forum quaderni costituzionali rassegna 9 2014

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Novità dal Forum – Rassegna 9/2014

INDICE

TEMI D’ATTUALITÀ – FORMA DI GOVERNO E RIFORME COSTITUZIONALI

Al rinvio parziale corrisponde la promulgazione parziale? – S. Curreri

I PAPER DEL FORUM

Questioni di costituzionalità dichiarate inammissibili sulla base di diversi motivi di

inammissibilità: osservazioni sulla natura decisoria e sugli effetti preclusivi di tali pronunce

(… alla luce della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale) – A. Bonomi

Come vota il civilmente incapace? – F. Dalla Balla

Mutamenti costituzionali e politiche migratorie nei Paesi dell’Islam mediterraneo. Il caso

egiziano – G. Piluso

GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2014

Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti: la sentenza n.

170 del 2014 sul c.d. “divorzio imposto”(170/2014) – G. Brunelli

Conflitto intersoggettivo su atto meramente esecutivo ed impugnazione in via principale

della relativa base legale (sent. 71/2014) – D. Monego

Lo “slittamento dei seggi” all’esame della Corte costituzionale (sent. 41/2014) – G. Tarli

Barbieri

La Corte costituzionale torna a pronunciarsi sui costi della politica regionale, ma stavolta

neppure la specialità vale a salvare le Regioni dai “tagli” (sent. 23/2014) – G. Mobilio

La Corte conferma che le ragioni del coordinamento finanziario possono fungere da

legittima misura dell’autonomia locale (sent. 22/2014) – F. Cortese

GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2013

Autonomie speciali e riparto delle competenze: quando la casistica prevale sulla

sistematica (sent. 298/2013) – C. Mainardis

GIURISPRUDENZA – CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

S.A.S vs France. Strasburgo conferma il divieto francese al burqa con l’argomento del

“vivere insieme” – I. Ruggiu

TELESCOPIO

U.S.A.: Brown 60 anni dopo. Il difficile cammino dell’integrazione razziale – A. D’Aloia

U.S.A.: Town of Greece Vs Galloway et al. – La Corte Suprema degli Stati Uniti ritorna

sulla costituzionalità della preghiera nelle assemblee pubbliche – D. Mercadante

LETTERE AL FORUM

Ancora a questo siamo – C. Fusaro

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AUTORECENSIONI

Giuseppe Di Gaspare,Teoria e critica della globalizzazione finanziaria, dinamiche del

potere finanziario e crisi sistemiche(2012)

Luigi Franco,La delegazione legislativa e i tempi dell’ordinamento (2014)

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Al rinvio parziale corrisponde la promulgazione parziale?*

di Salvatore Curreri(25 settembre 2014)

Complice un esame in Aula fortemente ideologizzato, caratterizzato più da scontri regolamentari e teatrali proteste che critiche circostanziate e specifiche, il testo del disegno di legge di riforma costituzionale approvato dal Senato lo scorso 8 agosto (A.S. n. 1429) “racchiude al proprio interno molti punti oscuri e veri e propri misteri, oltre che non rimosse incoerenze ed incertezze espressive” (Ruggeri). Tra queste, mi pare possa annoverarsi la nuova formulazione dell’art 74 Cost., secondo cui: “il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione, anche limitata a specifiche disposizioni. Qualora la richiesta riguardi la legge di conversione di un decreto adottato a norma dell'articolo 77, il termine per la conversione in legge è differito di trenta giorni. Se la legge o le specifiche disposizioni della legge sono nuovamente approvate, questa deve essere promulgata” (in corsivo le modifiche al testo vigente proposte dal testo iniziale del Governo; in grassetto quelle introdotte in Commissione a seguito dell’approvazione dell’emendamento 11.1000 dei relatori Finocchiaro e Calderoli).

Rispetto al testo vigente, due sono le innovazioni che si vorrebbero introdurre: il differimento di del termine di conversione dei decreti legge di ulteriori trenta giorni in caso di rinvio del Presidente della Repubblica; l’introduzione del rinvio parziale, non previsto nel testo iniziale presentato dal Governo e introdotto tramite un emendamento dei relatori approvato prima in Commissione affari costituzionali e confermato in Aula. Non è chiaro, però, se, in caso di rinvio parziale, il Presidente della Repubblica possa o no promulgare la restante parte del testo legislativo.

Per rispondere al quesito inutilmente si cercherebbero lumi nel dibattito parlamentare. Né la Commissione (seduta dell’8 luglio), né l’Aula (seduta del 5 agosto) hanno discusso sulla proposta di modifica dell’art. 74 Cost. (art. 14, già 11, A.S. n. 1429-A). L’unica indicazione a sfavore della promulgazione parziale potrebbe trarsi dall’avere l’Aula, tra tutti gli altri emendamenti presentati, respinto anche l’unico (n. 14.3, Milo ed altri) che “in caso di rinvio parziale” prevedeva espressamente la promulgazione delle “parti su cui non è richiesta una nuova deliberazione”. Inoltre, contro l’ipotesi della promulgazione parziale, sta la formulazione letterale della disposizione secondo cui, in caso di nuova approvazione della legge o delle sue specifiche disposizioni, a dover essere promulgata è “questa” (la legge, intesa nella sua interezza) e non “queste” (le sue specifiche disposizioni stralciate in sede di rinvio).

Sembrerebbe, dunque, che al rinvio di parte del testo legislativo non corrisponda la promulgazione della parte restante, poiché non espressamente prevista ed anzi bocciata. Tale ipotesi, però, si scontra con obiezioni logiche e di sistema che paiono difficilmente superabili.

Innanzi tutto c’è un problema di coordinamento con il precedente – e ribadito – primo comma dell’art. 73, secondo cui “le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dalla approvazione”. In caso di rinvio parziale, infatti, il testo legislativo sarebbe diviso in due parti: quella oggetto di rinvio e quella non rinviata in attesa di promulgazione. Poiché, com’è noto, le camere (o – domani – la sola Camera dei deputati)

* Scritto sottoposto a referee. Lo spunto per queste riflessioni critiche mi è stato offerto da una discussione ferragostana via twitter con Giuseppe Arconzo, Daniele Coduti, Irene Pelizzone, Lorenzo Platania, Francesca Rosa e Luca Tentoni che qui desidero pubblicamente ringraziare. Ovviamente le conclusioni sopra esposte sono interamente personali.

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non hanno alcun obbligo di riesaminare il testo rinviato, ne conseguirebbe che la parte del testo legislativa non rinviata, ma neppure promulgata, resterebbe in sospeso sine die, ben oltre il mese dall’approvazione ribadito dall’art. 73, comma 1, Cost. Stante, invece, l’inderogabilità di tale termine, se ne dedurrebbe che prima del suo spirare il Capo dello Stato sarebbe tenuto alla promulgazione del testo legislativo nella parte non rinviata, pur in assenza di una disposizione espressa in tal senso. Il che depone, quindi, per l’implicita affermazione del potere di promulgazione parziale.

Si potrebbe eccepire che, in base all’art. 73, comma 1, Cost., non solo il rinvio del Capo dello Stato ma anche la nuova approvazione da parte delle camere debbano avvenire entro il mese dalla prima approvazione. Ma si tratta di un’ipotesi interpretativa, oltreché inverosimile, priva di fondamento testuale, non essendo, in base alla formulazione letterale della disposizione citata, né il Capo dello Stato tenuto a permettere che le camere si pronuncino nuovamente entro il mese dalla prima approvazione, né queste ultime tenute a deliberare entro tale termine. Piuttosto, in caso di approvazione da parte delle camere, con modifiche o meno, del testo rinviato, il Capo dello Stato procederebbe ad una nuova promulgazione, e non all’integrazione della precedente, avendo essa natura necessariamente unitaria e contestuale (C. cost. 205/1996).

Il richiamo a tale sentenza è utile perché consente di evidenziare come, anche a fronte dell’unica ipotesi di promulgazione parziale prevista dal nostro ordinamento – e cioè quella del Presidente della Regione siciliana nelle parti del testo legislativo approvato dall’Assemblea regionale siciliana non impugnate preventivamente dal Commissario dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale –, la Corte ritiene che essa determini l’esaurimento del potere promulgativo, con conseguente cessazione della materia del contendere (giurisprudenza consolidatissima: da ultimo v. ordinanze nn. 30/2013, 53/2013, 84/2013).

Il richiamo a tale sentenza consente inoltre di superare un secondo argomento invocabile contro la promulgazione parziale. Si potrebbe, infatti, obiettare che l’introduzione del rinvio parziale senza contestuale promulgazione della restante parte risponderebbe all’esigenza di circoscrivere il potere di riesame delle Camere, evitando che esse, profittando del rinvio, possano rimettere in discussione l’intero testo, anche nelle parti non censurate. Ma si tratterebbe di un’intollerabile limitazione del potere legislativo, il quale, in sede di riesame del testo legislativo già precedentemente approvato, non può soffrire alcuna coartazione, né di merito né procedurale, da parte del Presidente della Repubblica, pena la trasformazione della sua funzione di controllo in un potere co-legislativo. In caso di rinvio, così come le Camere non sono tenute ad accogliere i rilievi del Capo dello Stato, parimenti non possono vedere l’esercizio della loro funzione legislativa circoscritta alle sole parti del testo legislativo oggetto del rinvio.

Ciò trova espressa conferma nei regolamenti di Camera e Senato ove è ugualmente sancito che l’Assemblea “può” – e non deve – “limitare la discussione alle parti che formano oggetto del messaggio” del Presidente della Repubblica (artt. 71.2 R.C. e 136.2 R.S.). Ed il fatto che, finora, per prassi, l’esame parlamentare si sia prevalentemente limitato ad esse, non significa certo che un domani non potrebbe estendersi all’intero testo (tanto più nella parti non rinviate epperò in qualche modo – anche politicamente – correlate a quelle oggetto di rinvio), a meno che non si voglia sostenere in modo disincantato che ormai la fonti parlamentare non scritta prevale su quella scritta.

Nulla, pertanto, potrebbe impedire alle camere, nell’esercizio della loro potestà legislativa, di esaminare l’intero testo, anche nelle parti non oggetto di rinvio, introducendo modifiche che potrebbero anche entrare in contrasto con la parte del testo non promulgata, ponendo il Capo dello Stato in una situazione istituzionale di grave incertezza, per evitare la quale l’unica soluzione è appunto consentirgli contestualmente, in sede di primo esame, rinvio e promulgazione parziale.

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Né a ciò osta l’ipotesi che le camere possano, in sede di rinvio, approvare disposizioni in contrasto con quanto in precedenza promulgato dal Capo dello Stato, poiché ciò, a ben riflettere, rientra nella fisiologica autonomia dell’esercizio del potere legislativo, dimostrando peraltro come la promulgazione parziale in nulla coarterebbe la volontà delle Camere. Lo ha chiarito molto bene la Corte costituzionale, nella sentenza citata, quando, di fronte alla censura procedurale del Commissario dello Stato nei confronti dell’Assemblea regionale siciliana per avere approvato una disposizione che abrogava la parte del testo legislativo da esso impugnata e non ancora promulgata dal Presidente della regione, costringendolo così ad una anomala duplice impugnazione, la stessa Corte osservava che “da tale onere il Commissario resterebbe gravato anche nell'ipotesi in cui, diversamente dal caso presente, a una promulgazione parziale della legge seguisse una nuova delibera assembleare a contenuto coincidente con la parte omessa in sede di promulgazione: se la promulgazione parziale determina, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la consumazione del potere di promulgazione del Presidente della Regione Siciliana (…), essa non inibisce certo all'Assemblea il successivo esercizio della potestà legislativa” (205/1996, 2° cons. dir.). Il che significa, in altri termini, che la promulgazione di un testo legislativo privo delle parti oggetto d’impugnazione non impedisce certo la loro riapprovazione da parte delle camere, con possibile nuovo rinvio o promulgazione. Non si tratterebbe quindi, di frazionare il potere di promulgazione, quanto piuttosto di esercitarlo ex novo ogni volta che al Presidente della Repubblica vengano sottoposti testi legislativi definitivamente deliberati dalle camere.

Se, dunque, il rinvio parziale non può circoscrivere il potere di riesame delle camere e non vale ad esimere il Capo dello Stato dall’obbligo di promulgare quanto non oggetto di rinvio entro un mese, è giocoforza concludere che la promulgazione parziale, per quanto non espressamente prevista, sia da ritenere implicita nella ratio del novellato art. 74 Cost. Non a caso, del resto, finora, rinvio parziale e promulgazione parziale sono stati finora proposti in abbinata (v. d.d.l. cost. A.S. 797 Ceccanti ed altri del 18.6.2008). A che pro, infatti, il Presidente della Repubblica potrebbe rinviare parte del testo se non potesse contemporaneamente promulgarne il resto, così da permetterne l’immediata pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ed entrata in vigore?

È noto, infatti, che il rinvio parziale del testo legislativo risponde all’esigenza di non mettere il Capo dello Stato di fronte alla rigida alternativa tra il rinviare ed il promulgare l’intero testo legislativo, quando i vizi – formali e/o sostanziali – da cui a sua parere è affetto coinvolgono solo una sua parte. Tale alternativa è tanto più stringente allorquando si tratti di disegni di legge che, per ragioni attinenti al rispetto di termini costituzionali (conversione di decreti legge entro sessanta giorni; promulgazione delle leggi di stabilità e di bilancio onde evitare l’esercizio provvisorio) o anche semplicemente di natura politica (ma non per questo meno vincolanti), devono entrare immediatamente in vigore.

Non a caso, il testo di riforma dell’art. 74 Cost. prevede, come detto, l’inserimento di uno specifico secondo comma in base a cui “qualora la richiesta riguardi la legge di conversione di un decreto adottato a norma dell'articolo 77, il termine per la conversione in legge è differito di trenta giorni”. Capita spesso, infatti, che nel corso della discussione parlamentare dei disegni di legge di conversione dei decreti legge, profittando dell’iter accelerato di cui godono, Governo e maggioranza presentino soprattutto in Aula (scavalcando così anche le commissioni parlamentari) (maxi) emendamenti non presenti nel testo iniziale sottoposto alla firma del Capo dello Stato di dubbia costituzionalità o perché estranei o eterogenei rispetto al suo contenuto originario (C. cost. 128/2008, 22/2012 e 32/2014) oppure per evidente mancanza dei presupposti costituzionali di straordinaria necessità ed urgenza (C. cost. 29/1995, 161/1995, 171/2007, 128/2008). In tali casi, il Capo dello Stato, anziché rinviare il testo del disegno di legge di conversione del decreto-legge, determinandone però così inevitabilmente di fatto la decadenza, anche

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delle disposizioni originarie autenticamente emanate per ragioni di straordinaria necessità ed urgenza (rimangono eccezionali i due rinvii del Presidente Ciampi del 29 marzo 2002 e del 3 marzo 2006, unica occasione quest’ultima in cui le camere riuscirono a riesaminare il testo rinviato entro il termine dei sessanta giorni), preferisce come male minore piuttosto promulgarlo, magari obtorto collo (le c.d. promulgazioni con motivazione contraria), sostanzialmente così omettendo di esercitare il proprio controllo sulle disposizioni aggiunte durante l’iter parlamentare. E alla mancanza del potere di rinvio parziale ha fatto espresso riferimento la Corte costituzionale come causa che, tra l’altro, impedisce di fatto al Presidente della Repubblica di fare uso della facoltà di rinvio delle leggi ex art. 74 Cost. (32/2014, 4.4 cons. dir.)

Peraltro, proprio la formulazione del proposto nuovo secondo comma dell’art. 74 Cost., nel prevedere il differimento del termine di conversione in legge per ulteriori trenta giorni, nelle more di cui la promulgazione sarebbe da intendere sospesa, deporrebbe a favore della conclusione che, per i restanti disegni di legge, la promulgazione, anche parziale, andrebbe invece ammessa.

È noto che contro il rinvio parziale, accompagnato o no dalla promulgazione parziale, si è obiettato che in tal modo la prassi negativa dell’eccessiva eterogeneità dei disegni di legge, anziché combattuta, sarebbe in certo modo costituzionalizzata (Onida, Ruggeri). Ma non è il rinvio parziale che legittimerebbe tale prassi incostituzionale ma, al contrario, la sua mancata previsione che ha impedito di combatterla efficacemente. Non si tratta di giustificare un fenomeno che, a prescindere dal suo riferimento costituzionale, purtroppo già esiste quanto piuttosto di dotare il Capo dello Stato di uno strumento per porvi rimedio, anche in funzione preventiva dissuasiva. Strumento – il rinvio parziale – che si è ritenuto financo implicito nella ratio dell’art. 74 Cost., dato che la legge cui esso fa riferimento andrebbe intesa come corpo unico ed omogeneo, dotato di matrice razionalmente unitaria, per cui ad unico testo formale potrebbero corrispondere più sue parti, autonome e distinte, come tali suscettibili di rinvio parziale (Ainis).

Si è anche eccepito che il rinvio parziale accentuerebbe la tendenza, già in atto, a trasformare il Capo dello Stato in una sorta di co-legislatore, consentendogli di espungere dal testo le parti, magari decisive per il voto favorevole (Romboli), anche quando non eterogenee. A parte però il rilievo che già oggi, ai sensi del vigente art. 74 Cost, il potere presidenziale di rinvio può avere – e quasi sempre ha – ad oggetto parti del testo legislativo, ciò che potrebbe auspicabilmente mutare è l’intensità, ma non certo la natura, di tale potere, esercitato in modo parco, rigidamente ancorato a specifici parametri costituzionali, e senza coartare o aggravare proceduralmente l’esercizio del potere legislativo da parte delle Camere.

È in questo direzione, del resto, che l’attuale Capo dello Stato, nel messaggio del 22 maggio 2010, ha ritenuto il rinvio parziale delle leggi, insieme alla “rimessione in termini delle Camere in caso di richiesta di riesame delle leggi di conversione (…) ipotesi che meriterebbero peraltro di essere prese in considerazione, anche per via di revisione costituzionale, insieme ad una rigorosa disciplina del regime di emendabilità dei decreti-legge, al fine di realizzare un migliore equilibrio tra i poteri spettanti al Governo, alle Camere e al Presidente della Repubblica nell'ambito del procedimento legislativo”. Equilibrio che, in una democrazia parlamentare di tipo maggioritario, può essere raggiunto solo se i poteri di controllo sono ampliati, e non diminuiti o resi difficoltosi. Per questo, in un’ottica di sistema, la strada del controllo preventivo di costituzionalità andrebbe ulteriormente percorsa, non limitando il ricorso delle minoranze parlamentari alle sole leggi elettorali (art. 73.2 Cost. secondo l’A.S. n. 1429) e ampliando le possibilità di dialogo diretto tra Quirinale e Palazzo della Consulta, secondo l’esempio dell’art. 278.1 Cost. portoghese.

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Questioni di costituzionalità dichiarate inammissibili sulla base di diversi motivi di inammissibilità: osservazioni sulla natura decisoria e sugli effetti

preclusivi di tali pronunce (… alla luce della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale)*

di Andrea Bonomi **(8 settembre 2014)

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La distinzione fra le pronunce di inammissibilità aventi carattere decisorio e dunque esplicanti effetti preclusivi verso il giudice a quo e le pronunce di inammissibilità non aventi natura decisoria e dunque non implicanti efficacia preclusiva nei confronti del rimettente. – 3. Perché la Corte pronuncia l’inammissibilità sulla base di diversi motivi quando anche uno soltanto di essi sarebbe risultato sufficiente allo scopo?

