il soffio dell'angelo

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di Pietro Solimeno, fantathriller Cosa succederebbe se un computer quantico diventasse un Angelo in grado di soffiare la vita dove di vita non ce n’è più? Cosa succederebbe se uno scienziato ambizioso e un po’ incosciente, con un debole per le belle donne e una spiccata attitudine a mettersi nei guai, riuscisse a trovare la formula giusta per rigenerare organi umani? E se la fidanzata di questo scienziato avesse un padre ricco e senza scrupoli, esponente di spicco dello spionaggio industriale, deciso a impadronirsi della formula segreta e disposto a tutto pur di ottenerla? “Il soffio dell’Angelo”, attraverso esperimenti, agguati, inseguimenti, fughe rocambolesche e avventure amorose, delinea uno scenario ricco e avvolgente dietro alla scoperta che potrebbe cambiare il corso della storia.

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PIETRO SOLIMENO

IL SOFFIO DELL’ANGELO

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www.quellidized.it

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IL SOFFIO DELL’ANGELO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-632-5 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Dicembre 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o personaggi è da ritenersi puramente casuale.

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Di Giordano Bruno filosofo e martire

che in tempi di tirannide sacerdotale

di feudalismo e di soggezione elevò la sua fede

alle più alte manifestazioni del pensiero ribelle

onde il rogo ne ardeva le carni

ma glorificava la idea fino al trionfo

volle il popolo di Orbetello

ricordato il nome in questo pio istituto

sacro al dolore degli umili dalla scienza dallo amore

non dal miracolo risanati

--------------- 1907

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Tutto iniziò in quel mese di marzo, e tutto finì in quello stesso anno,

nello stesso posto, ma con ben altri propositi.

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Prologo Laboratorio di ricerca, ore 06:25. Marzo, anno 2012 Solo con i miei pensieri. Girovagavo all’interno del laboratorio con la testa piena di domande. Erano ore che non trovavo pace, mi tornavano in mente gli insegna-menti ricevuti, le discussioni accademiche sul significato di etica, di diritto, di verità, di come possiamo interpretare tutto questo in base alla nostra cultura, alle nostre radici, alla nostra religione. Lo sguardo del mio vecchio insegnante mi seguiva in ogni cosa che facevo, con il suo sorriso sornione perennemente impresso sul volto: scherzava sempre su tutte le interpretazioni che noi studenti, ingenua-mente, tentavamo di dare. Per lui non esisteva risposta, era solo una protezione mentale, una forma mentis per affrontare le prove più diffi-cili e le decisioni importanti, un freno inibitorio. Mancava ancora qualcosa alla mia vita, qualcosa che mi permettesse di non avere paura, di continuare con quella voglia innata di scoprire una scienza vera, che non si ferma davanti a nulla, che non accetta com-promessi. Mi alzai per avvicinarmi alla vetrata del mio studio. La serata sembrava tranquilla, solo una leggera foschia a disegnare strane sfumature sulla città, mentre qualche nuvola continuava a nascondere quello che da an-ni andavo cercando. Avevo paura, una maledetta paura di non sapermi fermare, di non riu-scire più a capire quale sarebbe stato il limite imposto dalla mia co-scienza, sempre che ne avessi ancora una. Raggiungere la meta a ogni costo; era questo l’obiettivo che mi ero prefissato, sapendo che, inevi-tabilmente, mi avrebbe portato a scelte difficili, inimmaginabili, forse al di sopra di ogni moralità. Sedetti di nuovo sulla poltrona di fronte al terminale e chiusi gli occhi. Le luci si accesero da sole, come sempre a quell’ora. Strinsi gli occhi per un momento sufficiente a dare più tempo al mio passato, per per-mettergli di riaffiorare nella mente. Mi svegliai che era mattino. Mi alzai e ancora una volta mi avvicinai alla vetrata. Il sole iniziava a scaldare la città, immersa nella vita di o-gni giorno.

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Un’ambulanza era accanto alla fermata del bus, un uomo era accasciato a terra, un medico cercava di rianimarlo. Una donna sedeva accanto a lui: il suo viso era l’espressione della sof-ferenza, forse sapeva che quello sarebbe stato l’ultimo giorno in cui avrebbe stretto la mano del suo compagno. Presi il binocolo che tenevo nel cassetto e misi a fuoco l’uomo. Il medico esercitava una forte pressione sul suo torace, mentre un cer-chio di persone si era stretto intorno a loro. Una bambina si teneva la mano davanti agli occhi, vicina a quella che probabilmente era sua madre. Stava lì, a guardare quella donna che chiedeva aiuto, sottovoce. Il medico spingeva sempre con più forza le mani sul torace, l’infermiere insufflava aria nei polmoni: mentre lo fa-ceva muoveva la testa come per dire “È morto, quest’uomo è morto”. La folla intorno aumentava sempre di più. Lasciai il binocolo e presi la fotocamera digitale: con l’obiettivo di cui era dotata avrei potuto vedere meglio. Quando inquadrai di nuovo la strada il medico si era fermato, stava par-lando con il suo assistente, che con molta delicatezza chiudeva gli occhi a quella persona. Spostai di poco la fotocamera e vidi la sua compagna, gli stringeva ancora la mano, ma il suo sguardo era fermo, su di me. Solo allora trovai la forza per continuare.

* * * Feci il mio ingresso nel laboratorio con la consapevolezza di quello che stava accadendo; era una storia vecchia, direi una consuetudine. Alex che riusciva a far imbestialire Giulia di prima mattina. «Buongiorno, tutto bene?» «Tutto bene, siamo concentratissimi sul nostro lavoro, vero Giulia?» «Parla per te, io non ho bisogno di concentrarmi, lo sono sempre fin da quando apro gli occhi la mattina.» «Aria pesante o sbaglio? Alex, l’hai fatta arrabbiare di nuovo? So che ci riesci bene.» «Ma no, lei è sempre così, avrà le sue cose.» «Alex! Se non la smetti di sfottermi giuro che te la faccio pagare, lo sai che ti tengo in pugno! E non permetterti mai più di dire che ho le mie cose!» Sembravano ragazzini da tenere a bada, quasi mi veniva da sorridere. «Non so, forse sono le cose di qualcun’altra.» «Ancora? Vi state ancora punzecchiando come ragazzini? Per favore, Alex, cerca di mettere in moto il cervello, okay? E tu, Giulia, ci caschi sempre. Non vedi che si diverte a sfotterti?» Tra Giulia e Alex c’era sempre stata un po’ di rivalità, sempre espressa con degli sfottò, mai niente di grave, si riappacificavano subito.

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Giulia Rosmini, una trentenne laureata in biologia molecolare, una spe-cializzazione in cardiochirurgia e un curriculum da far invidia a qualsi-asi ricercatore. Alex Ferrari una testa matta, ma dotato di capacità in-ventive e intuitive incredibili, laureato in chimica organica. Io? Il clas-sico fisico esperto in meccanica quantistica, nonché discreto program-matore convertito alla genetica, un ricercatore con tante idee per la testa e una gran voglia di scoprire qualcosa di nuovo. Un ricercatore di qua-rant’anni, scapolo. Il nostro ultimo lavoro aveva come scopo la creazione assistita di mole-cole modificate gestite da un calcolatore quantico. In altre parole cerca-vamo di creare, tramite cellule staminali artificiali, la giusta combina-zione per rigenerare organi umani danneggiati, rimodellandoli a nostro piacere. Il tutto utilizzando una nuova tecnica frattale da me creata. Il tipo di cellula era “non specializzata”, si trattava di una cellula imma-tura totipotente in grado di ricreare o riparare qualsiasi tipo di organo o tessuto. Le nostre idee, e più che altro i nostri studi arrivati a un livello avanza-to, erano subito piaciuti ad alcuni colleghi di Los Alamos, i quali, pur di collaborare con noi, si erano offerti di aiutarci mettendo a nostra dispo-sizione le loro attrezzature. Come il PQC, un supercomputer quantico da noi amichevolmente chiamato “l’Angelo”. Un bel giocattolo, se si pensa che ne esistono ancora pochissimi esemplari ognuno con caratte-ristiche diverse dall’altro. Eravamo davvero a un punto cruciale. Era come se la verità fosse dietro una montagna alta novemila metri e noi fossimo arrivati sulla vetta. Da lì potevamo vedere tutto. Ci mancava solo di scendere per poter mettere le mani sopra a quello che avevamo visto. «Dimenticavo, Alex. Sei anche esperto d’informatica, giusto?» «Diciamo che me la cavo.» «Te la cavi, ottima risposta. Quindi hai ancora molte lacune in merito. Dato che il software l’ho sviluppato io, ed è a prova di furbo, sono per-fettamente a conoscenza dei tuoi ritardi. La manomissione che hai pro-vato a fare ha messo in funzione una routine che ha memorizzato tutti i tuoi tentativi di modifica, compresa l’ora d’ingresso che hai alterato. Ci siamo capiti? Bene ragazzi, al lavoro, ci vediamo più tardi.» Le risa di Giulia inondarono letteralmente la stanza: Alex era rimasto imbambolato.

