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Mensile di aggiornamento e approfondimento in materia di immobili, ambiente, edilizia e urbanistica Numero 46 - settembre 2017

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Mensile di aggiornamento e approfondimento

in materia di

immobili, ambiente, edilizia e urbanistica

Numero 46 - settembre 2017

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Settembre 2017 – Chiuso in redazione il 12 settembre 2017

Sommario

Pagina

NEWS Immobili, condominio, edilizia e urbanistica, fisco, professione 4 RASSEGNA DI NORMATIVA Leggi, decreti, circolari: sintesi e classificazione 28 RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA Immobili, condominio, edilizia e urbanistica, fisco, professione 30 APPROFONDIMENTI MEDIAZIONE IMMOBILIARE E CLAUSOLE PENALI LA CLAUSOLA PENALE NEGLI INCARICHI DI MEDIAZIONE IMMOBILIARE Nella mediazione immobiliare è ormai diffusa la prassi di utilizzare modelli standard di contratti di mediazione, predisposti dal mediatore per la conclusione di una moltitudine di affari dello stesso tipo. Tale modulistica contiene normalmente la previsione di una penale a favore del mediatore in caso di recesso anticipato del cliente o di conclusione dell’affare diretta o tramite altri intermediari o con persone segnalate dal mediatore dopo la scadenza dell’incarico. Giuseppe Bordolli, Il Sole 24 ORE – Estratto da “Consulente Immobiliare”, Edizione del 31 agosto 2017, n. 1027 pag. 1401-1406 37 AGEVOLAZIONI FISCALI "PRIMA CASA" SENZA BONUS SE LA DONAZIONE È SUCCESSIVA ALL'ACQUISTO A TITOLO ONEROSO Non spetta l'agevolazione "prima casa" per l'acquisto di un immobile a titolo gratuito, tramite donazione, qualora il contribuente abbia già beneficiato dell'agevolazione per un precedente acquisto a titolo oneroso, salvo che questi rivenda l'immobile preposseduto entro un anno dall'atto di donazione. Alessandro Borgoglio, Il Sole 24 ORE – Estratto da “Consulente Immobiliare”, Edizione del 15 settembre 2017, n. 1028 pag. 1533-1537 42 L’ESPERTO RISPONDE Immobili, condominio, edilizia e urbanistica, fisco, professione 46

 

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   Proprietario ed Editore: Il Sole 24 Ore S.p.A. Sede legale e amministrazione: Via Monte Rosa 91- 20149 Milano Redazione: Redazioni Editoriali Professionisti e Aziende – Direzione Publishing - Roma Comitato scientifico e Coordinamento Editoriale FIAIP: Centro Studi FIAIP – Delegato nazionale Marco Magaglio © 2017 Il Sole 24 ORE S.p.a. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi strumento. I testi e l’elaborazione dei testi, anche se curati con scrupolosa attenzione, non possono comportare specifiche responsabilità per involontari errori e inesattezze.

 

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Mercato immobiliare e mutui I mutui per l’acquisto superano le surroghe Crescono i mutui dedicati all’acquisto e superano la quota e di quelli erogati per la surroga, mentre il tasso fisso rimane di gran lunga il preferito dagli italiani. Sono i principali risultati che emergono dall’ultimo Osservatorio di Mutuionline.it sul terzo trimestre 2017 (anche se i dati «solo il consuntivo dei mesi effettivamente trascorsi» e non «rappresentano quindi stime o proiezioni di chiusura dell’intero trimestre» che si chiude infatti a fine mese). Nel periodo considerato, i finanziamenti destinati all’acquisto della prima casa sfiorano infatti il 46%contro il 41,3% del secondo trimestre 2017, mentre i mutui di surroga scendono al 43,3% contro il 49,7%. Il tasso fisso viene scelto invece da oltre l’83% dei sottoscrittori. «Per quanto riguarda la durata – si legge in una nota – la maggioranza dei mutui erogati è a 20 anni (30,7%) per un importo medio pari a 124.067 euro. Il 39,8% dei mutui è stato erogato per una classe di importo compresa tra i 50.001 e 100.000 euro». Per quanto riguarda le classi di età, «il 44,5% dei finanziamenti è stato erogato a persone di età compresa tra i 36 e i 45 anni e il 35,6% per una classe di reddito tra i 1.501 euro e 2mila euro». Infine, «il tasso medio fisso per i mutui a 20 e 30 anni si è attestato al 2,19%, in leggero calo rispetto a luglio 2017 (2,36%). Il tasso medio variabile ha registrato una leggera flessione (0,98% rispetto all’1% a luglio 2017)». (Il Sole 24 ORE –Estratto da “Il Sole24Ore.com - Casa24”, 11 settembre 2017)

Savills: crescono le intenzioni d’acquisto dall’estero

Il peggio è passato per il mercato immobiliare italiano: l'interesse degli acquirenti stranieri cresce, il numero di compravendite aumenta e i prezzi si stanno stabilizzando. «C’è un nuovo senso di ottimismo sul mercato italiano, l'attività è in ripresa e gli agenti immobiliari segnalano un maggiore interesse da parte di potenziali acquirenti», spiega Paul Tostevin di Savills World Research, autore di nuovo rapporto sul mercato immobiliare italiano. L’interesse dall’estero è uno dei segnali maggiormente positivi, secondo Savills, sia per l’Italia come destinazione turistica sia come luogo dove acquistare una seconda casa. Il numero di richieste di immobili in Italia aumenta e arriva ora da un numero sempre crescente di Paesi. «Abbiamo richieste da 37 nazionalità diverse, dalla Nuova Zelanda alla Norvegia, dalla Thailandia a Cipro - afferma Annabel Dudley, responsabile dell'Italia di Savills –. Il numero continua a crescere. Aumenta l'interesse dalla Cina, e da Canada e Stati Uniti». Secondo Dudley, gli stranieri non sono più alla ricerca di un rudere da ristrutturare ma preferiscono comprare un immobile già abitabile, possibilmente con vista mare o lago, e in ogni caso vicino a un paese o a una città. I casali isolati sono meno richiesti di un tempo.

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Nonostante i punti interrogativi all’orizzonte le prospettive sono positive per il mercato immobiliare italiano, secondo Tostevin: «L’incertezza politica resta, con elezioni all’orizzonte nella primavera del 2018, ma le prospettive dell’economia stanno migliorando, la fiducia aumenta, e i nuovi incentivi fiscali da poco approvati dal Governo dovrebbero attrarre più investitori stranieri». Lo studio ricorda le transazioni in aumento del 18% nel 2016, al livello più alto dal 2012, anche se restano più basse del 39% rispetto ai massimi toccati nel 2006. I prezzi sono scesi in media dal 30% dai massimi del 2008 e quindi «è un mercato favorevole agli acquirenti», ma «lo sconto medio rispetto al prezzo richiesto è sceso dal 16% al 12%»,il che è un segnale che i prezzi hanno iniziato a stabilizzarsi nel corso del 2017. Anche secondo Savills, la ripresa è particolarmente visibile nel nord: a Milano le vendite sono aumentate del 22% nel 2016, mentre i prezzi sono saliti dell'1,4% nel secondo trimestre di quest’anno. «Milano è la vera success story – sottolinea Tostevin –. Grandi progetti commerciali come Milano Porta Nuova hanno fatto da traino anche al residenziale di alta gamma, galvanizzando il mercato». (Nicol Degli Innocenti, Il Sole 24 ORE – Estratto da “Il Sole24Ore.com - Casa24”, 11 settembre 2017) Mutui, i costi lievitano con le polizze. Ecco qual è il prezzo giusto

Costano dal 2% fino a punte che superano il 10-12% dell’importo erogato e continuano ad assicurare alle banche lauti guadagni in provvigioni. Ma i consumatori sono più informati e potrebbe presto aprirsi un mercato più competitivo, con conseguente discesa dei prezzi, grazie alle ultime novità contenute nella legge 4 agosto 2017 (Ddl Concorrenza). Parliamo delle polizze a protezione del mutuo, definite generalmente Cpi (Credit protection insurance), ossia contratti vita, danni, o molto spesso multirischi, volti a garantire la corretta restituzione del prestito in caso eventi come la morte del titolare del finanziamento, invalidità, perdita dell’impiego per i lavoratori dipendenti o infortuni che mettano a repentaglio il reddito degli autonomi. Diffusione e provvigioni «La loro diffusione è rimasta stabile negli ultimi anni. Ma c’è più consapevolezza da parte dei clienti, alcuni dei quali addirittura considerano l’offerta assicurativa come criterio con cui scegliere la banca cui affidarsi», ragiona Ivano Cresto, responsabile dell’area mutui dei brand Mutui.it e Facile.it. Per costi ed opacità nelle condizioni queste assicurazioni sono però più volte finite nel mirino dell’Ivass, che in passato ha anche condannato i premi eccessivi, spinti da provvigioni per la rete distributiva che potevano toccare l’80%. Provvigioni che oggi, comunque, restano sostanziose e si portano via tra il 25% e il 50% del premio. Prezzo variabile Qual è il prezzo corretto di una polizza Cpi? Le offerte migliori partono da circa il 2% dell’importo erogato per una semplice protezione vita (la più diffusa, il 56,7% del totale secondo l’Ivass) salendo intorno al 6-7% per un pacchetto di protezione completo (benché sul mercato siano commercializzate offerte che costano quasi il doppio, con casi in cui a meno garanzie, almeno sulla carta, corrispondo prezzi più alti). Fondo garanzia mutui: 29.734 domande accolte per 3,4 miliardi «Una forchetta compresa tra il 2,5% e il 6,5% dell'importo è ragionevole, considerando la formula più diffusa, cioè quella del premio unico anticipato – conferma Luca Franzi, presidente nazionale di Aiba, associazione italiana broker assicurativi –. Oltre questa soglia, meglio cercare qualche preventivo in più». Ma il premio non è il solo indicatore di cui tenere conto, anche perché le polizze non sono identiche ed è fuorviante raffrontarle guardando solo alla spesa. Intanto, occorre valutare le reali esigenze del soggetto. «Sembra scontato, ma una

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polizza sulla vita o contro l’inabilità interesserà di più chi ha eredi da tutelare. Un giovane single, invece, potrebbe privilegiare solo quella contro la perdita di impiego, facendo attenzione che il contratto includa i nuovi rapporti di lavoro introdotti con il Jobs act e che abbia la maggior durata possibile, per quanto difficilmente si trovano garanzie che coprono l’intero arco del finanziamento, specialmente nelle durate lunghe come 30 anni», dice Cresto di Facile.it. Polizze collettive e individuali Poi occorre conoscere alcune definizioni. Oltre il 90% del mercato è fatto da polizze “collettive”, opposte alle “individuali”. Sono polizze standard, basate su ampi accordi fra istituto di credito e partner assicurativo, uguali per tutti i clienti. «Nel contratto, il contraente non è il mutuatario ma quasi sempre è il broker assicurativo cui si appoggia la banca. Il vantaggio è che in questo modo gli istituti spalmano il rischio su migliaia di beneficiari e riescono a offrire prodotti più vantaggiosi e accessibili. Nel caso morte, per esempio, la polizza collettiva ha lo stesso costo a prescindere dall’età dell’intestatario, mentre in un accordo individuale il premio sale sensibilmente con l’aumentare dell’età», spiega ancora Cresto. Concorrenza, che cosa cambia per mutui, tlc e professioni Attenzione, poi, a esclusioni e casi specifici. Sempre nel “caso morte”, verificare che sia incluso non solo il decesso per infortunio, ma anche quello conseguente a malattia, benché questa protezione costerà un po’ di più. Per la perdita di impiego, cercare un prodotto che conceda la durata massima di sostegno, che di solito si ferma a 12 mensilità ma in alcuni casi può arrivare a 24 o 36 mesi. In generale, sia come costo sia come ottica assicurativa, è meglio mettere in conto ogni eventualità e optare per un pacchetto completo di garanzie. Eccezioni da valutare Ma ci sono eccezioni in cui è meglio ragionare su singole garanzie. «Prendiamo un capofamiglia che abbia già una propria polizza vita in corso quando accende un mutuo. Può chiedere di inserire la banca fra i beneficiari invece che sottoscrivere un prodotto fotocopia», dice Franzi di Aiba. E non è raro il caso di due coniugi entrambi intestatari del mutuo. «Se questi hanno condizioni lavorative diverse, ad esempio il primo è dipendente privato, il secondo pubblico, si potrebbe “giocare” associando la perdita di impiego solo al primo e l’invalidità al secondo, valutando anche se assicurare per un importo maggiore colui che ha un reddito più consistente», aggiunge Cresto. Modalità di pagamento Il premio unico anticipato è il più utilizzato: si paga tutto subito, inserendo il costo della polizza all’interno dell’importo finanziato. La banca ci guadagna perché calcola gli interessi su una somma più alta, il cliente diluisce il costo nelle rate lungo il piano di ammortamento. L’alternativa è il premio ricorrente, dove il cliente paga ogni anno. È sempre una soluzione più costosa (se prevista), ma potrebbe essere una scelta obbligata. «Spesso, infatti, quando il loan to value è già ai limiti, intorno all’80%, non c'è ulteriore spazio per inserire il costo della polizza. Allora si sceglie questo tipo di premio o il cliente decide di stipulare l'assicurazione vita più avanti con l'età», conclude Cresto di Facile.it. La legge sulla concorrenza Il Ddl concorrenza approvato dal Parlamento prima delle vacanze estive (legge 4 agosto 2017, n. 124, comma 135 ) ha fissato alcuni punti che vanno nella direzione di rendere più trasparente il mercato delle polizze abbinate ai mutui. Ma restano alcune zone d’ombra. In primo luogo, viene sancito il principio che il consumatore sia libero di scegliersi sul mercato l’assicurazione, sia vita sia danni, e questa deve essere accettata dall’istituto di credito. Una condizione che dovrebbe aprire il mercato a prodotti meno cari e facilmente confrontabili tra loro. Infatti la legge obbliga la banca ad accettare la polizza del cliente, purché il contratto rispetti una serie di contenuti minimi. Nei prossimi mesi, Abi, Ania e Ivass dovrebbero essere chiamate a definire un elenco di caratteristiche standard dei contratti. Naturalmente, però, può essere anche la banca a proporre una polizza, dietro sollecitazione propria o del consumatore. E in questo caso, il legislatore e l’autorità di vigilanza dovranno chiarire se resti ancora valida l'indicazione del

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Decreto Salva Italia del 2012, che si limitava peraltro alle polizze vita, e che imponeva alle banche di fornire due preventivi extra gruppo, insieme alla polizza “di casa”. Diritto di recesso In secondo luogo, il Ddl conferma quanto già indicato al mercato dall’Ivass e cioè che su queste polizze vale un diritto di recesso a favore del cliente di 60 giorni dal momento della stipula. Il testo aggiunge che la banca dovrà illustrare questa opzione al cliente con una comunicazione ad hoc, separata dal resto della documentazione contrattuale. In terzo luogo, per rendere chiaro il costo dell’assicurazione, l’istituto è tenuto a «informare il richiedente della provvigione percepita e dell’ammontare della provvigione pagata dalla compagnia assicurativa all’intermediario, in termini sia assoluti che percentuali sull’ammontare complessivo». (Adriano Lovera ed Emiliano Sgambato, Il Sole 24 ORE – Estratto da “Il Sole24Ore.com - Casa24”, 7 settembre 2017) Gli italiani comprano la seconda casa in Spagna

Gli italiani sognano ancora la casa all’estero, ma non si vedranno le impennate negli acquisti registrate nel 2015. Il primo semestre 2017 ha fotografato, infatti, un trend stabile delle transazioni oltrefrontiera da parte delle famiglie italiane rispetto al 2016. Secondo le stime di Scenari Immobiliari quest’anno dovrebbe chiudersi con 46mila acquisti all’estero, circa mille compravendite in più rispetto al 2016 (nel 2015 erano state 47.600). La meta prediletta si conferma l’Europa, dove spicca però la disaffezione verso Londra. È la Spagna che attira il 28% degli acquisti complessivi (previsti al 30% in chiusura d’anno), grazie a prezzi ancora attraenti ma in risalita, a un costo della vita contenuto, alla facilità della lingua e agli efficienti collegamenti con voli low-cost. Spagna, Stati Uniti e Portogallo catalizzeranno a fine anno quasi il 50% degli acquisti. Le transazioni sono stabili a Madrid, ma aumentano a Barcellona, con un’ampia percentuale di acquisti per i figli, in considerazione dell’offerta di numerosi corsi under e post-graduate, e Valencia. «Il consolidamento della ripresa del mercato immobiliare e l’interesse per il permesso di residenza, che garantisce l’esenzione dall’imposta sui redditi per dieci anni, accentuano l’interesse per il Portogallo - dicono da Scenari Immobiliari -, dove però gli acquisti sono concentrati quasi esclusivamente sugli immobili ristrutturati nel centro di Lisbona, considerata la capitale più conveniente dell’Europa occidentale, e in Algarve». Sono scesi, invece, gli acquisti nell’Europa orientale così come in Grecia, dove il flusso continua a essere concentrato nelle isole. La Francia attira l’8% dei flussi totali (come la Grecia), grazie al buon andamento delle località turistiche invernali. «Parigi ha registrato un rallentamento degli investimenti legato sia all’effetto terrorismo (e forse così sarà anche per Barcellona nei prossimi mesi, ndr) sia alle novità introdotte in tema di affitti, che limitano le potenzialità di rendimento» spiega il report. Nella capitale si guarda oltre le aree centrali, troppo care, e si prendono in considerazione le zone orientali o la Grand Paris, nell’ambito della quale sono molto richieste Saint-Denis e Saint-Germain-des Près. Tra le zone turistiche è stabile la Costa Azzurra e si conferma l’interesse per le abitazioni rustiche, soprattutto nel Bordeaux e in Provenza, mentre crescono a un ritmo rapido gli acquisti in montagna. La località più richiesta dagli italiani è Chamonix. Seconde case, non frena la domanda dall’estero Se la montagna francese richiama acquirenti, quella svizzera soffre. In primis per via dei prezzi stellari raggiunti negli ultimi anni. Per comprare casa a Gstaad o St Moritz raramente bastano 15mila euro al metro quadro. In forte crescita rispetto agli anni scorsi sono gli acquisti a

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Dublino, caratterizzata da un forte sviluppo economico e infrastrutturale. Come anticipato, l’incertezza sugli accordi di Brexit e il rischio di turbolenze geopolitiche frena la ricerca di asa a Londra da parte dei nostri connazionali. Un ruolo importante lo giocano anche le imposte: l’imposta di bollo è stata portata al 3% e c’è il timore di nuovi aumenti. Gli acquisti in Germania seguono un trend stabile, concentrando circa il 5% degli investimenti complessivi. Prende piede l’atteso aumento della domanda come conseguenza del trasloco da Londra della sede di alcune società multinazionali. Per le case, invece, a causa del continuo aumento dei prezzi si teme il rischio di bolla immobiliare, che potrebbe giocare un ruolo importante nella partita delle elezioni politiche di settembre. La quota più consistente degli acquisti italiani è concentrata a Berlino, grazie ai prezzi che restano competitivi rispetto ad altre capitali europee. Un cambio euro/dollaro meno vantaggioso frena gli sbarchi a New York. Tra le zone più richieste ci sono Tribeca, Chelsea e, soprattutto, i nuovi immobili a Ground Zero, che sta diventando una delle zone più vivaci della città. (Paola Dezza, Il Sole 24 ORE – Estratto da “Il Sole24Ore.com - Casa24”, 7 settembre 2017) Il mercato immobiliare europeo cresce, Italia in coda

