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1 Il controllo della motivazione del giudizio di fatto in cassazione. Sentenza penale. (Incontro di studio sul tema: “Il ricorso per cassazione nel sistema dei mezzi di impugnazione” Frascati – 23 febbraio 2001) * * * * * Sommario: 1. - Obbligo della motivazione e controllo di legittimità. 2. - Il sindacato logico della motivazione nell’art. 606, 1° comma, lett. e) del codice di procedura penale. 3. - I limiti del controllo della logicità della motivazione nella giurisprudenza della Cassazione. 4. - Le regole logiche del ragionamento probatorio. 5. - La mancanza della motivazione. - 6. - Il travisamento del fatto. 7. - Esame di alcune recenti iniziative legislative. 8. - Considerazioni conclusive. 1. - Obbligo della motivazione e controllo di legittimità. E' unanimamente riconosciuta la fondamentale importanza dell’art. 111 della Carta costituzionale nel sistema delle impugnazioni civili e penali, con riguardo particolare al ricorso per cassazione. Infatti, stabilendo che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati” (comma 6) e che “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge” (comma 7), l'art. 111 pone uno dei cardini delle norme sulla giurisdizione e, attraverso la generalizzata ricorribilità dei provvedimenti decisori per violazione di legge, attribuisce alla Corte di Cassazione il ruolo di supremo organo regolatore della giurisdizione e di raccordo tra potere legislativo e potere giudiziario al fine di garantire il primato della legge. Lo stretto collegamento, anche topografico, tra le due disposizioni della Costituzione rivela l’indubbia complementarietà esistente tra l’obbligo della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali e la funzione assegnata alla Corte di Cassazione, nel senso che questa assicura

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Il controllo della motivazione del giudizio di fatto in cassazione.

Sentenza penale.

(Incontro di studio sul tema: “Il ricorso per cassazione nel sistema dei mezzi di impugnazione”

Frascati – 23 febbraio 2001)

* * * * *

Sommario: 1. - Obbligo della motivazione e controllo di legittimità. 2. - Il sindacato logico

della motivazione nell’art. 606, 1° comma, lett. e) del codice di procedura penale. 3. - I limiti

del controllo della logicità della motivazione nella giurisprudenza della Cassazione. 4. - Le

regole logiche del ragionamento probatorio. 5. - La mancanza della motivazione. - 6. - Il

travisamento del fatto. 7. - Esame di alcune recenti iniziative legislative. 8. - Considerazioni

conclusive.

1. - Obbligo della motivazione e controllo di legittimità.

E' unanimamente riconosciuta la fondamentale importanza dell’art. 111 della Carta

costituzionale nel sistema delle impugnazioni civili e penali, con riguardo particolare al ricorso per

cassazione. Infatti, stabilendo che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”

(comma 6) e che “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati

dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione

di legge” (comma 7), l'art. 111 pone uno dei cardini delle norme sulla giurisdizione e, attraverso la

generalizzata ricorribilità dei provvedimenti decisori per violazione di legge, attribuisce alla Corte di

Cassazione il ruolo di supremo organo regolatore della giurisdizione e di raccordo tra potere

legislativo e potere giudiziario al fine di garantire il primato della legge.

Lo stretto collegamento, anche topografico, tra le due disposizioni della Costituzione rivela

l’indubbia complementarietà esistente tra l’obbligo della motivazione dei provvedimenti

giurisdizionali e la funzione assegnata alla Corte di Cassazione, nel senso che questa assicura

2

l’adempimento del predetto obbligo e che, nello stesso tempo, la motivazione costituisce la

condizione indispensabile per l’effettività del controllo dell’intero iter logico-giuridico seguito dal

giudice di merito nell'applicazione della norma giuridica. Difatti, se è certo che l’obbligo della

motivazione è coessenziale al principio di legalità e di soggezione del giudice alla legge, è altrettanto

certo che il controllo di legittimità trova titolo nei medesimi principi, onde è senz’altro giustificata

l’affermazione che, nel sistema garantistico delineato dalla Costituzione, l’enunciazione dell’obbligo

di motivazione è considerata come corollario del principio di legalità sancito dall’art. 102, 2° comma,

e della generalizzazione del sindacato di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali, espressa

dall’art. 111 (DENTI, La magistratura – Norme sulla giurisdizione, sub art. 111, in Commentario

della Costituzione a cura di Branca, 1987, 5 ss.).

L’inderogabile esigenza di un simile controllo non può essere circoscritta al momento

dell’applicazione della norma giuridica, ma deve intendersi inevitabilmente estesa al giudizio storico

o di fatto, a quel momento, cioè, in cui il giudice valuta i risultati delle prove e procede alla

ricostruzione del fatto. E’ stato, al riguardo, giustamente osservato che la correttezza del giudizio di

fatto si pone quale “condizione (ovviamente non sufficiente, ma necessaria) della legalità della

decisione, poiché appunto la norma viene correttamente applicata solo se esistono fatti che ne

implicano e ne giustificano l’applicazione” (TARUFFO, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione

civile, 1991, 128). La coerenza e il rigore del sistema postulano, pertanto, che la garanzia

costituzionale ex art. 111 Cost. debba coprire la motivazione nella sua unità, inscindibilmente

costituita dalla soluzione delle questioni di diritto, sostanziale e processuale, e dall'accertamento del

fatto, al quale una determinata norma, e quella soltanto, deve essere applicata. Ne segue che il

precetto costituzionale relativo alla ricorribilità in cassazione per violazione di legge abbraccia

certamente anche la motivazione in fatto, anche se l'ambito in cui opera la garanzia non è

indiscriminato e i modi e le forme del controllo sono rimessi al legislatore ordinario.

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Fatte queste necessarie premesse sulla configurazione del ricorso per cassazione nel sistema

costituzionale, deve porsi in risalto che l'obbligo della motivazione sul fatto è regolato, all'interno del

processo penale, da una serie di norme che ne specificano il contenuto. Tra queste assume una

posizione centrale l’art. 192, comma 1, c.p.p., che è generalmente considerato come base

dell’esplicito riconoscimento legislativo del principio del libero convincimento del giudice, elevato a

canone fondamentale di valutazione della prova. La Relazione al progetto preliminare del codice di

procedura penale, dopo avere notato che l’art. 192 conferma la scelta in favore del principio del

libero convincimento, chiarisce che “decisamente nuovo è, però, il raccordo tra convincimento del

giudice e obbligo di motivare: su un piano generale, esso mira a segnalare, anche a livello legislativo,

come la libertà di apprezzamento della prova trovi un limite in principi razionali che devono trovare

risalto nella motivazione; sotto un profilo più strettamente operativo, il nesso vuol far risaltare il

contenuto della motivazione in fatto, che si esprime nella enunciazione dei criteri di valutazione

(massime di esperienza) utilizzati per vagliare il fondamento della prova” (p. 61).

Il primo comma dell’art. 192 c.p.p., col disporre che “il giudice valuta la prova dando conto

nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”, sottende la preoccupazione del

legislatore di prevenire l’esercizio insindacabile del potere discrezionale nell’apprezzamento

giudiziale delle prove, collegato indissolubilmente con l’obbligo della motivazione proprio al fine di

evitare che il libero convincimento trasmodi in arbitrio e in scelte dettate da opzioni meramente

soggettive, che finiscono per rappresentare la negazione della giurisdizione, la cui essenza è quella di

costituire una attività razionalmente configurata, imperniata su criteri di valutazione precisi e

riconoscibili. La medesima preoccupazione traspare, del resto, dai commi successivi dell’art. 192,

nei quali vengono enunciate specifiche regole di giudizio e sono precisati i limiti dell’impiego della

prova indiziaria (comma 2) e delle dichiarazioni rese dai coimputati del medesimo reato o di persone

imputate in un procedimento connesso (comma 3).

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L’obbligo del giudice di giustificare razionalmente la valutazione delle prove e di rendere

trasparenti le linee seguite nel ragionamento probatorio corrisponde ad un principio fondamentale

della nostra civiltà giuridica, risalente all’ideologia illuministica di impronta tipicamente garantistica.

Il richiamo a tale principio -operante anche quando il processo penale aveva uno stampo

prettamente inquisitorio- è tanto più giustificato con la disciplina del codice vigente, dato che, sul

piano sistematico, il rigore e la necessità della motivazione, come fonte giustificativa della decisione,

trovano innegabile base nella struttura accusatoria del processo penale e nel diritto alla prova, la cui

tutela è stata esplicitamente riconosciuta con le modifiche dell’art. 111 Cost. recentemente

introdotte dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2: e, in proposito, risulta estremamente significativa e

pertinente l’affermazione -formulata con riguardo al processo civile, ma senz’altro valida anche per

il processo penale- secondo cui dalla garanzia del diritto alla prova discende, come lineare e

necessario corollario, l’obbligo del giudice di valutare le prove assunte ad iniziativa delle parti e di

fornire la motivazione giustificativa di tale valutazione (TARUFFO, Il diritto alla prova nel processo

civile, in Riv. dir. proc., 1984, 106 ss.).

L’obbligo della motivazione trova puntuale specificazione in varie disposizioni del codice di

procedura penale. Oltre che nell’art. 125, a norma del quale le sentenze, le ordinanze e, nei casi

previsti dalla legge, i decreti devono essere motivati a pena di nullità, le principali disposizioni

devono essere individuate nell’art. 546, comma 1, lett. e) e nell’art. 292: la prima riguarda la

motivazione delle sentenze, nelle quali deve essere contenuta “la concisa esposizione dei motivi di

fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della

decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove

contrarie”; la seconda disposizione, la cui matrice è identificabile nel secondo comma dell’art. 13

Cost., concerne la motivazione delle ordinanze relative alle misure cautelari personali, nella quale

deve essere presente “l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano

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in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei

motivi per i quali essi assumono rilevanza” (art. 292, comma 2, lett. c), nonché “l’esposizione dei

motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa” (art. 292, comma 2,

lett. c-bis).