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2 Ero chiuso nel mio ufficio a ripensare a quello che avevo visto, a quell’uomo morto sulla strada, allo sguardo di quella donna. Quella scena mi aveva lasciato scosso, i suoi occhi sembravano implorarmi di fare qualcosa. Mi concentrai sul lavoro cercando di non pensarci più. Dopo circa un’ora il campanello dello studio mi fece sobbalzare. «Entra Alex, cosa c’è, problemi?» «Volevo chiederti scusa, ho fatto la figura del deficiente.» «Alex, non m’interessa se arrivi in ritardo. Sei un ottimo elemento, i-noltre anch’io ero come te, facevo quello che facevi tu. Con una piccola differenza però: io non mi sono mai fatto beccare.» «Già, tu sei più esperto di me.» «Sbagliato. La differenza è che io non ho mai sottovalutato nessuno.» «Va bene, ma non sono venuto solo per questo.» «È successo qualcosa?» «Direi proprio di sì. Forse ancora Giulia non se n’è resa conto ma…» «Ma cosa? Non tenermi sulle spine.» «Questa volta ne sono certo. Siamo riusciti a controllare il meccanismo che regola la riproduzione.» «Ne sei sicuro?» «Ieri sera controllavo il software per la simulazione della composizione cellulare, questa volta non ha dato nessuna risposta negativa. Il che tec-nicamente sta a significare che abbiamo trovato la giusta combinazione degli elementi chimici.» «Non mi stai prendendo in giro, vero?» «Parlo seriamente. Ancora non ho detto niente a Giulia, volevo esserne sicuro. Ho lasciato che l’Angelo ripetesse la procedura per almeno un centinaio di volte, poi, questa mattina mi sono reso conto che tutte e cento le prove sono risultate positive. Questa volta ci siamo davvero.»

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3 Cosa stavo facendo? Era questo in realtà quello che volevo? Quello che ambivo da quando avevo iniziato i miei studi? Non avevo una risposta. Nonostante la mia voglia di sfidare la scienza, qualcosa dentro di me inibiva in parte lo stimolo per continuare. Moralità? Quella l’avevo chiusa in un angolo della mia coscienza, an-che se spesso spingeva cercando di aprire una porta sigillata solo in par-te; aveva un ruolo determinante: la paura che mi attanagliava era quella di non riuscire più a fermarmi. Passeggiavo per la città cercando di ritrovare me stesso per dare una risposta ai mille quesiti che m’angosciavano. Sapevo che sarei riuscito a raggiungere il mio obiettivo, ormai era tutto in discesa. Senza rendermene conto mi ritrovai davanti alla chiesa dove da ragaz-zino frequentavo l’oratorio: erano anni che non mi fermavo più, quando passavo per quella strada affrettavo sempre il passo, cercando di non guardarmi più indietro. Una voce alle mie spalle interruppe i miei pen-sieri. «Ciao Peter, qual buon vento?» Mi voltai e vidi Don Antonio, il vecchio parroco con cui avevo passato intere giornate. Come un flash mi tornarono in mente tutti i nostri discorsi sulla spiri-tualità, su cosa era giusto e cosa non lo era. Su tutti i perché senza ri-sposta che ogni giorno mi ponevo. Anche se ero piccolo, rimanevo affascinato dalla sua cultura e dal modo così semplice di affrontare temi che quell’uomo riusciva estrapolare dalla mia mente, mettendo sempre al centro di tutto la coscienza dell’uomo. Un uomo di chiesa che non riusciva a sfuggire al fascino della scienza. Fu lui a farmi intraprendere gli studi che mi avrebbero portato ad ap-profondire le mie conoscenze. Mi abbracciò stringendomi forte a sé. «Entra, dal momento che questa volta ti sei fermato davanti alla tua chiesa significa che hai bisogno di parlare con qualcuno. Peter, dove ti ha portato la tua conoscenza?» Non risposi, mi limitai a seguirlo fino all’interno della sagrestia: lì il tempo si era davvero fermato.

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Ci guardavamo in faccia senza dire nulla. Sedevo sulla solita sedia do-ve da bambino rimanevo incantato dalle sue parole. Allora era molto giovane. La prima cosa che gli chiesi un mese dopo il suo arrivo fu: «Perché ti sei fatto prete?» Rimase molto a pensare prima di darmi una risposta, e non certo per-ché non avrebbe potuto farlo con poche e semplici parole. Rimase sem-plicemente a riflettere sul vero senso di una domanda formulata da un ragazzino nell’innocenza dei suoi quindici anni. Mi rispose con un’altra domanda. «Cosa provi quando entri in questa chiesa?» La risposta fu molto complicata per me. Rimasi concentrato per paura di sbagliare la mia replica, anche se lo conoscevo da poco tenevo mol-to al suo giudizio. Ricordo che mi alzai da quella scomoda sedia e mi avvicinai al croce-fisso dove molte volte l’avevo visto inginocchiarsi e pregare. Anch’io rimasi per molto tempo senza dire nulla, poi mi avvicinai di nuovo a lui ma non sedetti, rimasi in piedi a guardarlo dritto negli occhi. Cercavo le parole adatte per parlare come un adulto, per far capire bene quello che gli avrei detto. «I misteri che questa chiesa trasuda mi affascinano, gli odori antichi mi trasportano nei tempi passati. Qui tutto trasmette un senso di pace, ma allo stesso tempo in tutto questo sento che manca qualcosa.» Ascoltava in silenzio, era attentissimo a quello che stavo dicendo. «Padre, cos’è la fede se non una richiesta di assoluta speranza e obbe-dienza in qualcosa che in realtà è invisibile ai nostri occhi? È forse cieca obbedienza? Totale e illimitata verso chi la richiede nonostante si celi dietro un simbolismo che non tutti riescono a comprendere?» Quelle parole le avevo sentite dire da mio padre, un uomo che non sopportava l’obbedienza assoluta per nessuno; mi ripeteva sempre “Se devo credere in qualcosa o in qualcuno… che questi siano reali.” Anche questa volta non rispose, aspettava ancora qualcosa da me: m’incitò con un cenno della testa a continuare. «Nonostante il mistero che circonda la religione, io ho bisogno di sco-prire la verità, e questa si può rivelare solo con la conoscenza.» Ero riuscito a dire quello che pensavo, anche se mi vergognavo di fron-te a lui, non potevo conoscere le sue reazioni. «Tu mi hai chiesto il perché della scelta di dedicare la mia vita al Si-gnore: potrei darti varie risposte, scegli tu quella che pensi sia la più giusta. Per vocazione, o per aver sentito - come dicono in molti - la chiamata, oppure per scontare qualche peccato o qualche grosso sba-glio fatto precedentemente, qualche colpa da espiare. Sentiamo, tu qua-le sceglieresti tra queste risposte?» «Nessuna delle tre.» «Dammi tu una risposta, allora.»