La pressione geopolitica creata negli ultimi giorni dalla Corea del Nord è solo una delle variabili e delle sfide che i mercati europei hanno avuto e hanno davanti quest'anno (elezioni politiche, inflazione più elevata e progressivo ritorno alla normalità monetaria). In un contesto che non è difficile definire “ingarbugliato” l'immobiliare resta attrattivo, con un aumento dell'attività nella maggior parte dei Paesi. E' la fotografia scattata da Scenari immobiliari per l'Outlook 2018, che verrà presentato a Santa Margherita Ligure in occasione del 25esimo Forum della società nella ridente cittadina di mare, intitolato quest'anno “La città degli uomini”. Secondo Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, sono in rialzo le stime di crescita delle nazioni europee nel 2017 e anche le prospettive per il 2018 sono state riviste in positivo, con l'unica eccezione del Regno Unito, vittima delle scelte sulla Brexit. La fuga di investitori privati e istituzionali a favore delle altre piazze europee come Berlino, Monaco, Milano e Bruxelles, ha rallentato la crescita del settore, concretizzandosi anche nella fuga di capitale umano. Nonostante l'interesse crescente per Milano, però, in Italia i segnali economici positivi non sono tali da garantire una vera ripresa, anche perché il Paese non è riuscito a sfruttare come altri le opportunità derivanti dal Quantitative Easing, dal basso prezzo del petrolio e dai tassi di interesse ai minimi storici. “La crescita è modesta, la pressione fiscale è ancora troppo elevata, la disoccupazione, soprattutto giovanile, è tra le più alte in Europa e il sistema bancario è sempre fragile” recita l'outlook. Il fatturato immobiliare è aumentato ovunque, fatta eccezione per il Regno Unito, dove il brusco rallentamento dell'attività nel periodo post-Brexit ha comportato una flessione del 14 per cento. Più nel dettaglio i mercati immobiliari stanno facendo meglio dell'economia. Gli ultimi mesi, tuttavia, hanno registrato un ritorno alla normalità e, nonostante gli elementi di incertezza, il 2017 dovrebbe chiudere con il segno positivo, seppure a un ritmo più lento rispetto alle nazioni concorrenti. Italia e Francia hanno registrato un aumento analogo nel 2016, ma si prevede un'accelerazione nel 2017, modesta in Italia e più consistente in Francia. L'Italia arriverà a un fatturato immobiliare di 118.550 milioni di euro a fine 2017, contro i 114.000 milioni del 2016, mentre la Francia si assesterà a 152.000 milioni, l'Inghilterra a 115.000 milioni, la Germania a 215.000 milioni. In tutto i cinque maggiori Paesi europei (la Spagna registrerà a fine anno un fatturato di 96.0000 milioni) registreranno a fine 2017 un

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fatturato di 696.550 milioni di euro (in crescita del 6%, del 9% l'anno prossimo). “Il mercato immobiliare assomiglia all'Italia di Ventura che abbiamo visto in campo l'altra sera contro la Spagna” dice Breglia. La carenza di offerta, soprattutto nelle top location, continuerà a rappresentare il focus degli investitori in cerca di un basso livello di rischio, senza però dare avvio a sviluppi speculativi accentuati. Questa carenza di prodotto nelle piazze più “sicure” comporta cambiamenti di strategia da parte degli investitori. Gli opportunistici, che possono contare su liquidità elevata, concentrano l'attenzione sugli immobili dismessi dai fondi sia nel comparto uffici che nei settori alternativi. Si cercano anche location secondarie con rendimenti elevati, in grado però di innescare un meccanismo virtuoso di ripresa e crescita. La recessione è ormai alle nostre spalle, ma da Paese a Paese cambia l'intensità della crescita. I maggiori successi riguardano il mercato spagnolo, in forte ripresa nel 2017, con previsioni di prosecuzione del trend nel 2018, anche se il valore assoluto del fatturato rimane inferiore rispetto a Francia e Germania. Le compravendite residenziali, la fetta più consistente del fatturato immobiliare, sono in crescita nella maggior parte dei Paesi. Il 2017 registra un aumento medio compreso tra il 3% del Regno Unito all'8% della Spagna. Bene l'Italia, che nel 2016 ha segnato l'incremento più elevato dopo un lungo periodo di stagnazione del 14 per cento. “Ma il nostro è ancora un mercato contenuto, abbiamo la meta delle transazioni della Francia a parità di abitanti” dice Breglia. Osservando l'andamento dei volumi delle transazioni dei cinque grandi Paesi europei si nota che i volumi sono tornati vicini a quelli del 2000, cioè prima del boom. Sembra che tutto sia pronto per l'inizio di un nuovo ciclo positivo del mercato immobiliare. (Paola Dezza, Il Sole 24 ORE – Estratto da “Il Sole24Ore.com - Casa24”, 6 settembre 2017) Compravendite: +1,8% nel primo trimestre, +6,5% su anno

Nel primo trimestre le convenzioni notarili di compravendite per unità immobiliari (169.527) crescono dell'1,8% su base congiunturale (+1,6% il settore dell'abitativo e +4,5% il comparto economico). In termini tendenziali le convenzioni notarili di compravendite per unità immobiliari aumentano del 6,5% (settore abitativo +6,5% e comparto economico +5,5%) in un contesto di rallentamento della crescita. Lo comunica l'Istat. Gli incrementi congiunturali più significativi interessano il nord-est sia per il complesso delle compravendite di immobili (+3,1%) che per il comparto abitativo (+3%), il nord-ovest e il sud per l'economico (+5,2% entrambe). Una lieve flessione si evidenzia, invece, al Centro sia per il complesso delle transazioni (-0,1%) che per il settore abitativo (-0,2%). L'aumento su base annua interessa tutte le ripartizioni geografiche, con incrementi più significativi nel nord-est e nel nord-ovest per il settore dell'abitativo (rispettivamente +8,8% e +8,2%) e nelle Isole e nel nord-est per quello economico (+9,5% e +8,1%). La crescita tendenziale interessa sia le città metropolitane sia i piccoli centri: per l'abitativo rispettivamente +7% e +6,1%, per il comparto economico +4,6% e +6,2%. Il 93,8% delle convenzioni stipulate riguarda trasferimenti di proprietà di immobili a uso abitativo e accessori (159.024), il 5,6% quelli a uso economico (9.534) e lo 0,6% quelli a uso speciale e multiproprietà (969). (Il Sole 24 ORE – Estratto da “Tecnici24”, 5 settembre 2017)

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Dove l’immobiliare corre di più

Nella top ten dei mercati immobiliari che nel primo trimestre 2017 registrano un’importante crescita annuale dei prezzi delle abitazioni c’è molta Europa. Sei Paesi su dieci fanno parte del Vecchio Continente, con Islanda (+16,01%) e Irlanda (+8,91%) che entrano di diritto nelle prime cinque posizioni della classifica. È quanto emerge dalle ultime rilevazioni di Global Property Guide (Gpg), osservatorio dedicato agli investitori del real estate, che compara i dati relativi ai mercati immobiliari pubblicati da 45 Paesi, definendo l’andamento complessivo del settore nel primo trimestre dell’anno. Sono 27 quelli che vedono aumentare i prezzi delle case. La top ten degli aumenti A guidare la classifica dei mercati più forti c’è Hong Kong che registra, anno su anno, un aumento dei prezzi delle abitazioni del 17,27 per cento. Alle sue spalle l’Islanda, che vede aumentare la richiesta di alloggi a fronte di un’offerta molto limitata, soprattutto nella capitale Reykjavik. Crescita a due cifre anche per Cina (+13,16%, il dato si riferisce però al solo mercato delle case di seconda mano di Shanghai) e Canada (+11,70 per cento). Chiude la top five l’Irlanda, seguita nelle successive tre posizioni da Montenegro (+8,68%), Romania (+7,61%) e Norvegia (+7,38 per cento). «I Paesi dell’Europa dell’Est — commenta Matthew Montagu-Pollock, ceo Global Property Guide — appaiono molto interessanti e in rapida crescita. Anche Dublino, nonostante il forte aumento dei prezzi degli immobili, si conferma mercato di rilievo. Rimanendo in Europa, Lisbona sembra prepararsi a un boom grazie soprattutto al suo fascino, aspetto da non sottovalutare». Le ultime due posizioni della classifica sono occupate da Nuova Zelanda (+7,26, incremento sostenuto dalla ricostruzione post-terremoto, in contrasto con la riduzione della domanda di abitazioni che ad aprile ha fatto registrare un -31% anno su anno nel numero delle compravendite) e Olanda (+7,11%, nonostante la modesta crescita economica). Il mercato italiano Nella classifica di Gpg non c’è l’Italia, per la mancanza di dati aggiornati al momento dell’elaborazione dello studio. Montagu-Pollock, però, si sofferma sui fattori di forza e debolezza del mercato italiano: «Tutti vorrebbero viverci. È un importante fattore competitivo duraturo, destinato anzi a rafforzarsi. Va bene per chi vuol comprare una proprietà in un centro cittadino e gestire un’attività su “modello Airbnb” ma è un fattore meno attrattivo per un investitore straniero. I canoni di affitto non sono alti e le prospettive di un aumento nel lungo termine sono basse, a meno che non si registri una crescita economica più rapida». Chi perde terreno Vaste aree del mondo vanno in controtendenza. Medio Oriente, America Latina, buon parte dell’Asia, infatti, fanno registrare importanti flessioni dei prezzi delle case. È l’Egitto a guadagnare la maglia nera, con una perdita del 16,68% del valore degli immobili tra il primo trimestre 2016 e lo stesso periodo del 2017. Seconda posizione per il Qatar (-10,63 per cento). La Russia, oltre a conquistare il terzo posto della classifica dei mercati più deboli, con il suo -8,33% (il calo più basso dalla fine del 2014), si conferma la piazza europea in maggiore difficoltà. Non va meglio in Macedonia (-7,92%) e Puerto Rico (-6,96 per cento). Tra i mercati del Vecchio Continente caratterizzati dal segno meno c’è anche l’Ucraina (-5,05%, dato relativo alla sola capitale), che sconta ancora i postumi del conflitto con la Russia, concluso ufficialmente nel 2015. Più contenute le flessioni registrate da Grecia (-3,13%), Svizzera (-1,69%) e Finlandia (-0,6 per cento) (Daniela Russo, Il Sole 24 ORE – Estratto da “Plus24”, 26 agosto 2017)

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Il 6% dei mutui è erogato agli stranieri

La fase espansiva del mercato del credito immobiliare che sta caratterizzando gli ultimi anni, dopo un lungo periodo di rubinetti serrati da parte della banche, sta agevolando anche il ritorno dei finanziamenti concessi agli stranieri, che riescono quindi a riaffacciarsi sul mercato della casa di proprietà. Secondo un’analisi dei siti Facile.it e Mutui.it su un campione di oltre 3.500 pratiche concluse nel primo semestre di quest’anno, infatti, il 6% dei mutui erogati in Italia è destinato a cittadini non italiani. L’importo medio erogato ai mutuatari stranieri è di poco superiore a 109.800 euro e serve a coprire il 68% del valore dell’immobile. La classifica dei mutuatari stranieri che hanno comprato casa nel nostro Paese è guidata dai cittadini della Romania, cui fa capo il 15,1% dei mutui erogati a richiedenti con nazionalità non italiana; seguono i cittadini di Albania (11,9%), Svizzera (11,4%), Moldavia (6,8%) e Germania (5,9%). Gli extracomunitari rappresentano il 25,6% delle pratiche andate a buon fine. «Da notare l’assenza nelle prime posizioni di due nazionalità che invece rappresentano comunità ben consolidate sul territorio italiano: quella cinese e quella marocchina – si legge in una nota – evidentemente meno “inclini” a richiedere l’aiuto della banca o ad acquistare immobili». Le cifre erogate e la percentuale del valore dell’immobile che si vuole finanziare col mutuo «variano notevolmente a seconda della nazionalità del richiedente. I mutuatari di origine rumena, ad esempio, hanno ottenuto in media 105.400 euro, pari al 72% del valore della casa, mentre gli albanesi poco più di 87.200 euro (76% del valore della casa); importi decisamente maggiori per gli inglesi (oltre 193.800 euro, il 68% del valore della casa) e francesi (175.600 euro, il 65% del valore della casa)». (Il Sole 24 ORE – Estratto da “Il Sole24Ore.com - Casa24”, 23 agosto 2017)

Il 15% degli atti immobiliari sui fabbricati riguarda le donazioni

Le donazioni rappresentano una fetta significativa (ma spesso trascurata) degli scambi immobiliari. A fare luce sul fenomeno sono i dati statistici diffusi per la prima volta dal Notariato: alle oltre 630mila compravendite di fabbricati registrate nel 2016 – comprese pertinenze e immobili strumentali e di cui il 3% trasferiti in nuda proprietà e l’1,4% per il solo usufrutto – vanno infatti aggiunte 72.403 donazioni, 24.501 donazioni di nuda proprietà e 10.621 donazioni di usufrutto (sempre di soli fabbricati, quindi esclusi i terreni, le servitù, i diritti di superficie eccetera). Per un totale di 107.525 atti: vale a dire che ogni 100 transazioni 15 sono donazioni. «Si tratta di una quota pressoché costante nel tempo – commenta Giampaolo Marcoz, consigliere nazionale del Notariato – soggetta a picchi ogni volta che ci sono ipotesi o semplici rumors su eventuali modifiche alla tassazione su donazioni o successioni». Le due fattispecie sono infatti soggette alla stessa imposizione fiscale, che in questo momento si può considerare abbastanza vantaggiosa, dato che è più bassa di quella applicata alle compravendite: limitandosi alla cerchia dei parenti più prossimi, entro la franchigia di un milione di euro per ciascun beneficiario si applicano solo le imposte di trascrizione e catastale pari rispettivamente al 2% e all’1% del valore (o 400 euro in tutto in misura fissa se si opta per i benefici prima casa). Il timore che spinge a donare è in sostanza che in futuro possa diventare più costoso il passaggio dei beni in termini di tasse di successione. Inoltre, la scelta è fatta anche per pagare meno Imu: “tipicamente ci si libera infatti di una seconda casa per intestarla come abitazione

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principale (su cui non grava l’imposta)” a un figlio o a un nipote. In genere la donazione della casa è quindi un anticipo di eredità: le analisi comparative del Notariato confermano del resto come «dove si dona meno si utilizza maggiormente lo strumento del testamento per le pianificazioni familiari e viceversa». Bisogna però anche tener conto che la divisione che può sembrare equa in un certo momento della vita, può non esserlo al momento della successione per i più vari motivi: “dal cambiamento della composizione e della ricchezza familiare alla variazione del valore dei beni. E mentre un testamento si può sempre cambiare, è più difficile “correggere” strategie basate sulla donazione. «La preferenza accordata alla donazione –“aggiunge Marcoz – dipende però anche da una motivazione psicologica: i genitori hanno il desiderio di vedere gli eredi “sistemati” quando sono ancora in vita. Gli stessi obiettivi di assegnazione di “che cosa a chi” si potrebbero raggiungere con un testamento, ma è uno strumento poco utilizzato in Italia». Se si guarda alla distribuzione per classe anagrafica (vedi grafico a lato) si trova conferma del fatto che l’età del donante di fabbricati è sempre elevata (il 78% ha più di 56 anni). L’età di chi riceve il bene, invece (donatario) è meno sbilanciata verso il basso di quanto ci si possa attendere (il 55,5% ha meno di 45 anni). «Questo con ogni probabilità è dovuto al fatto che le nuove generazioni si stabilizzano più tardi a livello familiare e professionale e quindi c’è un differimento nel tempo del passaggio, che avviene solo nel momento in cui c’è una ragionevole sicurezza sulla stabilità della situazione familiare e lavorativa del donatario. Il consiglio che in genere dà il notaio – continua Marcoz – a chi è intenzionato a un atto di liberalità verso i parenti più affini, è di valutare se il bene è destinato a rimanere a lungo nella disponibilità del patrimonio del beneficiario, per evitare i problemi che potrebbero derivare alla futura circolazione dell’immobile». Occorre tenere conto cioè che una casa donata è difficilmente rivendibile. Questo perché – in caso di morte del donatore e dell’apertura di una successione – gli eredi potrebbero agire in giudizio per vedersi riconosciuta la parte di eredità cosiddetta legittima – la quota di cui non si può disporre liberamente nel definire la destinazione dei propri beni – erosa dalla donazione. La massa ereditaria oggetto di successione, infatti, non è solo quella “censita” al momento del decesso, ma comprende anche le donazioni fatte in vita (a valori aggiornati). Quindi acquistare una casa che è stata in precedenza donata espone al rischio di rivendicazione da parte degli eredi dell’originario proprietario, fatto che ovviamente ne limita la commerciabilità. «In realtà – chiosa il notaio – in giurisprudenza non si trovano casi concreti al riguardo. Anche perché prima di poter pretendere di aggredire la casa donata, l’erede che ritiene di essere stato svantaggiato dalla donazione in sede successoria, deve prima rivalersi sul donatario che ha poi rivenduto il bene e solo in caso di insufficiente capienza di quest’ultimo, arrivare a chiedere al giudice la restituzione del bene o di parte del suo valore». Sono però soprattutto le banche a non voler correre rischi, seppur remoti, e quindi a bloccare i mutui legati agli acquisti di immobili donati: il diritto dell’erede ha infatti precedenza rispetto a quello stabilito dell’ipoteca. Se l’acquisto si fa “in contanti” non è però sempre sconsigliabile: l’importante è verificare bene la situazione patrimoniale del venditore e, nel caso, del donante originario. Tenendo presente che la possibilità di agire in giudizio si estingue in 20 anni per la donazione e in 10 per la successione. Mettendosi invece nei panni di chi il bene lo ha ricevuto in donazione, è bene ricordare che per “liberarlo” da vincoli è sufficiente che gli altri eredi dichiarino di rinunciare all’azione di riduzione. Per evitare la limitata circolazione del bene, in passato si ricorreva anche a finte compravendite. Oltre al falso che si metterebbe in atto, compromettendo anche la trasparenza della successione, oggi questa operazione non viene più praticata a causa delle norme antiriciclaggio più severe sulla trasparenza dei passaggi di denaro.