1.Premessa – Accade spesso che la Corte costituzionale non si limiti a rilevare un unico vizio – fra quelli eccepiti dall’Avvocatura dello Stato o dalle parti costituite o, comunque, astrattamente identificabili dalla Corte stessa – ostativo alla decisione nel merito della questione proposta, ma accerti la sussistenza di una pluralità di vizi di inammissibilità, quantunque uno solo di essi sarebbe già ex se in grado di precludere ogni indagine nel merito: se è vero, infatti, che, in un buon numero di casi, la Corte, rilevata la sussistenza di un motivo di inammissibilità – molto spesso quello legato alla rilevanza della questione1 –, se così si può dire, assorbente2 rispetto ai restanti vizi di inammissibilità eccepiti3, ha dichiarato l’inammissibilità della questione, è anche indubitabile che, in un

* Scritto sottoposto a referee.1

Come dice G.P. DOLSO, I rapporti tra Corte costituzionale e Corte di Cassazione nel prisma delle decisioni di inammissibilità, in R. BIN-G. BRUNELLI-A. PUGIOTTO-P. VERONESI (a cura di), «Effettività» e «seguito» delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, Napoli 2006, 66, nelle decisioni di inammissibilità “il problema della rilevanza assume una indiscutibile centralità… Con i casi più problematici profili inerenti alla rilevanza risultano sempre intersecati…”, tanto più – conclude il D. – che anche le decisioni di inammissibilità per omessa interpretazione “conforme a” “involgono – in modo più o meno scoperto – problematiche connesse alla rilevanza della questione”; sul punto cfr. anche, fra gli ultimi, L. AZZENA, La rilevanza nel sindacato di costituzionalità dalle origini alla dimensione europea , Napoli 2012, 70-71.

2 Sulla differenza esistente fra l’assorbimento dei vizi di inammissibilità e l’assorbimento dei vizi di

costituzionalità – per i quali ultimi soltanto, a dire il vero, la terminologia assorbimento ci sembra veramente appropriata – cfr., volendo, A. Bonomi, L’assorbimento dei vizi di inammissibilità e l’assorbimento dei vizi di costituzionalità: nei meandri e nella polisemia di due “concetti” , in Forum di Quad. Cost. 2013, 1 ss.; ID., L’assorbimento dei vizi nel giudizio di costituzionalità in via incidentale, Napoli 2013, 40-41.

3 … o comunque ipoteticamente valutabili dalla Corte medesima.

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altrettanto rilevante numero di fattispecie, i giudici costituzionali, invece, hanno avuto cura di enucleare diversi vizi di inammissibilità.

Ad es., nel procedimento conclusosi con l’ordinanza n. 128 del 20134, la Corte costituzionale è stata investita della questione di costituzionalità dell’art. 51, comma 2 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede che il Giudice di pace, che ritenga di non poter essere o di non poter apparire imparziale a causa del proprio trattamento economico, basato su un certo compenso per ogni procedimento definito o cancellato dal ruolo, possa astenersi senza autorizzazione del capo dell’ufficio, in relazione agli artt. 3, 54, comma 2, e 111, comma 2, Cost.

Il giudice a quo, pur mostrandosi conscio del fatto che la questione di costituzionalità sul trattamento economico dei Giudici di pace sarebbe risultata priva del requisito della rilevanza – auspicando, a tal fine, che la Corte facesse uso del proprio potere di sollevare dinanzi a se stessa la questione di legittimità di questa norma in quanto essa risultava necessariamente applicabile nell’iter logico di definizione della questione principale –, precisava che, comunque, la questione sollevata concerneva solo l’art. 51 suddetto nella parte in cui, al di fuori dei casi espressamente previsti, non consente al giudice di astenersi senza autorizzazione del capo dell’ufficio: autorizzazione, questa, assolutamente discrezionale e che potrebbe essere negata. Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il rimettente ipotizzava la violazione dell’art. 111 Cost., per la lesione del principio della terzietà e dell’imparzialità del giudice, che tale dovrebbe non solo essere ma anche apparire, nonché dell’art. 3 Cost., a causa dell’irragionevolezza della disciplina censurata, nonché dell’art. 54 Cost., in quanto i cittadini, cui sono affidate funzioni pubbliche, hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore.

Avendo il rimettente sollevato la questione senza aver previamente formulato al capo dell’ufficio richiesta di autorizzazione all’astensione e siccome, laddove a ciò avesse provveduto e tale autorizzazione fosse stata accolta, il giudice si sarebbe spogliato del processo ossia avrebbe ottenuto lo stesso risultato che auspica di realizzare attraverso la invocata pronuncia di annullamento della norma indubbiata, la Corte rileva come la questione risulti priva di rilevanza, potendo rivestire il carattere dell’attualità solo a seguito dell’eventuale reiezione della richiesta, tanto più che non sono sufficienti a giustificare la mancata presentazione dell’istanza né il fatto che l’autorizzazione sarebbe potuta essere respinta, né la personale prognosi del rimettente circa il non accoglimento di tale istanza.

La Corte segnala poi come la questione sia pure contraddittoria, in quanto, in base alle stesse argomentazioni del giudice a quo, anche la richiesta di autorizzazione all’astensione sarebbe contrastata dall’interesse economico del giudicante a non astenersi per non perdere il compenso.

La Corte constata, altresì, la sussistenza dell’ulteriore profilo d’inammissibilità

4 In www.giurcost.org; del tutto analoga è la appena successiva ord. n. 176 del 2013, in

www.giurcost.org.

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della genericità delle argomentazioni con le quali il rimettente ipotizza la violazione degli artt. 3 e 54, comma 2 Cost.

Infine, la Consulta osserva che, poiché l’ambito della disciplina del processo e della conformazione degli istituti processuali è caratterizzato, come tale, dall’ampia discrezionalità conferita al legislatore con il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute dal legislatore stesso, la questione risulta ulteriormente inammissibile perché diretta a chiedere alla Corte un intervento non costituzionalmente obbligato, oltre che largamente creativo, come tale riservato esclusivamente al legislatore.

Sulla base di tutti questi motivi di inammissibilità – ben quattro – la Corte dichiara l’inammissibilità, per giunta manifesta, della questione di costituzionalità sollevata.

In questa sede, non interessa rispondere al quesito di quale sia il motivo di inammissibilità che viene o che addirittura deve essere esaminato per primo dalla Corte e che, in alcuni casi, può diventare il motivo assorbente, laddove, in altri, risulta il primo dei vari e diversi motivi di inammissibilità individuati dalla Corte5, premendo, invece, valutare le motivazioni sottese e gli effetti che possono essere riconnessi all’orientamento volto a considerare plurimi motivi di inammissibilità prima di giungere alla decisione processuale.

2. La distinzione fra le pronunce di inammissibilità aventi carattere decisorio e dunque esplicanti effetti preclusivi verso il giudice a quo e le pronunce di inammissibilità non aventi natura decisoria e dunque non implicanti efficacia preclusiva nei confronti del rimettente – Prima di interrogarci, però, su tale punto, e, anzi, proprio per comprenderne meglio le ragioni, è opportuno ricordare che, come è ampiamente noto agli studiosi del processo costituzionale, la Corte costituzionale, specialmente a partire da un certo momento e, più in particolare, dal cosiddetto “smaltimento” dell’arretrato, ha impiegato la formula dell’inammissibilità anche nelle ipotesi in cui l’eliminazione del vizio riscontrato rientrava nella disponibilità dell’autorità giudiziaria rimettente.

In precedenza, i giudici costituzionali avevano, perlopiù, adottato

5 Il punto, del resto, è già stato indagato con dovizia di argomentazioni in dottrina: cfr. G.P. DOLSO,

Giudici e Corte alle soglie del giudizio di costituzionalità , Milano 2003, 270-71, il quale osserva che la Corte “sembra privilegiare i profili legati alla rilevanza della questione. La valutazione sulla rilevanza è stata infatti definita «assorbente» rispetto ad altri motivi di inammissibilità…” e rileva altresì che sia le eventuali carenze nella descrizione della fattispecie sia la necessità che il giudice a quo abbia compiuto una scelta interpretativa all’atto della proposizione della questione – che vengono entrambe talora evidenziate con priorità rispetto ad altri profili – “sono in sostanza strumentali ad una congrua valutazione della rilevanza della questione” o comunque – soprattutto quanto al secondo dei due motivi di inammissibilità da ultimi citati – presentano “aspetti non estranei alla rilevanza della questione atteso che l’assenza di una chiara determinazione interpretativa rende incerta l’individuazione della norma che deve essere applicata nel giudizio e si traduce quindi in un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione o in vera e propria irrilevanza di essa” (pp. 271-72); sul punto cfr. anche la Nota Redaz. all’ord. n. 399 del 2000, in Giur. Cost. 2000, 2809-10, secondo cui “non sempre è necessario decidere le questioni in un rigido ordine di pregiudizialità, potendo intervenire anche valutazioni di opportunità ed economia” (p. 2810) e potendo così accadere, ad esempio, che la valutazione sulla sussistenza della rilevanza in certi casi sia anteposta mentre in altri sia posposta all’esame della forza di legge dell’atto impugnato.

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l’orientamento secondo il quale, laddove il vizio riscontrato fosse risultato sanabile, gli stessi impiegavano la più opportuna pronuncia di restituzione degli atti all’autorità giudiziaria rimettente, con un invito, implicito o esplicito, ad eliminare il vizio e a rimettere nuovamente la questione alla Corte, con la conseguenza che la decisione non aveva alcun effetto preclusivo per il giudice a quo, ma era, anzi, un “invito alla riproposizione della questione”6, una volta sanata l’irregolarità constatata dalla Corte. Qualora, invece, il vizio rinvenuto fosse stato irrimediabile da parte del giudice rimettente, i giudici costituzionali si erano indirizzati tendenzialmente per l’inammissibilità dell’eccezione, con la conseguenza che la pronuncia doveva ritenersi fatalmente preclusiva della riproposizione della stessa questione nel corso del medesimo procedimento nel quale era stata sollevata7.

A seguito dell’imporsi della ricordata esigenza di ridurre l’arretrato, la Corte ha invece utilizzato la decisione di inammissibilità anche nelle ipotesi di cui poco sopra si è dato conto e, cioè, quando il vizio risultasse rimediabile dal giudice a quo.

Tale circostanza ha posto la questione relativa alla distinzione, all’interno delle pronunce di inammissibilità, fra quelle foriere di un effetto preclusivo nei confronti del giudice a quo e quelle a cui un tale effetto non può, invece, essere riconosciuto. Più in particolare, ha indotto autorevole dottrina8 a chiedersi come potrebbe la Corte, una volta reinvestita della stessa questione, mediante un’ordinanza debitamente reintegrata di tutti gli elementi considerati la prima volta mancanti, insufficienti o dubbi, opporre nuovamente un rifiuto ad entrare nel merito della questione, individuandosene il motivo nella precedente dichiarazione di inammissibilità poiché dotata di effetti preclusivi, ma osservandosi come, in realtà, l’effetto preclusivo delle pronunce d’inammissibilità “nei confronti dello

6 Prendiamo a prestito tale espressione da G.P. DOLSO, sub art. 136, in S. BARTOLE-R. BIN,

Commentario breve alla Costituzione, Padova 2008, 1203.

7 La Corte non ha dunque accolto quanto autorevolmente patrocinato a suo tempo da F. P IERANDREI,

Corte costituzionale, in Enc. del dir., Milano 1962, 961-62, secondo il quale sarebbero dovute essere distinte le “questioni pregiudiziali attinenti al processo” – cioè relative a motivi riguardanti l’instaurazione del giudizio –, le quali avrebbero dovuto determinare l’irricevibilità o l’improcedibilità dell’eccezione, e le “questioni preliminari di merito” – cioè quando il ricorso alla Corte fosse stato fatto per fini diversi da quelli previsti dall’ordinamento –, le quali avrebbero dovuto condurre ad una pronuncia di inammissibilità o di improcedibilità.

8 Cfr. L. CARLASSARE, Le «questioni inammissibili» e la loro riproposizione, in Giur. Cost. 1984,

759, la quale osservava anche e acutamente che, siccome l’art. 2, comma 1 N. I. attribuisce al Presidente della Corte di accertare la regolarità dell’ordinanza e delle notificazioni prima di disporre la pubblicazione in Gazzetta e poiché ciò comporta, in caso di eventuali irregolarità o carenze, la richiesta al giudice a quo di colmare le lacune riscontrate o di procedere agli adempimenti omessi, “è impensabile che uno stesso difetto – ad esempio la mancata notificazione –, se rilevato dal Presidente provochi una richiesta di regolarizzazione affinché poi il giudizio possa avere il suo corso e, invece, se rilevato successivamente, consenta una decisione d’inammissibilità definitivamente preclusiva del giudizio di costituzionalità”.

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stesso giudice remittente… deriva unicamente dal contenuto della decisione, ossia dalle ragioni per le quali l’inammissibilità è stata dichiarata”9.

La stessa Corte costituzionale ha aderito a tale tesi e, in particolar modo, ad iniziare dalla sentenza n. 135 del 198410 non ha dichiarato inammissibile, ma ha ripreso in esame nel merito la questione già dichiarata inammissibile riproposta, allorché il motivo, sulla cui base era stata pronunciata l’inammissibilità, fosse stato eliminato nella nuova ordinanza di rinvio: in altri termini, in questi casi – cioè “quando il motivo dell’inammissibilità lo consente”11 – alle pronunce d’inammissibilità non viene conferito alcun effetto preclusivo alla riproposizione, e, dunque, esse sono, in tutto e per tutto, equiparabili, quanto agli effetti, alle pronunce di restituzione degli atti al giudice a quo12. Per converso, quando l’inammissibilità si fondi su una causa ineliminabile da parte del giudice a quo, la pronuncia deve intendersi preclusiva di una riproposizione della questione13.

9 Così L. CARLASSARE, Le «questioni inammissibili» e la loro riproposizione, cit., 760; cfr. anche A.

PIZZORUSSO, sub art. 137, in Comm. della Cost., a cura del Branca, Bologna-Roma 1981, 299-300.

10 In Giur. Cost. 1984, I, 883.

11 A. LA PERGOLA, La giustizia costituzionale nel 1986, in Foro It. 1987, V, 156.

12 Cfr. in tal senso la Nota Redaz. all’ord. n. 237 del 1991, in Giur. Cost. 1991, 2018, secondo cui la

“restituzione degli atti equivale, nella sostanza, ad una pronuncia di inammissibilità, non essendo l’inammissibilità preclusiva della riproposizione della questione, eliminate le ragioni che hanno impedito l’esame di merito… e comportando la restituzione, comunque, il venir meno del giudizio di costituzionalità instaurato…, rispetto a cui un eventuale nuovo giudizio ha carattere del tutto autonomo”.

13 In questo caso, semmai, si può porre il problema della “posizione” in cui verrebbe a trovarsi il

giudice a quo nell’ipotesi in cui lo stesso, di fronte ad una decisione di inammissibilità di tipo decisorio, continuasse tuttavia a dubitare dell’incostituzionalità della legge di cui deve fare applicazione o di cui, laddove la Corte avesse valutato che la norma indubbiata non è applicabile nel giudizio principale e dunque che la questione non è rilevante, continua a ritenere, in difformità dalla valutazione della stessa Corte, di dover fare applicazione: come noto, le posizioni al proposito sono risultate variegate e composite se è vero che, secondo alcuni, il giudice sarebbe abilitato a disapplicare la norma in questione sia pure “con effetti limitati al processo in corso dinanzi a lui, come facevano i giudici nel periodo precedente all’entrata in vigore della Corte costituzionale” (A. PIZZORUSSO, «Verfassungsgerichtsbarkeit» o «Judicial Review of Legislation»?, in Foro It. 1979, I, 1933-34; conforme A. SPADARO, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, Napoli 1990, 107-08 nota 24 e 264-65), altri commentatori hanno ritenuto che questa tesi lasci invero perplessi adducendo come motivazione di tale asserto soprattutto l’argomentazione secondo la quale, “se una questione è inammissibile non significa che non può occuparsene la Corte, ma semplicemente che non ha pregio – almeno rebus sic stantibus – come questione di costituzionalità, sicché neppure i giudici comuni possono prenderla in considerazione” (M. LUCIANI, Le decisioni processuali e la logica del giudizio incidentale, Padova 1984, 122 nota 79) e, infine, altri hanno sostenuto che in un caso del genere il giudice a quo, in sede di prosecuzione del giudizio principale, potrebbe dare un’interpretazione adeguatrice della norma costituzionale dubbia sulla quale la Corte aveva omesso di decidere, sempre che tale potere di “supplenza” del giudice comune rispetto alla Corte sia utilizzato correttamente (A. PACE, La garanzia dei diritti fondamentali nell’ordinamento costituzionale italiano: il ruolo del legislatore e dei «giudici comuni», in Riv. trim. di dir. e proc. civ. 1989, 701); per

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Al fine di determinare l’effetto preclusivo o meno della pronuncia d’inammissibilità, la Corte ha fatto riferimento al contenuto o alla natura decisoria o non decisoria della stessa: più in particolare, si è considerato che, se il vizio non sia rimuovibile nello stesso procedimento di merito, non sarebbe “consentito al remittente riproporre nel medesimo giudizio la stessa questione, perché ciò si concreterebbe nella impugnazione della precedente decisione della Corte, inammissibile alla stregua dell’ultimo comma dell’art. 137 della Costituzione”14.

In questo senso, è stato, tuttavia, esattamente osservato che la Corte “alla chiara, logica e razionale contrapposizione tra restituzione degli atti – effetto non preclusivo e inammissibilità – effetto preclusivo, ha sostituito una pronuncia di inammissibilità con effetto bivalente, da interpretare sulla base delle ragioni per le quali essa è stata adottata, più incerta quindi nel significato e foriera pertanto di equivoci e perplessità”15.

Senza addentrarci in modo approfondito ora su tali “equivoci” e siffatte “perplessità”, ci limitiamo a sottolineare che si è ritenuto che il giudice a quo possa riproporre la medesima questione nello stesso procedimento nei casi in cui il vizio, sulla cui base la prima volta è stata pronunciata l’inammissibilità, abbia, ad es., riguardato la carenza di motivazione in ordine alla rilevanza o alla non manifesta infondatezza, o l’ambivalenza del thema decidendum, o la circostanza che la questione sia stata prematuramente proposta, o, ancora, la mancata notifica dell’ordinanza di rinvio16, ma tali vizi siano stati effettivamente eliminati; rilevandosi, per contro, che la riproposizione della questione andrebbe fatalmente incontro ad una seconda pronuncia di inammissibilità17, qualora il vizio sia stato costituito, invece, ad es., dall’irrilevanza della questione o dalla sua

ragguagli cfr., volendo, A. BONOMI, La natura decisoria e gli effetti preclusivi delle decisioni di inammissibilità: questione vecchia, problemi insoluti, in www.associazionedeicostituzionalisti.it-Osserv. 2013, spec. § 2.1.

14 Così l’ord. n. 87 del 2000, in Giur. Cost. 2000, 875, che esprime un principio stabilito già nell’ord.

n. 536 del 1988, in Foro It. 1988, I, 2762, e che sarebbe stato poi confermato costantemente dalla successiva giurisprudenza costituzionale fino al periodo attuale.

15 R. ROMBOLI, Il giudice chiama a fiori, ma la corte risponde a cuori, il giudice richiama a fiori,

ma la corte risponde a picche, in Foro It. 1988, I, 1086.

16 Come dice A. CERRI, Sindacato di costituzionalità, in Enc. Giur. Trecc., Roma 1992, 13, “le

preclusioni sono assai limitate ove l’inammissibilità sia stata pronunciata per ragioni formali”.

17 Diverso è invece il discorso se, di fronte ad una richiesta ad opera della parte nel giudizio

principale rivolta al giudice a quo di sollevare la questione di costituzionalità della norma che deve trovare applicazione in giudizio, il giudice stesso dichiari la questione irrilevante: in tal caso, ai sensi dell’art. 24 l. n. 87/1953, la parte all’inizio di ogni ulteriore grado di giudizio ben può riproporre al giudice la stessa questione; sul punto cfr. R. ROMBOLI, Carattere preclusivo delle decisioni di inammissibilità della Corte costituzionale, errori di fatto e ammissibilità della revocazione, in Riv. di dir. proc. 1989, 1134-35.

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improponibilità “perché non rientra fra quelle costituzionalmente assegnate [alla Corte]”18, come nei classici casi in cui il soggetto che ha proposto la questione non sia legittimato a sollevare questioni di costituzionalità19.

3. Perché la Corte pronuncia l’inammissibilità sulla base di diversi motivi quando anche uno soltanto di essi sarebbe risultato sufficiente allo scopo? – Tanto premesso e tornando al tema di queste note, è necessario distinguere i seguenti casi:

a) innanzitutto, quando la Corte, prima di dichiarare la questione inammissibile, evidenzi plurimi vizi di inammissibilità e tali vizi siano rimuovibili dal giudice a quo;

b) in secondo luogo, allorché i diversi vizi siano in parte eliminabili dal rimettente e in parte non rimuovibili da esso;

c) infine, se nessuno dei molteplici motivi di inammissibilità riscontrati dalla Corte possa essere eliminato dal giudice a quo.