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«La mia risposta è anche la tua.» «Cos’è questo silenzio, Peter? Stai ripensando a quando da piccolo mi ponevi sempre delle domande?» Gli sorrisi, era una persona molto intelligente, riusciva a percepire lo stato d’animo delle persone come se riuscisse a penetrare nei loro pen-sieri. «Come vanno le tue ricerche, sei riuscito a completare il tuo progetto?» «Sono alla svolta finale, pochi passi ancora e avrò raggiunto uno dei miei due obiettivi.» «Nei tuoi primi anni di studio, mi dicesti che l’obiettivo che ti eri pre-fissato era uno soltanto, cos’è cambiato? Qual è l’altro obiettivo?» «Sapere di non aver sbagliato.» Rimasi a parlare con lui per molto tempo, ascoltava in silenzio annuen-do a ogni mia considerazione. Quando uscii dalla chiesa rimase sulla soglia a guardarmi mentre mi allontanavo. Sentii solo una frase che il rumore della città tentò inutilmente di nascondere: «Non fermarti ades-so, o non avrai più l’occasione per scoprire la nostra verità.»

* * * La Genetic Lab si trovava a pochi chilometri di distanza dalla nostra sede. L’incontro con il responsabile mi metteva sempre in agitazione. “Fatti, fatti e non chiacchiere” era quello che ripeteva sempre. Questa volta però i fatti c’erano davvero. «Venga pure avanti, Peter, venga avanti e si accomodi. Ormai la consi-deriamo dei nostri, non ha bisogno di farsi annunciare. Ho un appunta-mento fra cinque minuti, pensa che possano bastarle?» “Il solito arrogante presuntuoso e…” «Signor Costanzi, non sono venuto da lei per la solita relazione mensi-le. Sono qui per comunicarle che da questo momento siamo al livello 2.» «Livello 2? Sta dicendo la verità?» “Quanto lo odio quando parla cosi!” «Costanzi! Le sembro il tipo che va a raccontar frottole?» «Non intendevo questo, ma quello che sta affermando è molto signifi-cativo. Avete trovato la giusta combinazione chimica?» «È quello che significa livello 2, o sbaglio?» «Non sbaglia, secondo i protocolli adottati significa che siete a un passo dall’attuazione del progetto.» «Ecco, finalmente ha detto giusto, ci siamo. Il computer quantico ha confermato la nostra teoria, fra non molto saremo pronti per passare al livello 1, per poi portarci al livello 0.»

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Costanzi rimase pensieroso per alcuni minuti. La Mont Blanc girava tra le sue dita nervosamente, mentre gli occhi perlustravano ogni angolo della stanza. La mano sinistra non faceva altro che lisciare quei pochi capelli unti che spiccavano sulla sua testa. Poi la mano passò dai capelli alla cornetta del telefono sulla scrivania, lasciando un’impronta quasi indelebile. «Signorina, mi chiami il generale Conti, lo voglio subito in questa stan-za, e annulli tutti gli altri appuntamenti.» «Conti? Che c’entra lui con il nostro progetto?» «Con il progetto nulla, però si ricordi che il nostro lavoro è a conoscen-za di molte persone, di conseguenza non dobbiamo tralasciare neanche i minimi accorgimenti per evitare “interferenze”. Capisce cosa intendo?» «Non ci vuole molto a capirlo. Crede che non basti la sicurezza inter-na?» «No, non basta, e lo sa anche lei.» Aveva ragione: una simile scoperta andava protetta con la massima si-curezza. «Va bene, però non lo voglio tra i piedi in laboratorio, intesi?» «D’accordo, sia lui sia i suoi uomini non la disturberanno, si mimetiz-zeranno con gli addetti del centro. Nessuno si accorgerà di loro.» «Ho detto che non lo voglio in laboratorio, così come i suoi scagnozzi!» «Lo sa perfettamente che non è possibile, non insista!» Il generale Conti era una persona poco colta, poco istruita e con una presunzione che spesso andava oltre il ridicolo. Il mio ultimo incontro con lui era stato circa cinque anni prima, quando ancora lavoravo al CERN. Avevamo avuto varie discussioni, una anche animata. Mi aveva detto testualmente che se mi avesse agguantato mi avrebbe spezzato il collo. Cosa che presi seriamente in considerazione. È sempre stato un pazzo, l’ho visto colpire un addetto alla sicurezza solo perché non gli aveva chiesto i documenti. Il poveretto si è fatto quindici giorni d’ospedale con la mascella fratturata. Lo aveva talmente impaurito che non sporse neanche denuncia. In seguito a quell’incidente il generale fu trasferito ad altra sede. Alla nostra, appun-to. Con l’accordo che non sarebbe mai dovuto entrare all’interno del laboratorio. Questa nuova situazione cambiava le carte in tavola. Quando ci si trova a livello 2 tutte le restrizioni vengono a cadere, come l’interdizione di accesso al laboratorio, e questo m’infastidiva notevolmente. La presen-za di quel tizio aveva inoltre il potere di mettere in soggezione Giulia, per non parlare del nervoso che faceva venire ad Alex con le sue do-mande idiote. Il punto è semplice: se uno non capisce nulla sugli studi e sulle applica-zioni del laboratorio, fare delle domande significa solo cercare una ri-sposta che non si capisce. Inoltre, chiedere spiegazioni su una risposta

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che non si capisce, significa rompere le scatole. In poche parole ci a-vrebbe fatto perdere tempo, per dirla in maniera gentile.

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4 Il microscopio elettronico mostrava la prima cellula creata artificial-mente. Non era la solita cellula prelevata da donatore, era completa-mente diversa. Al suo interno, oltre alle componenti di base, era presen-te un microcalcolatore programmato dal PQC che utilizzava il DNA come piattaforma per i suoi calcoli. Non certo veloce come un calcola-tore quantico, ma molto più sofisticato e in grado di creare un sistema di comunicazione con le altre cellule, in modo che potessero dialogare tra loro. In pratica sarebbe bastato che il PQC comunicasse via wireless con una delle cellule per ridistribuire l’informazione anche alle altre. Una comunicazione sulla loro situazione. In questo modo qualsiasi mo-difica in atto all’interno di una di loro era analizzata in tempo reale dal-le altre, che potevano ripristinare lo stato di base della cellula alterata sia da fattori esterni sia interni; un’intelligenza distribuita. Stavamo per creare l’essere perfetto. «Che te ne sembra, Peter, non è carina?» «Giulia, hai davvero un modo tutto tuo per rappresentare le cose. A me non sembra carina, anzi mi fa anche un po’ senso.» «Ma che dici? È una creatura magnifica!» «Okay, è magnifica.» «Quando iniziamo la coltivazione?» «Subito, cominciamo subito.»