Tutte le norme esaminate risultano in perfetta ed essenziale simmetria con la disposizione di

cui all’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., che, comprendendo tra i motivi di ricorso la “mancanza o

manifesta illogicità della motivazione”, ha l’indubbio effetto di sanzionare le violazioni dell’obbligo

della motivazione e di elevare le regole della logica a regole giuridiche, alla cui osservanza è

vincolato il giudice quando procede alla valutazione delle prove e alla ricostruzione del fatto.

2. - Il sindacato logico della motivazione nell’art. 606, 1° comma, lett. e) del vigente

codice di procedura penale.

Il controllo della motivazione sul fatto si compone di due distinti momenti. Il primo attiene

alla verifica del rispetto delle forme di acquisizione conoscitiva dei fatti, dovendo la Corte di

legittimità accertare, anzitutto, la validità e l'utilizzabilità dei mezzi di prova, nel solco del motivo di

ricorso di cui all'art. 606, comma 1, lett. c) c.p.p., riguardante la deducibilità dell'inosservanza delle

norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza. Si

tratta di un'operazione che, nell'ordine logico, precede lo scrutinio della logicità della valutazione

delle prove compiuta dal giudice di merito, con la specifica funzione di assicurare la legalità del

procedimento probatorio, articolato in una sequenza in cui sono individuabili le fasi dell'ammissione,

dell'assunzione/acquisizione e della valutazione della prova (cfr. Cass., Sez. Un., 25 febbraio 1998,

Gerina, in Foro it., 1998, II, 225). A questo primo momento del controllo della motivazione in

fatto, vertente sulla legittimità delle acquisizioni probatorie, segue quello concernente il vaglio della

logicità della interpretazione delle prove impiegate nella ricostruzione del fatto, nella prospettiva

tracciata dal motivo di ricorso indicato dall'art. 606, comma 1, lett. e).

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Quest'ultima peculiare funzione della Corte di Cassazione costituisce l'oggetto della presente

relazione.

Il sindacato della logicità della motivazione è normativamente configurato come un’analisi

retrospettiva del ragionamento probatorio, che non incide sul contenuto della valutazione probatoria

già compiuta dal giudice di merito, ma è funzionalmente orientata a controllarne la struttura razionale

muovendo dalle conclusioni e ripercorrendo all’indietro la linea logica della motivazione, al fine di

verificare la validità delle inferenze che la compongono e i nessi che legano le diverse inferenze

(TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, 1975, 583 ss.).

L’art. 606, comma 1, lett. e) del codice vigente ha alle spalle il nutrito e approfondito

dibattito sviluppatosi nel precedente sistema processuale sui limiti del sindacato logico della

motivazione e sui problemi di funzionamento della Corte di cassazione. Di tale dibattito era ben

consapevole il legislatore del 1988, che, con la predetta disposizione, ha inteso compiere una scelta

ben precisa, col dichiarato proposito di contenere l’ambito del sindacato logico entro confini

rigorosi, ritenuti idonei a preservare l’integrità del ruolo della Corte di legittimità. Le esplicite

enunciazioni contenute nella Relazione al progetto preliminare del codice confermano, in modo non

equivoco, la reale portata e le finalità della nuova disciplina. Infatti, dopo avere rilevato che “alcuni

difetti vistosi e gravi sono indiscutibili” ed avere precisato che il silenzio della legge-delega sul

ricorso per cassazione non va interpretato come sottovalutazione del tema ma risponde all’intento di

non introdurre, da un canto, innovazioni radicali e di affidare, dall’altro, al legislatore delegato il

compito di una revisione razionalizzatrice della materia, la Relazione chiarisce che “è sembrato che

fosse opportuno non già escludere qualunque sindacato sulla motivazione, ma piuttosto contenerlo,

in modo da evitare che il controllo della cassazione anziché sui requisiti minimi di esistenza,

completezza e logicità della motivazione si eserciti, muovendo dagli atti del processo, sul contenuto

della decisione”, essendo parso “fortemente rischioso amputare la giurisdizione della possibilità di

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esercitare un sindacato finale su motivazioni in cui si traggono conclusioni prive di giustificazione o

incompatibili con le premesse, ovvero si adottano massime di esperienza contrastanti con <<il senso

comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento>>”: con la precisazione che “il

controllo di logicità, che, per sua natura, rimane all’interno del documento con cui si esterna la

decisione, senza necessità di riscontro con gli atti del processo, è apparso in tutto compatibile con

l’esigenza, da più parti avanzata e condivisa, di circoscrivere al massimo l'oggetto del giudizio di

legittimità” (p. 132, 133).

L'esame della disposizione di cui all’art. 606, 1° comma, lett. e) rivela che la sua struttura

poggia sui seguenti tre punti: a) la mancanza e l’illogicità della motivazione rilevano direttamente

come autonomo motivo di ricorso, analogamente a quanto previsto dal codice di procedura civile

(art. 360, 1° comma, n. 5): tale circostanza segna una significativa differenza rispetto alla disciplina

dettata dal codice del 1930, in cui la deducibilità del vizio in cassazione passava per il tramite

dall’art. 475 n. 3, che sanciva la nullità della sentenza per mancanza o per contraddittorietà della

motivazione; b) l’illogicità deve essere “manifesta”, nel senso che le fratture del discorso

giustificativo e l’assenza dei necessari passaggi logici del ragionamento probatorio devono essere di

evidenza tale da essere immediatamente percepibili; c) il vizio deve risultare dal testo del

provvedimento impugnato.

Riguardo al requisito del carattere manifesto della illogicità della motivazione si è osservato,

in dottrina, che l’illogicità coincide sostanzialmente con la contraddittorietà di cui all’art. 475 n. 3 del

codice del 1930 e che l’aggettivo “manifesta” dovrebbe costituire un “limite alla rilevabilità del vizio,

del quale però è difficile prevedere il ruolo effettivo” (LATTANZI, Controllo del diritto e del fatto

in cassazione, in Cass. pen., 1992, 816; cfr., inoltre, FERRUA, Il sindacato di legittimità sul vizio

di motivazione nel nuovo codice di procedura penale, id., 1990, 965).

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Alla luce dell’esperienza dei primi dieci anni di applicazione del codice vigente, appare

indubbio, però, che un efficace strumento di salvaguardia dei confini del giudizio di legittimità è stato

rappresentato, più che dal carattere manifesto dell'illogicità, dalla limitazione della rilevabilità dei soli

vizi logici risultanti dal testo del provvedimento impugnato: ed, infatti, circoscrivere il sindacato alla

struttura interna della motivazione, eliminando la possibilità di esame degli atti probatori contenuti

nel fascicolo processuale, significa indubbiamente ridurre il rischio che il controllo devoluto al

giudice di legittimità possa estendersi alla valutazione ricostruttiva dei fatti ed ai relativi

apprezzamenti riservati al giudice di merito. Né deve pensarsi che l’avere racchiuso il sindacato

logico della motivazione nell’ambito del testo del provvedimento impugnato corrisponda ad una

scelta estemporanea del legislatore delegato: una simile soluzione, da tempo auspicata da taluni

settori della dottrina, risultava, difatti, già prefigurata, oltre sessanta anni or sono, nella classica opera

di Guido Calogero, il quale osservava che “potrà statuirsi che una motivazione in fatto sia cassabile

come insufficiente quando la sua incongruenza espositiva o probatoria appaia evidente alla semplice

lettura della sentenza e che non lo sia quando per tale constatazione sia necessario il confronto della

sentenza con altri documenti” (La logica del giudice e il suo controllo in cassazione, 1964,

ristampa, 297).

L’inequivoco dato normativo fissato dall’art. 606, 1° comma, lett. e), che riduce l’area dei

vizi logici denunciabili in cassazione a quelli interni alla motivazione sviluppata nel testo del

provvedimento impugnato, in dottrina è stato oggetto di accese discussioni sulla coerenza

sistematica del precetto, tanto che se alcuni hanno sostenuto che “vietare alla cassazione l’accesso

alle fonti probatorie equivarrebbe ad accettare scientemente il rischio che diventi irrevocabile la

condanna dell’innocente” (FERRUA, Il sindacato di legittimità cit., 965), altri hanno obiettato che

gli sconfinamenti nel merito non riescono affatto a garantire la giustizia delle decisioni e che le

“letture” degli atti fatte dalla Cassazione garantiscono assai poco, non potendosi aprioristicamente

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supporre che il giudice di legittimità sia in grado di valutare le prove meglio del giudice di merito e

sia dotato della “straordinaria capacità di distinguere in modo infallibile l’innocente dal colpevole”

(LATTANZI, Controllo del diritto e del fatto in cassazione cit., 818).

