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Libertá di Parola 1/2010 —— IL TEMA LETTErE AL cArcErE L'INcoNTro INVIATI NEL MoNDo a pag. 16 Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) L' EDITorIALE La miseria di una dignità o la dignità di una miseria di Pino roveredo continua a pagina 2 a pagina 14 a pagina 6 a pagina 4 coMIX Mi ricordo la testa bassa di mio padre, e i muscoli inutili della sua disoccupazione che stringe- vano tra le braccia la mia età bambina, mentre ci accompa- gnava nel tragitto quotidiano per andare a riempire il biso- gno del pranzo, un bisogno che non si consumava né in trattoria e né in ristorante, ma più sem- plicemente o normalmente nel ritrovo rumoroso del refettorio comunale. Erano gli anni ’60 e in Italia, dopo le tristezze del dopoguer- ra, stava scoppiando il “boom” economico, un sollievo finanzia- rio che sconvolse la modestia di uno stile, offrendo a un’umiltà di vivere la comodità delle “600”, il frigorifero e la tivù con due ca- nali. Un benessere distratto, non accessibile a tutti, e che si scordò di tutte quelle fatiche che vive- vano o sopravvivevano nei sot- toscala della condizione. Nel refettorio, ricordo, girava un’incredibile musica di posate e pignatte, e sopra le tavolate c’erano bocche più grandi del viso che, con l’urgenza della fame, ingoiavano portate di pa- ste scotte, minestre verdi, e rotoli di mortadella scura. In quel sottoscala si viveva con poco, niente, e mangiando pane e speranza, si andava avanti con i refettori, i piccoli sussidi, i buoni vestiario, e col sudore an- sioso per i minimi acquisti pagati con i “conti in sospeso”. No, non si viveva bene, però ci si difen- deva perché dalla nostra aveva- mo la forza della solidarietà, ma soprattutto il sacrosanto rispetto di una dignità, perché, allora, la miseria non era un’umiliazione da indicare, ma una normale condizione da sopportare. Oggi invece, siamo più moderni, e per questo siamo diventati (o ci vogliono) tutti più esigenti… Oggi, per non essere indicati a dito, abbiamo bisogno come la fame: dell’abito firmato, l’ab- bronzatura giusta, il cellulare ultima moda, e una vetrina per nascondere la sofferenza di una condizione. Oggi, per stare al passo e per non essere strozzati da una povertà silenziosa, dob- biamo imporci la fatica dei “pri- mi in classifica”, perché i secondi, APProFoNDIMENTo Donne e salute È un binomio ad incastro che parte da un concetto fisico e medico, raggiunge quello estetico e mentale e finisce in uno ancora più ampio che è affettivo, emotivo e so- ciale. Questa la prospettiva rispetto alla quale abbiamo fotografato la situazione della salute delle donne, italiane e straniere, della nostra provin- cia. Il tutto prendendo spunto dal convegno sul tema “Don- ne e salute” che a febbraio la nostra associazione ha or- ganizzato in città assieme a “Donne in rete” di Milano. a pagina 9 a pagina 2 EVENTI a pagina 17 La Storia della Panka a fumetti: puntata n° 3 Monica, missionaria di pace in colombia Pet therapy e orti sociali alla cooperativa Arca rdP visita il castello delle occasioni perdute Famiglie di fronte alla crisi. La fatica di arri- vare a fine mese Fenomeno Avatar

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LIberta di Parola Il giornale dei Ragazzi della Panchina

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Libertá di ParolaN°1/2010 ——

IL TEMA

LETTErE AL cArcErE

L'INcoNTro

INVIATI NEL MoNDo

a pag. 16

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

L' EDITorIALE

La miseria di una dignitào la dignità di una miseriadi Pino roveredo

continua a pagina 2

a pagina 14

a pagina 6

a pagina 4

coMIX

Mi ricordo la testa bassa di mio padre, e i muscoli inutili della sua disoccupazione che stringe-vano tra le braccia la mia età bambina, mentre ci accompa-gnava nel tragitto quotidiano per andare a riempire il biso-gno del pranzo, un bisogno che non si consumava né in trattoria e né in ristorante, ma più sem-plicemente o normalmente nel ritrovo rumoroso del refettorio comunale.

Erano gli anni ’60 e in Italia, dopo le tristezze del dopoguer-ra, stava scoppiando il “boom” economico, un sollievo finanzia-rio che sconvolse la modestia di uno stile, offrendo a un’umiltà di vivere la comodità delle “600”, il frigorifero e la tivù con due ca-nali. Un benessere distratto, non accessibile a tutti, e che si scordò di tutte quelle fatiche che vive-vano o sopravvivevano nei sot-toscala della condizione.Nel refettorio, ricordo, girava un’incredibile musica di posate e pignatte, e sopra le tavolate c’erano bocche più grandi del viso che, con l’urgenza della fame, ingoiavano portate di pa-ste scotte, minestre verdi, e rotoli di mortadella scura. In quel sottoscala si viveva con poco, niente, e mangiando pane e speranza, si andava avanti con i refettori, i piccoli sussidi, i buoni vestiario, e col sudore an-

sioso per i minimi acquisti pagati con i “conti in sospeso”. No, non si viveva bene, però ci si difen-deva perché dalla nostra aveva-mo la forza della solidarietà, ma soprattutto il sacrosanto rispetto di una dignità, perché, allora, la miseria non era un’umiliazione da indicare, ma una normale condizione da sopportare.Oggi invece, siamo più moderni, e per questo siamo diventati (o ci vogliono) tutti più esigenti… Oggi, per non essere indicati a dito, abbiamo bisogno come la fame: dell’abito firmato, l’ab-bronzatura giusta, il cellulare ultima moda, e una vetrina per nascondere la sofferenza di una condizione. Oggi, per stare al passo e per non essere strozzati da una povertà silenziosa, dob-biamo imporci la fatica dei “pri-mi in classifica”, perché i secondi,

APProFoNDIMENTo

Donne e saluteÈ un binomio ad incastro che parte da un concetto fisico e medico, raggiunge quello estetico e mentale e finisce in uno ancora più ampio che è affettivo, emotivo e so-ciale. Questa la prospettiva rispetto alla quale abbiamo fotografato la situazione della salute delle donne, italiane e straniere, della nostra provin-cia. Il tutto prendendo spunto dal convegno sul tema “Don-ne e salute” che a febbraio la nostra associazione ha or-ganizzato in città assieme a “Donne in rete” di Milano.

a pagina 9

a pagina 2

EVENTI

a pagina 17

La Storia della Pankaa fumetti:puntata n° 3

Monica, missionaria di pace in colombia

Pet therapy e orti sociali alla cooperativa Arca

rdP visita il castello delle occasioni perdute

Famiglie di fronte alla crisi.La fatica di arri-vare a fine mese

Fenomeno Avatar

Lavori e strategie anche nel settore alimentare al fine di li-mitare i danni in questo perio-do di vacche magre: anche i supermercati cittadini avvertono una flessione delle vendite e di conseguenza dei margini di pro-fitto. La concorrenza la fa da pa-drona, i soldi nelle tasche della gente sono sempre di meno ed

Ersilia è in cassa integrazione da gennaio 2009. Per lei la povertà è la paura di non avere più una vita dignitosa

PErDErE IL LAVoro A 50 ANNI

intervista a cura della redazione

Ersilia è una signora friulana di circa cinquant’anni, è sposata e ha un figlio venticinquenne. Dal 2001 lavora come operaia alla Safilo di Martignacco, vicino a Udine. Ersilia è una delle tante “vittime” di ri-strutturazioni aziendali imposte dall’imperversare della crisi economica contingente. Come per molti altri suoi colleghi, infatti, all’inizio del 2009 anche per lei è arrivata, tra capo e collo, la messa in cassa integrazio-ne da parte della azienda.

Ersilia, dopo quasi dieci anni di lavoro, non è di certo una notizia facile da digerire. Cosa ha pensato nel sentirsi annunciare questo provvedimento?“Io e i miei colleghi lo abbiamo appreso da un Tg regionale. Spera-vamo ci fosse stato uno sbaglio. Ed invece ci siamo ritrovati dentro ad un brutto sogno. Tra i tanti pensieri ed emozioni che inevitabilmente mi

sono saliti alla mente, la principale è stata la paura di non arrivare a fine mese”.

Da quel giorno ha partecipato a un lungo periodo di mobilitazione sindacale per impedire la ristrutturazione della sua azienda. Lo ha fatto assieme ai suoi colleghi: cosa significa condividere un mo-mento così difficile?“Ci sono stati tre mesi di presidio davanti allo stabilimento, 16 ore al giorno di presenza garantita dagli operai, compreso il giorno di Pa-squa. Per me è stata un'esperienza unica, di quelle che fanno crescere, pensare, che sviluppano la coscienza sociale, che uniscono, che fanno capire che solo se si rimane uniti si può avere una voce. Purtroppo molti colleghi hanno delegato ad altri, ai sindacati piuttosto che ai politici, la risoluzione dei nostri problemi. Secondo me in quel momento era

penultimi e ultimi, meritano solo che lo scarto dell’inutilità. Oggi, le braccia dei quarantenni, cin-quantenni, valgono meno di niente, e dentro un mondo che allunga l’età, rischiano di veder-si condannare il diritto di lavoro e vita, nella castrazione disoccu-pata di un “niente da fare”!Oggi, dopo che i manigoldi sen-za controllo si sono ingrassati con la modernità dell’”euro”, non esi-stono più vie di mezzo, e le con-dizioni sono costrette a dividersi nell’estremità di una forbice. Da una parte il beneficio dei privile-gi, dei raccomandati, dei mana-ger multimilionari, e dei politici che si aumentano lo stipendio fingendo di combattere le nostre miserie, e dall’altra la colpa di chi non fa il “furbo”, di chi paga le tasse, e di chi è costretto a sopportare in silenzio la pesan-tezza di un’indigenza. In mezzo a questa “forbice” gira l’apatia di un giustizia, giustizia astratta, che tratta l’equità della bilancia con la misura dell’indifferenza.Oggi, ricordando l’abbraccio dei vecchi refettori, mi sconvol-go l’animo per tutte le coscienze senza coscienza che vincono la vita con l’ingiustizia dell’ingiusto, e che cancellano le fatiche di vi-vere col disturbo dell’ingombro, o peggio, con la colpa vergo-gnosa di essere le vittime di una miseria. Con tanta rabbia…

Indagine tra gli scaffali dei supermercati cittadini, termometro della crisi, dove si ri-nuncia al superfluo per sé, ma non per gli amici a quattro zampe

MENo SFIZI NEL cArrELLo DELLA SPESA

di Guerrino Faggiani

La miseria di una dignità...di Pino roveredo

segue dalla prima pagina

accalappiarseli richiede una lot-ta giornaliera di mosse e contro-mosse. I discount sono quelli che avvertono meno la crisi, facilitati dal fatto che offrono prodotti già di per sé a prezzi concorrenziali. Ma delle flessioni si registrano anche qui, dei cambiamenti. Le fila dei soliti habituè sono rinfolti-te da nuovi clienti di ceto diverso

dagli abituali target dei discount, ovvero da dottori... professionisti.. I market rispondono con pro-mozioni di ogni tipo, rilancian-do ancora gli articoli di primo prezzo, cioè quei prodotti sotto prezzati nati per contrastare la conquista del mercato da parte dei discount nella loro invasione degli anni ‘80. Netta l’oculatezza nello spendere dimostrata dal cliente, anche i pordenonesi si tolgono meno sfizi, il superfluo alcuni non se lo possono proprio permettere. Ad esempio questi clienti il caffé lo prendono, an-che se prestando attenzione al rapporto qualità prezzo, mentre la cioccolata o il budino lo la-sciano sullo scaffale. Con gli ali-menti da banco in generale, c’è anche chi rinuncia al prodotto di pregio al quale è affezionato da tempo per ripiegare su simi-lari meno costosi. Negli articoli d'impulso, quelli che il cliente non ha nella lista della spesa, quelli che incuriosiscono e che sotto l'impulso del momento non si resiste a non mettere nel car-rello, la lotta è aperta con idee, promozioni ed esposizioni ad effetto per invogliare la cliente-la alla scoperta di nuovi articoli. Nell'alimentazione dei bambini invece è un po' diverso, è un settore in cui i genitori non cer-cano soluzioni alternative. Sugli scaffali cartellini di sconti, pro-mozioni da perderci la testa a leggerli tutti, ovunque, in ogni settore tranne... fateci caso, con i prodotti destinati agli animali, alimentazione e quant'altro. Qui le offerte sono sparute, è infatti assieme a quello dell’alimenta-zione per bambini, il settore che registra la minor flessione.

Una manifestazione in provincia di Pordenone. Foto Missinato

da sole e per le quali si rivolgono, direttamente o per il tramite delle parrocchie, alla Caritas. Famiglie disperate per l’assenza di prospet-tive lavorative, a volte con redditi vistosamente ridimensionati ed in casi più gravi privi di qualsiasi en-trata. “Di fronte a tutto ciò - affer-ma il sindaco di Pordenone, Ser-gio Bolzonello – è fondamentale la collaborazione tra i vari organi istituzionali, e quindi parrocchie e servizi sociali in primis. All’interno di questa rete – aggiunge – è poi importante, per meglio affrontare l’emergenza sociale, sapere chi fa cosa e realizzare un intervento strutturato. Stiamo cercando di far fronte ad una situazione preoccu-pante, mentre i fondi sono in di-minuzione e se ne prevede un’ul-teriore calo negli anni a venire”. Osservando in modo alternativo l’incidenza della crisi economica sulla nostra società, appare mol-to chiaro che non è più possibile cercare solamente di rivedere in maniera radicale il proprio stile di vita in base al reddito. Ci si pro-pone come comunità di far si che tutto l’apparato economico venga rimesso in discussione, bisogna rendere ogni singolo individuo consapevole del fatto che le risor-se economiche sono un bene di tutti, e che la vita deve essere di-gnitosa per ciascun individuo del-la nostra società, una condizione a lui dovuta.