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(Emiliano Sgambato, Il Sole 24 ORE – Estratto da “Casa24Plus”, 20 luglio 2017)

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Immobili e condominio Contabilizzatori, ora si parte Termine scaduto il 1° luglio: per essere in regola non basta la delibera. Dal 1° luglio 2017 è definitivamente in vigore l’obbligo di dotare gli impianti di riscaldamento centralizzati dei sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore. Non si ritiene condivisibile l’interpretazione secondo la quale sia sufficiente la sola delibera di dare incarico all’impresa. Per quanto giuridicamente non vincolante, sul punto si è pronunciato anche il Mise nella Faq del mese di giugno 2017 al punto n. 7. Chi non si è adeguato per tempo, pertanto, potrà essere assoggettato alla sanzione amministrativa da 500 a 2500 euro per ciascuna unità immobiliare. Sono esentati dall’esecuzione di qualsiasi intervento, solo coloro che hanno ottenuto una relazione così detta “esimente” ai sensi dell’articolo 9 comma 5 lettera c) del Dlgs 102/2014. Questa deve dimostrare che l’installazione di tali sistemi risulti essere non efficiente in termini di costi con riferimento esclusivamente alla metodologia indicata nella norma Uni En 15459. In questo caso la relazione deve essere firmata da un professionista abilitato. Non è richiesta l’asseverazione. Tale ultimo requisito è invece obbligatorio per la relazione necessaria ai fini della non applicazione della norma tecnica Uni 10200 per la ripartizione della spesa del riscaldamento. L’obbligo di adozione dei sistemi di contabilizzazione e di termoregolazione riguarda i condominii e gli edifici polifunzionali. Questi ultimi dovrebbero essere intesi quali edifici appartenenti ad un solo proprietario le cui unità immobiliari sono occupate da soggetti diversi tra i quali deve essere ripartita la spesa del riscaldamento. Sul punto non vi è alcuna eccezione nemmeno nelle leggi regionali. Ne consegue che anche gli edifici di edilizia popolare devono essere adeguati. Si ricordi che ai sensi dell’articolo 26 comma 5 della legge 10/1991, gli interventi volti all’adozione dei sistemi di termoregolazione sono “innovazioni”. Ne consegue che di questi deve esserne data notizia presso il catasto degli impianti termici che le Regioni e le Province autonome, devono avere istituito ai sensi del Dpr 74/2013 articolo 10 comma 4. È quindi sufficiente che la Regione interroghi il sistema informatico per capire quali impianti centralizzati non siano stati adeguati alla normativa. Infatti, ai sensi dell’articolo 16 comma 14 Dlgs 102/2014, le sanzioni sono irrogate dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano o enti da esse delegati. Ciascuna Regione ha quindi regolamentato le modalità di inserimento di tali informazioni. In caso di mancata effettuazione degli interventi stante la relazione “esimente”, occorre verificare cosa prevede la piattaforma informatica. In Piemonte, ad esempio, non è previsto che la relazione venga inviata in forma ufficiale. Tuttavia, all’atto del caricamento del Rapporto di controllo, viene richiesto se l’impianto è di tipologia centralizzata e in questo caso se esiste o meno la termoregolazione/ contabilizzazione e, in caso negativo, viene data la possibilità di caricare una scansione della relazione. Altra cosa è, invece, la sanzione da 500 a 2.500 euro per la ripartizione della spesa del riscaldamento non effettuata in base alla norma Uni 10200 o al criterio indicato nel Dlgs 102/2014 articolo 9 comma 5 lettera d). In tal caso la sanzione è riferita al condominio e non per ogni proprietario. L’amministratore deve conservare la relazione sottoscritta dal professionista o, in alternativa, la relazione asseverata. (Il Sole 24ORE – Estratto da “Il Sole24Ore.com – Norme e Tributi”, 12 settembre 2017)

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Immobili e fisco Tassa Airbnb, confermata al 16 ottobre la ritenuta del 21% Si è tenuto ieri (N.d.R. 6 settembre) il primo tavolo di concertazione tra Mef, agenzia delle Entrate, portali e agenti immobiliari sull’applicazione della «tassa Airbnb» prevista dal Dl 50/2017, cioè l’effettuazione di una ritenuta del 21% sugli affitti brevi (entro i 30 giorni) effettuata dagli operatori che gestiscono contratti e pagamenti del canone. L’obbligo inizialmente previsto vedeva la prima scadenza al 17 luglio (canoni incassati in giugno) ma le difficoltà nell’adeguarsi rapidamente da parte di agenti e portali aveva portato a una riflessione: in pratica, aveva riferito il presidente degli agenti immobiliari Fiaip Paolo Righi, l’Agenzia conveniva sulla necessità di applicare i tempi dello Statuto del contribuenti, che avrebbero evitato accertamenti e sanzioni sul mancato adempimento sino al 12 settembre (tre mesi dopo l’entrata in vigore del Dl 50/2017), quindi il primo adempimento, ai fini di versamento della ritenuta, scatterà il 16 ottobre per i canoni gestiti in settembre. «Il tavolo ha confermato la volontà di Agenzia e Mef di mantenere quanto da me detto in agosto - spiega Righi -: applicazione dello Statuto con partenza dell’obbligo di ritenuta dal 12 settembre. Sul tema ho chiesto al viceministro Luigi Casero una copertura politica in sede di legge di Bilancio per coprire il buco normativo». Un punto essenziale dell’incontro è stata la conferma dell’avvio immediato della formazione per gli agenti immobiliari, in modo da metterli in grado di affrontare senza patemi la scadenza del 16 ottobre. «Le guide per noi agenti partiranno entro il 20 di questo mese - prosegue Righi - ma abbiamo anche chiesto di evitare del tutto l’adempimento. Però non sembra sia possibile». «Diciamo - spiega Casero - che è l’inizio di un tavolo per affrontare tutti i temi dal punto di vista tecnico e risolvere le difficoltà, anche con leggi e circolari. Forse basta l’applicazione dello Statuto del contribuente ma tutto questo, appunto, va valutato. Riteniamo che si debba intervenire con una digitalizzazione complessiva del sistema e questo dell’immobiliare è un elemento importante. Cedolare e sostituto d’imposta rendono tutto più semplice, quindi si tratta di scelte irrinunciabili e cerchiamo il modo migliore per definire i comportamenti». Righi dà una valutazione decisamente positiva di questo primo incontro (c’era anche il neo direttore dell’Agenzia, Ernesto Maria Ruffini). Il primo risultato concreto, spiega Righi, è l’organizzazione di corsi in aula presso l’Agenzia e di programmi di e-learning. «La prossima settimane elaboreremo le criticità come la doppia imposizione e la questione lordo/netto rispetto ai servizi aggiuntivi come la fornitura di biancheria» prosegue Righi. «Ma in ogni caso l’evasione verrà fermata dalle comunicazioni che gli agenti e i portali faranno a inizio 2018 sui contratti 2017, quindi non c’è da temere perdita di gettito». Rimane il problema della tassa di soggiorno, evidenziato anche da Casero: «I Comuni hanno infinite tipologie diverse anche nell’applicazione. Il portale come per Imu e Tasi si può fare ma non penso che risolva il problema». (Saverio Fossati, Il Sole 24ORE – Estratto da “Il Sole24Ore.com – Norme e Tributi”, 7 settembre 2017) Ecobonus condominio: via libera per la cessione del credito alle banche

Il provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate, prot.165110 del 28.8.2017, sostituisce quello dello scorso 8.6.2017, a seguito delle modifiche introdotte dall'art.4-bis, Dl 50/2017, convertito nella legge 96/2017, la cd. manovra correttiva.

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La principale novità introdotta dal provvedimento riguarda la possibilità per i contribuenti che rientrano nella "no tax area", e dunque sono esclusi dall'imposizione IRPEF per espressa previsione o perché l'imposta lorda viene assorbita dalle detrazioni previste dal TUIR, di cedere il credito relativo all'Ecobonus condominio a banche e intermediari finanziari, oltre che a fornitori ed imprese edili (quest'ultima possibilità è concessa a tutti i contribuenti).

Il provvedimento specifica inoltre che il credito relativo all'Ecobonus condominio non può essere in nessun caso ceduto alle PPAA. Il credito d'imposta cedibile, che a questo punto ricomprende anche i contribuenti che ricadono nella "no tax area", è pari alla detrazione delle spese, all'imposta lorda, sostenute nel periodo tra l'1.1.2017 e il 31.12.2021. Detraibile: il 70%, per gli interventi che interessano l'involucro dell'edificio; il 75%, per gli interventi finalizzati a migliorare la prestazione energetica invernale. Il limite massimo di spesa a cui applicare la detrazione è pari a 40mila euro moltiplicato il numero delle unità immobiliari che compongono l'edificio e deve essere ripartita in dieci quote annuali di pari importo. Se si intende procedere con la cessione, occorre comunicare all'amministratore di condominio l'avvenuta cessione, l'accettazione del cessionario e la denominazione e il codice fiscale di quest'ultimo, entro il 31 dicembre del periodo di imposta di riferimento (Il Sole 24ORE – Estratto da “Tecnici24”, 7 settembre 2017)

Immobili locazione e vendita La ripartizione delle spese tra venditore e acquirente La questione E’ inevitabile, quasi fisiologico, che nell'edificio in condominio – composto sì da parti comuni, ma anche da un insieme di unità immobiliari esclusive – si avvicendino le persone dei titolari di dette proprietà private. Sorge quindi il problema di ripartire tra venditore e acquirente le spese per oneri di gestione. I principi La questione della ripartizione delle spese tra venditore e acquirente di un'unità immobiliare compresa in un condominio ha dato luogo non solo a una serie di articolate problematiche, ma anche a una disputa interpretativa comprovata dalle numerose sentenze sull'argomento. Per di più tale specifica fattispecie coinvolge alcuni principi teorici piuttosto complessi, che attengono precisamente alla qualificazione e all'insorgenza dell'obbligo di pagamento degli oneri condominiali. Andando per sintetici punti, va ricordato che: a. l'obbligo di sostenere i costi di manutenzione e di gestione dell'edificio grava direttamente sui titolari del diritto di proprietà sulle porzioni di piano facenti parte dell'edificio (e anche, come noto, sui comproprietari pro indiviso, sull'usufruttuario e sul nudo proprietario); b. tale obbligo (di pagamento) viene comunemente qualificato come propter rem; c. una siffatta qualificazione comporta la conseguenza che il dovere sorge in capo ai suddetti titolari non in forza di un contratto e/o di una dichiarazione di volontà, ma per il semplice fatto di essere appunto titolari; d. nel caso del subentro di un nuovo titolare (di solito, in forza di compravendita) sussiste certamente un preciso momento temporale dal quale la titolarità passa da un soggetto all'altro

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e che può essere tenuto in considerazione per effettuare (in favore del venditore o in favore dell'acquirente) l'attribuzione di un determinato costo; e. l'art. 63 disp. att. cod. civ. tuttavia assegna all'acquirente (sempre di un'unità immobiliare compresa nell'edificio) una responsabilità – che si potrebbe definire “retroattiva” − su un periodo biennale comprendente l'anno in corso (nel quale viene trasferita la titolarità) e quello precedente; f. per interpretazione consolidata, con l'espressione “anno in corso e anno precedente” non ci si riferisce all'anno solare, ma a quello “di esercizio” (che può scadere anche in una data diversa dal 31 dicembre); g. la riforma del condominio ha integrato detto art. 63 disp. att. cod. civ. prevedendo che, al verificarsi di determinate condizioni, l'acquirente rimane responsabile del pagamento delle spese anche oltre il momento del trasferimento. Le opinioni Per accertare se un particolare onere condominiale spetta al venditore o all'acquirente (fatto salvo il periodo biennale retroattivo ex art. 63 disp. att. cod. civ.), occorre individuare il momento di insorgenza dell'obbligo di pagamento, questione che ha dato luogo a 3 diversi indirizzi giurisprudenziali: a. secondo una prima interpretazione, l'obbligo di pagamento sorge con la deliberazione assembleare che approva il relativo costo, in quanto, attraverso tale atto, viene accertata in maniera obiettiva (e con effetti costitutivi) l’esigenza di porre in essere l'attività che è fonte della spesa; b. al precedente orientamento si contrappone la diversa opinione per cui il momento rilevante per l’insorgenza dell’obbligo è quello in cui viene concretamente effettuata l’attività (o realizzata l’opera), circostanza dalla quale si origina il costo; la delibera che approva la spesa ha una portata autorizzativa (con valore meramente dichiarativo); c. più recentemente è stata prospettata una soluzione meglio articolata, secondo cui è rilevante la diversa origine della spesa, e occorre distinguere i costi necessari alla manutenzione ordinaria da quelli attinenti alla straordinaria e/o a innovazioni; per i primi, l'insorgenza dell'obbligazione corrisponde con il compimento dell'attività gestionale, nel presupposto che l'erogazione delle spese "prevedibili" non richiede la preventiva approvazione dell'assemblea e rientra nei poteri dell'amministratore; per quanto riguarda quelli straordinari, l'obbligo in capo ai condomini è conseguenza diretta della correlata (e costitutiva) delibera assembleare. La soluzione preferibile È evidente che l'interpretazione più recente che attribuisce al tipo di spesa la funzione di criterio per distribuire l'obbligo di pagamento tra venditore e acquirente è quella che, allo stato, riceve la preferenza degli interpreti, fosse solo per la normale prevalenza che si attribuisce al più recente orientamento della Suprema Corte. In ogni caso, sul punto, vale la pena di precisare che, a ben vedere, la questione dell’insorgenza dell’obbligo non ha rilevanza soltanto interna (cioè tra venditore e acquirente, in relazione alla distribuzione tra loro degli oneri ante/post compravendita), ma anche riguardo alla riscossione dei crediti del condominio; infatti, in relazione all'individuazione di tale aspetto temporale, l’amministratore potrà: a. rivolgersi solo all’acquirente per gli oneri sorti successivamente alla cessione immobiliare (fatta salva l’eventuale nuova corresponsabilità solidale del venditore ex comma 4 dell’art. 63 disp. att. cod. civ.);

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b. rivolgersi al venditore e all’acquirente per quelli sorti nell’ultimo biennio (calcolato rispetto al rogito); c. rivolgersi solo al venditore per quelli anteriori a tale biennio. (A cura di Lugi Salciarini, Il Sole 24ORE – Estratto da “Consulente Immobiliare”, Edizione del 15 settembre 2017, n. 1028 pag. 1479-148917 luglio 2017)

Canoni di locazione - Indice Istat di giugno 2017 L'Istat comunica gli indici dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati relativi al mese di giugno 2017, pubblicati nella Gazzetta Ufficiale ai sensi dell'art. 81, L. 27.7.1978, n. 392 e dell'art. 54, L. 27.12.1997, n. 449. La variazione percentuale dell'indice rispetto al corrispondente periodo dell'anno precedente (giugno 2016 - giugno 2017) è pari all'1,1% che, ridotto al 75% ai fini dell'adeguamento annuale dei canoni di locazione di immobili (ad uso abitativo e non abitativo), corrisponde allo 0,825%. (Il Sole 24ORE – Estratto da “Tecnici24”, 4 settembre 2017)

Professione Rogiti garantiti dal conto ad hoc del notaio

Chi acquista casa ha ora la possibilità di fermare il pagamento fino alla trascrizione nei Registri immobiliari. Al riparo da ipoteche “tardive” e vendite doppie. Contro le brutte sorprese, la compravendita immobiliare può diventare più sicura con il conto di deposito. Questo l’obiettivo delle nuove norme (commi 63 e seguenti della legge sulla concorrenza, la 124 del 2017) che consentono all’acquirente di chiedere al notaio di trattenere il prezzo fino a che il contratto non è trascritto nei Registri immobiliari. I rischi delle compravendite Il sistema dei Registri immobiliari, nei quali devono essere pubblicati i contratti di compravendita, è impostato sul principio della «priorità temporale». Vale a dire che, utilizzando come esempio la situazione più estrema che può verificarsi, se il venditore Tizio vende lo stesso immobile prima a Caio e poi a Sempronio, incassando il prezzo da entrambi e poi volatilizzandosi con il denaro, tra l’acquisto di Caio e l’acquisto di Sempronio prevale quello che per primo (tramite il notaio che ha rogato la compravendita) viene trascritto nei Registri immobiliari. Un’altra ipotesi, più plausibile, è quella del venditore Tizio che, trovandosi in una situazione debitoria, viene raggiunto da un’ipoteca giudiziale (sequestro, pignoramento, domanda giudiziale eccetera) nel tempo che passa tra l’ultima ispezione che il notaio rogante ha compiuto nei Registri immobiliari per verificare la “libertà” dell’immobile dai «gravami pregiudizievoli» – verifica che di solito avviene nell’imminenza della stipula del contratto di compravendita – e il momento in cui il notaio stesso trascrive il contratto nei Registri (il che avviene, di solito, nel giro di qualche giorno dopo la firma del rogito). Pur con tutta la diligenza che il notaio può mettere nello svolgimento delle sue attività (e pur considerando che ogni notaio è comunque obbligatoriamente assicurato contro queste spiacevoli evenienze, per fortuna non frequenti, ma sempre possibili), il compratore può

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trovarsi nella spiacevole situazione di aver pagato il prezzo e di non aver comprato nulla oppure di aver comprato un bene gravato da vincoli a favore di altri soggetti. La precauzione più efficace è quella di stipulare il contratto preliminare (il «compromesso») in una forma che ne permetta la trascrizione nei Registri immobiliari: non solo questa trascrizione, infatti, fa da scudo a qualsiasi formalità pregiudizievole che possa cadere sul venditore nel periodo tra il compromesso e il rogito, ma consente anche al compratore, se per qualsiasi motivo non si procede alla stipula del rogito, di non perdere il denaro impiegato per pagare acconti o caparre. Infatti, nel caso di un’eventuale esecuzione a carico dell’immobile, il credito del promissario acquirente è un «credito privilegiato»: cioè dev’essere soddisfatto, nel ripartire il ricavato dall’espropriazione a carico dell’immobile, con priorità rispetto agli altri debiti. Dopo la legge concorrenza Se invece non c’è stata la trascrizione del contratto preliminare, si può ora ricorrere, grazie alla modifica introdotta dalla legge 124/2017, al deposito del prezzo nelle mani del notaio incaricato della stipula del contratto di compravendita: è una facoltà che non deve essere concordata con il venditore, ma che il compratore può esercitare unilateralmente. Il venditore non vi si può opporre e il notaio deve soddisfare la richiesta del cliente. Se dunque il prezzo viene versato al notaio, questi stipula il contratto di compravendita, lo trascrive nei Registri Immobiliari e, solo dopo aver accertato che tutta la procedura è andata a buon fine, versa il denaro al venditore. È un iter che non dura più di 2-5 giorni lavorativi e dal quale, quindi, il venditore non ha particolare nocumento. Inoltre, se sull’immobile gravano vincoli a favore di terzi (si pensi alla compravendita di un appartamento sul quale sia iscritta un’ipoteca a garanzia di un mutuo che il venditore ha in corso di ammortamento), il notaio provvede al saldo di quanto dovuto a tutti coloro che sono titolari di un gravame sull’immobile e corrisponde infine al venditore la differenza tra quanto ricevuto in deposito e quanto si è reso occorrente per “ripulire” l’immobile da queste limitazioni. Il denaro depositato nelle mani del notaio è sottoposto a una rigida blindatura: -il notaio deve avere un conto corrente dedicato sul quale far confluire il denaro ricevuto dai clienti in deposito; -il notaio non può lucrare interessi prodotti e non può utilizzare quel denaro per altro fine se non per pagare il venditore (al netto del denaro utilizzato per la liberazione dell’immobile da eventuali gravami); -le giacenze di quel conto corrente sono impignorabili dai creditori personali del notaio, non fanno parte della successione del notaio, non entrano nel regime di comunione dei beni del notaio, se egli si trova in questo regime.

