il giornale della memoria n.05-06/2010

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Il Giornale della Memoria In questo numero PAG.2 Il salumiere di Carate che era re del ring Nel giugno 1955, Cesare Bagnoli, operaio della Vismara, era l’idolo del pugilto della Brianza PAG.3 1980, Cantù in subbuglio: la vogliono sotto Monza Allarme per l’elezione in Regione del dc Sergio Cazzaniga, ispiratore della provincia di Brianza PAG.3 1970: il rodeo di auto si trasforma in mega rissa A Monza arrivano in 30mila per seguire le acrobazione ma i posti sono molti meno. Invasione di pista e cariche PAG. 4 Ore 9,30, il marescialo deve morire Nel luglio del 1982, a Lissone, il comandante dei Carabinieri si trova in mezzo a una rapina di terroristi. PAG.14 Quando la Brianza impazziva per i Mondiali Nel 1970 e nel 1982, con i campionati di Messico e Spagna, le città brianzole conoscono feste monstre PAG.20 Il mare al Villoresi. Il Canale diventa spiaggia Nella Brianza povera del dopoguerra, in migliaia usano il corso d’acqua come una piscina. Talvolta fatalmente PAG.22 Lo Statuto dei lavoratori? All’Autobianchi fu così A 40 anni dalla legge 300, la testimonianza di come la novità fu vissuta nella grande fabbrica di Desio oggi sparita GENTE VENETA Arrivati a migliaia, spinti da povertà e alluvioni, dal Veneziano, dal Polesine, dal Trevigiano, costruendosi baracche o adattandosi alle case peggiori. Religiosi, intraprendenti e laboriosi, si sono integrati presto facendosi apprezzare Cronaca. 1950-1970, la grande immigrazione M ario faceva il turno al- le Acciaierie Riva di Ca- ronno e poi correva a lavorare nella pensione di Senago dove viveva. Mirella ri- maneva anche 13 ore in fabbrica, per pagarsi la casa. Silvana, ad ap- pena 12 anni, tirava un carretto di casalinghi: «È arrivata la cavagni- na», urlava per le vie di Paina. E poi la storia di Elio, che raccon- ta del suo arrivo a Lazzate, quan- do con i fratelli arrangiarono un fuocherello per scaldarsi. «Come gli indiani», dice oggi. O quella di Giulietta, che dei primi inverni brianzoli, ricorda il rigore dell’in- verno, perché aveva «le scarpe di spago e non aveva il cappotto», ché in Veneto non era così freddo. Sono le storie, fiere ed esaltanti, dei Veneti di Brianza, che proponiamo con un documento eccezionale: le foto delle ultime baracche di Perti- cato, abitate dagli immigrati pole- sani fino alla metà degli anni 70. servizi a pag.6/10 Una nube rosa. Le prime te- stimonianze di quello che ac- cadde alle 12,40 del 10 luglio 1976, parlano di una nuvole dal colore tenue. Rosa appun- to. Quando il reattore dell’Ic- mesa di Meda cedette per il grande calore accumulato all’interno e con un fischio potente del fumo compresso fu sparato nel cielo di Brianza, a tutto si poteva pensare me- no che alle giornate dramma- tiche che si sarebbero prodot- te di lì a poco. Dopo una settimana di verifi- che, accertamenti, mezze am- missioni, analisi e controanali- si e mentre le gente accusava i primi disturbi da intossicazio- ne, fu chiaro che dietro quel colore gentile, nell’aria s’era sprigionato un veleno morta- le: la diossina. La stessa che, pochi anni pri- ma, veniva usata dall’aviazio- ne americana per defogliare la jungla vietnamita e cacciare i vietcong. E fu un doppio veleno: per- ché per mesi, forse per anni, quell’incidente inquinò i rap- porti, seminò divisioni e con- trapposizioni fortissime. La gente soffrì per la paura della malattia e della mor- te, per sé ma soprattutto per i figli; per le case lasciate e abbattute, per le attività eco- nomiche sospese, a volte per sempre. Soffrirono le donne che, te- mendo di partorire figli de- formi (anche per la forte pro- paganda abortista), chiesero e ottennerole interruzioni di gravidanza. servizi a pag.11/14 MEDA 1976, IL VELENO TINTO DI ROSA BRIANZA n.05/06 Giugno/Luglio 2010 euro 2,00 ARRIVEDERCI A SETTEMBRE scrivete a [email protected] VA IN VACANZA OMAGGIO L a squadra del bomber Silva era arrivata quasi al traguardo di un cam- pionato cadetto trion- fale. Rimaneva l’ultimo scoglio: lo spareggio col Pescara, squadra temi- bile ma alla portata del Monza. Il primo luglio di 31 anni fa, dalla città della Villa Reale partì un picco- lo esodlo: migliaia e migliaia di tifosi si misero in viaggio per Bologna, sede dello spareggio. Alla fine si mossero 3.500 persone. Non bastò: al D’Allara i biancorossi, irricono- scibili, persero con un netto 2-0. a pag.17 U na domenica di giugno e quattro amici che de- cidono di andare ad ar- rampiare in Grignetta. Hanno tutti intorno a venti anni, tre sono di Giussano, la quarta è una giovane di Inveri- go. Quando sono or- mai vicini alla cima, guidati da Angelo Turati, socio Cai del suo paese e il più esper- to del gruppo, precipitano rovi- nosamente: qualcuno alle spalle del capo- cordata ha perso l’ap- piglio, trascinando il gruppo nel baratro. Si salverà solo Angelo. a pag.19 MONZA, GRANDE ILLUSIONE PER 3500 TIFOSI BIANCOROSSI QUANDO LA SEGANTINI FECE PIANGERE GIUSSANO 1957 Montagna assassina 1979 Spareggio per la A

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GdM Giugno-Luglio 2010

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Page 1: Il Giornale della Memoria n.05-06/2010

Il Giornale della

Memoria

In questo numero

PAG.2Il salumiere di Carate che era re del ring Nel giugno 1955, Cesare Bagnoli, operaio della Vismara, era l’idolo del pugilto della Brianza

PAG.31980, Cantù in subbuglio: la vogliono sotto Monza Allarme per l’elezione in Regione del dc Sergio Cazzaniga, ispiratore della provincia di Brianza

PAG.31970: il rodeo di auto si trasforma in mega rissaA Monza arrivano in 30mila per seguire le acrobazione ma i posti sono molti meno. Invasione di pista e cariche

PAG. 4Ore 9,30, il marescialo deve morireNel luglio del 1982, a Lissone, il comandante dei Carabinieri si trova in mezzo a una rapina di terroristi.

PAG.14Quando la Brianza impazziva per i Mondiali Nel 1970 e nel 1982, con i campionati di Messico e Spagna, le città brianzole conoscono feste monstre

PAG.20Il mare al Villoresi. Il Canale diventa spiaggia Nella Brianza povera del dopoguerra, in migliaia usano il corso d’acqua come una piscina. Talvolta fatalmente

PAG.22Lo Statuto dei lavoratori? All’Autobianchi fu cosìA 40 anni dalla legge 300, la testimonianza di come la novità fu vissuta nella grande fabbrica di Desio oggi sparita

GENTE VENETAArrivati a migliaia, spinti da povertà e alluvioni, dal Veneziano, dal Polesine, dal Trevigiano, costruendosi baracche o adattandosi alle case peggiori. Religiosi, intraprendenti e laboriosi, si sono integrati presto facendosi apprezzare

Cronaca. 1950-1970, la grande immigrazione

M ario faceva il turno al-le Acciaierie Riva di Ca-ronno e poi

correva a lavorare nella pensione di Senago dove viveva. Mirella ri-maneva anche 13 ore in fabbrica, per pagarsi la casa. Silvana, ad ap-pena 12 anni, tirava un carretto di casalinghi: «È arrivata la cavagni-na», urlava per le vie di Paina. E poi la storia di Elio, che raccon-ta del suo arrivo a Lazzate, quan-do con i fratelli arrangiarono un fuocherello per scaldarsi. «Come gli indiani», dice oggi. O quella di Giulietta, che dei primi inverni brianzoli, ricorda il rigore dell’in-verno, perché aveva «le scarpe di spago e non aveva il cappotto», ché in Veneto non era così freddo. Sono le storie, fiere ed esaltanti, dei Veneti di Brianza, che proponiamo con un documento eccezionale: le foto delle ultime baracche di Perti-cato, abitate dagli immigrati pole-sani fino alla metà degli anni 70.

servizi a pag.6/10

Una nube rosa. Le prime te-stimonianze di quello che ac-cadde alle 12,40 del 10 luglio 1976, parlano di una nuvole dal colore tenue. Rosa appun-to. Quando il reattore dell’Ic-mesa di Meda cedette per il grande calore accumulato all’interno e con un fischio potente del fumo compresso fu sparato nel cielo di Brianza, a tutto si poteva pensare me-

no che alle giornate dramma-tiche che si sarebbero prodot-te di lì a poco. Dopo una settimana di verifi -che, accertamenti, mezze am-missioni, analisi e controanali-si e mentre le gente accusava i primi disturbi da intossicazio-ne, fu chiaro che dietro quel colore gentile, nell’aria s’era sprigionato un veleno morta-le: la diossina.

La stessa che, pochi anni pri-ma, veniva usata dall’aviazio-ne americana per defogliare la jungla vietnamita e cacciare i vietcong.E fu un doppio veleno: per-ché per mesi, forse per anni, quell’incidente inquinò i rap-porti, seminò divisioni e con-trapposizioni fortissime.La gente soffrì per la paura della malattia e della mor-

te, per sé ma soprattutto per i fi gli; per le case lasciate e abbattute, per le attività eco-nomiche sospese, a volte per sempre.Soffrirono le donne che, te-mendo di partorire fi gli de-formi (anche per la forte pro-paganda abortista), chiesero e ottennerole interruzioni di gravidanza. servizi a pag.11/14

MEDA 1976, IL VELENO TINTO DI ROSA

BRIANZA

n.05/06Giugno/Luglio 2010

euro 2,00

ARRIVEDERCI A SETTEMBRE

scrivete a [email protected]

VA IN VACANZA

OMAGGIO

La squadra del bomber Silva era arrivata quasi al traguardo di un cam-

pionato cadetto trion-fale. Rimaneva l’ultimo scoglio: lo spareggio col Pescara, squadra temi-bile ma alla portata del Monza. Il primo luglio di 31 anni fa, dalla città

della Villa Reale partì un picco-lo esodlo: migliaia e migliaia di tifosi si misero in viaggio per

Bologna, sede dello spareggio. Alla fi ne si mossero 3.500 persone. Non bastò: al D’Allara i biancorossi, irricono-scibili, persero con un netto 2-0. a pag.17

Una domenica di giugno e quattro amici che de-cidono di andare ad ar-

rampiare in Grignetta. Hanno tutti intorno a venti anni, tre sono di Giussano, la quarta è una giovane di Inveri-go. Quando sono or-mai vicini alla cima,

guidati da Angelo Turati, socio Cai del suo paese e il più esper-to del gruppo, precipitano rovi-

nosamente: qualcuno alle spalle del capo-cordata ha perso l’ap-piglio, trascinando il gruppo nel baratro. Si salverà solo Angelo.

a pag.19

MONZA, GRANDE ILLUSIONE PER 3500 TIFOSI BIANCOROSSI

QUANDO LA SEGANTINI FECE PIANGERE GIUSSANO

1957 Montagna assassina1979 Spareggio per la A

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2Giugno/Luglio 2010

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È un numero di cui andiamo fieri quello che avete in ma-no, cari lettori.Non per le cose che siamo riusciti a recuperare negli archivi ma per l’eccezionale materiale fotografico che sia-mo in grado di offrirvi.Parliamo del commovente biancoenero con cui Attilio Mina, scrittore e fotografo brianzolo, colse, a metà degli anni 70, la realtà delle barac-che venete a Perticato.Sulla scorta di questo stupen-do materiale, siamo andati al-la ricerca delle storie di alcu-ni dei tanti Veneti arrivati in Brianza, negli anni 50 e 60.Ci siamo imbattuti in vicende personali toccanti, fatte di co-raggio, sacrificio, dedizione alla famiglia, lealtà.Un campione casuale della fierezza veneta che ha ferti-lizzato la terra di Brianza.Altre bellissime immagini scandiscono i servizi di queto numero. Sono quelle di Pie-tro Vismara, fotografo che dai primi anni 60 racconta la cronaca brianzola e non solo nei maggior quotidiani italiani.I suoi bellissimi scatti do-cumentano, 34 anni dopo, il dramma di Seveso e illustra-no le mobilitazioni sindacali in una fabbrica che non c’è più: l’Autobianchi di Desio, raccontando il quarantennale dello Statuto dei lavoratori.L’immagini sono uno stru-mento eccezionale per rac-contare la realtà: l’obiettivo coglie dettagli, sfumature che la parola scritta difficilmente riesce a fermare. GdM

Istantanee dal passato

EditorialeEL’OPERAIO DEI SALAMI ÈRE SUL RINGCaratese di nascita, si allena a Seregno, lavora a Casatenovo. Bagnoli incanta

La Brianza tirava di boxe. Negli anni 50, i Brianzoli impazziva-no letteralmente per la nobile arte. Pale-

stre storiche erano vive e affollatis-sima come l’Accademia pugilistica seregnese mentre a Carate, gli Amici del pugilato caratese organizzavano serate boxistiche all’Oratorio ma-schile, con grande partecipazione, come quella di cui dà notizia il Cit-tadino del 4 giugno 1955.Attrazione di quella serata Cesare Bagnoli, classe 1930, caratese, peso mediomassimo, idolo del pugilato locale. O meglio, per il fatto che il Cesarone, come lo chiamavano tut-ti, incrociasse i guantoni nella pale-stra di Seregno del patron cavalier Nino Malerba, era anche l’idolo di Seregno. Non basta. Come scrive il giornale di cinquantacinque anni fa, essendo un operaio della Visma-ra di Casatenovo (bei tempi, si dirà, quando gli atleti avevano anche un lavoro normale), il boxer brianzo-lo era pure stra-amato dai casatesi, che lo consideravano un loro figlio adottivo.Insieme alla montagna e al cicli-smo, in quegli anni, lo sport del ring catturava la passione di mi-gliaia di persone. A destarla erano stati, negli anni precedenti, alcune glorie locali, che rispondevano al nome di Formenti, Mezzadri, Bal-labio e Fermieri, tutti seregnesi, e il caratese Mottadelli, campione lombardo 1954.Bagnoli, alla metà degli anni 50, è senza dubbio «il» pugile della Brianza. Ha dalla sua un ruolino di marcia trionfale: su 60 match da di-lettante, ha riportato 11 vittorie per

Il personaggio Stella pugilistica

Il numero

è il numero dei posti della Villa di Maria Ausiliatrice, ex-Villa Caprotti, a Triuggio, che le suore salesiane hanno de-stinato agli esercizi spirituali famminili. Ne parla il Cittadi-no del 28 agosto 1948, sotto il titolo «Triuggio, oasi di pa-ce», scrivendo «di signorine composte e allegre». Con la vicina Villa S.Cuore fa del comune il centro di spiri-tualità della Brianza.

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aver messo fuori combattimento l’avversario, «di cui una all’estero», scrive orgogliosamente Amilcare Crippa, l’autore dell’articolo. Poi ci sono 42 vittorie ai punti («quattro all’esero») e otto pari. Solo sei vol-te, il Cesarone era stato sconfitto, il che faceva un incontro ogni dieci.Le pagine più belle, Bagnoli le ave-va scritte a Costanza, in Germania, il 14 novembre di due anni prima, quando aveva messso k.o. il tedesco Bajer, bissando il 15 a Siegen «vit-toria ai punti con Wick».Professionista dal 1954, il caratese-casatese aveva incrociato i guantoni con i migliori pugili nazionali. Il 31 marzo di quell’anno, anche con il torinese Giorgis «mettendo in lu-ce tutte le sue qualità positive ma anche qualche difetto: il malvezzo, ad esempio, di far partire il destro

Mediomassimo dal pugno pesante, Cesare Bagnoli si esibiva anche negli oratori

senza armonizzare la traiettoria col gioco di gambe, perdendo così effi-cacia ed esponendosi a pericoli non trascurabili». Secondo il giornalista del Cittadino, Bagnoli sa «meglio difendersi che non aggredire». Ma boxando, boxando, l’operaio della Vismara aveva cominciato anche ad attaccare. Proprio in quel

1955, al Principe di Milano, tempio pugilistico meneghino, il 23 marzo, aveva messo fuori combattimento il francese Leperd, «già nel primo tempo, con due poderose svento-le». Il che fa prevedere al Crippa «una carriera sicuramente splen-dida, se da parte dell’interessato ci sarà sempre tenacia e volontà di intento».