Il “Centro di ascolto Caritas” è lo strumento con cui la Caritas dio-cesana di Pordenone si propone di ascoltare e aiutare le persone che si trovano in situazioni di di-sagio. E’ un metodo di coinvolgi-mento del territorio, a partire dalle parrocchie e dai servizi sociali di base, nell’ottica di azioni condi-vise e nel rispetto di ruoli e com-petenze. I dati che al suo interno sono stati raccolti nell’ultimo anno rappresentano un’importante car-tina di tornasole per tracciare lo stato dell’arte in cui si trova oggi il nostro territorio dal punto di vista di povertà e di disagio so-ciale, conseguenti alla crisi che sta colpendo il paese. E’ innan-zitutto drammatico il quadro che ne esce: alla Caritas nel 2009 le richieste di aiuto sono aumentate del 20 per cento rispetto all’anno precedente. Ad allarmare c’è poi un secondo dato: sta crescendo infatti anche il numero delle fa-miglie italiane a rischio povertà. “Se nel 2008 la crisi era alle porte – conferma Paolo Zanet, direttore della Caritas diocesana pordeno-nese - possiamo dire che ora ci siamo dentro in pieno e di certo non si vedono cambi concre-ti di direzione. Le difficoltà in cui vivono le molte persone che ci hanno chiesto aiuto sono di una tale intensità da apparire a tratti insostenibili”. A confermare la fo-tografia sociale del nostro territorio ci sono anche gli strumenti messi in campo. Nel 2009 per iniziativa diretta del Vescovo, Monsignor Ovidio Poletto, la Diocesi di Con-cordia Pordenone ha promosso la costituzione del “Fondo straor-dinario di solidarietà”, una misura necessaria per aiutare in maniera concreta le persone e le famiglie colpite dalla crisi economica. Il Fondo è stato costruito con il coin-volgimento diretto dei sacerdoti della Diocesi invitati dal Vescovo a destinare a questo progetto una mensilità del loro stipendio, inte-grato da un lascito e da ulteriori offerte (la disponibilità totale è di 226.000 euro). Significativo inoltre è anche l’apporto in questa situa-zione di emergenza del Medio Credito del Friuli Venezia Giulia, che ha destinato alle quattro Ca-ritas diocesane del Friuli Venezia Giulia un sostanzioso contributo a sostegno delle iniziative promossa dalle Province: qui gli euro desti-nati alla nostra Diocesi sono pari a 50.000. Affitti, bollette, prestiti, rate, mutui: sono queste le necessità quotidiane cui molte famiglie rie-scono sempre meno a fare fronte

Il lavoro? Me lo invento!di Laura Serra

In questo ultimo anno, con l’aumento della crisi economica e l’as-senza totale di lavoro, ci si deve ingegnare per avere almeno delle esigue entrate di denaro per far fronte alle spese quotidiane. Circa un anno fa, ho conosciuto un ragazzo argentino che per “sbarcare il lunario” si alzava ogni mattina e con i suoi strumenti di lavoro, pren-deva la corriera, facendo il giro di tutta la città e dei paesi vicini, andando a chiedere ai negozianti se avevano bisogno di farsi lavare le vetrate del negozio. Questo è un chiaro esempio di come ci si può inventare un lavoro. Ogni tanto lo incontro e gli chiedo come va e lui mi racconta che ora si è fatto un giro di clienti anche a Mestre e Ve-nezia e che questo mestiere gli permette di sopravvivere abbastanza dignitosamente. Anche io sono disoccupata da tempo e ho dovuto arrangiarmi, cercando qualcosa che potessi fare seguendo le mie attitudini. Avendo la passione per l’arte in genere e la creatività, un anno fa mi è venuta l’idea di creare delle candele artigianali, e così assieme al mio fidanzato, ho fatto il giro dei vari negozi di “fai da te” in cerca del materiale necessario. Cominciata questa piccola avven-tura, dopo un anno, ho alcuni clienti fissi che mi chiedono candele di vari colori, varie forme, profumate o meno. Anche un parroco mi ha chiesto candele per Natale e per Pasqua! Insomma non si guadagna un granché, ma almeno qualche bolletta la riesco a pagare. Ora ho cominciato a fare la presentatrice per una casa di cosmetici e mi sto procurando il materiale anche per fare la “ricostruzione unghie” ma-nicure e nailart. Di questi tempi ci si deve arrangiare, tirando fuori un po’ di inventiva e di coraggio, nell’attesa di tempi, si spera, migliori.

Tutorial su yuotube alla voce: "Turorial candele fatte in casa"

caritas, sempre più famiglie con l'incubo della fine del mesedi Vittorio Agate

importante prendere parte in modo più partecipato e diretto”.

Ci spiega cosa significa nella vita di tutti i giorni essere un cassain-tegrato?“La cassa integrazione è una riduzione drastica dello stipendio ed è paradossalmente una fortuna, rispetto a chi non ha nemmeno quella. La si vive come fosse una candela che si spegne, lentamente, perché si è consci del fatto che, tempo qualche mese, non si avrà neppure quel-la. Il tutto con un'altra pesante consapevolezza: ovvero che le possibilità di trovare lavoro, specie per chi ha una certa età, sono pochissime. Cer-to con la cassa integrazione si ha del tempo libero. Purtroppo, a parte il fatto di non essere capaci a gestirlo perché abituati ai ritmi prima imposti da famiglia e lavoro, è un tempo che non ha la leggerezza di una normale vacanza o periodo di riposo. Personalmente trovarmi in cassa integrazione mi fa provare un certo senso di umiliazione. Spesso anche i conoscenti si lasciano scappare commenti su chi prende soldi anche senza lavorare, come se un lavoratore che fino a prima era una risorsa per la comunità, ora, suo malgrado, sia diventato semplicemen-te un peso sociale”.

Anche alla luce della sua situazione lavorativa, cos’era per lei la povertà? E cos’è invece ora, per lei e per la sua famiglia?Come la si affronta?“La povertà è la paura di non poter più avere una vita dignitosa. Que-sta paura aumenta le tensioni in famiglia: si pensa a come ridurre le spese, ma certe famiglie già dovevano farlo in precedenza ed ora non sanno come fare. Secondo me a livello pratico il problema si affronta in due modi. Da un lato l'invito che faccio è a mobilitarsi in prima persona senza chiudersi nell'apatia e nel qualunquismo e, dall'altro, è quello di cogliere tutte le opportunità che il mercato offre, come quelle ad esempio dei lavori socialmente utili o di corsi di formazione. Tutto questo nella speranza che i venti di tempesta passino quanto prima”.

DAL BoN INTENDITor..

A luce spenta continuo a pensare alle storie notturne che vanno per la strada dell’insonnia. Il pensiero si incaglia lì. E’ proprio vero che la società sta cambiando esattamente come vogliono i pochi potenti della terra: multinazionali, petrolio, Tv, farmaci, cibo e armi. Questi sono i veri padroni della terra, altro che politica! Come da una parte una nuova ignoranza aumenta, dall’altra l’intelligenza si estingue, o accumula soldi pure quella. E in nome di cosa? In nome di quel maledetto consumismo di cui tutti siamo diventati abili schiavi, succubi di una dominante con-fusione, che vuole svuotare la vita da ogni senso profondo. Ci stiamo trasformando sempre più in involucri vuoti, magari griffati pronti all’uso, la sostanza è stata sostituita dall’apparenza. Il pensiero di non aver figli a cui lasciare in eredità tanto disorientamento, immondizia e miseria, in parte mi consola. Siamo già in tantissimi, posso benissimo fare a meno

cara madre Terra, sei contenta?Stiamo andando verso l’autodistruzio-ne, ma chi governa pensa al profittodi Gigi Dal Bon

Pordenone, 11 febbraio 2010

Ciao a tutti i Ragazzi della Panchina, Ho avuto oggi il piacere di conoscere qualche ragazzo dei vostri tramite la visita alla casa circondariale di Por-denone; anche se era una breve visita, mi ha stimolato di avere un po’ di coraggio di parlare. Sono il detenuto Mohamed, tunisino e ho 39 anni, sono da 10 anni in Italia, sono condannato a 3 anni e 10 mesi per spaccio di stupefacenti, tossicodipendente senza speranza fino ad ora, perché tan-te volte ho cercato di risolvere i miei problemi trovandomi in un problema ancora più grande. Mi ricordo il primo spinello che ho fumato, quante risate, un ridere no stop, mentre adesso mi trovo in un fiume di lacrime no stop. Basta ricordarmi di mia madre che non vedo da 10 anni e mi si spez-za il cuore. Qualche volta penso che morirò senza vederla. Sono caduto nel tunnel nero della droga. Scusami mamma, sono fallito, questa sarà la mia vita. No ragazzi, io parlo e scrivo quattro lingue diverse (inglese, francese, tedesco, italiano e arabo), ho fatto tanti lavori (ho lavorato in un albergo, come receptionist, ho fatto il cameriere e il magazziniere ), tutto in nero, non ho quel pezzo di carta che si chiama permesso di soggiorno. La vita è dura per uno straniero tossico, che sa fare e non ha il potere di fare, questa è la sfiga. Ho la voglia di uscire da questo modo di vita che non è il mio, però da solo non poso fare niente. Qui in Italia non ho nessuno che mi aiuta, sono da 10 mesi in carcere, senza aiuto economico. Faccio il turno di pulizie di qualcun altro in cella per avere qualche sigaretta. O qualche volta scrivo lettere a qualcuno per avere un po’ di shampoo o sapone. (… …). Ragazzi questa è una goccia nel mare amaro. Sto soffren-do e chiedo il vostro aiuto. Spero di avere una risposta, una spinta per sentirmi un essere umano. Chiedo la vostra umanità. Ho tanta fiducia in voi. Grazie per essere comprensivi, sono un caso fra tanti, sono fortunato di avere un’altra possibilità di sentirmi vivo. I miei saluti al Dottore e Guerrino, saluti a Ada Moznich (viva Juve), in bocca al lupo a Luca e complimenti. Grazie raga i miei distinti saluti. B.M.

Pordenone, 25 febbraio 2010

Sono stato contento di ricevere la vostra lettera e grazie mille per la rispo-sta e i francobolli. Grazie Raga! La lettera mi ha portato tanto affetto che mi manca e la vostra solidarietà mi ha toccato il cuore. Oggi sono andato alla messa, per cambiare aria, sono stanco del letto in cella e tutti i brutti pensieri. Sapete che la lettera è meglio della terapia ch mi danno, una terapia che ti rovina. (… …) Ragazzi, scusate se chiedo a voi, perché non ho nessuno e mi sento male. So bene che ostacoli avete incontrato nella vostra strada, almeno faccio come voi. Sarà la speranza la mia arma per affrontare questi periodi di depressione. Ragazzi, grazie ancora una volta per tutto. Alla prossima, aspetto la vostra risposta. B.M.

Alle 10.30 di una mattina di feb-braio i cancelli del Castello, il car-cere di Pordenone, si sono aperti davanti a noi, delegazione di “li-beri”. Partiti da un’idea coltivata e cresciuta con amore da Ales-sandro Zamai, medico dell’Azien-da sanitaria da sempre al nostro fianco, e dal direttore dello stes-so istituto di detenzione, Alberto Quagliotto, alla fine noi Ragazzi della Panchina siamo arrivati a questa giornata inusuale. La pri-ma della nostra storia associativa trascorsa dentro al carcere cittadi-no. Calati di colpo nel clima car-cerario, mentre ci si liberava del proibito che avevamo addosso, non si riusciva a non sbirciare ol-tre all’ultima porta che ci separa-va dal cortile interno. Controllati i permessi, consegnati i documenti ed eruditi dalle guardie sul da farsi, finalmente siamo entrati. Se-condini, collaboratori, saluti strette di mano e poi sù, anche le scale sentivamo diverse dalle nostre di tutti i giorni. Guidati lungo un corridoio, alcune celle passava-no mostrandoci uno spaccato di vita da reclusi: letti, pentolini, cal-zini. Siamo arrivati in una stanza in fondo con la porta aperta. Ci siamo guardati intorno, c’era un

coDIcE A SBArrE Nel castello delle occasioni perdutePer la prima volta una delegazione dei RdP a

colloquio con i ragazzi del carcere cittadino

di Guerrino Faggiani

tavolo con alcune sedie davan-ti e il muro tutt’intorno, e sbarre. “Ora arrivano, intanto prendete pure posto”, ci hanno detto ad un certo punto. Noi quattro (io, Ales-sandro, Luca e Ada) ci siamo sistemati dietro al banco mentre i primi cominciavano ad arriva-re. Entravano alla spicciolata, chi dentro dritto, chi guardandoci incuriosito: a quel punto le sedie venivano occupate sempre più, fino a quando per raggruppar-ci tutti ne sono servite delle altre. Una volta rimediate, tutto si è fer-mato. C’erano 36 detenuti seduti a guardare noi, e noi a guarda-re loro. C’era di tutto, visi giovani e maturi, aperti ed ermetici, con occhi vispi e spenti, tutti fermi ad aspettare noi. E’ stato così che il dottore Zamai è partito con le presentazioni. Ben presto l’incon-tro ha cominciato a sciogliersi e si è cominciato a parlare assie-me. Le esigenze di un cambio di guardia hanno fatto però finire troppo presto il tempo a nostra disposizione, proprio quando si stava entrando nel vivo della no-stra reciproca conoscenza tra noi, i Ragazzi della panchina, e loro, i detenutiti del carcere cittadino. E’ stata un esperienza forte e coin-

Ricordate Lucio Dalla e la canzone l’Anno che verrà? Scrivere. Sono passate le feste di Natale, siamo già da un po’ nell’anno nuovo e non ho ancora scritto nulla, né lettere né cartoline di auguri. Ho finito di scontare la pena e sono passati già nove mesi da quando sono uscito dal carcere. All’inizio ho scritto un paio di lettere ai vecchi compagni di sventura che stanno ancora dentro, poi non ho più avuto il coraggio di spedire due righe che fossero due. Mi tornavano in mente gli sguardi un po’ invidiosi di chi doveva restare lì ancora del tempo; le uscite ironiche tipo: “Quando pensi di tornare?”; oltre ai soliti: “Mi raccomando fai il bravo”. Ma per tutti c’era la speranza, l’idea che ci sarà un domani, fuori dall’inferno di muri, chiavi e cancelli. Tu esci e sei carico, sei consapevole di avere tante possibilità che quanti restano non hanno e che invece desiderano. Hai tanta voglia di fare qualcosa di positivo per te e in fondo ciò che di più bello puoi scrivere a un detenuto è proprio: “Caro amico ho finalmente una vita regolare, sto bene”. Le prime volte scrivevo che non me la passavo male e che presto avrei trovato un lavoro. Scrivevo che, anche se la ricerca stava andando per le lunghe, io ero tranquillo. Invece di lavoro, vuoi per l’età o per la crisi o per sfiga, non ne è venuto fuori manco uno. I soldi stanno finendo. Quando sei dentro fai progetti: sogni e desideri di cambiare anche se costerà fatica e sacrificio. Come faccio a scrivere che, dopo tutti questi mesi, non ho ancora trovato nulla? Non posso dire a uno che vuol cambiare e ricominciare, e che sa che lo potrà fare solo attraverso un lavoro: “Da quando sono uscito non è cambiato nulla”. Stare in carcere è poco piacevole, ma per lo meno si vive sempre guardando avanti e pensando al domani, ad uscire. Per questo, per me scrivere la verità significherebbe uccidere la speranza e quel poco di bello a cui i mie ex compagni di cella riescono a pensare stando li. Per questo non ho più scritto, per non dover mentire. Però poi succede che mi ricordo anche dei momenti in cui, mentre sei dentro, ti capita di ricevere della posta, è un attimo di felicità: qualcuno ti scrive, ti ha pensato, si ricorda di te. In quei momenti mi sono chiesto: “Ma è davvero così brutta per me?”. Infondo non sto male e non ho guai. Non sono ricco, ma nemmeno mi manca qualcosa. Tutti sarebbero felici di essere fuori a queste condizioni. Perciò, alla fine, Caro amico ti scrivo… perché sono certo che la mia lettera ti regalerà un bel momento, a te che lì dentro non ne hai molti di bei momenti.

