrizione dei farmaci e di verificadella prescrizione stessa, che definisca le spe-cifiche responsabilità nell�ambito delle proce-dure attuative.Prescritto l�ordine e calcolata la dose si racco-manda che vi sia un sistema di controllo �adue persone�.Le comuni raccomandazione prevedono chedue infermieri confermino l�ordine impartitovalutando la correttezza delle dosi del farma-co, dei tempi e dello schema di somministra-zione indicate; che una delle due persone ve-rifichi la superficie corporea e il calcolo delladose e che si identifichi il paziente prima del-la somministrazione della terapia (non esclu-dendo peraltro l�errore di persona stante ilpossibile rischio di omonimia).I farmaci devono essere somministrati secon-do la prescrizione del medico, il protocolloclinico e le norme generali per la durata del-

l�esposizione del personale. Si deve costante-mente controllare il sito di iniezione per l�e-ventuale comparsa di segni di infiltrazionedei tessuti. Nel caso di vene centrali con ser-batoio impiantabile (Port-A-Cath) occorre ve-rificare l�area del serbatoio per eventuali se-gni di stravaso.Occorre controllare la pervietà della vena me-diante l�uso di soluzione fisiologia o acquadopo la somministrazione e tra un farmaco el�altro nel caso di un regime polichemiotera-pico. Occorre controllare il paziente per lacomparsa di eventuali reazioni. La sommini-strazione deve essere interrotta immediata-mente alla comparsa di qualsiasi segno distravaso.Se non vi è resistenza all�infusione o imbibi-zione dei tessuti, si verifica la pervietà dellavena con soluzione fisiologica. Qualora i sin-tomi regrediscano si può riprendere la som-ministrazione lentamente controllando atten-tamente la sede dell�iniezione.La somministrazione va interrotta immedia-tamente anche nel caso di comparsa di qual-siasi reazione generalizzata; in tale evenienzadeve essere avvertito il medico predisponen-dosi per un trattamento immediato sulla basedella tossicità del farmaco utilizzato.A conclusione del processo operativo e quindidell�avvenuta somministrazione, è essenzialeregistrare l�indicazione del sito di iniezione(sede anatomica e tipo di dispositivo impiega-to), i farmaci somministrati, le dosi, la solu-zione utilizzata per il lavaggio della vena eogni effetto collaterale insorto; eventuali rea-zioni allergiche e/o tossiche e locali o sistemi-che nonché la descrizione morfologica del sitod�iniezione durante e dopo l�infusione.Infine garantire un corretto smaltimento dei re-sidui farmacologici e dei mezzi tecnici utilizza-ti allo scopo di non esporre il personale opera-tivo e l�ambiente a pericolose contaminazioni.

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Direttore del Dipartimento A.O.A. farmaceutica ASLRoma/G

Con il provvedimento del 05/08/1999, laconferenza stato-regioni ha emanato lineeguida per la sicurezza e la salute dei lavora-tori esposti a chemioterapici antiblastici inambiente sanitario (G.U. n. 236 del07/10/1999).Lo scopo è quello di ridurre il rischio di con-taminazione accidentale e sensibilizzare ilpersonale sanitario alla Prevenzione.Per fare questo è necessario informare tuttigli operatori interessati alla manipolazionedei farmaci antiblastici:

1) sulle caratteristiche tossiche di tali farmaci

2) sulle modalità di esposizione e contamina-zione

3) sul tipo di danno per la salute.

Uno studio condotto dall'I.S.S. ha messo inevidenza che il rischio maggiore è riferitoagli operatori che preparano i CTA piuttostoche a coloro che li somministrano soltanto.Solo una idonea informazione e un rispettodi tali norme per la buona preparazione e si-curezza possono ridurre di circa il 40% il ri-schio di contaminazione accidentale durantela preparazione e manipolazione di chemio-terapici antiblastici.

ATTUALI NORMATIVE SULLA PREPARAZIONE DI FARMACI ANTIBLASTICI

Santini G.

FONTI

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LA NUTRIZIONE UMANA

Viviamo un periodo meraviglioso della storiadel progresso umano. Molte discipline, e traqueste la scienza dell�alimentazione, hannopartecipato a far cambiare radicalmente il vol-to del mondo, le abitudini dell�uomo, la duratadella vita, le garanzie del benessere e di salute.L�alimentazione, regolata empiricamente nel-l�antichità, ha trovato dapprima un inizialericonoscimento scientifico con la scoperta deiprincipi alimentari (protidi, glucidi e lipidi) edelle leggi fondamentali che presiedono aiprocessi vitali, poi in questo secolo è divenu-ta una vera scienza per la conoscenza piùprofonda delle correlazioni esistenti fra ladieta, lo stato di salute e malattia.La nutrizione clinica, che dovrebbe trovare ilsuo proprio spazio nella terapia medica, haavuto una sensazionale riscoperta nelle sueforme parenterale ed enterale, grazie alle co-noscenze dei danni causati dal prolungato di-giuno, dalle carenze di cui sono affetti i pa-zienti ospedalizzati e, soprattutto, dalle com-plicanze cui va incontro chi non venga ade-guatamente nutrito in corso delle patologiepiù diverse.Paradossalmente la riscoperta di quanto siaimportante nutrire è avvenuta attraverso losviluppo della nutrizione per via parenterale:inizialmente essa era incompleta in alcunisuoi componenti come lipidi, oligoelementi,vitamine, per la mancanza di forme iniettabi-li. Questo ha portato alla nascita di una nutri-zione enterale complementare, nel tentativodi vicariale con i prodotti disponibili even-tuali carenze e situazioni patologiche caratte-rizzate da un tratto gastroenterico compro-messo. La nutrizione enterale si identificacon le forme di alimentazione diretta nel tubodigerente, attraverso la somministrazione avari livelli di alimenti adatti alle situazioni

patologiche da trattare, mentre vengonoescluse le somministrazioni per os di alimentinaturali.La somministrazione di alimenti naturali me-diante cannule è nota dal 1400; nel secoloscorso fu ampiamente utilizzata la via naso-faringea e rettale, quest�ultima ben presto ab-bandonata perché dimostratasi assolutamen-te inefficace. Le procedure chirurgiche pro-gredirono presto fino alla realizzazione di di-giunostomia in corso di gastroentoanastomo-si e comparvero descrizioni di somministra-zioni di alimenti intraoperatorie o immedia-tamente successive.La nutrizione enterale comunque assunse, fi-no a 20 anni or sono, più la connotazione diun conforto ad una anoressia o ad una ca-chessia conclamata, che una pratica terapeu-tica scientificamente intesa. Né erano di aiutoalla sua diffusione i mezzi disponibili a rea-lizzarla, costituiti da tubi di gomma mal tol-lerati e miscele nutrizionali empiriche e spes-so inadeguate.La nutrizione enterale fino a non molto tem-po fà consisteva in cibi liquidi o solidi frullatie diluiti, la comparsa dei primi idrolizzati dicaseina risale agli anni trenta. Nel 1924 ap-parve la prima dieta commerciale definita co-me formula (Nutramigen Mead-Johnson),successivamente seguita dallo sviluppo dialimenti ipoproteici destinati a bambini affet-ti da patologie metaboliche di tipo ereditario.Nel 1953 ebbero inizio le prime esperienzecon diete contenenti proteine intatte, le cosid-dette diete polimeriche e negli anni cinquan-ta vennero effettuate ricerche sperimentalisulla essenzialità di alcuni loro componenti.Negli anni sessanta la NASA sponsorizzòWinitz per ricerche, in vista di una loro appli-cazione nello spazio e così nacque il Vivonex,punto di riferimento dei ricercatori di allorasulle nuove possibilità della nutrizione ente-rale.Si aprì la strada a mille prodotti, talora asso-lutamente simili, altre volte molto differentitra loro, etichettati come elementari, �degli

L’ALIMENTAZIONE ENTERALE

Proietti F.

Dirigente Assistenza InfermieristicaOspedale “A. Angelucci” SubiacoASL Roma/G

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astronauti�, chimicamente definiti, polimeri-ci, naturali, essenziali eccetera, nomenclaturanon codificata e causa spesso di confusione edi indicazioni scorrette.

INDICAZIONI ALLANUTRIZIONE ENTERALE

Trovano indicazioni alla nutrizione enteraletutti quei soggetti che si trovano con fenomenidi malnutrizione in atto o che siano potenzial-mente in condizioni predisponenti. Lo stato dimalnutrizione può essere sostenuto da un�as-sunzione insufficiente o da perdite e consumieccessivi. È quindi indispensabile trattare ilcandidato a tale forma di supporto nutriziona-le adottando i medesimi criteri applicati al pa-ziente in trattamento parenterale, determinan-done con precisione i fabbisogni e stimandoaccuratamente le perdite.A parità di calorie somministrate si potrà con-statare come una nutrizione enterale ben con-dotta applicata a una corretta indicazione,possa essere vantaggiosa rispetto alla equiva-lente parenterale, se non altro per il minoreimpegno della sua conduzione.Premessa assoluta per la sua realizzazione è ildisporre di un canale gastroenterico sufficien-temente funzionante e privo di stenosi.Sono quindi potenzialmente candidati i pa-zienti affetti dalle patologie indicate nella ta-bella 1.

COMPONENTI DI UNA DIETA ENTERALE

Le diete enterali commerciali sono attualmen-te disponibili in forma di polveri o di prodotti

liquidi e, benché molto numerose, esse rispon-dono a delle caratteristiche generali comunisia per quanto riguarda la composizione, siaper la finalità della somministrazione di tuttigli elementi necessari. La componente glucidi-ca è rappresentata da carboidrati sotto formadi amidi (>400 unità di glucosio), polisaccari-di(>10 unità ), e oligosaccaridi, tutti destinati ascissione totale. Una normale alimentazioneprevede una quantità di carboidrati pari al 40-60% dell�apporto energetico.La componente proteica è rappresentata, nelleformulazioni enterali, da amminoacidi liberi(diete elementari), peptidi oppure, in alternati-va, da proteine intere: queste ultime si sono ri-levate, in pazienti con intestino sano, più effi-caci rispetto agli amminoacidi liberi, mentre intalune situazioni di maldigestione emergono ivantaggi della idrolisi parziale delle proteine.La componente proteica oltre a fornire un ap-porto energetico, mediamente stimato attornoal 10-25%, rappresenta il substrato essenzialedi tutte le ulteriori sintesi proteiche di struttu-re cellulari, anticorpi, ormoni, enzimi.