Non è contestabile che la delimitazione del potere di cognizione della Corte di Cassazione al

controllo del testo del provvedimento rappresenta una delle più salienti innovazioni introdotte con il

preciso intento di delimitare la sagoma del sindacato della logicità della motivazione in termini tali da

contemperare la salvaguardia della funzione di legittimità con la necessità di assicurare, in ogni caso,

la presenza delle condizioni minime necessarie per l'effettiva osservanza dell'obbligo della

motivazione, in mancanza delle quali questa sarebbe ridotta a mera apparenza. Anche se la disciplina

accolta dal codice ha carattere indubbiamente compromissorio, deve riconoscersi che essa attua un

equilibrato e razionale bilanciamento tra concorrenti esigenze all'interno della scala di valori

costituzionalmente rilevanti. In questo senso è orientata la costante giurisprudenza di legittimità, che

più volte ha giudicato manifestamente infondate le questioni di costituzionalità dell'art. 606, comma

1, lett. e) c.p.p., sollevate in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., con riferimento all'inciso <<quando

il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato>>: è stato ritenuto, infatti, che è rimesso alle

scelte discrezionali del legislatore ordinario il disegno dei contorni del controllo di legittimità sui

motivi dei provvedimenti giurisdizionali, che può anche arrestarsi alla "garanzia minima voluta dal

legislatore costituzionale", riguardante l'esistenza della motivazione in sé e l'identificazione "ab

intrinseco", attraverso il medesimo tessuto argomentativo in essa sviluppato, della concreta ed

effettiva "ratio decidendi" sulle questioni di fatto, senza estendersi al confronto del suo contenuto

con le risultanze del processo (Cass., Sez. I, 13 novembre 1995, Kanoute, rv. 203126; in senso

conforme v. Cass., Sez. IV, 26 novembre 1993, Maurizio, in Foro it., Rep. 1994, voce Cassazione

penale, n. 19; Cass., Sez. I, 11 ottobre 1993, Marsala, ibid., n. 20).

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3. - I limiti del controllo della logicità della motivazione nella giurisprudenza della

Cassazione.

L’esame delle astratte enunciazioni di principio contenute nella giurisprudenza della

Cassazione pone in risalto che, tranne che in isolate pronunce, risultano normalmente ribaditi i limiti

del sindacato dei vizi logici della motivazione stabiliti dall’art. 606, 1° comma, lett. e), salvo, poi, a

dovere riscontrare, in talune decisioni, che i principi sono stati applicati in modo non corretto e che il

giudice di legittimità ha inciso sul merito della valutazione probatoria, sostituendo un proprio

apprezzamento a quello contenuto nella sentenza impugnata.

Nelle massime è ricorrente l’affermazione che il controllo della logicità della motivazione va

esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto

argomentativo del provvedimento impugnato, senza la possibilità di verificare se i risultati

dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie

risultanti dagli atti del processo. In particolare, può considerarsi consolidato il principio per cui,

nella verifica della fondatezza o non del motivo di ricorso ex art. 606, comma 1, lett. e), il compito

della Corte di cassazione non è quello di accertare l’intrinseca adeguatezza dei risultati

dell’interpretazione delle prove, ma quello ben diverso di stabilire se i giudici di merito abbiano

esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni

delle parti e se nell’interpretazione delle prove abbiano esattamente applicato le regole della logica,

le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo

da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre

(Cass., Sez. I, 21 settembre 1999, Guglielmi ed altri, rv. 214567; Cass., Sez. Un., 30 aprile 1997,

Dessimone, rv. 207944).

E’ frequente, inoltre, la precisazione che la deduzione del vizio logico in sede di legittimità

deve tendere a dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione

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e/o di logica e non può risolversi, invece, nell’opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal

giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Cass., Sez. Un., 19 giugno

1996, Di Francesco, rv. 205617): ditalchè la verifica deve essere limitata alla coerenza strutturale

della sentenza, in sé e per sé considerata, alla stregua degli stessi parametri valutativi cui essa è

“geneticamente” informata, ancorchè questi siano ipoteticamente rimpiazzabili con altri non meno

validi e congruenti (Cass., Sez. Un., 31 maggio 2000, Jakani, rv. 216258). Ed ancora: è stato

chiarito che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte

circoscritto, dovendo il sindacato essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare

l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza

possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per

sostanziare il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali, con la

specificazione che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere manifesta, cioè

di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato

a rilievi di macroscopica evidenza, mentre restano non influenti le minime incongruenze e devono

considerarsi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano

logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato

le ragioni del convincimento (Cass., Sez. Un., 24 novembre 1999, Spina, rv. 214794).

A quest’ultimo riguardo, va sottolineato che la portata del sindacato sulla logicità è

necessariamente conformata alla struttura della motivazione e alle condizioni richieste per

l’adempimento del relativo obbligo, sussistendo una inscindibile correlazione tra controllo di

legittimità, forme dell’argomentazione giudiziaria e tecnica di redazione della motivazione. E’

costante l’indirizzo che configura l’obbligo della motivazione in termini tali da ritenerlo adempiuto

allorchè il giudice di merito abbia dato atto delle ragioni del suo convincimento, senza che sia

necessario l'esame di tutte le deduzioni difensive delle parti e delle risultanze processuali che siano

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logicamente incompatibili con la decisione adottata. In particolare, per quanto riguarda il

ragionamento probatorio, è stato precisato che, ai fini della correttezza e della logicità della

motivazione, non occorre che il giudice di merito abbia dato conto della valutazione di ogni

deposizione assunta e di ogni prova, come di altre possibili ricostruzioni dei fatti che possano

condurre ad eventuali soluzioni diverse da quella adottata, egualmente fornite di coerenza logica, ma

è sufficiente che lo stesso giudice abbia indicato le fonti di prova di cui ha tenuto conto per la

formazione del suo convincimento e, quindi, della decisione, ricostruendo il fatto in modo plausibile

con ragionamento logico e argomentato (Cass., Sez. VI, 24 ottobre 1997, Todini, rv. 209490).

L’adozione di un simile modello di motivazione spiega le ragioni per le quali si è ritenuto che

non possano giustificare l’annullamento minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione

di elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero potuto dar luogo ad una diversa

decisione, semprechè tali elementi non siano muniti di un chiaro e inequivocabile carattere di

decisività e non risultino, di per sé, obiettivamente e intrinsecamente idonei a determinare una diversa

decisione (Cass., Sez. I, 9 marzo 1995, Pischedda, rv. 200705). In argomento, si è spiegato che non

costituisce vizio della motivazione qualsiasi omissione concernente l’analisi di determinati elementi

probatori, in quanto la rilevanza dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto

in cui essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso probatorio, dal

momento che soltanto una valutazione globale e una visione di insieme permettono di verificare se

essi rivestano realmente consistenza decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza

logica dell’impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest’ultimo caso, implicitamente

confutati (Cass., Sez. I, 11 novembre 1998, Maniscalco, rv. 212053).

Le posizioni della giurisprudenza di legittimità rivelano, dunque, che non è considerata

automatica causa di annullamento la motivazione incompleta né quella implicita quando l’apparato

logico relativo agli elementi probatori ritenuti rilevanti costituisca diretta ed inequivoca confutazione

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degli elementi non menzionati, a meno che questi presentino determinante efficienza e concludenza

probatoria, tanto da giustificare, di per sé, una differente ricostruzione del fatto e da ribaltare gli esiti

della valutazione delle prove.

Si è altresì escluso che integri vizio logico della motivazione, utilmente deducidibile nel

giudizio di legittimità, l’ipotesi della motivazione insufficiente, che ricorre quando il giudice, pur

dando conto delle proprie conclusioni e delle prove che le sorreggono, non espliciti compiutamente i

criteri di valutazione che sulla base di quelle prove consentono di pervenire a quelle conclusioni:

infatti, l’art. 547 c.p.p. esplicitamente dispone che la motivazione insufficiente non costituisce causa

di nullità della sentenza e deve essere completata con le forme della correzione di cui all’art. 130

(Cass., Sez. V, 24 gennaio 1994, Aulicino, Cass. pen., 1995, 143, con nota di IACOVIELLO,

Scelta decisionale <<giusta>> e motivazione insufficiente: gli incerti poteri del giudice di

legittimità). Sul tema della motivazione insufficiente è riscontrabile, dunque, una profonda differenza

rispetto alla previsione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., che espressamente ammette il ricorso per

cassazione per insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, prospettato dalle

parti o rilevabile d‘ufficio.

Il vizio di illogicità è, invece, certamente riscontrabile nell’ipotesi di motivazione

contraddittoria, caratterizzata dalla circostanza che tra gli enunciati probatori sui quali è basata la

ricostruzione del fatto sussistono un contrasto, un'antinomia e una inconciliabilità di spessore tale da

dissolvere la coerenza del discorso giustificativo della decisione.

L'adeguatezza della motivazione -caratterizzata, nel disegno del legislatore, dalla

"concisione" e dall'essenzialità espositiva- è ben compatibile, dunque, con la tecnica argomentativa

della motivazione implicita, la cui praticabilità, tuttavia, non può considerarsi senza limiti, dato che

la legge processuale impone l'esplicita motivazione su taluni specifici temi della decisione. L'art. 546,

comma 1, lett. e) c.p.p. prescrive "l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non

14

attendibili le prove contrarie" e l'art. 292, comma 2, lett. c-bis c.p.p., in materia di motivazione delle

misure cautelari, rende obbligatoria "l'esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non

rilevanti gli elementi forniti dalla difesa". Tali norme rappresentano diretta esplicazione del principio

del diritto alla prova e del principio del contraddittorio, che si pongono anche come precise regole di

giudizio sia nel momento della decisione sia in quello della giustificazione del ragionamento

probatorio. Pertanto, l'inosservanza delle predette disposizioni non può non pregiudicare la

completezza della motivazione e renderla censurabile a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p.,

tranne l'ipotesi in cui le deduzioni probatorie della difesa risultino manifestamente irrilevanti ovvero

debbano intendersi necessariamente disattese alla luce delle ragioni enunciate dal giudice di merito

per giustificare i risultati probatori accolti.

4. - Le regole logiche del ragionamento probatorio.