Nel primo caso sub a), è evidente che l’indicazione, oltre a quello allegato per primo, di ulteriori profili d’inammissibilità persegue la finalità di “favorire, o addirittura caldeggiare, una corretta riproposizione della questione”, nel senso che l’intento della Corte è quello di “evitare… che il giudice, superato un motivo di inammissibilità, incorra in un’altra carenza evidenziata dalla prima ordinanza di rimessione”: ciò secondo un “atteggiamento di apprezzabile collaborazione della Corte con i giudici dei processi principali”20: come esempio si può citare l’ordinanza n. 99 del 201321, in cui la stessa Corte dichiara la questione manifestamente inammissibile dopo aver rilevato sia l’insufficiente descrizione della fattispecie concreta, tale da impedire alla Corte di verificare l’effettiva riconducibilità della vicenda oggetto del giudizio principale alla disciplina dettata dalla disposizione censurata, e, dunque, di assodare la rilevanza della questione, sia la carente motivazione in merito all’applicabilità della norma indubbiata nel

18 L. CARLASSARE, Le decisioni d’inammissibilità e di manifesta infondatezza della Corte

costituzionale, in Foro It. 1986, V, 293-94, la quale tuttavia osserva acutamente che anche in questi casi l’effetto preclusivo può non essere così sicuro e adduce a tal proposito l’esempio dell’inidoneità dell’atto il cui effetto preclusivo perlomeno nei confronti dei giudici diversi da quello del processo principale verrebbe meno laddove la Corte mutasse giurisprudenza e ritenesse quell’atto idoneo al giudizio di costituzionalità: in tal senso cfr. L. CARLASSARE, Le decisioni d’inammissibilità e di manifesta infondatezza, cit., 297, la quale porta l’esempio dei regolamenti parlamentari.

19 A giudizio, tuttavia, di M.R. MORELLI, sub art. 136, in V. CRISAFULLI-L. PALADIN, Commentario

breve alla Costituzione, Padova 1990, 804, la legittimazione a sollevare la questione potrebbe ben sussistere in un organo diverso da quello che aveva inizialmente denunziato la legge.

20 Tutte le citazioni sono tratte da G.P. DOLSO, Giudici e Corte alle soglie del giudizio di

costituzionalità, cit., 273.

21 In www.giurcost.org.

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giudizio a quo. In questo modo, la Consulta sembra applicare – non sempre, ma sovente22 – rigorosamente il principio della cosiddetta autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, in base al quale tutti gli elementi richiesti per l’ammissibilità della questione debbono risultare esclusivamente dal provvedimento di rinvio e non possono essere tratti dagli atti del giudizio a quo23, sembrando “voler richiamare il giudice ad un esame più meditato delle istanze di costituzionalità ad esso proposte dalle parti o che egli intenda sollevare d’ufficio, escludendo la possibilità che sia la Corte stessa a rimediare ad eventuali lacune o inesattezze contenute nell’ordinanza di rinvio”24.

Nel caso sub b), è chiaro che, se la Corte decide di esaminare subito un vizio non rimuovibile – o meglio, in virtù di quello che esporremo in seguito, tutti i vizi non rimuovibili –, può successivamente anche disinteressarsi dei restanti altri e, cioè, di quelli rimuovibili dal rimettente: ciò perché la questione, in virtù dell’“irrimediabilità” del vizio (o dei vizi) riscontrati, non è, comunque, riproponibile da quel giudice in quello stesso procedimento indipendentemente e a prescindere dall’accertamento della sussistenza, o meno, dei motivi di inammissibilità rimuovibili. Se, invece, i giudici costituzionali optano per la soluzione di evidenziare subito i vizi eliminabili dal giudice a quo, la circostanza che gli stessi giudici esaminino anche gli altri vizi, ossia quelli non rimuovibili, è da ritenersi praticamente quasi imposta da esigenze di economia processuale25: infatti, se la Corte non esaminasse questi ultimi, non esprimendosi, dunque, su di essi, né esplicitamente né – contrariamente a quanto pure sostiene certa dottrina26 – implicitamente, il giudice a quo, una volta rimosso il vizio rimediabile

22 Sul punto vedasi le perspicue osservazioni di V. ONIDA, Presentazione, in V. ONIDA e B.

RANDAZZO, Viva Vox Constitutionis – Temi e tendenze nella giurisprudenza costituzionale dell’anno 2006 , Milano 2007, XI.

23 Cfr. R. ROMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale , in R. ROMBOLI (a

cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2008-2010), Torino 2011, 78-9; L. AZZENA, La rilevanza nel sindacato di costituzionalità dalle origini alla dimensione europea, cit., 64 e la dec. n. 192 del 2013 Corte cost., in www. giurcost.org.

24 R. ROMBOLI, Introduzione al seminario, in R. ROMBOLI (a cura di), La giustizia costituzionale a

una svolta, Torino 1991, 12.

25 Sul cosiddetto principio di economia processuale cfr. L.P. COMOGLIO, Premesse per uno studio sul

principio di economia processuale, in Riv. trim. di dir. e proc. civ. 1978, partic. 588 e 625 e, da ultimo, volendo, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi nel giudizio di costituzionalità in via incidentale, cit., 1 ss.

26 In tal senso cfr. M. ESPOSITO, L’arbitrato tra autonomia privata e giurisdizione, in Giur. Cost.

1998, 252-53 e ivi note 5, 6 e 7, il quale – a commento dell’ord. n. 410 del 1997, in Giur. Cost. 1997, 3781 ss., nella quale la Corte, investita della questione di costituzionalità dell’art. 238 cod. proc. civ. in relazione ai riferimenti religiosi contenuti nella formula del giuramento decisorio ivi previsto per violazione degli artt. 3, 19 e 24 Cost., dichiara la quaestio manifestamente inammissibile in quanto la norma impugnata era già stata con precedente decisione dichiarata incostituzionale e dunque espunta dall’ordinamento e

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(o i vizi rimediabili), si sentirebbe autorizzato a sollevare nuovamente la questione. Il rischio sarebbe, tuttavia, quello di incorrere nell’inammissibilità in quanto la Corte potrebbe ritenere sussistente uno dei vizi non rimuovibili, così che esigenze di elementare economia processuale impongono di esaminare fin da subito i vizi non eliminabili. Si consideri, al proposito, l’ordinanza n. 156 del 201327, in cui, posta di fronte alla questione di costituzionalità dell’art. 372, commi 2 e 3, cod. proc. civ., per la ipotizzata violazione degli artt. 11, 24, 111 e 117 Cost. e degli artt. 6 e 13 CEDU, nonché degli artt. 47, 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Corte, nel dichiarare manifestamente inammissibile la questione, osserva che il giudice a quo ha erroneamente indicato la norma censurata e che, comunque, è stato richiesto un intervento additivo creativo in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata: è chiaro come il primo vizio sia rimediabile dal rimettente – il quale potrebbe ben individuare la norma “giusta” applicabile nel giudizio28 –, mentre il secondo vizio debba ritenersi – come diremo meglio in seguito – non rimuovibile. Di conseguenza, alla Corte sarebbe bastato basare la pronuncia di inammissibilità anche soltanto sul secondo vizio, derivandone che la dichiarazione fondata sull’erroneità della norma è evidentemente intesa ad assolvere ad una funzione didascalico/educativa verso il rimettente e i giudici in generale.

Il caso sub c) necessita di qualche maggiore approfondimento. Intanto, non si può non congetturare che, in base a quella che può essere considerata la communis opinio, poiché, in tale ipotesi, alla Corte basterebbe riscontrare la sussistenza di un motivo non eliminabile dal rimettente (essendo del tutto superflue ai fini della decisione le indicazioni offerte dalla Corte relativamente ad altri vizi), l’esame della Corte di tutti i motivi di inammissibilità esplichi evidentemente una funzione del tutto diversa: si sostiene, infatti, che deve essere attribuito alle “indicazioni supplementari un intento eminentemente, se

conclude che resta “impregiudicata ogni valutazione circa la legittimazione del collegio rimettente a sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale” – osserva che, poiché la legittimazione del giudice arbitrale ad adire la Corte dovrebbe costituire oggetto di delibazione in limine litis trattandosi di un presupposto non semplicemente di validità del processo ma di esistenza del processo, se la Corte non ha risposto espressamente al quesito attinente a tale legittimazione, allora vuol dire che essa ha implicitamente giudicato il riconoscimento della legittimazione del collegio arbitrale. A noi non pare di dover condividere questa tesi, che – ci pare – può avere un senso solo nell’ambito dei vizi di costituzionalità ma non anche nel settore dei vizi o motivi di inammissibilità: sulle motivazioni di ciò ci permettiamo di rimandare a A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi di inammissibilità e l’assorbimento dei vizi di costituzionalità: nei meandri e nella polisemia di due “concetti”, cit., partic. § 4; ID., L’assorbimento dei vizi nel giudizio di costituzionalità in via incidentale, cit., partic. 40 ss. e 172 ss.

27 In www.giurcost.org.

28 Come è stato ben detto, questo caso differisce dal caso di aberratio ictus “solo per la circostanza

che manca la parte c.d. ricostruttiva, e cioè l’indicazione, fornita dalla Corte, della norma applicabile al caso”: così M. D’AMICO, L’aberratio ictus quale elemento di una nozione autonoma di rilevanza per il giudice costituzionale, in Giur. Cost. 1991, 2147.

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non esclusivamente, didascalico nei confronti dei giudici dei processi principali”29, quasi che la Corte, per ricorrere ad un’efficace espressione dottrinale, “ormai lasciato alle spalle il tempo in cui era solita vezzeggiare il suo «portiere»,… [sia voluta passare] decisamente agli schiaffoni (in senso morale, s’intende), se non addirittura ai maltrattamenti (a scopo educativo!)”30.

Anche noi riteniamo che questo sia l’intendimento della Corte perlomeno in molte circostanze. Si pensi all’ordinanza n. 136 del 201331, in cui la Corte dichiara manifestamente inammissibile la questione di costituzionalità di una norma, in materia di verifica da parte del Tribunale dello stato di abbandono di un minore, sollevata per la violazione degli artt. 2, 3, 30, comma 2, 31, comma 2, e 32, comma 1, Cost. sulla base della riscontrata sussistenza di due motivi di inammissibilità: innanzitutto, il quesito posto è da collocare al di fuori dell’area del sindacato di legittimità costituzionale in quanto relativo a scelte di esclusiva spettanza del legislatore; in secondo luogo, la stessa grave situazione denunciata dal giudice rimettente, anziché essere diretta conseguenza della disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, si rivela piuttosto come una patologia di mero fatto, che non implica alcun vizio intrinseco della disposizione censurata. E’ chiaro che uno solo di tali motivi sarebbe ben potuto essere sufficiente ai fini della dichiarazione di inammissibilità, dal momento che gli effetti preclusivi non mutano nel momento in cui la Corte prende in considerazione pure l’altro: ragion per cui, se la Corte ha inteso rilevarli entrambi, ciò deve, come detto, ricondursi ad un intento educativo/sanzionatorio nei confronti del rimettente. E, tuttavia, vorremmo osservare che vi sono dei casi in cui la decisione della stessa Corte di evidenziare non uno soltanto, ma diversi vizi di inammissibilità, tutti quanti non rimuovibili dal giudice a quo, non ha soltanto la funzione “educativa” o “sanzionatoria” di cui si è detto, ma comporta anche quale “effetto collaterale”, più o meno “voluto”, alcune conseguenze non irrilevanti.

Al fine di farci meglio comprendere, prendiamo le mosse proprio dalla decisione n. 128 del 2013 inizialmente ricordata. S’è già detto come qui la Corte si pronunci per l’inammissibilità, dopo aver rilevato i seguenti motivi di inammissibilità: difetto di rilevanza; questione contraddittoria; questione generica; questione diretta a chiedere alla Corte un intervento non costituzionalmente obbligato, oltre che largamente “creativo”, come tale riservato esclusivamente al legislatore. Ora, mentre i vizi relativi alla contraddittorietà e alla genericità della questione possono essere ritenuti rimediabili dal giudice a quo, gli altri due vizi non sono rimuovibili. Benché, infatti, sia stato sostenuto che l’accertato vizio del difetto di rilevanza sia rimuovibile dal giudice a quo perché la rilevanza “può

29 G.P. DOLSO, Giudici e Corte alle soglie del giudizio di costituzionalità, cit., 274.

30 Così R. ROMBOLI, Il giudice chiama a fiori, cit., 1088.

31 In www.giurcost.org.

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subentrare per modificazione della situazione processuale”32 o, che, comunque l’effetto preclusivo derivante da una decisione di inammissibilità fondata sul difetto di rilevanza è “dubbio e molto discutibile”33, la communis opinio dottrinale e anche – ci pare – la giurisprudenza costituzionale sono orientate nel senso di ritenere che, laddove la Corte – sulla base di un “potere”34, che da tempo oramai essa si è autoattribuita35 – abbia valutato, andando di diverso avviso rispetto al giudice a quo, che la questione sia in realtà irrilevante ai fini della soluzione del giudizio principale, ossia che la norma impugnata non possa essere applicata o comunque non esplichi influenza36 in quel giudizio, non sia possibile negare l’effetto preclusivo della decisione d’inammissibilità così pronunciata37. Tutto questo fatta eccezione, naturalmente, per l’ipotesi in cui la Corte si esprime per l’inammissibilità, rilevando la sussistenza del vizio di aberratio ictus, perché, in tal caso, la questione sarebbe senz’altro riproponibile dal remittente38: è chiaro,

32 In tal senso è M.R. MORELLI, sub art. 136, cit., 804.

33 L. CARLASSARE, Le «questioni inammissibili» e la loro riproposizione, cit., 763.

34 L’autoconferimento di tale “potere” è stato assoggettato tuttavia a varie critiche da parte di alcuni

studiosi: cfr. L. CARLASSARE, Dubbi sulla rilevanza della questione di costituzionalità relativa all’art. 8 c. p., in Giur. Cost. 1971, 621-22; P. VERONESI, A proposito di rilevanza: la Corte come giudice del modo di esercizio del potere, in Giur. Cost. 1996, 478 ss.

35 Per indicazioni sul punto cfr., da ultima, A. AZZENA, La rilevanza nel sindacato di costituzionalità,

cit., 35 ss., partic. 56 ss. e 63 ss., la quale osserva che dagli anni ottanta in poi si è assistito ad un irrigidimento del controllo sulla rilevanza che non è più semplicemente “esterno”, cioè limitato a verificare la correttezza dell’iter logico seguito dal giudice a quo senza entrare nel merito del giudizio da questi compiuto, ma diventa “interno” in quanto si spinge ad accertare se il giudice a quo stesso deve, o meno, applicare o comunque utilizzare la norma impugnata nel giudizio principale.

36 Su queste due “nozioni” – applicabilità della norma o mera e semplice influenza esplicata dalla

stessa nel giudizio – con le quali si può intendere – e la giurisprudenza costituzionale ha, a seconda dei casi, interpretato – il requisito della rilevanza cfr., per tutti, da ultimi, A. RUGGERI-A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2014, 219-221.

37 In tal senso cfr., per tutti, L. PESOLE, Sull’inammissibilità delle questioni di legittimità

costituzionale sollevate in via incidentale: i più recenti indirizzi giurisprudenziali, in Giur. Cost. 1992, 1612 nota 160; R. ROMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, cit., 104.

38 Ad essere precisi, a noi sembra che, qualora il giudice a quo sollevi la questione di costituzionalità

della disposizione “esatta” indicata dalla Consulta, nutrendo sulla stessa dubbi di incostituzionalità, tale quaestio sia nuova, cioè del tutto autonoma da quella precedentemente sollevata dallo stesso giudice rimettente; sul punto per ragguagli ed approfondimenti cfr., volendo, A. BONOMI, Il vizio di aberratio ictus nel giudizio in via incidentale: punti fermi e aspetti controversi, in Consulta on Line 2014, 1 ss.

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infatti, che, se la Corte, anziché limitarsi a rilevare un generico difetto di rilevanza, per non essere, quella denunciata dal giudice, la norma applicabile al caso, indica al giudice stesso la norma, che, a suo avviso, sarebbe dovuta essere censurata, la decisione d’inammissibilità, attraverso l’indicazione della norma “giusta”, è senza dubbio “di natura interlocutoria nei confronti del giudice, al quale non è affatto precluso di sollevare nuovamente la questione, nei termini indicati dalla Corte”39.

Analogamente può ragionarsi con riferimento all’ambito delle pronunce di inammissibilità pronunciate dalla Corte sulla base della motivazione che la questione sollevata coinvolge scelte spettanti ed, anzi, riservate in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore. Sebbene non sia mancato chi ha sostenuto che il motivo di inammissibilità in questione “potrebbe anche risolversi in una riproposizione seguita da una decisione di merito, così come da una nuova dichiarazione d’inammissibilità”40, non si può che rilevare, con la dottrina prevalente, come paia “fuori dubbio che il vizio rilevato dalla corte... non [è] certo sanabile dal giudice a quo..., per cui l’effetto preclusivo non pare discutibile”41: principio accolto, del resto, dalla stessa Corte costituzionale42. Un effetto sicuramente preclusivo, in riferimento alla riproposizione della questione nel medesimo procedimento da parte del giudice a quo, si determinerebbe, poi, come rilevato dalla prevalente dottrina43, nel caso in cui la dichiarazione di inammissibilità, fondata sul necessario rispetto della discrezionalità del legislatore, fosse accompagnata – con una sorta di “contraddizione in termini”44 –

39 Così M. D’AMICO, L’aberratio ictus quale elemento di una nozione autonoma di rilevanza , cit.,

2144, la quale osserva che nei casi di aberratio ictus la Corte “trasforma un difetto sostanziale (rilevanza) in un vizio formale...” (p. 2150); vedasi però quanto detto nella nota precedente sul carattere di “novità” e di “autonomia” della questione di costituzionalità sollevata sulla disposizione “giusta” indicata dalla Corte. Sul vizio di aberratio ictus vedansi, comunque, l’ord. n. 197 del 2013 e la sent. n. 188 del 2014, entrambe in www.giurcost.org.

40 L. CARLASSARE, Le decisioni d’inammissibilità e di manifesta infondatezza della Corte

costituzionale, in Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano 1988, 43.

41 R. ROMBOLI, Il giudice chiama a fiori, cit., 1086; R. BASILE, Anima giurisdizionale e anima

politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Messina 2006, Cap. II, partic. nota 188; G.P. DOLSO, sub art. 136, cit., 1203.

42 Cfr. in modo netto e limpido sul punto la dec. n. 190 del 2013, in www.giurcost.org.

43 … con l’esclusione di qualche pur autorevole opinione espressa in senso contrario: in tal senso

cfr. R. PINARDI, La Corte, i giudici ed il legislatore. Il problema degli effetti temporali delle sentenze d’incostituzionalità, Milano 1993, 112 nota 13.

44 Così M. RUOTOLO, Interpretazione conforme a Costituzione e tecniche decisorie della Corte

costituzionale, in www.gruppodipisa.it 2011, nota 71, il quale esprime di tali pronunce “una considerazione

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dal riconoscimento, in sede di parte motiva, dell’incostituzionalità della norma oggetto di giudizio (e, dunque, si trattasse di quella che, in dottrina, è stata qualificata decisione d’inammissibilità “di incostituzionalità accertata, ma non dichiarata”45, detta anche d’inammissibilità “per eccesso di fondatezza”46, e come tale inserita in una sorta di tertium genus fra la pronuncia di merito e quella processuale47).