SEDI DI ASSORBIMENTO

La maggior parte delle sostanze nutritive è as-sorbita a livello del duodeno e del digiunoprossimale, ad eccezione della vitamina B12 edei sali biliari che sono assorbiti a livello dell�i-leo terminale. Il principale sito di assorbimen-to del ferro e del calcio è il duodeno.L�assorbimento del calcio richiede la presenzadi vitamina D. L�acqua e gli elettroliti sono as-sorbiti lungo tutto il piccolo intestino con unacapacità di assorbimento di circa otto litri algiorno. La metà prossimale del colon è responsabiledell�assorbimento di circa 1-1,5 lt. di contenutoliquido o semisolido che passa attraverso lavalvola ileo-cecale. Nei casi d�insufficienzafunzionale del piccolo intestino la capacità diassorbimento del colon può aumentare fino a4-6-litri di acqua al dì. Il colon inoltre gioca unruolo importante nell�assorbimento degli acidigrassi a catena corta (prodotti dall�azione deibatteri intestinali sui carboidrati non assorbiti).

VIE DI SOMMINISTRAZIONE

La sede della immissione della miscela nutri-zionale è di fondamentale importanza inquanto può interferire notevolmente con i li-

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Pianeta Medico

Tab. 1 – Patologie per le quali è indicata la nutrizione enterale

Anoressia, disfagia e stenosi alte del canale inte-stinaleStati di incoscienzaNausea persistenteOdinofagia persistenteMaldigestioneFistole entericheProcessi ipercatabolici Patologie infiammatorie croniche (m. di Crohn,colite ulcerosa, cirrosi, pancreatite cronica)Neoplasie e/o terapie antiblasticheSepsi, stress (ustionato, politraumatizzato)Sindrome intestino corto, fistole e stenosi dige-stive, AIDS.

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quidi intestinali in transito in quel settore, co-sì come la percentuale di acqua in cui la mi-scela è diluita.Le principali vie di somministrazione sonoendogastrica-endoduodenale, endodigiunaleo endoileale: siano esse raggiunte per via na-sale o faringea, oppure con stomia.Vale, come regola generale che la miscela nu-tritiva deve essere somministrata nella partepiù alta disponibile dell�apparato gastroente-rico, allo scopo di utilizzare tutti i sistemi di-gestivi disponibili.L�assorbimento intestinale dei componentidell�alimentazione si realizza nei vari segmen-ti intestinali secondo una sequenza cranio-caudale stabilita, anche se non assoluta, comeè stato dimostrato sperimentalmente inverten-do l�ileo terminale al digiuno e viceversa.Il trasporto enteroepatico degli alimenti pre-senta un vantaggio, rispetto alla sommini-strazione endovena, in quanto i meccanismidi assorbimento metabolizzazione e conver-sione sono regolati dalle contrazioni plasma-tiche (periferiche) e portale di insulina e glu-cosio. Ne consegue che per il semplice moti-vo di essere simile a quella naturale, la nutri-zione enterale non modifica i normali mecca-nismi di regolazione dell�assorbimento pre-senti nell�organismo.Le principali modalità con cui una sonda nu-trizionale può essere introdotta nell�apparatogastrointestinale sono: 1. Intubazione per via nasale;2. Esofagostomia cervicale;3. Faringostomia cervicale;4. Gastrostomia;5. Digunostomia.6. Somministrazione tramite sondino naso-

gastrico od orogastricoL�alimentazione enterale tramite sondino n.g.è indicato in pazienti che non possono ali-mentarsi per via orale o deglutire una quan-tità sufficiente di cibo senza che venganoaspirati cibo o liquidi nei polmoni. L�alimen-tazione può essere somministrata continuati-vamente per periodi di 24 ore oppure ad in-tervalli prescritti, ad esempio, 4 volte al gior-no. La somministrazione delle soluzioni ente-rali avviene generalmente a temperatura am-biente salvo diversa disposizione. Il flaconedeve essere sempre conservato fresco poichéil calore eccessivo determina la coagulazionedei nutrimenti a base di latte e uova, liquidicaldi possono irritare le mucose. Alimenti

troppo freddi, inoltre, determinano una ri-dotta secrezione di succhi gastrici in seguitoalla vasocostrizione che determinano e pos-sono essere causa di crampi. Prodotti per l�a-limentazione enterale sono disponibili in lat-tine e bottiglie pronte per la somministrazio-ne. Alcuni contenitori sono disegnati in mo-do da poter collocare dei cubetti di ghiaccioin una sezione esterna per permettere dimantenere il preparato a temperatura fresca.

SOMMINISTRAZIONE MEDIANTE GASTRO O DIGIUNOSTOMIA

Nel confezionamento di una gastrostomia edi una digiunostomia, il chirurgo procede aposizionare una sonda di plastica o gommaall�interno dello stomaco o del digiuno ri-spettivamente. L�incisione chirurgica vienepoi suturata strettamente attorno alla sondaper prevenire possibili filtrazioni. L�assisten-za a queste stomie richiede prima della cica-trizzazione tecniche asettiche. Quando l�inci-sione è ben cicatrizzata, la sonda può essererimossa e reinserita ad ogni terapia enterale.Nell�intervallo tra le varie terapie può essereutilizzata una protesi per chiudere la stomia;si tratta di un cilindro lungo 3-5-cm., consporgenze interne ed esterne e con l�estremitàsuperiore avvitabile.L�alimentazione enterale attraverso gastrosto-mia è utilizzata come alternative alla terapiaparenterale ed alla terapia enterale tramitesondino nasogastrico. Queste due vie per-mettono al paziente una maggiore libertà dimovimento e di autoalimentarsi. L�alimenta-zione gastrica e digiunale presenta caratteri-stiche differenti. La terapia enterale per viadigiunale contiene sostanze nutritive chepossono essere assorbite nel piccolo intestinosenza preventiva digestione a livello gastricoe duodenale. Tutti i preparati utilizzati gene-ralmente forniscono 1 Kcal/ml di soluzionecontenente proteine, grassi, carboidrati, mi-nerali e vitamine in proporzioni specifiche.La soluzione enterale viene riscaldata finchénon viene raggiunta una temperatura similea quella ambientale. La soluzione enterale ègeneralmente somministrata a temperaturaambientale salvo diversa disposizione.Le quantità di soluzione da somministrarevariano generalmente da 200-800ml.. Va veri-ficata sempre la data di scadenza delle solu-zioni in commercio, o la data e l�ora di confe-

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zionamento per le preparazioni ospedaliere.Vanno eliminati i preparati scaduti o le confe-zioni ospedaliere se sono trascorse più di 24ore dalla preparazione.

CONCLUSIONI

Nell�anziano la richiesta di praticare la nutri-zione enterale è frequente non solo per lapresenza di una patologia specifica ma ancheperché oltre la patologia di base sono spesopresenti fenomeni di carenza vitaminica, dimalassorbimento, di disidratazione che im-

pongono ancor più che nel giovane adozionedi tale metodica.È inoltre fondamentale eseguire frequenticontrolli della crasi ematica (funzionalitàepatica, renale, degli elettroliti, emocromo,dosaggio delle vitamine B12 ed acido folico)proprio per la presenza di frequenti proble-matiche già presenti indipendentemente dal-la eventuale patologia in atto.In sostanza nell�anziano si ricorre alla nutrizio-ne enterale con una frequenza maggiore rispet-to ad un giovane con la medesima patologia.

Kozier B., Glenora Erb: Testo atlante di assistenza etecnica. Infermieristiche. 1994.Paccagnella A., Romagnoli G., Foscolo G., Conte N.:Nutrizione Artificiale aspetti etici. 1996.

Bozzetti F., Guarneri G.: Manuale di nutrizione artifi-ciale. Vol. 1-2. 1992.Meriggi F.: Manuale di Chirurgia Generale per ScienzeInfermieristiche. 2001.

BIBLIOGRAFIA

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L�Organismo per garantire un adeguato ac-crescimento corporeo e un buon funziona-mento di tutti gli organi e apparati necessitadi un adeguato stato nutrizionale che si rea-lizza con l�assunzione degli alimenti.Alcune patologie possono direttamente o in-direttamente compromettere il normale pro-cesso di alimentazione o di assorbimento de-terminando uno stato di denutrizione o mal-nutrizione di entità diversa in relazione al ti-po di patologia, al trattamento medico o chi-rurgico, al grado di evoluzione e di localizza-zione della malattia; questo problema può in-tervenire anche precocemente o comparirepiù tardivamente nella fase più avanzata del-la patologia. Ad esempio i pazienti con una patologia tu-morale possono avere problemi legati alla lo-calizzazione della neoplasia (tumore gastrico,dell�esofago, del pancreas ecc.), all�alterazionedel gusto, a disfagia, occlusione intestinale, aproblemi di malassorbimento ecc. oppure le-gati al trattamento terapeutico, infatti l�uso deifarmaci antiblastici e la radioterapia provoca-no spesso effetti collaterali come nausea, vo-mito, malassorbimento, ipertermia, infezionicon possibili ulcerazioni della cavità orale ecc.Negli ultimi anni con i progressi tecnologici efarmaceutici è possibile utilizzare con mag-giore sicurezza la nutrizione parenterale oggiconsiderato un metodo di fondamentale im-portanza con notevole peso clinico e ricono-sciuto ruolo terapeutico. La nutrizione parenterale è indicata nei pa-zienti con problemi di denutrizione o malnu-trizione, dovuta a malattie croniche, quandonon è possibile un�alimentazione spontanea ol�utilizzo della nutrizione enterale quando ilpaziente non può assumere alimenti per pe-riodi molto lunghi oltre i 7 giorni, quando viè una perdita di peso superiore al 10 � 15 %.In questi pazienti si può rilevare astenia ge-neralizzata con ipotrofia agli arti, diminuito