L’ ’Italia era in mezzo al bailamme e forse lei, l’Angela, pensava che nessuno avrebbe dato troppo peso alla sua furbata. E invece la giustizia, inesorabile, fece il suo corso, anche men-

tre il Paese andava in disfacimento. Il Corriere della Sera del 9 settembre 1943, riporta infatti la singolare vicenda di un’operaia tessile monzese, Angela R., di 21 anni, denunciata per truff a. La giovane aveva ottenuto da due conoscenti, Baldassarre Ravasi e Fiorina Riboldi, entrambi di Cinisello, altrettante bici. A entrambi, la monzese aveva raccontato di avere assoluta necessità del velocipede.Una sola giornata, aveva detto, e poi l’avrebbe riconsegna-to. Ma Angela aveva rivenduta prima l’una e poi l’altra bicicletta a due sorelle, ignare delle loro provenienza illecita. Il giornale racconta che la polizia aveva fermato la ragazza, ottenuta rapidamente la confessio-ne e recuperato i mezzi. La truff atrice era stata denunciata a piede libero. Mentre i legittimi proprietari recuperavano i mezzi, le acquirenti non riuscivano a riavere indietro le 1.400 lire pagate, l’Angela ormai non le aveva più.

La truffa1943 Angela, ladra di biciclette

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Overbooking con rissa all’Autodromo di Monza. Accade sabato 6 giugno del 1970, quando nel circuito fu programmato il Rodeo automombilistico, manifestazione di acrobazie motoristiche. Un evento che, evidentemente, era piaciuto ai brianzoli e non solo che si erano ritrovati in almeno 30mila a Monza. Peccato che i posti a sedere fossero 10mila meno. E proprio la messe di quanti, con regolare biglietto, erano rimasti in piedi, aveva cre-ato lo scompiglio. Come raccontava il Cittadino del 14 giugno, molti di questi mancati spettatori si erano riversati nella pista stessa bloccando la manifestazione. Una bagarre che aveva indotto il commissario di Ps, Strada a giudicare «impossibile far proseguire lo spettacolo perché la presenza del pubblico sulla pista aveva creato una situazione pregiudizievole per gli spettatori e per i piloti». Mal gliene in-colse: il pubblico si abbandonava a una violentissima protesta, «distruggendo o danneggiando gli impianti dell’autodromo», con i pochi agenti presenti obbligati a chiamare la Celere di riforzo da Milano, accolta da «un fitto lancio di oggetti di ogni tipo, sassi, pezzi di legno, sbarre di ferro divelte». Solo un agente del commissariato cittadino finiva all’ospedale ma decine erano i contusi. Un milanese di 17 anni, M.R., e un desiano di 19, R.M., venivano tratti in arresto per resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e addirittura incendio.

La rissaPISTA INVASA, ARRIVA LA CELERE

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CGiugno/Luglio 2010

Colophone

L’elezione al consiglio regionale del dc Cazzaniga scatena le polemiche: è l’ideologo della Provincia della Brianza

Politica 1980, polemiche sui futuri assetti territoriali

ALLARMI, VOGLIONO CANTÙ SOTTO MONZA

Nemico pubblico nu-mero uno di Can-tù: Sergio Cazza-niga. Nel giugno del 1980, nei pa-

lazzi della politica cittadina, nelle aziende che contano, nei ritrovi soliti della vita canturina, questo nome viene associato a una jattu-ra: il possibile passaggio della città del mobile alla futura provincia di Monza. Ma perché questo signore, dal no-me potentemente brianzolo, spa-venta tanto la gente di Cantù? Di quali poteri dispone? Quali prero-gative può esercitare? Sulla cro-naca canturina della Provincia di Como, sabato 14 giugno, Emilio Magni chiarisce tutto: Cazzaniga, da Cesano, già presidente del Con-sorzio trasporti per l’Altomilanese è un neoconsigliere regionale de-mocristiano fresco di elezione al Pirellone. Scrive il quotidiano comasco che «è riuscito nel suo intento, quello di essere eletto consigliere», ed ha avuto «24mila 502 preferenze». E il titolo, in un articolo di taglio centrale, non usa perifrasi: «In re-gione l’uomo che vorrebbe Cantù nella Provincia di Monza». Il som-mario è sibillino: «La campagna elettorale portata avanti facendo della Brianza provincia un vero e proprio cavallo di battaglia. Quali danni se il grande progetto fosse veramente approvato?».È il giornalista stesso a prevenire il lettore: «Perché stiamo dando tanta importanza a questa notizia che in apparenza non dovrebbe nemmeno riguardare il Canturino né la nostra provincia?», chiede retoricamente. La risposta è netta: «Perché Sergio Cazzaniga è uno dei politici che vorrebbe la provincia della Brian-za e in questa nuova provincia fos-se incluso il Canturino». Nel caso i

«Un grave errore», titola il Cittadino del 21 luglio 1948. Ma quel-lo che sembra un articolo e, come si usava allora, un richiamo pubblicitario dell’industria monzese Siade, esposto nella stessa pagina, e l’errore sarebbe «partire per la villeggiature senza aver dato un’occhiata alla grande liquidazione»

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Direttore responsabile: Giampaolo Cerri

RedazioneVia Giusti, 32/c20034 Giussano (MB)tel. 0362.285087 [email protected]

hanno collaborato: Leandro Cazzaniga,Martina Cerri, Beppe Citterio, Daniele Corbetta, Doranna Fumagalli, Sergio Giussani,Walter Giussani, Annagrazia Internò,Gigi Molteni,Erminia Moretto (ricerche d’archivio),Daniele Villa

Si ringrazia per l’amichevole collaborazione:Pietro Vismara, fotografo

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lettori non avessero aff errato il con-cetto, Magni esplicita: «In altre pa-role Sergio Cazzaniga è l’uomo che desidererebbe vedere Cantù fi nire in quella che è già stata prospettata come la provincia di Monza».Il peggio, spiega il giornale, è che a favore dell’idea c’è uno dei politici più in vista della Brianza, Vittorino Colombo, oltre ai sindaci di Besa-na, Giuseppe Giovenzana, e di Se-veso, Francesco Rocca . «La Brianza», chiarisce, «lo abbiamo detto mille volte, non è una realtà amministrativa, è semplicemente un’impressine, un’idea, un simbolo molto ben radicati nella popolazio-ne ma che correrebbero il rischio di scomparire nel caso a questi senti-menti si cercasse di dare una con-formazione giuridica».Magni parla «di un progetto che fa acqua da tutte le parti», senza entra-re troppo nel dettaglio, limitandosi a osservare come sia eccessivamen-te ricalcato da soluzioni relative ai trasporti dell’area, «ma una pro-vincia deve tenere conto delle al-tre mille esigenze, degli altri mille problemi da risolvere e soprattutto di numerosissime realtà cui non si può passare sopra». Infatti l’implicito che pervade tutto l’articolo e un altro, dello stesso te-nore, comparso il 30 maggio - «Can-tù rischia di fi nire nella provincia di Monza» - è che il disegno è cam-

panilista, che quelli della «Brianza milanese» certamente avrebbero da sottomettere, soggiogare i brianzo-li canturini.La storia politica recente non ha dato modo di verifi care gli scenari e la congiura: le province di Lec-co e Monza sono arrivate oltre

vent’anni dopo, e Cantù è rima-sta saldamente lariana, in un’altra repubblica, dove i democristiani della Brianza milanese, che acca-rezzavano la grandeur della grande provincia, e quelli del Canturino che «tifavano» Como, non ci so-no più.

«Padroni, borghesi, beghine, signo-ri non sono buoni per i lavoratori». A Muggiò, la campagna elettorale del giugno 1970, per le comuna-li, aveva fatto registrare l’esordio delle satira politica. La sezione co-munista «Giovane Guardia», negli ultimi giorni di propaganda, aveva sfoderato un manifesto con tanto di caricatura dei maggiorenti dc del paese. Caricature precise, alcune delle quali contrassegnate dai titoli accademici o professionali. C’era-

no un paio di «ins», per insegnanti, un «ing», due «geom», un «rag», due «dr» e anche un don, stranamente non raffigurato in volto. Tutti griffati con tanto di scudo crociato, il simbolo della Democrazia cristiana. «Cittadino, operaio, giovane», ammoniva il manifesto, «Muggiò ha’ (con uno strano accento sulla a) una realtà operaia che non rispecchia affatto i candidati d.c. Vota per partiti a base popolare».Sulle pagine del Cittadino del 14 giugno, Giuseppina Silva, candidata Dc, rispondeva all’ironia con l’ironia: «Ringrazio: solo dopo 18 anni di servizio mi è stato fatto l’onore di un ritratto».

La polemicaMUGGIÒ, CARICATURE ANTI-DC

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I commenti, Luigi Losa

La morte di Valerio Renzi, oltre che per l’efferatezza dell’ese-cuzione, stordì i brianzoli perché arrivava nel clima festaiolo del post-mundial. La stessa piazza che aveva fatto da sfondo all’uccisione o quella, antistante la chiesa, che aveva visto due giorni dopo, migliai di persone raccolte in preghiera, pochi giorni prima ribollivano di gente festante per le gesta di Pa-blito Rossi. Luigi Losa, attuale direttore del Cittadino e, allora, fi rma di pre-stigio de L’Ordine parlò di «un nuovo struggente contrasto di immagini, suoni e ricordi». Quando, durante il funerale, la banda della città attacca L’inno di Mameli, «nella commozione ritorna alla mente il groppo in gola di felicità che, solo pochi giorni fa, queste stesse note suscitavano in tutti». L’Italia unita dei fratelli Mameli, scrisse Losa, «è già fi nita; è durata poche ore».

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L’ITALIA UNITA SOLO PER POCOU na mattina calda d’estate. Venerdì 13 luglio. Anche Lisso-ne, in quella gior-nata del 1982,come

tutta la Brianza, è ancora piace-volmente stordita dalla festa per il Mundial spagnolo appena vinto e che dipinge di tricolore molti bal-coni e finestre. E qualcuno, intor-no alle 10, in piazza Cialdini, può aver pensato a quei botti - tanti e ripetuti, da sembrare una raffica di mitra - come a una coda dei fe-steggiamenti per gli Azzurri. E invece era una proprio un mitra ad aver sparato, anzi più di uno: 70 colpi contro l’Alfetta dei Cara-binieri, non appena la macchina militare era entrata in piazza, in prossimità dell’ufficio postale. In quell’auto c’è Valerio Renzi, laziale, reatino, 44 anni, da otto comandante della stazione di Lis-sone. Come fa tutte le mattine, intorno alle 9,30 arriva con l’auto di servizio all’ufficio postale, per ritirare la corrispondenza destina-ta alla caserma. Ai primi colpi, tenta una reazione riuscendo solo ad aprire la portie-ra e a scivolar fuori dalla macchina scura. Niente da fare. Troppe feri-te, troppo piombo in corpo, solo il tempo di spirare. Come scrive Giacomo Citterio su L’Ordine, quotidiano che uscì per circa un anno in Brianza pro-prio in quell’82, «qualche ora do-po la spietata esecuzione del ma-resciallo di Lissone è giunta una telefonata al quotidiano romano Il Messaggero, nel corso della quale una voce anonima maschile riven-dicava l’assassinio. La voce avreb-be detto che ad agire è stato un commando di un gruppo eversivo di sinistra denominato Prima po-sizione che, secondo gli inquirenti sarebbe vicino a Prima linea». Dunque, a due anni di distanza

9,30 UCCIDETE IL MARESCIALLOIl comandante dei Carabinieri di Lissone, Valerio Renzi, si reca a ritirare la posta ma appena entra in piazza Cialdini si scatena contro di lui un inferno di piombo. Ci sono le BR

Terrorismo1982, rapina mortale in pieno giorno

dalla feroce esecuzione, a Mon-za, dell’ex-direttore dell’Icmesa di Meda, Paolo Paoletti (cfr. Giornale della Memoria, n.2), il terrorismo si riaffaccia in Brianza. In questo caso, non si tratta di un omicidio pianificato ma delle con-seguenze di una rapina. Quando la macchina dei Cc en-tra infatti nella piazza di Lissone, è iniziato da pochi istanti un assalto all’ufficio postale: cinque uomini armati sono entrati all’interno ur-lando e brandendo pistole e mitra, altri, almeno due sono al volante di una Ritmo e di una 131 che atten-dono fuori, le auto del comman-do. Poi, uno dei rapinatori urla le parole che avrebbero cambiato il corso di quella giornata «I carabi-nieri!». È in quel preciso momento che i due autisti, scesi dalle rispet-tive auto, si avvicinano alla mac-china dell’Arma, forse a quattro-cinque metri, e scaricano i loro mitra sul povero Renzi: il lunotto anteriore dell’Alfetta viene buche-rellato e il sottufficiale investito in pieno, riuscendo solo ad aprire lo sportello di guida.Il commando quindi risale sulle due auto e si dà alla fuga: tutto av-viene in pochi secondi tanto che, nella concitazione, una bomba a mano, tipo «ananas» rotola a ter-ra, probabilmente dai giubbotti di uno degli assalitori.È questo particolare, unito alla fe-rocia dell’esecuzione, che indiriz-za subito gli inquirenti, a comin-ciare dal capitano Biga di Monza, verso la pista terroristica.Le macchine vengono rinvenute, la sera stessa, nella zona di Ni-guarda a Milano e i carabinieri si concentrano a lungo su una Tal-bot, rinvenuta qualche ora dopo a Cazzaniga di Monza. In serata, come spiegherà, sem-pre Citterio, su L’Ordine di dome-nica 18 luglio, tre giovani di Desio

vengono fermati alla frontiera di Chiasso: stavano tentando di espa-triare e si vuol capire se fossero in qualche modo legati ai fatti di Lissone. Ma le rivendicazioni sono parec-chie. All’Ansa di Milano, il giorno stesso dell’omicidio, chiama la co-lonna Walter Alasia della Briga-te rosse: «Rivendichiamo l’esecu-zione del maresciallo all’interno di un’operazione di esproprio prole-tario», detta una voce anonima.Nel pomeriggio, un altro anoni-mo chiama Radio Popolare, sempre

a Milano, come accadeva spesso in quegli anni. E ancora rivendica la morte di Renzi, attribuendola alle Br. Stessa rivendicazione, intorno alle 18, sempre a Milano, ma sta-volta alla redazione de la Repubbli-ca. In questo caso la voce dettaglia un risvolto militare dell’attacco di Lissone: «È stato usato un mitro-gliatore sovietico calibro K49». Di matrice opposta, alle 18,30, una rivendicazione che giunge al Gaz-zettino, redazione di Verona. Sono i neofascisti dei Nuclei armati ri-voluzionari ad assumersi la pater-nità dell’orribile delitto.Mentre i telefonisti della morte si affannano per potersi attribuire l’ennesima esecuzione, ad Anna Luisa Renzi, moglie del marescia-lo e ai suoi figli, poco più che bam-bini, Luca e Alessandro, la vita è cambiata per sempre. «Scorgendo la sua esile figura scol-pita in un dignitoso dolore», scri-ve, sempre per L’Ordine, Emiliano Ronzoni, raccontando le esequie, «molti tra la folla non hanno sapu-to trattenere le lacrime»

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Giugno/Luglio 2010

Volti felici nella precarietà.