Se, dunque, sia il vizio relativo al difetto di rilevanza, sia quello inerente la questione implicante scelte riservate in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore non sono rimuovibili dal giudice a quo, comportando un effetto preclusivo, allora si dovrebbe pervenire alla conclusione che, come si diceva in precedenza, la Corte, nell’ordinanza n. 128, abbia voluto evidenziare entrambi questi vizi solo al fine didascalico, cioè educativo, di insegnamento nei confronti del giudice a quo. Tuttavia, a noi pare che, nel caso in questione, la dichiarazione di inammissibilità produca ulteriori conseguenze, che, in precedenza, avevamo definito “effetti collaterali”. Mentre, infatti, il vizio consistente nel difetto di rilevanza è tale da creare una preclusione formale nei confronti del giudice a quo, ma nessun altro effetto – né formalmente né sostanzialmente preclusivo – nei confronti degli altri giudici (per i quali, per rimanere all’esempio dell’ordinanza n. 128, la questione di costituzionalità dell’art. 51 cod. proc. civ. ben potrebbe risultare rilevante), diversamente andrebbe argomentato relativamente all’altro vizio, dato che un’inammissibilità pronunciata sulla base del fatto che la questione coinvolge scelte spettanti esclusivamente al legislatore poggia sulla

negativa…, anche quando siano seguite dall’accoglimento «sanzionatorio»”.

45 R. PINARDI, La Corte, i giudici ed il legislatore, cit., 80, al quale peraltro si rimanda quanto

all’interessante distinzione fra due sub-categorie in tale genus di decisioni.

46 V. ONIDA, Giudizio di costituzionalità delle leggi e responsabilità finanziaria del Parlamento, in

Le sentenze della Corte costituzionale e l’art. 81, u. c., della Costituzione, Milano 1993, 36.

47 In tal senso cfr. E. ROSSI, Corte costituzionale e discrezionalità del legislatore, in R. BALDUZZI-M.

CALVINO-J. LUTHER (a cura di), La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, Torino 2011, 347, secondo il quale in certe circostanze la decisione sulla spettanza o meno alla Corte di un potere di intervento sulla disposizione censurata non può che conseguire ad un’analisi del merito della questione “per magari concludere che – sebbene possa ravvisarsi un’incostituzionalità della disciplina – tuttavia la soluzione puramente ablatoria non è possibile (pena la possibile violazione di altri diritti o principi costituzionali, ad esempio), e nemmeno si rende possibile giungere ad una pronuncia additiva (di principio o altro). In tali ultimi casi, tuttavia, la pronuncia non può essere né di tipo processuale (perché conseguente ad un esame del merito della questione) né tuttavia di merito, nel senso almeno che noi conosciamo (giacché se si pronunciasse l’infondatezza si dovrebbe dire che l’incostituzionalità non sussiste e la disposizione può andar bene così com’è: mentre in molte circostanze la motivazione indica chiaramente che di incostituzionalità si tratta). Ed in effetti, in molti casi, una pronuncia di inammissibilità per rispetto della discrezionalità del legislatore viene ritenuta meno “definitiva” di una pronuncia di infondatezza, perché non preclude la possibilità di una successiva riconsiderazione e in quanto può considerarsi come un pressante invito al legislatore ad intervenire (in certa misura dando ragione anche a chi aveva sollevato la questione)”.

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“radicale affermazione di non potere… dichiarare l’incostituzionalità… affermazione… insuscettibile di essere modificata da eventuali precisazioni o integrazioni che il giudice a quo possa fornire in un momento successivo”48. Equivalendo, dunque, ad una sorta di “confession[e] di impotenza”49, tale inammissibilità determina, a nostro avviso, una preclusione, se non formale, comunque sostanziale nei confronti degli altri giudici, rappresentando un precedente praticamente insuperabile50.

Ancora in altri termini: è ben vero, che siffatta inammissibilità esplica un effetto preclusivo formale solo verso il giudice a quo, ma non anche nei confronti degli altri giudici (se non altro perché, se così non fosse, la Corte verrebbe privata di “ogni possibilità di «ripensamento»”51), ma è anche innegabile che essa risulta connotata da una sostanziale efficacia preclusiva erga omnes iudices, perché, se la Corte non facesse valere l’effetto preclusivo e, dunque, non si pronunciasse una seconda volta con una decisione d’inammissibilità, essa “dimostrerebbe che, nella fattispecie, non si prospettano, in realtà, quelle esigenze di rispetto delle attribuzioni proprie del potere legislativo che, secondo quanto affermato nella sua prima decisione, le avevano impedito, al contrario, di pronunciarsi nel merito della questione sindacata”52.

In questo quadro, pare allora ridotta al lumicino anche la “possibilità di ripensamento” della Corte di cui si è detto poc’anzi, nel tempo stesso che sembra assolutamente improbabile53 che, allorché la stessa questione sia

48 Così l’ord. n. 70 del 1988 del Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, in Foro It. 1988, III, 465.

49 L’espressione è presa a prestito da L. PALADIN, La giustizia costituzionale nel 1985 (Conferenza

Stampa del Presidente della Corte costituzionale), in Foro It. 1986, V, 61.

50… con un effetto dunque molto prossimo a quello ricollegabile al giudicato ancorché, se è vero

che “il grado di costituzionalità (e di incostituzionalità) delle soluzioni legislative è sempre una variabile e mai una costante, è un dato relativo, mai assoluto” (così F. MODUGNO, Ancora sui controversi rapporti tra Corte costituzionale e potere legislativo, in Giur. Cost. 1988, II, 20), non si possa misconoscere che anche le decisioni di inammissibilità, per così dire, contengono in sé un certo “grado di relatività” nel senso che teoricamente è sempre possibile che la Corte con riferimento a giudizi futuri cambi opinione.

51 Così L. PESOLE, Sull’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via

incidentale, cit., 1615, la quale osserva che la Corte ben può mutare orientamento e questo ha fatto per esempio in materia di atti aventi forza di legge (op. cit., 1615-16 nota 169).

52 Così R. PINARDI, L’inammissibilità di una questione fondata tra moniti al legislatore e mancata

tutela del principio di costituzionalità, in Giur. Cost. 2013, 380-81 (sul quale v. però anche la precedente nota 43 e il testo sopra).

53 … nonostante quanto sostenuto in contrario da parte di qualche commentatore: cfr. G.P. DOLSO,

op. e loc. ult. cit.

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risollevata dopo un certo lasso di tempo – quand’anche in presenza di una protratta inerzia del legislatore –, la Corte possa mutare indirizzo54. Si potrebbe, anzi, concludere con l’osservare che l’effetto preclusivo sostanziale, che deriva dalle pronunce di inammissibilità fondate sul motivo che la questione coinvolgeva scelte spettanti alla discrezionalità del legislatore, è diverso e, cioè, più intenso rispetto a quello derivante dalle pronunce di rigetto55: infatti, se la Corte dichiara non fondata la questione perché la norma censurata non viola certe disposizioni costituzionali, è possibile che, anche in virtù di una differente interpretazione di quelle disposizioni costituzionali, la stessa Corte, in un periodo successivo, muti opinione: nel caso, invece, della dichiarazione di inammissibilità di cui discorriamo, è, sì, teoricamente possibile, ma in pratica altamente improbabile, per i motivi già detti, che la Corte possa in seguito mutare opinione, potendosi, pertanto, ragionare di un effetto preclusivo sostanziale della decisione di inammissibilità con riferimento alla riproposizione da parte di altri giudici della medesima questione di costituzionalità56.

Si profilano, dunque, casi in cui il fatto che la Corte evidenzi diversi motivi di inammissibilità, tutti non rimuovibili dal rimettente, assolve anche alla funzione di conferire effetti preclusivi non solo formali, ma anche quodammodo sostanziali – nei termini poc’anzi esposti – alla decisione di inammissibilità adottata.

** Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa

54 In tal senso cfr. anche R. PINARDI, op. e loc. ult. cit.

55 … anche ammesso che sia vero che la preclusione che deriva nel processo a quo da una

precedente decisione di rigetto – nei limiti dell’identità della questione – “sussiste, negli stessi limiti, anche per le decisioni di inammissibilità, quando la ragione dell’inammissibilità… sia «non rimuovibile»” (così la Nota Redaz. all’ord. n. 450 del 2002, in Giur. Cost. 2002, 3722).

56 Non ci sembra, dunque, di dover condividere pienamente quanto sostenuto da A. SACCOMANNO,

Divieto d’impugnazione delle decisioni della Corte e effetti preclusivi delle decisioni di rigetto , in Giur. Cost. 2001, 315, secondo il quale allorquando l’inammissibilità è pronunciata in ragione dell’incensurabilità delle scelte discrezionali del legislatore “il valore preclusivo dovrebbe essere analogo a quello delle sentenze di rigetto”; sul punto cfr. anche le perspicue e sempre valide osservazioni di M. LUCIANI, Le decisioni processuali, cit., 122-23.

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COME VOTA IL CIVILMENTE INCAPACE?*

Un caso concreto, due soluzioni apparenti, una proposta interpretativa

di Francesco Dalla Balla**(12 settembre 2014)

1. Premessa

Come sempre accade in un ordinamento giuridico, tra le pieghe della legge si nascondono sfaccettature impreviste, sfumature delicate, che divengono ancor più perniciose quando in gioco rientrano l’esercizio di un diritto fondamentale di cittadinanza e il valore della dignità umana, bisognosi della certezza, spesso fragile, che il diritto è chiamato a fornire. È quanto accaduto e continua a succedere con riferimento all’articolata vicenda normativa riguardante il voto dei soggetti “civilmente incapaci”.

2. Il caso

Con l’automatismo che spesso contraddistingue queste prassi, al compimento del diciottesimo anno di età, l’ufficio elettorale comunale procede all’inserimento del cittadino italiano maggiorenne nelle liste elettorali, provvedendo all’invio, presso le rispettive residenze dei “nuovi” elettori, dei certificati da esibire al seggio, senza distinzioni circa i soggetti sottoposti a provvedimenti limitativi della capacità di agire, anche quando ciò avvenga in conseguenza di un’infermità di tale gravità da comportare un’integrale mancanza di percezione e cognizione della realtà circostante (come potrebbe accedere, ad esempio, nell’ipotesi di uno stato comatoso perdurante). Se, a seguito di ciò, il tutore decidesse di accompagnare il suo assistito al seggio indicato per permettergli di esercitare il proprio diritto costituzionale, quid iuris?

Innanzitutto sono opportune alcune premesse. La fattispecie cui ci si intende riferire come oggetto della presente riflessione non è costituita né dai generici casi di riduzione della capacità civile né da quelli di patologia mentale-neurologica, bensì da quel novero specifico di ipotesi nelle quali o difettino integralmente le capacità cognitive, al punto da escludere la possibilità di elaborazione di una volontà consapevole1, ovvero, pur in presenza della stessa,

* Scritto sottoposto a referee. In apertura mi corre l’obbligo di esprimere profonda gratitudine innanzitutto al prof. Fulvio Cortese dell’Università di Trento, dal dibattito con il quale è scaturita l’idea di questo testo, per la guida preziosa, il confronto sempre costruttivo, la grandissima disponibilità ed attenzione. Al dott. Stefano Rossi va poi un sentito ringraziamento per l’attenta revisione e le interessanti sollecitazioni.

1 Se anche “la maggior parte degli psicologi confessa di non sapere esattamente cos’è la coscienza” (da R. CANESTRARI, La psicologia scientifica. Nuovo trattato di psicologia generale, CLUEB, Bologna, 2007, pag. 399) e persino “le varie definizioni proposte non appaiono mai esaurienti nel definire e chiarire il complesso di fenomeni che qualificano l’attività cosciente” (da F. GIBERTI – R. ROSSI, Manuale di psichiatria, Piccin, Padova, 2009, pag. 33), non è certo questa la sede per analizzare il fenomeno patologico

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il soggetto appaia comunque assolutamente impossibilitato a darne espressione, anche, eventualmente, ricorrendo all’apporto di soggetti terzi2.

Si tratta di casistiche nelle quali, evidentemente, non potrebbe essere consentita l’operatività delle regole in materia di voto assistito, sia per ragioni sistematiche che di opportunità pragmatica. L’art. 55, comma 2, del d.P.R. n. 361/1957, infatti, ammette che “i ciechi, gli amputati alle mani, gli affetti da paralisi o da altro impedimento di analoga gravità” esercitino il loro diritto avvalendosi della cooperazione “di un elettore della propria famiglia, o, in mancanza, di un altro elettore che sia stato volontariamente scelto come accompagnatore”, configurando l’istituto dell’assistenza al voto come un mero ausilio nell’espressione materiale della volontà elettorale, quando questa risulterebbe praticamente impedita o difficoltosa in rapporto all’utilizzo ed al maneggio dei mezzi tecnici di votazione, incompatibili con taluni limiti motori o disfunzioni patologiche. L’intervento del terzo assistente, però, è ammesso dal legislatore solo con riguardo alla trasposizione fisica dell’orientamento elettorale (solo in riferimento, cioè, al “vergare la scheda”) ed è dunque legittimato dallo strettissimo nesso fiduciario che lega l’elettore all’accompagnatore3. Non potrebbe certo immaginarsi un’estensione applicativa tale da consentirgli di sostituirsi nell’elaborazione della volontà (possiamo forse ammettere che il soggetto in stato di totale incoscienza sia accompagnato in cabina da un terzo, uscendone poi con le schede richiuse da depositare nell’urna, evidentemente votate dall’assistente, in manifesto spregio della normativa citata e dei principi che presiedono l’esercizio del diritto di elettorato attivo?). È chiaro come, nei casi in esame, l’applicazione di un tale ausilio rappresenterebbe una chiarissima ipotesi di voto per rappresentanza, vietato dall’art. 48, comma 2, della Costituzione e dallo stesso comma 1 dell’art. 55 già citato in precedenza.

in tutte le sue possibili sfaccettature ed implicazioni, a maggior ragione per via del fatto che si ha a che fare con una materia che attraversa trasversalmente le competenze del neurologo, dello psichiatra, dell’anestesista-rianimatore e del medico legale. Qualche essenziale e veloce esempio (senza pretesa di esaustività e rigore scientifico), però, appare comunque opportuno ed utile alla trattazione. Così, ricorrendo alla casistica più nota anche a livello comune, si potrebbero ricondurre alla prima ipotesi su menzionata il coma, lo stato vegetativo o lo stato di minima coscienza (per una sintetica definizione ed analisi si veda A. H. ROPPER, Coma, in AA. VV., Harrison. Principi di medicina interna, Centro Editoriale Ambrosiano, Milano, 2012, pp. 2225 e ss.).

2 È quanto potrebbe accadere, ad esempio, in talune ipotesi di mutismo acinetico nelle quali, pur in presenza di “uno stato di coscienza parzialmente o totalmente integra”, per cui “il paziente ha capacità di […] pensare, come dimostrato dal racconto successivo degli eventi, ma rimane virtualmente immobile e muto” o alcuni casi di sindrome locked in nei quali “il paziente sveglio” non abbia “alcuna possibilità di produrre parola o eseguire altri movimenti volontari”, ivi compreso quello dei globi oculari (definizioni e classificazioni sempre da A. H. ROPPER, Op. cit., pp. 2225 e ss.).

3 Si pensi al caso del cieco che non ha alcun margine di verifica della genuinità e correttezza del contributo del terzo assistente.

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3. Vicissitudini normative

La legge n. 1058/1947 (“Norme per la disciplina dell'elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali”), approvata dall’Assemblea costituente, in continuità con quello che sarebbe poi divenuto l’art. 48 Cost., sanciva che “non sono elettori gli interdetti e gli inabilitati per infermità di mente” (art. 2, comma 1, n. 1)4. Il legislatore in tal modo poneva aprioristicamente una presunzione legale sull’inadeguatezza e sull’inidoneità al voto di una gamma molto ampia di soggetti5, provvedendo contestualmente ad impedire l’esclusione dal corpo elettorale di altri soggetti esposti al rischio di incapacitazione (prodighi, consumatori abituali di bevande alcoliche o sostanze stupefacenti…)6. I redattori, peraltro, non ritennero di motivare analiticamente le ragioni della loro scelta, limitandosi a fare riferimento7 alla consequenzialità rispetto al progetto di

4 A ragion di completezza della ricostruzione storica, va ricordato come, in aggiunta a questa disciplina, posto che “provvedimento di ricovero [in manicomio, n.d.a.] e provvedimento interdittivo/inabilitativo erano, e rimangono, ontologicamente disgiunti” (A. MANACORDA, Infermità mentale, interdizione e diritto di voto, in Foro italiano, 1988, pag. 356), il legislatore, con l’art. 2, comma 1, della legge n. 137/1956, aggiunse che “il diritto di voto è sospeso per i ricoverati negli istituti psichiatrici a decorrere dalla data del decreto del Tribunale che autorizzi in via definitiva la loro ammissione negli istituti suddetti, a termini dell’art. 2 della legge 14 febbraio 1904, n. 36, e fino alla data del decreto col quale il presidente del Tribunale autorizzi, ai sensi del successivo articolo 3, il loro licenziamento dagli istituti medesimi ”. Questa normativa, contenuta in un emendamento al progetto di legge n. 2115/1956, che raccolse quasi unanime consenso in sede di lavori parlamentari (si veda il resoconto stenografico dei lavori della Camera dei Deputati del 9 marzo 1956, pp. 24228 e ss.), ma ampie critiche in dottrina, venne analogamente ripresa dall’art. 3 del T.U. del 20 marzo 1967, n. 223, e parimenti abrogata dall’art. 11 della legge n. 180/1978, in logica consequenzialità alla chiusura delle strutture manicomiali.

5 Anche e soprattutto in virtù della comprensione dei casi di inabilitazione per infermità di mente che, com’è noto agli studiosi del diritto privato, poteva e può essere applicata anche a situazioni dai connotati patologici lievi (in proposito si veda A. MANACORDA, Op. cit., pag. 357).

6 La quale fu, infatti, oggetto di ampi dubbi da parte della dottrina coeva. In particolare essa fu sospettata di illegittimità costituzionale sia in quanto eccessivamente minimale (G. PALMA, Elettorato e liste elettorali, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1965, paragrafo 7; F. BOSCIA, L’ordinamento elettorale comuni province e regioni, Giuffrè, Milano, 1976, pag. 9; P. DE LUCA, L’incapacità elettorale attiva degli interdetti e degli inabilitati civili nonché degli internati in manicomio, in Rivista amministrativa della Repubblica italiana, 1967, pp. 266 e ss.; U. PROSPERETTI, L’elettorato politico attivo, Giuffrè, Milano, 1954, pp. 109-112; T. MARTINES, Commento agli artt. 56-57-58, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli, Bologna, 1984, pag. 64), sia in quanto, per motivi opposti, troppo restrittiva e discriminatoria (A. MANACORDA, Op. cit., pag. 356 e ss.; A. P. GIARRITTA, nota al testo di G. RIZZO, pubblicato in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, n. 3-4/1983, pag. 349). In posizione intermedia P. DE LUCA (Op. cit., pag. 271), che propone una lettura interpretativa nel senso che “il legislatore […] abbia nell’art. 2, n. 1), detto di meno di quanto avrebbe voluto dire (minus dixit quam voluit), essendo, d’altra parte, chiara […] l’intenzione del legislatore di estendere nei confronti di tutti gli incapaci civili la limitazione dell’elettorato attivo”. Un “plauso” ritenne invece di rivolgere al legislatore per “il merito di questa distinzione” L. PRETI, Diritto elettorale politico, Giuffrè, Milano, 1957, pag. 19.

7 Così la relazione illustrativa presentata dal Ministro dell’Interno (Mario Scelba) a corredo del disegno di legge n. 16 dell’Assemblea costituente.

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Costituzione, all’epoca in cantiere8. Questo dato testuale venne ripreso pari pari dal Governo in sede di compilazione del d.P.R. n. 223/1967 (“T.U. delle leggi per la disciplina dell'elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali”)9 ed è rimasto in vigore fino alla sua abrogazione espressa ad opera di un “codicillo”, posto in calce alla legge n. 180/1978.

Quest’ultima – prevalentemente conosciuta come “legge Basaglia” – a differenza degli atti precedentemente citati, non è, com’è noto, specificamente dedicata alla materia elettorale, bensì alle istituzioni ed ai servizi preposti alla tutela della salute mentale10, in particolar modo alla riforma del trattamento sanitario obbligatorio, nell’ottica di adattarlo ad una rinnovata coscienza scientifica e sociale della malattia mentale, oltre che ad un più attento adempimento dei principi costituzionali di riferimento.