Accertato che il sindacato dei vizi logici della motivazione tende a verificare il grado di

plausibilità razionale dell’asserzione probatoria, occorre sottoporre ai necessari approfondimenti

l’enunciazione della massima per cui il sindacato della motivazione deve essere esercitato “ab

extrinseco”, sul metodo di valutazione della prova, senza incidere sul contenuto dell’apprezzamento

del giudice di merito e al solo fine di controllare che la ricostruzione del fatto sia avvenuta con

l’osservanza delle regole della logica. In altri termini, è necessario stabilire quali siano le regole

logiche alle quali deve essere uniformato il ragionamento probatorio e come debba essere esercitato

il sindacato finalizzato al vaglio della struttura razionale della motivazione e della corrispondenza del

discorso giustificativo ai comuni canoni epistemologici, tenendo presente che il controllo della

motivazione “è agganciato a specifiche regulae iuris, che, pur avendo ad oggetto il giudizio sul fatto,

si traducono in regole metodologiche a base del legale convincimento in fatto”: sicchè la decisione

non conforme ai criteri e al metodo prescritti dall’ordinamento giuridico è viziata da un error iuris,

poiché l’obbligo del giudice di merito di dare al suo convincimento una base razionale “si sostanzia

15

nell’obbligo di rispettare norme e principi giuridici” (BARGI, Il ricorso per cassazione, in Le

impugnazioni penali a cura di Gaito, 1998, II, 522).

La giurisprudenza è ferma nel ritenere che il giudizio relativo all’accertamento del fatto è

fondato sulla tecnica argomentativa del sillogismo, all’interno del quale il passaggio dalla fonte della

prova al fatto accertato è reso possibile dalla regola di inferenza enucleabile dalla massima di

esperienza appropriata. I tre momenti dell’articolazione dello schema sillogistico sono individuati in

una premessa maggiore, costituita dalla massima di esperienza, in una premessa minore,

rappresentata dal fatto noto, e nella conclusione corrispondente al risultato probatorio. La coerenza,

la congruenza e la compattezza logica dello sviluppo del ragionamento sillogistico concretano la

giustificazione interna della valutazione probatoria, la cui affidabilità dimostrativa postula, tuttavia,

anche la giustificazione esterna della massima di esperienza, che assume il ruolo di regola inferenziale

su cui poggia l’argomentazione deduttiva conducente alla conclusione probatoria (NAPPI, Il

controllo della Corte di cassazione sul ragionamento probatorio del giudice di merito, in Cass.

pen., 1998, 1262).

Il perno dell’argomentazione probatoria è, dunque, costituito dalla scelta da parte del giudice

di merito delle massime di esperienza da utilizzare nell’interpretazione dei dati probatori e proprio a

tale scelta sembra fare riferimento il primo comma dell’art. 192 c.p.p. allorchè specifica che nella

motivazione in fatto il giudice deve dare conto dei “criteri adottati” (cfr. Rel. prel., p. 61).

La massima di esperienza costituisce una regola extranormativa ricavata dall’esperienza

passata e fondata sulla rilevazione dell’id quod plerumque accidit, mediante la quale è accertato,

con un elevato grado di probabilità, il nesso che lega tra loro due accadimenti umani, onde la base

dimostrativa della regola di esperienza poggia su una verifica empirica condotta con criteri obiettivi,

sulla base di una qualificata frequenza statistica, alla cui stregua la massima acquista affidabilità

razionale ed è elevata a premessa maggiore di un paradigma inferenziale, che vede, nella premessa

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minore, proprio la fattispecie concreta (NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette <<massime

d’esperienza>>, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1969, 125 ss.). E’ stato altresì chiarito che le

massime di esperienza, operando come criterio di inferenza all’interno del ragionamento probatorio,

implicano la necessità di introdurre un criterio di razionalità nel loro impiego che tenga conto della

loro diffusione nella cultura media e della natura specifica della massima adottata, dato che la validità

razionale dell’inferenza dipende dall’analisi critica delle massime che di volta in volta vengono

impiegate (TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, 1992, 337 ss.).

Occorre stabilire come venga esercitato dalla Corte di cassazione il controllo sullo sviluppo

dello schema sillogistico attraverso il quale si è esplicitato il giudizio sul fatto.

Nella Relazione al progetto preliminare è chiarito che il sindacato “non può spingersi oltre la

soglia della manifesta illogicità, cioè non può giustificare la sostituzione dei criteri e delle massime di

esperienza adottati dai giudici di merito con quelli prescelti invece dalla cassazione” (p. 133). La

precisazione deve essere condivisa per l’evidente ragione che, se la Corte provvedesse a sostituire la

massima che rappresenta la regola inferenziale del ragionamento probatorio, indubbiamente si

realizzerebbe una nuova valutazione in fatto, sovrapposta a quella compiuta dal giudice di merito. In

questi sensi è orientata la giurisprudenza di legittimità, che ritiene inibito alla Corte di cassazione

l’inserimento nel ragionamento probatorio di massime di esperienza alternative a quelle, non

irrazionali, adottate dal giudice di legittimità ( Cass., Sez. I, 11 novembre 1998, P.M. in proc.

Maniscalco ed altri, rv. 212054; Cass., Sez. VI, 18 gennaio 1995, Lusetti, rv. 201355).

Escludere, però, la possibilità di sostituzione della regola di esperienza non significa che alla

Corte di legittimità sia precluso il controllo della razionalità della scelta della massima posta a base

del ragionamento probatorio, dato che la verifica della correttezza metodologica della giustificazione

esterna della regola di inferenza si traduce non in un sindacato sul contenuto della decisione

probatoria, ma, appunto, proprio nel controllo ab extrinseco del criterio di valutazione adottato dal

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giudice di merito e della coerenza dell’argomentazione probatoria, nonché della plausibilità dei

risultati. Pertanto, deve senz’altro condividersi l’opinione prevalente in dottrina che respinge la tesi

secondo cui “il giudice di legittimità dovrebbe ridurre il suo compito alla semplice registrazione

formale della presenza della massima di esperienza della sequenza argomentativa, senza porre in

discussione la validità razionale della sua utilizzazione, o quanto meno la sua corrispondenza al

patrimonio dell’esperienza passata”, poiché, al contrario, nella situazione in esame “non si tratta di

sovrapporre un giudizio (di legittimità) ad un altro (di merito) per rendere giusta la decisione; bensì

di verificare la logicità della scelta della massima di esperienza e, ancor prima, se quella definita tale

sia in realtà una vera regola di esperienza secondo la nozione più sopra indicata: tutto ciò senza

involgere in alcun modo il controllo del discorso giustificativo ed il riesame delle risultanze

processuali” (BARGI, Il ricorso per cassazione cit., 539 e 541). In termini estremamente lapidari e

suggestivi, si è osservato che se le massime di esperienza non fossero sindacabili, “ogni conclusione

farneticata sarebbe invulnerabile” (CORDERO, Procedura penale, 1998, 1032).

La posizione favorevole al controllo delle massime di esperienza è condivisa dalla

giurisprudenza assolutamente prevalente in base alla premessa che il sindacato della logicità non può

non esplicarsi anche sui criteri adottati per la valutazione delle prove, i quali, secondo l’espressa

previsione dell’art. 192, comma 1, c.p.p., devono essere enunciati nella motivazione in fatto,

costituendo l’impalcatura della struttura razionale della decisione. E’ stato, così , deciso che le

massime di esperienza sono correlate ad una “verifica empirica della probabile sussistenza di una

situazione di fatto basata sull’id quod plerumque accidit”, non potendosi, però, equiparare la

massima di esperienza ad una congettura col fare discendere una conseguenza univoca da una

premessa ipotetica attraverso un procedimento sillogistico in cui rimane incerto il primo termine del

sillogismo (Cass., Sez. VI, 13 agosto 1996, Pacifico, rv. 206121; Cass., Sez. VI, 28 marzo 1995,

Layne ed altri, rv. 201152; Cass., Sez. I, 22 ottobre 1990, Grilli ed altri, rv. 186149). Con lucida

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consapevolezza dei reali termini della problematica, nel vigore del codice del 1930 è stato precisato

che -anche se il giudizio sulla rilevanza, attendibilità ed affidabilità delle fonti di prova è devoluto al

giudice di merito e se la scelta compiuta non può essere sindacata nel giudizio di legittimità-

l’ordinamento conferisce alle parti, al fine di evitare il rischio che la libertà di convincimento venga

esercitata in modo arbitrario, il potere di richiedere il controllo della motivazione della decisione,

teso ad accertare se il giudice abbia indicato le ragioni del suo convincimento e se queste ultime

siano plausibili, in quanto fondate su tutto il materiale probatorio (principio di completezza), se siano

aderenti a quest’ultimo (principio di correttezza) e se le conclusioni risultino il frutto di sillogismi

logicamente ineccepibili e di massime di esperienza riconosciute come tali da chiunque e

generalmente accettate (principio di logicità) (Cass., 22 maggio 1989, Barranca, rv. 182290). In

questa stessa prospettiva interpretativa è stato ritenuto che deve essere censurata per illogicità la

giustificazione esterna del ragionamento probatorio se “le massime di esperienza ivi richiamate, le

deduzioni e le conclusioni tratte in sede di merito contrastino con il senso comune oppure superino i

limiti di una logica e plausibile opinabilità di apprezzamento” (Cass., Sez. II, 25 febbraio 1994,

Modesto, rv. 196955), ovvero se il ragionamento probatorio muova da premesse arbitrarie o se, pur

essendo queste accettabili, le conclusioni manchino di conseguenzialità (Cass., Sez. I, 30 novembre

1995, Riggio, rv. 203673).