A metà degli anni 70, il

fotografo Attilio Mina documenta

le residue baracche venete

All’epoca la chiamava-no fotografia «con-cerned», dall’ingle-se «coinvolti»: chi la praticava cioè si im-

medesimava nell’oggetto che foto-grafa, parteggiava per lui, militava spesso dalla sua parte. Erano gli an-ni, fra ’70 e ’80, della fotografia e dei fotografi «sociali», degli Uliano Lucas e dei Tano D’Amico. Attilio Mina, 64enne, marianese, autore di numerosi saggi sulla fo-tografia e scrittore, era uno di lo-ro. Col suo obiettivo scandagliava, rigorosamente in bianco e nero, gli angoli più scabrosi della realtà di quel tempo. Dai campi nomadi, ai disabili gravi dell’Anfass, dagli anziani nell’ospizio, dai matti (an-cora da slegare) alle spogliarelliste dei night di provincia. Tante diver-sità, talvolta inguardabili, nell’Italia di 40 anni fa.A metà degli anni ’70, la macchina fotografica di Mina entrò nelle ul-time baracche venete di Perticato, frazione di Mariano, fissando nel tempo una povertà che era scan-dalosa, nella Brianza di allora.«Ci andai, col sacro fuoco del mi-litante, di chi voleva denunciare il fatto che ci fossero persone, fami-

L’immigrazione veneta in Brianza, storie di gente fiera

STEMO TUTTI BEN

A metà degli anni 70, a Perticato, nei pressi di Mariano, alcuni veneti vivevano ancora nelle casette di legno costruite qualche decennio prima. Attilio Mina, fotografo, le immortalò

glie, che vivevano ancora in quella enorme precarietà».Un click dopo l’altro, Mina racconta la vita fra assi di legno fra ai margini dei paesi brianzoli, l’esistenza nelle casine da Tre porcellini, fra i campi, il cui verde non si riesce neppure a immaginare.«Come accadeva sempre con le per-sone che ritraevo», ricorda oggi Mi-na, «li frequentai a lungo, diventan-done amico, finché scattavo senza quasi essere più percepito».Le famiglie polesane che vivevano lì, lo ammisero nelle loro case mi-nime, squadrate: un ambiente d’in-gresso e, in genere, due camere ai lati. Dentro, un mare di dignità «Oggi, riesco a guardare a questi scatti con un occhio diverso: to-gliendo la denuncia, l’invettiva, re-stano i dettagli di una vita piena di decoro ancorché precaria». E poi, indicando, fra gli scatti, una cucina con un lavello appoggia-to alla parete di legno, dice: «Vede questa cucina? È piena di decoro, di calore: questa gente dice “è ca-sa mia”».Il suo Vivere in baracca uscì come supplemento a Fotografia italiana, del giugno 1977. Ventiquattro pagi-ne emozionanti. Ancora oggi

Il libro

fotografie di Attilio Mina, testi di Bruno Orlandoni supplemento a Fotografia italiana n. 227 giugno 1977, pagg. 24 edizioni Ediphoto

Un reportage ormai reperibile solo in al-cune biblioteche o, potenza di Internet, an-cora acquistabile online a 10 euro (www.obiettivolibri.it). Mentre l’obiettivo di Mina (www.attiliomina.it) percorre la dignitosa baraccopoli brianzola, Orlandoni raccon-ta le tecniche di costruzione, descrive l’uso degli spazi e inquadra sociologicamente e a livello urbanistico il fenomeno.

Vivere in baracca

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È senza dubbio un documen-to eccezionale il servizio fo-tografico che Attilio Mina ci ha concesso e di cui potete vedere alcuni scatti in que-ste pagine. Alcuni sono totalmente ine-diti, perché non furono uti-lizzati per Vivere in barac-ca, la pubblicazione che uscì in supplemento a Fotografia italiana, nel 1977.Un bianco e nero che fa vi-brare di commozione e che ci consegna, quasi qua-rant’anni dopo, un pezzo di storia della Brianza rimosso dai più.Foto che mostrano i volti de-gli ultimi immigrati veneti abitare, con dignità e deco-ro, le baracche che, venti an-ni prima, si erano costruiti lo-ro predecessori, in fuga dalla povertà o dalle alluvioni.Oggi, Veneti e Brianzoli so-no così compenetrati da dif-ferenziarsi ormai solo per i cognomi, pochissimi infatti parlano ancora la lingua del Trevigiano, del Veneziano, del Padovano, del Polesine, le tante zone di partenza del-la grande immigrazione ini-ziata con i primi anni 50, con la valigia «di cartòn», come ricorda anche l’intervista qui a fianco. A unire gli uni e gli altri, la religiosità forte di cui è in-tessuto il vivere e dalla quale deriva quel senso di respon-sabilità che permea il lavoro, altro grande punto di contat-to che ha accomunato gli uni e gli altri. Veneti che sono stati pro-tagonisti, negli ultimi cin-quant’anni del secolo scorso, della crescita straordinaria di questa terra. E ricordare che molti parti-rono dalle quattro pareti in legno di una baracca non può che obbligarci a guar-dare con fiducia a qualsia-si difficoltà il futuro ci voglia mettere davanti GdM

Così il futuro non fa paura

Rifl essione sui fattiR

Giugno/Luglio 2010

Elio Marchioro, classe 1930, da Ponte Lon-go (Padova). È uno dei tanti veneti ar-rivati in Brianza nei

primi anni ‘50. Con i fratelli, Gino, Sergio e Alfredo, si stabilì a Laz-zate dove svolse molti lavori sen-za mai trascurare la passione per la decorazione, che aveva appreso in Veneto, fi no a dedicarsi alla pit-tura. Sua una serie di cento dipin-ti che ripropongono gli scorci più belli del borgo e di cui è stata rea-lizzata una mostra nel 2002. Lo ha intervistato la nipote, Chia-ra, 23enne giussanese, laureanda in Scienze della comunicazione all’Università Cattolica.Perché pensaste di emigrare in Lom-bardia?Siamo stati invogliati dai parenti che avevamo a Cermenate: veni-vano a trovarci e son venuti anche prima della guerra. Addirittura partivano in bicicletta, due, tre cu-gini a venirci a trovare in Veneto. E ogni volta ci invogliavano, rac-contandoci di questa Lombardia, di questa Milano, dove il lavoro era abbondante.Quando partiste?Nel 1951, la nostra era una fami-glia dedita all’edilizia, l’intento era di fare un’impresa di costruzioni a Milano. Infatti, divise le cose che avevamo, siamo partiti. I classici emigranti con la valigia di “car-tòn”. Siamo arrivati di sera, stre-mati. Come gli indiani, abbiamo acceso il fuoco fuori, per mangiare qualcosa, nella cascina che aveva-mo affi ttato. Quando hanno visto fuoco, la gente è venuta a vedere: hanno visto il camion con i mo-bili, e noi. Era novembre, quasi nell’imbrunire, con questo fuo-cherello, qualcosa da scaldare e tutti intorno.

Eravate i primi veneti a Lazzate?No, ce n’erano già un paio di fa-miglie. Abbiamo cominciato a la-vorare. La sera stessa, quelli che erano arrivati là a vedere quel fu-mo, ci hanno chiesto cosa sapessi-mo fare. Sergio, che faceva il mu-ratore, trovò subito un posto. E quando dissero che cercavano un piastrellista non mi tirai indietro, anche se per cinque anni, in Vene-to, ero stato garzone di un decora-tore imparando quel mestiere che sognavo di fare. Speravo di andare a lavorare in una ditta di cartelloni pubblicitari a Milano, metre Ser-gio aveva trovato un impiego alla Motta. Poi vi metteste in proprio...Fu proprio Gino, tempo addietro, a metterci in contatto con dei mu-ratori a Milano. Fu così che io, Ser-gio e anche Alfredo che avevo so-lo 13 anni, ci siamo messi insieme. Zoccoli di legno, bicicletta e via:

tutti i giorni a attaccare piastrelle. Quante ne abbiamo attaccate...Come stavate? Eravate felici?Ho sempre sofferto la qualità di emigrante, non mi sono mai adattato alla vita dell’emigrante. Per questo, quando a sera venivo a casa, cercavo i miei pennelli e i miei colori. Ogni sera imbrattavo tutta la casa, tutti i mobili, perché volevo fare il decoratore per mo-bili, l’arte per la decorazione de-gli interni. Ma era un settore che già era in calo, andava forte allo-ra il mobile commerciale. Allora gli appartamenti sorgevano a Mi-lano come funghi, allora bisogna-va mettere dentro mobili in tutte le maniere piccoli, grandi, e l’arte vera e propria era un po’ messa in disparte.Rimpianti?Dovresti farti un capannone, mi diceva qualcuno. Figurati! Dove trovavi la possibilità? Quando an-che Gino si è messo nelle piastrel-le, io ho preferito lasciar stare: il mio intento era iniziare con l’arte.Il piastrellista lo farò, dicevo, ma io nel cuore ho l’arte. C’è poco da fa-re: ero nato per l’arte, che poi non sia diventato nessuno, ma non ha importanza. Vendevi i tuoi quadri?Mi presentavo, facevo vedere i la-vori che facevo. Uno due posti mi dicevano «belli, ma…». Dissi ad Al-fredo, che mi accompagnava, «an-diamo a casa». Sulla via del ritorno ci fermammo a Desio, dove c’è un

grande magazzino, che acquistava dipinti, non belli ma per fare arre-damento: le case venivano su co-me i funghi a Milano, e avevano bi-sogno di attaccare su queste pareti squallide. Mi dice:” vuoi lavorare?” e allora mi danno dei modelli, dei suggerimenti, mi caricano la mac-china di tele, e son venuto a casa: ho iniziato a dipingere. Quand’è che ti sei dedicato esclusi-vamente alla pittura?Nel 1965. Ho lasciato l’attività di piastrellista e mi son messo a di-pingere. Così per anni, fi nché an-che il commerciale è venuto me-no, allora mi sono messo a fare le miniature, poi anche lì è iniziata un po’ di crisi e ho ceduto l’atti-vità. L’ultimo lavoro che ho fatto, è stato dipingere Lazzate in cento dipinti, che il comune ha acquista-to come documento storico. Come ti sei trovato i primi tempi che sei arrivato?Altra cultura, altra gente, altro dia-letto: qualche volta “ho fatto le la-crime”, perché all’età di 20 anni ho dovuto lasciare la casa che amavo, il mio paese. Sono ricordi che ri-mangono dentro tutta la vita. A 20 anni dover lasciare gli amici, i pochi amici, perché nella vita non se ne può avere tanti ma quei due o tre sono amici veri. E la propria casa, il proprio paese: per me è sta-ta una cosa terribile. Per i tuoi fratelli?Sergio non ha subito: altro tem-peramento, altro carattere, altra

sensibilità. Anche l’Alfredo, ma poiché era molto giovane, ed è entrato subito nell’ambiente. Ma io e Gino, che era il maggiore, ne abbiamo risentito moltissimo. Se avessimo potuto la parola «emi-granti» l’avremmo cancellata dal vocabolario. Oggi vedere quelle persone che arrivano dall’estero, dall’Africa in quelle condizioni di emigranti, mi fa veramente mori-re il cuore. Non ti è mai venuto il desiderio di tornare in Veneto?Sempre ma non ho potuto farlo, anche perché sono nati fi gli, si so-no aff ezionati al paese, a Lazzate. Non ne ho mai neanche parlato del desiderio di tornare nel Vene-to. Loro, probabilmente lo capiva-no, ma non gli ne ho mai accen-nato. Come vi hanno accolto?Molto bene, eravamo i primissimi e probabilmente a Lazzate non im-maginvano che ne sarebbero arri-vati tanti altri. Un paese che con-tava 2200 abitanti, nel giro di dieci anni, arrivò a 5mila, non è stato facile per i Lazzatesi. tuttavia noi siamo stati accolti bene, anche per-ché sai la famiglia Marchioro ha sempre dimostrato di saper con-vivere, di essere gente civile, che sa trattare. E poi siamo cattolici praticanti e questi paesi lombardi ci tengono molto. E ci hanno vo-luto bene. La famiglia Marchioro, credimi, è stata molto ma molto rispettata in paese

Scene di vita nell’ultima

baraccopoli veneta

di Perticato, alle porte di Mariano

Comense

EMIGRANTE, PAROLA ODIATAElio Marchioro, piastrellista, decoratore e poi pittore, ricorda l’arrivo, con i fratelli. Anni di fatica, di voglia di riscatto, di nostalgia sempre nascosta per la casa di Chiara Marchioro

Lazzate 1951, una famiglia dal Padovano

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7Giugno/Luglio 2010

Varda che beo”, ossia “guarda che bel-lo”. Quando si an-dava in treno, ma-gari per tornare in

Veneto, d’estate, mia madre mi educava continuamente alla bel-lezza». Enzo Gibellato, veranese, classe ’57, storico dell’arte e docente nella scuola superiore, dice di sé «d’esse-re stato veneto fi no ai 14 anni», fi n-tanto cioè che i genitori, termina-ta la scuola, non lo spedivano dai nonni a Pegolotte, vicino a Chiog-gia, provincia di Venezia. Magari, assieme ai fratelli, sulla 600, dell’ autista Atm, veneto pure lui, che arrotondava facendo da chauff eur nei giorni di ferie. «E quando tornavo, i miei amici mi sfottevano per via di quell’accento strano che mi portava a sostituire le zeta con le esse, persino nel mio nome, che pronunciavo “Enso”».«Beo» era un’aggettivo frequen-tissimo nel vocabolario di sua ma-dre, Dorina Daniele, arrivata in Brianza col marito, Ferruccio Gi-bellato, ai primi degli anni 50. Ma non dai campi piatti e verdissimi del Chioggiotto, dove terra, cielo e mare si fondo in una luce senza pari. No, i Gibellato, in fuga da un presente di ristrettezze come mi-gliaia di altri veneti in quegli anni, approdarono prima nel Vigevane-se. «Mia madre fece la mondina», ricorda il professore, «mio padre s’arrangiò a fare il calzolaio». Contadini entrambi, in una terra che ormai non consentiva di met-tere nemmeno insieme il pranzo con la cena, partirono alla ricerca di un barlume di benessere, fug-gendo da un presente piuttosto duro. «Ricordo che quando passa-rono in tv il fi lm Novecento di Ber-tolucci, e mia madre vide la scena in cui, nella grande cascina, in tanti mangiano la polenta al profumo di

aringa, lei non poté fare a meno di commentare, sommessamente: “Noi eravamo così”».Beo, dunque. Perché «beo» era l’espressione con cui ci si rivolgeva ai bambini, «ti se’ beo». Beo, perché nelle case venete, c’era, di fondo, una religiosità potente che rende-va grati d’ogni cosa.Bei erano i fi ori, che i polesani, i trevigiani, i veneziani, i padovani coltivavano sui balconi delle loro case brianzole, spesso portandosi le sementi dal Veneto, quando si rientrava da una vacanza. «Li mettevano nelle latte, nei ba-rattoli grandi di pomodori, aperti alla sommità» e le terrazze delle case, anche umili, diventavano un tripudio di colore.«Una mia vicina, un’anziana brian-zola lo ricorda spesso “I Veneti: po-verini, ma sempre con tanti fi ori”». E povera la gente veneta lo era davvero ma con una voglia di ri-scatto enorme. «C’era il culto della fabbrica», os-serva il professore, «come sicurez-za, come avvenire, come solidità». E ricorda di quando la sorella ave-va trovato un impiego in un gran-de negozio di abiti da sposa, a