È l’ultimo articolo della legge (rubricato “Norme finali”) che, nel sancire l’abrogazione di un decalogo di disposizioni considerate incompatibili con la nuova disciplina e con i principi che la presiedono, dispone anche la cancellazione del “n. 1 dell’articolo 2 e dell’articolo 3 del testo unico delle leggi recanti norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1967, n. 223, nonché ogni altra disposizione incompatibile con la presente legge”. Anche in questo caso il Governo non si sofferma, in sede di relazione illustrativa, ad argomentare le ragioni di questo intervento, dandone la ratio per scontata, al pari di quanto fatto per l’esplicitata ma ovvia abrogazione implicita delle “altre norme incompatibili con la nuova disciplina”.

Non si può dire, però, che il legislatore fosse del tutto inconsapevole della portata del proprio intervento. Se, per quanto riguarda la Camera dei Deputati, la questione non parve suscitare interesse alcuno, emerge infatti dal resoconto

8 Si veda in particolare l’art. 45 del progetto.

9 Il riferimento è, in particolare, a quanto disposto dall’art. 2, n. 1.

10 La legge n. 180/1978 rappresenta la testata d’angolo quel processo che portò alla progressiva chiusura e riforma dei “manicomi”, un fondamentale progresso di civiltà nella considerazione della posizione giuridica e morale della patologia psichica. Se, infatti, in precedenza, “l’esigenza di sicurezza sociale veniva nettamente privilegiata rispetto alla tutela dei diritti […] e della dignità del singolo”, al punto di far parlare “di una vera e propria morte civile del folle”, la riforma del ministro Merlin capovolse tale impostazione (da G. ALPA – A. ANSALDO, Le persone fisiche, in P. SCHLESINGER – F. D. BUSNELLI (a cura di), Il codice civile. Commentario, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 307-308): preso atto del superamento della concezione del paziente psichiatrico quale “alienato, cioè come persona la cui mente è diversa da quella dei sani”, quando invece “la malattia mentale è una normale malattia, senza distinzioni e senza tutele differenziali”, ciò che si volle evitare fu la “desocializzazione dei ricoverati”, vista come ostacolo all’attuazione dell’art. 32 della Costituzione “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (dalla relazione illustrativa del disegno di legge n. 2130 della Camera dei Deputati).

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stenografico dei lavori della XII commissione permanente del Senato, la quale stava trattando in sede deliberante il disegno di legge, che la commissione giustizia11, interpellata insieme all’omologa affari costituzionali, aveva espresso a maggioranza “parere contrario alla soppressione [del n. 1) dell’art. 2 del d.P.R. 223/1967, n.d.a.] poiché in esso si prevede che non sono elettori gli interdetti e gli inabilitati per infermità di mente […] [e] in base all'ordinamento giuridico vigente, tali persone non hanno la capacità di agire neppure per la gestione dei propri affari, talché viene nominato un tutore o un curatore, non appare logico attribuire ad essi il diritto di elettorato attivo e quindi, correlativamente, a norma della Costituzione, anche il diritto di elettorato passivo”12. I parlamentari discussero in maniera limitata della questione13, dedicando maggiore attenzione al cuore del provvedimento, e, nella fretta di concludere l’iter per anticipare il referendum sulla legge n. 36/1904, approvarono il testo proposto senza modifiche.

Il dibattito parlamentare, unito alla stessa collocazione della norma, pare suggerire che il legislatore avesse in mente soltanto una sotto-categoria – la malattia mentale (alla quale non si potrebbero certo ricondurre tutte le ipotesi sopra menzionate di disordini di coscienza) – del più ampio novero di destinatari della previsione concernente la limitazione al diritto di elettorato attivo.

Com’era accaduto per la disciplina previgente, anche l’abrogazione così operata fu oggetto di pareri discordanti in dottrina14.

11 Dei lavori in materia della commissione giustizia non è rimasta traccia negli atti parlamentari, in quanto non furono né verbalizzati né oggetto di resoconto stenografico. L’unica testimonianza diretta è data dal bollettino delle commissioni del Senato del 10 maggio 1978 (pag. 46), il quale si limita a constatare l’emissione di un “parere favorevole con osservazioni”. Altrimenti, per via indiretta, se ne può in qualche misura dedurre il contenuto dalla lettura datane, nell’ambito dei lavori della commissione igiene e sanità del Senato, ad opera del Presidente e del commissario relatore..

12 Dal resoconto stenografico della seduta del 10/05/1978 della XII commissione, pp. 224-225.

13 Tra le critiche più nette: “Non sei capace di curarti? Tanto che ti faccio oggetto di ricovero obbligatorio, poi ti riconosco il diritto di eleggere e di essere eletto a cariche pubbliche. Si tratta veramente di una grave stortura, perchè si afferma così che chi non può curare i propri affari, può curare invece gli affari di carattere generale” denunciò il senatore Del Nero (da resoconto stenografico della seduta del 10/05/1978 della XII commissione).

14 A favore A. MANACORDA (Op. cit., pp. 357 e ss.), E. V. NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione”, in P. SCHLESINGER, Il codice civile. Commentario, Giuffré, Milano, 1995, pp. 13 e ss. e 273 e ss.; contra C. LA FARINA (Infermità mentale e diritti politici, in Rivista italiana di medicina legale, 1979, pp. 15 e ss.) e, più moderatamente, G. RIZZO (Perdita e riacquisto del diritto all’elettorato attivo, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, n. 3-4/1983, pag. 342). In particolare, delle possibili conseguenze paradossali subito si accorsero F. RIGHI (Politica e follia, in Giustizia Nuova, n. 8/1978) e C. LA FARINA (Op. cit., pag. 18), per il quale “non occorre essere un esimio cultore di certe discipline giuridiche, ma è sufficiente un po’ di senso comune per comprendere ciò che non va in siffatta abrogazione”.

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A seguito delle contestazioni sorte in occasione delle elezioni amministrative, a poco meno di dieci anni dalla sua entrata in vigore, l’art. 11 della legge Basaglia fu sottoposto al vaglio della Corte costituzionale dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, ma quella che poteva essere l’occasione per fare chiarezza si concluse in un nulla di fatto, a seguito della dichiarazione di inammissibilità della questione sollevata (e ciò sulla base di operazioni più matematiche che giuridiche)15.

Ad oggi, vicissitudini storiche a parte, il dato di cui rimane traccia nell’ordinamento è quello per cui il legislatore non si è spinto oltre un intervento meramente negativo; non ha, cioè, provveduto, né contestualmente, né in seguito, a dettare una disciplina sostitutiva, che permettesse di dipanare le incertezze così causate. Non resta quindi che lavorare sul piano ermeneutico, per valutare quali ipotesi interpretative sia possibile proporre stante la non univocità del formante legislativo.

4. Le soluzioni: quelle apparenti…

Secondo una prima possibile lettura, il diritto di voto deve considerarsi integralmente ripristinato in capo a tutti i soggetti incapaci a seguito dell’abrogazione espressa del n. 1) dell’art. 2 del d.P.R. n. 223/1967 ad opera della legge n. 180/1978.

Su questa base, però, si aprono due scenari tra loro opposti, che vanno argomentati separatamente:

Ipotesi 1/A: il diritto di voto, in quanto esistente, dovrebbe considerarsi sempre validamente esercitabile, dal momento che non permarrebbe più alcun ostacolo giuridico che legittimi ad escludere il soggetto, per quanto grave sia la sua infermità, dall’esercizio del proprio diritto costituzionale;

15 Ordinanza Corte cost. n. 303/1987, pubblicata sul Foro italiano, Bologna, 1988, pag. 354. La vicenda: lo scrutinio per le elezioni del comune di Pettineo (Messina) si era concluso 558 voti a 557, uno scarto così minimo che aveva indotto la lista di minoranza ad agire davanti alla giustizia amministrativa, denunciando l’illegittimità costituzionale del voto di “ben quattro interdetti”. La soluzione: la questione fu dichiarata “inammissibile per difetto di rilevanza nel giudizio a quo”, dal momento che il T.A.R. aveva attribuito alla lista vincente cinque voti in più rispetto a quelli inizialmente conteggiati, portando “la differenza tra le due liste […] da uno a sei voti”, cosicché “i voti dei quattro interdetti non” risultavano “più decisivi ai fini dell’esito delle elezioni, in quanto” sarebbe residuato “comunque un margine di due voti in più, in applicazione del principio di resistenza”. Com’è noto, erano anni di un intensissimo lavoro per la Consulta, impegnata su diversi e dispendiosi fronti, per cui, nota Virginia Messerini sul Foro italiano, pur “ineccepibile sotto il profilo formale, la decisione della corte risulta espressione dell’attuale tendenza giurisprudenziale volta a sfruttare qualsiasi appiglio per smaltire il lavoro arretrato ed anche per rinviare l’esame di molte questioni delicate” (da V. MESSERINI, Nota alla sentenza n. 303/1987, in Foro italiano, Bologna, 1988, pag. 354).

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Ipotesi 1/B: al di là di un’astratta titolarità, si dovrebbe disgiungere il diritto di voto quale posizione giuridica sostanziale dall’effettiva possibilità del suo esercizio.

Partendo dalla prima delle due varianti, essa appare prevalentemente avvallata dalla dottrina16 e dalla prassi amministrativa17, anche in riferimento ai casi clinici con l’anamnesi e la gravità già ricordate.

Ma è davvero possibile, in presenza di peculiari situazioni come quelle indicate, ritenere perseguibile questa via? In primo luogo, il diritto non è e non può essere mera costruzione teorica; in altri termini, non può l’interprete non considerare l’impasse che si verrebbe a verificare con la presentazione al seggio, ad esempio, di un soggetto in stato vegetativo, sebbene regolarmente munito di tessera elettorale. Non ricorrendo – come si è detto – i presupposti per il voto assistito, posto il divieto alla commissione di seggio di dichiarare l’elettore non idoneo all’ufficio, questa ne dovrebbe forse dedurre in via burocratica l’ipotesi di “rifiuto del ritiro della scheda”, assimilandone così la posizione a quella dei c.d. “votanti di protesta”, senza, però, che possa dirsi davvero rispecchiato l’atteggiamento morale ed ideologico degli stessi, bensì quale mera conseguenza dei constatati impedimenti di natura fisica e patologica?18 Senza contare la sussistenza di una palese contraddizione sul piano logico-lessicale con lo stesso termine “voto”, il quale, per definizione, rappresenta la manifestazione di una volontà19, che, nel caso, fisiologicamente, non sussiste20.

16 In questo senso V. MESSERINI, Op. cit., pag. 354; A. MANACORDA, Op. cit., pag. 356; T. MARTINES, Op. cit., pag. 64; E. GROSSO, Art. 48, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Commentario alla Costituzione, UTET, Torino, 2008, pag. 974; F. FURLAN, Art. 48, in S. BARTOLE – R. BIN, Commentario breve alla Costituzione, CEDAM, Padova, 2008, pag. 486; F. LANCHESTER, Voto (diritto di), in Enciclopedia del diritto, XLVI, Giuffrè, Milano, 1993; G. RIZZO, Op. cit., pag. 343; E. ESPOSITO, Manuale teorico-pratico di diritto elettorale, Maggioli Editore, Rimini, 1998, pag. 33; C. PEPE, I limiti all’elettorato attivo, CEDAM, Padova, 1997, pag. 75.

17 Al sito www.superabile.it, il “Contact Centre integrato per la disabilità”, istituito dall’Inail come portale di informazione e documentazione sulle tematiche attinenti al mondo delle abilità differenti, informa infatti che: “L'Articolo 11 della Legge n. 180/1978 (la cosiddetta "Legge Basaglia"), che ha originato la chiusura degli Istituti psichiatrici, ha abrogato l'Articolo 3 del Decreto Presidente della Repubblica n. 223/67, che aveva sospeso il diritto di voto per le persone interdette, restituendo loro, quindi, il diritto di elettorato attivo, ovvero la possibilità di eleggere ed essere eletti. La norma della Legge Basaglia non stabilisce distinzioni né da direttive precise al riguardo. L'elettore interdetto quindi non ha - allo stato - nessuna limitazione all'esercizio del proprio diritto di voto ed il Presidente del Seggio elettorale non ha la facoltà di verificare le sue capacità.”

18 In alternativa, con ipotesi fantascientifiche, riportate al solo scopo di mettere in evidenza le chiare contraddizioni di questa impostazione, che può arrivare ad assumere connotati grotteschi, si dovrebbe forse ricorrere agli istituti riferibili all’ “elettore che non vota nella cabina” (art. 62 del d.P.R. n. 361/1957) o, se ammesso mero accompagnamento in cabina senza assistenza al voto, dell’ “elettore che indugia artificiosamente nell’espressione del voto o non risponde all’invito di restituire la scheda riempita” (art. 44 del d.P.R. n. 361/1957)?

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Ma anche fingendo di poter ignorare il dato pratico, e volendo ragionare solo sul piano prettamente e strettamente giuridico, una tale impostazione appare comunque insostenibile anche alla luce dell’interpretazione del diritto orientata dal dato sistematico e, soprattutto, dai principi di rango costituzionale.

Procedendo per ordine, il contrasto diretto con questi principi emerge innanzitutto con riguardo all’art. 3 Cost.: per i motivi già esaminati, e per le insuperabili contraddizioni fattuali, è evidente l’assoluto difetto di ragionevolezza, cui si aggiunge la violazione del principio di uguaglianza propriamente inteso, specie nella sua dimensione sostanziale, in quanto, in tal modo, l’ordinamento tratta il cittadino dotato di coscienza e volontà e il degente in stato comatoso come se fossero dotati della stessa capacità autonoma di elaborazione di una scelta e della sua traduzione in una votazione libera e personale, ignorando, peraltro, le specifiche esigenze di protezione che si pongono a tutela dell’infermo (per quanto si dirà anche in seguito). Ulteriori implicazioni sul piano del test di ragionevolezza si evincono dalla lettura incrociata con la seconda parte dell’art. 48, comma 2, Cost., visto che, nonostante le difficoltà oggettive ampiamente ribadite, si finirebbe per gravare di un “dovere civico” – la cui omissione, seppur non più giuridicamente sanzionabile, sarebbe comunque “costituzionalmente riprovevole” – un soggetto non in grado di adempierlo21. Anzi, dal combinato disposto delle norme in materia di incapacità di agire e di definizione dei doveri del soggetto designato come tutore o curatore, si potrebbe addirittura immaginare di onerare quest’ultimo dell’obbligo di attivarsi nella massima misura

19 Costantino Mortati ricorda come il diritto di voto debba considerarsi una forma di estrinsecazione della libera manifestazione del pensiero (da C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, CEDAM, Padova, 1967) e Giuseppe Ferrari rammenta come il “dato glottologico” ed etimologico del termine “elezioni” rimandi al concetto di “scelta”, quale “intrinseca componente della volontà” (G. FERRARI, voce Elezioni (teoria generale), in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Milano, 1965, pag. 617). Analogamente, sintetizzando l’ampia elaborazione concettuale dello stesso G. FERRARI (Op. Cit.), C. LA FARINA (Op. cit. pag. 18) conia la definizione di “atto giuridico di determinazione volitiva e giudicativa”. Tra gli stessi sostenitori della prima ipotesi, lo stesso E. GROSSO, (Op. cit., pag. 971) qualifica il voto come “ libera espressione della coscienza in ogni singolo elettore”.

20 A meno di non ritenere che, come scrisse il giudice Cesare La Farina in forma un po’ enfatica e con la terminologia, oggi desueta, di un tempo, “forse il legislatore spera che, nell’atto dell’espressione del voto nel segreto della cabina, si verifichi, a favore del demente, il miracolo di uno di quei lucidi intervalli di cui si parla in medicina legale e in psichiatria forense” (C. LA FARINA, Op. cit., pag. 19).

21 L’avente diritto che non partecipa agli appuntamenti elettorali si colloca, infatti, fuori dal solco tracciato dalla Carta. Ad oggi, a seguito della legge n. 277/1993, sono venute meno tutte le sanzioni giuridiche che rafforzavano tale precetto, riconducendo il comma 4 dell’art. 48 a quella valenza di obbligatorietà morale che in Assemblea costituente gli voleva attribuita la sinistra (T. MARTINES, Op. cit., pp. 84-85). Nonostante alcune voci in senso contrario (E. GROSSO, Op. cit., pag. 973), a prescindere dal fatto che il legislatore ordinario abbia o meno optato per la previsione di specifiche misure sanzionatorie più o meno gravi, quindi, ciò che “la qualificazione adottata [dal Costituente, n.d.a.] si propone di affermare” è, comunque, “il generico obbligo all’esercizio del diritto” (C. MORTATI, Op. cit., pag. 346), utile a stigmatizzare il disvalore dell’inerzia.

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possibile al fine di garantire al suo assistito il valido esercizio del suo diritto e l’adempimento dei suoi doveri costituzionali.

Ma è nei confronti, specificamente, dell’art. 48 cit. che il conflitto si manifesta con maggiore evidenza, nel momento in cui il comma 2 fissa, in prima battuta, il principio della personalità del voto, connettendo in maniera evidente e indissolubile l’espressione del consenso elettorale alla volizione ed all’autodeterminazione22, che presuppongono la presenza di un foro interno nel soggetto. In quest’ambito essa pare assumere la veste, insieme ai principi di uguaglianza, libertà e segretezza del voto, di elemento non soltanto definitorio, ma costitutivo del diritto stesso e della sua fattispecie giuridica23.

In ogni caso è interpretazione comune e consolidata (anche nella sua lettura più semplice) quella per cui il principio di personalità del voto consti, innanzitutto, nel divieto del voto per rappresentanza24, cui darebbe attuazione in prima battuta l’art. 55, comma 1°, del d.P.R. n. 361/1957, “Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei Deputati”25. E come potrebbe, allora, con riferimento ai casi patologici oggetto della presente trattazione, dirsi davvero rispettata una siffatta e fondamentale prescrizione, che appare inconciliabile già con l’esecuzione degli adempimenti preliminari alla votazione?

Infatti, non soltanto l’apposizione della crocetta, ma la stessa scelta alternativa tra presentazione al seggio – cui consegue la relativa annotazione nel registro dei votanti – ed astensione rappresenta un momento di autodeterminazione dell’elettore, che costituisce parte integrante del processo di votazione. Ed è ciò ancor più chiaro con riferimento, ad esempio, al referendum abrogativo o alle elezioni comunali in presenza di un unico candidato sindaco, occasioni nella quali, essendo previsto un quorum costitutivo ai fini della validità del risultato,

22 In senso parzialmente difforme T. MARTINES, Op. cit., pag. 79.

23 Usando le parole di T. MARTINES (Op. cit. pag. 79), si tratta della “solenne riaffermazione delle imprescindibili qualità del voto in una democrazia fondata sull’eguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini”.

24 In questo senso quasi unanime dottrina, tra cui T. MARTINES, Op. cit., pp. 68 e ss; E. GROSSO “ Art. 48”, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, “Commentario alla Costituzione”, Utet, Torino, (pp. 969 e ss.); F. FURLAN, Op. cit., pag. 491; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, CEDAM, Padova, 1967, pag. 342; L. PRETI, Diritto elettorale politico, Giuffrè, Milano, 1957, pp. 3 e ss.; D. PALAZZO, Elettorato attivo, Edizioni del Levante, Bari, 1958, pag. 56; più sbrigativamente G. PASQUINO, I sistemi elettorali, in G. AMATO – A. BARBERA, Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, Bologna, 1997, pag. 68, e R. BIN – G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, pag. 145;. Divergente, ma minoritaria, la tesi di S. FURLANI (“Elettorato attivo”, in Noviss. Dig. It., UTET, Torino, 1964, pag. 449), secondo il quale “con il voto per rappresentanza o per procura la natura personale del voto non muta”.

25 Recita testualmente “Gli elettori non possono farsi rappresentare né, qualora votino in Italia, inviare il voto per iscritto”.

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l’astensione ha assunto ed assume un’efficacia direttamente oppositiva26, che concorre a determinare la decisione finale e l’esito della consultazione spesso al pari della preferenza espressa. Nei casi clinici menzionati in apertura, il concorso del singolo all’espressione della volontà collettiva verrebbe determinato non dalla coscienza individuale, bensì dall’orientamento del tutore, curatore speciale o amministratore di sostegno, che materialmente deciderebbe se “portare il degente a votare” o non farlo. Un’eventualità che, è chiaro, annullerebbe la libertà elettorale, consacrata dall’art. 48 Cost., che risulterebbe palesemente ed inevitabilmente coartata. Oltre a ciò, in ogni caso, si darebbe luogo ad una chiara ipotesi di voto per rappresentanza, le cui conseguenze appaiono rilevanti anche sotto il profilo del divieto di voto multiplo, come imposto dal principio di eguaglianza dello stesso27.