* * * rno decisi di recarmi al poligono di tiro: la mia valvola di sfogo setti-manale. Era già da un po’ che qualcosa contrastava la mia filosofia di considera-re il lavoro come una missione. Lo scopo dei miei studi, di tutti i miei sacrifici che spesso mi lasciavano con una punta di amaro in bocca, ri-schiavano di perdersi nel nulla. Era come avere dietro le spalle qualcu-no che rallentasse ogni mio passo. Anche se tentavo di allontanarla, quella sensazione era sempre presente, pronta a risvegliare in me qual-che misterioso senso di colpa. Troppe volte mi sono confrontato con me stesso e con gli altri, senza mai trovare una risposta concreta. Mi sono sempre chiesto: “Può la ri-cerca violare principi etici sui quali il mondo ha fondato le sue radici?” Pensavo alla mia domanda: un quesito senza risposta. Non volevo ar-

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rendermi, non potevo abbandonare la promessa che avevo fatto a quella donna rispondendo al suo sguardo mentre stringeva la mano del suo uomo. Quando dovevo scaricare la tensione, e un po’ anche la mia coscienza, mi recavo lì per mantenermi in contatto con gli amici. Uno in particola-re era Marco Mattei, un militare assiduo frequentatore del poligono, nonché punto di riferimento per chi volesse migliorare la sua mira. Appena entrai lo trovai che discuteva con un suo collega. «Sono anni che ti eserciti e ancora non sai distinguere una cazzo di ar-ma! Quanto volte ti ho detto che non si spara con un calibro del genere in un poligono di tiro? Non devi sfondare un muro, devi colpire il ber-saglio!» Prese la sua Beretta e sparò cinque colpi. Tutti e cinque i colpi centra-rono la sagoma al cuore. «Ti è chiaro il concetto?» Per tutta risposta il militare prese la sua Smith & Wesson 357 e fece fuoco. La distanza era chiaramente troppo elevata, tanto che un solo colpo pre-se di striscio la sagoma. «Levati dalle palle!» Il militare se ne andò borbottando qualcosa, Mattei si avvicinò a me. «Ciao Dottore, come ti va?» «Non male. Vedo che come carattere non sei cambiato affatto.» «Questi ragazzi si credono tutti dei Rambo: ancora non hanno capito come funziona. Facciamo qualche tiro?» «Dammi qualcosa per sparare, basta non sia una fionda.» «Quando ti deciderai a comprartene una? Cerca di personalizzarti!» «Non saprei cosa farmene, tanto uso le tue.» «Andiamo nella mia zona privata, voglio insegnarti qualcosa di nuovo.» Ci allontanammo dagli altri per recarci in un posto appartato, e questo mi sembrò subito molto strano. «Senti, devo parlarti» disse Mattei diventando improvvisamente serio, e per serio intendevo non incazzato. «A che punto sei con i tuoi studi?» «Perché questa domanda? Lo sai che non posso parlare del lavoro che svolgo al di fuori del laboratorio.» «Smettila di dire stronzate, con me sei al sicuro.» «Direi che tutto sta procedendo per il meglio, perché?» Non potevo svelare a nessuno l’esito del progetto che stavo portando avanti, sarebbe stato troppo rischioso. Anche se di lui potevo fidarmi ciecamente: le regole andavano rispettate. «So che avete comunicato il raggiungimento del livello 2. Sono stato contattato da un pezzo grosso. Sembra stiano applicando un protocollo

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di protezione per tutti quelli che lavorano all’interno del tuo laboratorio. Mi hanno assegnato un ruolo.» «A quanto pare il generale Conti si sta muovendo.» «So che hai avuto già a che fare con lui.» «Piccoli screzi, niente cui non si possa rimediare, a parte il mio collo che ha rischiato di spezzarsi.» «Peter, fai molta attenzione, ci sono troppi interessi in gioco. Ascolta-mi, ti parlo da amico: non fidarti di nessuno, mai. Da questo momento dovrai considerare tua madre come un potenziale nemico, questa è la regola. Ricordalo Peter.» Accennai un sì, appena sussurrato, ero preoccupato. «Prova questa.» Nelle mani di Marco era apparsa una Beretta PX4 Storm. «Ultimamente è diventata la mia preferita. Dai, non farti pregare.» Impugnai la pistola, mirai e feci fuoco. Il risultato fu alquanto deluden-te: su cinque colpi sparati solo uno aveva colpito a malapena il bersa-glio. «No, ascoltami attentante. Per prima cosa devi impugnare correttamen-te la pistola, tenendo presente che l’asse dell’arma deve collimare con l’asse dell’avambraccio. Il dito non era regolarmente posizionato: deve creare un angolo di novanta gradi sempre con l’asse dell’arma. Non dimenticare l’importanza dell’impugnatura. Direi che questa Beretta è adattissima alla tua mano. Riprova seguendo le mie istruzioni.» Quella volta tre colpi andarono a segno, sotto lo sguardo soddisfatto di Marco. «Hai delle doti, me ne sono reso subito conto. Sei uno che apprende facilmente, sarà per la tua mente scientifica o perché in fondo sei come me.» «Come te? Io non sono un militare.» «Peter, tu non ti conosci affatto, ma sono convinto che un giorno capi-rai davvero chi sei, e forse quel giorno ti sentirai finalmente in pace con la tua coscienza.» Mi diede una pacca sulla spalla e si allontanò. Rimasi a guardarlo ri-pensando a quello che mi aveva appena detto. Sparai altri colpi, questa volta centrando ripetutamente il bersaglio.

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5 Aline preparava la sua specialità: pollo al forno farcito di marmellata e canditi ricoperto di cioccolato fondente. Io sedevo come capotavola al lungo tavolo in stile vittoriano sorseggiando del buon Morellino di Scansano, indugiando con la mano nella tasca destra dove tenevo na-scosta la mia quotidiana dose di antiacido. Lei lavorava vivacemente ai fornelli per preparare contorni e altre cose insane da farmi assaggiare. Aline Werlen, di origine svizzera tedesca: una ragazza come tante, se non fosse stato per la sua intelligenza. La sua mania era quella di unire piatti di origine tedesca con quelli francesi, per non parlare di quando nel “miscuglio” inseriva vecchie ricette maremmane. Pur di farla felice riuscivo a mandar giù tutte le schifezze che mi propi-nava. Era una ragazza dolce, molto sensibile, e per questo non riuscivo a rifiutare un suo invito a cena. Suo padre era un noto industriale nel campo farmaceutico, si era arric-chito dopo l’immissione sul mercato di un farmaco in grado di inibire lo sviluppo di cellule tumorali causa della leucemia mieloide acuta. Un vero miracolo della chimica. La persona colpita da questa grave malat-tia non avrebbe più avuto bisogno né di chemioterapia né di radiotera-pia e, tantomeno, di trapianto di midollo osseo. Il farmaco era eccezio-nale nella sua struttura, una vera terapia biologica. Anche se il massimo degli introiti della sua casa farmaceutica derivava dalla vendita di far-maci antirigetto di nuova concezione. Aline era la sua unica figlia, nata trentadue anni prima, subito dopo l’incidente in cui aveva perso la vita sua madre. Riuscirono a salvarla in extremis con un taglio cesareo praticato in un ospedale svizzero. Il che giustificava sicuramente l’attaccamento morboso del padre alla figlia, che la considerava come l’essere più bello e intelligente mai nato sulla terra. «Aline, uno dei tuoi soliti piatti?» «Perché questa domanda? Lo sai che non compro mai nulla di precot-to.» «Intendevo dire che ogni tanto potresti farmi un tranquillo e generoso piatto di spaghetti con il pomodoro.» «Voi italiani siete fissati con la pasta. Tutti i carboidrati che ingerite finiranno per farvi male.» «Da quando i carboidrati fanno male?»

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«Da quando me li chiedi tu. Domani verrà mio padre.» «Cos’è, una minaccia? O ha preso residenza a casa tua?» «Non fare il solito, lo sai che ti stima, anche se dice che sei più matto di un cavallo.» «Appunto, io non sono né matto né un cavallo.» «Smettila! Ti vuole bene e farebbe qualsiasi cosa per te. Finché starai con me, s’intende.» «Un’altra minaccia?» «No, assolutamente no, un consiglio. Non fare quella faccia. Sembri… come dite voi, un cane bastonato?» «Lo sai perché ti sopporto?» «Ti ascolto.» «Perché sei la più bella cosa che mi sia mai capitata. A parte la tua cu-cina.» «Ti adoro quando dici queste cose. Mangi da me anche domani?»