Monza, e i genitori si opposero, fermamente: «La fabbrica non si lascia». Accadeva semmai che la fabbrica lasciasse a casa qualcuno, magari dall’oggi al domani, senza troppi convenevoli. «Un settembre forse alla metà degli anni ’80: una lette-ra stringata licenziava mia madre, dopo 25 anni di lavoro». Venticinque anni a fare cerniere e serrature: «A far buchi, milioni di buchi nell’alluminio, tanto che a sera, mi mettevo a toglierle le li-maie, le schegge, dalle mani. E poi, di punto, in bianco una lettera». Gibellato ricorda che se ne andò, da solo, dinnanzi alla fabbrica, con un cartello: «Non si calpesta così la dignità delle persone». Le mani di Dorina e Ferruccio, a sera, nere di fatica, sono l’imma-gine che lo ha accompagnato per anni, «tanto che in casa, sul lavan-dino, oltre al sapone, c’era quella pasta speciale che usano i mecca-nici per sgrassarsi». Dorina, dopo otto ore di serramenti, metteva a tavola il marito e quattro fi gli, con la stessa immutabile dedizione. «Un senso del dovere immane, con cui facevo i conti quando dovevo

studiare o prendermi delle respon-sabilità», dice, «e il paragone con i miei genitori scattava sempre».Una casa, quella dei Gibellato, dove la vita non era dunque una passeggiata ma nella quale il clima era sereno. «Non ci si lamentava, anche se la fabbrica era terribil-mente diversa dai campi a perdita d’occhio, dove si lavorava soste-nendosi col canto; non si maledi-va, se le nostre case non erano le cascine dove, a sera, ci si ritrovava tutti quanti sull’aia a parlare sino a notte fonda: di animali, semen-ti, amici partiti, sposi, guardando sempre le stelle, quasi perdendosi. Nelle case popolari della Brianza invece, gli orizzonti di cielo erano inesistenti». Una casa in cui risuonavano gli stornelli tipici, cantati «con voci stridule come cornamuse»: «Me compare Giacometto/el gavea un bel gaeto» (un bel gallo).Di quegli anni, ricorda i conti, fatti al tavolino, insieme al padre, quan-do, ogni quindici giorni, arrivava il salario, la quindicina, «ed era pro-prio così, una busta con i soldi e un cedolino con i conteggi». Gi-bellato padre, non troppo ferra-to con i numeri, si faceva aiutare da Gibellato fi glio a ricontrollare: c’erano le ore di lavoro, lo straor-dinario, le ore in nero, quelle stra-ordinarie in nero. Quel tavolo al quale, ancora ragazzino, la madre, mentre lavava i piatti, gli dettava le lettere da inviare ai parenti in Veneto: «Dighe che stemo tutti ben». La corrispondenza era un rituale irrinunciabile, forse l’unica forma di nostalgia verso i luoghi e i volti lasciati. «Carta e buste, in casa, non dovevano mai mancare», rammen-ta, «in genere si partiva col parlare del tempo, poi le novità nostre e degli altri parenti qui e del potersi vedere a Natale». Nella luce bassa della cucina, un ragazzino seduto al tavolo scrive su un foglio bianco, mentre una donna col grembiule gli dà le spal-le, maneggiando stoviglie e piatti: «E scrive grande, ben, che il nonno non vede ben».Gente semplice, molto religiosa, i Gibellato come tutti i Veneti in genere. «Te to segnà?» vale a dire «ti sei segnato?» era il refrain che accompagnava l’uscita di casa di ogni fi glio: Dorina non transigeva su questi piccoli gesti di devozione. Così come sulle medagliette bene-dette della Madonna o di Sant’An-tonio, rigorosamente apposte sulle canottiere, per essere il più vicino possibile al corpo. «Da ragazzino, quando facevamo ginnastica a scuola, erano per me un grande imbarazzo». Eppure, soprattutto il culto del Santo, di Antonio da Padova, era vivissimo tra i Veneti dell’immi-grazione. «Un santo taumaturgo, che guariva, una venerazione enor-me». Sono gli anni in cui, dove si istallano i Veneti spuntano le edi-cole votive: «A Verano, alla fi ne di via Grandi, la signora Ginevra ne fece costruire una, sempre circon-data da gigli profumati».«Una religiosità elementare ma potentissima», dice Gibellato, «un’osmosi di verità, che, una vol-ta più grande, all’università, maga-ri incontrando altre idee sulla vita, ho dovuto verifi care e riconoscere vera, anche per me».Educato a «vardar» le bellezze in-torno, l’«Enso» aveva imparato a guardare tutto con la medesima gratitudine

VARDA CHE BEO LA LUNGA LEZIONE DI MAMMA DORINAFernando e Dorina Gibellato, dalle campagne veneziane alle fabbrica della Brianza. Dicendo sempre grazie alla vita. Il racconto del figlio

Verano anni 50, immigrati da Chioggia

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Dorina Daniele col marito Ferruccio Gibellato.Sotto, il figlio Enzo in una foto scolastica

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8Giugno/Luglio 2010

Erano 260.849 i veneti che vivevano all’estero (il 5,4% della popolazione attuale della regione) nel 2008. L’ultimo «pezzo» della gran-de migrazione iniziata nella seconda metà dell’ 800 e di cui fa parte anche il filone brianzolo. Un fenomeno che, nel suo complesso, vide oltre 3 mi-lioni di Veneti lasciare le pro-prie case, fino al 1976.Oggi all’Estero la maggior parte di italiani di origine veneta risiede in Argentina (31.823) Brasile (57.052) e Svizzera (38.320) ma sono addirittura milioni i cittadini di quegli Stati che hanno ori-gine nel nostro Nord-Est. È il caso del Brasile dove, negli stati di Rio Grande do Sul, Santa Catarina, Paraná e Espírito Santo ci sono cit-tà che si richiamano a quelle di origine: Nova Schio, Nova Bassano, Nova Brescia, Nova Treviso, Nova Veneza, Nova Padova e Monteberico.

All’Estero oggi 5 su 100

D Di chi si parla

8 MARIO, TUTTO LAVORO, PUGNI E FAMIGLIAAnni in acciaieria, in cima a una gru, e sul quadrato di una palestra a tirare di boxe. La vita forsennatamente felice di Mario Rorato

Paina,1957. Da Caorle via Senago

Stavo a petto nudo per il caldo bestiale, dentro una cabina di una gru, su per aria, in cima al capannone, colavo l’ac-

ciaio» così Mario Rorato, classe 1938, da Caorle (Venezia), ricorda il suo primo lavoro in Lombardia, alle Acciaierie Riva di Caronno PertusellaEra il 1957. Mario era andato in Lombardia perché a casa, c’erano tre fratelli distrofi ci, e i campi - a San Donà del Piave, dove i suoi si erano successivamente trasferiti - non bastavano più alla famiglia.Viveva a Senago, in una pension-cina di famiglia, che si manteneva lavorando in cucina e facendo il factotum. Giornate lunghissime: sveglio alle cinque per fare il primo turno in fabbrica, a dar da man-giare a un forno che sputava fi no a 250 tonnellate di acciaio, poi alle 14, correva alla pensione Saleri, co-sì si chiamava, a far pulize e tutto quello di cui c’era bisogno. Quin-di, alle 18, inforcava la bici e via, verso Garbagnate, dove coltivava il suo amore più grande: la boxe. «Ero un welter leggero», e mentre lo racconta gli occhi brillano. Uno che non aveva paura, Mario Ro-rato, dall’uppercut veloce, che una volta, da sparring partner, a Mila-no, stese anche un giovane Nino Benvenuti.«Ho fatto 16 incontri uffi ciali», ri-

corda, «e non sono mai andato giù». Anzi una volta, a Sondalo, quando gli organizzatori, gli “con-sigliarono” di far vincere una lo-cale stellina, lui lo mise knock out tre volte: «Eh, voleva picchiare», sospira, «e io schivavo e poi - pam! - menavo». Quella volta, un arbi-tro compiacente, lo squalifi cò per scorrettezza: «lo scrisse anche la Gazzetta, ma avevo vinto io».«Ci davano si e no 1000-1500 lire», dice, «e ogni lunedì, se vincevo, il signor Roberto Riva, il titolare, me ne dava altre 5mila».Anni di botte e di spensieratezza. Una volta, di ritorno a sera, con un compagno di gara, dalla Stazio-ne centrale decisero di prolungare

verso il night Cupola verde: «Aveva vinto le solite 1.500 lire», sogghi-gna, «e ne spendemmo 3.500 a te-sta». E, a notte fonda, via per Ca-ronno: all’alba, anche quella volta, c’era da fare il primo turno.Una furia della natura, Mario Ro-rato, di una forza spropositata, spesso messa alla prova sul lavo-ro, con sfi de e prove di ogni gene-re. Come quella volta che si prese sulle spalle un pezzo di 192 chili, facendogli fare un lungo tragitto: «In palio c’era una damigiana di vino», rammenta, «che poi lasciai ai colleghi che, all’epoca, ero pra-ticamente astemio».Fu poco dopo, quando comparve l’Asiatica, che Rorato scoprì bacco

e tabacco: il medico gli disse che, contro quell’infl uenza che spava-entava tutti, occorreva fumare e bere molto. E lui ammazzava il vi-rus arrivando anche a quattro pac-chetti di sigarette al giorno. A imbrigliare Venere ci aveva pensato, nel 1962, Silvana Striat-to, trevigiana, classe 1940. L’aveva conosciuta a Perticato, dove viveva con i cugini e poi l’aveva inseguita fi no a Jesolo, dov’era in vacanza da alcuni parenti, in sella alla sua Mondial, non prima d’esser passato per Udine, a chiudere i conti con la sua vecchia fi amma.Con lei mise su famiglia - tre fi gli nel ‘63, nel ‘66 e nel ‘73 - e continuò a lavorare come un forsennato. Dimessosi dall’acciaieria per copri-re l’errore di un collega - «o c’an-dava di mezzo un bravo friulano» - si impiega nell’Officina Gorla, nei pressi del laghetto di Giussa-no. «Facevo tutto: benzina, ripa-razioni, lavavo le auto: un anno, alla vigilia di Natale, arrivai a farne 22». Un dipendente d’oro, Rorarto Mario da Caorle, tanto che il tito-lare, una volta all’anno, lo portava a pranzo «con tutta la famiglia». E gli dispiacque, al Gorla, quan-do Mario se ne andò per la gran-de Breda. «Furono alcuni autisti a convincermi a far domanda, sa-pendo che avevo fatto il gruista». Del suo ingresso sotto i gigante-schi capannoni di viale Sarca, Ma-rio ricorda bene la prima prova sulla gru. «Salii in cabina in un at-timo, presi il primo carico, arrivai sul punto della colata: da terra mi fecero segno di spostarmi appena di qualche centimetro: in poche manovre avevo fatto la colata e senza i pericolosissimi schizzi d’ac-ciaio che, appena il giorno prima, avevano spedito quattro operai in infermeria».Lo proposero anche per una cate-goria superiore, «ma non lo fece-ro per non irritare la commissione interna» ricorda. «Ma qualche giorno dopo l’inge-gnere mi picchiò sulla spalla dicen-do: “Rorato, dal mese prossimo cinque lire d’aumento”»

Anni 70,Mario Rorato, al centro, con due colleghi, di in una pausa di lavoro alla Breda di Sesto

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9Giugno/Luglio 2010

I Il libro a tema

Gli albanesi eravamo noiSi intitolava L’Orda e ricorda-va a tutti, ai Veneti in primis, la loro storia di migranti. È uno dei molti libri scritti da Gian Antonio Stella, firma di punta del Corriere della Sera, fustigatore implacabile dei vizi e delle furbizie della politica italiana fotografati ne La Casta edito, come l’altro, per Rizzoli.Cinquantasette anni, veneto di Asolo (Treviso), origina-rio di Asiago e cresciuto a Vicenza, Stella ha ricordato ai suoi corregionali i decenni della sofferenza e della fati-ca dell’emigrazione, di quan-do, come recita il sottotitolo del libro stesso «gli Albanesi eravamo noi».Dal libro è nato poi uno spet-tacolo teatrale, portato in scena da La compagnia del-le acque, e un sito internet (www.orda.it) che raccoglie dati e informazioni «per capi-re, discutere di emigrazione, immigrazione, razzismo».

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Il maiale, salvammo solo il maiale: l’acqua si portò via le galline e tutto il resto». La signora Mirella Muner, 71 anni, vive a Paina dal 1966, da quando cioè l’acqua della laguna di Venezia inondò tutta la pianura

circostante. La sua casa, poco fuori Caorle, venne presa in pieno e tutto fi nì «drio acqua», dietro l’acqua: dalle galline «al parquet, appena posato nelle camere». E l’acqua, anni prima, a più riprese aveva spinto molti veneti del Polesine, ad emigrare, molti dei quali in Brianza.E alcuni parenti, in quel novembre di quarantaquattro anni fa, Mirella li aveva anche lei in quei paesi a nord di Milano. Naturale, con l’unica casa sommersa dall’acqua dell’Adriatico, cercare rifugio, «con la madre e le sorelle», da quei cugini trapiantati in Brianza, .E l’arrivo a Paina non fu esaltante. Le case che riuscirono a prendere in affi tto, erano quelle vuote da anni. E piuttosto malconce: «Mi fece impres-sione vedere i cartoni al posto dei vetri».Ma non c’era tempo per crucciarsi, non c’era tempo per la nostalgia della casa perduta, «un amore, che c’eravamo sistemati poco alla volta”, c’era da arrangiarsi, c’era da lavorare.Per Mirella Muner, il primo impiego è in tessitura a Birone, come una mat-ta a lavorare ai telai dove, dopo le 10 ore della giornata, capitava di tornare tre ore dopo cena. «Siamo arrivati a fare anche 13 ore, ricorda».E i primi tempi, non furono tutte rose e fi ori. «Le lombarde», così chia-mano ancora oggi le brianzole, «ce l’avevano con noi, per questa disponi-bilità a lavorare ed erano gelosissime della loro professionalità, tanto che il mestiere lo dovevi rubare».Di quegli anni, la signora Mirella ricorda come un’ossessione i debiti: «Ne eravamo pieni: c’era sempre una scadenza, una cambiale da pagare e per questo si lavorava, si lavorava sempre» perché, rammenta, «dovevamo siste-mare la casa, tirar su i fi gli, i soldi non bastavano mai». E una certa nostalgia per i frutteti dei conti Marzotto, dove lavorava. Laggiù, nel Veneto. «Ma non della mia casa», dice, «quella era una ferita che non si rimarginava: vederla in balia dell’acqua che porta via tutto, tutto ciò per cui ti eri sacrificata». E la tristezza poi di vederla, dopo 20 anni: «L’avevamo già venduta ed era disabitata. Praticamente diroccata: con le piante sul tetto. Fu una pena. Una pena enorme»

Nello scatto di Attilio Mina il particolare di una cucina economica alimentata a legno

Mirella Muner arrivò in Brianza dopo che l’alluvione del 1966 le aveva portato via tutto. Ricominciando da capo

Paina 1966, fuga da Caorle

LA LAGUNA DISTRUSSE LA CASA E NOI PARTIMMO

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2BOCCIATA PERCHÉ NON PRONUNCIAVO LE DOPPIEGiulietta Striatto quando arrivò in treno a Seregno, il giorno di San Martino, era una bambina di otto anni. Ecco i suoi ricordi

Il primo lavoro di Silvana Striatto fu la vendita ambulante di casalinghi

Paina, 1952. Dal Trevigiano a un cortile brianzolo

Il treno si fermò a Seregno e lei cercò, sul binario, il volto dello zio. Tutte le donne Striatto erano par-tite alla volta della Brian-

za, in treno. Era l’11 novembre 1952, San Martino, e Giulietta aveva 8 anni, viveva a Ca Tran, nei pressi di Roncade, nel Trevigiano: cam-pagna, campagna e ancora campa-gna. Dove la gente, da una cascina all’altra, non essendoci il telefono, si chiama col fucile».«Un viaggio infi nito», ricorda og-gi, «partimmo a sera per arrivare al mattino seguente». Gli uomini e i ragazzi di famiglia seguivano con i camion, dove avevano caricato i pochi mobili e «la liquidazione del padrone: patate, grano, frutta».Ma quella mattina, a Seregno fa-ceva piuttosto freddo: «Ricordo che passando per Mestre, la gente ci canzonava: “Andate a mangiare la nebbia”». Lo zio Striatto, inquadrò quella ventina di donne e bambine e, a piedi, le condusse fi no a Paina. «Ri-cordo che gli chiesi: “Ma zio, dove andiamo?”». E lui indicò un campa-nile lontano che, a fatica, si vedeva. E quella strada sassosa non fi niva mai. «Zio, zio, dimmi quand’è», ripeteva quella bambina, stanca di un lungo viaggio e impaziente di vedere la sua nuova casa.Dell’arrivo in Brianza, Giulietta ri-

Oh sciur, l’è arriva’ la cava-gnina». Era il grido che annunciava il carretto,

pieno di casalinghi: stoviglie, pen-tole, piatti, laddove un tempo c’era-no le cavagne, ossia le gerle. A tirarlo era Silvana Striatto, 12 anni, arrivata da poco, con le tan-te cugine da Roncade, profonda campagna trevigiana. «Fu il mio primo lavoro», presso un commerciante di Paina, e Sil-vana, accompagnava la titolare per il circondario, vendendo per strada. «Giovedì eravamo fi ssi a Perticato», ricorda, «e poi giravamo. E spesso mi impiegavano anche nei “mestie-ri di casa”». Un carretto pesante da tirare ma a Silvana, la cavagnina, piaceva lavo-rare così. Forse perché l’aria aperta le ricordava la campagne dove era cresciuta, là a Ca’ Tran, con il le-bo, l’abbeveratoio per le mucche, dove coi cugini faceva scivolare un po’ di gasolio rubato alla mietitreb-bia, per poi osservare lo spettaco-lo delle, le gocce oleose, librarsi nell’acqua. «Una volta, un cugino mi schizzò in faccia quel carburan-te”, ricorda, «e io non dissi nulla, per paura di mia nonna Amabile, il vero capofamiglia, donna severis-sima ma fi nì che mi procurai una lesione alla cornea».Forse perché le mancavano i gran-di spazi, i campi di soturco a perdi-ta d’occhio, le pannocce da pulire sull’aia ma, a Silvana, la fabbrica stava stretta: quando, anni dopo, la-sciò il carretto per un ciabattifi cio

corda appunto il gran freddo: «Non avevamo cappotto», dice, «che in Veneto la temperatura era migliore e avevamo scarpe di corda: l’inizio fu diffi cile davvero». Alcuni zii avevano vissuto in barac-ca, «decorosamente: fuori, la do-menica apparecchiavano mettendo la tovaglia bianca. E i lombardi, che allora non ne utilizzavano, pensa-vano che usassero le tende». Poi, quei primi Striatto, si erano spostati in paese, in una corte, dove

a Santa Valeria di Seregno, prima, e per la trancia dei Vergani, a far compensati, le esperienze furono brevi e restò per pochi anni. «Meglio, i mesté», come fece poi per 20 anni: a servizio dai Mariani di