Per gli stessi motivi si evidenzia anche il contrasto con gli artt. 2, 32 (che mai potrebbero consentire la strumentalizzazione della sfera giuridica del malato per l’adempimento delle finalità politiche del tutore), 21 (diritto di libera manifestazione del pensiero) e 3 Cost. (tutti sono liberi di scegliere se votare o no, mentre l’interdetto deve sottostare alla decisione altrui, che ne determina incondizionatamente la posizione politica ed ideologica).

Devono altresì evidenziarsi le possibili derive patologiche che una tale ricostruzione potrebbe produrre proprio a seguito della presentazione presso il seggio elettorale prestabilito. Già qualcosa si è detto per definire i contorni e le storture di quello che si è definito come “impasse pratico”, menzionando, ad esempio, il possibile riferimento alla dichiarazione di mancato ritiro della scheda (ipotesi che appare aberrante alla luce della considerazione dei principi già citati, con l’ulteriore rilievo per cui si trarrebbe o, forse meglio, si imporrebbe una posizione politica quale mera conseguenza di una condizione patologica, in palese violazione dell’art. 32 Cost.). Ma le ipotesi che la pratica propone si spingono assai più in là.

È bene ricordare, infatti, che i presidenti di seggio e gli altri membri della commissione sono soggetti prevalentemente sforniti di preparazione tecnica e – considerati il divieto di non ammettere al seggio un avente diritto e la emergente necessità di risolvere lo stallo venutosi a creare – non si può escludere che, in presenza del regolare certificato elettorale rilasciato dal competente ufficio comunale e, ad esempio, di una sentenza di interdizione che autorizzi il tutore a

26 Infatti, com’è noto, in ipotesi di referendum abrogativo, i fautori del “no” negli ultimi anni, pressoché costantemente, preferiscono incitare alla non presentazione al seggio, piuttosto che al contrassegno della relativa casella. Per quanto riguarda le elezioni comunali con un unico candidato, poi, l’astensione appare l’unica vera possibilità di ostacolo dell’elezione dello stesso.

27 Come ben riassume E. GROSSO (Op. cit., pag. 969) “in ciascuna consultazione elettorale la manifestazione di volontà dell’elettore deve costituire un atto unico e irripetibile, tale per cui ogni elettore disponga di uno e soltanto di un voto”. Dello stesso parere F. FURLAN (Op. cit., pag. 492).

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sostituirsi al suo assistito in tutti gli atti giuridici che lo riguardano, non trovino nulla da eccepire a che questi vi si sostituisca anche nell’espressione del voto.

Sempre sul fronte dei principi, ad ogni modo, la proposta di una simile lettura appare inconciliabile anche con la prescrizione di cui all’art. 97 Cost., che impone alla legge il dovere di assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione, visto che porrebbe gli uffici elettorali e le commissioni di seggio in una posizione di assoluta paralisi, non potendo negare l’esercizio del diritto, ma non potendolo neppure praticamente garantire.

Quindi, non solo l’evidenza pratica, ma anche la stessa ragione giuridica sanciscono l’impossibilità di considerare il voto, nei casi predetti, come validamente e pienamente esercitabile.

Ciò potrebbe indurre, quindi, a teorizzare una seconda “variante” (in precedenza indicata come 1/B), disgiungendo le categorie della titolarità del diritto e della sua effettiva esigibilità28 e ritenendo il soggetto affetto da gravissima infermità psicofisica comunque pienamente titolare della posizione giuridica attribuita dall’art. 48, comma 1, a “tutti i cittadini (…) che hanno raggiunto la maggiore età”, che non dovrebbe però considerarsi materialmente esercitabile, in quanto ciò non potrebbe avvenire in forme diverse dal vietatissimo voto per rappresentanza.

È una tesi che, in prima battuta, appare carente già sul piano della coerenza logica: se un diritto è giuridicamente riconosciuto, esso deve essere legalmente esercitabile, altrimenti, semplicemente, il diritto non sussiste. Realizzare l’operazione interpretativa di cui sopra, al contrario, rappresenterebbe un mero “fronzolo” giuridico, una “truffa delle forme” destinata a produrre lo stesso risultato sostanziale che conseguirebbe alla perdita del diritto, per una via ermeneutica, però, molto più controvertibile e pericolosa. Si tratterebbe di un tecnicismo, peraltro, di difficile comprensione al cittadino comune, che si vedrebbe recapitare a casa il certificato elettorale del soggetto di cui è tutore, curatore o quant’altro. Con le relative ricadute in termini di ragionevolezza e di rispetto dell’art. 3 Cost.

Sempre alla luce del dato costituzionale, poi, è evidente l’insostenibilità di questa possibile soluzione per l’emergente contrasto, nuovamente, con i commi 1 e 4

28 A questa conclusione potrebbe portare l’impostazione di G. FERRARI (Op. cit., paragrafo 38), secondo il quale “le limitazioni al diritto previste dall’art. 48.3” devono interpretarsi “rettamente come limitazioni all’esercizio della funzione elettiva, ferma restando […] la capacità giuridica, la quale così si dimostra indipendente da quella di agire”, cosicché “sembrerebbe […] che anche i civilmente incapaci ed i moralmente indegni siano titolari del diritto di voto e solo non possano esercitarlo e che con sentenza penale irrevocabile si possa limitare l’esercizio del diritto ma non privare alcuno della titolarità” (da T. MARTINES, Op. cit., pag. 61). Una lettura cui, sebbene non condividendola, non nega una certo valore anche U. PROSPERETTI (Op. cit., pag. 102), secondo cui “pur essendo giuridicamente impossibile, nel caso di necessario esercizio personale del diritto, distinguere fra capacità alla titolarità del diritto e capacità di agire, non mancano in materia elettorale norme che indirettamente mostrano il riferimento del diritto elettorale ai cittadini in quanto tali, indipendentemente dalla loro capacità di essere titolari del diritto stesso e dalla capacità di esercitarlo”. Sul punto rimangono invece apertamente critici T. MARTINES (Op. cit., pag. 61) e G. PALMA (Op. cit., paragrafo 1).

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dell’art. 48 Cost., dal momento che il diritto fondamentale di cittadinanza, riconosciuto dalla Costituzione, sarebbe in realtà completamente svuotato da una categoria giuridica, la “non esercitabilità”, senza alcuna base positiva, con connotati alquanto fumosi, oggetto di accertamento in una sede non legislativamente predeterminata, secondo criteri non chiari e procedimenti non idonei, comunque non garantibili (neanche per via giurisprudenziale e nomofilattica, a tutela dell’unità del diritto oggettivo nazionale). Con l’ulteriore rilievo che lo stesso comma 4, nel predeterminare tassativamente i possibili casi di limitazione del diritto, individua un elenco tipico di situazioni di necessario ed esclusivo accertamento giurisdizionale29.

La dicotomia tra titolarità del diritto e suo esercizio, inoltre, appare di controversa definizione anche alla luce del comma secondo dello stesso articolo, il quale sancisce il principio di libertà del voto: proclamando la natura tendenzialmente universalistica30 della latitudine dell’elettorato attivo, una volta sottratte le tre ipotesi di cui all’ultimo comma, il perimetro del corpo elettorale così individuato non sopporta ulteriori condizionamenti31, a pena di non poter definire il proprio diritto come “libero”32. Perciò o si considera il diritto non sussistente, o, in caso contrario, non si può subordinarne l’esercizio al parere di chicchessia, incaricandolo di decretarne o meno l’esigibilità.

A chi spetterebbe, poi, l’accertamento dell’impossibilità di esercizio? E con quale atto questi potrebbe/dovrebbe intervenire? Sarebbe forse possibile lasciare al presidente di seggio, cioè a un soggetto selezionato con criteri assai variabili, spesso non preparato sul piano giuridico (che, è perciò lecito dubitare, saprebbe orientare il proprio agire sulla base dei principi costituzionali e della disciplina amministrativistica e civilistica di settore?), incaricato di mera attività amministrativa vincolata, senza margini di discrezionalità sull’ammissione dell’elettore al voto, il compito di decidere e disporre sull’esercizio di un diritto politico fondamentale da parte del cittadino33? E su quali basi normative? Con

29 Posizione che appare evidente anche dalla lettura della discussione in sede di Assemblea costituente. Si vedano in particolare, in proposito, gli interventi degli on. Fabbri, Leone, Nobile, Mortati, Uberti nell’ambito dei i lavori della seconda sottocommissione del 12 settembre 1946.

30 Vd. F. LANCHESTER, Op. Cit., paragrafo 11, e L. PRETI, Op. cit., pag. 3.

31 Così la dottrina maggioritaria: F. LANCHESTER, Op. cit., paragrafo 15, T. MARTINES, Op. cit. pag. 65, C. MORTATI, Op. cit., pag. 336 e ss., G. DE FINA, Diritto elettorale, Utet, Torino, 1977, pag. 50.

32 La stessa semantica pone “libero” e “condizionato” quali opposti necessari: ciò che è libero deve essere incondizionato, se è condizionato non può dirsi compiutamente libero.

33 A favore di una riforma in questo senso C. LA FARINA (Op. cit., pag. 19), per il quale “desta sorpresa che nelle leggi elettorali […] non esista alcuna norma che permetta al Presidente del seggio di escludere dall’esercizio del diritto di voto chi, per causa anche transitoria […], appaia palesemente non compos sui, né, tanto meno, esista una norma che permetta un accertamento medico nei casi di più vistoso dubbio”.

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quale atto, ed in forza di quali parametri, visto che non potrebbe certo ordinare una consulenza neuro-psichiatrica per verificare l’effettiva sussistenza di capacità cognitive?

Analoghe considerazioni possono estendersi all’ufficio elettorale comunale34, dotato esclusivamente di competenze relative all’organizzazione delle consultazioni elettorali, non certo di poteri di apprezzamento della condizione psicofisica complessiva quale presupposto per l’esigibilità di un diritto fondamentale del cittadino35.

La mancanza di una base positiva (che non può essere certo rinvenuta nella normativa elettorale, la cui sistematica, al contrario, tende ad attribuire a tutti i vari uffici mere funzioni organizzative, riducendo al minimo i margini discrezionali in favore di un’azione quanto più possibile vincolata) porrebbe l’intervento di qualunque delle autorità dianzi esaminate in aperto contrasto con il principio di riserva di legge in materia di organizzazione dei pubblici uffici, sancito dall’art. 97, comma 1, Cost. Senza contare l’ipotetico vulnus al principio di buon andamento, che si avrebbe nel momento in cui chiamati a decidere fossero funzionari ed impiegati non adeguatamente qualificati, privi di strumenti di accertamento tecnico e, talvolta, anche dei contatti necessari ad una congrua valutazione.

A questo punto è chiaro come la prima delle ipotesi in esame risulti assolutamente inconciliabile con il complesso di principi ed esigenze che dominano la materia elettorale e rendono categoricamente non perseguibile alcuna delle due varianti esaminate. Occorre quindi verificare se l’ordinamento offra ulteriori spunti che possano dar luogo a differenti e più coerenti ipotesi ricostruttive, maggiormente in grado di garantire il rispetto della normativa costituzionale, proteggere e salvaguardare nella massima misura possibile i diritti e l’interesse del degente, evitare l’aporia dell’irrisolvibile illogicità pratica.

5. (segue) e quelle da ricostruire. La cornice costituzionale.

Ciò che offre il dato positivo, e che può essere posto come punto di partenza, è, da un lato, quanto prescritto dall’art. 48 Cost., che con il suo comma 4 (“ il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di

34 In aggiunta a quanto esposto in riferimento al presidente di seggio, va inoltre precisato che l’ufficio elettorale ben potrebbe anche essere completamente all’oscuro della condizione patologica e psicofisica del soggetto, non essendo, a differenza del primo, necessariamente tenuto ad entrarvi in diretto contatto nel corso della propria attività.

35 Analoghe considerazioni possono svolgersi per qualunque altro ufficio della pubblica amministrazione incaricato di esercitare una funzione nell’ambito delle consultazioni elettorali (ufficio territoriale del governo, ufficio elettorale circoscrizionale, direzione centrale dei servizi elettorali…).

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sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”) si pone quale perno inderogabile e necessario attorno al quale far ruotare la riflessione, dall’altro, lo statuto positivo in materia di interdizione, inabilitazione e, più recentemente, amministrazione di sostegno, ossia gli istituti civilistici limitativi della capacità di agire.

Partendo dal primo elemento, ciò che viene innanzitutto in considerazione è il valore e il significato da dare al concetto di “incapacità civile”: si tratta di una dizione normativamente inesistente, ma ben nota alla dottrina e, soprattutto, cosa che forse ancor più importa, chiarissima ai Costituenti. Tale locuzione, infatti, in quel contesto, non rappresenta altro che il punto di arrivo della lunga discussione che sul punto impegnò l’Assemblea, crasi sostanziale tra la iniziale soluzione “giuridicamente capaci”36 e le successive e reiterate proposte, che premevano affinché venisse esplicitamente inserita la dicitura “sentenza civile”37.

Che con detta espressione il Costituente mirasse non ad individuare un dato fisico, un elemento fattuale bisognoso di specificazione concreta da parte del legislatore (come sarebbe accaduto se se il Costituente avesse preferito parlare di “infermità psicofisica” o “mentale” o “incapacità di intendere e volere”), ma una specifica categoria giuridica di istituti e provvedimenti giurisdizionali già codificati ed applicabili, appare chiaro ed esplicito sin dalla lettura del dibattito che ne circondò la redazione: è infatti direttamente dalla voce dell’on. Umberto Merlin, relatore in Assemblea dell’allora art. 45 del progetto, che si apprende che “nella nostra Costituzione, là dove si fa menzione della incapacità civile, […] si comprendono i minori di età, gli interdetti e gli inabilitati”.

In piena continuità, partecipando alla riflessione dottrinale38 immediatamente successiva alla redazione del testo della Carta, lo stesso Costantino Mortati rimarcava la posizione già assunta dall’Assemblea costituente, dando per presupposta la congruenza tra la dizione “incapacità civile” e gli istituti limitativi della capacità di agire disciplinati dal diritto privato, rispetto ai quali, a suo parere, il legislatore ordinario avrebbe soltanto una potestà negativa, che gli impedirebbe, cioè, di dilatare le eccezioni al diritto di voto, derogando in senso

36 Nell’ambito della seconda sottocommissione, il 12 settembre 1946, l’on. Costantino Mortati, in qualità di relatore, propose il testo «La Camera dei Deputati è eletta da tutti i cittadini di ambo i sessi, giuridicamente capaci, sulla base del suffragio eguale, diretto, segreto e personale, che abbiano compiuto la maggiore età ai sensi delle leggi civili. Nessuno può essere dichiarato decaduto dal diritto elettorale se non per disposizione di legge e in forza di una sentenza». Giustamente sollecitato sul significato e la portata dell’espressione usata, nel corso del dibattito l’estensore stesso chiarì la propria intenzione di “riferirsi agli interdetti”.

37 Si vedano le proposte di Fabbri, Tosato, Leone ed altri nell’ambito della seduta della seconda sottocommissione del 12 settembre 1946.

38 All’interno della quale si manifestarono, sul punto, orientamenti ben più rigidi, che si spingevano sino a dubitare della costituzionalità di qualsiasi legge impedisse di escludere la capacità elettorale in presenza di una qualsiasi forma di non piena capacità di agire. Sul punto, per identità dei riferimenti, si veda la nota 60.

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estensivo ai limiti dettati dalla Costituzione, mentre conserverebbe la facoltà di intervenire per ridurre il novero degli esclusi dal corpo elettorale39.

Una posizione ancor più rigida è quella fatta propria da Temistocle Martines40, secondo cui “l’esclusione dall’elettorato attivo, almeno secondo una interpretazione strettamente letterale della disposizione in esame, appare infatti direttamente disposta dalla norma costituzionale nei casi di incapacità civile e per effetto di sentenza penale irrevocabile. Per cui andrebbero esclusi dal diritto di voto a) gli interdetti e gli inabilitati; b) i condannati a pena che importi la interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici”.

Di conseguenza, “al legislatore ordinario spetterebbe soltanto di precisare i casi di indegnità morale che escludono il diritto di voto”, e questi sarebbero gli unici casi nella cui determinazione potrebbe “applicarsi il libero apprezzamento del legislatore”. Il dubbio residuo41 sarebbe esclusivamente legato al carattere atecnico dell’espressione “incapacità civile” 42, che potrebbe determinare una qualche incertezza sul fatto che “siano da comprendere soltanto i casi di incapacità totale (interdizione) o anche quelli di incapacità parziale (inabilitazione)”43.

A corroborare l’idea che la capacità disciplinata all’art. 2 c.c. non sia elemento così distante dalla capacità elettorale44 si unisce anche la contestualizzazione

39 C. MORTATI, Op. cit., pp. 335-336; a favore di una concezione ancor più ampia della discrezionalità del legislatore L. PRETI, Op. cit., pag. 18.

40 T. MARTINES, Op. cit., pp. 62 e ss.

41 Non è questa la sede per entrare nel dibattito relativo alla “questione se le cennate limitazioni incidano sulla sottostante capacità giuridica elettorale (v. PALMA) oppure, preferibilmente, incidano unicamente sull’esercizio della funzione elettiva, o capacità di agire elettorale (v. FERRARI)” (da G. DE FINA, Op. cit., pag. 54). Ad ogni modo, sul punto già qualcosa si è detto in riferimento all’ipotesi definita “1/B” e qualche altro accenno si riprenderà in seguito.

42 L’utilizzo di una tale espressione al posto di una terminologia più specifica ed indicativa dei singoli istituti, così come rubricati dal codice civile, può anche iscriversi nel rapporto tra il paradigma giuridico costituzionale (da considerarsi aprioristicamente più stabile e duraturo) rispetto alle fattispecie delineate dalla legge ordinaria, per loro stessa natura più mutevoli ed elastiche, le cui definizioni e nomenclature possono anche mutare nel tempo.

43 Va però precisato che lo stesso Martines, pur partendo dalle premesse suddette, giunge poi a conclusioni opposte sul fronte della valutazione dell’intervento abrogativo operato con dalla legge n. 180/1978, la quale avrebbe comunque “avuto come effetto di eliminare ogni residua causa di limitazione del diritto di voto per incapacità civile”, sospettando tutt’al più la stessa di “illegittimità costituzionale” (da T. MARTINES, Op. cit., pag. 64).

44 Se G. RIZZO (Op. cit., pag. 343), analizzando la questione nella prospettiva storica, mette in rilievo come “la capacità elettorale, nella comparazione del primo e del terzo comma dell’art. 48” sarebbe

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sistematica dell’istituto . La capacità di agire, infatti, è stata tradizionalmente interpretata e definita in un’accezione fondamentalmente privatistica45, la quale, tuttavia, non può ignorare la fondamentale collocazione che, sin dalla sua origine, le attribuì il legislatore del 1942.

Va infatti ricordato come il codice civile sia in realtà fonte di elaborazione pre-costituzionale e l’intento originario lo volesse quasi a base fondamentale dell’ordinamento giuridico: il legislatore non intendeva, quindi, accontentarsi di regolare i rapporti patrimoniali, ma guardava alla complessiva collocazione giuridica della persona nell’ordinamento. Non possono perciò trascurarsi le ricadute delle sue norme anche in campo giuspubblicistico e, conseguentemente, sui diritti ad esso concernenti, che, sempre attingendo all’elaborazione della civilistica tradizionale, trova una più generale comprensione nell’ampia sintesi di Pietro Rescigno che, con parole suggestive ai fini di questa trattazione, preferisce riferirsi alla “idoneità a svolgere l’attività giuridica che riguarda la sfera di interessi della propria persona”46.