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6 Il giorno dopo non mangiai da lei, ero troppo impegnato con Giulia e Alex. Il lavoro procedeva nel migliore dei modi; il generale Conti si era stabilito all’interno dell’edificio, in un appartamento riservato ai ricer-catori ospiti, mentre i suoi scagnozzi si erano accampati in uno stanzo-ne che usavamo come ricovero per le attrezzature. «Signori, per cortesia, non toccate questi macchinari. Si tratta di mate-riale costosissimo, e molto di tutto questo non è nostro, quindi facciamo attenzione.» «Stia tranquillo, dottore, non toccheremo nulla di quello che c’è qui dentro.» Mi voltai e vidi Marco, con un sorriso sornione stampato sulla faccia «Visto dottore? Adesso ci sono io a proteggerti.» «Devo preoccuparmi?» Si fece una risata e iniziò a impartire ordini agli altri ufficiali, poi tornò da me. «Peter, il generale ti vuole parlare. Mi ha chiesto di dirti che ti desidera nella sua stanza.» «Che cosa vuole da me?» «Non ne ho idea. Vorrà salutarti.» «Certo… ti ringrazio! Andrò subito da lui.» «Un’altra cosa… non sono uno scagnozzo.» L’appartamento era al piano superiore, salii le scale con molta lentezza; non avevo voglia di parlare con quella persona ma dovevo farlo. Proba-bilmente sarebbe rimasto nel laboratorio per molto tempo, e avrei dovu-to sicuramente trovare un compromesso.

* * * «Venga avanti dottor Berni, speravo che venisse a trovarmi, noi due dobbiamo parlare.» «Buongiorno, generale, come va?» «Abbastanza bene, grazie. Si sieda la prego, e mi ascolti. So che tra noi non corre buon sangue e so anche che spesso mi comporto da perfetto idiota. Le voglio fare una proposta.» «Una proposta? Di che genere?» «Diciamo un condono tombale. Cancelliamo tutto quello che c’è stato tra di noi e ricominciamo dall'inizio. Dobbiamo lavorare insieme, giu-

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sto? Di conseguenza è meglio farlo in armonia e serenità. È d’accordo?» Le parole di Conti mi lasciarono perplesso, mai mi sarei aspettato da lui una simile proposta, anzi, pensavo che avrebbe detto qualcosa del tipo “Lei non rompa le palle a me e io non le rompo a lei, ma se mi fa uno sgarbo giuro che questa volta il collo glielo spezzo davvero!” «Va bene, mettiamo in atto il condono, anche se nei condoni normal-mente c’è qualcosa da pagare.» «Questo è gratuito, glielo garantisco. Stringiamoci la mano come vec-chi amici.» «Va bene generale, stringiamoci pure la mano.» «Bene, ora si sieda, devo dirle cose importanti che riguardano la vostra sicurezza.» «C’è forse qualcosa che io non so?» «Sappiamo per certo che vi stanno controllando, qualcuno sa che siete a buon punto con il vostro progetto, e questo interessa a molti.» «Questo era prevedibile, certe cose sono difficili da tenere nascoste. Troppe persone sono a conoscenza del nostro progetto, compresi i col-leghi americani.» «Berni, tramite gli Israeliani, il Mossad per essere più preciso, abbiamo saputo che c’è un disegno ben preciso da parte di un’organizzazione terroristica. C’è il rischio che vogliano rapirvi e portarvi in uno dei loro laboratori per costringervi a lavorare su alcuni progetti batteriologici, ma non c’è solo questo. Dalle informazioni di cui sono venuto a cono-scenza, e da qualche persona all’interno della loro organizzazione, sia-mo venuti a sapere che vogliono ricattare il nostro governo.» «Eravamo già in pericolo prima che arrivasse lei?» «Sì, sono già diversi mesi che vi teniamo sotto controllo, ventiquattro ore su ventiquattro.» «Non mi sono mai accorto di nulla.» «Bene, significa che abbiamo lavorato al meglio.» Salutai il generale e uscii dalla stanza, turbato. Quella gente non scher-zava, da quel momento si faceva sul serio. Mi sentii in dovere di comu-nicare agli altri il risultato dell’incontro. Convocai subito una riunione.

* * * «Bene signori, ora sapete tutto.» Alex e Giulia si guardavano stupiti, così continuai «Siamo protetti giorno e notte, non abbiamo nulla da te-mere.» «Questo lo dici tu!» «Perché, Alex? Cosa ti preoccupa? Ti ripeto, siamo tenuti sotto control-lo, nessuno farà mosse azzardate.»

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Dentro di me sapevo che non era così, ma che potevo fare? E soprattut-to cosa potevo dire? Se ne andarono borbottando qualcosa.

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7 Aline mi aspettava davanti al portone d’ingresso, sembrava impaziente di mettere in atto il suo progetto. Consisteva nel passare la serata in una vecchia casa di campagna, lontano da tutti e, per sua gioia, con lo scopo di farmi assaggiare una nuova specialità culinaria. Il casolare aveva un aspetto che definire sinistro era una metafora posi-tiva. Un rudere che non avevo mai sopportato: cadeva a pezzi. Il padre l’aveva acquistato per sua figlia, ma lei aveva sempre odiato vivere lon-tana dalla città e per questo era rimasto in uno stato pietoso. Dopo circa un’ora di marcia c’immettemmo in una strada secondaria, una scorciatoia secondo lei. Era sterrata e piena di buche colme di fan-go che non mi permettevano di procedere veloce: iniziai a sbuffare scocciato. «Vedo dei fari dietro di noi» disse Aline incuriosita. «Sembra che qual-cuno ci stia seguendo.» «Questa zona è piena di casolari, sarà qualche contadino che torna a casa dopo una giornata nei campi, nella sua casa accogliente, e non in una topaia che cade a pezzi!» «Amore, la casa non cade a pezzi, ha solo bisogno di manutenzione. Non mi piace trasformare un casolare in una villa borghese. Gira a sini-stra, prendiamo quest’altra strada. Da qui manca circa un chilometro.» Appena superata una curva frenai improvvisamente, tanto che Aline rischiò di sbattere il viso sul parabrezza. Un ponte di legno vecchio di chissà quanti anni aveva ceduto. Scesi dall’auto per controllare e notai che quello che rimaneva erano solo poche assi pericolanti. Probabilmente quella strada non veniva più utilizzata da anni, di conseguenza era stato lasciato a marcire. «Bell’idea quella della scorciatoia, complimenti. Adesso ci tocca torna-re indietro e rifare di nuovo la vecchia strada. Impiegheremo più di un’ora, se non due, viste le condizioni.» «Non incolpare me come sempre, per favore!» «Hai ragione, sono stato io a consigliare la scorciatoia.» Rimanemmo in macchina in silenzio, nessuno si azzardava a dire nulla. Dal suo sguardo capii che forse era meglio non aggiungere altro: avevo infierito anche troppo, tanto che Aline in uno scatto d’ira aveva strappa-to le chiavi dal cruscotto gettandole sul tappetino.»

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Dopo qualche minuto di silenzio si chinò e le riprese. Le inserì nel cru-scotto e iniziò a guardarmi in modo inequivocabile: era il suo modo per fare la pace. «Aline…» «Ho voglia di farlo adesso, in macchina.» «Lo sai che è scomodo, e poi in macchina non mi piace più.» «Mangia meno e fai più movimento, stai ingrassando, non ti vedi?» «Non sei tu che devi dirmi cosa fare o non fare.» «Non ti adagiare troppo, potresti fare di meglio.» Rimasi in silenzio per un po’, mi aveva ferito nell’orgoglio. Non fu facile districarmi tra la leva del cambio, il freno a mano e il se-dile reclinato. Riuscii ugualmente a farcela, finché un crampo alla gam-ba destra mise fine alle mie aspettative atletiche. «Fammi allungare la gamba! Togliti, ho un dolore tremendo...» «Lo sapevo, non hai più il fisico. Tu e la tua pasta, se mangiassi di più quello che cucino io, questo non succederebbe.» Non dissi una parola, mi limitai ad assentire sperando che la contrazio-ne al muscolo terminasse. Terminò poco dopo, Aline mi guardava divertita. Finii in bellezza ribal-tando le sue aspettative nefaste. Fu effettivamente un bell’inizio serata.