Seregno, tanto da aver visto cre-scere «il Giacinto», l’attuale sinda-co della città. «Quando ho smesso di lavorare: ab-biamo pianto tutti, io e loro», svela, non senza una punta di commozio-

arrivò anche lei: «Arrivammo pre-sto e la prima cosa che vedemmo fu un gruppo di vicini di casa che facevano la prima colazione, seduti sulle scale esterne. La cosa mi par-ve strana. Loro ci guardarono con curiosità». La cascina non era propriamente un paradiso: «L’impatto fu duro», rammenta, «in un angolo c’era il letamaio e la nostra porta era vi-cina ai bagni, che erano comuni: d’estate, fra la puzza e le mosche,

non era piacevole». Qualcuno, nel gruppo delle ragazzine si lasciò scappare un «ma dove ci avete por-tato?».Nessun problema di integrazione «con i lombardi» (molti anni dopo, avrebbe sposato un brianzolissimo Cesana). Salvo a scuola: quell’an-no, Giulietta ripeté la terza elemen-tare: «Da veneta, non pronunciavo le doppie e mi bocciarono». La scuola italiana, allora, sapeva es-sere gratuitamente feroce

Paina, 1952 da Roncade in Brianza

SILVANA,CAVAGNINA DI 12 ANNI

ne ancora oggi, a distanza ormai di molto tempo.Anni in cui, oltre a fare i mestieri, a sera si mettevano a lucidare le spec-chiere che produceva un loro pa-rente: «Ore e ore di carta vetrata». Un giorno, quando c’era da conse-gnare l’ultimo stock di specchiere, chiese al marito, Mario (nella fo-to, accanto, insieme a lei, ndr), di prendersi un giorno di ferie dalla Breda: «Non fu un grande aff are: guadagnammo 11mila lire mentre un suo giorno di ferie ne valeva 15», ride oggi. Ma c’era da fare: i fi gli da crescere, la casa da tirar sù, e non ci si diceva mai di no al lavoro.Gente veneta a Paina: «Ci si fre-quentava e ci apprezzava molto fra parenti», spiega, «ma non è che volessimo stare solo fra veneti». Il piacere di riparlare la lingua dell’in-fanzia, la lingua del cuore ma non certo la voglia di chiudersi in un ghetto aff ettivo, anzi.Tant’è vero che Silvana, col marito, per lunghi anni, hanno animato la festa della Cascina dell’Oca, dove si radunava mezzo paese.A unirli ai brianzoli, oltre alla me-desima passionaccia per il lavoro e l’intraprendenza, c’era lo stesso, fortissimo, sentimeto religioso: «Ricordo don Franco, parroco per tanti anni a Paina», dice Silvana, «che quando capitava una messa con tanti veneti, magari una ricor-renza familiare, ci diceva sempre che il nostro modo di “sentire” la festa, di fare festa, gli piaceva dav-vero moltissimo»

Il nano di gesso uguale a quello di qualsiasi villetta. Nella baracca, un grande desiderio di normalità

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10 luglio 1976, dalla Icmesa di Meda si sprigiona diossina

GIORNI AL VELENO

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Le foto, bellissime, che illu-strano queste pagine si devo-no alla professionalità e alla passione di Pietro Vismara (si veda scheda nelle pagi-ne seguenti), che le realizzò, in quegli anni, per i giornali per i quali lavorava. Seveso fu la madre di tutti i disastri ambientali, prima che la tragedia indiana di Bophal, con la sua spavento-sa ecatombe di vite umane, venisse a oscurarne il triste primato.A Seveso, ancora oggi, è le-gata una direttiva europea in materia ambientale, che sta-bilisce vincoli piuttosto seve-ri alle attività industriali.Ricordare tutto quel dolo-re, tutta quella paura; riper-correre il lungo incubo che accompagnò migliaia di Brianzoli, non è un esercizio di voyeurismo cronachistico. Serve a tener presente come la terra di Brianza, insieme alla Terra tutta, debba esse-re tutelata e difesa. A non dimenticare mai che non ci può essere sviluppo senza rispetto dell’uomo e dell’ambiente in cui vive. GdM

Lo sviluppo possibile

Rifl essione sui fattiR

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Dieci luglio 1976. Era un sabato, un qual-siasi sabato d’esta-te. La gente della Brianza attendeva

alle solite occupazioni: c’è chi quel-la mattina aveva fatto qualche ora di straordinario in fabbrica, chi ave-va lavato l’auto e chi era stato a far le compere per la settimana.Altri si preparavano a fuggire la ca-lura con una passeggiata sulle Pre-alpi, un tuffo al Lago o una puntata, da mattina a sera, nel mare di Li-

guria. Una giornata come le altre, alla fine, per migliaia di persone se non fosse stato per un inconvenien-te tecnico, un banale incidente a un macchinario. La gente non sapeva ma quella data stava per scriversi in maniera indelebile nella storia di ognuno. A Meda, all’Icmesa, fabbrica chi-mica della Givaudan, dell’industria svizzera Hoffmann-La Roche A.G. di Basilea si producevano prodotti cosmetici e erbicidi.E in questo stabilimento, intorno

alle 12, nel reattore, l’impianto di raffreddamento del cloro va in cor-to, si blocca e, per la grande pres-sione sviluppata, le giunture non reggono, per cui, con violenza, una nube - rosa, diranno i testimoni - si sprigiona, come da una pentola a pressione impazzita. Ma nel cielo di Meda, quel giorno, con un fischio che terrorizza queli che lo odono - si volatilizza una molecola dalla tos-sicità spaventosa: è la tetraclorodi-benzo-para-diossina, nota a chimici con la sigla Tcdd. Una sostanza che,

anche i dosi minime, può essere no-civa, se non mortale.La diossina è l’Agente Orange, il de-foliante con cui, fino a pochi anni prima, gli Americani innaffiavano la jungla vietnamita, per combatte-re le truppe del Nord e i guerriglieri vietcong. Un veleno micidiale.La notizia arriva a tutt’Italia solo al-cuni giorni dopo, quando il Giorno e il Corriere della Sera cominciano a parlarne. Da quel momento, farà il giro del mondo ma non col nome del luogo dove l’incidente accade

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10 luglio: sabato, ore 12,40, il reattore dell’Icmesa a Me-da va in stallo, la temperatura al suo interno è elevatissima e un valvola di sicurezza ce-de, lasciando fuoriuscire una nube rosa11 luglio: Paolo Paoletti, direttore di stabilimento, ri-entrato dalle ferie perché av-vertito dal suo vice dell’inci-dente, si reca dal sindaco di Seveso, Francesco Rocca, informandolo.12 luglio: viene informato l’ufficiale sanitario che inizia le prime verifiche. Non sem-brano esserci stati danni alle persone.15 luglio: si segnalano i pri-mi casi di intossicazione di persone e moria di animali. L’ufficiale sanitario chiede ai sindaci di delimitare e isola-re le aree: viene individuata una zona a maggior rischio, la A, e una di minore perico-lorisità, la B. Scattano gli av-visi alla cittadinanza e divieti di consumare ortaggi o frutti raccolti in quelle zone.22 luglio: si moltiplianco i sintomi dell’intossicazione per decine e decine di per-sone. Aumenta la moria di animali.23 luglio: la Givaudan co-munica alle autorità sanita-rie che nella nube sprigio-nata c’era in parte diossina. I risultati delle analisi italiane confermano la presenza ele-vata di Tcdd nei campioni di terreno.24 luglio: i sindaci di Media e Seveso, con alcune ordi-nanza, ufficializzano la zona A, per un’area di una quindi-cina di ettari a sud dello sta-bilimento Icmesa. Si preve-de l’evacuazione entro i due giorni successivi delle po-polazione presente in questa area. La notizia viene diffusa in tutta Italia.26 luglio: oltre 200 persone di Meda e Seveso, residenti all’interno della zona A, ven-gono evacquate e alloggiate in un motel di Bruzzano. De-cine di aziende, agricole e industriali, devono sospen-dere le attività24 agosto: i comuni limitano ulteriormente le restrizioni per la zona A mentre per la B vengono bloccate le attivi-tà che possano alzare polveri dal terreno. Limite di velocità a 30 km/orari. 2 settembre: si registrano i primi violenti casi di clorac-ne sui volti di alcune centi-naia di bambini. A Seveso la paura aumenta

Seveso in dieci date

Cronologia di un drammaC

ma in quella dove la nube si dirige e dà i primi segnali di sé, Seveso, dove gli animali al pascolo - ce n’erano ancora molti in Brianza, 34 anni fa - cominciano a morire.La città diventa il centro di un caso mondiale di inquinamento indu-striale. Seveso viene presa d’assal-to da schiere di militari con masche-re antigas, di carabinieri e poliziotti che la perimetrano rendendone al-cune zone off-limits. Arrivano an-che politici di opposti schieramen-ti, arrivano da Milano e non solo

i raggruppamenti più estremistici: la storia dell’Icmesa costituisce un esempio perfetto dell’odiosa «irre-sponsabilità dei padroni».Migliaia di persone devono lasciare le case. Per alcuni, quelli che abita-no nelle zone A1 e A5, circa 200, non ci sarà mai rientro: quelle abitazioni risultavano contaminate e andava-no abbattute. Con gli indennizzi ri-cevuti, ricostruiranno altrove. Soffrono in molti. La gente ha pau-ra per sé ma soprattuto per i propri figli. I genitori sono disperati, affol-

lano i centri medici, realizzati nelle scuole, fanno la fila con i figli per i prelievi di sangue. A settembre, con la comparsa di una violenta cloracne a deturpare i volti dei bambini, si diffonde il pa-nico. Un incubo che spinge molte donne a richiedere l’aborto tera-peutico per i figli che portavano in grembo. Altre, al contrario, decideranno di portare a termine la gravidanza, partorendo figli sanissimi.E il dubbio che la diossina stia si-

lenziosamente avvelenando tutti accompagnerà migliaia di persone per diversi anni. Le indagini epidemiologiche diran-no che non sarà così, anche se quei dati sono tutt’oggi contestati da al-cuni comitati di cittadini. Una quantità di dolore e di paura che gli oltre 200 miliardi di lire pa-gati dalla Givaudan (100 milioni di euro attuali), a vario titolo e varie parti in causa, non indennizzerano mai completamente. Non c’è mo-neta che ripaghi il terrore

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Il fotografo

Cormanese, classe 1945, Pietro «Pierino» Vismara inizia a fare fotocronaca nel marzo del 1962, lavorando con tutti i quotidiani di Milano, fra cui La Notte, di cui era corrispondente, la Stampa di Tori-no l’Ansa e altri periodici. Oggi collabora con Cittadino, Gior-no e Cronaca Vera.

NELL’OBIETTIVO DI PIERO

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Espana ’82 i protagonistix

Re Juan Carlos consegna nelle mani di Dino Zoff l’ambita Cop-pa del Mondo: il capitano quarantenne può mostrarla all’Italia intera. È una delle istantanee del Mundial, che si accompagna all’urlo di Marco Tardelli dopo il provvisorio 2-0 alla Germa-nia Ovest e allo scatto che ritrae sull’aereo Pertini, Zoff, Cau-sio e Bearzot, impegnati in una partita di scopa, con la Coppa al centro del tavolo. Tra gli eroi del Bernabeu, come non citare Paolo Rossi? Squalifi cato nelle stagione 1981-82 per la vicen-da calcioscommesse, sarà capocannoniere del torneo e futuro Pallone d’oro, oppure il giovane Beppe Bergomi, titolare nella partita più attesa a soli diciannove anni. Il successo è passato anche attraverso la classe di Gaetano Scirea, compianto libero della Juventus e ai suoi compagni di reparto Claudio Gentile, Antonio Cabrini e Fulvio Collovati. Illuminante, a centrocam-po, Giancarlo Antognoni che saltà la fi nale, alle cui spalle stava Lele Oriali, mediano cantato da Ligabue e che all’epoca viveva a Desio. Davanti, fra talento e potenza, Bruno Conti, Francesco Graziani e «Spillo» Altobelli. D.C.

FRA PERTINI E BEARZOT

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Paolo Rossi apre, Tardelli regala l’im-magine dell’urlo e Altobelli chiude il discorso. Il tedesco

Breitner non riesce a guastare la festa italiana: l’epicentro è Madrid, le scosse si avvertono lungo tutta la penisola e dureranno per una notte intera. È l’11 luglio 1982, la Nazionale di calcio italiana batte in finale per 3-1 la Germania Ovest di Rummenigge e si laurea per la ter-za volta campione del mondo. «Italia non farci svegliare da que-sto magnifico sogno»: più di cin-quecento brianzoli salutavano co-sì l’ingresso in campo degli undici scelti da Enzo Bearzot per l’ulti-mo atto del Mundial, davanti allo schermo-stadio di Giussano, allestito all’interno di un capannone. Trombe, tamburi, bandiere e fi-schietti non erano da meno, utili nell’accompagnare il grido «Italia, Italia, Italia», che accomunava la città lombarda allo Stadio Santia-go Bernabeu di Madrid, massimo teatro della vicenda. Il silenzio non si fece aspettare: le note dell’inno di Mameli richiamano l’attenzio-ne, Giussano, Madrid e con loro le altre città italiane si alzano, portan-dosi una mano al petto: «Fratelli d’Italia/ l’Italia s’è desta…». Tutto è pronto e l’epica sfida può avere inizio: la tensione degli spor-tivi presenti allo schermo-stadio di Giussano è potuta esplodere solo nel secondo tempo. «Alla rete di Rossi è successo il fini-mondo, a quella di Tardelli le pare-ti sono tremate, a quella di Altobel-li si è arrivati al limite della pazzia», scrive un giovane Maurizio Losa, futuro vicedirettore di Rai Sport, sulle pagine sportive de L’Ordine di martedì 13 luglio 1982. La fossa dei leoni, nome di battaglia della torcida giussanese, accoglie-va dunque il triplice fischio come una benedizione: andate e festeg-giate, si dia inizio al carosello. Così in compagnia di evviva e di

Sport 1982 Italia campione del mondo in Spagna

NOTTI MUNDIAL IN BRIANZAUn capannone diventato una curva ultrà a Giussano, caroselli di auto fi no all’alba a ogni vittoria, sconosciuti abbracciati per strada. Brianzoli impazziti per l’Italia mondiale di Daniele Corbetta

Una Mini decapottabile dipinta di tricolore, con i tifosi sul tettino. La passione dei brianzoli, nel ’82, fu senza limiti

continua a pag.16

clacson imbufaliti, la folla tricolore ha invaso le strade della Brianza, come ricordano le parole de L’Or-dine: «Giussano a Seregno in mez-zo a due ali festanti di folla, dietro a un camion che ritmicamente lan-ciava coriandoli di carta e le note dell’inno d’Italia attraverso un me-gafono installato sulla cabina». E la paralisi delle strade seregnesi non tardò ad arrivare: un serpente di auto avvolte da bandiere bianco rosse e verdi occupa il centro cit-tadino, alternandosi con camion, trattori e addirittura con una mo-tofalciatrice trainante un carrello zeppo di tifosi impazziti. La meta è piazza Roma, crocevia dei festeggiamenti. Quarantaquattro anni dopo l’ul-timo successo mondiale (Francia, 1938) l’Italia è di nuovo in festa. Il cammino per arrivare a tanta gioia non è stato dei più facili: pri-ma un girone in sordina, segnato dai pareggi con Polonia, Camerun e Perù, poi la svolta con l’Argenti-na di Maradona, segnata dalle reti di Tardelli e Cabrini. Ma l’opinio-ne pubblica non concedeva ancora molto credito a Zoff e compagni: ci vogliono tre gol di un redivivo Paolo Rossi, messi a segno contro il Brasile di Zico, per far esplodere la gioia degli italiani. Poco dopo le sette di sera, bici-clette, moto, auto e camion si so-no riversate nelle strade di tutta la Brianza, bloccando il traffico dell’ora di punta: «…nessuno pe-rò ha protestato, anzi, chi faceva ri-torno a casa dopo il lavoro si è uni-to volentieri alla gioia di una città, di una nazione, per l’impresa da poco compiuta», come sottolinea L’Ordine di martedì 6 luglio 1982. E durante il match è ri-sbocciato l’amore tra l’Italia e «Pablito», criti-cato fino ad allora: ora la «Fossa dei leoni» giussanese ne canta le gesta, dopo il secondo gol ai carioca. Il futuro capocannoniere dei mon-diali spagnoli realizza una dop-

La notte dell’11 luglio 1982 rimarrà legata ad immagini festanti, di gioia, urla, canti e risate. L’Italia è campione del mondo, ma per una famiglia seregnese l’entusiasmo si è trasformato in tragedia,

spedendo tristemente nel dimenticatoio Rossi, Tardelli e compagnia al seguito. Dopo il fi schio fi nale un giovane di 17 anni ha inforcato la sella della sua Vespa, desideroso di raggiungere gli amici a Meda, per festeg-giare la vittoria del Mundial. Radio accesa e via, ma in prossimità di un incrocio, lo schianto fatale: una Fiat 128 con a bordo una famiglia medese investì il ragazzo, probabilmente per non aver rispettato la precedenza. Questo fu sbalzato a diversi metri di distanza, ricadendo con violenza sull’asfalto. In primis i soccorritori furono i passanti, quindi l’ambulanza, rallentata dai caroselli: la corsa all’ospedale di Seregno prima e a quello di Niguarda, poi furono inutili, a causa delle gravi lesioni riportate nello scontro con l’automobile. Nel cuore della notte il giovane seregnese perde la vita, con l’urlo di gioia strozzato in gola.