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(Angelo Busani, Il Sole 24ORE – Estratto da “Norme e Tributi”, 11 settembre 2017)

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FIAIP News24 – Settembre 2017 21

«Novità che impatta sui termini contrattuali»

Le trattative di compravendita immobiliare in corso, nelle quali le parti hanno già definito tempistiche certe per il rilascio degli assegni di anticipo e saldo, potrebbero scontrarsi con il deposito del prezzo dal notaio. L’opzione potrebbe mettere in difficoltà soprattutto i venditori, che non possono essere più certi del momento dell’incasso. La sostituzione Gli agenti immobiliari ancora non segnalano problematiche emergenti, dal momento che la legge concorrenza (la n. 124/2017) è in vigore solo dal 29 agosto, ma si aspettano disagi in caso di applicazione del deposito durante una sostituzione, cioè quando il venditore intende vendere la propria abitazione per comprarne subito un’altra. La legge, infatti, dice che una delle parti può invocare l’opzione del deposito in qualsiasi momento. Questo vuol dire, ad esempio, che chi si impegna, fissando il rogito per l’acquisto della nuova unità a ridosso della vendita, potrebbe rischiare di trovarsi senza la liquidità necessaria a chiudere l’affare, vincolata all’ultimo momento su richiesta della parte acquirente. «Per questo motivo - afferma Paolo Righi, presidente della Fiaip (Federazione italiana agenti immobiliari professionali) - abbiamo presentato le nostre osservazioni al ministero delle Finanze, chiedendo che la norma venga modificata nella prossima legge di Bilancio. La richiesta di deposito deve avvenire entro certe tempistiche. Se durante la trattativa le parti si accordano per escluderlo, oggi possono comunque richiederlo fino all’ultimo momento, modificando di fatto i termini contrattuali». L’utilizzo coercitivo Inoltre, tra privati, potrebbe accadere che il deposito venga richiesto dall’acquirente per altre motivazioni, indipendentemente dalla volontà di tutelarsi: «Se chi compra si accorge, ad esempio, che un tramezzo va spostato oppure va ultimata la ristrutturazione del balcone, può vincolare i soldi finché il venditore non adempie alla richiesta, indipendentemente dagli accordi verbali presi in precedenza. Per questo motivo - conclude Righi - d’ora in poi sarà sempre più necessario trascrivere tutto». Il rischio di contenzioso Cosa accade se, tra la data del rogito e il momento della trascrizione che precede lo svincolo del deposito del prezzo, il venditore resta nell’abitazione e procura dei danni? «La legge non definisce su chi ricadono le responsabilità - afferma Vincenzo Albanese, presidente di Fimaa Milano-Monza e Brianza - e tanto meno quando prevedere la consegna delle chiavi. Anche queste ultime potrebbero essere depositate presso il notaio in attesa della trascrizione, ma va comunque definito tra le parti». I tempi della trascrizione Il saldo del prezzo di compravendita, come ricorda la Fiaip, può restare vincolato nel deposito presso il notaio per un massimo di 30 giorni, termine ultimo per la trascrizione dell’atto, e in media la trascrizione avviene in 13 giorni. «Le tempistiche dipendono dal notaio - aggiunge Albanese - che viene scelto dall’acquirente. Poi, bisogna prevedere i tempi di smobilizzo del denaro, di trasformazione degli assegni circolari dal nome del notaio a quello del beneficiario. E in questa partita potrebbero avere un ruolo le banche, che in passato hanno scelto di liberare le somme al momento del rogito, ma forse ora potrebbero essere interessate a sostenere la nuova garanzia per tutelarsi da eventuali rischi». (Michela Finizio, Il Sole 24ORE – Estratto da “Norme e Tributi”, 11 settembre 2017)

Deposito del prezzo anche per le trattative in corso

La nuova normativa sul deposito del prezzo nelle mani del notaio incaricato della stipula del contratto di compravendita (articolo 1, comma 63 e seguenti, legge 124/2017) si applica dal

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FIAIP News24 – Settembre 2017 22

29 agosto scorso e, quindi, senz’altro alle negoziazioni immobiliari che si sono attivate da tale data. Si pone un tema particolare per le contrattazioni già in corso perché, ad esempio, può benissimo darsi il caso di un contratto preliminare stipulato prima del 29 agosto che obblighi alla stipula di un definitivo dopo l’entrata in vigore della legge; oppure il caso che, prima del 29 agosto, sia stata accettata una proposta d’acquisto o di vendita. In queste ipotesi dunque ci si chiede: può l’acquirente domandare, in vista del rogito, che il notaio trattenga il prezzo fino ad avvenuta trascrizione del contratto definitivo? Può il venditore affermare che, essendosi svolta la contrattazione preliminare anteriormente al 29 agosto, la norma sul deposito prezzo non si rende applicabile a un contratto definitivo che, seppur programmato dopo il 29 agosto, consegua a quella contrattazione preliminare ? È bene, al riguardo, ricordare che, per effettuare il deposito del prezzo nelle mani del notaio, non occorre necessariamente un accordo in tal senso tra i contraenti, ma che al deposito si deve necessariamente ricorrere (essendo il notaio obbligato a riceverlo) quando lo domandi (dice la legge) «almeno una delle parti». Bisogna inoltre considerare, per contestualizzare bene la questione, che se l’acquirente formula una richiesta di “deposito-prezzo” al notaio, il venditore non ne ha poi chissà quale nocumento: i notai sono infatti ormai organizzati per trascrivere in 2-3 giorni, quindi la fisica disponibilità monetaria nelle mani del venditore tarda solo di pochissime ore rispetto alla ricezione del denaro in occasione del rogito. Ancora, è opportuno tenere in considerazione che il deposito del prezzo al notaio non determina, per il venditore, alcun rischio di non ricevere i soldi una volta che sia effettuata la trascrizione del rogito: infatti, i soldi sul conto del notaio sono intoccabili da chiunque e destinabili dal notaio solo a pagare il venditore (o a liberare il bene compravenduto dai vincoli di cui esso sia gravato); e quindi, l’eventualità che il venditore possa non ricevere i soldi può dipendere solo da eventi pregiudizievoli di cui sia causa il venditore stesso (è, ad esempio, l’ipotesi che il venditore subisca un’ipoteca, un sequestro, un pignoramento o altri accadimenti del genere nell’imminenza del rogito). Nessun altro evento può impedire che il notaio non consegni i soldi che il venditore deve legittimamente ricevere; in particolare, non può succedere alcun evento, dipendente dall’acquirente, che impedisca la consegna del prezzo al venditore. Cercando dunque di rispondere alla domanda se la nuova normativa sul deposito del prezzo si applichi alle contrattazioni già “in corso”, la risposta appare inevitabilmente positiva. Infatti, se così si pensa, non si tratta di un’applicazione retroattiva della legge, poiché la non retroattività della legge significa che la legge non si applica ad eventi già accaduti prima che la legge abbia vigore; ma qui, in effetti, si tratta dell’applicazione della legge a un evento che accade quando la legge già vige. Se poi una nuova legge interagisce con un rapporto giuridico che dura nel tempo (si pensi a un contratto di locazione) e, in tale spazio temporale si verifica un mutamento di legislazione (senza che la nuova legge disponga norme transitorie per i rapporti in corso) è abbastanza ovvio ritenere che la nuova legge impatta non solo sui rapporti instaurati dal momento della sua entrata in vigore in avanti, ma anche sui rapporti in corso, seppur quando questi rapporti ebbero origine vigeva una differente regolamentazione. Un caso (in ambito notarile) abbastanza analogo si ebbe nel 2005 quando entrò in vigore la norma secondo cui la restituzione degli immobili donati non è possibile se, entro 20 anni dalla donazione, non sia proposta opposizione alla donazione stessa da parte dei legittimari del donante; ma anche allora ci si convinse che, per le donazioni anteriori al 2005, i 20 anni non decorressero dal 2005, bensì dalla data in cui la donazione venne stipulata. (Angelo Busani, Il Sole 24ORE – Estratto da “Norme e Tributi”, 6 settembre 2017)

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Il conto del notaio blinda l’acquisto della casa

Il venditore può essere pagato non alla firma, ma dopo la trascrizione della compravendita. Arriva il conto di deposito, altro passo chiave per la tutela di chi intende acquistare casa. Dopo l’introduzione (nel 1996) della trascrivibilità del contratto preliminare e l’obbligatorio rilascio della fideiussione per chi compra in corso di costruzione (nel 2005), ora la legge sulla concorrenza (legge n. 124 in vigore dal 29 agosto scorso) ha introdotto la facoltà di richiedere il deposito del prezzo al notaio rogante fino ad avvenuta trascrizione del contratto di compravendita. Per comprendere la svolta, occorre una premessa. Chi non trascrive il preliminare si vede esposto al rischio che, tra la data del rogito (o, meglio, la data dell’ultima ispezione dei registri immobiliari eseguita dal notaio rogante) e la data della trascrizione del rogito nei predetti registri, venga pubblicato un gravame inaspettato a carico del venditore (ipoteca, sequestro, pignoramento, domanda giudiziale ecc.). Immaginando poi un contesto addirittura criminoso, potrebbe anche darsi che il venditore venda più volte lo stesso immobile a diversi acquirenti, con la conseguenza che tra essi prevale chi per primo trascrive. In sostanza, fino a che l’acquisto non sia trascritto, non si ha la certezza che esso sia andato a buon fine; e se, per caso, non va a buon fine, si tratta spessissimo di situazioni in cui è praticamente impossibile avere la restituzione del denaro consegnato al venditore al momento della firma del rogito. La scena tradizionale (al rogito il venditore consegna le chiavi e l’acquirente paga il prezzo) è dunque destinata a cambiare nel caso di rogito successivo a un contratto preliminare di cui non sia stata voluta la trascrizione. La nuova legge infatti afferma (importando in Italia una prassi da tempo vigente in Francia) che se ne sia «richiesto da almeno una delle parti», il notaio deve tenere in deposito il saldo del prezzo destinato al venditore fino a quando non sia eseguita la formalità pubblicitaria con la quale si acquisisce la certezza che l’acquisto si è perfezionato senza subire gravami. Dato che, per i contraenti, si tratta di cambiare un’ inveterata abitudine (e, per i notai, di gestire questa nuova complicazione, con inevitabili aggravi organizzativi dello studio) sicuramente accadrà, in questi primi giorni di applicazione della normativa, non solo che chi deve stipulare un rogito in dipendenza di un preliminare firmato prima del 29 agosto si riterrà svincolato da questa nuova normativa adducendo che essa non può essere applicata a rapporti sorti anteriormente al 29 agosto (ma si tratta di una opinione che pare non plausibile); ma, soprattutto, pure accadrà che, nelle nuove contrattazioni, si tenterà di sostenerne la derogabilità pattizia, e cioè che compratore e venditore (in sede di contratto preliminare non stipulato per atto di notaio) possano accordarsi sul punto che l’acquirente non eserciterà il suo potere di pretendere il deposito del prezzo nelle mani del notaio. Il tema è delicato non solo per il fatto di comprendere se una simile pattuizione sia illecita o meno; ma anche per capire cosa succeda se, convenuta una simile clausola, il compratore poi si penta e pretenda il deposito del prezzo in sede di rogito. Probabilmente non si sbaglia se si ritiene che la tesi della derogabilità pattizia abbia il fiato corto. Non solo perché, altrimenti, non si saprebbe bene quale sia stato lo scopo che il legislatore abbia voluto perseguire, introducendo questa norma: il deposito (facoltativo) del prezzo nelle mani del notaio si è sempre potuto fare – ma non si è mai fatto – e, quindi, la nuova norma si rivelerebbe inutile perché non apporterebbe alcuna significativa novità su questo punto. Rispetto alla situazione previgente si avrebbe solo che oggi occorre una pattuizione per escludere il deposito prezzo, mentre prima occorreva una pattuizione per darvi corso; ma, evidentemente, la situazione è identica, al cospetto della considerazione che il patto per escludere il deposito prezzo, se lecito, è ben presto destinato a diventare una clausola di stile invariabilmente presente nella modulistica delle agenzie. Con ciò riproducendosi la situazione previgente.

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Vero è invece che la nuova norma è stata introdotta per avere un senso: e cioè quello di proteggere l’acquirente dal rischio di vedere la trascrizione del proprio acquisto preceduta da una formalità pregiudizievole. Quando la legge vuol proteggere uno dei soggetti di un rapporto, detta norme per loro natura inderogabili (il cosiddetto ordine pubblico «di protezione»), poiché altrimenti destinate appunto ad essere travolte, nella prassi commerciale, da clausole di stile. IL CONTO DEPOSITO La nuova legge sulla concorrenza ha introdotto l’obbligo per il notaio, se una delle parti nella compravendita immobiliare ne fa richiesta, di depositare in un apposito conto (che viene chiamato conto di deposito) l’intero prezzo o corrispettivo, ovvero il saldo, oltre alle somme destinate a estinzione di gravami o spese non pagate o di altri oneri dovuti LO SVINCOLO DEL PREZZO Eseguita la trascrizione del contratto di compravendita e dopo aver verificato l’assenza di gravami e formalità pregiudizievoli ulteriori rispetto a quelle esistenti alla data dell’atto o da questo risultanti, il notaio (o altro pubblico ufficiale) provvede senza indugio a disporre lo svincolo degli importi che sono stati depositati a favore del venditore dell’unità immobiliare LE ALTRE CONDIZIONI Se le parti hanno previsto che il prezzo o corrispettivo sia pagato solo dopo un determinato evento o una determinata prestazione, il notaio svincola il prezzo depositato quando gli viene fornita la prova, risultante da atto pubblico o scrittura privata autenticata, che l’evento si è avverato o che la prestazione è stata adempiuta INTERESSI AL FONDO PMI Gli interessi maturati su tutte le somme depositate, al netto delle spese e delle imposte relative al conto corrente, sono finalizzati a rifinanziare i fondi di credito agevolato destinati ai finanziamenti alle piccole e medie imprese, secondo modalità e termini che saranno individuati con Dpcm, su proposta del Mef, da adottare entro 120 giorni (Angelo Busani, Il Sole 24ORE – Estratto da “Primo Piano”, 5 settembre 2017)

Patrimonio separato dalle sorti dello studio

La legge sulla concorrenza impone che il denaro tenuto in deposito dal notaio in attesa della trascrizione della compravendita nei registri immobiliari sia immesso in un conto corrente dotato di una particolarissima e innovativa disciplina. Deve anzitutto trattarsi di un conto corrente “dedicato” a ricevere, da un lato, il versamento del denaro che i clienti corrispondono al notaio per il pagamento di imposte (dovute allo Stato dai clienti in relazione ad atti stipulati dal notaio) e, d’altro lato, il versamento di depositi che il notaio riceva a qualsiasi titolo, come quello avente a oggetto il denaro destinato appunto al pagamento del prezzo della compravendita, una volta che il relativo contratto sia stato trascritto e che sia stata accertata l’assenza di formalità pubblicitarie pregiudizievoli rispetto alla “bontà” dell’acquisto. Gli interessi che il conto corrente produce non possono essere incassati dal notaio, ma devono esser fatti affluire a un apposito fondo istituito dallo Stato a favore della piccole e medie imprese. Inoltre, il denaro giacente sul conto corrente non può essere utilizzato se non per pagare le imposte dovute dai clienti e per restituire i depositi al soggetto che ne ha diritto (principalmente, al venditore del contratto di compravendita il cui prezzo sia stato depositato al notaio). Il denaro, in sostanza, non può essere usato dal notaio né per finalità personali né per pagare i suoi costi di studio (dipendenti, fornitori ecc.);

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Infine, le giacenze del conto sono impignorabili, non fanno parte della successione del notaio che muoia, non entrano nel regime di comunione dei beni in cui il notaio si trovi. Se tutto quanto sopra elencato ha un carattere indubbiamente innovativo, la caratteristica per ultimo descritta introduce nel nostro ordinamento una ulteriore interessante tipologia di «patrimonio separato», questa volta dedicato, per comando del legislatore, al corretto e onesto svolgimento di una libera professione e di un pubblico ufficio. In sostanza, il deposito di denaro sul conto in questione provoca che quel denaro non entra a far parte del patrimonio personale del notaio; seppur si tratti di denaro “intestato” al notaio, su di esso grava un vincolo di destinazione (e cioè il pagamento delle imposte o il versamento a chi ha diritto allo svincolo del deposito) che permette di tenerlo isolato e, quindi, non solo di condizionarne l’utilizzo, ma anche di non fargli subire le sorti personali del notaio depositario (in altre parole, se questi si trovi in una situazione di indebitamento, i suoi creditori non possono soddisfarsi sulle giacenze del conto “dedicato”). Nel nostro ordinamento esistono già alcuni esempi di patrimoni gravati da un vincolo di destinazione, che ne permette l’isolamento dalle vicende del titolare diverse rispetto all’attuazione del vincolo: si pensi all’eredità accettata con il beneficio di inventario (finalizzata a pagare i creditori del defunto senza che debba risponderne il patrimonio personale dell’erede), al fondo patrimoniale (che viene istituito per soddisfare i bisogni di una famiglia), al patrimonio oggetto di affidamento fiduciario (finalizzato alla tutela di un disabile). Altri esempi più tecnici sono il trust, il vincolo di destinazione e i patrimoni destinati. Ma è questa la prima volta che viene direttamente coinvolta un’attività professionale, a garanzia degli interessi della clientela. (Angelo Busani, Il Sole 24ORE – Estratto da “Primo Piano”, 5 settembre 2017)

Solo la vendita cumulativa consente un unico prezzo

La questione dell’indicazione di un unico prezzo complessivo o di tanti prezzi quanto sono gli “oggetti” trattati in un contratto di compravendita nel quale intervengano una pluralità di venditori o una pluralità di acquirenti ricorre periodicamente nelle aule giudiziarie. Essendo per il contratto di compravendita richiesta la forma scritta a pena di nullità, la validità del contratto stesso è compromessa nel caso in cui si configuri una pluralità di contratti con l’esposizione di un unico prezzo. Ciò in quanto un unico prezzo è plausibile solo se sia configurabile un unico contratto ma, se si sia in presenza di una pluralità di contratti, per ciascuno di essi occorre un’indicazione del relativo prezzo. Il caso di più venditori Sul punto è recentemente intervenuta la Corte di cassazione (sentenza n. 15751 del 23 giugno 2017 della seconda sezione civile), per la quale nell’ipotesi in cui più venditori trasferiscano, con il medesimo atto, una pluralità di immobili, l’indicazione del prezzo di ciascuno di essi è necessaria, a pena di nullità dell’atto, solo ove i contraenti non hanno inteso dare vita a una «vendita cumulativa» con pluralità di oggetti ovvero a una cosiddetta «vendita in blocco», ma a tanti singoli contratti conclusi contestualmente, sebbene strutturalmente distinti in ragione degli oggetti alienati. Il caso di più beni Da altro punto visuale, ma sulla stessa falsariga, la sentenza della Corte di cassazione n. 3595 del 27 giugno 1979 aveva sancito che nell’ipotesi di compravendita di immobili, per la cui stipulazione la legge richiede, ai fini della validità del contratto, la forma scritta, il documento deve contenere tutti gli elementi essenziali del negozio medesimo e, quindi, anche l’elemento prezzo, la cui indicazione non può risultare da elementi estrinseci rispetto alla scrittura.