livello di energia, mancanza di appetito, nau-sea vomito o diarrea, poco interesse per il ci-bo, comparsa di edemi declivi, riduzione delsottocutaneo soprattutto gambe e piedi, der-matite pellagrosa, dermatite squamosa, scar-so turgore cutaneo, mucose asciutte, unghieappiattite o a cucchiaio, letargia, iporeflessia,disorientamento, confabulazione, parestesie,debolezza arti inferiori, irritabilità, crisi con-vulsive, paralisi flaccida, confusione mentale,glossite con edema della lingua, stomatite an-golare delle labbra, cheilosi. La nutrizione parenterale è una tecnica disomministrazione di alimenti per via venosadirettamente in circolo, utilizzando alimentiin forma estremamente semplificata, diretta-mente utilizzabili e metabolizzabili a livellocellulare in grado di coprire totalmente il fab-bisogno nutrizionale, saltando tutte le fasidella digestione e dell�assorbimento degli ali-menti. Si distingue in nutrizione parenteraleperiferica e nutrizione parenterale centrale.La nutrizione parenterale periferica (NPP)consiste nella somministrazione di soluzioniisotoniche somministrate attraverso un catete-rino venoso inserito in una vena perifericacon possibilità di utilizzare in prevalenza so-stanze lipidiche, un ridotto apporto glucidicoe sufficienti quantità di aminoacidi.La nutrizione parenterale centrale (NPT) è at-tuata utilizzando cateteri venosi posizionatinella vena cava superiore, cava inferiore oatrio destro inseriti attraverso la vena succla-via oppure in alternativa la giugulare più dif-ficoltosa da usare per l�inserzione del catetere.È possibile somministrare miscele nutriziona-li iperosmolari altamente concentrate con im-piego di sostanze in prevalenza gluco-azotatequindi consistenti quantitativi di carboidratie aminoacidi, con basse quote di lipidi. Competenze Infermieristiche :Valutare i bisogni nutrizionali del pazienteche non riesce ad alimentarsiProvvedere alla somministrazione di tutti inutrienti in forma concentrata� Fornire una soluzione nutritiva attraverso

LA NUTRIZIONE PARENTERALE

Pontecorvo M.

Dirigente Assistenza InfermieristicaOspedale di Colleferro, ASL Roma/G.

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una vena centrale di grosso calibro� Controllare che i nutrienti contenuti nel fla-

cone siano corretti e nella quantità stabilita,secondo prescrizione medica

� Controllare la pervietà della via venosa � Monitorare miglioramenti dovuti alla nu-

trizione artificiale con controllo del peso � Evitare infezioni nella esecuzione della

NPT� Osservare precocemente sintomi di ipergli-

cemia o ipoglicemia � Sostenere il paziente dal punto di vista psi-

cologico per favorire la ripresa nutrizionalequando possibile, eventualmente coinvol-gendo anche parenti ed amici

ASSISTENZA

� Fornire tutte le spiegazioni sulle proceduree tranquillizzare il paziente

� Chiedere il consenso al paziente o ai fami-gliari

� Predisporre tutto il materiale necessarioprevisto per un piccolo intervento compresicateteri venosi radiopachi in poliuretanodella misura 16 G per il paziente adulto eflaconi e sacche degli alimenti da sommini-strare

� Collaborazione nell�inserzione del cateterevenoso (di competenza medica) e assisten-za al paziente durante l�esecuzione:

1. posizionare il paziente in trendelumburgcon la testa reclinata all�indietro e giratadalla parte opposta rispetto al punto di in-serzione, sollevare le spalle del pazientecon un piccolo cuscino per esporre meglioil punto d�inserzione (questa posizione au-menta la pressione venosa intratoracica eriduce i rischi di embolia gassosa)

2. predisporre un campo sterile con tutto ilmateriale necessario e aiutare il mediconell�indossare indumenti sterili (cuffia,guanti, camice ecc.)

3. indossare cuffia maschera e guanti sterili 4. dopo l�anestesia locale il medico inserisce il

catetere nella succlavia o nella vena giugu-lare interna fino a raggiungere con l�estre-mità prossimale la vena cava superiore o lavena cava inferiore o l�atrio destro, poi su-tura il catetere per l�ancoraggio e applicaun bendaggio occlusivo

5. istruire il paziente sulla manovra di Valsalache dovrà attuare per evitare l�ingresso diaria nel catetere nel momento in cui il me-

dico sfilerà il mandrino dal catetere. Il col-legamento al tubo deflussore dovrà essereeffettuato con sistemi di connessione a vite(luer Lock) ad evitare un eventuale distac-co accidentale molto pericoloso per la vitadel paziente.collegare il deflussore alla pompa di infu-sione e somministrare soluzione fisiologicaa basa velocità (circa 10 gtt/m) fino a chenon si effettua il controllo radiografico perverificare la corretta posizione del catetere

Importante non iniziare la somministrazionedella soluzione per NPT prima del controlloradiologico di posizionamento del catetere;infatti se l�estremità del catetere è posizionatain una vena di piccolo calibro (giugulare, suc-clavia o altra vena) la soluzione iperosmolarepuò provocare tromboflebiti quando è con-fermata la posizione corretta del catetere sipuò sostituire la soluzione fisiologica con lasoluzione per iperalimentazione regolando lavelocità di flusso secondo prescrizione regi-strare sul flacone ed in cartella l�ora di iniziodella somministrazione, controllare che il pa-ziente non abbia segni di embolia gassosa,come ansia e angoscia grave, acuto dolore to-racico, cianosi e murmure precordiale.Durante il cambio della medicazione control-lare che il catetere non si sia spostato (sutureintegre, lunghezza della porzione esterna delcatetere non aumentata).La soluzione per iperalimentazione deve es-sere somministrata a temperatura ambientein quanto prima della somministrazione que-sta viene mantenuta in frigorifero per evitarela proliferazione di eventuali microrganismi.Il tubo di infusione e il filtro devono esseresostituiti ogni 24 h.Monitorare la velocità di flusso ogni 30/60min anche se si sta utilizzando una pompada infusione, in quanto una velocità troppoalta può portare ad un eccesso di zucchero e,se molto grave, il paziente può avere un ac-cesso epilettico non controllabile fino al comae morte.Controllare la densità delle urine, il glucosioe l�acetone ogni 4 ore. Se avvengono dei cambiamenti troppo rapididella velocità di flusso, l�organismo non ha iltempo di adattarsi e si possono avere sintomidi iperglicemia o ipoglicemia (il pancreas ri-sponde all�aumento o diminuzione della gli-cemia modificando la produzione di glucago-ne e di insulina, se vi è un innalzamento del li-

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vello normale della glicemia non abbiamo uncorrispondente aumento dell�insulina che ri-chiede per la produzione dai 30 ai 60 minuti.

PREVENZIONE DELLE INFEZIONI

Usare una tecnica completamente asettica peril cambio della medicazione utilizzando mate-riale che non permetta il passaggio dell�aria.Ispezionare la medicazione ogni 8 h e cam-biarla se non è perfettamente aderente o se èumida (l�umidità e l�esposizione all�aria favo-riscono la proliferazione dei germi con conse-guente infezione).Osservare il punto di inserzione del catetereogni 8 h e controllare che non vi sia eventualepresenza di rossore, gonfiore, dolore e dre-naggio purulento. Nel caso dovesse verificar-si tale situazione occorrerà detergere intornoal punto di inserzione con soluzione fisiologi-ca sterile e acqua ossigenata in seguito disin-fettare con betadine eseguendo tutte le opera-zioni con movimenti circolari dal centro ver-so l�esterno, infine lasciare asciugare e appli-care una pomata di iodio-povidone sul puntod�inserzione e coprire con garza sterile.Rilevare eventuali segni di infezione comeaumentata frequenza del polso e del respiro,temperatura superiore ai 38°C, conta dei glo-buli bianchi superiore a 10.000 per mm3 , gli-cemia superiore ai 200 mg/dl, glicosuria, bri-vidi, sudorazione o letargia. Questi sintomipossono comparire quando si è instauratauna infezione ; è importante informare il me-dico per una terapia appropriata.

COMPLICANZE

Embolia gassosaDovuta all�ingresso di aria nel catetere. In ca-so di sospetto di embolia gassosa occorre po-sizionare il paziente in Trendelemburg sul la-to sinistro, somministrare ossigeno e chiama-re il medico.

Lesioni vascolari o polmonariDurante l�inserzione del catetere si può incor-

rere nella puntura di un polmone o di una ar-teria.L�arteria può sanguinare e la raccolta di san-gue comprimere la trachea con conseguentedifficoltà respiratoria fino a mettere il pazien-te in pericolo di vita.La puntura di un polmone può provocarepneumotorace compromettendo la respirazio-ne fino al collasso polmonare totale o parziale.

Reazione allergica all’introduzione di proteineI sintomi sono: brividi, aumento della tempe-ratura, nausea, cefalea, orticaria, dispnea.L�assistenza consiste nel controllo dei para-metri vitali ogni 4 ore.

CONCLUSIONI

Lo stato di malnutrizione è oggi considerato�una malattia nella malattia� causa di au-mentata morbilità per infezioni, deiscenza dianastomosi chirurgiche, comparsa di decubi-ti, riduzione funzionale di organi ed appara-ti, ritardata guarigione di ferite ecc.con con-seguente aumento della mortalità e aumentodei costi di degenza.Particolare importanza viene quindi attribui-ta all�utilizzo della nutrizione parenterale og-gi considerata efficace e sicura.La Giunta Regionale del Lazio con delibera-zione del 13 maggio 1993 rende possibile lasomministrazione dell�alimentazione artifi-ciale (parenterale ed enterale) anche a domi-cilio in forma totalmente gratuita, limitata-mente ad alcune patologie soprattutto neo-plastiche elencate nella stessa delibera. Allaluce di queste normative, alcune ASL dellanostra Regione come la Roma G, hanno atti-vato, nell�ambito dei servizi di assistenza do-miciliare, un programma di sperimentazioneper la realizzazione del Servizio Regionale diNutrizione Artificiale in collaborazione con ilServizio di Nutrizione Clinica della II° Cli-nica Chirurgica dell�Università �La Sa-pienza� di Roma.