Meda Tragedia nella notte magica

La cronaca

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16Giugno/Luglio 2010

E RIVERA ILLUMINÒ LA NOTTE DI SEREGNOBrianza in festa nella notte dell’Atzeca, nella partita più bella della storia. L’Italia di Valcareggi perse poi la Coppa Rimet contro il Brasile di Pelé ma tornò a casa con onore

Messico 1970. Italia-Germania 4-3 tripudio fino all’alba

La partita del secolo». Sono passati qua-rant’anni dall’incre-dibile Italia-Germa-nia 4-3 e ancora la si

nomina tutto d’un fi ato, tirando il respiro solo dopo aver pronun-ciato la «e» fi nale. Era il 17 giugno 1970 e i protagonisti di quella che si presentava come una semplice semifi nale dei Mondiali messica-ni, probabilmente neanche s’im-maginavano quello che sarebbe successo. È l’Italia di Gigi Riva e Sandro Mazzola, potenza e clas-se, contrapposta all’esperienza e alla solidità della Germania Ovest, capitanata dal leggendario Franz Beckenbauer: la sfi da va in sce-na allo Stadio Atzeca di Città del Messico, davanti a più di centomila persone. Boninsegna fa subito il suo dovere, portando in vantaggio gli azzurri, ma al novantesimo mi-nuto esatto Schnellinger riporta il risultato in parità. I supplementari entrano di diritto nella storia del calcio: Gerd Muller realizza l’1-2, Burgnich pareggia, Riva riporta in vantaggio l’Italia, che è raggiunta ancora da Muller. Al terzominuto di supplementari Bonimba ha an-cora la forza di scattare e di met-tere in mezzo all’area tedesca un invitante pallone per Gianni Rive-ra. Il golden boy del calcio italiano non sbaglia e il 4-3 è storia già scrit-ta, mandando in delirio folle di ita-liani da ogni parte del mondo. Il Cittadino del 20 giugno 1970 ri-porta il tripudio degli sportivi se-

regnesi: «…il centro di Seregno è stato teatro caroselli di macchine a clacson spiegati, con sventolio di decine e decine di tricolori». E siamo alle 3 di notte. Nulla im-porta se il giorno dopo, un giove-dì qualunque sarà una giornata di lavoro: «…l’incredibile frastuono, spettacolare per la sua nota di im-provvisazione e tripudio, è durato sino all’alba…». Non da meno sono stati i comu-ni vicini: «I tifosi locali hanno poi prolungato la loro festa formando lunghe colonne e dirigendosi verso i centri vicini di Desio, Giussano, Meda, Carate, Verano ed Albiate, dove hanno alternato canti a gri-da d’esultanza di “Italia, Italia!”».

La fi nale e l’avversario è il temibile Brasile di Pelè il 21 giugno, nuo-vamente all’Atzeca, dove per l’oc-casione si radunano 107mila spet-tatori, ma tra le due formazioni c’è troppa diff erenza. Pelè apre le marcature, Boninsegna pareggia, ma l’Italia crolla sotto le giocate della “Perla nera”. Al termine dell’incontro, chiusosi sul 4-1 per i verdeoro, Burgnich, a cui toccò il compito di marcare il numero dieci brasiliano, dirà «Pri-ma della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiun-que, ma sbagliavo». E tutto l’entusiasmo italiano? Spa-rito con la sconfi tta? La Brianza rende comunque onore ai vice-

campioni del mondo, come rac-conta l’edizione del 27 giugno del Cittadino, che titola: «Vince il Brasile ma si esulta egualmente». Insomma, il clima di festa non è stato intaccato dal sogno svanito: «Al termine della partita, che ha falciato tante speranze italiane, un folto gruppo di persone ha voluto egualmente manifestare col soli-to carosello di macchine al suono spiegato di clacson e con lo sven-tolio di tricolori per le vie del cen-tro». La Nazionale di Valcareggi non avrà vinto il Mondiale, ma si è ritagliata un posto d’onore nel-la storia dei Mondiali. E nel cuo-re degli sportivi della Brianza e di tutta Italia.

pietta anche in semifinale con la Polonia, aprendo le porte alla fina-lissima di Madrid, il cui esito tutti conosciamo. Rileggiamo L’Ordine a celebrare il trionfo, sfondando in una dimen-sione parallela, che oggi, 28 anni dopo, è ancora più difficile com-prendere,. Il pensiero corre veloce al 1945, al ritiro delle forze tedesche: «I più anziani sono riandati con la me-moria e i loro ricordi a tanta festa, sono fermi alle giornate della libe-razione, al dopo guerra. Anche se il clima allora, era diverso. L’Italia ha riscoperto il tricolore, troppo spesso lasciato in un canto…». Non solo, ci si è anche resi conto di quanto sia piacevole passare una serata in compagnia, come testi-monia Renzo, di Paina: «Vedere le partite così è certamente un’altra cosa, molto meglio che stare in ca-sa davanti al televisore». Chiude Enrico, anch’egli abitan-te della frazione di Giussano: «Lo sport va vissuto e questo mi sem-bra un modo bello per viverlo tutti assieme». Cronache che fanno capire quante cose ci siamo perduti con l’uscita dal mondiale sudafricano

continua da pag.15

L’impresa dell’Atzeca contro la Germania generò un’ondata di entusiasmo in tutta Italia

Era già tutto scritto, tanto vale non emozionar-si per esiti che già si conoscono e concentrarsi su altro: una maga brianzola ha lasciato lo

zampino nel successo azzurro. Prima della sfi da fra Italia-Brasile, sull’edizione de L’Ordine uscita domeni-ca 4 luglio, alla vigilia dello storico match, appaiono le dichiarazioni di una presunta maga brianzola, che con decisione spazza via ogni dubbio sulla sfi da tra azzurri e verdeoro: «Vincerà l’Italia, sarà un succes-so duro, soff erto, di misura». Nessuna invenzione, parola delle carte, che a dir suo, non sbagliano mai. A presentare questo strano personaggio è Emilia-no Ronzoni, giornalista di punta del quotidiano e attuale direttore del Parco della Valle del Lambro. «La stanzetta in cui ci riceve non ha niente del clas-sico clichè usato da maghi e cartomanti. La sua voce non è cupa, ma sa di terra brianzola, usa cadenze ed espressioni che sono solite risuonare nei mercati di paese». La cartomante è precisa : «C’è un atleta ma-lato, pensa troppo alle femmine e perde i colpi…ce n’è anche uno che non va, ma in questo caso è solo

perché proprio non sa giocare a pallone». Fra i lettori qualcuno sorride, qualcuno ironizza e assesta agli scettici il primo colpo: Italia-Brasile ter-mina 3-2, vittoria soff erta e di misura, come era stato pronosticato dalle carte. Ronzoni torna così dall’indovina, che sceglie di av-volgere nel mistero la sua identità, non divulgando informazioni su di sé. E il gioco continua: arriva il turno della semifi nale con la sorprendente Polonia e il quotidiano ritorna a far visita alla maga brianzo-la, in caccia di pronostici positivi. L’Italia è già da corsa, tutto facile. Ma della fi nale al Bernabeu con i Tedeschi che dire? «È vittoria certa», la maga non lascia dubbi, l’Italia trionferà nettamente contro la Germania, dato che fra le carte è uscita quella della Fortuna, legata a Successo e Trionfo, secondo la teoria dei cartomanti. Così L’Ordine potrà titolare: «L’Italia ha giocato in dodici: una maga li spingeva al gol!». Nessun dettaglio sull’identità della maga, anche se le vendite di copie del quotidiano brianzolo volarono letteralmente. Come gli Azzurri di Bearzot.

Da Italia-Brasile in poi, l’Ordine consulta un’indovina che legge il titolo nei tarocchi

Costume Maga brianzola predice il trionfo

ITALIA CAMPIONE, LO DICONO LE CARTE

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L a stazione ferroviaria di Monza straborda di persone. È la prima domenica di luglio e la scena che appare è

surreale: nelle prime ore del matti-no è in partenza un treno speciale, in direzione Bologna. I protagonisti dell’esodo sono ca-ratterizzati dai colori biancorossi, onnipresenti su capi d’abbigliamen-to, bandiere e striscioni: il Monza va a giocarsi contro il Pescara lo spareggio per accedere alla serie A. È il 1 luglio 1979, giornata che sarà riconosciuta unanimemente come la più importante nella sto-ria del calcio monzese e in generale di quello brianzolo. L’A.c. Monza, allora guidato dal presidente Giovanni Cappelletti, è al terzo tentativo consecutivo di salita nella massima serie italiana. I due anni precedenti al ’79, ottima-mente giocati, erano stati compro-messi da sconfitte all’ultima decisi-va giornata. Comprensibile allora l’aspettativa dei tifosi, che si riversa-no in oltre 3mila verso l’Emilia. Già il lunedì seguente all’ultima di campionato, che ha sanzionato l’arrivo a pari punti di Monza e Pe-scara, La Notte titola senza mezze misure: «Forza Monza!». L’augurio del quotidiano della se-ra milanese non poteva altro che essere per la squadra biancorossa, ricordando inoltre che «Brianza fa rima con speranza» e proponendo un’intervista a un raggiante Cap-pelletti. Si arriva così al fatidico giorno: quella mattina, alla stazione di Monza, c’è anche Giorgio Fuma-galli, all’epoca diciassettenne con il cuore a tinte biancorosse: «Sem-bravamo tantissimi, era un bellissi-mo spettacolo» ricorda oggi per il Giornale della Memoria. «Ho ancora impressa l’immagine alla partenza del convoglio, quan-do tutti ci sporgemmo dai finestrini per salutare e sventolare sciarpe e bandiere». Giorgio è un monzese doc, del quartiere Cederna, e all’età di quin-dici anni entrò per la prima volta

SCIOLTO AL SOLE IL SOGNO DELLA A Tremilacinquecento brianzoli festosi l’avevano accompagnata fino a Bologna, ma la squadra di Massimo Silva cede di schianto a un volitivo Pescara di Daniele Corbetta

Sport 1979, il Monza perde lo spareggio per la serie maggiore

Rara azione del Monza: la sforbiciata di Massimo Silva sfiora il palo all’inizio del match

allo Stadio Gino Alfonso Sada, dove si disputava Monza-Manto-va, terminata con la vittoria dei brianzoli. Fu un colpo di fulmine, un amore che è continuato anche a distan-za di trent’anni, passando anche per l’adesione alle Brigate Bian-corosse. «L’attesa e i preparativi furono davvero straordinari, senza dub-bio si tratta della trasferta con la più alta partecipazione di sempre. La città era completamente bian-corossa, c’erano striscioni e ban-diere, ovunque perché il match era molto sentito da tutti i cittadini e anche dagli abitanti dei comuni li-mitrofi, come Villasanta, Lissone e Vedano».

La truppa brianzola giunge così al-la stazione di Bologna, dove viene organizzato il corteo, scortato dalle forze dell’ordine, diretto allo stadio Dall’Ara. «Si unirono a noi le persone giunte in Emilia con pullman e auto. Allo stadio toccammo circa tremila cin-quecento presenze». Ma la presenza pescarese non fu da meno, anzi fu una vera e propria invasione: come ricorda il Cittadino di giovedì 5 luglio che racconta di «emigrazione di massa abruzzese, si parla di tre treni e ben duecento pullman, senza far conto degli in-numerevoli mezzi privati». I bian-coazzurri sono 30mila. «Una volta entrati abbiamo notato che la curva a noi riservata, la San

Luca, era già stata occupata dagli abruzzesi. Abbiamo dovuto farci largo tra i nostri avversari, ma in ogni caso rimanemmo intimori-ti da così tanta affluenza e calore. Al fischio d’inizio si sentivano so-lo loro». In particolare Giorgio sottolinea il maggiore entusiasmo dei pescaresi che, durante i 90 minuti, risultano il vero e proprio dodicesimo uomo in campo. Sarà per il tifo preponde-rante, sarà per il grand caldo o per la paura del traguardo ma il team brianzolo s’impalla, cincischia, fa registrare una partita scialba. «Un Monza complessato battuto nello spareggio», scrive il Cittadi-no che aggiunge: «La squadra di Magni ha giocato contratta per l’emozione che ha attanagliato i suoi pur validi giovani». Stessi toni sul Giorno, che apre con «Pescara in A; brianzoli nervosi e spenti (mai un vero tiro in porta)». Massimo Silva, bomber che ha ac-compagnato con i suoi gol il Mon-za allo spareggio, non è bastato. La maggiore esperienza abruzze-se ha fatto il resto: il Pescara, do-po un’ora, si trova sul 2-0 e liqui-da la pratica brianzola, spostando la concentrazione sulla festa per la promozione e relegando al ruolo di intrusi i tremila monzesi. «Delusione? Beh, certo, fu davvero molta», racconta ancora oggi con amarezza Giorgio, « perché avreb-be potuto essere un bel trampolino di lancio per Monza e per la Brian-za, ma così non è stato. Purtroppo», conclude, «ora allo stadio Brianteo per le partite di cartello ci sono al sì e no 1.500 spettatori». È questo l’altro grande rimpianto di Giorgio ha un rimpianto: che il Monza non riesca a raccogliere il seguito che aveva all’epoca. «Sono anni che non si vede una bandiera su un terrazzo. E pensare che ci si trovava fra amici per fabbricarle, per poi girare in motorino svento-landole». Quel che è stato, è stato. Il 1˚luglio ’79 rimane nella memoria dei mon-zesi come un grande giorno, il più lungo nella storia biancorossa

Storia centenaria

L’Associazione Calcio Monza e Brianza nasce il 1˚ settembre 1912, con il nome di Monza Fbc. L’anno dopo, diventata A.c. Monza, esordisce in terza categoria. Inizia una lenta ascesa che culmina, nel 1951, nella conquisa della B sotto la guida di Annibale Frossi. Nel 1955 Gino Alfonso Sada, titolare della Simmenthal, diventa il presidente della società e inaugura una stagione di successi, fi no ai primi anni ’60, tanto che nel ’65 gli viene intitolato lo stadio nel 1965. Nel ’72 Giovanni Cappelletti assume la presidenza: dopo un pessimo campionato in B, arriva la vittoria della Coppa Italia di serie C e il Torneo Anglo-Italiano, nel ‘76. Nella sua storia qua-si centenaria, il Monza non è mai riuscito a raggiungere la A, perciò il triennio 1976-79 è considerato come il periodo d’oro. Nel 1982 scende in C1 e poi rimane a pendolo per alcuni anni con la serie cadetta. Da allora un nuovo stadio e un fallimento.