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Pertanto, è nullo il contratto nel quale sia indicato un unico prezzo con riguardo a due vendite di distinti beni immobili appartenenti a diversi proprietari, in quanto l’indicazione globale del prezzo esclude la determinatezza o la determinabilità del prezzo di ciascuna vendita. (Angelo Busani, Il Sole 24ORE – Estratto da “Primo Piano”, 5 settembre 2017)

Per gli agenti immobiliari Fiaip il venditore diventa «parte debole»

Da ieri (N.d.r.: 29 agosto 2017) è entrato in vigore il deposito del prezzo al notaio, che (dietro scelta dell’acquirente) tratterrà la somma pattuita per la compravendita e la depositerà su uno speciale conto corrente fino alla trascrizione del trasferimento dell’immobile. «Il deposito del prezzo al notaio – dichiara Paolo Righi, presidente Nazionale Fiaip - è da ascriversi alla già nutrita schiera delle leggi “inutili e dannose” varate per il nostro comparto. La legge crea una disparità fortissima tra le parti, fino a oggi bilanciate e tutelate, mentre ora il venditore diventa parte debole del contratto. Inoltre, la sua applicazione creerà notevoli problemi a quei venditori che intendono vendere la propria abitazione per comprarne subito un’altra: sarà quasi impossibile impegnarsi nel nuovo acquisto, non potendo contare sul denaro proveniente dalla vendita del proprio immobile». (Il Sole 24ORE – Estratto da “Norme e Tributi”, 30 agosto 2017)

Ape obbligatorio per chi affitta e per chi vende Le certificazioni volontarie degli immobili rappresentano un «plus» su cui si investe in caso di nuove costruzioni o di importanti ristrutturazioni. Le stesse situazioni in cui anche l’Ape (l’attestato di prestazione energetica) è obbligatorio per legge. Il documento sintetizza il comportamento energetico dell’unità immobiliare. Vale dieci anni e viene redatto da un tecnico abilitato, il certificatore energetico, che dopo aver raccolto i dati di input in sede di sopralluogo, li elabora. In base ai risultati ottenuti, all’immobile viene attribuita una classe di merito che ne sintetizza le prestazioni energetiche. Nella versione dei decreti del 2015 - uguale in tutte le Regioni - l’Ape contiene le indicazioni necessarie a comunicare in modo immediato all’utente i consumi stimati di un’unità immobiliare e i possibili interventi per risparmiare energia oltre ad informazioni più dettagliate sulle caratteristiche degli impianti presenti nel fabbricato. Il documento riporta la classe energetica dell’edificio tramite un codice alfabetico, da A a G. La classe A, che è la più performante, è suddivisa in quattro sottoclassi. Anche se valido e riutilizzabile per dieci anni, il documento va aggiornato dopo una riqualificazione energetica dell’unità immobiliare: ad esempio dopo la sostituzione dei serramenti o l’installazione di una nuova caldaia. L’Ape decade anche se gli impianti termici presenti nell’edificio non sono sottoposti ad adeguata manutenzione. L’attestato non va redatto in caso di vendita o affitto di fabbricati isolati con superficie utile inferiore a 50 mq, ruderi, edifici industriali e artigianali privi di riscaldamento o climatizzazione, edifici agricoli o rurali, sprovvisti di impianti di climatizzazione, box, cantine, autorimesse, parcheggi multipiano, depositi, luoghi di culto, fabbricati in costruzione per i quali non si disponga dell’ agibilità al momento della compravendita. Mentre è obbligatorio anche per tutte le altre compravendite, per le nuove locazioni e per gli annunci immobiliari. L’attestato va redatto da un certificatore abilitato, iscritto all’albo apposito della propria regione. In assenza di una specifica direttiva locale, sono autorizzati a firmare il documento energetico solo architetti, ingegneri e geometri iscritti al loro ordine o albo professionale. Non esiste un costo fisso per la redazione di un Ape. Generalmente, il prezzo varia in funzione della metratura dell’unità immobiliare e, in ogni caso, a discrezione del tecnico incaricato. Sono previste sanzioni severe per chi non rispetta le regole: i controlli sono demandati alle Regioni. Le multe, a seconda della responsabilità,

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possono essere a carico di soggetti diversi. Il professionista qualificato (da 700 a 4.200 euro), il datore dei lavori, il proprietario (da 3mila a 18mila euro), il locatore (da 300 a 1.800 euro), il responsabile dell’annuncio immobiliare (da 500 a 3mila euro). (Il Sole 24ORE – Estratto da “Quotidiano del Condominio”, 17 luglio 2017)

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LEGGE E PRASSI

(G.U. 11 settembre 2017, n. 212)

MINISTERO DELLA DIFESA COMUNICATO Passaggio dal demanio ai beni dello Stato di un immobile denominato «Ex Stazione Trasmittente Campo Base», in Augusta. (G.U. 4 luglio 2017, n. 154) MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI DECRETO 15 maggio 2017 Aggiornamento delle «Linee guida per l'applicazione della legge n. 717 del 29 luglio 1949, recante norme per l'arte negli edifici pubblici». (G.U. 17 luglio 2017, n. 165) MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI COMUNICATO Comunicato relativo al decreto 15 maggio 2017, recante: «Aggiornamento delle "Linee guida per l'applicazione della legge n. 717 del 29 luglio 1949, recante norme per l'arte negli edifici pubblici".». (G.U. 25 luglio 2017, n. 172) ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA COMUNICATO Indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, relativo al mese di giugno 2017, che si pubblicano ai sensi dell'art. 81 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani), ed ai sensi dell'art. 54 della legge del 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica). (G.U. 31 luglio 2017, n. 177) MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI DECRETO 21 giugno 2017 Clausole standard dei contratti locativi e di futuro riscatto e modalità di determinazione e fruizione del credito d'imposta. (G.U. 7 agosto 2017, n. 183) MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO Approvazione del «Piano d’azione nazionale per incrementare gli edifici ad energia quasi zero» (G.U. 11 agosto 2017, n. 187) MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI DECRETO 20 giugno 2017 Attuazione dell’art. 8, comma 4, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, relativo agli investimenti immobiliari degli enti previdenziali pubblici. (G.U. 14 agosto 2017, n. 189) LEGGE 4 agosto 2017, n. 124 Legge annuale per il mercato e la concorrenza.

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(G.U. 14 agosto 2017, n. 189) AGENZIA DELLE ENTRATE PROVVEDIMENTO 9 agosto 2017 Conservazione su supporti informatici dei registri immobiliari formati dal 1° gennaio 2015. (G.U. 17 agosto 2017, n. 191) AGENZIA DELLE ENTRATE PROVVEDIMENTO 9 agosto 2017 Istituzione delle sezioni stralcio delle conservatorie dei registri immobiliari (G.U. 17 agosto 2017, n. 191) ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA Indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati senza tabacchi, relativi al mese di luglio 2017, che si pubblicano ai sensi dell’art. 81 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani), ed ai sensi dell’art. 54 della legge del 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica). (G.U. 30 agosto 2017, n. 202)

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FIAIP News24 – Settembre 2017 30

GIURISPRUDENZA

Immobili: condominio Corte di Cassazione – Sentenza 4 settembre 2017, n. 20713

Ascensore privato, il condomino diventa comproprietario pagando una quota del valore attuale L’ascensore installato dopo la costruzione dell’edificio per iniziativa di una parte dei condomini e a loro spese, appartiene in proprietà a quest’ultimi e, dunque, non rientra nella proprietà comune del condominio.

Lo ha ribadito la seconda sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 20713 del 4 settembre 2017.

Secondo gli Ermellini, la situazione in esame dà luogo nel condominio ad una particolare comunione parziale dei proprietari dell’ascensore, distinta dal condominio stesso, fino a quando i condomini non decidano di parteciparvi. Infatti, l’art. 1121, comma 3, c.c. fa salva la facoltà degli altri condomini di partecipare successivamente all’innovazione, divenendo partecipi della comproprietà dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota le spese impiegate per l’esecuzione, aggiornate al valore attuale.

Il fatto. Alcuni proprietari di uno stabile condominiale citavano in giudizi altri condomini per accertare il costo dell’ascensore installato da quest’ultimi e le relative quote di contribuzione nelle spese di gestione e manutenzione dell’impianto. Il Tribunale adito, riconosciuto il diritto degli attori all’acquisizione della comproprietà dell’impianto ex art. 1121 c.c., accertava il costo dell’ascensore e determinava le quote di contribuzione a carico di ciascun attore. Decisione poi confermata anche in appello.

Tra i motivi del ricorso in cassazione, i condomini che avevano realizzato l’ascensore ritengono che il giudice del merito abbia sbagliato nell’applicare la disciplina delle innovazioni di cui all’art. 1121, comma 3, c.c. ad un’opera “nata privata” ai sensi dell’art. 1102 c.c., così permettendo agli attori di entrare forzosamente nella comproprietà dell’ascensore.

Per la Suprema Corte, però, la censura è infondata.

Si legge nella sentenza che “l’installazione ex novo di un ascensore in un edificio in condominio (le cui spese, a differenza di quelle relative alla manutenzione e ricostruzione dell’ascensore già esistente, vanno ripartite non ai sensi dell’art. 1124 c.c., ma secondo l’art. 1123 c.c., ossia proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condomino) costituisce innovazione che può essere deliberata dall’assemblea condominiale con le maggioranze prescritte dall’art. 1136

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c.c., oppure direttamente realizzata con il consenso di tutti i condomini, così divenendo l’impianto di proprietà comune”.

Trattandosi, tuttavia, di impianto di proprietà suscettibile di utilizzazione separata, “proprio quando l’innovazione, e cioè la modificazione materiale della cosa comune (nella specie, il vano scale) conseguente alla realizzazione dell’ascensore, non sia stata approvata in assemblea (lo stesso art. 1121 c.c., al comma 2, parla di maggioranza dei condomini che abbia deliberata o accettata l’innovazione), essa può essere attuata anche a cura e spese di uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all’art. 1102 c.c.), salvo il diritto degli altri di parteciparvi in qualunque tempo ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera”.

Da qui le conclusioni di giudici di legittimità, anticipate all’inizio: l’ascensore installato nell’edificio dopo la costruzione di quest’ultimo per iniziativa di parte dei condomini, non rientra nella proprietà comune di tutti i condomini, ma appartiene in proprietà a quelli di loro che l’abbiano impiantato a loro spese. Ciò dà luogo nel condominio ad una particolare comunione parziale dei proprietari dell’ascensore, analoga alla situazione avuta a mente dall’art. 1123, comma 3, c.c., comunione che è distinta dal condominio stesso, fino a quando tutti i condomini non abbiano deciso di parteciparvi ex art. 1121, comma 3, c.c. (Giuseppe Donato Nuzzo, Il Sole24ORE – Estratto da “Tecnici24”, 7 settembre 2017)

Immobili: fisco Commissione Tributaria Provinciale - Vicenza – Sentenza 7 giugno 2017, n.

440/1/2017

Se il preliminare ha effetti reali il prezzo-valore va chiesto subito Nel caso in cui il contratto preliminare di compravendita immobiliare preveda la produzione di effetti traslativi – che possono anche essere “a termine”, e quindi non immediati – la traditio si considera già avvenuta per effetto di tale accordo negoziale tra le parti, che dovrà successivamente essere soltanto trascritto. Tale impostazione civilistica riverbera i propri effetti anche sul piano tributario-fiscale, con particolare riferimento all’applicabilità, al negozio in esame, del criterio del “prezzo-valore”. Se ne è occupata di recente la Ctp Vicenza con la sentenza 440/1/2017 (presidente Pietrogrande, relatore Mottes). Nell’occasione, i giudici veneti hanno precisato che qualora l’effetto traslativo si sia perfezionato al momento della sottoscrizione del preliminare (considerato per questo motivo “improprio”) – e il trasferimento dell’immobile sia avvenuto mediante sentenza che abbia riconosciuto legittimo il contratto stesso – la richiesta di applicare il “prezzo-valore” avrebbe dovuto essere presentata al giudice ordinario chiamato ad accertare l’efficacia del preliminare stesso. Soltanto se recepito in sentenza, il criterio agevolativo potrebbe essere rilevato, e quindi applicato, dall’agenzia delle Entrate. Del resto, tale conclusione appare confermata dal protocollo sottoscritto nel febbraio 2014 tra il Tribunale di Firenze, l’agenzia delle Entrate e il locale Ordine degli avvocati, il quale prevede la trasmissione all’amministrazione fiscale della richiesta di applicazione del “prezzo-valore” unitamente alla fotocopia del documento di identità e, soprattutto, assieme al decreto di trasferimento. Se tale condizione non venisse rispettata, il beneficio del criterio del “prezzo-valore” non potrebbe essere applicato. Si ricorda al riguardo che attraverso tale criterio – introdotto dall’articolo 1, comma 497, della legge 266/2005 (la Finanziaria 2006) – è possibile determinare la base imponibile ai fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali sulla base del valore catastale dell’immobile, calcolato applicando alla rendita catastale determinati coefficienti al posto del corrispettivo pattuito nel contratto. Tale regola – che rappresenta una deroga ai principi generali contenuti nell’articolo

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43 del Dpr 131/1986, che come noto fanno riferimento al corrispettivo – trova applicazione sempreché: il trasferimento riguardi un immobile ad uso abitativo, ed accatastato come tale; l’acquirente sia una persona fisica privata; sia stata fatta un’espressa richiesta al notaio rogante. Quest’ultima condizione, a ben vedere, finisce col rendere ancor più salda (e, a parere di chi scrive, condivisibile) la posizione assunta dalla commissione tributaria vicentina nella fattispecie in commento. Ricordiamo poi che con la sentenza 6/2016 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del criterio del “prezzo-valore” con riferimento agli acquisti di immobili abitativi da parte di persone fisiche non esercenti attività d’impresa mediante espropriazione forzata, asta pubblica o pubblico incanto. (Stefano Mazzocchi, Il Sole24ORE – Estratto da “Quotidiano del Fisco”, 4 settembre 2017)

Commissione Tributaria Provinciale - Pesaro – Sentenza 928/1/2017

Nulla la rettifica immobiliare se la perizia è piena di errori È nullo l’atto di rettifica del valore di un immobile venduto se l’ufficio, oltre a non tenere conto delle caratteristiche specifiche dell’immobile, commette anche errori come l’indicazione di una metratura maggiore rispetto a quella effettiva. Ad affermarlo è la sentenza 928/1/2017 della Ctp di Pesaro (presidente Calma, relatore Giubilaro). Una società ricorre contro l’atto di rettifica con cui l’ufficio rideterminava il valore di un immobile ceduto nel 2013. Per il Fisco, il prezzo del fabbricato doveva salire da 75mila euro a 174.300 euro e, di conseguenza, le imposte indirette andavano rideterminate, con tanto di sanzioni. La contribuente ricorre in primo grado, contestando la perizia dell’ufficio in quanto avente valore di presunzione semplice e, quindi, insufficiente a motivare un atto impositivo in assenza di ulteriori elementi concordanti. La perizia, inoltre, secondo la ricorrente era sommaria e non riferita specificatamente all’immobile venduto. L’ufficio stesso, secondo la società, lo riconosceva laddove precisava che si trattava di una perizia basata su elementi sintetici e globali, e non analitici e specifici. Inoltre, non risultavano allegati gli atti parametro e, quindi, la ricorrente non poteva cogliere le caratteristiche degli immobili presi in esame per la rettifica del valore. La società allegava al ricorso alcune perizie che andavano a confutare quanto sostenuto dall’ufficio. Il Fisco, invece, difendeva la bontà della propria valutazione. I giudici di primo grado accolgono il ricorso e condannano l’ufficio al pagamento delle spese processuali. Innanzitutto, il collegio rileva che le perizie predisposte dal Fisco sono sempre di parte, con la conseguenza che sono liberamente valutabili dal giudice. Queste stime, ribadiscono i giudici, rappresentano presunzioni semplici che, per consentire la rettifica del valore, devono essere correlate da altri elementi al fine di configurare un quadro probatorio dotato dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza. Nella stima effettuata dall’ufficio, rileva la Ctp, non solo non sono state considerate le caratteristiche dell’immobile venduto, ma sono stati commessi dei veri e propri errori con riguardo alla metratura indicata in misura maggiore rispetto a quella reale. Nella perizia, inoltre, non viene evidenziato che nell’immobile non vi è l’impianto idrometrico, nè quello di riscaldamento e di climatizzazione. Non si è, inoltre, tenuto conto del fatto che gli spazi interni, puntualizza la commissione, rendono l’immobile difficilmente utilizzabile per la generalità delle attività commerciali. Anche l’anno di costruzione è stato indicato in modo errato. Inoltre, gli atti di transazione citati nella perizia non sono comparabili sul piano temporale alla transazione dell’immobile in questione, riferendosi ad anni diversi e a immobili con caratteristiche diverse. Tutti questi elementi, concludono i giudici, sono tali da mettere in discussione il risultato della perizia e, di conseguenza, il maggior valore attribuito. (Andrea Barison, Il Sole24ORE – Estratto da “Norme e Tributi”, 28 agosto 2017)

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Immobili: vendita e locazione Corte di cassazione – Sentenza 31 agosto 2017, n. 20611

Usucapione, non bastano diffida e vendita del bene Non basta mandare diffide e proteste, non basta neppure vendere la proprietà: i termini dell’usucapione decorrono inesorabilmente e allo scadere dei vent’anni il possessore può esercitarne il diritto.

Il caso esaminato dalla Cassazione (sentenza 20611, depositata ieri) riguarda una persona che si era impossessata di un terreno sin dal 1970, utilizzandolo uti dominus, cioè come se ne fosse il proprietario. A nulla erano servite due missive inviate dai legittimi proprietari nel 1985, in quanto, per la Cassazione «possono avere efficacia interruttiva solo atti che comportino per il possessore la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa», come «la notifica dell’atto di citazione con il quale venga richiesta la consegna materiale di tutti i beni immobili sui quali si vanti un diritto dominicale», per esempio «perché passati in proprietà esclusiva con sentenza passata in giudicato per effetto di divisione in lotti di un compendio ereditario».

In particolare, specifica la Cassazione, né la diffida né la messa in mora servono a interrompere una prescrizione. Non solo: dato che tra proprietari e possessore c’era stato uno scambio di lettere nel quale si evidenziava la consapevolezza del secondo circa la sua mancanza di titoli ufficiali di proprietà, i primi avevano fatto leva anche su questo ma la Cassazione è stata fermissima: non è sufficiente questa consapevolezza ma occorre che «il possessore esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare», il che, trattandosi di qualcuno che sta cercando di impossessarsi del bene, appare francamente poco probabile.

Né, tantomeno può servire la vendita del bene a terzi, come era avvenuto: l’atto di disposizione del diritto dominicale da parte del proprietario «in favore di terzi, anche se conosciuto dal possessore, non esercita alcuna incidenza sulla situazione di fatto utile ai fini dell’usucapione, rappresentando, rispetto al possessore, “res inter alios acta”».

Il risultato è stato che la richiesta dei ricorrenti (cioè di coloro che vantavano il diritto reale di proprietà sul terreno) è stata cassata senza rinvio e i soccombenti sono stati anche condannati a pagare le spese di giudizio (con il raddoppio del contributo unificato). (Saverio Fossati, Il Sole24ORE – Estratto da “Quotidiano del Condominio”, 1 settembre 2017) Corte di cassazione – Sezione II Civile - Sentenza 23 giugno 2017 n. 15742

Valida la vendita della casa con l’amianto Il preliminare di compravendita di un immobile è valido anche se la copertura del tetto è in eternit (Corte di Cassazione, sentenza n. 15742/2017).

Due coniugi promissari acquirenti di un immobile venivano a conoscenza solo successivamente che la copertura dell’edificio in cui era ubicato l’immobile era realizzata in tale materiale. Chiedevano, quindi, la risoluzione del contratto per inadempimento del promittente venditore accusato di aver nascosto un vizio della cosa venduta e se ne chiedeva la condanna alla restituzione del doppio della caparra confirmatoria.

Conclusi i giudizi di merito, la Corte d’appello ha rigettato la domanda dei coniugi perché, anche se l’eternit non era stato rimosso, non sussisteva alcun pericolo per la salute come accertato dal controllo dell’Arpa.

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I promissari acquirenti proponevano ricorso in Cassazione, che ha precisato che la Corte d’appello aveva tenuto conto della pericolosità dell’amianto in generale ma l’aveva esclusa sulla base dell’accertamento eseguito dall’Arpa, che aveva verificato l’assenza di attualità del pericolo (prescrivendo solo il monitoraggio della copertura in eternit), cosicché i giudici di appello legittimamente avevano ritenuto che l’appartamento promesso in vendita fosse attualmente idoneo ai fini abitativi e che la presenza della copertura in amianto non ne diminuisse il valore in misura tale da giustificare la risoluzione del contratto. Gli stessi giudici di legittimità, inoltre, hanno affermato che il richiamo, da parte dei ricorrenti, alla legge 257/92, posta a tutela dell’ambiente e della salute, non fosse necessario, in quanto contiene il divieto, per il futuro, di commercializzare e di utilizzare materiali costruttivi in fibrocemento ma «non ha imposto la rimozione generalizzata di tali materiali nelle costruzioni (come quella oggetto di promessa di vendita) già esistenti al momento della sua entrata in vigore» prevedendo, rispetto a tali costruzioni, solo l’obbligo dei proprietari degli immobili «di comunicare agli organi sanitari locali la presenza di amianto fioccato o friabile negli edifici e consentendo la conservazione delle strutture preesistenti che impiegano tale materiale a condizione che esse si trovino in buono stato».