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8 Eravamo già in parte rivestiti quando sentimmo un colpo sulla parte posteriore della macchina. Aline mi prese un braccio e lo strinse forte, mentre io cercavo di capire quale potesse essere la causa di quel rumo-re. All’inizio pensai a un animale, forse un cinghiale, poi una faccia umana proprio davanti al finestrino lato guida mi fece lanciare un urlo. La mia reazione fece indietreggiare l’uomo, solo per pochi istanti: nella sua mano destra si vedeva chiaramente una pistola. Dalla parte di Aline c’era un’altra persona, armata di bastone. Era la pistola quella che mi preoccupava, la teneva puntata proprio all’altezza della mia tempia. Potevo rischiare, mettere in moto e partire, ma se avesse sparato mi avrebbe aperto il cranio. L’arma sembrava di grosso calibro, decisi che fosse meglio non rischia-re. Aline si era rannicchiata accanto a me, la sentivo tremare. Oltretutto era in reggiseno e mutandine. Brutta situazione. «Scendete dalla macchina in fretta, non fate mosse azzardate altrimenti vi sparo.» La parola “altrimenti” fu seguita dal rumore del caricatore. Sentire il proiettile in canna ci persuase a uscire dall’auto. «State calmi, cosa volete da noi?» chiesi una volta fuori. «Lo sai perfettamente quello che vogliamo, non fare il furbo.» L’accento della sua voce era chiaramente straniero, però non riuscivo a definirne la provenienza. Aline stava in piedi accanto a me, ancora seminuda, tremava vistosa-mente, e non certo per il freddo. Il pensiero mi andò subito alle parole del generale Conti: “Potrebbero rapirvi e farvi lavorare per loro”. «Mi dia le chiavi della macchina!» «Sono nel quadro» risposi timorosamente. «Le prenda, faccia molto lentamente e con una mano sola. L’altra la tenga alzata.» Estrassi lentamente la chiave tenendo la mano sinistra alzata, stavo tre-mando. Aline non si scollava da me. L’altro tizio con il bastone si era affiancato a quello con la pistola. I suoi occhi erano fermi sul corpo di Aline, con-scia della situazione. “Qui finisce male”, pensai.

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«Mi dia anche il portafogli. A proposito, vedo che ve la spassavate, eh? Niente male la signorina, niente male davvero. Come ti chiami? Hai perso la parola?» «Aline, mi chiamo Aline.» «Bene, Aline. Prendi la tua borsetta e passamela.» Mentre Aline obbediva entrambi guardavano i miei documenti, non prima di essersi messi in tasca i trecento euro che tenevo ripiegati nel portafogli. La stessa cosa fu fatta con la borsetta di Aline, i documenti e i soldi furono presi dai due “rapinatori.” «Signor Berni, è molto carina la sua ragazza.» Mi raggelai: cercavo una soluzione immediata ma non riuscivo a tro-varla. Aline si mise immediatamente dietro di me, stringendomi fino allo spasmo. Successe tutto in un attimo, mi trovai scaraventato a terra mentre Aline con uno slancio acrobatico si era gettata sul tizio con il bastone, torcen-dogli il braccio in un movimento innaturale. Un rumore sinistro mi fece temere la frattura del braccio. L’altro tizio con la pistola era rimasto incredulo, così ne approfittai per gettarmi sulle sue gambe facendogli perdere l’equilibrio: un proiettile attraversò entrambi i finestrini ante-riori della mia Range Rover. D’istinto afferrai un ramo spezzato e il mio pensiero si fermò sul significato di quel gesto: “Cosa ci faccio con un ramoscello d’ulivo in mano?” La risposta venne da sola. Alzai anco-ra di più il braccio, poi lo abbassai con forza. Il ramoscello si conficcò proprio all’altezza della giugulare del disgraziato, mentre ancora mi puntava la pistola alla testa. Dalla sua gola uscì un lamento rauco, un gorgoglio indefinito. La paura di averlo ferito gravemente mi fece commettere un grosso er-rore: estrassi il ramo dal collo e lo gettai via. Un fiotto di sangue a in-termittenza m’investì in pieno volto facendomi alzare in fretta. La pistola era caduta a terra, e il malvivente tentava inutilmente di fer-mare la fuoriuscita di sangue portandosi le mani al collo. Nonostante il buio riuscivo a vedere i suoi occhi, avevano l’espressione pura di terro-re. Stava morendo, e io non potevo e forse non volevo fare nulla per evitarlo. Rimasi pietrificato. Aline intanto continuava a tempestare di calci l’altro tizio, incurante del braccio fratturato da cui sporgeva l’osso: la frattura era esposta. Le urlai di fermarsi, ormai non avrebbero più potuto farci nulla. Dalla stradina un fuoristrada sbucò a forte velocità. Frenò a pochi metri da noi; tre uomini armati scesero frettolosamente, puntando subito le armi verso i malviventi. «Santo Dio, li avete massacrati. Capo, uno è andato, l’altro se non fac-ciamo qualcosa fa la stessa fine.»

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Dall’ombra sbucò un’altra persona. «Stia calmo dottor Berni, e anche lei signorina Werlen, è tutto finito, adesso ci siamo noi.» «Chi siete?» chiesi intimorito. «Sono il colonnello Anselmi e questi sono i miei uomini, vi seguivamo per ordine del generale Conti.» «Perché non siete intervenuti prima?» «Eravamo ancora troppo distanti. Quando abbiamo capito che stava per succedere qualcosa ci siamo precipitati, poi è scoppiato il finimondo.» Aline si fece avanti, aveva ascoltato la nostra conversazione. «Chi è il generale Conti? E chi accidenti sono queste persone?» «Sono della sicurezza, stai tranquilla, ci stanno proteggendo.» «Fanculo! Questi si sono divertiti a spiarci mentre… mentre…» «Stia calma signorina Werlen, non spiavamo le vostre… cose, control-lavamo la vostra macchina.» Il colonnello ordinò di caricare il ferito e l’altro ormai morto sulla loro auto, poi si rivolse di nuovo a me «Non si preoccupi, pensiamo noi a tutto, voi andate pure a casa, fate come se non fosse successo nulla.»

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9 Accompagnavo Aline a casa, era silenziosa e probabilmente ancora molto scossa. D’altronde con quello che era appena successo sarebbe stato strano il contrario: il mio corpo era ancora in balia dei tremori. Era la prima volta che affrontavo una situazione del genere: avevo ucciso un uomo. «Peter, l’hai sistemato quello.» «Non volevo ammazzarlo. Cristo! Gli ho sfondato la giugulare!» «Hai ancora la faccia sporca di sangue, prendi il mio fazzoletto e puli-sciti.» «Come hai fatto a stendere quello col bastone?» «Conosco molto bene certe tecniche, lo sai. È bastato darti una spinta, lui era di fronte a te, istintivamente ha tentato di proteggersi dal tuo corpo. È stato allora che mi sono lanciata su di lui.» La guardai un po’ stupito e un po’ disorientato. «Sei pericolosa!» «Già, non dimenticarlo. Hai voglia di salire un po’?» «Sì, non ho sonno, e credo che stanotte non dormirò. Ho solo ammazza-to una persona.» «Lui poteva uccidere te! E poi non dimenticare cosa volevano farmi. Sali, e poi devi darmi delle spiegazioni, non credi?»