AMIco MIo TI ScrIVo

di trasmettere i miei geni. La terra mi ringrazierà. E poi per raccogliere cosa, le briciole di un inganno durato tutta l’esistenza? Per svegliarsi un giorno con la pancia piena e il cuore vuoto? Credo che un indice di ciò che siamo lo vedo in autobus, andando al lavoro. Lo trovo nella gente che usa il mezzo pubblico: vecchi, ragazzi pieni di energia e strafottenti, extracomunitari, badanti, mamme con bambini, forse in ansia per il loro futuro. Gente che ha poco; giovani che hanno tanto e non se ne rendo-no conto. Li spedirei alla velocità della luce in India, in Africa, insomma dove non c’è niente, se non disperata sopravvivenza. Chissà se così, dal niente, potrebbero assaporare il tutto in un modo diverso. Altrimenti è tutto vuoto. Eppure il messaggio non passa, per chi ha già tanto no di sicuro. Poca educazione, niente spirito nè grazia e riconoscimento per quello che si ha. Si vuole sempre di più, di più e poi per fortuna alla fine la morte ci accontenta tutti, privandoci del peso di ogni illusione terrena. Dal mio posto in prima fila, come candidato privilegiato, credo di poter dire che solo un rapporto costante con la morte apre veramente la mente. Se ad esempio tutti, almeno tre volte al giorno, meditassimo sulla morte magari prima di riempirci la bocca, forse il mondo sarebbe migliore, se non altro un po’ meno obeso e più pieno di consapevolezza e uguaglianza. Se, per dire, condissimo quotidianamente la pasta con un po’ di morte ci accontenteremmo di molto meno, pretenderemmo di meno e ci sentiremmo meglio. Se ad esempio, quando salutiamo un nostro caro, pensassimo che potrebbe essere l’ultima volta che lo vedia-mo, saremmo tutti più sereni e amorevoli l’uno con l’altro. Insomma: cara morte meno male che ci sei tu a cambiarci la prospettiva! E meno male che ci sono gli extracomunitari, quelli volenterosi, lavoratori legati ancora ai sani principi di austerità. Un giorno ho sentito raccontare una storia che rende molto bene ciò

che intendo. Narrava di un viandante che passò per un cimitero, sulle cui tombe erano segnate le date di persone morte giovani. Il viandante chiese ad un passante perché erano morti tutti così giovani e quello gli rispose che non si trattava dell’età, ma che quelli segnati sulle tombe erano piuttosto i giorni che ciascuno di loro aveva effettivamente vissuto da vivo. E si! La vita se ne va presto e, se lasciata andare in distrazioni. lavoro e “cazzate”, i giorni vissuti veramente si riducono a poche man-ciate, settimane o mesi forse. Ci pensate? Che tristezza! Ci vuole un po’ di consapevolezza, perlomeno ecologica. Sento che il mondo per primo se ne sta andando! Eh già! Tirerà le cuoia? Credo ne abbia proprio le “palle piene” di noi umani. Da una parte lo tartassiamo di test nucleari a tutti i livelli di profondità, d’altra gli togliamo l’aria. Siamo proprio degli ingrati. Prendiamo tutto quello che ci dà e cosa le restituiamo? Della “monnezza”, con gli interessi pure atomici, e non ce lo vogliamo proprio ficcare in zucca che senza il mondo e la natura non andiamo da nes-suna parte, noi e i figli di quelli di noi che li hanno. Si parla da anni del business dell’acqua: povera acqua, dove stiamo andando, cosa ci aspetta? Oggi pensavo a questo in autobus, mentre osservavo la gente, i nostrani e gli extracomunitari pieni di speranza per l’evoluzione dei loro figli. Beh! Sappiamo che l’Italia fra qualche anno sarà gialla, nera, grigia e anche latina. Meglio così, ci vuole ricambio. Almeno, quando il paese nostro sarà desertificato, loro saranno avvantaggiati dal Dna. Non voglio passare per negativo o peggio ancora per ottimista, perciò propongo di lavorare tutti, belli, brutti, neri e bianchi, quattro ore al giorno, statali com-presi, stesso stipendio, più o meno, e tutto quello che ne consegue. Con il tempo libero ognuno cercherà di trovare nuovi interessi. E che non siano sempre “sti cazzo de schei”, e la carriera per avere una bella pensione, e già che ci siamo pensione uguale per tutti, sempre più o meno.

volgente, una stretta di mano tra il dentro e il fuori che ha tutta l’aria di voler continuare. Sull’onda del momento un ragazzo tunisino ha preso carta e penna e ha scritto una lettera alla sede, così d’im-pulso il giorno stesso; c’è anche chi ne ha lasciati passare alcuni di giorni prima di farlo, ma lo ha comunque fatto. Nelle loro lettere i detenuti del castello ci invitano a tornare a trovarli, a parlare delle nostre storie, a confrontar-le con le loro. A febbraio, era la prima volta che una nostra de-legazione entrava dietro quelle mura: un traguardo che sarà per entrambe le parti un trampolino di lancio per un progetto struttu-rato di scambio. Loro, i detenuti, ci chiamano pure per nome, uno ad uno. Ed anche noi speriamo si possa rifare tutto e sappiamo che è possibile. Anche in questo caso però la storia è sempre la stessa: in questo posto di occa-sioni sbagliate più o meno vo-lute, la miseria regna sovrana. Ci sono dei ragazzi arrivati da terre lontane che non sapevano nemmeno cosa fosse la vita nel nostro mondo, avevano una sola cosa ben chiara in testa, quella di partire. E soli, senza nessuno, si sono trovati in una realtà che li ha strapazzati senza dare loro il tempo di fermarsi a capire ed imparare. Si sono trovati incastrati in una esistenza di alcol e di so-stanze, e pure in galera. Ragazzi che non chiedono altro che po-tersi svegliare da questo incubo, che pensano alle loro terre, alla loro casa dove non sarebbero relegati nella pattumiera della società, dove tornerebbero anco-ra quelli di prima di partire. Non galeotti, ma ragazzi qualsiasi.

di Manuele celotto

«ciò che di più bello puoi scrivere a un detenuto è proprio: caro amico ho finalmente una vita regolare, sto bene»

Biologico non è solo un modo di definire ciò che è in natura, ma anche uno stile di vita. Si può parlare, pensare e vivere bio-logico. Ed è proprio con questa filosofia che l’anno scorso, con degli autofinanziamenti, la Coo-perativa sociale Arca ha sciolto dalle briglie l’idea di realizzare in una porzione di sei ettari di terre-no adiacenti alla propria sede di Azzanello un orto biologico certi-ficato. Raggiunto presto l’obiettivo dell’auto sostentamento, le mire si sono poi rivolte ad una maggio-re produzione in grado però di reggersi con le proprie gambe, senza dunque perdere di vista costi e profitti. Arca ha pensato bene di dare solidità al progetto rendendolo, com’è nel suo stile, un vantaggio per più soggetti, coinvolgendo anche il privato ovvero, in questo caso, i coltiva-tori di professione o per passione. Perciò, Arca al centro di un siste-ma a rete con una miriade di contatti: è con questo credo che

le collaborazioni prosperano con chiunque abbia qualcosa da dire sull’argomento. “Più siamo e meglio è – dice il presidente Pa-olo Rossi - e lo facciamo anche con il piacere di rispolverare tra-dizioni andate e i vecchi sistemi della nonna”. I vantaggi si misu-

rano da una parte nel coinvolgi-mento nei lavori della terra dei diversamente abili, soci e utenti di Arca, e dall’altra nella vendi-ta dei prodotti che da questi ne derivano e che contribuiscono al sostentamento della cooperativa. Sul progetto del Forum delle Fat-torie Sociali la Provincia di Porde-none ha creduto, fornendo ad esso i mezzi per sviluppare com-petenza in materia, e divulgarla a mezzo di forum e corsi atti ad abbattere l’analfabetizzazione del biologico. Per questo all’in-

Vivere biologico terno del piano triennale provin-ciale della disabilità, a febbraio, è stato indetto nei locali della cooperativa sociale di Azzanello un corso aperto a tutti con tema: “Programmazione trapianti ed impostazione di un orto biologi-co”. Si è trattato di una due giorni di programma che ha registrato una notevole affluenza, con con-fronti tra produttori e consumatori e con relazioni di insegnanti di ruolo e professionisti del settore. Il tutto condito da una megapa-sta finale che non ha per niente contrariato qualcuno. Un’affluen-za in quel caso che non cancel-la tuttavia l’isolamento in cui la cooperativa continua ad operare all’interno della frazione. Delusa forse dalla comunità di recupero sociale che ha prece-duto, nella medesima struttura, quella avviata da Arca nel 2006, la gente di Azzanello mostra in-fatti ancora una certa diffidenza e scarsa partecipazione verso i nuovi arrivati. Come per ogni buon raccolto, tuttavia, anche in questo caso il buon lavoro, il tem-po e la pazienza sapranno por-tare i loro frutti. Chi però se non Arca sa che chi semina bene raccoglie bene. Lo diceva anche la nonna.

di Guerrino Faggiani

AFFITTA UN orTo, Lo coLTIVErÒ PEr TE Visita alla cooperativa Arca di Azzanello, dove la disabilità incontra il lavorodi Milena Bidinost

Gigi, Giorgio, Stefano e Nadia sono i soci lavoratori di Arca, la coopera-tiva sociale per disabili di Azzanello di Pasiano di Pordenone che, dalla fine del 2006, si occupa di cura, di ricerca e di allevamento di animali destinati a fini riabilitativi. La stessa dallo scorso anno ha poi avviato, in via sperimentale, anche il progetto degli “orti sociali a chilometro zero” come mezzo di autofinanziamento e di interazione con il territorio. In questo senso, Arca svolge anche un ruolo di coordinatore all’interno

del Forum provinciale delle Fattorie Sociali. Immersa nella campagna della bassa pordenonese, nel silenzio di una distesa di ben sei ettari di terra di proprietà e certificata biologicamente (di cui utilizzabili la metà), Arca divide con Laboratorio Scuola una vecchia casa colonica di proprietà della Diocesi di Pordenone, ristrutturata e ampliata. Il Labo-ratorio da sette anni è una cooperativa di tipo A (con soci assistiti), che svolge un servizio di “casa famiglia” per minori in situazioni di disagio, per il tramite del Tribunale e dei servizi sociali. Proprio da una sua costola, tre anni fa, è nata Arca (cooperativa di tipo B, ovvero con soci lavoratori): questa da allora prosegue, in un rapporto di buon vicinato e di condivisione degli spazi, la sua corsa verso la realizzazione di un nuovo modello di Welfare. E’ del resto questa l’idea del suo padre fon-datore, l’attuale responsabile dei Servizi socio assistenziali dell’Azienda per il Friuli occidentale, Alberto Grizzo, che ha voluto sposare la natura con il potere riabilitativo del lavoro rispetto al disagio e alla disabilità, e a questi ultimi la forza di aggregazione del “fare rete” sul territorio. Ciò che ne è uscito è un progetto ambizioso. Gigi, Giorgio Stefano e Nadia sono disabili lavoratori e soci di Arca: ogni giorno con l’aiuto di due operatrici gestiscono la struttura, coltivano la terra in modo biologico e vendono i prodotti, si prendono cura dei cani della pensione e degli stessi asini e animali da cortile che qui sono dedicati alla pet therapy, l’altro fiore all’occhiello tra i servizi offerti. Come detto, assieme a loro, ai disabili, operano all’interno della struttura anche due dipendenti, Elena e Rosanna. Il presidente invece è Paolo Rossi: di giorno lavora in giac-ca e cravatta in una banca, tolte le quali dedica il tempo che gli resta ai ragazzi e alla campagna di Azzanello. “La cooperativa si sostiene con contributi pubblici (in particolare provinciali) - spiega Rossi –, con donazioni di privati e soprattutto con il lavoro dei soci”. Quindi, grazie agli orti sociali a chilometro zero che vengono affittati dalle famiglie per le quali i ragazzi coltivano i prodotti, grazie all’offerta di manodope-ra da parte dei soci ai contadini della zona e grazie anche alla gestio-ne della pensione per cani e alla pet therapy. “Crediamo che la forza della nostra idea – prosegue il presidente - stia nell’infinita possibilità di creare collaborazioni. Quelle in essere sono già numerose. Penso ad esempio all’Università di Udine che ci segue nei percorsi riabilitativi fin dalla nascita o all’associazione “Vivere la terra” che funge da contatto con il mondo del volontariato. Senza contare il Forum delle Fattorie sociali”. Nel cassetto le idee sono ancora molte: c’è, tra tutte, il progetto dell’Abitare sociale che è al tavolo di discussione tra Arca e il Comune di Pasiano. “L’altro punto di forza è che il nostro – conclude Rossi – è un modello di intervento sulla disabilità e sul sociale assolutamente replicabile ed esportabile. Si basa su un assunto molto semplice: l’agri-coltura non ha mai conosciuto la disabilità. Un albero cresce anche se chi lo innaffia è un disabile. Un animale riconosce l’affetto e il rispetto, indipendentemente da chi glielo dimostra”.