Per la Cassazione, pertanto, era stato accertato che l’immobile non presentava alcun rischio per la salute e il probabile deterioramento del materiale nel corso del tempo – aspetto valutato dalla corte di appello - avrebbe potuto giustificare (in luogo della risoluzione del contratto) una «modesta riduzione del prezzo» che però, nella fattispecie, non era richiesta dai promissari acquirenti. (Luana Tagliolini, Il Sole24ORE – Estratto da “Quotidiano del Condominio”, 29 agosto 2017) Tribunale di Trento - Sentenza 20 marzo 2017, n. 301

Casa, per il recesso dell’acquirente serve la diffida Se manca un termine essenziale per la conclusione del contratto definitivo di compravendita di un immobile, il recesso del promissario acquirente è legittimo solo se preceduto dall’invio della diffida ad adempiere entro una certa data (articolo 1454 del Codice civile), decorsa inutilmente la quale il preliminare si deve intendere risolto. Solo se rispetta questo iter il promissario acquirente ha la facoltà di chiedere, in base all’articolo 1385 del Codice civile, la restituzione del doppio della caparra confirmatoria versata, senza provare di aver subito un danno dall’altrui inadempimento, né di quantificarlo.

Lo ha deciso il Tribunale di Trento che, con la sentenza 301 del 20 marzo scorso (giudice Sieff), ha respinto la doppia domanda del promissario acquirente: in primo luogo, di dichiarare l’intervenuto scioglimento del contratto preliminare di compravendita di un immobile per mancata consegna dello stesso entro il termine pattuito di comune accordo dalle parti dopo la stipula del contratto medesimo; e poi di condannare il promittente venditore a restituire in suo favore il doppio della caparra versata.

Il caso riguarda la compravendita di un immobile, in relazione alla quale le parti hanno sottoscritto il contratto preliminare, senza però fissare il termine entro il quale l’appartamento avrebbe dovuto essere consegnato al promissario acquirente. La data è stata poi individuata in circa due mesi dopo la stipula del preliminare, ma la consegna non è avvenuta entro la data stabilita. Circa tre mesi dopo la scadenza, il promissario acquirente ha quindi scritto alla controparte, assegnando un termine (circa un mese dopo) per concludere il contratto definitivo e riservandosi, se non avesse ricevuto risposta entro sette giorni, di agire in sede giudiziaria.

La vicenda è quindi finita in tribunale, che ha negato tutela all’attore perché, come si legge nella sentenza, «in assenza di un termine fissato in contratto, non è possibile affermare con precisione se e quando si verifichi l’inadempimento». Né tale termine può essere

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unilateralmente determinato da una parte, ma deve essere frutto di un accordo modificativo del contratto.

Inoltre, la formula usata dal promissario acquirente nell’assegnare al promittente venditore un nuovo termine per la conclusione del contratto non si può considerare una diffida ad adempiere; non ha precisato infatti che, in difetto, il contratto si sarebbe risolto (così come espressamente richiede l’articolo 1454 del Codice civile), ma si è riservato «di agire in sede giudiziaria come ritenuto più opportuno», formula che non esclude la possibilità di chiedere il coatto adempimento del contratto in base all’articolo 2932 del Codice civile(dunque il contrario della risoluzione).

Il promittente venditore è stato invece molto più attento nel riscontrare la comunicazione ricevuta: non solo ha invitato il futuro acquirente a presentarsi a data fissa presso il notaio incaricato del rogito, ma lo ha anche avvisato che il mancato rispetto del termine assegnato avrebbe comportato la risoluzione del contratto preliminare di compravendita. L’inadempimento è stato quindi addebitato al promissario acquirente e la parte promittente venditrice è stata legittimata a trattenere la caparra ricevuta. (Auguto Cirla, Il Sole24ORE – Estratto da “Quotidiano del Diritto”, 24 luglio 2017)

Corte di cassazione – Sentenza 5 luglio 2017, n. 16640

Il venditore che tace sui lavori imminenti paga i danni Il condòmino, mentre vende il suo appartamento, anche nella fase delle trattative, deve comportarsi secondo “buona fede” (art. 1137 Cc) e, pertanto, rendere note tutte le condizioni, i pesi e i vincoli che gravano sull’immobile in vendita, ivi comprese le spese condominiali per le opere straordinarie di prossima deliberazione, qualora ne sia a conoscenza. In caso contrario, può essere ritenuto responsabile - a titolo di responsabilità precontrattuale - dei danni cagionati all’acquirente. Così ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 16640, pubblicata il 5 luglio 2017, relatore Marco Rossetti.

L’acquirente aveva fatto causa al venditore, al Tribunale di L’Aquila, perché aveva acquistato un immobile in condominio e, nell’imminenza della compravendita era stata convocata un’assemblea condominiale per deliberare su alcuni lavori straordinari di ingente importo. Tuttavia tale circostanza gli era stata volontariamente taciuta dal venditore in fase di trattative, così trovandosi, una volta perfezionato l’acquisto, a dover sostenere spese condominiali straordinarie di rilevante importo.

Le corti di merito avevano dato ragione al l’acquirente ma la sentenza veniva impugnata alla Suprema Corte dal venditore, per violazione e falsa applicazione dell’articolo 1123 del Codice civile.

L’articolo 63 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile prevede che nell’ipotesi di lavori straordinari, per determinare la data di insorgenza dell’obbligazione contributiva, tuttavia, occorre prendere a riferimento la deliberazione di approvazione di tali lavori.

È vero che il Codice civile prevede la solidarietà solo per lavori approvati prima della vendita: «chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente. Dovendosi individuare, ai fini dell’applicazione dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni (ristrutturazione della facciata dell’edificio condominiale), deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento, avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione» (Cassazione, sentenza 15547/2017).

Nel caso concreto, tuttavia, la Cassazione ritiene che la violazione dell’articolo 1123 sia

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«inammissibile per estraneità alla ratio decidendi: la Corte d’appello, infatti, ha affermato la responsabilità dell’odierno ricorrente non perché titolare di una obbligazione propter rem, ma a titolo di responsabilità precontrattuale, ovvero per avere volontariamente sottaciuto all’acquirente l’esistenza di un ingente onere condominiale di prossima deliberazione; nessuna violazione dell’articolo 1123 c.c., dunque, è stata commessa dalla corte d’appello, per la semplice ragione che tale norma non doveva essere (e non è stata) applicata al caso di specie».

Il ricorso è stato quindi rigettato e il venditore condannato al pagamento delle spese del giudizio, oltre al contributo unificato. (Paolo Accoti, Il Sole24ORE – Estratto da “Quotidiano del Condominio”, 19 luglio 2017)

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MEDIAZIONE

IMMOBILIARE E CLAUSOLE PENALI

La clausola penale negli incarichi di mediazione immobiliare Giuseppe Bordolli, Il Sole 24 ORE – Estratto da “Consulente Immobiliare”, Edizione del 31 agosto 2017, n. 1027 pag. 1401-1406 Quali sono le caratteristiche e le conseguenze dell'inserimento di clausole penali nei contratti di mediazione. Nella mediazione immobiliare è ormai diffusa la prassi di utilizzare modelli standard di contratti di mediazione, predisposti dal mediatore per la conclusione di una moltitudine di affari dello stesso tipo. Tale modulistica contiene normalmente la previsione di una penale a favore del mediatore in caso di recesso anticipato del cliente o di conclusione dell’affare diretta o tramite altri intermediari o con persone segnalate dal mediatore dopo la scadenza dell’incarico. Si tratta di pattuizioni tipiche del settore dell’intermediazione immobiliare, volte a tutelare l’agenzia immobiliare, che si impegna per la realizzazione dell’affare, contro comportamenti negligenti, se non addirittura dolosi delle parti intermediate. Del resto l’incremento della concorrenza ha comportato un incremento di costi organizzativi per i mediatori, ormai spesso costretti ad avvalersi di un apparato ausiliario abbastanza articolato. Occorre inoltre considerare che l’originaria soluzione adottata dall’art. 1755 cod. civ., secondo cui il mediatore ha diritto alla provvigione solo in caso di conclusione dell’affare, espone eccessivamente il mediatore al rischio di affrontare una complessa attività senza conseguire compenso alcuno a causa di eventuali ripensamenti anche non ponderati delle parti. Deve tuttavia valutarsi se detta clausola, per come congegnata, sia rispettosa delle norme poste a tutela del cliente-consumatore. Più nello specifico, nel caso in cui sia contenuta in condizioni generali di contratto o in contratti predisposti su moduli o formulari, come prevedono infatti i numeri 4 e 5 dell’art. 34 del D.Lgs. 206/2005 (codice del consumo), non è vessatoria qualora sia stata oggetto di specifica trattativa tra il mediatore e il cliente. Sotto questo profilo, è bene precisare che gli intensi contatti tra le parti e le varie modifiche proposte e accettate, risultanti dagli incarichi di mediazione, sono sintomo di una trattativa prolungata volta a trovare un accordo sugli elementi fondamentali della vendita, ma non provano certo l’esistenza di una specifica trattativa sulla clausola penale contenuta nel modulo standard dell’agenzia. Allo stesso modo, è impensabile che la prova contraria della specifica trattativa individuale in ordine a una clausola tipo (inserita in modulo contrattuale unilateralmente predisposto) sia affidata a una dichiarazione inserita nello stesso modulo contrattuale. Se così fosse, si realizzerebbe un circolo vizioso, nel quale lo stesso documento, che è sintomo di assenza di

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trattativa individuale, ossia il modulo-formulario, verrebbe a contenere in sé la prova di detta trattativa. A quanto sopra bisogna aggiungere che il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto e la loro sottoscrizione indiscriminata non ne determina la validità e l’efficacia, non potendosi ritenere che, con tale modalità, sia garantita l'attenzione del contraente debole verso la clausola a lui sfavorevole compresa tra le altre richiamate (Cass., sent. 15 aprile 2015, n. 7605). Mediazione e clausola penale eccessiva L'art. 33, comma 2, del D.Lgs. 206/2005 stabilisce una presunzione di vessatorietà in ordine a una serie di clausole contrattuali, tra le quali, alla lett. f), rientra quella che impone al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell'adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente di importo manifestamente eccessivo. Tale norma non consente di inserire negli incarichi di mediazione una clausola penale che preveda, all'avverarsi di una serie di ipotesi, una corresponsione a favore dell'agenzia immobiliare di una somma superiore rispetto a quella contrattualmente pattuita per l'ipotesi di conclusione dell'affare mediante l'attività prestata dall'agenzia immobiliare. Così, per esempio, nell’ambito di un rapporto di mediazione per vendita immobiliare, nel quale è stato previsto un compenso per provvigione pari al 3% sul prezzo di vendita, la giurisprudenza ha ritenuto vessatoria una clausola penale stabilita nella misura del 4% sullo stesso prezzo, a carico delle venditrici, in una serie di ipotesi, fra le quali la vendita diretta delle proprietarie degli immobili (Trib. Padova, sent. 29 novembre 2016, n. 3253). Non vi è dubbio infatti che un accordo contrattuale teso a riconoscere, a favore dell'agenzia immobiliare, una somma maggiore nell’eventuale ipotesi di vendita diretta da parte delle proprietarie degli immobili, rispetto alla vendita derivante dall'attività espletata dal professionista, in assenza di elementi oggettivi idonei a giustificare una pattuizione di tale tenore, debba comunque ritenersi vessatorio ex art. 33 del D.Lgs. 206/2005, in quanto comportante un evidente e significativo squilibrio contrattuale tra le parti. Quanto sopra è evidente quando la penale, predisposta dall'agenzia di mediazione e sottoscritta dal promissario acquirente, imputi a questi il pagamento di una determinata somma di denaro, a titolo di penale irriducibile e di forfettario risarcimento del danno, pari al doppio della provvigione spettante nel caso di esito positivo della trattativa. Tale pattuizione, che presenta certamente caratteri di eccessività, è da considerare vessatoria ai sensi degli artt. 33 e 34 del D.Lgs. 206/2005 e quindi può essere dichiarata nulla, mentre il contratto rimane valido per il resto (art. 36, comma 1, del D.Lgs. 206/2005). Se così non fosse, il professionista potrebbe svincolarsi dagli obblighi derivanti dal contratto, dopo avere fatto valere la nullità di una clausola. In ogni caso, tale nullità, secondo il modello della nullità di protezione, opera solo a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 36, comma 3, del D.Lgs. 206/2005). Il vantaggio del consumatore non può non riflettere l’interesse che lo ha spinto a stipulare il contratto per ottenere il bene o il servizio, che, in caso di inefficacia o di nullità dell’intero contratto, perderà sicuramente. Mediazione e penale di importo pari alla provvigione È indiscutibile che le parti – nell’ambito dei poteri di autonomia riconosciuti dalla legge – possono dare al rapporto di mediazione una regolamentazione differente da quella prevista dal codice civile e pertanto possono anche prevedere che il mediatore riceva una penale, cioè un compenso per l’attività svolta, in una serie di casi contrattualmente previsti. L'assenza di parametri di valutazione precisi però non agevola il professionista, che deve avvalersi della clausola in questione, non riuscendo a sapere quando essa non possa essere considerata eccessiva e quindi da trattare individualmente. Del resto, proprio perché la penale opera come liquidazione forfettaria e anticipata del danno, il rischio è quello di indicare un importo troppo basso (come tale non rispondente alle sue effettive esigenze) o di stabilire un ammontare elevato con il rischio di subire la dichiarazione di inefficacia totale.

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In ogni caso la clausola che, in caso di inadempimento del cliente, impone allo stesso il pagamento di una somma pari all’importo della provvigione pattuita deve considerarsi vessatoria ai sensi dell’art. 33, comma 2, lett. f), del D.Lgs. 206/2005, in quanto impone al consumatore il pagamento di una somma a titolo di risarcimento di importo manifestamente eccessivo. Infatti la manifesta eccessività deve essere valutata non in relazione alla prestazione in sé astrattamente considerata, ma all’interesse che la parte ha all’adempimento della prestazione cui ha diritto, tenendosi conto delle ripercussioni dell’inadempimento sull’equilibrio delle prestazioni e dell’effettiva incidenza dello stesso sulla situazione contrattuale concreta. Così, per esempio, si pensi all’ipotesi in cui il consumatore dichiari di revocare l’incarico poco tempo dopo il conferimento dello stesso: il risarcimento viene in questo caso a coprire costi in realtà mai sostenuti dal mediatore, il quale non pone in essere alcuna attività materiale finalizzata a reperire un acquirente o un venditore. Ne consegue che le penali per l’inadempimento del consumatore conferente l’incarico di mediazione immobiliare, che abbiano un importo vicino a quello della provvigione pattuita per la conclusione dell’affare (per esempio, un importo pari al compenso pattuito, diminuito del 20%), sono da considerarsi vessatorie ex art. 33, comma 2, lett. f), del D.Lgs. 206/2005. In tali casi lo squilibrio delle prestazioni è collegato al fatto che il diritto al compenso sia fissato in misura indipendente dal tempo per il quale l'attività del mediatore si è protratta prima del rifiuto del preponente (Trib. Roma 19 maggio 2016, n. 10118). Del resto il fatto che il codice del consumo (art. 34, comma 3) escluda dall’ambito del giudizio di vessatorietà l’adeguatezza del corrispettivo non è di ostacolo alla dichiarazione di nullità della clausola in esame. Infatti la stessa normativa esige che l’oggetto e il corrispettivo siano individuati in modo chiaro e comprensibile. Di conseguenza, per esempio, in caso di esercizio del diritto di recesso, l’ammontare del corrispettivo dovuto dal recedente dovrebbe essere commisurato in relazione all’attività effettivamente prestata sino al momento del recesso. Lo squilibrio poi appare evidente qualora si prenda in considerazione l’ipotesi inversa di un mediatore che, pur essendosi contrattualmente impegnato a svolgere attività di mediazione per un certo tempo, rinunci all’incarico pochi giorni dopo averlo ricevuto: in tale caso il cliente potrà eventualmente domandare il risarcimento delle spese sostenute e del tempo perso, ma ben difficilmente potrà richiedere un importo pari alla provvigione concordata con il mediatore o al guadagno che si riprometteva di perseguire con l’affare. Di conseguenza il rapporto non può ritenersi “equilibrato” qualora non sia previsto l’obbligo del pagamento di una penale anche a carico del mediatore che, prima della scadenza, receda dall’incarico. In entrambi i casi, se le penali sono eccessive, il giudice può diminuirle equamente ex officio, ai sensi dell’art. 1384 cod. civ. Tuttavia è da escludersi che il giudice debba valutare l’interesse del creditore con esclusivo riguardo al momento della stipulazione della clausola – come sembrerebbe indicare l’art. 1384 cit. – sostenendosi, per contro, che tale interesse deve essere vagliato anche con riguardo al momento in cui la prestazione è stata tardivamente eseguita o è rimasta definitivamente ineseguita, poiché, anche nella fase attuativa del rapporto, trovano applicazione i principi di solidarietà, correttezza e buona fede, di cui agli artt. 2 Cost. e 1175 e 1375 cod. civ. In altre parole, la lettera dell’art. 1384 cod. civ. non vuole riferirsi soltanto all’identificazione dell’interesse del creditore, senza impedire che la valutazione di manifesta eccessività della penale tenga conto delle circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto (Cass. 27 aprile 2017, n. 10374).