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I decessi per neoplasia, nonostante i progres-si compiuti, rappresentano il 28% della mor-talità complessiva in Italia. È stato stimatoche oltre la metà delle morti dei pazienti ter-minali di cancro avviene in strutture ospeda-liere, con almeno un ricovero di circa 20 gior-ni negli ultimi tre mesi di vita. La casa delmalato, come luogo di cura, sembra megliorispondere all�obiettivo di una morte dignito-sa, come emerge anche da indagini svoltepresso i malati stessi. L�ospedale è infattisempre più indirizzato alla cura dei casi acu-ti. Una possibile alternativa al ricovero ospe-daliero è costituita dagli Hospice.L�Hospice� nasce in Gran Bretagna, negli an-ni �60, e appositamente dedicato all�assisten-za globale al malato grave e alla sua famiglia.Si definiscono �centri residenziali di cure pal-liative� (Hospice) �le strutture, facenti partedella rete di assistenza ai pazienti terminali,per l�assistenza in ricovero temporaneo dipazienti affetti da malattie progressive ed infase avanzata, a rapida evoluzione e a pro-gnosi infausta, per i quali ogni terapia finaliz-zata alla guarigione o alla stabilizzazione del-la patologia non è possibile o appropriata.Prioritariamente, per i pazienti affetti da pa-tologia neoplastica terminale che necessitanodi assistenza palliativa e di supporto�. La scarsa diffusione di tali strutture in Italianon le rende ancora un modello assistenzialegeneralizzabile. Sino ad oggi è stato privile-giato il modello dell�assistenziale domiciliareprogrammata (ADP) o integrata (ADI), costi-tuito da un'équipe multidisciplinare, con va-rie figure professionali: il medico curante(MMG), possibilmente l�oncologo, l�infermie-re professionale, il volontario, lo psicologo,l�assistente sociale.Secondo la definizione dell�OMS, si defini-scono per cure palliative una serie di inter-venti terapeutici ed assistenziali finalizzati al-

la cura attiva, totale, di malati la cui malattiadi base non risponde più a trattamenti speci-fici. Sono destinate a migliorare la qualitàdella vita dei pazienti e delle loro famiglie.Il controllo del dolore, di altri sintomi e degliaspetti psicologici, sociali e spirituali è di fon-damentale importanza. Alcuni interventi pal-liativi sono applicabili anche più precoce-mente nel decorso della malattia, in aggiuntaal trattamento oncologico. Le cure palliative:� affermano la vita e considerano il morire

come un evento naturale � non accelerano né ritardano la morte � provvedono al sollievo dal dolore e dagli

altri disturbi � integrano gli aspetti psicologici e spirituali

dell�assistenza � aiutano i pazienti a vivere in maniera attiva

fino alla morte � sostengono la famiglia durante la malattia e

durante il lutto (definizione del NationalCouncil for Hospice and Palliative CareServices WHO-OMS 1990 modificata dallaCommissione ministeriale per le cure pal-liative 1999).

Le cure palliative si caratterizzano per:� la globalità dell�intervento terapeutico che,

avendo per obiettivo la qualità della vita re-sidua, non si limita al controllo dei sintomifisici ma si estende al sostegno psicologico,relazionale, sociale e spirituale

� la valorizzazione delle risorse del malato edella sua famiglia oltre che del tessuto so-ciale in cui sono inseriti

� la molteplicità delle figure professionali enon professionali che sono coinvolte nelpiano di cura

� il pieno rispetto dell�autonomia e dei valoridella persona malata

� la forte integrazione e il pieno inserimentonella rete dei servizi sanitari e sociali

� l�intensità delle cure che devono essere ingrado di dare risposte pronte ed efficaci al

ASSISTENZA DOMICILIARE AL PAZIENTE ONCOLOGICO: OGGI E DOMANI ALLA LUCE

DELLE NORMATIVE ATTUALI

Trecca P.

Direttore del Distretto Sanitario di Colleferro, ASLRM/G

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mutare dei bisogni del malato� la continuità della cura fino all�ultimo istante� la qualità delle prestazioni erogate (Com-

missione ministeriale per le cure palliative,1999).

Con il Decreto del Ministero della Sanità del28/09/99 (G.U. n 55 del 7/3/00) è presentatoil programma nazionale per la realizzazionedi strutture per le cure palliative e con ilDPCM. del 20/01/00 (G.U. n 67 del 21/3/00)sono indicati i requisiti strutturali, tecnologicie organizzativi minimi per i centri residen-ziali di Cure palliative.L�hospice oncologico: caratteristiche generaliIl luogo ideale per le cure palliative sarebbesenz�altro la casa del malato; purtroppo que-sta, non infrequentemente, è indisponibile onon adatta per una assistenza adeguata; allostesso tempo, sarebbe improprio optare per ilricovero in un ospedale di tipo tradizionale.Una delle soluzioni ottimali sarebbe quindiuna �ospedalizzazione domiciliare�, ossiauna assistenza domiciliare effettuata da per-sonale specializzato.Lo scopo dell�hospice è di mettere i pazientiin condizioni di vivere la fase terminale dellaloro malattia, nonché della loro esistenza, condignità, in modo vigile, senza dolore o con ilminimo dei disagi legati alla malattia (alimen-tazione parenterale, ossigenoterapia etc.). È stato stimato da studi statistici internazio-nali che il fabbisogno di posti letto per malatiterminali, cioè necessitanti di cure palliativedovrebbe soddisfare, per l�Italia, più di30.000 pazienti l�anno, con degenze medie in-feriori ai trenta giorni. La Società Italiana diCure Palliative ha stimato a tal proposito,sempre per 1�Italia, un indice di 1 posto letto-Hospice ogni 30.000 abitanti. Anche se l�o-biettivo non sembra immediatamente rag-giungibile, recenti provvedimenti normativimostrano un costante interesse del legislatoreverso la creazione di una rete di ricoveri pro-tetti per pazienti terminali. Quindi è ragionevole prevedere un processodi riconversione dell�eccesso di strutture sa-nitarie dedicate a pazienti acuti verso lastruttura di tipo Hospice. Infatti, rispetto aduna struttura per acuti, l�Hospice è gravatoda minori spese di personale e di attrezzatu-re: la riconversione consentirebbe quindi lariottimizzazione delle risorse sanitarie nelsettore. D�altra parte, il numero di nuovi casiannui di tumore, dovuto anche ad un miglio-

ramento diagnostico, fa prevedere una richie-sta crescente di questo modello di assistenza;di conseguenza, dall�offerta attuale, presso-ché nulla si dovranno raggiungere un nume-ro di posti letto ragguardevole.Come è noto, il disagio del settore oncologicoè stato notevolmente amplificato dall�intro-duzione dei DRG; ciò a causa delle disecono-mie derivanti dalla forzata ospedalizzazionedi un malato il quale non necessita di alcunaterapia acuta, ma che nello stesso tempo nonè dimissibile per impossibilità di una assi-stenza adeguata. In pratica, oggi si hannomalati che occupano posti per acuti causan-do intasamento del sistema ospedaliero oche, in alternativa, sono dimessi in un mo-mento critico oltre che dal punto di vista sa-nitario anche da un punto di vista assisten-ziale e umano. Pertanto, al fine di affrontare in modo umanoe competente la patologia terminale ed i pro-blemi ad essa correlati, l�Ospedale, l�HospiceOncologico e l�Assistenza Domiciliare devo-no diventare un sistema di continuità assi-stenziale nel quale il paziente terminale è se-guito nelle fasi cliniche della malattia, con in-terventi ogni volta differenziati, a secondadella diversa fase, fino all�exitus e oltre (assi-stenza alla famiglia).L�Hospice Oncologico è quindi una strutturache considera il malato e la sua famiglia co-me un�unità con esigenze e necessità distinte,ma sempre da valutare in modo globale. Èoggi, infatti, possibile, grazie alle esperienzeassistenziali e alle nuove tecniche terapeuti-che affrontare con un�adeguata organizzazio-ne il problema del paziente oncologico termi-nale. L�umanizzazione della pratica medicadeve quindi tendere a reinserire il malato,correttamente assistito, nel proprio ambientefamiliare e affettivo sottraendolo ad unaospedalizzazione impropria.In pratica l�Hospice è una struttura interme-dia tra l�ospedale e il domicilio. In altre paro-le l�Hospice è un sistema intercorrelato fradomicilio e struttura di ricovero. Idealmenteil ricovero andrebbe minimizzato, ed utiliz-zato, ad esempio, per la momentanea inagibi-lità del domicilio, per la riacutizzazione di al-cuni sintomi, per sollevare la famiglia dallostress di una continua tensione verso i pro-blemi (fisici e morali) di tutto il nucleo cheruota nella malattia e intorno ad essa, ecc. Ilposto d�elezione per il paziente terminale, se

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debitamente assistito, rimane comunque ildomicilio. L�Hospice, quindi, deve risultaresolido nelle professionalità mediche e nelcontempo affidabile nel calore umano perrendere più sopportabile al malato e alla suafa miglia il peso di un momento così difficilecome la morte del malato.Il protocollo che deve essere seguito all�inter-no dell�Hospice è quindi orientato al mante-nimento e/o al ripristino della migliore qua-lità possibile nella vita residua del paziente,non trascurandone gli aspetti psicologici e leesigenze affettive ed emozionali.

L’HOSPICE ONCOLOGICO: REQUISITI NORMATIVI

Il DPCM del 2000, sopracitato, indica i requi-siti che debbono possedere le struttureHospice. Se ne darà una breve illustrazionenei seguenti paragrafi

1) Requisiti minimi strutturaliLa localizzazione dell�Hospice può esserenell�ambito di un edificio specificatamentededicato, di una struttura ospedaliera o diuna struttura residenziale sanitaria. In ognicaso la localizzazione dovrà avvenire in zonaurbana o urbanizzata, protetta dal rumorecittadino e con buoni collegamenti con il con-testo urbano, in modo da favorirne l�accessi-bilità da parte dei familiari e dei parenti.Le esigenze di elevata personalizzazione del-l�intervento rendono necessaria una capacitàrecettiva limitata e non superiore a 30 posti,articolata in moduli.La tipologia strutturale adottata deve garan-tire il rispetto della dignità del paziente e deisuoi familiari mediante una articolazionespaziale utile a creare condizioni di vita simi-li a quelle godute dal paziente presso il pro-prio domicilio. Deve essere permessa la per-sonalizzazione delle stanze.La qualità degli spazi progettati deve facilita-re il benessere ambientale, la fruibilità deglispazi e il benessere psicologico.L�articolazione funzionale del Centro dovràincludere le seguenti aree:a) area destinata alla residenzialità;b) area destinata alla valutazione e alle terapie; c) area generale di supporto.