La mia esperienza lavorativa come educatore ha preso forma principalmente grazie al progetto individualizzato partito nel settem-bre 2008 e strutturato in favore di un ragazzo di 17 anni. Luca ha difficoltà a livello cognitivo e com-portamentale insorte durante l’età dello sviluppo e conseguenti allo spettro dell'autismo. Una chiusura in sé stessi, che è la particolarità dell'autismo stesso, assieme ad un certo grado di ritardo cogniti-vo e di stereotipie motorie e ver-bali del ragazzo, a livello di pro-gettazione dell'intervento, hanno limitato la possibilità di proporre programmi più incentrati su lavori di stampo classico. Il programma d'intervento proposto per Luca quindi, e strutturato con il coinvol-

Luca ha 17 anni ed è figlio unico. I suoi genitori di anni ne hanno circa quaranta e vivono in provincia di Udine. Luca è uno dei ragazzi ai quali è indirizzato un progetto individualizzato che ha come struttura di riferi-mento la cooperativa sociale Arca di Azzanello. Abbiamo incontrato la madre di Luca, che chiameremo con un nome di fantasia.

Sandra, ci racconta chi è vostro figlio?“Luca ha solo fisicamente 17 anni, ma psicologicamente è un bambino. E' molto affettuoso, ma anche testardo. Ad esempio, è molto legato alla sua routine. La sua sindrome autistica è “severa” tanto che, anche se ha frequentato le scuole dell'obbligo, non è in grado di leggere e scrivere”.

Come e quando avete saputo che …avrebbe avuto dei problemi? Qual è stata la vostra reazione? “L'abbiamo scoperto da soli quando Luca aveva due anni, in seguito ad un confronto con alcuni suoi coetanei, che ci sono intuitivamente sembrati più “maturi”. Ci siamo rivolti al suo pediatra, che però non ha saputo cogliere la gravità della situazione, consigliandoci di attendere l'entrata all'asilo. La situazione non migliorava e ha preso sempre più la forma di un'odissea. Ci siamo rivolti prima ad un logopedista, poi alla Neuropsichiatria Infantile di Udine, al Burlo Garofalo di Trieste, ad uno specialista di Siena. La cosa più dolorosa è stata vivere una mancanza di risposte per molti anni. Nel 1998 ci siamo finalmente rivolti alla fonda-zione “Bambini e autismo” di Pordenone: l'essere giunti a una diagnosi di autismo è stato ovviamente un brutto colpo, ma finalmente avevamo un qualche genere di certezza, da cui poter iniziare un percorso di mi-glioramento per nostro figlio”.

Cosa significa, nella vita pratica di tutti i giorni, per dei genitori vivere con un figlio con disabilità?“La vita risulta completamente stravolta, non c'è più niente di “normale”. Spesso si arriva molto stanchi a fine giornata e si desidera quasi an-dare a dormire per avere un po' di tranquillità. Luca ha bisogno della costante presenza di uno di noi e non può essere mai lasciato da solo. Dobbiamo chiudere sempre le porte a chiave per evitare che scappi e seguirlo anche nella cura della propria persona, in quanto stiamo anco-ra lavorando insieme a lui su questo tipo di autonomie”.

Pet therapy, l’avete provata. Qual è la vostra esperienza in merito e quali i risultati su vostro figlio?“Questo tipo di attività sono molto adatte per nostro figlio, in quanto sono in accordo con il piacere col quale trascorre del tempo all'aria aperta e a contatto con gli animali. Luca ha fatto una esperienza di ippoterapia quando frequentava le scuole medie, che è stata molto positiva. Per questo motivo ora siamo ben felici che possa entrare in contatto con questa realtà di Azzanello. Luca sta instaurando un buon rapporto con gli animali; constatiamo che va volentieri in questo centro e soprattutto torna a casa sereno”.

Se gli animali entrano nel recinto dell’uomoL'utilizzo della pet therapy nel percorso riabilitativo di Luca, un ragazzo affetto da autismodi Luca Marian

gimento delle cooperative sociali di Azzanello “Laboratorio Scuola” e “Arca”, prevede il prendere par-te a mansioni lavorative peculiari di una fattoria didattica, e quindi pulizia dei paddock degli anima-li, accudimento degli stessi e via dicendo. La pet therapy, in par-ticolare, è stata pensata per Luca come una organizzazione delle giornate che prevedesse l'entra-re a contatto con asinelli (onote-rapia), caprette, conigli e maiali. Queste attività assecondano la predisposizione dell'adolescente per la attività all'aperto e preve-dono per ciascun animale la pre-senza di sequenze e routine che vengono consolidate e ampliate a seconda del grado di dimesti-chezza dimostrato. Ad esempio,

Luca si occupa dell'accudimento delle caprette e dei maiali, della pulizia della lettiera dei conigli e della pulizia del paddock degli asinelli, oltre che della strigliatura degli stessi. Il contatto con i coni-gli si sta dimostrando terapeutico nella misura in cui Luca si sta pro-gressivamente de-condizionando dalla “tipica” paura per gli ani-mali piccoli e dei movimenti ve-loci. Gli autistici infatti hanno una predisposizione a “controllare” la realtà leggendola attraverso schemi fissi, che generano moda-lità stereotipate di relazione verso

il mondo, sia a livello verbale che motorio. Invece per quanto riguarda la terapia con gli asi-nelli la strigliatura si è dimostrata un momento rilassante per Luca, questo in primo luogo per il pelo morbido degli animali. In Luca il rapporto con gli animali si sta dimostrando estremamente utile per sostenere lo sviluppo del suo versante affettivo-emozionale, di quello ludico e di quello psico-motorio. L’animale in altre parole funge da "mediatore emoziona-le" e da "catalizzatore" dei pro-cessi relazionali.

AL SUo FIANco IN oGNI ISTANTE

intervista a cura della redazione

Vivere la quotidianità con nostro figlio, la fati-

ca, le difficoltà e la gioia per i suoi progressi

Siamo entrati a piedi costeggian-do la sbarra che custodisce l'in-gresso. Dal vetro della portineria una signora sorridente e gentile ci ha subito dato il via libera. Ci siamo incamminati per un viotto-lo del parco rado di piante, che portava nel cuore della struttura. Tra gli alberi, davanti a noi, sem-pre più nitidi avanzavano i ru-mori di centrali termiche e i fumi bianchi di caldaie che dai tetti si disperdevano nel freddo di quella gelida mattina d'inverno. Abbiamo scelto una porticina laterale del seminterrato. Come varcata la soglia, il mondo si è fermato. Corridoi vuoti, lunghi da finire in un rettangolino lon-tano. Finestrelle appena sotto il soffitto e luci al neon, non c'era anima viva. Solamente in sotto-fondo aleggiava, quasi spettrale con i suoi canti, la messa diffusa ovunque in tempo reale dalla chiesa che spuntava tra i palaz-zi del complesso. Senza saper dove andare camminavamo guardandoci attorno in attesa della fine della funzione e del popolarsi del posto. Ad un cer-to punto ci siamo accorti di una risonanza cadenzata che non si capiva cosa fosse e da dove venisse. I corridoi ai lati dell'arte-ria principale passavano deserti e vuoti fino a quando il suono è arrivato forte di colpo. Da un budello cieco svelatosi alla no-

Quella mattina in un mondo diversoTra gli ospiti del “cottolengo” di Padova, un luogo in cui le priori-tà dei "sani" perdono valoredi Guerrino Faggiani

L’Opera della Provvidenza Sant’Antonio

Al visitatore che arriva, la struttura come custodita dal mondo all'in-terno di un muro di cinta non si mostra in tutta la sua ampiezza. Come potrebbe? Trentatrè reparti in 10 unità residenziali, altri 4 adibiti ad infermeria diagnostica avanzata e cura con specifica per handicap psicofisici gravi. Più di 700 posti letto, palestra, un cinema teatro da 800 posti, sale d'accoglienza visitatori, servizi ed abitazioni a dispo-sizione degli operatori per un totale di 210.000 metri cubi. Questi al-cuni dei numeri dell'Opsa, l “Opera della provvidenza Sant'Antonio”, comunemente chiamata il “cottolengo” di Padova. Voluta dal vesco-vo Girolamo Bortignon nel 1955 alla sua prima visita pastorale nel territorio, dopo aver constatato il degrado in cui la zona versava, la struttura è operativa dal 19 marzo 1960. In quella data aprì le porte ai suoi primi ospiti, nove bambini con gravi disabilità.

stra destra, un signore solitario su una sedia a rotelle in un co-stante movimento della testa, produceva con la bocca quel suono che tutto ci aspettavamo tranne che fosse opera di una persona. Poi lontana è appar-sa lei: la macchina distributrice della cioccolata, solo cioccolata. Si staccava dalle pareti nude, unica e solitaria. Di fronte, al lato opposto del corridoio, addossate al muro una fila di sedie d'aspet-to. Da seduti ci siamo accorti che dietro avevamo un’infermiera che passeggiava, spingendo la carrozzina di un vecchio con la bocca bloccata in un sorriso, ed un ragazzo dall'età imprecisata con chiari segni di handicap con le mani sullo schienale che accompagnava il convoglio. Non capivamo se spingeva o se era a traino, probabilmente entrambe. La messa finì e fu si-lenzio. Pochi secondi ed in lon-tananza arrivarono dei rumori: da una laterale lontana dalla nostra vista, con un brusio di voci e di porte che battevano, una ciurma di figure ha comin-ciato a riversarsi nel corridoio, fino a formare un fronte che ha preso ad avanzare verso di noi, verso la macchina della ciocco-lata. Erano loro, gli ospiti, quelli liberi di girare, da qualche par-te ci sono anche quelli che non lo sono. Carrozzine, claudicanti,

dritti storti, tutti con il distributore nel mirino, un'armata Branca-leone all'assalto. Alcuni parenti, anche loro in attesa, le sono an-dati incontro. Arrivata al distri-butore l'onda umana si è sciolta e in un attimo ci siamo trovati attorniati da curiosi. Di alcuni si capiva davvero poco di quello che dicevano, c’era chi parlava a mandibole chiuse o chi far-fugliava con bocche deformi, però erano espansivi e l’intesa è venuta lo stesso. Una signora in carrozzina ha voluto mostrarci i suoi ninnoli e bracciali, con im-pegno si è pure sfilata un anello con le sue mani anchilosate. In disparte appoggiato al muro, uno sfortunato non aveva nean-che i 50 centesimi per la cioc-colata, ha trovato il coraggio di chiederceli quando ce ne stava-mo andando. E poi su, ai piani, guardandoci attorno. Ordine e pulizia ovunque, camerette an-che singole, spazi collettivi, sale ricreative, e tutto curato da mani

e gusto femminili. In quel posto non c’è un angolo lasciato a se stesso, guardandosi intorno non ci si può non chiedere quanto impegno e lavoro richieda que-sta struttura. Gli ospiti sono gli in-contrastati padroni, per loro c’è la dignità che ogni persona non dovrebbe vedersi negare mai e il rapporto più semplice e più sano che esista: a chi ha uno non gli si chiede due, e basta. E’ facile capire perché il mondo esterno a loro risulterebbe dele-terio, perché nel nostro mondo non funziona come nel loro: da noi loro verrebbero ferocemen-te isolati. All’uscita dalla casa di cura, rituffandoci nel freddo di quella gelida mattina, ave-vamo la sensazione di lasciare un posto in cui molte delle no-stre priorità non hanno in realtà alcun valore. Diversamente abi-li? Lo sono davvero, soprattutto nel vivere: loro si accontentano e godono di quello che hanno. Diversamente da noi.

L'APProFoNDIMENTo

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“Salute e donna”, un binomio ad incastro che parte da un concetto fisi-co e medico, raggiunge quello estetico e mentale e finisce in uno anco-ra più ampio che è affettivo, emotivo e sociale. Parlare di e promuove-re la salute delle donne, soprattutto oggi, significa elaborare approcci complessi che partano dalla complessità stessa dell’essere donna. Il quadro, anche nella nostra provincia, si può infatti osservare da più angolazioni. Le donne vivono di più (in media 83 anni contro i 76 degli uomini), ma una volta anziane hanno necessità di essere anche mag-giormente assistite. Secondo i dati forniti dall’Azienda sanitaria del Friuli occidentale relativi agli utenti domiciliari con piano d’assistenza fino al novembre 2009, le donne, infatti, erano il 63,1 % rispetto al 36,9% dei maschi. Ciò, come osserva il direttore generale dell’Ass6, Nicola Delli Quadri, significa che: “L’approccio alla salute delle donne oggi è molto complesso. Il fatto stesso che le donne in assistenza infermieristica, ad esempio, siano il doppio degli uomini e con una possibilità di vita di 18 anni in più rispetto alle coetanee di un tempo significa che spesso si tratta di donne sole. L’assistenza quindi deve anche tenere conto del disagio psichico”. Il tema della salute accompagna le donne in tutto il percorso della loro vita e in una società come la nostra che entra sempre di più in una dimensione multiculturale si arricchisce anche di aspetti nuovi che nascono, appunto, da culture diverse da quella italiana. Da adolescenti, il concetto di salute parte dalla prevenzione

rispetto al rischio di una gravidanza e dall’educazione sessuale, così come dalla prevenzione e dal vaccino rispetto al Papilloma virus (Hiv), principale causa del tumore al collo dell’utero. Da un punto di vista me-dico e guardando alle cause di ricovero registrate dall’Ass6 nel 2008, per pazienti femmine tra gli zero e i 14 anni, la diagnosi principale è legata a malattie dell’apparato respiratorio (177 su 1172 ricoveri totali). Seguono a ruota, le malattie di origine perinatale (165), altri fattori che influenzano lo stato di salute (159) e, giù dicendo, malattie dell’appa-rato digerente, del sistema nervoso e degli organi dei sensi. A metà della classifica, con 57 casi, ci stanno le diagnosi di tipo oncologico; 25 invece i casi di disturbi psichici e 2 quelli di gravidanza. Da adulta, in-vece, la donna si sdoppia e diventa anche madre. Gravidanze e parto infatti svettano in cima alla classifica dei ricoveri in ospedale nel caso di donne tra i 15 e 64 anni: ben 4.163 nel 2008 su un totale di 12.688. Da un punto di vista medico, invece, si evidenzia il rischio di tumori, pa-tologia che per le donne adulte nel 2008 ha causato ben 1.397 ricoveri, secondi solo a quelli per malattie dell’apparato genitourinario (1.875 ricoveri); con un aumento anche dei disturbi psichici (211). E’ del resto proprio in età adulta che inizia per la donna moderna la corsa all’equi-librio. Lavoro, casa, marito e figli: emerge un concetto di salute, estra-neo alle nostre madri e nonne, che investe anche la gestione pratica ed educativa, oltre che emotiva, dei figli e della famiglia in genere.