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Mancata accettazione di proposta conforme alle richieste del cliente L'esigenza del mediatore, di impegnare la propria organizzazione in una programmata attività di ricerca dell'altro contraente, interessato alla conclusione dell'affare, senza correre il rischio di non raccogliere la remunerazione dell'attività svolta, viene pienamente soddisfatta qualora il cliente, sottoscrivendo l'incarico di mediazione, accetti anche quelle clausole che prevedono l'obbligo, per l'incaricante, di pagare la provvigione o una penale nell'ipotesi in cui, prima che scada il termine di efficacia dell'incarico, rinunci a concludere l'affare anche se il mediatore ha trovato una persona disposta a concluderlo alle condizioni concordate, o revochi l'incarico, oppure concluda l'affare direttamente o avvalendosi di un altro mediatore. Secondo la giurisprudenza, un incarico caratterizzato da questi patti è valido, in quanto diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico. È vero però che, se il compenso sia previsto in misura identica (o vicina) a quella stabilita per l'ipotesi di conclusione dell'affare, si pone il problema di stabilire se, in relazione al caso di mancata conclusione dell'affare per scelta di chi ha conferito l'incarico, vi sia squilibrio fra i diritti e gli obblighi delle parti ex art. 33, comma 1, del D.Lgs. 206/2005, giacché solo con la conclusione dell'affare il preponente realizza il suo interesse e poiché il rifiuto da parte sua di concluderlo non integra comunque un inadempimento. Il giudice dovrà dunque stabilire se la clausola sia vessatoria, considerando che l’art. 34, comma 3, del D.Lgs. 206/2005 esclude che la valutazione della vessatorietà possa concernere l'oggetto del contratto e l'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tuttavia tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile: nel patto intercorso tra preponente e mediatore deve dunque essere chiarito che, in caso di mancata conclusione dell'affare per oggettivamente ingiustificato rifiuto del preponente, il compenso al mediatore sarà dovuto per l'attività sino a quel momento esplicata. Se dunque il conferente l'incarico receda (anche se ingiustificatamente) dall’incarico, la previsione dell'obbligo di corrispondere comunque un compenso all'intermediario può avere causa nella remunerazione dell'attività da quello posta in essere nella ricerca di un interessato. Ma se il compenso sia previsto in misura identica (o vicina) a quella stabilita per l'ipotesi di conclusione dell'affare, si verifica uno squilibrio tra i diritti e gli obblighi delle parti, giacché solo con la conclusione dell'affare il preponente realizza il suo interesse e poiché il rifiuto da parte sua di concluderlo non integra comunque un inadempimento. Se tanto non sia chiaro, l'adeguatezza del corrispettivo per l'ipotesi di mancata conclusione dell'affare dovrà essere apprezzata dal giudice, che potrà concludere nel senso del significativo squilibrio delle prestazioni e dunque per l'inefficacia della clausola (art. 36, comma 1, del D.Lgs. 206/2005). Quanto sopra è evidente, se tale clausola non consente il rifiuto dovuto a giustificato motivo, con ciò impedendo al consumatore di verificare la bontà dell’affare procacciato dal mediatore. Appare pertanto sbilanciata la clausola che non faccia comunque salva l’ipotesi di mancata conclusione dell’affare da parte del consumatore incaricante, basata su motivi obiettivamente giustificati, secondo il principio di buona fede. A diverse conclusioni però si potrebbe arrivare qualora la concreta applicazione della penale non determini l’attribuzione a parte attrice di vantaggi maggiori rispetto a quelli che avrebbe conseguito ove la convenuta avesse adempiuto al contratto, sempreché, al momento dell’inadempimento, il mediatore abbia integralmente svolto la propria prestazione, reperendo un serio potenziale acquirente disposto a concludere l’affare alle condizioni contrattuali imposte dal cliente (Trib. Genova, 14 maggio 2014, inedita). Penale e vendita diretta a persone segnalate dal mediatore È frequente che, negli incarichi di vendita, sia inserita un’apposita pattuizione attraverso cui l’agente immobiliare cerca di impedire alle parti messe in relazione di concludere, a sua insaputa, l’affare per cui ha prestato attività di intermediazione. In particolare, negli incarichi di

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vendita, è frequente l’inserimento di una clausola che impone al cliente il pagamento di una penale nel caso in cui lo stesso, successivamente alla scadenza dell’incarico, concluda il contratto intermediato con potenziali acquirenti o inquilini segnalati dall’agente immobiliare. Tale pattuizione contrasta con l’art. 1379 cod. civ., secondo cui le parti di un contratto possono accordarsi perché una di esse non venda un immobile, purché tale divieto convenzionale di alienazione sia contenuto entro convenienti limiti di tempo e risponda a un apprezzabile interesse di una delle parti. Del resto, se è vero che sussiste un indubbio interesse dell’agente immobiliare a tale particolare divieto di alienazione del cliente-venditore, mancando la previsione del limite temporale (che, ai fini della validità del detto divieto, il legislatore richiede come condizione non alternativa, bensì cumulativa, all’interesse apprezzabile), si dovrebbe concludere per l’inefficacia di detta pattuizione. In ogni caso, la clausola in questione, se inserita in una pattuizione formalizzata con un modulo preordinato unilateralmente, comporta un effettivo squilibrio tra la posizione giuridica della predisponente e il consumatore-cliente e vi si riconoscono quindi gli elementi propri delle clausole vessatorie. La suddetta clausola rientra tra quelle di cui all’art. 33, comma 2, lett. t), del D.Lgs. 206/2005 (restrizioni alla libertà contrattuale nei confronti dei terzi), che, fino a prova contraria, si presumono vessatorie. Tale presunzione può essere vinta dalla prova, fornita dal mediatore, che la singola clausola è stata oggetto di specifica trattativa. Penali vessatorie e tutela amministrativa Merita infine di essere ricordato che l’art. 37-bis del D.Lgs. 206/2005 prevede un sistema di tutela amministrativa contro le clausole penali vessatorie nei contratti fra imprese e consumatori e lo affida alla competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM). In particolare, l’Autorità garante della concorrenza può dichiarare, anche d’ufficio, la vessatorietà delle clausole dei contratti conclusi mediante adesione a condizioni generali o con la sottoscrizione di moduli, modelli o formulari. È però previsto un meccanismo di difesa preventivo per le imprese, nell’ambito dei rapporti con i consumatori. Esse potranno infatti sottoporre all’attenzione del Garante le clausole che intendono adottare e, qualora, in quella sede, le stesse non vengano giudicate vessatorie, potranno essere applicate, senza temere successive valutazioni da parte dello stesso Garante. Al di fuori di questa ipotesi, l’azione amministrativa, diretta a fare dichiarare vessatorie le clausole interessate, può avvenire in due modi: d’ufficio per iniziativa dell’Autorità garante della concorrenza (con il parere favorevole delle organizzazioni di categoria, quindi anche delle categorie contro cui si vorrà agire), oppure su espressa denuncia dei consumatori interessati (ma anche le Camere di Commercio o loro unioni possono presentare delle segnalazioni). In caso di vessatorietà delle clausole, l’AGCM emana un provvedimento dichiarativo, che non contiene alcun ordine di cessazione nei confronti del professionista, né è destinato di per sé a riverberarsi sui singoli contratti conclusi a valle. In particolare, una volta che l’autorità abbia provveduto ad accertare la vessatorietà di una determinata clausola e a emanare il relativo provvedimento, il soggetto che ha subìto il suddetto provvedimento sarà obbligato a darne diffusione sia sul proprio sito internet, sia attraverso altri canali di comunicazione (pubblicità attraverso i media).

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AGEVOLAZIONI FISCALI

"Prima casa" senza bonus se la donazione è successiva all'acquisto a titolo oneroso Alessandro Borgoglio, Il Sole 24 ORE – Estratto da “Consulente Immobiliare”, Edizione del 15 settembre 2017, n. 1028 pag. 1533-1537 Non spetta l'agevolazione "prima casa" per l'acquisto di un immobile a titolo gratuito, tramite donazione, qualora il contribuente abbia già beneficiato dell'agevolazione per un precedente acquisto a titolo oneroso, salvo che questi rivenda l'immobile preposseduto entro un anno dall'atto di donazione. L’Agenzia delle entrate, in passato, si era occupata della possibilità di reiterare l’agevolazione “prima casa” nell’ipotesi di un acquisto a titolo gratuito (donazione) seguito da un acquisto a titolo oneroso, ammettendo la facoltà di beneficiare più volte della misura agevolativa in oggetto. Con la ris. n. 86/E del 4 luglio 2017, invece, l’Amministrazione finanziaria, nel caso opposto, ovvero di utilizzo dell’agevolazione per l’acquisto a titolo oneroso seguito da quello a titolo gratuito (per donazione), ha negato tale possibilità di reiterazione dei benefici fiscali di cui trattasi. L’agevolazione per l’acquisto a titolo oneroso Ai sensi della nota II-bis dell’art. 1 della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. 131/1986, l’agevolazione “prima casa” spetta al contribuente che renda necessariamente in sede di rogito notarile per l’acquisto dell’abitazione non di lusso le seguenti dichiarazioni: -che l’immobile è ubicato nel territorio del comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro 18 mesi dall’acquisto la propria residenza o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria attività ovvero, se trasferito all’estero per ragioni di lavoro, in quello in cui ha sede o esercita l’attività il soggetto da cui dipende ovvero, nel caso in cui l’acquirente sia cittadino italiano emigrato all’estero, che l’immobile sia acquisito come “prima casa” sul territorio italiano. La dichiarazione di volere stabilire la residenza nel comune ove è ubicato l’immobile acquistato deve essere resa, a pena di decadenza, dall’acquirente nell’atto di acquisto; -di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è situato l’immobile da acquistare; -di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale, dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le stesse agevolazioni. In base al successivo quarto comma dell’anzidetta nota II-bis), in caso di dichiarazione mendace o di trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con l’agevolazione in oggetto prima del decorso del termine di 5 anni dalla data del loro acquisto, l’agevolazione è revocata e sono dovute le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, nonché una soprattassa pari al 30% delle stesse imposte. Se si tratta di cessioni soggette a IVA, l’ufficio dell’Agenzia delle entrate presso cui sono stati registrati i relativi atti recupera nei confronti degli acquirenti la differenza tra l’imposta

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calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata e irroga la sanzione amministrativa del 30% della differenza medesima. La suddetta revoca dell’agevolazione e le relative sanzioni non si applicano qualora il contribuente, entro un anno dalla cessione dell’immobile oggetto di acquisto agevolato, provveda ad acquistarne uno nuovo da adibire a propria abitazione principale. I benefici fiscali per le successioni e donazioni Ai sensi dell’art. 69, comma 3, della legge 342/2000, le imposte ipotecaria e catastale sono applicate nella misura fissa (attualmente di € 50) per i trasferimenti della proprietà di case di abitazione non di lusso e per la costituzione o il trasferimento di diritti immobiliari relativi alle stesse, derivanti da successioni o donazioni, quando, in capo al beneficiario, ovvero, in caso di pluralità di beneficiari, in capo ad almeno uno di essi, sussistano i requisiti e le condizioni previste in materia di acquisto della prima abitazione dall’art. 1, comma 1, quinto periodo, della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 131/1986. Inoltre il successivo comma 4 prevede che le dichiarazioni di cui alla già citata nota II-bis) siano rese dall’interessato nella dichiarazione di successione o nell’atto di donazione. L’Agenzia delle entrate, con la circ. n. 2/E/2014, ha precisato che, nonostante il quinto periodo del primo comma dell’art. 1 non esista più nella nuova formulazione del testo di legge (a seguito delle modifiche legislative apportate a decorrere dal 2014), rimane comunque ancora applicabile l’agevolazione prevista per le imposte ipocatastali nel caso di trasferimenti di immobili “prima casa” per donazione o successione, stante il persistente richiamo alla nota II-bis) da parte dell’art. 69 sopra riportato. Dette imposte quindi, a decorrere dal 2014, trovano applicazione nella misura fissa, restando altresì dovute le imposte di bollo, le tasse ipotecarie e i tributi speciali catastali. Peraltro, con la circ. n. 44/E/2011, l’Agenzia ha precisato che, per la registrazione di un atto di donazione, se di valore inferiore ai limiti stabiliti per le franchigie, non è dovuta imposta di registro. Il riferimento alle case di abitazione “non di lusso” rimasto nel testo dell’art. 69 già menzionato, secondo l’Agenzia delle entrate, deve essere considerato, alla luce delle modifiche normative intervenute, come relativo alle abitazioni appartenenti alle categorie catastali diverse dalle A/1, A/8 e A/9, che la nuova disciplina “prima casa” esclude dall’agevolazione. Agevolato l’acquisto a titolo oneroso dopo la donazione Alla luce di quanto sin qui illustrato, è possibile che un contribuente possa reiterare i benefici fiscali di cui trattasi, avvalendosene sia per un acquisto a titolo oneroso, sia, per esempio, per una donazione? Di ciò si era già occupata in passato l’Amministrazione finanziaria, che, con la circ. n. 44 del 7 maggio 2001 (par. 1), aveva chiarito che l’applicazione dell’agevolazione “prima casa” per l’acquisto di un immobile tramite successione o donazione non preclude la possibilità, in sede di successivo acquisto a titolo oneroso di altra abitazione, di fruire degli stessi benefici fiscali, attesa la diversità dei presupposti che legittimano l’acquisto del bene in regime agevolato; mentre, in caso di ulteriore acquisizione per successione o donazione, i soggetti che hanno già fruito dell’agevolazione in argomento non possono goderne nuovamente, salvo che il trasferimento abbia a oggetto quote dello stesso bene. Le medesime conclusioni sono state ulteriormente ribadite dall’Agenzia delle entrate con la successiva circ. n. 18 del 29 maggio 2013 (par. 5.4). In conclusione, quindi, un contribuente può fruire dell’agevolazione “prima casa” per l’acquisto tramite donazione di un immobile - quindi con applicazione delle sole imposte ipotecaria a catastale nella misura di € 50 ciascuna, rimanendo invece dovuta in misura ordinaria l’imposta di donazione - e successivamente può avvalersi della medesima agevolazione per l’acquisto a

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titolo oneroso di altro immobile, in questo caso beneficiando sia dell’aliquota ridotta dell’imposta di registro (o dell’IVA), sia delle imposte ipo-catastali in misura fissa, atteso quanto affermato dall’Agenzia delle entrate nei suoi documenti di prassi, ovvero «la diversità dei presupposti che legittimano l’acquisto del bene in regime agevolato». Escluso dal bonus l’acquisto a titolo oneroso dopo la donazione Proprio in forza di quest’ultima considerazione dell’Amministrazione finanziaria, espressa nelle due circolari richiamate nel precedente paragrafo, un contribuente ha chiesto all’Amministrazione finanziaria di potere reiterare l’agevolazione “prima casa” anche nell’ipotesi opposta a quella considerata, ovvero di acquisto di un immobile per donazione, però dopo essersi già avvalso in passato degli stessi benefici fiscali per l’acquisto a titolo oneroso di altro immobile. L’Agenzia, con la ris. n. 86/E/2017 in commento, ha negato tale possibilità, spiegando sostanzialmente che il senso dell’espressione «la diversità dei presupposti che legittimano l’acquisto del bene in regime agevolato», utilizzata per giustificare in passato la possibilità di reiterare i benefici in oggetto nel caso di acquisto a titolo oneroso successivamente alla donazione, non è quello inteso dal contribuente, per cui sarebbe stato possibile reiterare l’agevolazione anche nel caso inverso di donazione successiva all’acquisto a titolo oneroso. L’Amministrazione finanziaria ha ricordato infatti che, ai sensi della lett. c) della nota II-bis) già citata, le agevolazioni “prima casa” spettano a condizione, tra l’altro, «che nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le agevolazioni di cui al presente articolo ovvero di cui all’art. 1 della legge 168 del 22 aprile 1982, all’art. 2 del D.L. 12 del 7 febbraio 1985, convertito, con modificazioni, dalla legge 118 del 5 aprile 1985, all’art. 3, comma 2, della legge 415 del 31 dicembre 1991, all’art. 5, commi 2 e 3, dei D.L. 14 del 21 gennaio 1992, del D.L. 237 del 20 marzo 1992 e del D.L. 293 del 20 maggio 1992, all’art. 2, commi 2 e 3, del D.L. 348 del 24 luglio 1992, all’art. 1, commi 2 e 3, del D.L. 388 del 24 settembre 1992, all’art. 1, commi 2 e 3, del D.L. 455 del 24 novembre 1992, all’art. 1, comma 2, del D.L. 16 del 23 gennaio 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge 75 del 24 marzo 1993 e all’art. 16 del D.L. 155 del 22 maggio 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge 243 del 19 luglio 1993». Secondo l’Agenzia delle entrate, poiché la sopra riportata disposizione non richiama, tra le previsioni agevolative che impediscono la reiterazione dell’agevolazione, la norma introdotta dal citato art. 69 della legge 342/2000, allora, il soggetto che, a seguito di un acquisto a titolo gratuito agevolato, intende fruire dei benefici “prima casa” in sede di acquisto a titolo oneroso, si trova nelle condizioni di potere rendere la dichiarazione prevista dalla lett. c) della nota II-bis), potendo quindi utilizzare i benefici fiscali di cui trattasi anche per tale successivo acquisto a titolo oneroso di altra abitazione. Per le medesime ragioni, tuttavia, secondo l’Amministrazione finanziaria, la possibilità di reiterare il trattamento agevolativo “prima casa” non può essere riconosciuta, in linea generale, nel diverso caso in cui il contribuente, che ha già fruito delle agevolazioni in sede di acquisto a titolo oneroso, proceda all’acquisto di un nuovo immobile a titolo gratuito. Come ricordato, infatti, anche per fruire delle agevolazioni previste, ai fini delle imposte ipotecarie e catastali, dall’art. 69 della legge 342/2000, devono sussistere le condizioni previste dalla nota II-bis) e dunque l’agevolazione risulta preclusa nel caso in cui il contribuente risulti già titolare di un diritto acquisito con le agevolazioni di cui all’art. 1 della Tariffa, Parte prima, allegata al D.P.R. 131/1986, ovvero sulla base delle altre disposizioni agevolative richiamate dalla lett. c) della predetta nota, salvo che non ricorrano i presupposti per l’applicabilità della previsione recata dal comma 4-bis della nota II-bis). Nella parte conclusiva del documento di prassi è stato ricordato infatti che l’art. 1, comma 55, della legge 208 del 28 dicembre 2015 (legge di Stabilità per il 2016), nell’inserire il nuovo

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comma 4-bis nella nota II-bis) della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 131/1986, ha ampliato l’ambito applicativo delle agevolazioni “prima casa”, prevedendo la spettanza dei benefici fiscali in oggetto anche per gli «atti di acquisto per i quali l’acquirente non soddisfa il requisito di cui alla lett. c) del comma 1 e per i quali i requisiti di cui alle lettere a) e b) del medesimo comma si verificano senza tenere conto dell’immobile acquistato con le agevolazioni elencate nella lett. c), a condizione che quest’ultimo immobile sia alienato entro un anno dalla data dell’atto». Il nuovo regime, in buona sostanza, consente al contribuente di fruire delle agevolazioni “prima casa” in relazione all’acquisto di un nuovo immobile, ancorché risulti già in possesso di altra abitazione acquistata con le agevolazioni, a condizione tuttavia che si impegni ad alienare l’immobile preposseduto entro un anno dal nuovo acquisto agevolato. Come chiarito con la circ. n. 12 dell’8 aprile 2016 (quesito 2.3), la nuova disciplina agevolativa riservata alla “prima casa” trova applicazione anche con riferimento agli acquisti effettuati a titolo gratuito, in quanto l’art. 69, commi 3 e 4, della legge 342 del 21 novembre 2000 rinvia espressamente alle condizioni previste dalla nota II-bis) all’art. 1 della Tariffa, Parte prima, allegata al D.P.R. 131/1986. La modifica delle condizioni stabilite dalla nota II-bis) esplica effetti quindi anche ai fini dell’applicazione delle agevolazioni “prima casa” in sede di successione o donazione e pertanto il contribuente che ha già acquistato un’abitazione a titolo oneroso, fruendo delle agevolazioni “prima casa”, potrà richiederle nuovamente in sede di successione o donazione, impegnandosi a rivendere, entro l’anno dall’acquisto del nuovo immobile agevolato, l’immobile preposseduto. Alla luce di tali nuove disposizioni, l’Agenzia ha puntualizzato che il contribuente che risulta già in possesso di un immobile acquistato a titolo oneroso fruendo delle agevolazioni di cui alla nota II-bis) posta in calce all’art. 1 citato potrà richiedere nuovamente le agevolazioni riservate alla “prima casa” in occasione della stipula di un successivo atto di donazione, a condizione tuttavia che, nel predetto atto, si impegni a vendere entro l’anno dal nuovo acquisto l’immobile preposseduto. Doppia "prima casa" per un anno anche se l'acquisto è a titolo gratuito L’art. 69, commi 3 e 4, della legge 342/2000 dispone l’applicazione delle imposte ipotecaria e catastale nella misura fissa per i trasferimenti della “prima casa” derivanti da successioni o donazioni, «quando, in capo al beneficiario ovvero, in caso di pluralità di beneficiari, in capo ad almeno uno di essi, sussistano i requisiti e le condizioni previste in materia di acquisto della prima abitazione dall’art. 1, comma 1, quinto periodo, della tariffa …», richiedendo che «le dichiarazioni di cui alla nota II-bis dell’art. 1 della tariffa, … sono rese dall’interessato nella dichiarazione di successione o nell’atto di donazione». Il rinvio del citato art. 69 ai requisiti e alle condizioni di cui alla nota II-bis) all’art. 1 della Tariffa, Parte Prima, allegata al D.P.R. 131/1986 è idoneo a estendere l’applicabilità del comma 4-bis della medesima nota anche all’acquisto a titolo gratuito per il quale la condizione di cui alla lett. c) non sussista al momento del trasferimento, purché entro l’anno l’immobile preposseduto venga alienato. L’Agenzia delle entrate, al punto 2.4 della circ. n. 12/E/2016, ha puntualizzato che, nell’atto di donazione o nella dichiarazione di successione con cui si acquista il nuovo immobile in regime agevolato, dovrà risultare l’impegno a vendere entro l’anno l’immobile preposseduto.