A. Area destinata alla residenzialitàOgni modulo deve essere dotato di:

a) camere singole di dimensioni tali da per-mettere la permanenza notturna di un ac-compagnatore, un tavolo per consumare ipasti, una poltrona, i servizi igienici. Nellacamera arredata si deve assicurare lo spa-zio adeguato per interventi medici;

b) cucina;c) deposito biancheria pulita;d) deposito attrezzature, carrozzine e mate-

riali di consumo; e) servizi igienici per il personale;f) locale di postazione per il personale di assi-

stenza in posizione idonea;g) ambulatorio medicheria;h) soggiorno polivalente o spazi equivalenti

anche divisi in ambiti da destinare a di-verse attività (ristorazione, conversazio-ne, lettura, ecc.);

i) deposito sporco dotato di vuotatoio e di la-vapadelle.

B. Area destinata alla valutazione e alla terapia

a) locali e attrezzature per terapie antalgichee prestazioni ambulatoriali, con spazio perl�attesa che non intralci i per corsi;b) locale per la preparazione e manipolazionedei farmaci e preparazioni nutrizionali;c) locali per le prestazioni in regime diurno;d) locale per i colloqui con il personale (psi-cologo, assi stente sociale, ecc.e) locale deposito pulito, sporco e attrezzature.

C. Aree generali di supportoLe aree generali di supporto devono includere:a) ingresso con portineria e telefono e spazioper le relazioni con il pubblico;b) spogliatoio del personale con servizi igie-

nici;c) spogliatoio e locali di sosta e lavoro per il

personale volontario;d) locale per riunioni di équipe;e) camere mortuarie in numero idoneo (una

ogni otto letti);f7 spazio per i dolenti; g) sala per il culto;h) locale per uso amministrativo;i) cucina, dispensa e locali accessori per la-

vanderia e stireria (qualora questi servizifossero dati in appalto, il Centro dovrà co-munque essere dotato di locali di stoccaggioo di temporaneo deposito o di riscaldamen-to dei cibi, di supporto alle ditte esterne);

i) magazzini.

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2) Requisiti minimi tecnologici.

I) Requisiti minimi impiantistici. Il Centro deve essere dotato di:a) impianto di riscaldamento o di climatizza-

zione; b) impianto di illuminazione di emergenza;c) impianto di forza motrice nelle camere con

almeno una presa per l�alimentazione nor-male;

d) impianto di chiamata con segnalazioneacustica e luminosa;e) impianto gas medicali: prese per il vuoto,

per l�ossigeno e l�aria;f) impianto telefonico con disponibilità di te-

lefoni fissi e mobili per i pazienti in ognimodulo;

g) impianto televisivo.

II) Fattori di sicurezza e prevenzione infortuni:a) pavimenti in materiale e superficie anti-

sdrucciolo; b) assenza di barriere architettoniche;c) applicazione di sostegni e mancorrenti in

vista alle pareti e ai servizi igienici per i pa-zienti;

d) dotazione di sistema di allarme nelle ca-mere e nei servizi igienici per i pazienti;e) impianto centralizzato di segnalazione del-

le chiamate;f) segnaletica di informazione diffusa.3) Dotazioni tecnologiche:a) arredi, comprendenti letti speciali con

schienali regola bili;b) ausili e presidi, includenti materassi e cu-

scini antidecubito, carrozzelle, sollevatori-trasportatori, barelle-doccia, vasche da ba-gno per disabili;

c) apparecchiature includenti attrezzatureidonee alla gestione della terapia e stru-mentario per piccola chirurgia.

3) Requisiti minimi organizzativi.

Il Centro residenziale di cure palliative è fun-zionalmente integrato con la rete di assisten-za ai pazienti terminali. La temporanea de-genza del paziente costituisce parte del pro-getto terapeutico formulato per ciascun pa-ziente che prevede momenti differenziati al-l�interno di un continuum assistenziale.il Centro residenziale di cure palliative, per laprogrammazione e la erogazione delle pre-stazioni si avvale di équipes multiprofessio-

nali costituite da personale medico, infermie-ri, psicologi, operatori tecnici dell�assistenzanonché da operatori socio-sanitari, assistentisociali e altre figure professionali individuatein base alle esigenze specifiche.

COMPITI DEGLI OPERATORI DELL’ÉQUIPE

Il medico Instaura i contatti con il me-dico curante, coinvolgendolonell�assistenza. Effettua l�as-sistenza medica a casa delmalato. Identifica e mantienela comunicazione con il fa-miliare leader.

L�infermiere Oltre a svolgere le prestazio-ni infermieristiche, controllal�efficacia delle terapie pre-scritte, rileva la presenza dinuovi sintomi o le necessitàdel paziente. Sostiene i fami-liari e valuta la necessità diinserire i volontari.

Il volontario Ha il compito di tenere com-pagnia al malato e di sosti-tuire per qualche ora al gior-no il familiare. È preparatoall�ascolto attivo del malato.Si occupa anche del sostegnoai familiari durante il perio-do di lutto.

Lo psicologo Sostiene l�équipe, prepara esupervisiona i volontari.

L�assistente sociale Individua e interviene sui bi-sogni di natura assistenzialeche possono insorgere nelmalato e nella sua famiglia.

A richiesta è prevista la consulenza di specia-listi dell�alimentazione e della riabilitazione.Il personale dovrà essere adeguato per nu-mero e tipologia in relazione alla dimensionedella struttura, e ne va favorita la formazionespecifica.Il responsabile del Centro residenziale di curepalliative promuove la personalizzazione del-l�assistenza anche mediante riunioni periodi-che di équipe finalizzate alla definizione, allaverifica ed alla eventuale rimodulazione delpiano terapeutico nonché alla verifica e allapromozione della qualità dell�assistenza.Va assicurata l�assistenza religiosa nel rispet-to della volontà e della libertà di coscienzadel cittadino.

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Nell�organizzazione del Centro va promossae valorizzata la presenza e la collaborazionedi associazioni di volontariato operanti nelsettore.

4) Ulteriori requisiti e considerazioni

L�assistenza dei malati terminali non si fermasolo alla parte strutturale, cioè agli Hospices.Sia la legislazione nazionale che quella regio-nale hanno deliberato, infatti, che l�organiz-zazione della rete di assistenza ai pazientiterminali preveda dapprima una specifica fa-se operativa preposta alla valutazione e poila presa in carico del paziente (e della sua fa-miglia), nonché la formulazione di un pianoterapeutico individualizzato, sia che il pa-ziente sia ricoverato in Hospice sia che sia as-sistito a domicilio. E quindi deve essere pre-visto il coinvolgimento di molteplici figuremediche, (il medico di famiglia, il medicodella dimissione ospedaliera cui afferisce ilpaziente e/o lo specialista territoriale, il me-dico esperto in cure palliative, il medico re-sponsabile dell�assistenza domiciliare inte-grata) oltre che di psicologi, infermieri, assi-stenti sociali, e altre figure professionali il cuiapporto sia ritenuto utile. Per ogni paziente èformulato quindi un programma individua-lizzato e multi professionale per la cura glo-bale, improntato su qualità, tempestività,flessibilità, con criteri ed indicatori per la ve-rifica periodica delle prestazioni erogate; èinoltre predisposta anche una cartella clinica,che segue il paziente nei vari momenti assi-stenziali (Hospice o domicilio).

Come si accede all’hospiceCome già poco sopra accennato, si parla di

�presa in carico� del paziente che deve essereseguito dalla stessa équipe sia al domicilio siain Hospice. L�accesso in Hospice, oltre ad es-sere vincolato alla necessità di trattamentiche non richiedono un ricovero presso repartiospedalieri per pazienti acuti, è subordinatoalla presenza di almeno una delle seguenticondizioni:� assenza o non idoneità della famiglia;� inadeguatezza della casa a trattamenti do-

miciliari;� impossibilità di controllo adeguato dei sin-

tomi al domicilio.

IL PUNTO NELLA REGIONE LAZIO

Già nel giugno del 1998 e su sollecitazione dialcune strutture sanitarie private, la RegioneLazio ha deliberato l�istituzione in fase speri-mentale di alcune strutture individuate comeHospice. Con successive delibere del 1999 edel 2000 è avviata la rete regionale per curepalliative. Infine, la delibera n. 37 del 2001 hastabilito con il piano regionale, il numero di540 posti letto come fabbisogno regionale (dicui 103 posti letto dovranno derivare dalla ri-conversione di strutture pubbliche preesisten-ti). A tutt�oggi sono accreditati 4 Hospice nellacittà di Roma e uno in provincia di Viterbo.

CONCLUSIONI

In considerazione di quanto discusso, ci au-guriamo che nel corso del prossimo bienniosi riesca ad implementare una rete di assi-stenza ai malati terminali nella nostra ASLRoma G per assicurare finalmente umanità edignità anche nel morire.

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ne di una struttura dedicata all’assistenza palliativa e dìsupporto per pazienti oncologici terminali ‘l’hospicepresso la Casa di Cura Villa Speranza”.7. DR. n° 4743 del 14/9/99, Determinazione diariagiornaliera.8. D.R, n°. 1731 del 25/7/00 Aggiornamento diariaHospice.9. D.R. n°. 37 del 9/1/01 Programma regionale per larealizzazione di strutture residenziali per malati oncolo-gici terminali “Hospice”.10. La Commare F.:” L'hospice Oncologico di VillaSperanza”, in “L’HOSPICE, l’assistenza territoriale aimalati oncologici terminali” 2000 ; cap XII: pagg259—271,. Melino C. et All (Eds), , SEU Roma.11. PSN 2002 – 2004 (Progetto 2 e 6).12. PSRegione Lazio 2002-2004.