LA SALUTE DELLE DoNNEdi Milena Bidinost

Tremilatrecento persone passano al consultorio famigliare di Pordenone in un anno. Due terzi sono donne, soprattutto nella fascia dai 18 ai 48 anni. Nel 2009 gli operatori hanno seguito 250 gravidanze e 130 interru-zioni di gravidanza. I percorsi nascita durano sette mesi: iniziano circa due mesi prima del parto e continuano per quattro mesi dopo il parto. Il 55% delle donne in gravidanza seguite dal consultorio sono straniere, con oriz-zonti culturali spesso molto diversi dai nostri. La percentuale sale al 65% considerando le donne immigrate che decidono di affrontare l’interruzione di gravidanza. C’è un’attenzione particolare per le adolescenti, dai 13, 14 anni, che saran-no le donne di domani. Gli operatori iniziano a lavorare dall’informazione e promozione della salute nelle scuole, dove parlano delle malattie ses-sualmente trasmissibili, della maternità e della prevenzione di gravidan-ze indesiderate. Il lunedì pomeriggio, poi, c’è uno spazio giovani a cui si accede spesso per consulenze sulla sessualità, ma anche per problemi personali. Esiste anche la possibilità di fare un percorso di psicoterapia breve, per ragazzi e ragazze, il lunedì, martedì e giovedì su appuntamento. Maschi e femmine in percentuale praticamente identica si rivolgono a questo servizio. In trent’anni di attività molte cose sono cambiate al consultorio. «All’inizio le persone si rivolgevano al servizio soprattutto per questioni legate all’ambito sanitario», racconta Paola Marzinotto, assistente sanitaria, «il lavoro in am-bito psico-sociale era quasi inesistente. Nessuno chiedeva di parlare con lo psicologo, si pensava fosse una cosa per i “matti”. Paure ed emozioni si esprimevano in famiglia, dal parroco o dal medico curante. Non si vede-vano adolescenti. Oggi la situazione è ribaltata e la fascia d’età dell’utenza si è notevolmente abbassata».Un dato che salta all’occhio è il numero di giovani donne, dai 15 ai 22 anni, che si rivolgono al consultorio per la pillola del giorno dopo. A Por-denone ne vengono somministrate circa cento all’anno. Le ragazze sono molto informate, ne parlano i giornali che acquistano, trovano indicazioni sul web. In generale le più giovani rischiano di più nella sessualità, mentre le donne mature usano il profilattico o la pillola. A oggi sono praticamente solo le ragazze italiane, o al massimo europee da molto tempo in Italia, romene, albanesi, a rivolgersi al consultorio per la pillola del giorno dopo. Negli ultimi anni il consultorio ha avviato anche due corsi di preparazione al parto per alcune minorenni, italiane e straniere. «La maternità è vissuta in modo completamente diverso da un’adolescente», spiega Marzinotto, «dai cambiamenti corporei alle relazioni con i compagni di classe e gli insegnanti, una giovanissima ha bisogno di un sostegno diverso da quello necessario per una donna matura».Un altro cambiamento radicale è stato l’arrivo di donne immigrate al con-sultorio. Questo ha portato gli operatori a interrogarsi in particolare su come queste mamme affrontino la gravidanza e la nascita dei proprio figli in un paese straniero, spesso lontano dalla rete comunitaria. In parte il consulto-rio è diventato per loro un surrogato della famiglia lontana. «E noi abbia-mo iniziato a guardare diversamente tutte le donne, anche le italiane che pur nel loro paese possono sentirsi sole in un momento tanto importante della vita», conclude Marzinotto. Oggi, con la crisi economica, si rileva una tendenza al ritorno in patria di donne e bambini. Restano gli uomini, che si aggregano tra loro per ridurre le spese, nella speranza di fugare il fallimento del progetto migratorio e di poter far tornare le mogli e i figli. (e.c.)

HPV in pillole L’HPV, o papillomavirus, è un virus molto diffuso nell’ambiente. Il 75% della popolazione adulta sessualmente attiva lo ha incontrato alme-no una volta. A contatto con gli organi genitali, alcuni tipi possono provocare diverse patologie, incluso il cancro del collo dell’utero. L’HPV non si trasmette solo attraverso un rapporto sessuale completo. Il preservativo, fondamentale per prevenire molte altre malattie, in questo caso evita solo il 40% delle infezioni. La maggior parte delle persone portatrici non presenta sintomi.In un’elevatissima percentuale di casi, il virus viene eliminato spon-taneamente dall’organismo. Ma in certi casi può causare infezioni persistenti, provocando, anche a distanza di anni, alterazioni di vario grado. Di queste, la maggior parte regredisce spontaneamente, alcu-ne si aggravano e possono provocare tumori maligni.Come evitare l’infezione? Con il vaccino, oppure con il pap-test, un esame che serve a scoprire se l’HPV, infettando le cellule del collo dell’utero, ha provocato anomalie o lesioni. Il momento ideale per vaccinarsi sarebbe prima di qualunque possibile esposizione. Tutta-via, anche chi è già stato infettato da uno dei quattro tipi pericolosi di HPV può vaccinarsi per proteggersi dagli altri. Come per tutti i nuovi vaccini, non si sa quanto duri l’effetto protettivo.

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DoNNE E SALUTE

Di “Donne e salute” si è parlato a febbraio in occasione del con-vegno che è stato organizzato in città da “Donne in rete”, assieme a “I Ragazzi della panchina”. Associazione che ha sede a Mi-lano, “Donne in rete” si propone di realizzare su tutto il territorio una catena di contatti istituziona-li, professionali e tra associazioni volti alla promozione della salute al femminile intesa a 360 gradi. Quindi salute fisica, psicologica e qualità della vita della don-na oggi, italiana e straniera. Al centro delle iniziative promosse a partire da questo convegno an-che a Pordenone c’è la campa-gna di sensibilizzazione sul tema della vaccinazioni delle giovani donne al papilloma virus (Hpv), causa principale del cancro al collo dell’utero. La vaccinazione nella nostra Regione ad oggi è gratuita per le sole 11enni (60 per cento delle adesioni nel 2009) e per le 15enni (77 per cento). Sul tavolo dei relatori del convegno ospitato nella sede della Bcc di Pordenone c’erano Paola Mar-zinotto, assistente sanitaria del consultorio familiare dell’Ass6 di Pordenone, Carla Padovan, pe-diatra dell’Ass6, Riche Merighi del centro studi “Donne In rete” e Nps Italia e Valter Adamo, primario della divisione di ostetricia e gi-necologia del Santa Maria degli Angeli. Assieme a loro anche il direttore generale dell’Ass6, Nico-la Delli Quadri, e Gianni Zanolin, assessore comunale al sociale. Per informazioni il sito internet di riferimento è: www. donneinrete.net

A febbraio il convegno organizzato dai Ra-

gazzi della Panchina in collaborazione con

Donne in rete di Milano

di Milena Bidinost

coNSULTorIo A PorDENoNE

Oggi che sono madre mi chiedo cosa fossi davvero prima. Ho imparato che la maternità è puro istinto, fa parte di una donna come la capacità di respirare, di parlare, di camminare. Perchè anche se non hai mai tenuto un neonato tra le braccia, non ne hai mai nutrito, lavato, cullato, accudito uno, dal primo momento in cui questa creatura viene al mondo e ti guarda negli occhi come nessun altro ha mai fatto prima, tu sai esattamente cosa devi fare. Senti quello che sente, impari a dare un significato al suo pianto, un senso ad ogni suo respiro. Tutto facile? Naturalmente no. Dopo i primi mesi di grande felicità, ma anche di solitudine perchè non c’è spazio per nulla nella tua vita al di fuori di lui, lentamente riprendi il ritmo. Nel mio caso, dopo due mesi, è ripreso il lavoro di giornalista: prima per mezza giornata, scrivendo a casa; da qualche settimana a tempo pieno e dovendo rispettare orari di redazione. Questo significa passare tante ore lontano da Leonardo, significa organizzarmi perfettamente per far coincidere le ore di pausa con quelle dell’allattamento, cercare di essere concentrata al lavoro e pienamente in forze quando sono con lui. Il primo giorno che sono uscita di casa ho trattenuto a stento le lacrime. Il distacco e il senso di colpa che si prova nell’allontanarsi da una creatura con la quale vivi in simbiosi, è difficilmente spiegabile. Io, però, sono una privilegiata perché quando chiudo la porta di casa so che Leonardo è in buone mani: con le nonne o con il suo papà. So che quando la sera arrivo a casa, mai prima delle 21.30, anche se magari sono stanca, mi sento serena perchè ho dedicato il mio tempo a un lavoro che amo e perchè ad attendermi ci sono i sorrisi di mio figlio, il suo amore. So che non devo preoccuparmi di preparare la cena perchè mio marito si è occupato anche di quello. So che se non avessi una rete famigliare che mi sostiene dovrei fare quello che fanno molte mie coetanee: rinunciare al lavoro o mandare Leonardo all’asilo nido e magari passare ancor meno tempo con lui per poter far fronte alle incombenze domestiche. Il mio caso è un esempio felice, però, raro. La maternità ancora oggi vie-ne vista come una competenza, per non dire un problema, della donna e non della coppia, della famiglia e quindi della società. Se questo salto non avviene, a partire dal mondo del lavoro, una donna si trova costretta a scegliere tra la realizzazione personale che passa attraverso la professione e quella che passa attraverso la maternità, rischiando, però, di non essere felice, qualunque cosa scelga. Martina Milia

ProFESSIoNE MAMMAMartina e Assalo, essere madri a trent'anni

«Mamme che si svegliano all’al-ba, saltano in macchina, portano i figli piccoli dai nonni o all’asilo nido, vanno a lavorare per otto o più ore. La sera, ormai esauste, passano a riprendere i bambini. Intanto accumulano stress, “non hanno più la testa”, delegano ad altri (istituzioni, nonni, baby-sitter, ecc) l’educazione e la gestione dei figli, perché loro non ce la fanno proprio. I bambini, in tutta questa “centrifuga”, non si orien-tano più, diventano nervosi, non dormono, non mangiano e sono irritabili, con conseguente au-mento delle patologie comporta-mentali». È questo il ritratto delle giovani mamme della provincia di Pordenone per la pediatra Carla Padovan.

Dottoressa, le donne immigrate vivono la maternità allo stesso modo?Intanto sono più giovani delle ita-liane. Le straniere spesso arrivano già in gravidanza o comunque con figli piccoli, per ricongiungi-mento familiare, e hanno un’età intorno ai 25 anni. L’età anagra-fica delle italiane che partori-scono il primo figlio, invece, si è innalzata intorno ai 30 anni, con slittamento anche ai 35-38 anni. Le donne pensano alla materni-tà quando hanno raggiunto una sicurezza economica e comun-que si sentono affermate nella società. Per le immigrate, invece, la maternità è importante come status di riconoscimento della donna, i figli sono una ricchezza e un patrimonio e completano il progetto migratorio.

Quali sono le conseguenze sui figli e sulla salute delle donne dei differenti stili di vita della mamma?Soprattutto quando i figli sono

piccoli (0-3 anni), l’organizzazio-ne familiare è gestita dalla don-na, sempre più sola. Spesso man-cano i supporti della famiglia di origine, sia economici che di as-sistenza ai nipotini. Molte nonne lavorano o hanno a carico figli più giovani che rimangono in casa per motivi economici. L’asi-lo nido costa sempre più, perché i Comuni, per recuperare l’ICI, hanno alzato le tariffe dei servi-zi pubblici. Ciò a lungo andare favorisce l’espressione di malat-tie aggravate dallo stress come quelle autoimmunitarie, tiroiditi e della sfera psicosomatica o neu-rologica.

E le immigrate stanno meglio?Per loro la difficoltà è nell’integra-zione. Spesso non hanno il tempo di seguire i corsi di lingua italiana perché devono cercare un lavoro per aiutare il marito a sostenere la famiglia. Sintomi come l’affa-ticamento, il mal di testa, il mal di pancia, la depressione, sono frequenti, soprattutto se isolate in famiglia e con scarsi rapporti con altre donne della stessa prove-nienza.

Ha notato cambiamenti da un anno a questa parte, con la crisi economica? La perdita della sicurezza lavora-tiva ha creato ulteriori problemi. Le donne, pur di mantenere il posto di lavoro, sono disposte a ritmi, orari e mobilità straordinari, con ripercussione sull’equilibrio familiare. Chi perde il lavoro sof-fre di una depauperazione eco-nomica che non solo pesa sul menage familiare, ma si compli-ca in una frustrazione personale. Avere più tempo per i figli è il sogno di tutte, ma si può realizza-re quando le bollette e gli affitti sono pagati.