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FIAIP News24 – Settembre 2017 46

CASI PRATICI

Agevolazioni fiscali

SE NELLA RISTRUTTURAZIONE È COMPRESO ANCHE IL BOX

D. Nel 2016 è stato registrato un compromesso per l'acquisto di un immobile (abitazione principale) comprensivo delle pertinenze (box e cantina). Poiché si tratta di un immobile interamente ristrutturato, il cui rogito avverrà entro 18 mesi dalla fine dei lavori, la detrazione Irpef del 50% delle spese fino a 96 mila euro (nel limite del 25% del prezzo dell'abitazione), riconosciuta per gli immobili ristrutturati, è cumulabile con la detrazione prevista per l'acquisto del box nel limite del 50% del costo di costruzione, su documentazione rilasciata dall'impresa? In sostanza, al 50% di 96mila euro si può aggiungere anche il 50% del costo di realizzo del box? ----- R. La risposta è negativa, nell’ipotesi in cui anche il box faccia parte dell’edificio interamente ristrutturato da un'impresa. Infatti, il box, in tal caso, non risulta di nuova costruzione, ma ristrutturato. La detrazione del 50 per cento (ex articolo 16-bis, comma 3, del Tuir, Dpr 917/1986, e articolo 1, comma 2, lettera c, n. 1 e n. 4, della legge 11 dicembre 2016, n. 232, di Bilancio per il 2017; si veda anche la guida al 50% su www.agenziaentrate.it) si applica anche per l’acquisto di abitazioni poste in edifici interamente ristrutturati da imprese di costruzione, o da cooperative edilizie, che provvedano, entro 18 mesi dalla fine dei lavori, alla vendita dell’immobile. Per tale fattispecie, la detrazione del 50% viene riconosciuta (solo all’acquirente privato, e non all’impresa costruttrice) forfettariamente sul 25% del corrispettivo d’acquisto dell’abitazione, nel limite massimo di 96.000 euro, a condizione che l’intervento di recupero abbia interessato l’intero fabbricato (l’applicabilità della maggiore detrazione anche a tale fattispecie è stata riconosciuta nelle istruzioni alla dichiarazione dei redditi e nella circolare 29/E del 2013). Per fruire della detrazione, è necessario che prima della cessione l’intervento di ristrutturazione sia ultimato e che la cessione della singola unità immobiliare avvenga inderogabilmente entro i 18 mesi dall’ultimazione dei lavori (con comunicazione al Comune e richiesta di agibilità). L’agevolazione può applicarsi anche per le unità diverse da quelle di tipo residenziale (per esempio, casa e box) solo nell’ipotesi in cui vengano acquistate contestualmente a quelle abitative e siano qualificate in atto quali pertinenze di queste ultime. In tal caso, però, la detrazione del 50% dev'essere calcolata sul 25% del prezzo risultante dall’atto di compravendita, riferito a entrambe le unità immobiliari (casa e pertinenza), nel limite massimo unico di 96.000 euro. Viceversa, in tal caso la detrazione non compete autonomamente proprio perché non si tratta di un box di nuova costruzione, bensì di un box risultante da intervento di ristrutturazione. (Marco Zandonà, Il Sole 24ORE – Estratto da “L’Esperto Risponde”, 21 agosto 2017)

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DEDUCIBILITÀ ONERI ACCESSORI SU MUTUI PER ACQUISTO IMMOBILI IN CLASSE ENEGETICA ELEVATA

D. La deduzione Irpef del 20% del costo di acquisto (in base all’articolo 21 del decreto legge 133/2014) può essere calcolato sulla parte del prezzo entro i 300mila euro (Iva compresa), ma anche sugli interessi passivi dipendenti dai mutui contratti per l'acquisto delle unità immobiliari in questione. Si chiede il parere dell'esperto sulla possibilità di dedurre gli oneri accessori, in quanto spese necessarie alla stipula del contratto di mutuo quali oneri fiscali (imposta sostitutiva), spese di istruttoria, spese notarili e spese perizia tecnica. ----- R. L'articolo 21 del decreto legge 133/2014 (convertito dalla legge 164/2014) introduce un'agevolazione fiscale a favore di contribuenti, persone fisiche, che acquistano case in classe energetica elevata per destinarle alla locazione a canoni inferiori a quelli di mercato. L'agevolazione è riconosciuta ai soggetti Irpef, persone fisiche non esercenti attività d'impresa, che nel quadriennio 2014-2017 acquistano immobili residenziali ad alta performance energetica (Classe A, B) di nuova costruzione, rimasti invenduti al 12 novembre 2014, ovvero oggetto di interventi incisivi di recupero. Una volta acquistati, tali immobili devono essere destinati, entro i 6 mesi successivi alla compravendita, alla locazione a canoni ridotti (concordato, speciale o convenzionato) per almeno 8 anni continuativi. Nello specifico, al contribuente vengono riconosciute due tipologie di agevolazioni cumulabili fra loro: una deduzione dall'Irpef pari al 20% del prezzo dell'immobile, nel limite massimo di 300mila euro. La deduzione massima sarà, quindi, pari a 60mila euro e dovrà essere ripartita in 8 quote annuali di pari importo (7.500 euro l'anno) dal periodo d'imposta in cui è concluso il contratto di locazione; una deduzione dall'Irpef degli interessi passivi relativi ai mutui stipulati per l'acquisto delle unità abitative oggetto dell'agevolazione. Il decreto interministeriale Infrastrutture-Economia 8 settembre 2015 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 3 dicembre 2015 n. 282) attuativo delle disposizioni, non ha fornito ulteriori chiarimenti sulla deducibilità degli oneri accessori inerenti la stipula del mutuo per l'acquisto delle case. Pertanto, si ritiene possa applicarsi la stessa disciplina prevista dall'articolo 15 del Tuir Dlgs 917/1986. In particolare, gli oneri accessori possono essere detratti solo nel primo anno del mutuo. Tra gli oneri accessori si comprendono, tra gli altri, la commissione spettante agli Istituti per la loro attività di intermediazione, gli oneri fiscali (compresa l'imposta per l'iscrizione o la cancellazione di ipoteca e l'imposta sostitutiva sui mutui), le spese notarili, le spese di istruttoria, di perizia tecnica). Le spese notarili comprendono l'onorario del notaio per la stipula del contratto di mutuo e le spese sostenute dallo stesso per conto del cliente (per esempio quelle per l'iscrizione e la cancellazione dell'ipoteca). L'onorario e le spese del notaio per il contratto di compravendita non sono, invece, deducibili. (Marco Zandonà, Il Sole 24ORE – Estratto da “Quotidiano del Fisco”, 1 settembre 2017)

Compravendita immobiliare

AGIBILITÀ NON NECESSARIA AI FINI DELLA VENDITA

D. Sono in procinto di vendere una casa e possiedo il permesso di approvazione comunale, del 27 aprile 1973, per i lavori di ristrutturazione che sono stati a suo tempo eseguiti sull'immobile. Il notaio mi richiede il certificato di abitabilità/agibilità, da lui considerato necessario per stipulare l'atto di compravendita. Ho fatto una ricerca all'ufficio edilizia del Comune, ma non si riesce a trovare questo documento.

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È corretta la richiesta del notaio? Per vendere la casa è obbligatorio questo documento, anche nel caso di lavori fatti nel 1973? Il Comune, allora, era obbligato a rilasciarmi tale certificazione anche senza una mia esplicita richiesta, pur avendomi rilasciato l'approvazione per i lavori, con tanto di timbro sulla piantina? In caso di risposta negativa, posso chiedere adesso al Comune tale certificazione? ----- R. Il Testo unico in materia edilizia del 2001 ha introdotto il cosiddetto “certificato di agibilità”, rilasciato dal Comune con la funzione di certificare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti. Il fatto che l’immobile sia sprovvisto di tale documento, come nel caso specifico, non impedisce comunque la conclusione di un valido contratto di compravendita, sempre che l’acquirente sia consapevole della sua assenza. Quindi occorrerà precisare per iscritto, al momento del rogito, che non è stato possibile reperire, nei competenti uffici comunali, la documentazione attestante il rilascio del certificato di abitabilità/agibilità, ma che la parte venditrice, in ogni caso, dichiara che l’immobile presenta i requisiti stabiliti dalla legge ai fini del suddetto rilascio, assumendosi ogni relativa responsabilità nei confronti della parte acquirente, che, dal canto suo, può accettare di proseguire la compravendita esonerando il venditore dalla presentazione dell’atto in questione. In ogni caso, va segnalato che il certificato può essere ottenuto anche per immobili già costruiti che ne siano sprovvisti, avviando una nuova pratica in Comune. Quanto al notaio, egli non assume alcuna responsabilità in ordine alla sussistenza o meno del certificato di agibilità, dovendo assolvere l’esclusiva incombenza di informare le parti e riportare la conseguente dichiarazione giurata del venditore nell’atto. (Maurizio Di Rocco, Il Sole 24ORE – Estratto da “L’Esperto Risponde”, 28 agosto 2017)

Condominio

INGIUNZIONE AL MOROSO: ESCLUSI I COSTI PER SOLLECITI

D. evo chiedere un decreto ingiuntivo a nome di un condominio. In precedenza, quale legale, ho provveduto a inviare una diffida al condomino moroso, avvertendolo espressamente che i relativi costi sarebbero stati imputati a suo esclusivo carico. Non avendo ricevuto il pagamento degli oneri condominiali e dei costi della diffida, devo procedere in via monitoria. Vorrei quindi sapere se posso inserire, nell'importo complessivamente azionato, anche le spese relative alla diffida stragiudiziale. ----- R. La risposta è negativa, nel senso che i compensi di avvocato per le lettere di sollecito non possono essere chiesti al condomino moroso con decreto ingiuntivo (salvo che siano liquidati dal competente Ordine professionale). Infatti, il condominio non può accollare, mediante una delibera assembleare, i costi della raccomandata (comprese le competenze del legale) al condomino debitore (Cassazione 24696/2008). Nello stesso senso - anche se in una fattispecie un po’ diversa - si veda la sentenza di Cassazione 30 dicembre 2016, numero 27509, secondo cui «è contrario ad ogni principio generale del sistema normativo italiano e, in ogni caso, ai princìpi che governano i rapporti all’interno di un condominio, che le spese affrontate per il recupero dei contributi dovuti dal condomino moroso siano posti interamente a carico del medesimo».

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Di conseguenza, il pagamento dei compensi di avvocato per le raccomandate di sollecito – salvo che siano stati liquidati dal competente Ordine professionale – non possono essere ritenuti crediti né certi, né liquidi, né esigibili, a norma degli articoli 633 e 636 del Codice di procedura civile, richiedibili mediante decreto ingiuntivo. (Matteo Rezzonico, Il Sole 24ORE – Estratto da “L’Esperto Risponde”, 4 settembre 2017)

ASSEMBLEA OK ANCHE SENZA IL PREVENTIVO DI GESTIONE

D. Il mio amministratore di condominio ha convocato l'assemblea ordinaria annuale solo per l'approvazione del bilancio consuntivo, senza prevedere e allegare alla convocazione un progetto di bilancio preventivo e di riparto delle spese, e neppure la sua conferma, nonostante gli avessi chiesto (via posta elettronica certificata) di inserire quest'ultimo punto all'ordine del giorno. Ciò non renderà nulla l'assemblea? ----- R. È compito dell’amministratore di condominio convocare annualmente l’assemblea, anche per l’approvazione del preventivo di gestione. In proposito, l’articolo 1135, comma 1, del Codice civile (in tema di "attribuzioni dell’assemblea dei condòmini”) dispone che l’assemblea provvede: «1) alla conferma dell’amministratore e all’eventuale sua retribuzione; 2) all’approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l’anno e alla relativa ripartizione tra i condomini; 3) all’approvazione del rendiconto annuale dell’amministratore e all’impiego del residuo attivo della gestione». Tuttavia, la mancata predisposizione del preventivo di gestione non comporta la nullità dell’assemblea. Né il mancato inserimento - nell’ordine del giorno - dell’argomento nomina/rinnovo dell’amministratore influisce sulla legittimità della delibera (Tribunale di Milano, 7 ottobre 2015). Tanto più che l'articolo 1129, decimo comma, del Codice civile stabilisce che «l’incarico di amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata». In tale contesto, possiamo solo evidenziare al lettore che, in qualunque momento, due condòmini che rappresentino 1/6 del valore dell’edificio possono chiedere la convocazione dell’assemblea condominiale, in via straordinaria, proponendo gli argomenti da inserire nell’ordine del giorno. E che, pur non essendoci un obbligo di allegare all'avviso di convocazione la documentazione (ad esempio, del preventivo di gestione, del rendiconto consuntivo e dei riparti), secondo la giurisprudenza può comportare l’annullabilità della delibera assembleare il comportamento dell’amministratore che non consenta di esaminare la documentazione al condomino che ne faccia richiesta (in questo senso, si veda, per tutte, la sentenza della Cassazione 12650/2008, secondo cui «la violazione da parte dell’amministratore del diritto di ciascun condomino di esaminare, a sua richiesta, secondo adeguate modalità di tempo e di luogo, la documentazione attinente ad argomenti posti all’ordine del giorno di una successiva assemblea condominiale determina l’annullabilità delle delibere ivi successivamente approvate, riguardanti la suddetta documentazione, in quanto la lesione del suddetto diritto all’informazione incide sul procedimento di formazione delle maggioranze assembleari»). (Matteo Rezzonico, Il Sole 24ORE – Estratto da “L’Esperto Risponde”, 4 settembre 2017)

LE INFILTRAZIONI INTERNE E L'ADDEBITO DEI COSTI

D. In seguito a un problema di infiltrazione dal bagno del mio appartamento verso l'appartamento sottostante, ho contattato l'amministratore per attivare l'assicurazione condominiale. L'amministratore mi ha dunque mandato il muratore, che ha riparato il danno. Solo in seguito si viene a sapere che l'assicurazione non copre quel tipo di danno. Il muratore emette comunque, a mia insaputa, una fattura al condominio, e i costi vengono inseriti a mio

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carico nel rendiconto delle spese di ordinaria amministrazione. Dietro mia richiesta di spiegazioni, vista l'entità dell'importo delle quote da versare al condominio, vengo a sapere che si tratta del pagamento della fattura del muratore. Può l'amministratore inserire in fattura al condominio costi per lavori privati (che vengono quindi addebitati solo a me)? ----- R. È preliminarmente necessario sapere se le infiltrazioni di cui parla il lettore siano dovute alla braga condominiale o alle tubature orizzontali della proprietà individuale. Nel primo caso, le spese devono essere addebitate a tutti i condòmini in proporzione dei rispettivi millesimi di proprietà; nel secondo caso, devono essere addebitate al singolo condomino, nel rispetto di eventuali diverse disposizioni del regolamento condominiale. In definitiva, se i danni sono stati causati dalla braga, le spese di riparazione devono essere addebitate al condominio, con fattura intestata a quest’ultimo e la conseguenza che l’amministratore non possa addebitarle al condomino, a titolo di spese personali. Se invece i danni sono stati causati dalla parte dell’impianto idrico di proprietà individuale, le relative spese devono essere addebitate al singolo condomino, al quale va intestata la fattura. (Silvio Rezzonico, Il Sole 24ORE – Estratto da “L’Esperto Risponde”, 4 settembre 2017)

Professione

AGENTI IMMOBILIARI: NECESSARIO IL DIPLOMA

D. Una persona di 55 anni perderà il posto di lavoro. Tenuto conto dell'età e della scarsa possibilità di offerte (pur avendo svolto un lavoro di "commerciale" in un'azienda di moda), ha deciso di prendere la partita Iva per svolgere in proprio l'attività di agente immobiliare. Poiché è in possesso della licenza elementare e non del diploma, le è stato negato lo svolgimento di tale attività. Esiste una possibilità di evitare tale restrizione, alla luce dell'attività svolta nel commerciale, che permetta a questa persona di concretizzare i suoi sogni? ----- R. La legge 3 febbraio 1989, n. 39, all’articolo 2, comma 3, lettera d), prevede anzitutto, fra i requisiti per l’attività di agente immobiliare, che il richiedente abbia assolto agli impegni derivanti dalle norme relative agli obblighi scolastici vigenti al momento dell’età scolare. Inoltre, alla lettera e) dello stesso comma, la legge richiede il possesso di un diploma di scuola secondaria di secondo grado, la frequenza di un corso di formazione e il superamento di un esame; in alternativa, oltre a tale diploma, un periodo di pratica di almeno dodici mesi continuativi con frequenza di uno specifico corso di formazione professionale. La mancanza dei requisiti indicati impedisce l’attività di agente immobiliare. (Piero Gualtierotti, Il Sole 24ORE – Estratto da “L’Esperto Risponde”, 7 agosto 2017)

IL PERITO NON «CONCILIA» CON L'AGENTE IMMOBILIARE

D. Ho un diploma di perito agrario e una partita Iva attiva alla libera professione. Esercito come perito agrario, come consulente di lavori edili, nonché come responsabile della sicurezza e altro. Sono socio di due società: un'immobiliare, con impresa edile, dove detengo il 4,76% della nuda proprietà (con diritto di usufrutto a mio padre che detiene il 2,58% della proprietà) e una società finanziaria in cui detengo il 5% (e mio padre il 50%). Posso esercitare e svolgere

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attività di mediatore immobiliare a terzi e alla mia partecipata? Che strade ci sono per mettermi in regola con le funzioni di mediatore immobiliare di diritto? ----- R. Si ritiene che il lettore non possa svolgere attività di intermediazione immobiliare, essendo questa incompatibile con l'attività professionale svolta. Infatti, secondo l’articolo 5, comma 3, della legge 39/1989, «l'esercizio dell'attività di mediazione è incompatibile: a) con l'attività svolta in qualità di dipendente da persone, società o enti, privati e pubblici, ad esclusione delle imprese di mediazione; b) con l'esercizio di attività imprenditoriali e professionali, escluse quelle di mediazione comunque esercitate». Quindi, volendo svolgere la funzione di mediatore, compreso quello immobiliare, il lettore deve in primo luogo cessare la professione di perito agrario. Deve inoltre possedere i seguenti requisiti: essere maggiorenne; avere conseguito almeno il diploma di scuola secondaria di secondo grado; avere seguito uno specifico corso (nel senso che deve essere autorizzato) propedeutico all'esame tenuto presso le Camere di commercio e superare questo esame (per gli agenti immobiliari, due prove scritte e una orale); non essere incappato in particolari condanne penali indicate dalla legge 39 del 1989 (delitti contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica, eccetera). Inoltre, come già detto, non devono sussistere cause di incompatibilità previste dalle legge (attività professionali/imprenditoriale e di dipendenza da società/enti/persone che non svolgono attività di agente immobiliare).Occorre anche la stipula di una polizza assicurativa per la copertura della responsabilità civile professionale (comma 5-bis, articolo 3, legge 39/1989).Infine, il lettore dovrà presentare, presso la Camera di commercio della provincia in cui intende fissare la sede dell'attività, la cosiddetta Scia (segnalazione certificata di inizio attività), che consente di iniziare a esercitare dalla data della sua presentazione (salvo le successive verifiche) e che dà diritto al rilascio del patentino quale agente immobiliare. (Alessandra Pacchioni, Il Sole 24ORE – Estratto da “L’Esperto Risponde”, 24 luglio 2017)