Nella ricostruzione dei fatti di criminalità organizzata la valutazione probatoria passa sovente

attraverso l’impiego di una tecnica di argomentazione probatoria in cui trova largo spazio

l’utilizzazione delle massime di esperienza ricavate dalle discipline sociologiche e criminologiche,

nella convinzione che proficui dati interpretativi dell'agire delinquenziale possano trarsi dagli studi

che documentano la reiterazione di determinati comportamenti e l’osservanza di precise regole di

condotta nei contesti geografici, sociali, culturali all’interno dei quali si sviluppano tali peculiari

forme di delinquenza. Il metodo non è, di per sé, arbitrario, atteso che lo stesso modello di

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associazione mafiosa di cui all’art. 416-bis c.p. è stato configurato dalla l. n. 646 del 1982 mediante

la tipicizzazione di regole di esperienza tratte dall’analisi sociologica delle principali organizzazioni

criminali, prima fra tutte quella denominata “cosa nostra”. I dati desunti dalle indagini di tipo socio-

criminologico sono stati impiegati, per esempio, a proposito della responsabilità dei “capi

mandamento”, componenti della “cupola” o “commissione provinciale” di “cosa nostra”,

relativamente ai c.d. omicidi “eccellenti” ( cfr. Cass., Sez. I, 14 luglio 1994, Buscemi, rv. 199305) o

della prova dell’appartenenza al sodalizio mafioso tratta dall’attribuzione della qualifica di “uomo

d’onore”, accompagnata da presentazione “rituale” (Cass., Sez. I, 30 settembre 1994, Di Martino,

rv. 199943).

La giurisprudenza della Corte di cassazione non si presenta su posizioni univoche in ordine

alla possibilità di adottare massime di esperienza desunte da indagini sociologiche. Ad un primo

orientamento dichiaratosi favorevole all’adozione di un simile metodo per l’interpretazione degli

elementi probatori, sul presupposto che la mafia è dotata di una precisa identità sociologica (Cass.,

Sez. I, 30 gennaio 1992, Abbate ed altri, in Foro it., 1993, II, 15, con nota di FIANDACA; Cass.,

Sez. I 25 marzo 1982, Di Stefano ed altri, in Foro it., 1983, II, 360; Cass., Sez. I, 24 gennaio 1977,

Condelli, rv. 135978), fa riscontro un opposto indirizzo che considera arbitraria l’enunciazione di

criteri generali e di massime di esperienza validi per la ricostruzione dei fenomeni mafiosi (Cass., Sez.

VI, 16 dicembre 1985, Spatola, rv. 171998; Cass., Sez. I, 29 maggio 1989, Ollio, rv. 181886).

Di recente, la Cassazione si è pronunciata su tale delicata questione ritenendo che, nella

valutazione delle prove, il giudice di merito possa fare ricorso anche ai paradigmi apprestati dalle

scienze socio-criminologiche, dato che queste possono rappresentare “utili strumenti di

interpretazione dei risultati probatori, dopo averne vagliato, caso per caso, l’effettiva idoneità ad

essere assunti ad attendibili massime di esperienza”, con l’avvertenza, però, che la valutazione del

giudice “non deve uniformarsi a teoremi ed astrazioni, ma deve fondarsi sul rigoroso vaglio

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dell’effettivo grado di inferenza delle massime di esperienza elaborate dalle discipline socio-

criminologiche e deve, soprattutto, stabilirne la piena rispondenza alle specifiche e peculiari

risultanze probatorie, che, sul piano giudiziario, rappresentano l’imprescindibile e determinante

strumento per la ricostruzione dei fatti di criminalità organizzata dedotti nel singolo processo”: ed in

applicazione di tali principi è stato ritenuto che la valutazione dei rapporti tra mafia ed imprenditori

in zone controllate da organizzazioni criminali non può essere fondata su stereotipi socio-criminali,

ma deve trovare base giustificativa nelle risultanze probatorie attinenti al caso di specie per

distinguere, in concreto, la fluida linea di confine tra situazioni di "contiguità compiacente" e

situazioni di "contiguità soggiacente", dato che nel primo caso l'imprenditore è complice

dell'associazione mafiosa e nel secondo è, invece, la vittima delle attività delinquenziali (Cass., Sez.

I, 5 gennaio 1999, P.M. in proc. Cabib, in Foro it., 1999, II, 631 con nota di VISCONTI).

5. - La mancanza della motivazione.

La mancanza della motivazione è esplicitamente annoverata dall’art. 606, comma 1, lett. e)

tra i vizi della motivazione censurabili dalla Corte di legittimità.

E’ opinione unanime che l’omessa motivazione non deve essere intesa unicamente in senso

materiale o grafico (ossia, con riguardo all’ipotesi, raramente riscontrabile, dell’inesistenza della

parte del documento destinata a contenere i “motivi della decisione”), ma anche come mancanza dei

“singoli momenti esplicativi, sempre però che questi siano ineliminabili nel rapporto tra i temi sui

quali si doveva esercitare il giudizio e il contenuto di questo” (Relazione al progetto preliminare, p.

133). Il vizio in esame è stato riconosciuto anche quando “la motivazione adottata non sia

rispondente ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui

è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche

pertinenti dedotte dalle parti (Cass., Sez. IV, 15 novembre 1996, Izzi, rv. 206322; Cass., Sez. I, 25

maggio 1995, Di Martino, rv. 202133; Cass., Sez. I, 3 febbraio 1994, Sciacca, rv. 196361), tanto che

21

risulti non intellegibile il filo logico seguito dal giudice di merito nella ricostruzione del fatto o che le

linee argomentative si presentino del tutto scoordinate e incoerenti, al punto che rimangono

assolutamente incomprensibili le ragioni che hanno giustificato la decisione (Cass., Sez. I, 23

novembre 1993, Russi, in Mass. Cass. pen., 1994, fasc. 3, 64).

Il medesimo vizio di mancanza della motivazione è stato ritenuto esistente anche in caso di

motivazione con l’uso di modulo a stampa, nel quale, in assenza di qualsiasi integrazione riferita al

caso di specie, siano contenute espressioni riproducenti pedissequamente l’inesistenza delle

condizioni previste dalla legge per la pronuncia di una decisione favorevole (Cass., Sez. I, 22 aprile

1994, Caldaras, rv. 197465).

Tutte le ipotesi esaminate sono riconducibili nella figura della motivazione apparente,

caratterizzata dalla totale assenza di un qualsiasi discorso giustificativo della decisione e, dunque,

coincidente col vizio di mancanza della motivazione: allo stesso tipo di vizio fanno riferimento

talune sentenze quando qualificano come motivazione fittizia quella che non consente di individuare

la ratio decidendi per il fatto che il giudice di merito si è limitato ad enunciare frasi stereotipe o di

stile (Cass., Sez. I, 13 marzo 1992, P.M. in proc. Bonati ed altri, in Arch. nuova proc. pen., 1992,

113).

Nell’esaminare i rapporti tra controllo di legittimità e conformazione legale dell’obbligo di

motivazione si è già visto che la giurisprudenza della Cassazione ammette la legittimità della

motivazione implicita, precisando che il giudice di merito, per giustificare la decisione, non deve

esaminare tutte le emergenze probatorie ma soltanto quelle ritenute essenziali per la formazione del

suo convincimento, sicchè quelle non menzionate devono intendersi implicitamente disattese.

Inoltre, si è ritenuto non configurabile il vizio di mancanza della motivazione quando

l’omissione riguardi temi di indagine non dedotti con i motivi di appello (Cass., Sez. IV, 24 giugno

1993, Foti, rv. 195324; Cass., Sez. I, 25 febbraio 1991, Pace, rv. 187950) o dedotti con motivi che

22

rendono inammissibile il ricorso perché generici o manifestamente infondati (Cass., Sez. V, 18

febbraio 1992, Cremonini).

Le posizioni della giurisprudenza di legittimità sono tendenzialmente favorevoli ad ammettere

la motivazione per relationem e una simile propensione ha ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite

allorchè è stato ritenuto che non può ritenersi mancante di motivazione un’ordinanza di custodia

cautelare che, relativamente all’esposizione degli indizi di colpevolezza, faccia esclusivo riferimento

alle argomentazioni contenute nella richiesta del pubblico ministero (Cass., Sez. Un., 26 febbraio

1991, Bruno, in Cass. pen., 1991, II, 490). L'utilizzazione della motivazione per relationem occupa

un ruolo centrale relativamente al controllo della sentenza di appello, i cui vuoti motivazionali sono

ritenuti integrabili attraverso il riferimento alla sentenza di primo grado, sul presupposto che la

decisione di secondo grado non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta

ed essenziale correlazione con quella che l'ha preceduta, allorchè entrambe si sviluppino secondo

linee logiche e giuridiche pienamente concordanti, tanto che la motivazione della prima si salda con

quella della seconda fino a formare un solo complessivo corpo argomentativo e un tutto unico e

inscindibile. Tuttavia, sono stati giustamente precisati i limiti della motivazione per relationem

sottolineando che il mero riferimento alla sentenza di primo grado è consentito soltanto quando le

censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da

quelli già esaminati e disattesi dal giudice di primo grado: per contro, il rinvio meramente adesivo

alla sentenza appellata è stato giudicato violazione dell’obbligo della motivazione quando con

l'appello sia stata sollecitata una valutazione critica della decisione con specifiche censure o siano

intervenute nel giudizio di secondo grado nuove acquisizioni probatorie (cfr. Cass., Sez. Un., 4

febbraio 1992, Ballan ed altri, in Cass. pen., 1992, 2663; Cass., Sez. IV, 22 dicembre 1995, rv.

204175; Cass., Sez. IV, 25 febbraio 1999, Zodi, rv. 213135; da ultimo, v. Cass., Sez. I, 23 ottobre

2000, Russo ed altri).

23

E’ importante segnalare che la giurisprudenza di legittimità ha attenuato il rigore della

disposizione che richiede la desumibilità della mancanza di motivazione dal testo del provvedimento

impugnato, precisando che il divieto riguarda soltanto i veri e propri atti probatori e non

indiscriminatamente tutti gli atti del processo, con la conseguenza che l’esistenza del vizio può essere

accertata anche mediante l’esame dei motivi di appello, dato che questi segnano l’ambito della

cognizione devoluta al giudice di secondo grado e rendono, quindi, verificabile l’omessa

motivazione su uno dei temi per i quali sussisteva il potere-dovere di esporre le ragioni della

decisione (Cass., Sez. Un., 3° aprile 1997, Dessimone, cit.; Cass., Sez. II, 21 dicembre 1994, in

Giur. It., 1996, II, 476, con nota di SMERIGLIO).