Persino sul piano di della teoria generale del diritto elettorale, con una riflessione valida anche sotto il profilo comparato47, Ubaldo Prosperetti rileva “la tendenza

addirittura stata originariamente concepita “simmetricamente come fetazione e manifestazione della capacità di agire”, altri, come G. PALMA (Op. cit., paragrafo 7), arrivano quasi a far ritenere possibile teorizzare una sorta di legame causale tra la capacità di agire ed il diritto di voto. Del legame tra la capacità di agire ed il diritto di elettorato attivo è, peraltro, ben consapevole anche la dottrina più distante dalle posizioni qui sostenute, com’è il caso di E. GROSSO (Op. cit., pag. 968), che vede sin dal semplice riferimento alla “maggior età”, la volontà di “creare un espresso collegamento tra diritto di voto e capacità di agire”.

45 Tra gli altri Francesco Santoro Passarelli parla dell’ “attitudine naturale della persona a compiere gli atti giuridici che concernono la propria sfera di interessi” (da F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, Napoli, 1983, pag. 34), Pietro Pelingeri della “capacità di manifestare le volontà dirette all'acquisto e all'esercizio dei diritti e all'assunzione degli obblighi” (P. PERLINGERI, Manuale di diritto civile, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2007, come ripreso da T. BONAMINI, Art. 2, in G. BONILINI – M. CONFORTINI – G. GRANELLI (a cura di), Codice civile ipertestuale, online su www.leggiditalia.it).

46 P. RESCIGNO, Capacità di agire, in Noviss. Dig. It., UTET, Torino, 1958, pag. 861 (in senso similare, M. BIANCA, Diritto civile, vol. 1, Giuffrè, Milano, 2002, pp 231 e ss.).

47 In tempi più recenti, Paolo De Stefani registra come un rapporto del 2010 dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali (The right to political participation of persons with mental health problems and persons with intellectual disabilities, disponibile online su http://fra.europa.eu/en/publications-and-resources/publications) “accerta che sono tutt’oggi la maggioranza gli Stati dell’Unione che prevedono una forma automatica di negazione del diritto di voto, attivo e passivo, a carico di persone che hanno subito una limitazione della capacità di agire in ragione della loro condizione di disabilità intellettiva o per una malattia mentale”. Infatti, “l’esclusione automatica dal diritto di voto […] per le persone soggette a forme di interdizione giudiziale (con nomina quindi di un tutore legale) è prevista, talvolta a livello costituzionale, in Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Germania, Grecia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia: 14 Stati su 27, […], in paesi come Estonia, Malta e la Repubblica Ceca, pur vigendo la regola dell’esclusione del diritto di voto per chi ha

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ad identificare l’elettorato attivo con la capacità di agire, facendo coincidere la titolarità del diritto politico con quella del diritto civile”.

Se al contrario, invece, si ritenesse l’incapacità civile come categoria indeterminata e giuridicamente non identificabile nell’ordinamento, necessariamente bisognosa di specificazione da parte della fonte ordinaria, si finirebbe per arrovellarsi in una spirale formalistica, in virtù della quale, pur avendo a disposizione gli strumenti interpretativi per fondarne il significato anche nella prospettiva storica, si dovrebbe comunque ritenere che il giurista necessiti di una legge (invero più con finalità di “interpretazione autentica” che di vero e proprio contenuto dispositivo48) che sancisca che “l’incapacità civile è quella che comunemente è definita come tale”.

In secondo luogo, si riaprirebbe la strada a quel rischio che già l’on. Pietro Mastino in Assemblea costituente aveva preventivato, ovvero che si finisse per lasciare alla discrezionalità del legislatore ordinario il compito di riempire di significato le tre cause limitative del diritto di voto, cosicché basterebbe “emanare una legge che trovi un'incapacità civile […] nell'appartenenza ad un dato partito”, per concretizzare “il pericolo che s'impedisse l'esercizio del diritto di voto per ragioni politiche”49.

Sul piano sistematico poi, non si può trascurale la valenza “indiziaria” delle consonanze tra l’istituto della capacità di agire e la capacità elettorale. In particolare, ciò che viene in rilievo è la contemporanea attribuzione con la

subito una limitazione della capacità di agire per motivi di disabilità intellettiva o malattia mentale, è possibile, con decisioni prese caso per caso, contestare l’estensione dell’interdizione all’esercizio del diritto di voto e riconoscere pertanto all’individuo i diritti politici”; “in Spagna e Francia la regola è la piena partecipazione delle persone con disabilità intellettiva o malattia mentale, salvo che il giudice tutelare, nello statuire sulla misura di interdizione, decida diversamente”, “in Slovenia, dopo che la Corte costituzionale ha affermato che il diritto di voto si lega alla capacità giuridica della persona e non alla sua capacità di agire, la vigente legge elettorale consente alle corti di escludere dal diritto di voto la persona incapace di intendere il significato delle elezioni” (P. DE STEFANI, Le limitazioni al diritto di voto delle persone con disabilità intellettive dovrebbero essere rimosse. In margine alla dichiarazione interpretativa dell’ottobre 2010 della Venice Commission, in Pace diritti umani – Peace Human Right, n. 2/2011, pag. 30 e ss.). Come si avrà modo di ribadire anche in seguito, poi, al fine di adeguarsi alla posizione in proposito assunta dalla Corte EDU nella sentenza Alajos Kiss v. Hungary, quest’ultima ha recentemente modificato la propria costituzione, passando dall’automatica perdita del diritto di voto in conseguenza dell’inabilitazione ad un regime più elastico, che affida al giudice la valutazione caso per caso (in proposito di veda la nota 66).

48 I precedenti analoghi non hanno avuto molta fortuna (appaiono in proposito significative le argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 120/2004, in riferimento all’art. 3 della legge n. 140/2003). Ciò per dire che o il legislatore interviene con un contenuto dispositivo – ad esempio, rimanendo aderenti alla assai moderna prospettiva indicata da C. MORTATI (Op. cit., pag. 336), al fine di “restringere l’ambito dell’incapacità elettorale” – oppure il suo attivarsi ai fini di una mera interpretazione ponte del concetto di “incapacità civile” avrebbe risibile utilità oltre che poco senso.

49 Dalla seduta dell’Assemblea costituente del 22 maggio 1947.

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maggiore età50, sulla base della comune presunzione che, valicata quella soglia, il soggetto abbia raggiunto un livello di crescita personale, maturazione, istruzione, esperienza e autonomia sufficienti a permettergli di elaborare razionalmente una volontà cosciente ed esercitare così scelte ponderate e responsabili, non soltanto quelle riguardanti la propria sfera individuale, ma anche quelle concernenti la sfera altrui (si pensi, per un verso, al diciottenne padre o, per altro verso e per ciò che interessa in questa sede, alla partecipazione alla scelta collettiva destinata a tradursi nel risultato elettorale), acquisendo il potere di determinarsi, secondo i propri interessi, in tutti gli spazi giuridici che lo riguardano.

Così, una volta raggiunta la maggiore età, la persona potrà esercitare anche atti pregiudizievoli della sua condizione particolare (distruggere un bene di sua proprietà, rifiutare una donazione) se questi corrispondano ad una sua posizione etica o morale, così come accade per il voto democratico, ristabilito dopo l’eliminazione degli istituti corporativi di origine fascista.

L’obiezione che vedrebbe nella formula di chiusura dell’art. 48, comma 4, (“nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”) una necessaria e generale riserva di legge, applicata a tutte e tre le ipotesi di limitazione esplicitate51, non appare poi così persuasiva: la letteralità della norma, sia per l’uso della concordanza sintattica, che per l’interposizione della congiunzione disgiuntiva “o”52, a rigore, riferisce la riserva ai soli casi di indegnità morale, non alla sentenza penale irrevocabile, né all’incapacità civile. In ogni caso, si tratterebbe di una questione abbastanza ininfluente, in quanto, per l’ipotesi di sentenza penale irrevocabile, la copertura della fonte primaria sarebbe comunque assicurata dai principi di

50 Per usare le parole di U. PROSPERETTI, (Op. cit., pag. 34) si ha così la “coincidenza della maggiore età politica con la capacità di agire generale”. Lo stesso F. LANCHESTER (Op. cit., paragrafo 5) considera la coincidenza tra l’età fissata per la capacità elettorale e quella per la capacità di agire tra i “parametri formali standardizzati” nell’ambito del “mondo contemporaneo […] alle soglie del ventunesimo secolo”.

51 Così A. MANACORDA (Op. cit., pag. 358), secondo cui la norma costituzionale rinvia “alla legge ordinaria perché indichi i casi in cui il diritto di voto può essere limitato”; E. GROSSO (Op. cit., pag. 974), per il quale il “ legislatore ordinario [ha] il potere di apprezzare discrezionalmente, all’interno di tali ipotesi, se operare effettivamente tale limitazione (il legislatore, infatti, può, ma non è tenuto a dare corso a tale possibilità […] offerta dalla Costituzione” che e, a seguito della legge n. 180/1978, “risulta congelata da quest’ultimo [il legislatore ordinario, n.d.a.], il quale ha stabilito – nell’attuale fase storica – di non avvalersene”; L. PRETI, (Op. cit., pag. 18), che fonda tale lettura sull’interpretazione del predicato “può”, che lascerebbe “il legislatore ordinario […] libero di regolarsi in materia secondo il proprio apprezzamento” decidendo di “privare o non privare del diritto di voto le singole categorie di incapaci civili”.

52 La scelta della congiunzione utilizzare fu oggetto di specifico ed esplicito dibattito nell’ambito della seconda sottocommissione nel corso della seduta del 12 settembre 1946. Si vedano in particolare gli interventi degli onorevoli Lussu, Mortati, Perassi, Rossi, Fuschini, Codacci Pisanelli ed altri…

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legalità e tassatività che presiedono la materia ai sensi dell’art. 25 Cost.53; per le forme di incapacità civile, come si è detto, nell’intenzione del legislatore la formula costituzionale opererebbe un diretto rinvio ad una serie di specifici istituti già previsti nell’ordinamento54.

Detto questo, per tirare le somme, non pare privo di senso concludere che, se i Padri Costituenti vollero sancire “la universalità del suffragio, cioè l’estensione del diritto elettorale a quanti sono forniti della capacità civile di agire”55, la mancanza o il successivo venir meno della stessa precluda o travolga la valida attribuzione del diritto stesso.

Fissata la base costituzionale e l’architettura normativa nella quale si incastona la disciplina di dettaglio, si tratta quindi di individuare quali istituti possano venire in considerazione e quali effetti debbano considerarsi propri della sentenza civile nel campo del diritto elettorale. Proprio grazie al sapiente utilizzo ed alla duttilità dell’espressione “incapacità civile”, l’occhio dell’interprete non è costretto a fossilizzarsi sugli istituti “storici” (in particolare interdizione giudiziale ex art. 414 cc. e inabilitazione ex art. 415 cc.), ma può scorrere gli articoli del codice a seconda dell’evoluzione temporale della normativa di settore.

Ciò permette, ad esempio, ai nostri fini, di prendere in considerazione il recente istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto dalla l. n. 6/200456. Com’è

53 Rispetto ai quali la riproposizione della riserva di legge apparirebbe tautologica, scontata ed, in definitiva, inutile.

54 In ogni caso, a voler in qualche misura recuperare un valore all’obiezione, si potrebbe valorizzarne il significato quale rafforzativo nel delimitare l’esclusione dal diritto di voto ai soli casi di quella che la dottrina civilistica definisce come “incapacità legale” (minore di età, interdizione giudiziale, interdizione legale, inabilitazione, emancipazione, amministrazione di sostegno), contrapposta alla c.d. “incapacità naturale” che è, invece, condizione di fatto.

55 C. MORTATI, Op. cit., pag. 340

56 Se, infatti, si fosse preferito storicizzare la Costituzione, affermando, ad esempio, “ il diritto di voto non può essere limitato se non per interdizione o inabilitazione” (come forse piacerebbe ad una certa corrente di pensiero), la sopravvenienza di un nuovo istituto giuridico, come nel caso citato, determinerebbe ogni volta un vulnus ordinamentale ed un paradosso irrazionale, nel momento in cui a quest’ultimo fossero riconducibili anche casi clinicamente più gravi rispetto a quelli prevalentemente inquadrati nell’ambito delle ipotesi tradizionali. Così è accaduto proprio nell’ipotesi dell’amministratore di sostegno che, addirittura, fece dubitare qualcuno in dottrina sul fatto che si fosse così realizzata una sostanziale abrogazione della disciplina di interdizione ed inabilitazione. Come ha registrato ampia dottrina, infatti “interdizione ed amministrazione di sostegno […] possono scontare, a date condizioni […], sostanziale identità di presupposti applicativi” (da R. MASONI, Art. 404. Amministrazione di sostegno, in P. CENDON (a cura di), Commentario al codice civile, Giuffrè, Milano, 2009, pag. 559): imponendo un superamento del c.d. “criterio quantitativo” (diverso grado di incapacità), in favore di “un criterio di natura logico-funzionale, fondato sulla maggiore adeguatezza dell’istituto giuridico ad assicurare idonea protezione al disabile in correlazione al tipo di attività che il beneficiario deve compiere” (R. MASONI, Op. cit., pag. 560), un intervento della Corte costituzionale prima (sentenza n. 440/2006, pubblicata su www.giurcost.org) e della Corte di Cassazione poi (sentenza 12 giugno 2006, n. 13584, consultata online su

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noto al primo segue una perdita pressoché totale della capacità di agire, al secondo una limitazione tendenzialmente più lieve, mentre, per quanto riguarda il terzo, l’incidenza sui diritti e capacità del soggetto è molto più variabile e dinamica, a seconda dell’intervento regolativo di volta in volta operato dal giudice.

È a questo punto che occorre chiedersi: la cancellazione del testo dell’art. 2, n. 1) del d.P.R. n. 223/1967, ad opera della legge n. 180/1978, può forse aver prodotto l’effetto di determinare l’esclusione tout-court dell’incapace civile dal diritto di voto (indipendentemente dalla gravità clinica dello stesso) per applicazione diretta e meccanica dell’art. 48 Cost.57? Ovviamente no. L’art. 48 non è, per così dire, un naufrago in mezzo al nulla e il tenore della sua lettera (prima di tutto lo stesso utilizzo del verbo “potere”58), oltre che l’interpretazione sistematica dell’istituto, obbligano a procedere per una via più ponderata.

È chiaro che, quando si parla di diritto di voto, non ci si riferisce ad una mera opzione nella galassia delle facoltà giuridiche dell’individuo, ma ad un diritto fondamentale di cittadinanza, consacrato come tale dalla lettura incrociata delle disposizioni della Carta. Il principio democratico59, il concetto di rappresentanza politica nazionale, l’uguaglianza del voto e, più in generale, la scelta plebiscitaria dell’art. 48, comma 1, impongono il dovere di cercare di garantire nella massima misura possibile l’espressione elettorale del cittadino: il suo esercizio, nel momento in cui sussistano i requisiti costitutivi di libertà, personalità e segretezza60, è tutelato anche a prescindere dalla presunta o presumibile

www.leggiditalia.it) hanno contribuito a dipanare i dubbi sulla normativa in questione, ritenendo ammissibile l’applicazione dell’amministrazione di sostegno anche, ad esempio, ad un “soggetto in coma ricoverato in un istituto di cura”, per il quale il fattore di discrimine rispetto all’interdizione potrebbe essere rappresentato anche soltanto dalla “consistenza e complessità del patrimonio” (S. DELLE MONACHE, Prime note sulla figura dell’amministrazione di sostegno: profilo di diritto sostanziale, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2004, fascicolo 1, pp. 37 e ss.; G. BONILINI – F. TOMMASEO, “Dell’amministrazione di sostegno”, in P. SCHLESINGER – F. D. BUSNELLI, Il codice civile. Commentario, Giuffrè, Milano, 2008, pag. 68).

57 In questo senso G. PALMA, Op. cit., paragrafo 7; F. BOSCIA, L’ordinamento elettorale comuni province e regioni, Giuffrè, Milano, 1976, pag. 9; P. DE LUCA, Op. cit., pp. 266 e ss.; U. PROSPERETTI, Op. cit., pp. 109-112;

58 Che ben potrebbe tradursi non solo come l’attribuzione di una facoltà in capo al legislatore, ma come rimando al prudente apprezzamento del giudice ed alla discrezionalità che, in qualche misura, comunque lo caratterizza.

59 Davanti al quale, posta la moderna concezione del ruolo nella società della persona affetta da infermità, anche psichica, la generalizzata negazione del diritto apparirebbe anche un fattore di regresso sul piano delle conquiste della civiltà giuridica.

60 Cioè, per dirla con le parole della Corte costituzionale, quei principi di “carattere universale” che “vanno osservati in ogni caso in cui il relativo diritto debba essere esercitato” (Corte cost. sent. n. 96/1968,

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“qualità” del voto, e infatti l’ordinamento ammette a concorrere con pari valore alla formazione della rappresentanza politica nazionale anche la preferenza espressa in modo non adeguatamente consapevole, basata su ragionamenti estemporanei e disinformati o, talora, anche sul semplice gradimento estetico del simbolo61.

Ordunque, se ciò può e deve essere concesso ai non infermi, perché non dovrebbe essere parimenti riconosciuto agli incapaci civili? La limitazione del diritto elettorale non è che una deroga alla regola generale, che va, pertanto, interpretata restrittivamente, affinché non si affidi al giudice il ruolo di pubblico censore sulla meritevolezza intellettuale per l’accesso al voto (cosa che sostanzialmente avverrebbe pretendendo dall’infermo condizioni e livelli di consapevolezza più elevati rispetto a quanto non accada per il cittadino maggiorenne non affetto da patologia)62. In aggiunta a ciò si potrebbe persino riconoscere una rilevanza interpretativa all’art. 32 Cost., nel momento in cui la partecipazione al processo democratico potesse rappresentare un momento o fattore di crescita civile, morale e in termini di consapevolezza e responsabilizzazione individuale.

Quindi, in sintesi, sarebbe gravemente discriminatorio e costituzionalmente aberrante considerare la sentenza del giudice civile un’automatica “tagliola”63. Il

pubblicata su www.giurcost.org, ripresa e contestualizzata da F. FURLAN, Op. cit., pag. 491).

61 In fondo l’ipotesi non appare così fantasiosa, dato che, a quanto sembra, l’usanza consolidata di apporre sul simbolo della lista il nome di un personaggio pubblico (anche non candidato o, magari, neppure candidabile) può anche esercitare sull’elettore un certo impatto, capace di riflettersi persino con evidenze percentuali.

62 In riferimento alla previgente normativa, annotava infatti A. MANACORDA (Op. cit., pag. 357) come “molte situazioni di degrado socio-culturale comunque non collegate ad infermità psichica; molti casi di persone che vivono emarginate dal vivo contesto sociale, vuoi per motivi più tipicamente geografici, vuoi per motivi socio economici, possono con ragione indurre a ritenere che scarsa sia da parte di questi cittadini la sostanziale capacità di elaborazione critica delle informazioni, e quindi di produzione di opinioni; e corrispondentemente molto tenue la capacità di influire in maniera consapevole sulle scelte politiche della comunità nazionale o sovranazionale”, mentre, al contrario, nella “realtà molto complessa e variegata” che è costituita dal disturbo psichico “possono […] rintracciarsi situazioni in cui le capacità di elaborazione critica delle informazioni, e quindi di produzione di opinioni, […] sono del tutto indenni”. Così, se, in riferimento alla prima fattispecie, “in una società […] formalmente democratica nessuno può seriamente pensare di proporre che nei confronti di persone di questo tipo sia limitato il diritto di voto”, a maggior ragione irragionevole, discriminatorio ed antidemocratico sarebbe farlo con riguardo alla seconda.

63 In questo senso sembrerebbe andare anche la Corte EDU nel caso Alajos Kiss v. Hungary, n. 38832/06 (Sect. 2), deciso il 25 maggio 2010: “pronunciandosi sul ricorso di un cittadino ungherese, escluso dal voto perché inabilitato a causa di una disabilità psico-sociale, ha stabilito che una assoluta negazione del diritto, che colpisca un’intera categoria di persone, tanto più se già per altri versi vulnerabile e storicamente vittima di pregiudizio, non si giustifica in ragione del pur ampio margine di apprezzamento che gli Stati sono liberi di seguire quando definiscono il perimetro del corpo elettorale e viola pertanto l’art. 3 del I Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti umani” (P. DE STEFANI, Op. cit., pag. 32). In particolare “la Corte riconosce […] l’ampio margine di apprezzamento” che il legislatore

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potere di limitare il diritto di voto va strettamente agganciato alla sussistenza dei parametri indicati dalla normativa vigente: in particolare alla corte, chiamata a sentenziare sulla limitazione della capacità di agire, sarà demandato il compito di accertare il rapporto tra le facoltà del soggetto ed il possibile soddisfacimento dei requisiti di personalità del voto ed espressione dello stesso in via diretta (quindi in forma diversa dalla rappresentanza), in base a quanto previsto dagli artt. 48 Cost. e 55 del d.P.R. n. 361/1957.