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Se la trasmissione delle informazioni sulladiagnosi e sul trattamento è di pertinenza delmedico, la comunicazione più in generale,verbale e non, riguarda anche l�infermiere e ilpersonale che opera in ambito oncologico. Inparticolari situazioni dove si realizza una co-municazione inefficace, per difficoltà di com-prensione e linguaggio o per particolari tratticaratteriali, con il conseguente rischio di di-storsione del messaggio originario, l'infer-miere può svolgere un'opera di mediazioneprima, migliorando il flusso informativo, poidi verifica e controllo dell�avvenuto passag-gio dell�informazione e delle disposizionisuggerite al paziente (es. norme igieniche, te-rapie domiciliari).Accade a volte che il colloquio con il medicoallontani dei dubbi ma ne aggiunga altri; ilmalato si rivolge allora a chi sente più vicinoai suoi bisogni cioè all�infermiere con il quales'instaura spesso un rapporto di confidenzaed affetto, che scaturisce dalla capacità del-l�infermiere di ascoltare il malato, di soddisfa-re i suoi bisogni, di cogliere anche i più piccolimutamenti di carattere fisico e psichico.Il gruppo degli operatori sanitari (medici einfermieri) deve stabilire quindi, un'omoge-neità nelle modalità informativo-comunicati-ve (salvaguardando le peculiarità individua-li) in modo da garantire l'univocità dell'infor-mazione orientata al paziente, evitando mes-saggi contraddittori.L�infermiere professionale dovrebbe esseresempre coinvolto nella fase di acquisizione delconsenso e non solo in qualità di testimone,anche perché in termini assistenziali, come giàdetto, è la figura forse più vicina al malato du-rante il percorso terapeutico fino al punto daassurgere spesso al ruolo di potenziale suoconfidente. Il paziente può più facilmente ri-

volgersi a lui con linguaggio comprensibile,concettualmente adeguato, variando gradual-mente, nei limiti delle proprie competenze,durante tale percorso, il livello informativo fi-no ad adeguarlo al vissuto attuale: l�esperien-za insegna che l�infermiere è sicuramente la fi-gura alla quale il paziente si rivolge con mag-giore naturalezza. Il personale sanitario do-vrebbe guadagnarsi la fiducia dei malati e svi-luppare tecniche di ascolto e replica, oltre allacapacità di immedesimazione (empatia).Tuttavia, lungo il decorso della malattia, pos-sono subentrare stimoli esterni (esperienze diconoscenti, articoli di giornale, servizi televi-sivi) che possono insinuare il dubbio sullabontà stessa della terapia adottata e ciò po-trebbe alterare il rapporto tra equipe ed assi-stito facendo sorgere dubbi sulla efficaciadella cura prestata e sulla qualità della stessa.Appare opportuno analizzare con gli opera-

tori sanitari le ragioni di queste difficoltà ediffidenze, per verificare se e in che misura èpossibile superare gli ostacoli che impedisco-no la realizzazione di una relazione nellaquale i due soggetti del rapporto (medico edassistito), nel rispetto delle reciproche com-petenze, collaborano per pervenire ad unadecisione clinica realmente condivisa. In unmomento storico nel quale gli operatori sani-tari si vengono posti troppo spesso ingiusta-mente sotto accusa, appare pertanto utile esa-minare ogni caso clinico anche dal punto divista giuridico per verificare la correttezzadell�iter seguito, non solo in relazione al do-vuto rispetto dell�autonomia decisionale delpaziente, ma anche per quanto concerne altredecisioni rilevanti quali, ad esempio, il valoredelle linee guida e dei protocolli, l�analisi cor-retta del rapporto rischio-beneficio, la re-sponsabilità professionale, il segreto profes-sionale, le nuove responsabili derivanti dallaabolizione del mansionario. Occorre tenerpresente alcune norme giuridiche che regola-no la professione infermieristica : l�infermie-re, in qualità di persona incaricata di pubbli-co servizio è obbligato a rispettare il segreto

L’INFORMAZIONE IN ONCOLOGIA TRA I DUBBI DELLA COMUNICAZIONE

Pastorelli R.^, Sandroni C.°, Falegnami L.”, Cifaldi L.*

^ Dirigente Responsabile U.O. di Medicina Interna, ° D.A.I., “ C.S.S.A.* Dirigente Responsabile U.O. di Oncologia Medica;Polo Ospedaliero di Colleferro-Valmontone, ASLRoma/G.

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d�ufficio, ai sensi dell�articolo 326 del CodicePenale in virtu� delle possibili acquisizioni dinotizie durante l�espletamento delle propriefunzioni; inoltre è tenuto nei confronti dellapersona assistitala rispetto del segreto profes-sionale, in virtu� della possibilità di avere no-tizie su segreti durante l�esercizio della pro-fessione.L�infermiere nel raccogliere i dati necessariper attivare il processo infermieristico è tenu-to a trattare i dati personali in modo lecito e

secondo correttezza in virtù dell�articolo 9della 675/96 (legge sulla privacy). L�obbligodel segreto, da parte dell�infermiere, dovreb-be in realtà essere sentito come un imperati-vo morale; sicuramente è anche un dirittopoiché, per quanto esposto, l�infermiere èquel professionista che più di ogni altro vienea conoscenza di situazioni che il malato desi-dera rimangano riservate ed a volte inacces-sibili anche ai familiari più stretti.

1. AIMAC. Carta dei Diritti dei Malati di cancro. 2. Cifaldi L., Pastorelli R.: Il consenso informato inOncologia. Atti del IV Congresso Nazionale "Tumori inetà geriatrica";1999; Minerva Medica, vol. 90: n° 7-8.3. Santosuosso A., Tamburini M.: Dire la verità al pa-ziente. Alcuni aspetti psicologici e giuridici. FederazioneMedica XLIII :1990; 7.4. Cifaldi L., Marchei P., Frati L., L'integrazione deiruoli assistenziali per il miglioramento della qualità del-la vita in oncologia. 1992; Giorn.It.Oncol. n°4.5. FNOMCeO. Il commentario al nuovo CodiceDeontologico. Inserto redazionale de “La Professione”.dicembre 19996. Saieva G., Consenso informato. Bollettinodell’Ordine Provinciale di Roma dell’Ordine dei Medici

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La storia della malattia vaiolosa e delle sue in-terpretazioni patogenetiche si intreccia intima-nente con quella dell�immunologia. Sin da tempi antichissimi l�esperienza mostra-va come molte malattie, spesso genericamentedefinite �pestilenze�, determinassero in coloroche sopravvivevano ad esse cambiamenti che lirendevano immuni ad una seconda infezione.

Il medico islamico Razes Al Razi (841�926) fuuno dei primi a lasciare tracce scritte sul vaio-lo, descrivendolo come una malattia diffusama solo eccezionalmente mortale. Se ci sia sta-ta nel corso dei secoli una virulentazione delvaiolo o una errata valutazione di Razes nonsiamo in grado di dirlo, ciò di cui siamo certi èil fatto che questi riconobbe che la malattia erain grado di generare nei superstiti un�immu-nità di lunga durata.La geniale teoria patogenetica impostata daRazes considerava il vaiolo come l�effetto diuna �alterazione� del sangue, una fermenta-zione di umori che doveva essere necessaria-mente smaltita attraverso le pustole cutanee, ementre spiegava l�immunità acquisita comel�impossibilità di eliminare i vapori superflui�dopo che era stato fermentato tutto ciò cheera fermentabile�, alla maggiore umidità delsangue dei giovani e dei maschi attribuiva ilmotivo della più alta probabilità di contrarrela malattia rispetto alle donne e soprattuttoagli anziani. Tre caratteristiche del vaiolo ave-vano trovato una spiegazione: la più alta inci-denza di contrarre la malattia in età giovanile,la resistenza acquisita alle reinfezioni, le lesio-ni cutanee come veicolo per eliminare gliumori malati.Le teorie sulla fermentazione del sangue di ip-pocritica memoria furono successivamente ri-

prese da Avicenna (Fig. 1), e cinque secoli piùtardi enfatizzate dal Fracastoro (Fig. 2) secon-do il quale la fermentazione dipendeva dalfatto che ogni uomo avesse in sé un residuo disangue mestruale materno, quello che fermen-tava; la resistenza successiva alla malattia altronon era che il risultato della sua definitiva eli-minazione con la prima fermentazione. Al genio del Fracastoro si deve anche la pater-nità dell�intuizione del �contagio vivo� sugge-ritagli dalle osservazioni condotte sulle mani-festazioni patologiche della sifilide (DeContagione e contagiosis morbis eorumque curatio-nis; Venezia 1546). L�idea del contagio nascevadalla concezione dell�esistenza di semi di ma-lattia invisibili, i seminaria prima, che si tra-smettevano per �infectio� o contagio per con-tatto diretto tra malato e sano, oppure ancoraper mezzo di veicoli, i fomites (le esche), comevesti e biancheria da letto usate da malati emaneggiate poi da sani.

Un embrionale concetto di contagio era comun-que presente già molti secoli prima nella cultu-ra dei popoli di Egitto e Cina, regioni in cui era-no state descritte terribili epidemie di vaioloche si tentava di arginare con tecniche empiri-che di immunizzazione, le stesse che molto più

UNA BREVE STORIA DEL VAIOLO

Raffa S.

Medico Specializzando in Patologia Clinica, Ospedale Sant’AndreaII Facoltà di Medicina e ChirurgiaUniversità degli Studi “La Sapienza” RomaCorrispondenza:Dott. Salvatore Raffae–mail: [email protected] Fig. 1 – Avicenna (980–1037).

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tardi avrebbero ispirato le esperienze di Jenner.Durante le epidemie accadeva, infatti, che ilcontenuto essiccato delle pustole venisse tra-sferito dai malati all�uomo sano con varie tec-niche e, spesso, con risultati catastrofici.Queste pratiche in realtà, mimavano il conta-gio naturale senza contare il fatto che, in pienafase epidemica, era spesso troppo tardi perpoter sperare in qualche loro vantaggio pre-ventivo. In Cina, ad esempio, era pratica co-mune inalare con una cannuccia di bambù lepolveri ricavate dalle lesioni dei malati, chevenivano aspirate con la narice sinistra dagliuomini e con la destra dalle donne.Gli Indiani ottennero risultati decisamente mi-gliori inoculando con una specie di spilloni il li-quido delle pustole nei soggetti sani che, colpitida una forma mite di vaiolo, rimanevano poi

immuni dalla malattia per lungo tempo.Questo metodo divenne noto anche in MedioOriente come �variolizzazione� o �variola-zione� e venne importato dalla nobildonnaMary Montagu (Fig. 3) in Europa, dove pertutto il diciassettesimo secolo restò la solapratica che potesse il qualche modo arginareil rischio di epidemie.