I FASTI DI MR SIMMENTHAL

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«Con i miei andavo sempre al mare ma poi mio padre morì nel 1953 e da allora si resta-va a casa. Che cosa si poteva fare a Monza in quegli anni? L’oratorio e la montagna». Così Nando Nuseo in una bella intervista-video che si può trovare nell’archivio di-gitale ModiSCA, una vera e propria biblioteca online per tutti coloro che amano la montagna, con risorse sot-to licenza creative commons e quindi aperte per un uso non-commerciale.Autori dell’intervista, in cui lo scalatore monzese riper-corre le tappe fondamentali della sua carriera alpinistica, è stata realizzata da Sabrina Bonaiti e Alberto Benini. Cliccare su http://bibliote-ca.modisca.it/items/fil-mati/interviste/12

Alpinismoin digitale

DoveapprofondireD

Sulle vette del mondo

«Il nostro era un alpinismo operaio», ama ripetere Nando Nu-sdeo, monzese classe 1938. E l’operaio Nando l’ha fatto davvero e a lungo alla Cgs di Monza, dopo un diploma professionale. A quindici anni comincia ad arrampicare con i Pell e Oss monze-si su Resogone e Grigne e, nel 1961, diventa accademico del Cai. Molte le imprese legate al suo nome: la Via Bonatti sul Grand Capucin, lo Sperone Walker sulla parete nord delle Grandes Jorasses , le pareti nord delle cime di Lavaredo (Via Comici e la Via Cassin), la parete ovest del Dru. Negli anni 60, si impegna in spedizioni all’Estero rimaste me-morabili, come quella alle Torri del Paine (Patagonia) nel ’62, dove conquista la Torre Sud, dedicandola a Don Alberto M. De Agostini, il famoso prete-esploratore. Lo stesso anno, con il lecchese Giuseppe Det Alippi, sulla tre-menda parete Nord dell’Eiger, salva due inglesi in diffi coltà e per questo è premiato con l’Ordine del Cardo.Tre anni dopo, nel ’65, conquista la Cordillera Blanca (Aguya Nevada), mentre nel ’68 lo troviamo in Afghanistan sul Lunko occidentale e, nel ’69, in vetta all’Alpa Mayo (Cordillera Blanca. A 62 anni, nel 2000, raggiunge la cima dell’Amadablan, a quota 6854 metri.

DAL RESEGONE ALLE ANDE

Alla vigilia del servizio militare, Nando Nusdeo decide di arrampicare sulla Grande di Lavaredo seguendo una via che, anni prima, era stata fatale concittadino Scalvini

L a cartolina l’aveva co-me caricato a molla. La chiamata militare per Nando Nusdeo, g iovane monzese

con la passione per la scalata, era stata come uno shock. Preveden-do un lungo periodo di inattività in grigioverde, s’era messo ad arrim-picare come un forsennato. Il Cittadino del 9 luglio 1960 ripor-tava infatti la sua ultima impresa prima di partire militare, titolando: «Il monzese Nusdeo scala la Cima Grande di Lavaredo e poi passa al-la naja». Il giornale rivelava infatti che, «la domenica precedente con Giorgio Bonfanti aveva compiuto l’escur-sione sulla parete nord-est della Brenta alta: una gitarella a tempo di record, che poteva bastare a iscri-vere il suo nome fra i protagonisti della stagione». L’appetito, anche per gli scalatori, viene mangiando, così il 16 giu-gno Nusdeo «si piazza alla base del Gran Pilastro della Tofanadi Roces in compagnia di Taldo Va-sco: guarda un poco in su e decide di ripetere la via Costantini-Apol-lonio». Passa la notte all’aperto, in un «sacco piuma», come si diceva 62 anni fa, essendo ancora chiusi i rifugi in zona. Di buon mattino, l’attacco alla pa-rete.

Nel punto che tradì Roberto Scalvini«Le difficoltà iniziali sono un aperi-tivo: un quinto grado che prelude al sesto superiore dell’intera via». Traversata tosta, si giunge presto a una fessura «sbarrata da piccoli tet-ti». L’arrampicata libera spesso non basta è c’è da piantar chiodi nella roccia. Si procede per ore in que-sto modo, sino «a un buco vertica-le che viene superato per giunge-re sotto i tetti» che caratterizzano la parte centrale di questa parete. «L’arrampicatore», garantisce il Cit-tadino, «non conosce lo sgomento: ma un brivido l’attraversa dopo il primo tetto: qui l’amico monzese Renato Scalvini, sei anni fa, non riuscì ad andare oltre». Scalvini, ri-porta la stessa cronaca, «fu tradito da quella roccia friabile e marcia», la stessa che «rallenta l’andatura si-no al massimo della prudenza». La scalata deve però continuare, perché la conformazione della roc-cia, in quei passaggi, non consen-te di sostare: «Ancora dei tetti, poi un’enorme pancia che costringe a denti stretti, poi alcune fessure e ca-mini, poi una placca gialla che apre sulla cima dello spigolo». Ore 20, dopo un’arrampicata este-nuante, «il Nando» raggiunge la ci-ma del Pilastro. Ma non è quieto, quella cartoli-

Montagna/1 1960, l’impresa dello scalatore monzese

La via seguita da Nosdeo sul Lavaredo. Sotto, Nando, secondo da destra, con alcuni amici. (Foto Teresina Airoldi, ModiSCA)

na azzurra è come un chiodo nel cervello che può togliere solo pro-vando ancora cuore e muscoli sulle pareti dolomitiche e il monzese si trova un altro compagno di arram-picata: il lecchese Casimiro Ferra-rio, uno dei mitici Ragni. Con lui vuole attaccare la direttissima sul-la parete Nord della Cima di La-varedo. Una via internazionalmente ambi-ta. Furono dei tedeschi, per primi, ad aprirla, guidati da Dietrich Ha-asse, seguiti, due giorni dopo, da una cordata italiana con Maestri e Holzer. Imprese che furono segui-te di poco dalle scalate di france-si, svizzeri e austriaci, tutte un po’ in gara le une con le altre. «Ma il giovane lavoratore monzese non è ancora stella di prima grandezza da presenziare a queste “prime”: in fondo una ripetizione di tal gene-re significa solo mancanza di mez-zi finanziari; non minore solidità dell’audacia», chiosa il Cittadino.

Diedri strapiombanti chesporgono fino a 20 metriIl 27 giugno, prime o non prime, Nando Nosdeo arriva a Misurina e «si “beve” in tre ore lo spigolo giallo per la via Comici sulla Ci-ma piccola di Lavaredo che attacca l’indomani ancora al buio - sono le 4,30 - alternandosi col compagno di cordata. Un attacco duro quello, come spie-gano gli esperti è il pezzo forse più difficile. Quando arriva notte, i due scalatori fanno il bivacco sotto i diedri strapiombanti «che misura-no circa 120 metri». L’alba dell’indomani si porta con sé una sorpresa poco gradita: la neve, che frusta i due irrefrenabili alpini-sti, chiamati a superare strapiombi «che si sporgono sino a 20 metri». A sera, anche quell’ennesima prova è superata e i due possono fare un bi-vacco ristoratore in un terrazzino fra le pareti. Ma è freddo, ancora tanto, troppo freddo lassù. Il 30 giugno, per for-tuna, la neve cessa ma “i camini, i tetti sono innevati e le mani con-gelano” e la salita si fa drammati-camente pesante. Un sforzo, ancora, col cuore, oltre che con i muscoli e con la tensione nervosa e la Cima è conquistata. Con una sopresa: sulla vetta trova-no una cordata di scalatori tedeschi che li aveva preceduti di pochissi-mo da un’altra via.Il monzese e il lecchese arrivano stravolti ma, come accade sempre in imprese impervie e avversate dalle condizioni atmosferiche, col cuore gonfio di orgoglio. Lassù le Dolomiti, l’Italia e tutto il mondo che riescono ad abbrac-ciare con lo sguardo è ora molto più bello

LA CIMA PRIMADELLA NAJA

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19Giugno/Luglio 2010E LA GRIGNETTA

FECE PIANGEREGIUSSANOQuattro amici poco più che ventenni, in una bella domenica di giugno, scalano la storica parete prealpina. Ma di colpo la cordata precipita: muoiono in tre, si salva il capocordata

E rano partiti di buon mattino, poco prima delle 7, da Giussano. Si annunciava una domenica calda an-

che se il cielo, quel 23 giugno del 1957, era coperto. Tre giovani ami-ci, tre appassionati della montagna: Giuliano Turati, ventenne, Giu-liano Dell’Orto, 19 anni, e Achille Vergani, classe ’34. Obiettivo, la mitica Cresta Seganti-ni, sulla Grignetta. Vanno con l’au-to del Vergani, anzi l’auto del papà di lui, scomparso l’anno prima. Da quel momento Achille aveva dovu-to pensare, insieme alla mamma e alla sorella, all’aziende di compen-sati, bene avviata dal padre. E c’era riuscito molto bene, malgrado la giovane età. Il terzetto diretto a Lecco fa una sosta a Inverigo, dove sale Luisa Ciceri, un’amica di Vergani di In-verigo, 19 anni e già un lavoro da impiegata in un’azienda della zona. Forse fra Achille e Luisa c’è più di una simpatia, forse sta nascendo un amore. Forse. Arrivati a Piani Resi-nelli, il gruppo di amici assiste alla messa domenicale. Altri scalatori e i semplici escursionisti della do-menica li vedono nella chiesetta, seduti vicini, con gli zaini ai piedi, sereni e belli come lo si può essere a vent’anni.Il tempo di rispondere alla benedi-zione del sacerdote, col kyrie eleison, che la Grignetta li vede incolonnar-si nel verde verso le rocce imperio-se. Non sono ancora le 9,30 che i quattro sono a imbracarsi ai piedi della parete.Giuliano Turati è un esperto, è iscritto al Cai del suo paese. Da sca-latore provetto, ha affrontato pare-ti impervie come le rocce della Val Masino. In vetta alla Grignetta c’è già stato varie volte, è lui che guida la cordata.Intorno alle 13 e 30, i quattro rag-giungono la Lingua, circa 250 metri dalla cima che è avvolta dalle nubi. L’ascesa è stata faticosa, certo, ma senza particolari problemi: e l’alle-gria mitiga lo sforzo dell’arrampi-cata. Malgrado sia un giugno caldo, tanto che a Milano la gente fa i ba-gni nel Villoresi, l’altitudine rende l’aria piuttosto fresca.Giuliano Turati punta la vetta, pro-cede di appiglio in appiglio, misu-ra gli appoggi, cerca con lo scarpo-ne gli anfratti giusti nella parete di roccia. Sotto gli amici lo seguono, osservando i suoi spostamenti che segnano gli accosti sicuri.Il gruppo già pregusta la cima e l’indicibile soddisfazione di chi ha ragione della montagna e, dal-

Montagna/2 1957, sciagura sulla Segantini

le cresta, può guardare a perdita d’occhio, quel pezzo di Lombar-dia. Forse le nuvole si diraderanno, forse si vedrà giù da basso, anche la Brianza dischiudersi, forse si ri-conosceranno i paesi, si indovine-ranno le case. Forse.E invece no, perché Turati, men-tre sta facendo un balzo ulteriore verso la Segantini, sente le corde tirarlo giù con una frustata terri-bile.Sente il suo corpo sfiorare le pareti, picchiare sugli spuntoni, si sente perso in un volo senza fine. Oh Madonna, aiutaci. Poi il buio, il silenzio, il sonno.Riapre gli occhi nel letto 23 dell’Ospedale di Lecco. Scrive il Corriere Lombardo, un giornale del-la sera uscito il lunedì, che «giace in un grande camerone, in fondo a un lungo corridoio al primo piano: egli è stato giudicato guaribile in 25 giorni per trauma cranico, ferite lacero contuse, abrasioni multiple, ematoma alla regione lombare si-nistra e grave choc traumatico».Non sa, Turati, che i suoi amici so-no stati meno fortunati. La Grignetta se li è presi tutti e tre. Uno di coloro è scivolato, tirando giù tutti e quattro.I Ragni e il Cai di Lecco, guidati dal grande Riccardo Cassin, ne han-no recuperato i corpi a fatica. Cinque ore, ci sono volute per ti-rar su le salme da un burrone di 300 metri dove erano precipitate. Achille Vergani è vivo quando i soccorritori lo individuano. Inco-sciente ma respirava ancora. Gli uomini delle squadre di soccorso, mentre issano la barella, pregano che ce la faccia, che la sua vita sia risparmiata. Ma perde troppo san-

gue e mentre sono alle viste del ri-fugio Porta, Achille esala l’ultimo respiro.I tre amici si ritrovano nell’obitorio dell’ospedale dove cominciano ad arrivare, increduli, i familiari.Il Corriere lombardo racconta che la notizia arriva a Giussano, nel tar-do pomeriggio della domenica: un lampo di dolore che spezza le risa-te dell’oratorio e le chiacchiere nei bar. Tra i primi ad arrivare sono il fratello di Turati, Angelo di 27 anni. L’indomani mattina presto, anche suo cognato Erminio Barzaghi e Gianluigi Zorloni. Tre famiglie distrutte piangono tre vite troppo brevi. Progetti, sogni, attese e desideri precipitati nella morte, come loro tre lungo la pa-rete maledetta.A Giussano e a Inverigo,dopo lo sbi-gottimento e lo choc, è il momento della preghiera, per chi ha fede, o

della riflessione per chi non ne ha. L’anonimo cronista mette insieme qualche notizia sulle vittime.Giuliano Dell’Orto studiava al Po-litecnico, dove sognava di diventare architetto. La domenica si trasfor-mava in cronista sportivo, come corrispondente di alcuni giornali. Alle spalle una famiglia benestante, il padre lavora in banca, a Cantù ed è molto noto per esser consigliere provinciale del Coni; la madre cu-ra la casa e si occupa di Giuliano e del fratello.Nessuna notizia di Luisa Ciceri, l’impiegata di Inverigo, ma è faci-le immaginare lo strazio del paese, degli amici della scuola o dell’ora-torio, di quanti l’avevano incontrata la sera prima, lungo il corso, scam-biondo un saluto o un sorriso e che il mattino dopo, andando al lavoro, dicono a mezza voce che «la Luisa non c’è più»

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Arrampicata sulla Segantini, in una foto d’epoca.Sotto, Giuliano Dell’Orto e Achille Vergani,vittime dell’incidente

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55La Brianza povera del dopoguerra sfugge i primi caldi domenicali sulle rive del grande corso di irrigazione che dal Ticino raggiunge l’Adda. E talvolta il bagno è fatale

I l mare di molti brianzoli per decenni è stato il Vil-loresi. Nella Bassa Brian-za, ai primi caldi estivi, i ragazzi correvano a cer-

care refrigerio nelle sue acque e a prendere il sole sulle sue sponde piuttosto irte.Al Museo della fotografia contem-poranea di Cinisello, si possono ammirare gli scatti in bianco e nero di Francesco Patellani, che ripro-duciamo in queste pagine. Ritrag-gono il Canale alla fine degli anni ’40, trasformato in uno stabilimen-to balneare a cielo aperto.Ragazzini a decine e tanti giova-notti, con costumi che arrivavano all’ombellico, ronzare, come mo-sconi, intorno ai gruppetti di belle ragazze, inguainate in mise perlo-più intere, anche se si scorge qual-che temerario due pezzi, ancorché castissimo nella foggia.È la Brianza popolare e ancora po-vera, che non conosce, per la mag-gior parte, la vacanza piccolo bor-ghese nelle pensioncine liguri o di Romagna o, qualche anno più tardi, negli appartamenti della Riviera di Ponente o nelle prime seconde case di Villa Simius.Una Brianza che, la domenica, programma la gita al Canale, si-stemandosi nei campi di grantur-co confinanti, all’ombra di qual-che alberello, per poi salire sulle alte sponde e andare a immergersi nelle acque freschissime che arriva-no dal Ticino. Acque allora pulite e non ancora avvelenate dall’Olo-na o del Garbogera, destinati a di-ventare ricettacolo di scarichi civili e industriali.Acque insidiosissime, per la for-te corrente e per le sponde talvol-ta cementificate, dove era difficile trovare appigli. E poteva succedere che, di tanto in tanto, qualcuno nel grande Canale lasciasse la vita.Se ne trovano notizie anche nelle cronache del 1944, mentre la guerra si avvicinava. Il Cittadino del 5 agosto racconta la fine Fortunato Ravasio, 19 an-ni, abitante nella frazione San Da-miano a Monza. Nel pomeriggio di martedì 3, «si era recato a prende-re un bagno nel Canale in località S.Albino». Sceso in acqua, «un gra-ve malore lo assaliva qualche tem-po dopo e, benche egli fosse un capace nuotatore, venne travolto dalla corrente». Il giornale raccon-ta che «alle sue invocazioni di aiuto accorsero alcune persone le quali non riuscivano ad evitare che il po-veretto venisse attirato in un muli-nello nel sifone». Venne pescato poi dalla parte oppo-sto, «quando, però, non gi rimane-vano che pochissimi istanti di vita». Vano, il tentativo di strapparlo alla

Costume 1940-50, il Canale è una spiaggia dove talvolta si muore

Dopoguerra, l’Italia cerca la spensieratezza a lungo negata.