La giurisprudenza prevalente esclude che la mancanza della motivazione possa essere

considerata come "error in procedendo" censurabile a norma dell’art. 606, 1° comma, lett. c) c.p.p.

e nega, quindi, che l’omessa motivazione possa qualificarsi come violazione di una norma

processuale stabilita a pena di nullità, ritenendo conseguentemente che tale vizio possa essere

dedotto soltanto nei limiti stabiliti dalla lett. e) dell’art. 606 per la ragione che, rispetto alla prima,

quest’ultima disposizione ha carattere di specialità (Cass., Sez. Un., 26 febbraio 1991, Bruno, cit.;

Cass., Sez. Un., 25 ottobre 1994, De Lorenzo, in Cass. pen., 1995, 869).

La qualificazione della mancanza di motivazione come vizio della motivazione ex art. 606,

comma 1, lett. e) ha rilevanti implicazioni non solo sul piano della preclusione dell’esame degli atti

del procedimento, ma anche sotto il profilo dell’esperibilità del ricorso diretto in cassazione contro le

sentenze (art. 569 c.p.p.) e in materia di misure cautelari personali (art. 311, comma 2, c.p.p.) e reali

(art. 325, comma 1, c.p.p.), nonchè di misure di prevenzione (artt. 4, comma 10 della l. 27.12.1956,

n. 1423, richiamato dall'art. 3 ter, comma 2 della l. 31.5.1965, n. 575). Al fine di ampliare le

possibilità di tutela immediata apprestata dall’ordinamento mediante la previsione del ricorso per

saltum, si è formato un cospicuo orientamento giurisprudenziale che ha ammesso l’impugnazione

24

diretta in cassazione nei casi nei quali la motivazione, pur formalmente presente, sia, tuttavia,

inficiata da vizi così macroscopici da oltrepassare i confini della manifesta illogicità e da risolversi in

una motivazione meramente fittizia e apparente, tanto da presentare fratture ed aporie argomentative

così vistose da rendere incomprensibili le ragioni della decisione (Cass., Sez. III, 12 giugno 1998,

Suraci, rv. 211552; Cass., Sez. I, 2 ottobre 1997, P.G. in proc. Nocera ed altri, rv. 209129; Cass.,

Sez. II, 4 aprile 1997, Sorbo, rv. 207416; Cass., Sez. VI, 18 giugno 1996, Acampora, rv. 205897).

In questi casi la mancanza di motivazione è assimilata, nella sostanza, al vizio di violazione di legge,

nel quale finisce per confluire, allo scopo di estendere la garanzia costituzionale ex art. 111 Cost.

relativa alla insopprimibilità del ricorso in cassazione per violazione di legge.

6. - Il travisamento del fatto.

Si discute se il travisamento del fatto possa essere utilmente dedotto col ricorso per

cassazione quale vizio logico della motivazione.

Per travisamento si intende generalmente la divergenza tra i risultati probatori posti a base

della decisione e quelli emergenti dagli atti processuali: esso corrisponde ad una situazione nella

quale il giudice afferma l’esistenza di fatti esclusi dalle risultanze processuali ovvero esclude fatti che

sono, invece, provati. In particolare, nella tipologia del travisamento sono stati individuati tre diversi

vizi, distinti in relazione alle cause che ad essi hanno dato origine: travisamento conseguente

all’omessa valutazione di una prova acquisita, travisamento derivante dalla supposizione di una prova

inesistente e travisamento causato dallo scorretto apprezzamento di una o più prove (RENON,

Spunti per una riconsiderazione del travisamento del fatto come motivo di ricorso in cassazione, in

Cass. pen., 1996, 557).

Nonostante l’esplicito divieto contenuto nella Relazione al progetto preliminare del codice

1930, la giurisprudenza -sia pure con frequenti oscillazioni- aveva progressivamente esteso l’ambito

del sindacato della motivazione fino a ricomprendervi il rilievo del travisamento del fatto,

25

considerato quale causa di nullità della sentenza per difetto della motivazione, a condizione che il

contrasto tra rappresentazione giudiziale e realtà processuale fosse manifesto e cadesse su fatti

decisivi per il giudizio (cfr. Cass., Sez. I, 11 marzo 1988, Romeo, in Riv. pen., 1989, 1149, Cass.,

Sez. IV, 28 gennaio 1988, Enoni, in Cass. pen., 1989, 441; in senso contrario v., però, Cass., Sez.

Un., 18 febbraio 1988, Greco ed altri, in Giust. Pen., 1989, III, 155, con nota di GROSSO).

Il legislatore delegato del 1988, ben consapevole delle incertezze della giurisprudenza in

ordine alla deducibilità del travisamento del fatto, ha inteso arginare tale tendenza, apprestando una

disciplina fondata sulla tipicizzazione del motivo di ricorso di cui all’art. 606, 1° comma, lett. e),

nella cui previsione sono esauriti tutti i possibili vizi logici della motivazione: con la conseguenza

che, in forza del tassativo sbarramento costituito dal testo del provvedimento impugnato, l’indagine

della Cassazione sulla motivazione di fatto deve essere necessariamente contenuta nell'ambito dei

dati probatori indicati nella decisione dei giudici di merito e non può ovviamente espandersi fino ad

accertare se la ricostruzione dei fatti sia realmente rispondente alle risultanze probatorie acquisite

negli atti del processo.

In dottrina il limite della rilevanza testuale del vizio è considerato dalla maggior parte degli

autori non idoneo ad impedire la deducibilità in cassazione del travisamento del fatto, con

argomentazioni non sempre omogenee, imperniate, per lo più, sulla configurazione di un error in

procedendo, come tale inquadrabile nella previsione dell’art. 606, 1° comma, lett. c), che, come è

noto, non preclude al giudice di legittimità l’esame degli atti processuali (BARGI, Il ricorso per

cassazione cit., 529 ss.; FERRUA, Il sindacato di legittimità cit., 121; LOZZI, Carenza o manifesta

illogicità della motivazione e sindacato del giudice di legittimità, in Riv. it. Dir. e proc. pen., 1992,

768; IACOVIELLO, Il controllo della Cassazione sulle prove: prove invalide, prove travisate,

prove ignorate, in Cass. pen., 1994, 1244).

26

Per contro, nella giurisprudenza l'indirizzo largamente prevalente esclude che, nel giudizio di

cassazione, possano essere prese in considerazione censure concernenti il travisamento dei fatti,

poiché il sindacato sulla logicità della motivazione può essere esercitato esclusivamente sul testo del

provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di verificarne le effettiva corrispondenza alle

risultanze processuali (Cass., Sez. I, 10 gennaio 2000, Pixner, rv. 215336; Cass., Sez. III, 20

novembre 1998, Forlani, in Arch. Nuova proc. pen., 1999, 49; Cass., Sez. II, 28 febbraio 1997,

Santilli, rv. 207412; Cass., Sez. II, 1° ottobre 1996, Pagano, in Giust. Pen., 1997, III, 275; Cass.,

Sez. VI, 31 ottobre 1995, Cuoco, rv. 204645). A questa stessa linea di pensiero è riconducibile la

posizione che ammette la censurabilità del travisamento del fatto, a condizione, però, che esso si

traduca nel vizio di mancanza o di manifesta illogicità della motivazione e che risulti dal testo del

provvedimento impugnato (Cass., Sez. VI, 16 ottobre 1995, Pulvirenti, in Cass. pen., 1997, 1397,

con nota di CANTONE; Cass., Sez. II, 1° ottobre 1996, Giuffrida, rv. 206277; Cass., Sez. I, 26

ottobre 1995, Lorenzi, rv. 203251), nel senso che al travisamento può attribuirsi rilevanza soltanto

quando il giudice, dopo avere fatto propria una determinata ricostruzione dei fatti, ne tragga, sul

piano giuridico, conclusioni confliggenti con la stessa, che presuppongono, sotto il profilo logico,

una ricostruzione diversa (Cass., Sez. I, 15 dicembre 1999, Morabito, rv. 215291; Cass., Sez. I, 13

gennaio 1999, Di Cuonzo, rv. 213252). E l'antinomia tra premesse fattuali indicate nella

motivazione e contenuto della decisione, che postula una opposta ricostruzione del fatto, finisce,

così , per identificarsi con l'illogicità manifesta tipicizzata come motivo di ricorso dall'art. 606,

comma 1, lett. e) c.p.p.-

A questo orientamento pressochè unanime si contrappone un indirizzo nettamente minoritario

che include il travisamento del fatto tra i vizi deducibili col ricorso per cassazione. In talune

pronunce è stato sostenuto che il travisamento del fatto non sfugge al sindacato di legittimità, in

quanto la disposizione di cui all’art. 606, 1° comma, lett. e) c.p.p. condiziona la deducibilità della

27

censura, ma non si riflette sui poteri di accertamento della Corte di cassazione, nei quali è compresa

la possibilità di confrontare il testo della motivazione con gli atti del procedimento (Cass., Sez. VI,

18 febbraio 1994, Goddi, rv. 197861; Cass., Sez. II, 13 luglio 1993, Sgrò, rv. 197861; Cass., Sez. V,

16 ottobre 1992, D’Ammando, rv. 193168): non si vede, però, come la possibilità di indagini

extratestuali possa reputarsi compatibile con la disposizione che espressamente delimita al testo del

provvedimento impugnato l'ambito del sindacato sulla motivazione in fatto. Invece, in altre sentenze

il travisamento del fatto è stato inquadrato nel motivo di ricorso previsto dalla lett. c) dell’art. 606

per la ragione che tale vizio dà origine all’invalidità della sentenza in forza del combinato disposto

degli artt. 546, comma 3, e 125 c.p.p., da cui risulta che la completezza della motivazione è

prescritta a pena di nullità, onde dalla qualificazione come "error in procedendo" è tratto il corollario

dell'ammissibilità del controllo degli atti da parte della Corte di legittimità (Cass., Sez. I, 19 marzo

1991, Cinque, in Cass. pen., 1992, 2111: con riferimento all’omessa considerazione di una prova

decisiva risultante dagli atti v. Cass., Sez. II, 23 ottobre 1996, Ercolano, in Arch. nuova proc. pen.,

1997, 153).