Qualche anno più tardi, ignorando ogni gene-re di concetto immunologico e soprattutto lavera natura dell�agente patogeno del vaiolo,Edward Jenner (Fig. 4) cambiava radicalmenteil corso della malattia impostando una nuovaed efficiente pratica di immunizzazione sullasemplice base delle esperienze. Nel 1796 dopocirca quindici anni di osservazioni sul vaiolovaccino (true cow pox) e sulla resistenza al

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Fig. 2 – Girolamo Fracastoro (1478–1553).

Fig. 3 – Lady Mary Mortley (1689-1762), moglie del-l’ambasciatore inglese in Costantinopoli. Fig. 5 – La vaccinazione di James Phipps.

Fig. 4 – Edward Jenner (1749–1823).

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vaiolo umano acquisita dai mungitori che ave-vano sviluppato la malattia dei bovini in for-ma cutanea, una epidemia di cow pox svilup-patasi nelle campagne inglesi del Gloucester-shire offri a Jenner l�occasione definitiva persperimentare le sue teorie, direttamente mu-tuate dalle tecniche di variolazione fino ad al-lora note. Dal 14 maggio 1796, data della vac-cinazione di James Phipps (Fig. 5, 6, 7), la�sperimentazione� si protrasse circa per dueanni durante i quali molti altri pazienti venne-ro resi definitivamente immuni attraverso l�i-noculazione del vaiolo bovino.

Qualche mese dopo la divulgazione delle espe-

rienze di Jenner, Napoleone adottava la vacci-nazione antivaiolosa per le sue truppe mentree l�imperatrice Caterina di Russia imponeva lavaccinazione obbligatoria a tutti i suoi sudditi.Qualche anno dopo, Bassi, Koch e Pasteuravrebbero posto le basi delle moderne cono-scenze infettivologiche ed immunologiche.

Acknowledgments

The use of the images in this article (Fig. 1-7) isexclusively scientific informative, non profit.The publication of the U.S. National Library ofMedicine, Bethesda.

Fig. 6 – Incisione in rame che raffigura la vaccinazionedi James Phipps, in grembo alla madre, e SarahNelmes, impiegata di una latteria che aveva contratto ilvaiolo bovino durante la mungitura.

Fig. 7 – Edward Jenner, medico condotto a Gloucester,compie la prima vaccinazione della storia su un suopiccolo paziente di otto anni. James Pipps (illustrazio-ne anonima non datata).

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L’EROGAZIONE DEI FARMACI ANTIBLASTICI

La Commissione Unica del Farmaco, basan-dosi su criteri di sicurezza e di buona praticaclinica, ha disposto che l'uso dei farmaci anti-blastici iniettabili sia limitato esclusivamenteall'ambiente ospedaliero.Così con decreto 18/02/1999 pubblicato suG.U.n. 47 del 26/02/1999 tali farmaci sono ero-gati a carico del Servizio Sanitario esclusiva-mente attraverso strutture pubbliche e privateaccreditate in regime di ricovero, day hospitalo assistenza domiciliare (per tramite del CAD).Tale classificazione in fascia H, è motivata dal-la necessità di somministrare i farmaci antibla-stici nel contesto di dettagliati protocolli ditrattamento. Dallo schema che segue si eviden-ziano le motivazioni per la limitazione all'uso:� Polichemioterapia;� elaborazione di protocolli da parte di specia-

listi ospedalieri in oncologia responsabili an-che della corretta applicazione degli stessi;

� controllo degli effetti collaterali immediatio a breve-lungo termine che vanno preve-nuti (ove possibile), riconosciuti, trattati.

� Eventuali modifiche nel dosaggio e/o som-ministrazione durante il trattamento;

� Prevenzione e sicurezza di eventuali conta-minazioni accidentali.

Quello della sicurezza per gli operatori sani-tari che si occupano della preparazione, som-ministrazione, smaltimento dei chemioterapi-ci antiblastici (CTA), è un problema di rile-vanza fondamentale. A tal proposito l'ISPELSe la Commissione Oncologica Nazionale han-no stabilito precise direttive secondo le qualila manipolazione dei CTA deve avvenire inambiente centralizzato con l'applicazione diprecise norme di sicurezza pubblicate sullaG.U. n. 236 del 1999 allo scopo di mantenerel'esposizione ai suddetti farmaci ai livelli piùbassi possibili.

Le misure di prevenzione prevedono l'identi-ficazione di mansioni che comportano il ri-schio di esposizione che sono:� Immagazzinamento� Preparazione� Somministrazione� Smaltimento� Manutenzione cappe� Pulizia dei localiCondizione essenziale per il controllo di tuttele fasi descritte è la Centralizzazione in Unitàdi Manipolazione concentrata in locali predi-sposti con accesso riservato esclusivamenteal personale autorizzato.L' Unità indicata da contrassegno di pericolodeve essere gestita, per le rispettive compe-tenze dalla Farmacia Interna e dai Servizi diOncologia ed Ematologia.Le caratteristiche dei locali devono garantireuna facile pulizia e decontaminazione, deveinoltre essere presente una cappa a flusso la-minare verticale di tipo II B per rispettare lecondizioni di asepsi e sicurezza; inoltre, ilpersonale addetto alla preparazione e/osomministrazione di CTA deve indossare idispositivi di protezione individuale ed ese-guire tecniche di lavoro standard.Importanti sono anche le operazioni di inatti-vazione e smaltimento secondo specifichemetodologie da estendere a tutto il materialeutilizzato per la manipolazione, nonché ailetterecci contaminati dagli escreti e alle deie-zioni dei pazienti.Nell'ambito dei farmaci iniettabili con indica-zione antitumorale, ve ne sono alcuni per iquali è prevista l'erogazione diretta da partedelle farmacie aperte al pubblico per unasomministrazione domiciliare occasionale, aldi fuori dei programmi suddetti, assicurandosufficienti garanzie di sicurezza per il pazien-te e operatori sanitari. La valutazione dellasicurezza è stata fatta considerando: la via disomministrazione, le modalità di sommini-strazione, la tossicità acuta, gli effetti collate-rali a medio e lungo termine e le modalità dipreparazione e smaltimento.

DRUGS

a cura di Gentili R. e Lauriola M.

Servizio di Farmacia, Ospedale di Subiaco;ASL Roma/G

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In base a tali criteri la CUF ha disposto che ifarmaci a somministrazione intramuscolare,endovescicale, sottocutanea, (individuati dal-l'allegato n.2 D.M. 14/07/1999) possono esse-re ammessi all'erogazione tramite le farmacieaperte al pubblico in luogo delle FarmacieOspedaliere.Dalla normativa del '99 risultavano esclusidalla rimborsabilità dei farmaci antiblastici ipazienti in trattamento presso le struttureprivate non accreditate. Per aggirare l'ostaco-lo la Regione Lazio ha emanato "Misure ur-genti in campo oncologico" (DGRL n. 2040del 21/12/01) con le quali la fornitura diCTA iniettabili ai suddetti pazienti viene ero-gata a carico del Servizio Sanitario Regionale.La richiesta deve essere redatta da parte delloSpecialista oncologo della struttura e inoltra-ta al Servizio Farmaceutico della ASL. In essa

devono essere individuate le quantità di far-maci per ogni ciclo terapeutico, e la distribu-zione da parte del Servizio Farmaceutico de-ve avvenire direttamente alla struttura priva-ta non accreditata per mezzo di personale ad-detto al ritiro precedentemente indicato e au-torizzato dal Direttore Sanitario. Deve, inol-tre, essere garantita la corretta conservazionedurante il trasporto che deve avvenire nelpiù breve tempo possibile.È competenza della ASL la vigilanza sulla cor-retta applicazione delle disposizioni di legge ela comunicazione trimestrale all'Assessoratoalla Sanità della fornitura concessa.Da quanto detto si evince l'importanza dinon approcciarsi con superficialità nella ge-stione e manipolazione dei farmaci antiblasti-ci in quanto troppo spesso si dimenticano irischi ad essi correlati.

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ξξµµββοολληη.. EMBOLÈ, INTERPONIMENTO!UN CASO DI APOPLESSIA RACCONTATO DA PIRANDELLO.

In un caldo pomeriggio di agosto, Gaspare Naldi, proprietario terriero giovane e prestante ma grave-mente malato – o, come dice Pirandello, “affetto da incurabile malattia cardiaca” (valvulopatico e fibril-lante? Chissà…) – stramazza colpito da apoplessia nella casa di un suo amico, il Cilento. Tutto il paesefinisce per raccogliersi pigramente intorno al suo lettuccio e mentre medici, infermieri e lo zio canonico siaffannano per prestare i loro servigi al morente, il potente uomo politico locale, amici e conoscenti, richia-mati dai motivi più disparati, bivaccano sul posto tra sentimenti di pietà, commiserazione e macabra cu-riosità, tutti, in fondo, intimamente solleticati da quel particolare gusto che creano le situazioni insoliteche, per quanto drammatiche, finiscono per assumere il connotato del diversivo nella monotona vita quo-tidiana.

Come non sorridere di fronte alla piccola (e, a mio avviso, mirabile) lezioncina di fisiopatologia sulmeccanismo cardioembolico dell’ictus cerebrale che il Deodati offre agli astanti…

Come non sorridere ritrovando, nella lettura, alcuni presidi che hanno fatto parte dell’armamentarioterapeutico dell’ictus (e dei prontuari medici) fino a poco meno di cinquant’anni or sono: il sollevamentodella testa e la “vescica” di ghiaccio sul capo, le carte senapate dall’azione revulsiva e vasodilatatrice lo-cale, le iniezioni di caffeina, analettico e broncodilatatore…

Un sorriso, più amaro, lo strappa anche la figura del dottor Bax, medico alle prime armi chiamato daicolleghi, che mostravano di non prestargli ascolto, unicamente perché lo sapevano resistentissi-mo al sonno� Evolvono le conoscenze mediche, cambia la terapia, ma resta immutabile in qualche“collega più esperto” l’idea che “gavetta” debba necessariamente far rima con manovalanza negletta�

Dalla novella “visitare gl’infermi”, Luigi Pirandello; 1896*.