Mamme Sull'orlo di una crisi di nervidi Elisa cozzarini

L'INTErVISTA

Assalo ha 34 anni e cinque figli. È nata nel deserto del Sahara, in Niger, e fa parte della comunità tuareg immigrata nel pordenonese. «Ho dato alla luce i primi tre figli in Africa, dove avevo vicino mia mamma e tutta la famiglia - racconta Assalo -. Gli ultimi due figli, invece, sono nati a Pordenone. Le donne della comunità tuareg e gli amici italiani mi sono stati vicino, ma non è stata la stessa cosa, senza mia madre». Quando si è sposata, Assalo non immaginava che avrebbe avuto una famiglia tanto grande. «È molto difficile crescere cinque figli in Italia - continua la donna - c’è tanto da fare e ci sono molte preoccupazioni in più. Nel mio villaggio, Abardak, a cento chilometri da Agadez, la vita è più tranquil-la, non ci sono macchine né pericoli per i bambini, i quali si arrangiano da soli ad andare a scuola, anche se è lontano. Qui, se i miei figli tarda-no a tornare a casa, mi preoccupo moltissimo. Ho paura che facciano brutti incontri». Sidi è il figlio maggiore, ha 15 anni e ancora non chiede di uscire la sera, si accontenta del calcio il sabato e la domenica. La tredicenne Timitima, invece, ha già il suo giro di amicizie a Porcia, ma può stare fuori al massimo fino alle 17, prima che faccia buio. Al Khas-sum, Annur e Zenab sono ancora piccoli per queste cose, restano a casa con la mamma. La giornata di Assalo non prevede momenti di relax. Haddoe, suo marito, la aiuta facendo la spesa e le dà una mano con i figli la sera, quando non è al lavoro. «Ci teniamo entrambi che vadano bene a scuola, perché da questo dipende il loro futuro in Italia – dicono entrambi i genitori -. Se stiamo qui, oggi, è perché vogliamo garantire un avvenire ai nostri figli. Il nostro paese è molto povero ed è difficile tro-vare opportunità di lavoro. I ragazzi stanno diventando grandi in questa società – concludono - è inevitabile che si allontanino, almeno in parte, dalla nostra cultura. Per noi invece è diverso: quando loro si saranno sistemati, noi due torneremo in Niger». (e.c.)

Un esemplare di maschio adulto, età apparente quarant’anni, è stato ritrovato vivo durante i lavori di demolizione dello stadio di San Siro a Milano. L’eccezionale scoperta, confermata dalla re-sponsabile del dipartimento per la tutela della specie femminile, apre nuovi scenari sull’estinzione del maschio, avvenuta circa un secolo fa. “A quella data, era or-mai acclarata l’assoluta assenza di esemplari maschi nell’intero sistema solare”, ha dichiarato la dottoressa Valchiria. Venute a ca-dere in virtù dei progressi scientifi-ci le sue tre funzioni essenziali, os-sia contribuire alla riproduzione,

portare le borse della spesa e aprire i vasetti sottovuoto, il mas-chio umano andò progressiva-mente scomparendo e gli ultimi avvistamenti si ebbero alla fine del secolo scorso. Da quel mo-mento in poi più nulla, tanto da decretare l’abbattimento dei templi da lui dedicati al dio pallone. E’ stato proprio durante una di queste demolizioni che è avvenuta la sensazionale scoperta. “Aveva indosso unica-mente una sciarpa nerazzurra – ha concluso Valchiria -. Le sue prime parole sono state: se l’Inter vince la Champion’s, poi posso anche morire”.

IL VISIONARIO: L’ANNO BUONO

“Il corpo delle donne” è il titolo di un breve documentario che si può trovare nel web. Immagini e brevissimi pezzi tratti da programmi Tv mostrano una sequenza di visi e corpi femminili quali ci appaiono nel piccolo schermo; e mostrano che oggi non incontriamo più donne reali ma solo oggetti perfetti. Costruiti, e funzionali a un certo gusto maschile.Le donne in Tv hanno corpi giovani, perfetti e prorompenti, da esibire con evidenza; il corpo reale totalmente rimosso. E’ stata rimossa anche l’espressione del volto, che normalmente è fatta dai numerosi muscoli facciali, i quali rispondono alle emozioni e ai sentimenti dell’animo; ma il cerone, la pelle tirata, i mille artifici rimuovono ogni traccia di rispon-denza del volto a qualcosa di interiore.“Perché?” si domandano gli autori. Il corpo è comunicazione: attraverso l’espressione del volto, i gesti, le posizioni, i ruoli nella scena, c’è una comunicazione non verbale importante quanto le parole. Perché allora questo artefatto, dove la donna scompare e una maschera non auten-tica prende il suo posto? C’è ancora un “io” che comunica? E che cosa comunica?Dove sono le qualità del femminile, se la donna è ridotta a oggetto sessuale, impegnata in una gara contro il tempo che la costringe a de-formazioni mostruose, se è costretta a cornice muta oppure conduttrice di trasmissioni futili dove mai è richiesta la competenza… e dov’è lei stessa, se incarnando il desiderio del maschio rinuncia alla possibili-tà di essere “l’altro”? Che cosa è successo? “Essere autentici – dicono gli autori – richiede di saper riconoscere i propri desideri e i propri bisogni profondi”. Forse il vero problema delle donne sta proprio in

questo. Donne, sappiamo guardarci dentro e capire che cosa ci rende felici? E’ questo che ci darebbe la capacità di essere autentiche. Ab-biamo talmente introiettato il modello maschile da non sapere più che cosa vogliamo veramente. Noi stesse guardiamo i nostri seni, le nostre labbra, le nostre rughe con occhi maschili, come ci guarderebbe un uomo. Perfino la pubblicità diretta a un pubblico femminile propone immagini con modelli sessuali appetibili per i maschi. Questa pressione a dover essere giovani e belle secondo canoni che non ci appartengo-no, fa sì che non riusciamo ad accettarci per quel che siamo. E questo ci rende infelici. Perché oggi la donna adulta deve avere vergogna di mostrare la sua faccia, deve nascondere il passaggio del tempo che ha lasciato tracce nel suo volto? Non sta forse rinunciando alla sua unicità, e dunque alla sua anima? Eppure quei corpi e quei volti inespressivi continuano a “parlare”. Dicono che il sistema funziona così e che solo così si può entrare a farne parte e avere potere. La faccia è nuda, è vulnerabile. E’ proprio questa vulnerabilità che viene cammuf-fata, decorata, modificata chirurgicamente. Perché è difficile essere se stesse in un mondo dove si è vincenti solo se ferocemente invulnerabili. Fin da piccole ci hanno insegnato che apparire è più importante che essere. Con il risultato di rischiare di morire sconosciute, a noi stesse e agli altri. Donne… possiamo volere un’alternativa alla dittatura dei corpi perfetti?

(il video è visibile su www.ilcorpodelledonne.net)

NoI, BArBIE ToP MoDEL?Nei mezzi di comunicazione l'essenza profonda della donna scompare e al suo posto emerge una maschera artefatta. La femminilità del corpo diventa semplice richiamo sessuale di Franca Merlo

L'ANGoLo DELLA FrANcA

Nel panorama nazionale, quale può essere un’esemplificazione del perseguimento di obiettivi di promozione della salute entro una rete di servizi per la perso-na e per la comunità nel suo complesso? Ad oggi, con più di qualche soddisfazione, possiamo rispondere a questa domanda. Infatti, l’associazione “I Ragazzi della panchina”, risulta un servi-zio a disposizione della comunità pordenonese. A partire da una piena assunzione di responsa-bilità circa il proprio “mandato”, ormai da anni l’associazione la-vora nel e per il territorio di Por-denone. In merito a quanto fatto e messo a disposizione di quel territorio, la salute è diventata obiettivo elettivo e modus ope-randi, passando oltre l’effimera e ingannevole attestazione di “come stanno le cose” nell’ambito della tossicodipendenza. Questo ha consentito, e tuttora consen-te, di offrire all’intera comunità elementi che possano essere di supporto per la promozione di salute piuttosto che di processi di etichettamento e di teorie sulla malattia. Ciò che accade infatti nell’ambito della tossicodipen-denza, comunemente intesa, è che il consumo diventa motivo di identificazione, che arriva a coincidere con la persona e con le possibilità che questa si attribu-isce e che le vengono attribuite dagli altri (compreso i cosiddetti esperti), fino a identificare la bio-grafia della persona con il consu-mo stesso, con il riconoscimento dell’etichetta di “tossico” o “mala-to”, che non lascia spazio ad al-cuna possibilità “altra” rispetto a questa. Operativamente, nell’as-sociazione, a differenza di quan-to viene offerto da un approccio medicalistico, non si prende in considerazione l’utente del servi-zio in quanto “tossicodipendente”, e tutto ciò che tale etichetta lascia immaginare, bensì si lavora sulle risorse che la persona mette a di-sposizione inserendo modalità di raccontarsi e interloquire oltre la tossicodipendenza. In una pro-spettiva di salute e non di mera sanità, invece, il focus di interven-to utilizza il territorio tutto come

rdp, un servizio efficace e di qualitàDa anni l’associazione lavora per il territo-rio pordenonese in un’ottica di promozione della salute

di Gian Piero Turchi

risorsa strategica per l’attuazione di interventi entro un servizio cen-trato sulla promozione della salu-te. L’associazione “I Ragazzi della panchina”, infatti, si è strutturata a partire dalle caratteristiche speci-fiche del territorio e risulta centra-ta sulla generazione di occasioni, affinché per il perseguimento dell’obiettivo di promozione della salute della persona e dell’intera comunità, siano usati i contribu-ti di tutta la comunità. In questo modo, agire nei confronti di chi frequenta l’associazione, diventa occasione formativa per tutte le voci presenti entro la comunità che, utilizzate come risorse, acqui-siscono competenze sempre cre-scenti rispetto alla generazione di salute e alla gestione di situazioni valutate come “rischiose”, rispetto all’insorgenza di teorie, infondate scientificamente, sulla tossicodi-pendenza in quanto malattia. Il territorio di riferimento diviene quindi, a sua volta, beneficiario dell’intervento e, a partire dalla gestione del “consumo di sostan-ze” potrà, a sua volta, essere ri-sorsa attiva e protagonista della promozione della salute sul terri-torio. L’associazione ha fondato, e tuttora fonda, i suoi interventi su quanto sopra posto, svincola-ta dall’empasse generata dal-la confusione tra aspetti medici ed aspetti psico-sociali, ponen-do come obiettivo quello del cambiamento e rispondendo in modo continuo alle esigenze del territorio, lavorando nella direzio-ne della “salute”. Questo ha fatto sì che l’associazione, prima in Ita-lia, potesse attestare l’efficacia di quanto fatto, e continua a fare, e, in prospettiva futura, la possibilità di poter “esportare” le linee stra-tegiche d’intervento in altri spazi entro i quali l’esigenza che si ri-leva è la medesima, diventando promotori di proposte innovative. Inoltre, in quanto rappresentan-ti del comitato scientifico, se ne attesta una potestà di matrice scientifica, oltre che riconoscere all’associazione il titolo di artefice di servizi, collocati entro una rete territoriale, che possano dirsi, oltre che efficaci, anche “di qualità”.

E’ proprio vero che a volte bisogna toccare il fondo per risalire. Alla fine dell’anno scorso sembrava fossimo sull’orlo del baratro. Sfratto dalla nostra cara sede, mancanza di fondi, la partenza del nostro amatissimo Andrea, insomma colpi da kappaò. Però nelle difficoltà ci si ritrova ed escono le strategie migliori, per la Pankina è sempre stato così! Le difficol-tà tirano fuori orgoglio, idee e tenacia. Ognuno si è mosso bene nel pro-prio ruolo; ci siamo ingegnati, arrabbiati e consultati; abbiamo scoperto tanti nuovi amici e sostenitori e poi… una città che ormai ci vuole bene, che non ci abbandona e alla quale garantiamo comunque un calmiere delle tensioni sociali a prezzi ridicoli, almeno rispetto alle comunità e agli altri servizi simili.Così dopo qualche scaramuccia ecco che la sede rimane, e tutti si im-pegnano per darci continuità garantendo fondi e progettualità a lungo termine: per 15 anni, da queste parti, si è navigato a vista con sicurezze al massimo annuali! Arrivando ai fatti concreti, alla luce della conven-zione stipulata con l’Azienda per i servizi socio sanitari del Friuli occiden-tale, è nato un protocollo operativo col Dipartimento per le Dipendenze, in base al quale, d’ora in poi, gli operatori dell’associazione “I ragazzi della panchina” e quelli del Dipartimento collaboreranno, progettando insieme percorsi per i ragazzi. Anche la Regione Friuli Venezia Giulia ha garantito il solito finanziamento annuale e abbiamo appena spedito la richiesta per quello del prossimo anno.Tutto questo ha permesso di poter investire su nuovi operatori. Alla fine dell’anno scorso è arrivato Luca e da febbraio anche Stefano che si sono uniti a me e al mitico Gigi. Tranquilli, siamo tutti a 15 o 20 ore settimanali, del resto son sempre tempi di precariato!Tra le novità in divenire si parla di corsi teatrali e di scrittura in sede, di attività con e all’interno del Carcere cittadino, e molte altre cose che abbiamo sempre fatto, ma che ora cercheremo di meglio strutturare e di dare ad esse maggiore visibilità esterna. Il tutto andrà a formare nel tempo una strana creatura alla quale abbiamo dato il nome, su indica-zione dei luminari dell’Università di Padova, di “Laboratorio di coesione sociale”.Un altro segnale che le cose stanno cambiando è che, proprio mentre vi scrivo, guardo fuori dalla finestra della nostra cara sede di viale Gri-goletti e osservo con piacere che gli amici dell’Opera Sacra Famiglia (proprietari dello stabile) ci stanno pulendo tutto il giardino e l’edera sul tetto. Non solo, la settimana scorsa ci hanno anche cambiato il boiler dell’acqua calda del bagno: era rimasto rotto per tutto l’inverno. Wow, c’è proprio aria nuova in sede!