Sul contrasto di giurisprudenza sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione,

che hanno ribadito il limite della rilevanza testuale del vizio denunciabile nel giudizio di legittimità,

ammettendo la possibilità del sindacato soltanto se il travisamento del fatto sia riconducibile nella

previsione della lett. e) dell’art. 606: è stato precisato, tuttavia, che l’accertamento diviene possibile

quando il ricorrente dimostri la “avvenuta rappresentazione al giudice della precedente fase

d’impugnazione degli elementi dai quali quest’ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento,

sicchè la Corte possa, a sua volta, desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come quegli

elementi siano stati valutati” (Cass., Sez. Un., 30 aprile 1997, Dessimone, in Cass. pen., 1997,

3327). Non consta che, dopo l'intervento delle Sezioni Unite, siano state pronunciate sentenze

favorevoli alla deducibilità del travisamento come motivo di ricorso.

28

Il rimedio di talune forme di travisamento attraverso il controllo dei motivi di appello e la

congiunta verifica dell'esame che ne ha compiuto il giudice dell'impugnazione sposta l'indagine sul

piano del vizio della mancanza della motivazione, nel senso che l'omessa risposta ad una specifica

censura dell'appellante, vertente su un elemento decisivo, determina l'incompletezza della

motivazione che giustifica l'annullamento della decisione. Lo stesso rimedio, peraltro, non ha

possibilità di impiego quando il giudizio di primo grado si sia concluso con una pronuncia di

assoluzione e la condanna dell'imputato sia intervenuta nel giudizio di appello a seguito

dell'impugnazione del pubblico ministero ovvero quando la decisione sia inappellabile a norma

dell'art. 593 c.p.p.- In questi casi, non è possibile il controllo, attraverso i motivi di impugnazione,

della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e restano, quindi, praticamente non emendabili

dalla Corte di legittimità i vizi di travisamento risultanti dall'omesso esame di prove decisive o dalla

supposizione dell'esistenza di un fatto di cui non è traccia alcuna negli atti processuali.

Una notazione conclusiva in tema di travisamento non può ignorare che la via seguita dalla

giurisprudenza è l'unica conforme alle linee della disciplina vigente, dettata esclusivamente da ragioni

pratiche tendenti ad impedire la possibilità di sconfinamenti della Corte di legittimità nella valutazione

del fatto. Tuttavia, non può neppure sottacersi che, nonostante la ritenuta conformità al precetto

costituzionale ex art. 111 Cost., la norma di chiusura apposta al controllo logico della motivazione

comporta certamente il sacrificio di esigenze di giustizia sostanziale, reintegrabili col mezzo

straordinario della revisione nei soli casi nei quali il travisamento del fatto assuma la forma nell'errore

di fatto di tipo percettivo, consistente, in assenza di qualsiasi profilo valutativo, nell'omessa

valutazione delle prove acquisite. In una simile situazione, infatti, l'esperibilità del rimedio della

revisione a norma dell'art. 630 lett. c) c.p.p. può essere argomentatamente affermata facendo leva

sull'indirizzo giurisprudenziale che, proprio in relazione ai limiti del sindacato logico della

motivazione risultanti dall'art. 606 lett. e), giustamente considera come nuove prove anche quelle già

29

acquisite agli atti del processo e non valutate, neppure implicitamente, dal giudice della cognizione

(Cass., Sez. I, 6 ottobre 1998, Bompressi ed altri, in Foro it., 1998, II, 729).

7. - Esame di alcune recenti iniziative legislative.

Negli ultimi due anni il processo penale ha subito radicali modificazioni che hanno

profondamente trasformato il disegno originario del codice. L'evoluzione -avviata dalla l. delega

16.7.1997, n. 254, e dal d. l.vo 19.2.1998, n. 51 riguardanti l'istituzione del giudice unico- ha avuto

decisivo impulso e ha ricevuto brusca accelerazione dalla l. cost. 23.11.1999, n. 2, che ha inserito i

principi del giusto processo nell'art. 111 Cost.: da tale epoca si è verificata una incessante e frenetica

sequenza di interventi normativi che hanno investito il processo penale, mutando sovente gli aspetti

fondamentali di numerosi istituti. Nell'arco di tempo segnato dalla l. 16.12.1999, n. 479 (la c.d.

"legge Carotti") e dalla legge, approvata pochi giorni fa, in materia di formazione e valutazione della

prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'articolo 111 della Costituzione si sono

susseguite corpose innovazioni dell'assetto del rito penale, quali quelle introdotte dalla l. 5.6.2000, n.

144, contenente modificazione ai termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato, dalla

l. 7.12.2000, n. 397, relativa alle indagini difensive, e dalla l. 19.1.2001, n. 4, che, col generico titolo

concernente le "disposizioni urgenti per l'efficacia e l'efficienza dell'Amministrazione della giustizia",

ha introdotto rilevanti novità in tema di separazione di procedimenti, di custodia cautelare, di

redazione della sentenza, di giudizio abbreviato, di esecuzione penale. Le nuove normative sono

accompagnate spesso da disposizioni transitorie non sempre perspicue e lineari.

Le disposizioni create da tale congerie di testi legislativi hanno avuto una cospicua incidenza

sul lavoro della Corte di Cassazione, che è stata chiamata a risolvere vari problemi, legati soprattutto

a delicate questioni di diritto intertemporale, ed è stata sollecitata a pronunciare su questioni di

legittimità costituzionale di numerose norme del codice in riferimento all'enunciazione del principio

del giusto processo di cui all'art. 111 Cost., nella formulazione della l. cost. n. 2 del 1999. L'unica

30

disposizione che ha diretti riflessi sul sindacato della motivazione di fatto concerne la materia delle

misure cautelari personali, essendo stato modificato dall'art. 10 della legge di attuazione del

giusto processo in materia di valutazione delle prove -approvata definitivamente nel corrente mese

di febbraio e non ancora pubblicata al momento della stesura della presente relazione- l'art. 273

c.p.p., con l'aggiunta del comma 1-bis, che ha dichiarato applicabili nella valutazione dei gravi indizi

di colpevolezza le disposizioni degli articoli 192, commi 3 e 4, 195, comma 7. Sono state così

ribaltate le posizioni consolidate della giurisprudenza di legittimità, cristallizzate da una nota sentenza

delle Sezioni Unite con cui era stato deciso che le disposizioni generali sulle prove, contenute nel

titolo I° del libro III° del codice, non sono applicabili alla fase delle indagini preliminari né sono

riferibili alla valutazione dei gravi indizi indispensabili per l'emissione delle misure cautelari personali

(v. Cass., Sez. Un., 21 aprile 1995, Costantino ed altro, in Cass. pen., 1995, 2837). Da ciò deriverà

probabilmente la necessità di riesaminare posizioni consolidate in materia di gravità indiziaria ex art.

273 e, tenuto conto che i ricorsi contro i provvedimenti riguardanti la libertà personale rappresentano

una parte considerevole dell'attività della Cassazione penale, è facile prevedere che la nuova norma

provocherà un ulteriore aggravio di lavoro.

Non è facile tentare di cogliere le prospettive dischiuse da riforme dettate, il più delle volte da

esigenze contingenti e non sempre rispondenti ad un progetto organico, né è agevole prefigurare gli

effetti che deriveranno dal loro impatto sul processo penale, già scosso da una crisi profonda, che -

vanificato qualsiasi punto di riferimento certo ed affidabile- ha spinto taluni autori a parlare di

"caos" della giurisdizione penale, per il cui superamento non resta che riscrivere integralmente il

codice.

Quella che è assolutamente certa ed unanimamente avvertita è la consapevolezza che sono

stati superati ormai i livelli di guardia per il corretto svolgimento del ruolo della Corte di legittimità,

dinanzi alla quale affluiscono ogni anno più di cinquantamila ricorsi. Di fronte ad una così massiccia

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mole di lavoro occorre chiedersi se abbia ancora senso individuare nel ricorso generalizzato ex art.

111 Cost. una garanzia insopprimibile della giurisdizione e se, in simili condizioni, sia ancora

possibile l'esercizio della funzione di nomofilachia.

Un tentativo di razionalizzazione dell'attività della Cassazione penale è contenuto in un

disegno di legge, approvato dalla Camera dei deputati ed ora all'esame del Senato, concernente

"interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini" (c.d. "pacchetto sicurezza"),

che, all'art. 6, prevede profonde modificazioni della disciplina dettata dagli attuali artt. 610 e 611,

stabilendo che tutti i ricorsi nei quali sia rilevabile una causa di inammissibilità sono assegnati ad

un'apposita sezione predeterminata con rotazione biennale in base al provvedimento tabellare

riguardante la Corte di cassazione (art. 169 bis delle norme att.): tale sezione provvederà a

dichiarare l'inammissibilità dei ricorsi con le forme di cui all'art. 611 c.p.p.- Dalla discussione svoltasi

nell'aula della Camera emerge che l'intento è quello di "creare una sezione filtro" e "di fare in modo

che la Corte di Cassazione indirizzi il proprio lavoro alle questioni di legittimità che le sono

sottoposte, eliminando tutto ciò che è palesemente inammissibile". La riforma in itinere ha ricevuto,

peraltro, non poche obiezioni e rilievi critici nella stessa discussione parlamentare, essendo stato

osservato che essa crea un meccanismo farraginoso e complicato che non riuscirà a semplificare

l'attività della Corte, col rischio, anzi, di allungare i tempi di definizione dei ricorsi.