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10 La mattina successiva mi trovavo nell’ufficio del generale Conti. Aline era stata informata di tutto, da quel momento anche lei era una sorve-gliata speciale, ma forse lo era anche prima. «Come vede dottor Berni siamo sempre all’erta. Ieri sera ve la siete vi-sta brutta, almeno secondo la testimonianza dei miei uomini.» «Quei due tizi non scherzavano.» «Si trattava comunque di semplici delinquenti, rapinatori di coppiette. Piuttosto, mi hanno detto che la sua amica è un bel peperino, è stata bravissima a neutralizzare uno di loro. E anche lei non ha scherzato per niente, anzi forse ha esagerato. Non si preoccupi, la polizia locale non verrà a sapere nulla. Il suo è stato semplice istinto di sopravvivenza.» «Già, sopravvivenza. Ho perso la testa quando ho capito che volevano violentarla.» «Al suo posto avrei fatto la stessa cosa, e probabilmente avrei ammaz-zato anche l’altro. Non si faccia nessun senso di colpa. C’è ancora un’altra cosa. Il tizio col braccio rotto non potrà più dirci nulla.» «Che altro c’è?» «È morto anche lui, probabilmente un embolo, un infarto, non lo sap-piamo di preciso. Mi ha chiamato Anselmi e mi ha detto che si è acca-sciato in macchina. Non hanno potuto fare nulla per salvarlo.» «Tutto questo per le mie ricerche. Mi sta venendo voglia di mollare.» «Non dica sciocchezze! Le sue ricerche non hanno nulla a che vedere con quei due. Continui il suo lavoro e non si preoccupi, ci siamo noi a proteggerla. Venga da me per qualsiasi motivo, e non si faccia scrupoli, mi raccomando.» «La ringrazio, mi sta dando un grande aiuto.» Uscii dal suo ufficio più sollevato, Conti si era dimostrato una persona su cui fare affidamento, forse mi ero sbagliato sul suo conto. Forse.

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11 Il laboratorio era in fermento, la riproduzione delle cellule procedeva a un ritmo più elevato del previsto. Il primo esperimento consisteva nel creare un infarto al ventricolo sini-stro di una cavia, per valutare la capacità di ricostruzione cellulare dell’organo. Le cellule staminali sarebbero state in grado di ricreare la struttura necrotizzata ricostruendola totalmente in pochissimo tempo. In pratica il coniglio non avrebbe avuto il tempo di morire. La tecnica frat-tale da me sviluppata avrebbe creato quasi in tempo reale le nuove cel-lule. «Ancora qualche ora, Peter, poi le cellule necessarie saranno pronte.» «Bene, continuate così. Tutto sta procedendo veramente bene. Alex, hai ricontrollato i livelli della struttura molecolare?» «Certo, non si è presentato nessun salto di livello degli elettroni, il computer l’ha confermato, rilassati.» «Mi raccomando, non portate all’interno nessun supporto magnetico che non sia accuratamente schermato, non voglio sorprese. Neanche quella radiolina, Giulia, eppure lo sai che dietro l’altoparlante c’è un magnete!» «Scusa Peter, hai ragione.»

* * * Aline mi aveva gentilmente chiesto di non mancare al suo allenamento. Dopo la disavventura aveva dato prova di sapersela cavare egregiamen-te anche in certi frangenti: voleva dimostrarmi quanto erano utili e, in più, convincermi a frequentare la palestra con lei. In quel luogo non ci avevo mai messo piede, sarà perché non amo fati-care troppo, sarà perché a me le palestre non sono mai piaciute, sarà perché in effetti sono un tipo poco sociale. L’insegnante di Aline era un soggetto poco riservato e molto irritante: ebbi l’occasione di incontrarlo mentre passeggiavo con lei per le vie di Milano. Indossava una maglietta nera che lasciava intravedere la sua costituzione muscolosa, ma senza esagerare troppo, a parte la sua ado-razione maniacale per la forma fisica. Ricordo che si fermò dall’altro lato della strada agitando la mano per farsi notare da lei. Aline agitò la sua per contraccambiare il saluto, chiedendogli di unirsi a noi per bere un caffè: grosso errore.

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«Ciao Aline, come mai da queste parti? Il signore accanto a te è lo scienziato di cui mi hai parlato?» Aline arrossì, non si aspettava da lui tutta quella confidenza. «Lui è Peter… lo scienziato.» «Ciao, Peter, io sono Gianni. Aline parla sempre di te... credo che ti consideri come un genio. Lo sei?» Non avevo neanche voglia di rispondere a una domanda del genere, ma vedendo Aline imbarazzata lo feci. «Dipende da molti punti di vista, qualcuno potrebbe anche definirmi un eretico.» «Eretico? Questa parola mi sembra di averla già sentita, ma non ricordo dove. Aline, l’hai forse pronunciata tu?» Aline era sempre più imbarazzata, scosse la testa per negare, mentre lui pensava in chissà quale occasione l’aveva sentita pronunciare. Prendemmo velocemente il caffè e lo lasciammo con la scusa che do-vevamo recarci dal nostro commercialista per definire alcune cose. Aline arrivò puntale con la sua borsa per l’allenamento. «Ciao bell’uomo, grazie per esserti liberato. Entriamo, voglio farti par-tecipare agli allenamenti.» «Spero in forma passiva… non ho voglia di farmi pestare da nessuno.» «Potrebbe essere eccitante farti pestare da me, non credi?» «No, non credo proprio. Senti, se il tuo insegnante inizia a fare discorsi scemi me ne vado subito, okay?» «Cerca di capirlo, vuole mettersi in mostra, farsi considerare dal grande scienziato.» «Entriamo, ma non ti garantisco quanto potrò resistere.» Appena entrai mi resi subito conto dell’errore che avevo fatto: la prima impressione che ebbi fu quella di essere considerato il classico fighetto geloso della bionda appena rimorchiata. Aline mi strizzò l’occhio e si allontanò per recarsi nello spogliatoio. Io sedetti su una panca a guardare il suo insegnante che si esibiva in alcu-ne mosse che non avevo mai visto fare. Quel tipo di lotta era a me sco-nosciuta. In seguito, Aline mi spiegò che si trattava di una tecnica di combattimento utilizzata dai militari israeliani. In realtà la trovai subito molto efficace. Rimasi incuriosito quando un tizio che avrà avuto almeno cinquant’anni, rese inoffensivo un mostro di muscoli e velocità: era stato afferrato al collo, ma in un solo movi-mento era riuscito a liberarsi e a metterlo fuori combattimento immobi-lizzandolo a terra solo tenendogli un polso piegato in modo anomalo. Dopo pochi minuti Aline si presentò con una tuta rossa aderentissima e una canottiera bianca, mettendo in risalto le sue forme. Sembrava che tutti aspettassero il momento in cui si presentasse sul tappeto dove avvenivano i combattimenti. Lei si stirava i muscoli non-curante degli sguardi di tutti.