IL PEGGIo È PASSATo Nuovi progetti e un nuovo nome per la sede della Panka: diventerà “Laboratorio di coesione sociale”di Diego Todesco

PANKA NEWS

Qui in Colombia, tra questi umi-li contadini che devono ogni giorno lottare per guadagnarsi il pane e per non venire assassi-nati dalla guerriglia o dai diversi gruppi militari statali, la logica della vendetta è stata sostituita con il Perdono e la lotta quoti-diana per la Verità e la Giustizia. Questi contadini non hanno nep-pure il diritto alla terra, alla vita. Molti dei loro cari sono stati bru-talmente torturati e uccisi, uomini, donne, bambini, tutti accusati di essere guerriglieri, collaboratori: anche i bambini di un anno e mezzo, di sei, dieci anni, taglia-ti a pezzi o lasciati in pasto ai cani! Se anche fossero stati guer-riglieri, è stata questa la giusta punizione?Se quei 300 bambini della striscia di Gaza fossero an-che stati tutti figli di terroristi, è sta-ta la loro morte la soluzione alle nostre paure? Questo sangue innocente è stato sparso per la nostra ipocrisia ed incapacità di fermarci davanti all'evidenza del fatto che il mondo appartiene a tutti e che dobbiamo restituire ciò che per secoli abbiamo rubato. Questo periodo che anche noi

Missionaria in zone di guerra, Monica oggi

vive al fianco dei campesinos colombiani

di Milena Bidinost

Conosco Monica Puto da alcuni anni, lei è una missionaria laica e vo-lontaria di Operazione Colomba, il corpo di mediazione non violento dell’associazione religiosa Papa Giovanni XXIII, di don Oreste Benzi. Por-denonese, ex insegnate di scuola, un giorno ha girato pagina, per pre-stare letteralmente il proprio corpo alla causa della pace e della non violenza. Vive il suo tempo nei paesi in guerra, al fianco delle popola-zioni colpite, facendo loro da scudo e mediatore internazionale, senza alcuna arma se non quella del dialogo e dell’ascolto. Ricordo che la sua passionale indignazione nei confronti di ogni ingiustizia umana e la sua determinazione e il coraggio nel voler dare un contributo, per quanto piccolo, mi hanno fin dal primo giorno coinvolta. Monica parla poco del prima, e si ha quasi la sensazione che Operazione Colomba sia diventa-ta per lei la sua seconda pelle: che a volte brucia, a volte sfinisce il cuore e i muscoli, ma che le fa toccare fino in fondo la paura, le sofferenze e la grande dignità degli ultimi di questa terra. Al di là delle cronache or-chestrate dai grandi media internazionali. Monica a febbraio è ripartita: oggi è in Colombia con altri due volontari. Sta vivendo nella Comunità di pace di San Josè De Apartadò, nel nord -ovest del paese.

Ciao Monica, perché cambiare così radicalmente vita?“Per una personale motivazione religiosa, ma ancora di più per un forte senso della giustizia e il profondo desiderio di metterci le mani di perso-na, in queste situazioni. Lasciato il lavoro come insegnante ho vissuto in vari paesi, in Bolivia, Brasile, Kenya, Russia, Tanzania dove, nelle strutture della Comunità, erano accolti barboni, bambini orfani, ragazzi di strada: gli ultimi, i senza voce. Dal 2005 ho scelto la condivisione diretta con le popolazioni vittime dei conflitti, nel progetto Operazione Colomba. Dopo alcuni mesi in Kossovo in una enclave serba, ho trascorso un anno in Palestina, due in Nord Uganda ed ora stiamo aprendo un progetto di presenza non violenta in Colombia”.

Paesi in guerra, mentre voi siete volontari e praticate la non violen-za.“Infatti. La nostra attività non consiste nel costruire strutture, ma nell'in-terporre le nostre persone tra le due parti in conflitto favorendo dove possibile l'incontro ed il dialogo tra le parti o, dove non lo è, mettendo la nostra vita a difesa dei più deboli. La condivisione diretta è il punto di partenza. condividendo la precarietà, le paure e le sofferenze che ogni guerra inevitabilmente genera cerchiamo di conquistarci la fiducia dei locali per divenire così un ponte di dialogo tra le parti”

La missione in Colombia è l’ultima avviata in ordine di tempo.“Oggi stiamo condividendo la nostra vita in un villaggio di campesinos della Comunità di pace di San Josè De Apartadò nel nord -ovest del paese. Questi contadini, come gli Indios e gli Afro-discendenti, sono stati sfollati numerose volte nel corso di questi anni e costretti dai diversi gruppi armati ad abbandonare le proprie terre. Circa dodici anni fa loro si sono dichiarati neutrali rispetto a qualunque attore armato. Tale scelta è costata alla loro comunità 180 morti compresi bambini, donne e ragazzi. Tali delitti perpetrati dalle Farc, dall'esercito, dai paramilitari nascondono da diverse ragioni riconducibili però sempre e soltanto ad

INVIATI NEL MoNDo

LA MIA VITA PEr LA PAcE

viviamo di crisi, è l'amara con-seguenza della spregiudicatez-za con cui i Governi più potenti hanno gestito le risorse umane, ma essa non è nulla in confron-to a quello che devono vivere e sopportare milioni di poveri nel mondo. Queste donne e uomini colombiani vengono scacciati dalle loro terre perché sono tra le più ricche del pianeta e le mul-tinazionali europee e americane si stanno spartendo il bottino tra rame, carbone, acqua, minerali ed infinite coltivazioni di palma africana che possano garantire carburanti alternativi ai paesi ric-chi; le spietate leggi di mercato obbligano i contadini a vende-re a basso prezzo caffé, banane, cacao e quant'altro per soddisfa-re la richieste delle “pance sem-pre piene” senza che nessuno si preoccupi minimamente se il loro guadagno sia sufficiente per sfamare la proprie famiglie. Addirittura le stesse multinazio-nali pagano il “pizzo” per i loro commerci ai gruppi paramilitari che sono i primi responsabili di centinaia di uccisioni di indigeni, campesinos e sindacalisti.

Le multinazionali si spartiscono il botti-no, mentre la gente muore di famedi Monica Puto

Poveri perchè la loro terra è ricca

Una nuova ferita si è aggiunta in questi ultimi giorni a tutte quelle che ancora bruciano sulla pelle dei contadini della comunità di pace di San Josè e su quella di molti altri che condividono con loro la stessa pena e la stessa assurdità del vivere nella morsa di un conflitto armato. Gilberto, mentre cercava uno dei maiali che si era inoltrato nella foresta, è saltato su una mina. E’ vivo ma probabilmente perderà il piede, che qui è come dire che perde-rà quasi tutto. L’assurdo è che, trovandosi lui a circa cinque ore a piedi dal villaggio di San Josè e con tutti gli elicotteri dell'eser-cito che sorvolano l'area, non si potesse chiedere loro aiuto. L’as-surdo è che, proprio dalle auto-rità militari bisognasse stare lon-tano e prendere ogni misura per assicurare che Gilberto potesse essere trasportato, senza essere fermato e venire probabilmen-te accusato di appartenere alla guerriglia.Trenta persone, tra contadini ed internazionali, si sono organizzati affinché a notte fonda, al buio e sotto una pioggia torrenziale, Gilberto venisse trasportato, ca-ricato su un'amaca, sino a San Josè ed infine in ospedale. Un nosocomio, tra l’altro, del tutto inadatto ad affrontare tali ferite, ma per poter inviare Gilberto in un'altra città serviva l'auto-rizzazione del sindaco, che dal canto suo non la voleva conce-dere perché quel contadino non aveva la carta d'identità. Gil-berto l'aveva perduta e con sé portava solo un foglio sgualcito dove dichiarava lo smarrimento. Troppo poco per potergli salva-re la vita! Alla fine, sono state le pressioni internazionali e locali a

L’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Ore-ste Benzi, opera da oltre 30 anni nel vasto mondo dell'emarginazio-ne in Italia e in molte missioni estere: bambini, disabili, tossicodipen-denti, barboni, malati di Aids, nomadi, anziani, donne schiavizzate vittima della prostituzione vengono accolti nelle case-famiglia e co-munità. Oggi l'associazione è presente in 26 paesi nel mondo in tutti e cinque i continenti. In seno a questa esperienza, nel 1992, alcuni ragazzi e obiettori di coscienza interrogati dal conflitto jugoslavo che imperversava a poche centinaia di chilometri sull'altra sponda dell'Adriatico, iniziarono a fare alcuni campi di condivisione nei campi profughi della Croazia. Loro vivevano sui diversi fronti, riu-nendo le famiglie, proteggendo con la loro presenza le minoranze etniche, promuovendo il dialogo tra i belligeranti. In breve però ci si rese conto che questo non bastava. Si organizzò allora una presenza “continuativa”, prima solamente nella zona croata, succes-sivamente anche in quella serba e bosniaca. Nasceva così Opera-zione Colomba. Da allora questa esperienza è stata “esportata” in altri conflitti: in Sierra Leone, in Kossovo e Albania, a Timor Est, in Chiapas-Messico, in Cecenia-Russia, nella Repubblica Democrati-ca del Congo, in Israele-Palestina, in Nord Uganda e in Colombia. Oggi Operazione Colomba è il Corpo civile di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII che interviene nei conflitti armati, condividen-do la vita con le vittime della guerre.

Operazione Colomba

QUANTo VALE LA VITA DI GILBErTo?Un piede su una mina e si trova tra la vita e la morte. Niente operazio-ne senza la carta d’identitàdi Monica Puto

far recedere il sindaco dalla sua decisione e a permettere così a Gilberto di aggrapparsi alla spe-ranza di essere operato. Penso: “Che vergogna, che “pic-coli” uomini siamo diventati, che misuriamo la vita e la morte di un altro essere umano tramite una carta d'identità!”. Tutto que-sto mi fa ribrezzo. Poi mi fermo e penso anche: “Ma in Italia, siamo poi così diversi? Rispedire al “mittente” un barcone di im-migrati senza documenti o per-ché “presunti delinquenti” ha un sapore diverso? Come si lava una coscienza? Con una legge, un'ordinanza, una menzogna, con la paura?”.Io ho conosciuto Gilberto, per me lui ha un volto, una voce, ma per voi che leggete è solo un nome, come mille altri, pie-ni di sofferenze. Però mi chie-do: “Importa forse sapere chi è Gilberto?. Non dovrebbe forse bastarci sapere che un uomo o una donna, come lo siamo noi, è saltato su una mina o è mor-to attraversando il mare mentre cercava una vita nuova?”. Non so quale sia il vostro modo per affrontare e sopportare il dolore. So solamente quanto sia difficile per me, in ogni parte del mondo in cui mi trovo ad affrontarlo, riu-scire ad integrarlo alla mia vita, e accettare ugualmente la vita.

“...il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell'altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta, e se si è in gra-do di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita...” ( Etty Hillesum)

un unico obiettivo: denaro e potere. In quelle aree infatti il narcotraffico e la militarizzazione delle terre per il controllo delle risorse naturali (oro, carbone, minerali, coltivazioni di caffè, cacao, banane, palma africana per la produzione di biodisel ) sono indistintamente attività svolte sia dal Governo che dai ribelli. Quello che noi volontari facciamo è vivere con questi contadini, scortarli negli spostamenti nella foresta quando cercano di raggiungere le proprie proprietà. I sentieri sono minati, i luoghi distanti da poche ore ad un giorno di cammino, nel fango, lungo percorsi imper-vi, senza possibilità di comunicazione telefonica e senza corrente elettrica nei luoghi da raggiungere”.

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Giuseppe Intelisano direttore artistico del teatro Don Bosco e ideatore e papà della rassegna Pordenone Jazz Koinè, giunta alla sua nona edizione, è riuscito a portare sul palco pordenonese il John Tchicai Lu-nar Quartet, con solo per questa occasione la partecipazione di Michele Sambin a computer-grafic e digital-painting, che d’impulso interagiva in tempo reale con la musica del quartetto, con una “pittura digitale” proiettata sullo schermo alle spalle dei musicisti. Nato da un’idea del bat-terista Enzo Carpentieri, il quartetto si avvale di Greg Burk al piano, Marc Abrams al contrabbasso ed il sassofonista afro danese John Tchicai, vero protagonista delle avanguardie jazz newyorkesi degli anni 60. Che il quartetto fosse un “fuori tono” lo ha dimostrato davanti ai pordenonesi che si sono trovati a seguire a bocca ed orecchie aperte musiche con temi e strumenti inusuali, dalle mani a qualsiasi cosa capitasse loro a tiro. Un buon pubblico ha assistito alla ricerca e alla nascita da parte del quartetto, di sincronie e ritmi accattivanti portati avanti come ossatura e arricchiti poi da un bailamme collettivo di improvvisazioni. Performance apprezzata dai presenti che alla fine dello spettacolo hanno ripetuta-mente richiamato sulla scena i musicisti, ovazioni particolari per la storia vivente John Tchicai. All’uscita tutti eravamo coscienti del fatto che si può fare musica con qualsiasi cosa e in qualsiasi modo. Unico appunto alla serata un contrabbasso importante di volume, l’orecchio si è presto abi-tuato ma qualcosa comunque restava coperto dai suoi bassi. Oltre alla punta di diamante Tchicai, la manifestazione è stata poi vissuta con una triade di esibizioni del flautista pordenonese Massimo De Mattia, emble-ma degli artisti "fuori tono" della zona avvalsosi di varie collaborazioni in altrettanti spettacoli, oltre ad una serata con lo Stefano Maltese Open Sound Quartet. Evento extra della rassegna: l'Enrica Bacchia Ensemble. La Bacchia si è ripresentata alle scene pordenonesi dalle quali è parti-ta, con una nuova ispirazione frutto di un viaggio in Mongolia con altri quattro amici musicisti. Fermento dunque per il sempre più vivo Pordeno-ne jazz Koinè che il prossimo anno taglierà il nastro dei dieci anni di vita, Giuseppe Intelisano patron della manifestazione non si sbilancia però in programmi futuri “prima bisogna vedere come va questa edizione” Auguri agli appassionati di Pordenone Jazz Koinè, intanto noi saremo felici di raccontarlo anche il prossimo anno.