E' interessante rilevare che nello stesso art. 6 del disegno di legge è previsto l'inserimento nel

codice dell'art. 625-bis, che ammette, a favore del condannato, il ricorso straordinario per errore

materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di Cassazione. Su una

norma così importante non è dato cogliere alcuna precisa indicazione nei lavori parlamentari se non

quella desumibile dell'intervento in aula dell'on. Pecorella, il quale ha sottolineato che, in mancanza di

qualsiasi precisazione sulla nozione di errore di fatto, l'innovazione "potrebbe risultare pericolosa,

configurando per ogni provvedimento definito la possibilità di presentare un nuovo ricorso". L'unica

32

spiegazione ragionevole può essere data ritenendo che la proposta intenda introdurre nel processo

penale una disciplina analoga a quella contenuta nell'art. 391-bis c.p.c., che, con riguardo alle

sentenze della Cassazione civile affette da errore di fatto ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c., ammette la

revocazione quando la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o dai documenti

della causa, nel senso che la decisione della Corte di legittimità "è fondata sulla supposizione di un

fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la

cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso il fatto non costituì un

punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare".

Va precisato, al riguardo, che l'errore di fatto interno al giudizio di legittimità, non

emendabile mediante la procedura di correzione dell'errore materiale ai sensi dell'art. 130 c.p.p.,

costituisce una tematica estremamente delicata e di viva attualità. Sul punto deve segnalarsi che, in

riferimento ad un caso di dichiarazione di inammissibilità del ricorso proposto dal difensore non

munito di specifico mandato prima della modifica dell'art. 571, 3° comma, c.p.p., la Corte di

Cassazione, rilevato che tale atto risultava, invece, regolarmente presente tra gli atti del processo, ha

sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 629/630 e ss. c.p.p., nella parte in cui non

prevedono la revisione della decisione per errore di fatto (materiale e meramente percettivo) nella

lettura di atti interni al giudizio (Cass., Sez. IV, 5 maggio 1999, Cervati). La Corte Costituzionale ha

dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale osservando che l'errore di tipo

percettivo, in cui sia incorso il giudice di legittimità e dal quale sia derivata l'indebita compromissione

del diritto al processo in cassazione, deve avere un necessario rimedio, per cui spetta alla stessa

Corte di Cassazione svolgere appieno la propria funzione di interpretazione adeguatrice del sistema,

individuando, all'interno di esso, lo strumento riparatorio più idoneo (Corte cost., sent. 28 luglio

2000, n. 395). La questione è ora pendente dinanzi alle Sezioni Unite Penali e sarà esaminata

all'udienza del 31.3.2001.

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Data l'imminenza della fine della legislatura, è verosimile che il "pacchetto sicurezza" non

potrà essere tempestivamente approvato dal Senato, sicchè dovrebbe rimanere inalterato il testo degli

artt. 610 e 611, la cui disciplina, del resto, già oggi permetterebbe di procedere ad un tentativo di

razionalizzazione dell'attività della Corte mediante idonei provvedimenti adottabili, nel quadro della

legislazione vigente, nell'esercizio dell'autonomia organizzativa.

In quest'ottica deve essere interpretata la recente circolare ministeriale n. 582 del 6.2.2001,

emanata a seguito di specifica sollecitazione del Primo Presidente, con cui è stata regolata la

trasmissione degli atti del procedimento penale in caso di ricorso per cassazione, disponendo che gli

uffici giudiziari inviino alla Corte non tutti gli atti processuali, spesso racchiusi in numerosi faldoni,

ma unicamente il ricorso, la sentenza impugnata, la sentenza di primo grado, l'atto di appello, le

ordinanze emesse dal giudice di merito nel dibattimento e impugnate con la sentenza. Nella nota in

data 15.2.2001 del Primo Presidente Aggiunto è opportunamente specificato che la selezione degli

atti da inviare alla Corte è rispondente "alla struttura e alla funzione proprie del giudizio di

legittimità, in considerazione dei limitati profili del vizio di motivazione denunziabile mediante ricorso

a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p.".

8. - Considerazioni conclusive.

Le considerazioni sin qui esposte permettono di formulare brevi riflessioni sul ruolo della

Corte di cassazione e sul giudizio di legittimità, nella duplice dimensione di controllo della retta

applicazione della legge sostanziale e processuale e di controllo logico della motivazione.

Con riferimento al sindacato dei vizi logici della motivazione, già nel vigore del codice del

1930 erano stati denunciati frequenti sbandamenti verso la rivalutazione del fatto da parte del giudice

di legittimità ed era stato auspicato il contenimento entro limiti rigorosi della verifica della

congruenza logico-giuridica dei risultati del ragionamento probatorio, sì da evitare che la Cassazione

potesse assumere la funzione di una Corte di terza istanza e da agevolare il corretto svolgimento

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delle funzioni di Corte di pura legittimità, garante dell’uniforme applicazione del diritto e presidio dei

principi di certezza e di legalità (cfr. La Cassazione penale: problemi di funzionamento e di ruolo, in

Foro it., 1988, V, 442 ss.).

Con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, la previsione di uno specifico

ed autonomo motivo di ricorso, caratterizzato da precisi e tassativi limiti di deducibilità dei vizi logici

della motivazione, era stata salutata con favore da alcuni settori della dottrina perchè considerata

strumento idoneo ad assicurare il rispetto dell’ambito del giudizio di legittimità e a contenere la

tentazione di penetrare nella rivalutazione del merito. C’è da chiedersi, però, se tali speranze non

siano rimaste, in gran parte, deluse quando si tiene presente che nell’assemblea generale della Corte

di cassazione, tenutasi il 23 aprile 1999, è stato rilevato che è restato irrisolto il discrimine tra giudice

di diritto e giudice di terza istanza ed è stata sottolineata l’esigenza di non “alterare e rendere ibrido

il giudizio di legittimità, forzandolo a dare risposte che esso non è attrezzato a dare” (ZUCCONI

GALLI FONSECA, Introduzione, in Foro it., V, 1999, 164). Ed è estremamente significativo che,

nella nota del Primo Presidente in data 10 marzo 1999, sia stato constatato il frequente superamento

dei confini del sindacato dei vizi logici della motivazione delle sentenze impugnate e sia stata indicata

“la sempre più accentuata tendenza della corte a travalicare i limiti del giudizio di legittimità”, tanto

da ritenere necessario un monitoraggio delle sentenze di annullamento con rinvio, affidato all’Ufficio

del massimario, al fine di accertare quale sia il grado di osservanza delle norme che regolano il

sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione dei provvedimenti impugnati (v. in Foro it.,

1999, V, 215). Non si conosce se l’indagine sia stata realmente compiuta e, in caso affermativo,

quali siano stati i risultati.

Non è questa la sede per individuare le molteplici cause che rendono difficile per il giudice di

legittimità resistere al richiamo del fatto e alla tentazione di sostituire una propria ricostruzione

storica a quella compiuta dal giudice di merito. Alla base del fenomeno è identificabile, oltre a fattori

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di ordine storico e culturale, una malintesa esigenza di giustizia sostanziale, che spinge il giudice di

legittimità ad immergersi nell’accertamento del fatto per privilegiare la soluzione ritenuta più equa nel

caso singolo. Così operando, tuttavia, il giudice di legittimità mostra un’allarmante carenza di

consapevolezza del proprio ruolo, il cui connotato essenziale è quello, e solo quello, di garanzia della

legalità delle pronunce giurisdizionali e, in ultima analisi, di presidio del primato della legge, alla

quale -secondo il dettato costituzionale (art. 101, 2° comma, Cost.)- sono soggetti tutti i giudici,

compresa ovviamente la Corte di cassazione, vincolata all’osservanza dei limiti legali che ne

conformano la fisionomia. In altri termini, la rilevanza costituzionale della Cassazione (art. 111,

comma 7, Cost.) e la sua particolare collocazione all’interno del sistema processuale non hanno altra

base giustificativa che quella del controllo del rispetto delle regole giuridiche che presiedono allo

sviluppo del processo e alla formazione della decisione delle questioni di diritto e di fatto. E tra tali

regole, la cui cogenza rappresenta il primo necessario referente della giustizia della decisione, devono

essere incluse tanto la coerenza e la congruenza logica del ragionamento probatorio sviluppato dal

giudice di merito quanto il divieto per la Corte di legittimità di sostituirsi a questo

nell’apprezzamento delle prove e nella ricostruzione del fatto.

In definitiva, anche se il panorama complessivo è fatto più di ombre che di luci, può ritenersi

che, tutto sommato, la Cassazione sia riuscita ad adempiere l’arduo compito di garante della legalità

e che, pur non essendo mancati fraintendimenti ed incertezze nell’esercizio delle funzioni di

legittimità, questi non siano stati tali da giustificare le posizioni favorevoli ad un ritorno della

Cassazione alla figura della “Corte Suprema”, depositaria della sola funzione nomofilattica e

completamente estranea al sindacato del giudizio di fatto, sia pure limitato alla logicità della

motivazione. L'avvento di una Corte Suprema con funzioni circoscritte al controllo del giudizio di

mero diritto non solo appare irrealistico rispetto all'attuale contesto sociale, ma, per più versi, sembra

più dannoso degli inconvenienti che si vorrebbero eliminare, essendo evidente che sancire la non

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sindacabilità di giudizi di fatto arbitrari e privi di razionalità significherebbe contribuire ad una caduta

del valore della legalità (questo, sì , supremo), con pregiudizi certamente irreparabili per la credibilità

della giurisdizione.

Giovanni Silvestri

Consigliere della Corte Suprema di Cassazione