"In meno d'un'ora per tutto il paese si sparse la notizia che Gaspare Naldi era stato colpitod'apoplessia in casa del Cilento, suo amico, dal quale s'era recato per condolersi della recentemorte del figliuolo.

Tutti, in prima, più che afflizione ne provarono sbigottimento e ciascuno con ansia domandòpiù precisi ragguagli. Ma la prima costernazione fu presto ovviata dalla riflessione confortanteche il Naldi, quantunque di florido aspetto e ancor giovane, era pur dentro minato da incurabilemalattia cardiaca. Sicché, via! poteva aspettarsi da un momento all' altro, poverino, una fine così.

I primi visitatori, amici e conoscenti, accorsero alla casa del Cilento ansanti, pallidi, con oc-chi da spiritati. - "Non è ancor morto?"- Volevano vederlo.

[�]Gaspare Naldi, di corporatura potente, sorretto il busto da una pila di guanciali, con una vesci-

ca di ghiaccio in capo, il volto paonazzo, aveva schiuso gli occhi insanguati e guardava un po� ac-cigliato, quasi per uno sforzo di riconoscere colui che s'era chinato sul letto a spiarlo negli occhi.

� Gaspare! Gaspare! � chiamò il fratello, con la speranza, nella voce, che il colpito l'udisse.

PASSAGGI LETTERARI

a cura di Salvatore Raffa

* �Visitare gl�infermi� apparve al pubblico per la prima volta nel novembre 1896, presentata in cinquepuntate sulla rivista �Roma di Roma�. Fu successivamente pubblicata, insieme ad altre dodici novelle,nella raccolta �Donna Mimma�, nono gruppo di �Novelle per un anno� (Bemporad, Firenze; 1925).

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Ma il morente seguitò a guardarlo ancora un pezzo, accigliato; poi contrasse, come in unsorriso, la sola guancia sinistra e aprì alquanto la bocca da questo lato; si provò a far più voltespracche con la lingua inceppata, come se volesse inghiottire, ed emise un suono inarticolato,tra il gemito e il sospiro, richiudendo lentamente le palpebre.� M'ha riconosciuto! � disse allora piano Carlo Naldi agl'infermieri seduti alle sponde del letto,

quasi non credendo a se stesso. � Vuol parlare, e non può! M'ha riconosciuto!� Dottore, ha visto? M'ha riconosciuto! � ripeté il Naldi al giovine medico Matteo Bax lasciato di

guardia dagli altri tre medici curanti.� Come no? Sissignore! � disse il Bax, sorgendo in piedi militarmente e sgranando gli occhi ce-

ruli, vitrei, da matto.� Stia, stia seduto.� No, dovere, che c'entra? La conoscenza, nossignore, non l'ha ancora perduta. Ogni tanto, qual-

che lucido intervallo.� C'è speranza, dunque?� Il caso è grave; io parlo franco, sa? ma le speranze, nossignore, chi lo dice? non sono perdute.Ancora io non dispero, ecco. Però è un caso d'embolia cerebrale, e...� Ah, � fece, accostandosi con timida curiosità, in punta di piedi, il Deodati, venuto dall'altra

stanza per assistere, nonostante il puzzo, alla scena commovente tra i due fratelli. � Non è col-po apoplettico?

� Embolia cerebrale, � ripeté a bassa voce il dottor Bax, come confidasse un gran segreto espiegò brevemente la parola e il male.

Il Deodati uscì dal salotto e si recò a raggiungere gli amici nell'altra stanza.� Speriamo che di qui a domattina si risolva, � continuò il Bax. � Vigoroso... un gigante. Eh, do-

vrà stentare la morte ad abbatterlo. Noi intanto non abbiamo nulla da fare... parlo franco io.Assecondiamo la natura: questo il nostro compito, ecco! Da un momento all'altro potrebbe de-terminarsi una crisi benefica.

S'accostò al letto e consultò il polso del giacente.� I polsi si mantengono. Applicheremo più tardi due carte senapate ai piedi. Me l'hanno lasciato

detto i miei colleghi. Non mi prendo nessuna libertà, io.Il Bax era all'inizio della carriera, e però costretto a codiare un po� l'uno, un po� l'altro dei

medici più accontati, tutti � s'intende � asini per lui. Mah! Riteneva una fortuna l'essere statochiamato in quell'occasione, al letto d'uno in vista come il Naldi; gli conferiva una certa impor-tanza e l'avrebbe rialzato nel concetto di tanta gente che affluiva d'ora in ora a visitar l'infermo,cui egli per ciò assisteva col massimo zelo. Nel vederlo così faccente attomo al letto, nessuno(egli credeva) avrebbe sospettato che gli altri medici curanti lo avessero chiamato unicamenteperché lo sapevano resistentissimo al sonno.� Sentite, eh? Ma se lo supponevo io! � diceva frattanto Filippo Deodati nell'altra stanza. � Ma

che colpo apoplettico d'Egitto! Possibile, così, un colpo? È caso d'embolia. Un caso d'emboliacerebrale, bello e buono, di quelli genuini... tipico, via!

� Com'hai detto? - domandarono alcuni.� Embolia? Che significa? - domandarono altri.� Eh, dal greco... ξµβολη ... perdio, me ne ricordo ancora dal liceo. Quando la circolazione del

sangue non si svolge più regolarmente, perché il cuore, capite, è indebolito, che avviene? av-viene che nel cuore si formano certi... grumi di sangue... grumi, grumi... Qualche volta uno diquesti grumi si stacca dal cuore, capite? e gira... Oh! Fino a tanto che incontra vasi capaci, que-sto grumo, naturalmente, passa; ma quando poi arriva al cervello dove i vasi sono più finid'un capello... eh, allora... ξµβολη , interponimento... - mi spiego? � avviene l'arresto e il colpo.

Gli ascoltatori si guardarono l'un l'altro negli occhi senza fiatare, come colpiti tutti dall'oscu-ra minaccia di quel male. Un piccolo grumo! Si stacca... gira... e poi... embolé, interponimento...

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Da che dipende la vita d'un uomo! Può accadere a tutti un caso simile.E ciascuno pensò di nuovo a sé, alle condizioni della sua salute, guardando con crudeltà quelli

tra gli astanti che si sapevano di salute cagionevole. Uno tra questi, dalle spalle in capo, quasi sen-za collo, sempre acceso in volto, più miope del Deodati, sospirò agitando sotto gli sguardi dei ra-dunati più volte di seguito le palpebre dietro le lenti che gli rimpicciolivano gli occhi.� Intanto, � seguitò il Deodati, � se l'arresto non si risolve prima delle ventiquattr'ore, la parte

cerebrale non nudrita degenera, capite? e avviene il rammollimento.� Povero Gaspare! - esclamò con angoscia intensa, esasperata, l'uomo miope senza collo.

[�]Alcuni si mossero per andar via: non potevano farne a meno: erano attesi in casa per la cena.

Ma, prima d'andarsene, vollero rivedere il moribondo, ed entrarono nel salotto, col cappello inmano, in punta di piedi. Contemplarono un pezzo in silenzio il giacente, a cui il nipote introdu-ceva tra le labbra, cautamente, un cucchiajo a metà pieno d'una mistura rosea. Il moribondocontinuava a rantolar sordamente, facendo gorgogliar la mistura nella gola, come se si divertis-se a fare un gargarismo.

Ritornarono poco dopo, per la visita serale, i tre medici curanti. A uno a uno, appena arriva-ti, consultarono a lungo i polsi del colpito, prima il destro, poi il sinistro, tra il silenzio sgomen-to degli astanti che spiavano ogni loro movimento, come in attesa d'un responso fatale, inappel-labile. Il giovane dottor Bax riferiva in breve a bassa voce ai tre colleghi, che dimostravano dinon prestargli ascolto, lo stato dell'infermo durante la loro assenza.� Zitto, collega: va bene! � disse, seccato, il più vecchio dei tre, e tirò giù il lenzuolo per osserva-

re il petto e il ventre del moribondo agitati continuamente, per lo stento della respirazione, daconati quasi serpentini. Quella vista angosciò così gli astanti, che molti distrassero lo sguardoda quel ventre illuminato da una candela sorretta da un infermiere. Un altro dei medici, ma-gro, rigido, impassibile, posò le dita nodose sull'attaccatura del collo, a sinistra, ove lenta eforte pulsava visibilmente l'arteria; poi tutta la mano, sul cuore. Il terzo si mise a solleticar conun dito la pianta del piede destro, paralitico, per accertarsi se non vi permanesse ancora unultimo resto di sensibilità.

Il medico magro rigido disse a uno degli infermieri:� Avvicinate la candela.

E con due dita sollevò la palpebra dell'occhio destro già spento.Poi, tutti e tre, seguiti dal giovane dottor Bax, si recarono al balcone, e vi sedettero al fresco a

confabulare. Dopo alcuni minuti uno d'essi s'alzò e, accostandosi alla mensola, trasse dall'astuc-cio una siringhetta, la pulì, la provò due volte facendone spillare un po� d'acqua; poi la riempìdi caffeina e s'appressò al letto.� La candela!� Dottore, dottore, perché prolungar così lo strazio di questa agonia? � gemette affannosamente

lo zio canonico, impallidito alla vista dello strumento.� E nostro dovere, reverendo, � rispose asciutto asciutto il medico, scoprendo la gamba del gia-

cente.� Ma lasciamo fare a Dio... - insisté con voce piagnucolosa il canonico.

Il medico, senza dargli retta, cacciò l'ago nella gamba insensibile; e l'altro chiuse gli occhi pernon vedere.

Poco dopo, lasciate al Bax alcune prescrizioni per la notte, i tre medici andarono via, seguitida quasi tutti i visitatori. Rimasero nel salotto i due infermieri e il canonico."

[�]