Jazz Koinè, sperimentazioni d’autore sulle orme di coleman e coltraneIl John Tchicai Lunar Quartet sul palco della nona rassegna andata in scena a febbraio al Don Bosco la nostra redazione culturale

PANKAKULTUrA

Non essendo io un grande aman-te della fantascienza, nemmeno sarei il più titolato per piazzarvi una recensione di questo polpet-tone che si chiama Avatar. Ag-giungetevi pure che, sebbene tutti dicano meraviglie della versione in 3D, non mi son fidato di aggiun-gere un euro ulteriore al già lauto compenso elargito al gestore del multisala. Quindi, vi parlo proba-bilmente di una versione monca di un film che già non è del gene-re che prediligo. Nondimeno, farò del mio peggio per soddisfare la vostra (eventuale) curiosità. Bene, ciò premesso, comincia-mo togliendoci subito il pensiero: sì, anche nel piattume 2D que-

Avatar, il moderno balla coi lupi sul pianeta dei…puffi.

sto film ha un comparto di effetti speciali da far rimanere basiti e a bocca (quasi) aperta. Un intero mondo creato praticamente dal nulla, pieno di creature e vegeta-zioni mai viste: puffi giganti dal vi-tino di vespa -il popolo dei Na’vi-, poliglotti e agili come gazzelle (vecchi e obesi? non pervenuti...); grossi draghi volanti versicolori, dinosauri e iene-lupo genetica-mente modificati per sbavare come idrofobi; montagne sospese nell’aria, apparentemente senza peso. In questo contesto di sen-sazioni visive al limite della satu-razione, la vicenda perde impor-tanza, anche perché non è nulla di speciale. Se volete un‘estrema sintesi, la storia è questa: balla coi lupi sul pianeta delle scimmie (solo che al posto delle scimmie ci stanno i puffi di cui sopra). Un po’ meglio: il mito del buon selvag-gio, puro e in completa simbiosi con la natura, contro l’invasione dello straniero apparentemente più civile, ma in realtà prepotente e spietato. Temi classici, come si vede: cosa non necessariamen-te negativa, in se stessa. Peccato che lo svolgimento della vicenda

sia condotto in maniera talmente banale e “telefonata”, che dopo un quarto d’ora di pellicola già sai esattamente cosa avverrà e come. Perfino la scontata conclu-sione è già chiara prima dell’in-tervallo. Quindi, ricapitolando: se al cinema vi accontentate dell’im-mersione completa in un grande e straordinariamente realistico videogioco d’azione, Avatar sarà di vostro massimo godimento; se cercate una storia d’amore facile facile, Avatar fornirà qualche la-crima ai vostri fazzoletti (ma non tanto da doverli strizzare alla fine della proiezione: attenzione, non è Titanic); se vi piace il messaggio di un ecologismo da pubblicità del Mulino Bianco, del ritorno alla natura-madre come panacea per ogni male del nostro tempo, pre-go, Avatar vi soddisferà a pieno. Se invece credete avesse ragione il buon vecchio Giacomo (Leo-pardi) con la sua idea di natura-matrigna o se cercate una vicen-da che vi spinga a pensare o, per lo meno, una trama complessa dalle ardite soluzioni di sceneg-giatura, beh: state alla larga da Avatar, non è cosa.

di Andrea russo

Nino me passitu quela ciave? Vara che casin che lè sora sto banco, e che sporc! Te podaria anca tignir net un fià! Vara qua, a l’era da l’inon-dasion del 64 che no vedevo tanta cragna. Dai meti a posto che cusì te passa anca el tempA si na belesa, no vedo l’ora de vignir a lavorar par quelEco veitu mo che.. ou ocio che’l riva el capoUe ragassi vardè che marchemo mal qua, a lè da mercole che sé co sto lavoro, l’è luni e sè ancora drio, e lora li buteo fora o no sti tochi?!Ee voialtri sé tuti cusì, volè el lavoro subito, para via para via e dopo? Ve lamentè parchè no iè fati ben. So miValà valà satu cossa che lè invese? Che sti tochi iè picui ma luuunghi.. deghe dentro che stasera el riva el camionVa bene capoo (sciopa) bon nino l’è andà, andemo anche noiDove?A bever el caffèAncora!? No go piu getoni!Come al solito no! Che novità ela? Dai che andemo. Silvio vientu anca ti?Son pena staE l’ora? Chi elo che’l comanda qua?Lori!E l’ora n’demo no!?Giusto te gà rasonMeti so dai e vien co noi. El capo al ne ha pena dita che sen indrio col lavoroIii quel li.. l’ha sempre qualcosa da dir quel li, nol capise nient de lavo-ro Brao Silvio cusì se parlaVara che benon, no ghe sé nisun al distributor, no ven gnanca da spe-tarPecà. Cossa ciotu? Un macchiato come al solito? E ti nino na ciocolata? E lora cosa atu fat ieri de bel?Son andà al torneo de calceto co la squadra del bar de Orio, come compagnatorChi ti compagnator? Cossa vutu compagnar ti, che no te son gnanca bon de compagnar el pan col formaio de bot Iii ociu la e! Ou chi che l’è sto qua chel vien avanti?Lè toni piastrela, el girava par le case a far lavori, i lo ha pena assuntoPeta che provo a far amicisia. E l’ora capo com’ela soto paron?Mi no son soto de nisunOstia che benon, ma te toca far quel chei dise lori no?!Niente vero, faso quel che voio mi, e che i provi anca a dirme qualcosa, a ghe dago i oto secondi in un atimoE do che te va co quel caret?

A cior le bale che me sé cascae a vederve voialtriBon bon ciao va. Porco can che caratereE si lè sempre sta un fià mataran Ara chi chel riva, Nevio schivanelaMa perché i lo ciama schivanela?Nino sveiete, no te vede che l’ha na gamba più curta de l’altra?Aaa..Oo bongiornoo, areo.. dove vatu cussì de premura co tute quele finte li? A te me samei Garrincha. Ara in che condision che l'è. Te son più sporc del me banco, somea che te abbi fat tut ti quaI me à pena ciamà in ufficio. Ta tento che l’è pai gabineti. I dise che no li neto ben, ma poso netarli quant che voio mi, i va fatti novi invese, i ga da esser de l’Italia de MassiniTasi tasi, mi co vado me porto na ciave inglese, a ghe sé mosche grose come galine la dentro. E ti Nevio cosa atu fat ieri de bel? Peta laseme indovinar.. te à vardà l’angelus del papa?!Par forsa, lo vardo sempre mi!Ou devoto, cossa che te faseva l’altra note fermo co la machina in parte a la strada par Conean, co quela giovinota in minigonna col fredo che l’era?No caro! Mi no pago le femeneA ho capio, te son de animo nobile. Ma elo par principio o.. o parché te son sensa schei?Iii ociu ociu che vado via vaAreo! Lassa star le statai de note. Ou a lè el capo scont drio la punsona-trice chel ne varda. Cosa fatu?Tiro so le braghe e ghe faso veder el cul. Ciapa, lo veistu ben?Dai sta bon tira su.. vatu in serca de monae?Vara.. atu vist che fuga che l’ha fat?Tira su dai che sta rivando anca la Lucia, ara come che l’è vestia oggi..Mamaa, cara da dio bona davanti e anca da drio. Ciao Lucia vutu un cafè?Si un macchiato grasieE lora com’ela la in ufficio, gaveo lavoro?Anca masa, ades che sen in poche anche..A l’è in maternità la Monica alora?Tasiii, la ga pers el fiol!Come pers? Ma.. pa strada? Chissà la sente..Ma cossa ditu su? Sotu semo?No so mi, te à dita ti che i l’ha pers, no me intendo de robe de femene miSi si a voi ve basta saver che la respiri, el resto no serve. Grasie del cafèNiente niente ciao. Porco can che figura che ho fatCome el to solito no? Bon bon ociu che n’demo a far qualcosa va, dai nino che stasera el riva el camion. Areo?!RivoDai pien de seghe movete!rivo rivo

EL cANToN DE GUErI

Una giornata in officina

PANKA A ScUoLA

oGGI ABBIAMo cAPITo... cHE BELLA LA VITA!

Incontrare "i ragazzi della pan-china" è stato molto costruttivo. E forte è stata la sensazione che ha lasciato sulla pelle di noi ra-gazzi-adolescenti.Non credevamo che la curiosità portasse alla dipendenza, che riuscisse a portare via anche gli amici più cari, che la tossico di-pendenza portasse a non dare più valore alla vita, che togliesse

la forza di cambiare e portasse alla solitudine.Grazie a questo incontro ab-biamo capito che non vale la pena bruciare la vita sotto una "stagnola" e siamo d'accordo nel sostenere che la felicità non si trova in fondo ad una siringa, ma la si trova nel cuore di chi ti vuole bene.

I Ragazzi della 2° BSO dell'istituto Flora di Pordenone mandao un messaggio ai Ragazzi della panchina

Come ogni anno "I Ragazzi della panchina" incontrano gli stu-denti nell'ambito della programmazione dedicata alla promo-zione della salute. A gennaio, l'incontro con la classe seconda dell'Istituto Flora di Pordenone è stato molto inteso: le due mat-tinate che abbiamo trscorso insieme agli studenti sono andate oltre alle ore stabilite e quasi ci dispiaceva lasciarci. Gli studente in particolare non volevano mettere fine a questo contatto che si era creato tra noi e perciò abbiamo proposto loro di proseguirlo scrivendo un articolo per questo numero del giornale. E' stata questa un'altra emozione forte per i ragazzi, che ha creato in loro da un lato una grande partecipazione, ma dall'altro anche la paura di non essere all'altezza. Abbiamo allora lanciato la sfida di una collaborazione stabile. Con le insegnanti abbiamo infatti pensato di "aprire" una piccola redazione di classe, dove la nostra redazione Ldp entrerà e coadiuverà gli studenti. Insieme prepareremo le pagine dedicate loro e apriremo all'interno del nostro giornale una rubrica ad hoc. Sarà gestita dagli studenti giornalisti, che avranno come tutti i nostri colaboratori la totale "libertà di parola". Ada Moznich

LDP - LIBERTÁ DI PAROLAGiornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009

Direttore ResponsabileMilena Bidinost

Direttore EditorialePino Roveredo

Capo RedattoreGuerrino Faggiani

RedazioneAndrea Picco, Felice Zuardi, Franca Merlo, Gigi Dal Bon, Ada Moznich, Luca Marian, Diego Todesco, Manuele Celotto, Vittorio Agate, Laura Serra, Elisa Cozzarini, Gian Piero Turchi, Andrea Russo.

EditoreAssociazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone

Creazione graficaMaurizio Poletto

ImpaginazioneAda Moznich

FumettiMarta Bottos e Tiziana De Piero

Stampa La GrafotecaVia Lino Zanussi 233170 Pordenone

Le fotografie in questo numero, ove non specificato, sono di Roberto Gnesutta

Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: [email protected]

Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo della Fondazazione CRUP attraverso il Comune di Pordenone

Si ringrazia per il materiale fornitoci Michele Missinato, Don Lino Moro e il Direttore generale ASS6 Nicola Delli Quadri

Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 PordenoneTel. 0434 363217email: [email protected]

PER DONAZIONI CODICE IBAN: IT 690835612500000000019539

La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00

Hanno collaborato a questo numero

——————————————Franca MerloO Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia.ilcannocchiale.it

——————————————Elisa CozzariniÈ riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. In-somma, Freelance Amstrong

——————————————Laura SerraAll’istituto d’arte ricordano la sua cresta arancione. Nel blog si è scannata con una sedicente Ribel-le e non ha mollato un metro. Non lasciatevi ingannare dai suoi occhi azzurri: la ragazza è tosta.

——————————————Vittorio AgatePiù magro di Gino, a meno di trent’anni ha vissuto almeno cinque vite. Ha un romanzo nel cassetto, ma ha perso la chiave per aprirlo. Se la ritrova, avremo il nostro Guer-ra e pace.

——————————————Manuele CelottoScrittore, nuotatore, scacchista, atto-re. Memorabili le sue performance nel ruolo del carcerato, con tanto di lancio della canotta al pubblico e pettorali in bella mostra. Per un po’ di tempo, purtroppo, si è dimentica-to di uscire dalla parte.

——————————————Gian Piero TurchiHa introdotto nel gruppo lo scarto di paradigma, tanto che per un po’ in sede, dove l'unico scarto cono-sciuto è quello di briscola, ci si sa-lutava chiedendo: come sta il tuo paradigma? Dicono abbia studiato a Palo Alto. Chiedetegli come va, dovrebbe rispondere Cosmico!

——————————————Pino Roveredo"Attenti alle rose" è il suo ultimo regalo letterario. Capriole in salita, Caracreatura: nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. Ha portato in turnèe la Compagnia Instabile a Napoli e Milano: eroico!

——————————————Andrea PiccoSu Fb alla voce orientamento reli-gioso ha scritto integralista juventi-no. Gli è bastato un terzo del cam-pionato per capire che per smentire Mourinho e il suo “Zero tituli”non gli restava altra scelta che laurearsi.(finalmente)

——————————————Guerrino FaggianiRinasce nel maggio 2006 all’ospe-dale di Udine. Da lì in poi è blog-ger (www.iragazzidellapanchina.it/gueriblog ), attore, ciclista.. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche da-vanti al computer. “Cosa? Taglia-re?!? Piuttosto non sta neanche metterlo..”

——————————————Luca Mariané violabile, ossia ha un debole per la viola e non stiamo parlando del fiore. Lui la suona, la viola. Il problema è che adesso ha una lei che si chiama Viola e a dirgli suoni bene la viola si passa per maledu-cati. Ovviamente, vanno d’amore e…d’accordo.

——————————————Ada MoznichDichiara di essere uscita dal tunnel di Beautiful e che anche Cannava-ro tutto sommato non è più quello di una volta. Le resta Clooney. Lei è tranquilla, la Canalis è una co-pertura. Coperto da lei, mi sa che è tranquillo anche lui.

——————————————Gigi Dal BonUno di quelli a cui i Ragazzi della Panchina devono tutto. Ramarro militante, ha scritto un libro, Karica vitale, che è il ritratto di una gene-razione. Chi entra in sede chiede: C’è Gigi? e Gigi c’è, sempre.

——————————————Milena BidinostPremessa: il direttore non si discute, si ama. Mai si sarebbe immagi-nata nella vita di finire a Napoli coi RdP e forse un giorno scriverà, di quell’abbraccio totalizzante. Ma a noi preme di più un’altra vicen-da: che fine ha fatto, il tappetino del bagno?!?

——————————————Diego TodecoSfoga il suo lato rock con i Kid weird and the combos, ma è un composi-tore come pochi in giro. Ascoltatevi la colonna sonora de "Il sole sorge a mezzanotte" e poi asciugatevi le lacrime. Nella turneè con il trio Dalì sta suonando con Wataru Kousaka. Come chi è? Aaah, popolo bue...

——————————————Marta Bottos e Tiziana De PieroPur di disegnare in esclusiva con il nostro giornale hanno rinuncia-to a un faraonico contratto con la Disney. La storia dei RdP a fumetti sta riscuotendo un grande succes-so. Sono pronte per il grande salto. www.nerogatto.it per credere!

——————————————Andrea RussoA vederlo sembra un talebano ma se lo si conosce si scopre che è più dolce di uno cioccolatino. Da gran-de farà il medico, deve solo deci-dere di presentare la tesi, ma il suo cuore batte per la letteratura e ha implorato la redazione per poter scrivere su LDP. Intabto si sfoga su:www.paleozotico.it

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l'acqua e'preziosa elimitatanonsprecarlai ragazzi della panchina

campagna per la sensibilizzazione e integrazione socialeDei ragazzi Della pancHina con il patrocinio Del comune Di porDenone