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Uno di loro si avvicinò a lei con l’intenzione di colpirla con una lama affilata. Aline per tutta risposta bloccò il polso della persona e simulò di colpirlo con il gomito proprio all’altezza della gola. L’uomo si allontanò facendo spazio a un altro. Il secondo aggressore si gettò violentemente contro di lei: pensavo che quella volta non avrebbe potuto cavarsela. Aline girò su se stessa con la gamba alzata e lo toccò appena all’altezza del collo, rimanendo incredibilmente in quella posizione senza muover-si di un millimetro. Ritirò la gamba e iniziò a saltellare proteggendosi il viso come fanno i pugili. Era arrivato il momento del maestro. Tutti gli altri si erano allontanati. Invece di avvicinarsi ad Aline mi chiamò, chiedendomi di salire sul tappeto. Io mi guardavo intorno, non credevo che davvero volesse darmi una lezione privata, anzi, la mia prima impressione fu quella che volesse mettersi in mostra con lei, ridicolizzandomi appunto. «Vieni Peter, partecipa anche tu. T’insegno qualche mossa di combat-timento, così magari ti viene voglia di iscriverti.» Sul volto di Aline notai subito un’espressione preoccupata. Andai sul tappeto molto titubante: la prima impressione che ebbi fu quella che volesse pestarmi. Appena salito mi ritrovai sdraiato a terra senza neanche accorgermene, sotto le risate dei partecipanti a quella specie di dimostrazione. Mi rialzai per cercare di capire cosa volesse insegnarmi. Questa volta ricevetti una serie di colpi leggeri all’addome e al volto, sembravano soffi, ma sferrati con una velocità che mi aveva impedito di capire cosa stesse succedendo. Non avevo possibilità di difendermi, era talmente veloce e imprevedibi-le che qualsiasi forma di difesa era nulla. Un colpo più forte mi arrivò al muscolo della coscia della gamba destra, tanto che caddi in ginocchio. Lo guardai male e lui per tutta risposta si strinse nelle spalle come per dire “Può capitare”. Dal quel momento capii che mi avrebbe spezzato le costole! Aline si era avvicinata a me, voleva farmi scendere dal tappeto. «Stacca Peter, vedo che ti stai innervosendo. E tu Gianni smettila, la tecnica che stai usando non è solo krav maga.» Li sentii ridere e lanciare battute tipo: “Magari con una penna o con qualche formula matematica potresti far male a qualcuno…” Rimasi in ginocchio chiedendo ad Aline di allontanarsi, cosa che fece malvolentieri, poi feci cenno all’insegnante di avvicinarsi. Lui mi guar-dò stupito. Studiando statistica si impara a calcolare le probabilità. Per quando ri-guarda la possibilità di cavarmela con lui, queste erano drasticamente

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nulle, ma se continuavo a rimanere in ginocchio, avrei avuto una possi-bilità per prevedere la sua prossima mossa. Si avvicinò molto lentamente, mi stava studiando. Sicuramente anche lui pensava a qualche mia mossa difensiva, ma non poteva sapere quale. «Non ti farò male» disse sorridendo. «T’insegnerò solo come si lavora in questa palestra, senza metterti né a disagio né in imbarazzo con la tua donna, naturalmente.» Con lo sguardo bloccai subito l’intenzione di Aline, e cioè di mettersi nel mezzo: sarebbe stato il più grosso sbaglio. La mia previsione statistica si rivelò azzeccata. L’insegnante alzò velo-cemente la gamba destra per colpirmi all’altezza della testa, ma altret-tanto velocemente sferrai un pugno ai suoi genitali, riparandomi con il braccio sinistro dall’eventuale colpo. Mi accorsi troppo tardi che si era fermato prima di colpirmi, come si addice a un insegnante. Il risultato fu lui sdraiato a terra che si rotolava come un serpente e Ali-ne che mi rimproverava con lo sguardo. Gli altri non dissero nulla, si allontanarono brontolando qualcosa. Uscimmo subito. Aline era arrabbiata con me. Rimase in silenzio per molti minuti, poi esplose. «Accidenti a te! Ma non hai capito che la loro era solo una prova? Vo-levano capire di che pasta sei fatto. Tu invece ti sei sentito ferito nell’orgoglio perché c’ero io!» «Quello mi stava prendendo per il culo, altro che prova…» «Peter, quando imparerai a capire le persone?» «In realtà è stata la tua espressione quando mi ha chiesto di salire sul tappeto che mi ha fatto preoccupare.» «La mia espressione era dovuta alla tua reazione, non alla loro!» «Come potevo capirlo?» «Usando il buon senso, sarebbe bastato quello.» Il secondo giorno avevo la tessera d’iscrizione alla palestra gentilmente offerta da Aline, sapendo già che non ci sarei mai andato.

* * * Il padre di Aline mi aspettava da sua figlia. Non che avessi molta voglia di vederlo, sentivo solo che non era il momento giusto. Troppe cose cui pensare, e troppe nuove responsabilità, ma sarebbe stato scortese non salutarlo. Dopo aver parcheggiato l’auto nel suo garage presi l’ascensore. «Entra, mio padre ti sta aspettando.» «Ciao Aline, come stai?» «Bene. Mi raccomando, non ho detto nulla a mio padre di quello che è accaduto per non preoccuparlo.» «E io non ho la benché minima intenzione d’informarlo.»

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Kurt era seduto in poltrona, stava leggendo un giornale con il sigaro spento tra le labbra. Si alzò e mi venne incontro a mano tesa. «Peter, come stai?» «Bene Kurt, abbastanza bene, cosa ti porta in Italia?» «La voglia di rivedere la mia bambina, e anche te, s’intende. Resti a pranzo con noi?» «Veramente dovrei tornare in laboratorio, ho molto da fare.» «Smettila, e non permetterti di rifiutare un invito di mio padre» disse Aline. «Va bene resto a pranzo, cosa c’è da mangiare?» «È una sorpresa, tu siediti a tavola, anzi prima preparate un aperitivo poi ci sediamo.» Il salone era molto ampio, una casa hi-tech. L’unico neo quel tavolo in stile vittoriano voluto a tutti i costi da Aline. L’aveva messo al centro della sala: un pugno nello stomaco. «Già che si è presentata l’occasione, vorrei parlarti di Aline. Lo sai che per lei voglio il meglio, e sono sicuro che tu lo sia.» «Ti ringrazio per l’apprezzamento, ma non esagerare.» «Lasciami finire, voglio farti una proposta interessante.» «Che genere di proposta?» «Quanto guadagni, duecentomila mila? Duecentocinquantamila all’anno? Se vieni a lavorare per me te ne offro cinquecentomila. Nella mia azienda c’è bisogno di uno come te.» Sgranai gli occhi: finora non mi aveva mai fatto nessuna proposta di lavoro. E poi, chi li aveva mai visti duecentomila mila euro l’anno? Ne guadagnavo a malapena settantacinquemila! «Stai parlando sul serio?» «Mai stato più serio, che ne pensi della mia offerta? Se vuoi puoi ragio-narci, non devi darmi una risposta subito.» La proposta era davvero allettante, ma non accettabile. Non certo per quanto riguarda la cifra; consideravo molto più importante il lavoro che portavamo avanti. L’avrei presa in considerazione solo se il progetto fosse fallito; cosa che ritenevo molto improbabile. «Che cosa sono quelle facce serie? Ehi, non vedo nessun aperitivo sul tavolo! Ho capito, ci penso io. Tu Peter prepara la tavola e tu papà dagli una mano, Peter è incapace di fare queste cose.» «Non posso crederci… Aline, spaghetti con il pomodoro!» «Non t’illudere, è solo perché c’è mio padre e a lui piacciono molto. Vado a prendere del parmigiano, ne volete?» «Grazie, volentieri» risposi. «Peter, ora che Aline è in cucina posso dirtelo. Come fai a mangiare quelle schifezze che inventa? Devi volerle veramente bene per mandar giù quella roba. A me verrebbe da vomitare.» «Non farmelo dire, Kurt, ti prego.»

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Il pranzo fu l’apoteosi della semplicità, finalmente un pasto vero. «Adesso devo lasciarvi, in laboratorio mi stanno aspettando. Quando parti, Kurt?» «Rimango un paio di giorni ma non resto da Aline, non voglio dare fa-stidio.» «Ma cosa dici, papà? Tu non mi dai fastidio, non pensarlo nemmeno!» «Ho già prenotato una camera all’Excelsior, lì starò benissimo, non preoccuparti.» Ci salutammo e partii alla volta del laboratorio. Io sapevo perché suo padre aveva preso una camera d’albergo. A Milano aveva un’amichetta molto giovane, li avevo visti insieme un paio di volte. Niente male per uno di sessant’anni, lei ne avrà avuti a malapena trenta. Aline ha sem-pre pensato come una bambina, credendo che i genitori non facessero mai sesso. Kurt ha sempre avuto donne bellissime, ma non si è mai ri-sposato. Sua moglie Annie è stata l’unico amore della sua vita. FINE ANTEPRIMA.Continua...