La domenica ci si tuffa

nel Villoresi

morte con la respirazione bocca a bocca: «Dopo le constatazioni di legge fatte dal maresciallo Di Feo», concluse l’anonimo articolista, «il cadavere venne trasportato all’abi-tazione». Sfogliando un’altra edizione del giornale monzese, quella del 23 lu-glio 1955, ci si imbatte in un’altra storia di giovane bagnante che cer-cando di sfuggire la canicola, si tro-vò ad andare incontro alla morte. Per una singolare coincidenza era proprio di S.Albino, dove undici an-

IL MARE AL VILLORESI

ni prima Ravasio aveva perso la vi-ta. Si chiamava Mario Brambilla, classe 1939 e chissà quante volte i suoi genitori gli avranno ricordato la morte di quel giovanotto di San Damiano. Anzi, forse quel giorno del 1944, sa-rà accorso pure lui, sulle rive del Ca-nale, attirato dalle urla dei soccorri-tori e dal trambusto conseguente.E invece le cronache raccontano che sabato 22, «due uomini della casci-na Offelera di Agrate, alle ore 20, videro affiorare dalle acque del Vil-

loresi un corpo inanimato» quello di Mario Brambilla. Il giovane «era tornato mezz’ora prima dal lavoro, subito recatosi al canale per un bagno». Secondo le ricostruzioni, era sta-to «colto da capogiro o malore, improvvisamente cadeva in acqua dall’argine senza essere in condizio-ni di far fronte al pericolo. La cor-rente lo travolgeva e il giovane mi-seramente annegava». Il Canale, per l’ennesima volta, non aveva perdonato

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DGiugno/Luglio 2010

Realizzato in 13 anni, dal 1877 al 1890, il Villoresi è un cana-le di irrigazione che collega il Ticino, all’altezza della di-ga del Pan Perduto, all’Ad-da, lungo un percorso di 86 chilometri che taglia una va-sta area della Lombardia, a nord di Milano. Tributario di vari corsi d’ac-qua e torrenti.Porta il nome del suo pro-gettista, l’ingegner Eugenio Villoresi, monzese e figlio di Luigi, direttore dei giardi-ni della Villa Reale.Nato appunto come opera di sostegno all’agricoltura, per lunghi anni servì ai trasporti, visto che per lunghi tratti era navigabile. Riceve, in tutto o in parte, le acque di molti corsi d’acqua: Arnetta, Olona, Bozzente, Lu-ra, Guida, Nirone, Cisnara, Lombra, Garbogera, Seveso, Lambro, Molgora, Trobbia, Vallone ed il naviglio della Martesana.

Progetto brianzolo

Di chisi parla

Grandi musei

Il Museo di fotografi a con-

temporanea di Cinisello Bal-samo costituisce un formi-dabile giacimento di cultura fotografi ca. Nella sede di Villa Ghirlan-da (via Frova, 10) sono con-servati importantissimi fondi fotografi ci ma anche 20mila volumi sul tema. Centro di vari iniziative culturali, il Mu-seo propone mostre di gran-di maestri. Info: www.museofotogra-fi acontemporanea.org

MEMORIA FOTOGRAFICA

LA CORRENTE ASSASSINAIl gioco di pomeriggio d’agosto, per tre ragazzini di Seregno, si trasforma in tragedia. Il Villoresi di colpo ne porta via uno, Francesco. Lo ritroveranno solo al tramonto

U n bagno nel Villore-si», la proposta, in quel caldo pome-riggio d’agosto del 1970, aveva convin-

to tre ragazzini di Seregno, Fran-cesco, Paolo e Mauro. Tre ragazzi pieni di vita. Hanno, rispettivamente, 17, 16 e 14 anni. Solo un mese prima, erano stati a ballare e a cantare per le vie della città, esaltati alle prestazioni della Nazionale ai mondiali del Messi-co. Non si sa, quel venerdì, avesse lanciato l’idea, fatto sta che tutti e tre avevano inforcato le biciclette e si erano avviati verso Paderno Dugnano, vicino al casello nume-ro 4 delle Ferrovie Nord. Lì, grazie a un pontile che attra-versa il Canale, bagnarsi e più semplice e più sicuro e la cosa è fondamentale, perché nessuno, nel terzetto, sapeva nuotare. Il gruppo di amici aveva escogita-to un sistema per mettersi a mollo nella corrente fresca che arrivava dal Varesotto: uno seduto sul pon-tile, l’altro immerso ma tenendosi

Cronaca 1970, annegamento a Paderno Dugnano

Nella foto di Angelo Cremonesi, ne Il Canale Villoresi (Selecta), la prima chiusa

alle gambe penzolanti del primo e l’altro ancora, a ridere e scherzare con loro sull’attraversamento di legno. «La facile combinazione-si ripeteva ormai da diversi gior-ni con notevole divertimento da parte dei ragazzi», scrisse il Citta-dino del 22 agosto, l’edizione che riprendeva dopo la pausa estiva. Quell’innocente divertimento si

era infatti trasformato in tragedia: intorno alle 17, toccava a France-sco bagnarsi mentre Mauro stava sopra, a far da presa. All’improvviso, forse per un ma-lore, forse, come scrive il giorna-le, «per un improvviso colpo del-la corrente», Francesco lasciava la presa e spariva sott’acqua, fra la disperazione dei due amici.

Le loro urla e il loro pianto richia-mavano gli abitanti delle case vici-ne e quindi i carabinieri che accor-revano con i Vigili del Fuoco.Sono loro ad avvisare la famiglia di Francesco, in via Arienti. Per ore, i sommozzatori lo cercano ma molti altri ispezionano il ca-nale, per un lungo tratto più a val-le del punto dove il ragazzo era sparito. C’era la speranza che il ragazzo fosse riuscito a nuotare nella cor-rente, riemergendo più avanti e magaari, stremato, fosse aggrap-pato a qualche cespuglio, incapace di muoversi e di chiedere aiuto.Ma a sera, intorno alle 21, quando anche l’intensa luce di agosto si era ormai affievolita, le acque del Villoresi restituivano Francesco, ma senza vita.I somozzatori ne ripescavano il corpo «sotto gli occhi esterrefatti del padre». Quel ragazzino per il quale aveva sperato probabilmente una vita la-boriosa e serena, che aveva tenuto in braccio tante e tante volte, era lì, sdraiato sull’erba, ormai livido per il freddo. Il sole al tramonto illuminava lo strazio di un padre, il dolore impo-tente dei soccorritori e il Villoresi che continuava a scorrere, impe-tuoso, verso l’Adda

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DE

SIO

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Nell’aprile del 1970 l’Autobianchi di Desio conta 3.952 dipendenti. Quell’anno, in tut-

ta Italia, a maggio, entra in vigo-re la legge 300, meglio nota come Statuto dei lavoratori: una norma che sancisce molti diritti a favore dei dipendenti, anche se solo nelle aziende sopra i 15 dipendenti di or-ganico. Un legge che si applicava all’Autobianchi di Desio dove nel gennaio del 1971, gli addetti erano saliti ancora, fino a quota 4.321, ri-chiamando nella fabbrica piccoli negozianti, artigiani e impiegati locali, oltre ad un forte flusso di veneti, bergamaschi e meridiona-li, attirati da paghe relativamente alte. L’impatto fu formidabile an-che dal punto di vista urbanistico: l’area verso la ferrovia venne occu-pata dallo stabilimento e il profilo urbano ne fu notevolmente con-dizionato. Renzo Di Bernardo è entrato all’Autobianchi nel 1968, lavoran-do in attrezzeria, alle prese con tor-ni, frese e stampi, rimanendoci fino alla chiusura, nel ’92. «Con lo Sta-tuto dei lavoratori», ricorda Renzo, «lo Stato ha portato a compimen-to il percorso di una legge figlia di quello che successe nelle ditte di tutta la penisola, con il movimen-to operaio che richiedeva una serie di norme che regolamentassero la vita in fabbrica». Fino al 1970 esisteva solo il contrat-to nazionale del lavoro, che però non era sufficiente a soddisfare le

Anniversari Quarant’anni dalle legge 300/1970

LO STATUTO IN AUTOBIANCHIDopo l’Autunno caldo del 1969, nel maggio dell’anno dopo, arriva la legge che tutela i dipendenti delle aziende oltre i 15 addetti. Nella grande fabbrica desiana andò così di Daniele Corbetta

esigenze del mondo lavorativo: le iniziative di lotta partirono a caval-lo tra il ’67 e il ’68, da tutte le fabbri-che del nostro Paese, Brianza com-presa, sfociando negli articoli dello Statuto. In particolare, il 1970 fu un anno caldo per il colosso desiano: si dovette far fronte al recente as-sorbimento da parte della Fiat, con la disparità di trattamento rispetto ai lavoratori di Torino, che usufru-ivano di vantaggi economici se raf-frontati con i salari brianzoli.

Arrivare ad ottenere lo Statuto non fu un’impresa delle più semplici. La «lotta» si basò anche sullo sciope-ro del cottimo, al quale seguì una particolare forma d’intimidazione: «Per farci riprendere il cottimo ci diedero delle multe, che poi furono recapitate direttamente a casa, ge-nerando stupore e preoccupazione nelle nostre mogli, alle quali pri-ma magari potevamo nascondere l’esborso non calcolato», afferma Di Bernardo.

Non solo: Renzo racconta che al momento dell’uscita dalla fabbrica per prendere parte ad uno sciope-ro le guardie erano solite metter-si presso i tornelli, intimidendo gli operai. «Scioperare era un nostro diritto, che pagavamo rinunciando a parte dello stipendio, con la con-sapevolezza che queste persone avrebbero segnalato gli scioperan-ti alla dirigenza, in particolare i pri-mi, quelli che trascinavano fuori gli altri». Renzo ne ha una per tutti, in

Nelle foto di Pietro Vismara, alcuni momenti di lotta sindacale all’Autobianchi di Desio

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Così nasce la legge

Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, conosciuto come legge nu-mero 300 del 20 maggio 1970, recante «norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’atti-vità sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento», è uno dei capisaldi del diritto del lavoro italiano, entrato in vigore il 12 giugno di quarant’anni fa. Un’acquisizione, quella dello Statuto, cui i sindacati guardavano da tempo. Nel 1952, Giuseppe Di Vittorio, leader della Cgil, invocà a più riprese una riforma dell’intera materia, fi no ad ar-rivare a Giacomo Brodolini, ministro socialista del Lavoro e della previdenza sociale che, nel 1969, richiese l’istituzione di una commissione nazionale per la redazione di una bozza di Statuto. Sarebbe stato lui stesso a chiamarlo Statuto dei diritti dei lavoratori, anche se non riuscì a vedere la legge perché morì nel luglio dello stesso anno. Lo Statuto si divide in sei titoli: uno dedicato al rispetto della dignità del lavoratore; due dedicati alla libertà ed alle attività sindacali; uno al collocamento, uno alle disposizioni transitorie e uno alle disposizioni fi nali e penali. In particolare l’articolo 1 sancisce la libertà d’opinione del lavo-ratore; quindi nel primo titolo sono apposti dei divieti per i da-tori di lavoro in merito al controllo dell’operato dei dipendenti e sono sanciti migliori controlli sulle condizioni di salute.

FRA DI VITTORIO E BRODOLINI, LA LEGGE DEI LAVORATORI

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S

L’Autobianchi nasce nel 1955, ma affonda le sue radici nella Bianchi, fondata nel 1855 daEdoardo Bianchi. In primis furono bicicli, poi velocipedi, tricicli a motore e quadricicli, fino ad arrivare al 1899, an-no di costruzione della prima vettura Bianchi. La fabbrica cambia assetto in seguito al-la seconda guerra mondiale, trasformando nel 1939 il re-parto costruzione e dedican-dosi esclusivamente alla pro-duzione di veicoli militari. Al termine del conflitto la Bianchi incontrò diverse difficoltà economiche per riconvertirsi alla produzio-ne di automobili: occorreva l’aiuto di un’impresa di gros-se dimensioni. Nacquero co-sì dei contatti con Fiat e Pi-relli, da cui scaturì l’accordo che generò l’Autobianchi, con sede a Desio: siamo nel 1955. Due anni dopo esce la Bianchina, coupè a due posti e prima utilitaria postbellica. Quindi ci furono le versioni special cabriolet, panorami-ca, quattro posti, a testimo-nianza del grande successo della vettura. Prima dell’assorbimento da parte della Fiat del 1968 ven-nero prodotte la Primula, la Giardiniera e la A111. I gioielli più brillanti usciti in seguito dalla fabbrica di De-sio furono la Panda, a partire dal 1980 e la Y10, dall’85. Nel ’92 si arriva però al ca-polinea: lo stabilimento di Desio viene definitivamente chiuso e la produzione della Y10 passa all’Alfa Romeo di Varese. Nel 2002 l’area dove sorge-va la ditta è stata smantella-ta, concludendo nel luglio del 2003 con l’abbattimento della «torre piezometrica», ultimo simbolo dell’ex-capi-tale dell’auto lombarda. D.C.

Bianchina e A112

LaStoria

Giugno/Luglio 2010

particolare per gli impiegati: «L’Au-tobianchi era sempre nell’occhio del ciclone, non si è mai avuto un mese senza scioperi. Ma i colletti bianchi rimanevano arroccati nel-la palazzina centrale. Agli scioperi alcuni si nascondevano». In questo ambiente si arriva al fati-dico 20 maggio 1970, che il Il Metal-lurgico, mensile della Federazione italiana operai metallurgici-Fiom di Milano, del giugno ’70 celebra così: «L’esistenza di questa legge, non darà soluzione automatica ad ogni abuso, ogni illegalità, ogni at-to di discriminazione, di limitazio-ne delle libertà dei lavoratori da parte del padronato. Ancora una volta, la conquista di una legge a favore dei lavoratori non presup-porrà la sua automatica applicazio-ne. Ancora una volta, il suo inte-grale rispetto è affidato all’azione vigilante, all’intervento diretto dei lavoratori». Parole profetiche visto che ottene-re l’applicazione della legge non fu semplicissimo. Anche all’Autobianchi: «La Fiat, azienda organizzata, cercava di ridurre al minimo l’impatto della nuova normativa, vista come una legge che dava molte possibilità ai dipendenti». Tuttavia Renzo ricorda anche svol-te in positivo: «Lo Statuto ha forni-to un ottimo strumento ai lavora-tori: se usato bene la sua forza era notevole. Prima della sua introdu-zione, nelle catene di montaggio c’erano passerelle con i cammina-menti, dove i sorveglianti control-

lavano l’attività degli operai. Ma erano inutili: ognuno in catena sa-peva quanti pezzi doveva produrre alle fine della giornata, rendendo inutile un controllo esterno. Dopo lo Statuto questo fu vietato: ebbe grande importanza, permettendo di lavorare con maggiore tranquil-lità, senza intaccare la produzione». Naturalmente anche l’attività sin-dacale ne trasse benefici: il nostro cicerone, membro del consiglio di fabbrica, ricorda che «ci si riuniva fuori dai cancelli, nel prato davanti allo stabilimento.

Grazie allo Statuto ci furono dati il diritto di assemblea e quello di af-fissione. Inoltre fu regolarizzato il controllo delle visite mediche e dei provvedimenti disciplinari». La conseguenza diretta, in casa Au-tobianchi, fu l’accordo quadro del 5 agosto 1971, dove fu regolarizzata e regolamentata la dipendenza fra la fabbrica desiana e la Fiat. Renzo ricorda con piacere quei giorni: «Si era raggiunto un obiet-tivo, grazie alla presenza di uno spirito particolare. Avevamo mes-so insieme un gruppo che dava ri-

sposte a tutto. Abbiamo sviluppato competenze oratorie e comunica-tive, tant’è che alcuni di noi poi si sono inseriti all’interno della poli-tica locale e regionale». Una sola ombra nei ricordi di chi ha speso ventiquattro anni nella storica fabbrica brianzola: «quan-do passo dall’area dello stabilimen-to ho sempre un rammarico; non c’è più nulla che ricorda la presenza della fabbrica».Dei capannoni che videro produr-re la Bianchina non c’è più nemme-no l’ombra

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