6. Il senso della disciplina civilistica: una proposta

Ora, individuato l’impianto generale che trova le proprie basi fondamentali nel testo costituzionale, occorre verificare se davvero la normativa civilistica risulti idonea a soddisfare le esigenze del caso.

Partendo dalla più incisiva figura dell’interdizione giudiziale, si afferma correntemente che con la sentenza pronunciata ex art. 414 cc. si determina l’incapacità totale di agire del soggetto (quindi, per le ragioni di cui sopra, sembra lecito dire, anche la perdita della capacità elettorale). È, questa, un’apparente rigidità, che viene contemperata dall’art. 427 c.c., in base al quale “nella sentenza che pronuncia l’interdizione […] può stabilirsi che taluni atti d’ordinaria amministrazione possano essere compiuti anche dall’interdetto […] senza l’assistenza del tutore”. Sfruttando le definizioni in proposito fornite dalla dottrina civilistica, tra gli “atti di ordinaria amministrazione” può agevolmente essere compreso anche il voto64, che, anzi, dovrebbe essere obbligatoriamente

nazionale ha “nella determinazione della possibilità di giustificare, ai tempi odierni, restrizioni […] al diritto di voto”, prevedendo “quali procedimenti dovrebbero essere configurati per valutare la capacità di votare di persone con disabilità mentale”. Tuttavia, tale “margine di apprezzamento, per quanto ampio, non è illimitato” e, trattandosi di limitazioni a diritti fondamentali “vi devono essere ragioni molto serie a sostegno delle restrizioni”, che non possono operare sulla base di aprioristici pregiudizi e stereotipi, ma necessitano di una “valutazione individualizzata delle capacità e dei bisogni delle persone”, perciò “una rimozione generalizzata dei diritti di elettorato attivo e passivo, condotta senza una valutazione giudiziaria individualizzata ed esclusivamente basata sull’esistenza di una disabilità mentale che renda necessaria una forma parziale o piena di tutela legale, non può essere considerata un fondamento legittimo per la limitazione del diritto di voto” (Corte EDU, Alajos Kiss v. Hungary, n. 38832/06, 20/05/2010, ripresa e parzialmente pubblicata da P. DE STEFANI, Op. cit., pp. 32-33). In attuazione a questa pronuncia, il Parlamento ungherese decise di emendare la propria costituzione, “assoggettando l’eventuale esclusione del diritto elettorale della persona con malattia o disabilità mentale ad un giudizio dinanzi ad un tribunale e non per mero effetto automatico dell’incapacitazione civile” (P. DE STEFANI, Op. cit., pag. 32).

64 L’interpretazione che riconduce il voto agli atti di ordinaria amministrazione appare coerente e ricavabile con gli ordinari metodi ermeneutici, senza forzare il dato letterale. L’elaborazione tradizionale individua la straordinarietà dell’amministrazione sulla base dell’esigenza di “protezione dell’inabilitoto di fronte agli atti maggiormente pregiudizievoli per lui”, ponendo la “potenziale dannosità [economica n.d.a.] dell’atto” quale elemento di discrimine. Il perimetro dell’amministrazione ordinaria, al contrario, viene ricavato per semplice differenza (così E. V. NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione”, in P. SCHLESINGER, “Il codice civile. Commentario”, Giuffré, Milano, 1995, pp. 268 e ss.; per una ricostruzione parzialmente alternativa, che però conduce ad identico risultato, si veda A. BULGARELLI, Art. 427, in P. CENDON, Commentario al codice civile, Giuffrè, Milano, 2009, pp. 1147 e ss.). Un secondo

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concesso dal giudice, qualora il soggetto risulti capace di esprimere un processo volitivo idoneo a tradursi in una scelta di voto secondo i criteri già esposti.

Si tratta di una specificazione che, alla sussistenza dei presupposti predetti, si configura come un vero e proprio dovere processuale (così come il giudice non potrebbe infondatamente escludere l’interdetto dalla possibilità di compiere atti che egli appaia in grado di porre validamente in essere, in virtù della tipologia e gravità dell’infermità che lo affligge, a maggior ragione non potrebbe immotivatamente limitare l’esercizio di un diritto politico fondamentale), la cui violazione potrebbe essere fatta valere mediante gli ordinari meccanismi di impugnazione65. Al contrario, ove l’accertamento compiuto ai sensi dell’art. 419 cit. dovesse dare esito negativo, la sentenza di interdizione travolgerebbe la capacità di agire e, così, anche il diritto di voto sulla base del mero silenzio del giudice

Un meccanismo contrario opera, proprio in virtù della diversa presupposta gravità clinica, con riguardo alle ipotesi di inabilitazione, per le quali non il silenzio del giudice, ma, in conformità alla disciplina del codice, solo il suo espresso divieto potrebbe determinare la perdita del diritto. Considerazioni analoghe possono valere anche in riferimento all’amministrazione di sostegno.

Una volta valutata la coerenza sostanziale dell’impianto normativo, non di poco conto sembrano una serie di ulteriori implicazioni sostanziali e procedurali, che concorrono alla completezza del sistema. In primo luogo, a garanzia della continuità amministrativa degli effetti della sentenza giurisdizionale, la normativa vigente prevede l’obbligo per il cancelliere del tribunale di comunicare, entro dieci giorni, all’ufficiale di stato civile66 la sentenza di interdizione o inabilitazione (art. 423 c.c.), al fine dell’annotazione a margine dell’atto di nascita (identica normativa è prevista per l’amministrazione di sostegno dal comma settimo dell’art. 405 cc.). Tale disciplina sembrerebbe concretamente in grado di garantire la fluidità e l’automatismo nei passaggi che dalla decisione del giudice porterebbero alla cancellazione dalle liste elettorali.

In secondo luogo, sebbene si tratti di una precisazione quasi superflua, in questi casi non soltanto il giudice potrebbe valersi di una consulenza tecnica, mediante

parametro, che induce ad interpretare la norma nel senso di includere il voto tra gli atti di ordinaria amministrazione, può essere rinvenuto sul fronte dell’obbligo di interpretazione conforme: se il giudice non avesse la possibilità di riconoscere all’interdetto la capacità elettorale nei casi in cui riscontrasse il possesso delle facoltà necessarie, la disciplina civilistica presterebbe il fianco a dubbi di legittimità costituzionale – per contrasto con gli artt. 1, 3, 32, 48 Cost. – nella parte in cui non prevede che l’infermo possa essere ammesso ad esercitare il proprio diritto.

65 Ivi compreso il ricorso per cassazione, deducendo la violazione di una norma di diritto sostanziale e, nella fattispecie, della disciplina costituzionale in materia di diritto di voto.

66 Presso i cui registri di anagrafica e cittadinanza attingono gli uffici elettorali ai fini della compilazione delle relative liste.

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la quale valutare con canoni scientifici l’effettiva sussistenza e consistenza delle capacità cognitive e volitive del soggetto, ma il codice ammette anche l’attivazione di particolari mezzi di istruzione ufficiosi (che, in talune ipotesi, sono addirittura obbligatori, com’è il caso dell’esame personalmente e direttamente compiuto), che permettono alla corte di forzare le tradizionali barriere legate al principio dispositivo del processo civile, a tutela dell’interdicendo o inabilitando, ma anche di quegli interessi superindividuali che inducono la dottrina a parlare della “coloratura pubblicistica” di questi istituti. Proprio in correlazione a quest’ultimo profilo, va annotato il particolare rilievo che assume l’obbligatoria partecipazione del pubblico ministero (art. 70, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile), i cui compiti di sorveglianza, genericamente individuati dall’art. 73 del regio decreto n. 12/1941 (legge sull’ordinamento giudiziario)67, troverebbero specifica e precisa declinazione nei diversi ruoli che la parte pubblica potrebbe trovarsi a ricoprire, in particolare:

proporre la domanda di interdizione, anche, eventualmente, a seguito di approfondimenti compiuti riguardo a casi segnalati dagli uffici elettorali (o dai “responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona” a norma dell’art. 406, comma 3, cc.68) del territorio, a tutela sia della posizione giuridica dell’interdetto (affinché, come detto, la sua sfera giuridica non venga strumentalizzata dal tutore), che del buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione, nonché della stessa legittimità del voto (affinché, ad esempio, non vengano computati ai fini del quorum soggetti assolutamente incapaci di prendere parte alle operazioni);

partecipare e vigilare sullo svolgimento del giudizio civile in ogni sua fase, con funzioni di garanzia a presidio dell’interesse pubblico ed individuale dell’interdetto;

esercitare il potere di impugnazione della sentenza inadeguata, anche, eventualmente, a soli fini di nomofiliachia, affinché giudici diversi non emettano provvedimenti diversi, basati su canoni ermeneutici tra loro contraddittori, che avrebbero l’effetto di rendere il diritto elettorale disomogeneamente esercitabile, a seconda delle circoscrizioni giudiziarie del territorio nazionale;

67 Testuale: “Il pubblico ministero veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci […]. / Ha pure azione diretta per fare eseguire ed osservare le leggi d'ordine pubblico e che interessano i diritti dello Stato, sempre che tale azione non sia dalla legge ad altri organi attribuita.”

68 Dispone il comma terzo dell’art. 406 del codice civile: “I responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso di cui all’art. 407 o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero”.

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garantire il continuo aggiornamento del provvedimento pronunciato (nel corso del tempo, infatti, l’impedito al voto potrebbe, ad esempio, presentare un miglioramento clinico tale da non legittimare più l’esclusione dalle liste elettorali, ovvero, nell’ipotesi opposta, se ad egli sia stata inizialmente riconosciuta la facoltà di partecipare alle consultazioni, il decorso peggiorativo della patologia potrebbe comportare la necessità di approntare nuove e più incisive limitazioni), anche disponendo approfondimenti sulla base di segnalazioni eventualmente ricevute dagli uffici elettorali comunali, che non solo sono posti più a diretto contatto con il cittadino, ma anche inseriti nell’ambito della stessa struttura amministrativa che comprende i servizi sociali e molti servizi di assistenza sanitaria o domiciliare, opportunità che faciliterebbe la circolazione delle informazioni.

Entro i limitati margini di flessibilità della sentenza di interdizione (ovvero, a maggior ragione, grazie alla più ampia duttilità con cui il giudice può plasmare il contenuto del provvedimento inabilitazione o amministrazione di sostegno) può trovare spazio, poi, l’applicazione di possibili accorgimenti all’uopo necessari. Così potrebbe essere, ad esempio, per la nomina di un curatore speciale o di un protutore, quale soggetto destinatario delle funzioni di assistenza al voto, nei casi in cui l’espletamento di tale attività ad opera del tutore apparisse, secondo le circostanze, fatto idoneo a limitare libertà, personalità e la segretezza del voto del tutelato69.

Detto questo: che cosa rimane dell’intervento abrogativo operato dal legislatore del 1978? L’effetto che il – forse troppo – frettoloso70 intervento abrogativo ha determinato è quello di espungere dall’ordinamento la presunzione aprioristica, operata dal legislatore ordinario in forza dell’art. 2, n. 1), del d.P.R. n. 223/1967, producendo, secondo l’ipotesi sostenuta, in mancanza di sostituzione o integrazione con esplicita disciplina di legge, nell’impossibilità di ritenere il diritto genericamente, totalmente ed incondizionatamente attribuito, una riespansione della potestà decisoria del giudice civile, secondo il suo prudente apprezzamento del caso concreto, che potrebbe71 perciò trarre dalla capacità civile le conseguenti implicazioni sul piano della capacità elettorale, di cui ai competenti uffici amministrativi spetterebbe esclusivamente prendere nota72.

69 In questo modo, ad esempio, il giudice potrebbe intervenire indicando un soggetto diverso rispetto al tutore, nei casi in cui questi risulti politicamente impegnato, ovvero in quelle eventualità nelle quali anche il semplice accompagnamento potrebbe indurre un’influenza o coazione della volontà dell’incapace (che, ad esempio, si sentisse obbligato a scegliere in un modo piuttosto che in un altro per non “scontentare” l’accompagnatore con cui coabita o ha legami di parentela).

70 Come dimostrato dagli atti parlamentari e registrato in dottrina (il riferimento è a V. MESSERINI, Op. cit., pag. 354).

71 In consonanza con l’indicativo presente dell’art. 48, comma 4.

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** Università degli Studi di Trento – Facoltà di Giurisprudenza

72 A questo punto merita un cenno un’ulteriore, possibile, variante interpretativa. Non pare assolutamente privo di fondamento, infatti, congiungere l’elaborazione della civilistica minoritaria in materia di incapacità di agire (F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, Napoli, 1964, pag. 30) – che attribuisce al provvedimento giurisdizionale addirittura efficacia limitativa della capacità giuridica in riferimento ai c.d. “atti personalissimi” (per i quali non può darsi luogo a sostituzione ad opera del tutore, curatore o chicchessia) – a quella di chi, sul piano giuspubblicistico, specie in passato, legava l’art. 48, comma 4, alla perdita della capacità giuridica elettorale (in tal senso G. PALMA, Op. cit., paragrafi 1 e 5; C. PEPE, Op. cit., pag. 74; per un’analisi approfondita si veda invece U. PROSPERETTI, Op. cit., pag. 101). In questo modo si potrebbe pervenire a qualificare come “atto personalissimo” anche il voto. Sul piano positivo un apparente, ma non decisivo, sostegno a questo proposito potrebbe derivare proprio dalla qualificazione “personale” (art. 48, comma 2), anche se appare difficile fondarne il significato – sia nella prospettiva storica, data dai lavori dell’Assemblea costituente, sia in riferimento all’attuale interpretazione dottrinale – nel senso di un esplicito rinvio alla speciale categoria degli atti privatistici così definiti dalla letteratura. L’impianto concettuale apparirebbe astrattamente coerente, ma la questione, più che al diritto costituzionale ed elettorale, è preminentemente influenzata dalla ricerca di una coerenza interna alla dottrina privatistica, che, al contrario, risulta schierata in modo maggioritario con la concezione tradizionale (P. RESCIGNO, Capacità di agire, in Digesto delle discipline privatistiche, UTET, Torino, 1988, pag. 210; M. BIANCA, Diritto civile, Giuffrè, Milano, 2005, pag. 232; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006, pag. 129). Per il resto, sia sotto il profilo dell’inquadramento costituzionale, che in termini di ricadute pratiche, la differenza con la ricostruzione sin qui prospettata non appare particolarmente evidente.

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Mutamenti costituzionali e politiche migratorie

nei Paesi dell’Islam mediterraneo. Il caso egiziano *

di Giuseppe Piluso**

(18 settembre 2014)

1. La politica in materia di flussi migratori rappresenta, notoriamente, un indice

importante del livello di tutela dei diritti fondamentali1. A distanza di alcuni anni dalle rivolte

che hanno sconvolto l’area nordafricana e mediorientale, è tempo di bilanci su quella che

è stata definita “primavera araba”. In particolare, pare opportuno chiedersi se i mutamenti

geopolitici di cui sopra abbiano determinato davvero un balzo in avanti verso la tutela dei

diritti fondamentali. In questo senso, potrebbe risultare utile fare riferimento alle politiche

adottate da questi Paesi in materia gestione dei flussi migratori. Si tratta di materia poco

esplorata, anche e soprattutto perché queste aree sono conosciute soprattutto per essere

l’origine e non certo la destinazione dei flussi migratori. Tuttavia, il fenomeno immigratorio,

che inevitabilmente s’intreccia a quello dei richiedenti asilo per ragioni geopolitiche, non è

affatto sconosciuto ai Paesi arabi e, in particolare, all’Egitto, unanimemente considerato

una Nazione leader dell’Islam mediterraneo, sia sotto il profilo politico-culturale sia sotto il

profilo socio-economico. Cercheremo, dunque, qui, di delineare i tratti essenziali della

politica migratoria di questo Paese, con riferimento alla sua complessa e vivace storia

costituzionale, per vedere quali sono, in questo senso, le prospettive, in connessione al

tema più generale dei mutamenti costituzionali in corso nell’area. Occorre, a tale riguardo,

tenere distinte tre diverse questioni. In primo luogo, occorrerà far cenno all’Egitto quale

“Paese di emigrazione”, che ha visto succedersi flussi migratori caratterizzati dal

cambiamento delle condizioni nazionali e internazionali nonché il succedersi di diverse

esigenze nel mercato del lavoro. A questo primo volto dell’Egitto occorre aggiungere,

però, una nuova realtà costituita dai flussi di immigrazione nel Paese che hanno dato

luogo al problema, che sarà analizzato più avanti, delle forme di tutela dei rifugiati e dei

richiedenti asilo. L’Egitto, come si vedrà, ha risentito dell’assenza di una vera e propria

legislazione in materia di tutela degli immigrati unita ad una adesione tardiva alle

* Scritto proposto dal prof. Ciro Sbailò.

1

Cfr. P. Benvenuti, Flussi migratori e fruizione dei diritti fondamentali, L’Aquila, il Sirente, 2008.

1

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Convenzioni sovranazionali. Infine, nella terza parte di questo lavoro, occorrerà analizzare

in che modo il succedersi delle Carte Costituzionali abbia inciso sulle politiche migratorie

del Paese2.

2- Dal diciannovesimo secolo in poi i tradizionali flussi migratori verso l’Egitto hanno

lasciato spazio ad un massiccio fenomeno di emigrazione. L’intervento di vari fattori come

il cambiamento delle condizioni internazionali, difficoltà economiche e nuove esigenze del

mercato del lavoro hanno consentito alla dottrina di distinguere cinque diverse fasi nel

flussi migratori dell’Egitto.

La prima fase può essere individuata nel periodo che va dagli anni cinquanta agli anni

settanta. In questi anni le opportunità di lavoro per gli egiziani erano rimesse agli

interventi statali che non riuscivano, tuttavia, a far fronte all’aumento della popolazione.

Anche l’assenza di uno sviluppo dei settori economici e tecnologici incideva in modo

profondo sulle opportunità di lavoro3.

Per questi motivi il governo egiziano diede luogo ad una politica più aperta nei confronti

dell’emigrazione consentendo già dal 1971 la possibilità di allontanarsi sia in modo

temporaneo che permanente. E’, tuttavia, nel 1974 l’anno in cui si eliminarono del tutto le

restrizioni nell’emigrazione per motivi di lavoro. In questo modo la grande parte degli

emigranti si spostò verso i Paesi del Golfo arabo dove erano presenti numerose

opportunità di lavoro nel settore petrolifero anche in seguito all’embargo del 1973 che

determinò l’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio4. Anche l’'emigrazione per motivi

di studio si registrò in modo massiccio in quegli anni. In particolare, subito dopo la fine

2

Per ripercorrere le recenti vicende costituzionali in Egitto vedi C. Sbailò, Dove va l’Egitto? Riflessioni su un “colpo di stato democratico”, in www.federalismi.it, n. 16, 2013.

3

Cfr. AA. VV., Immigration Worldwide: policies, practices and trends, Uma A. Segal , Oxford, 2009.; A. Zohry, Immigration to Egypt, in Journal of Immigrant and Refugee Studies, IV, Uma A. Segal, Oxford, 2006, 33 ss.

4

Si tratta dell’embargo petrolifero intervenuto nel 1973 ad opera dei Paesi dell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries) che determino un aumento del prezzo del greggio esportato verso l’Occidente. Le ragioni di tale embargo non furono soltanto economiche ma anche politiche: con tale misura i Paesi dell’Opec intendevano ridimensionare la politica occidentale in medio oriente.

2

Page 52: Forum quaderni costituzionali rassegna 9 2014

della guerra del 1967, numerosi studenti e laureati si trasferirono all’estero5. Infatti,

secondo i dati forniti dalla “Central Agency for Public Mobilization and Statistic”

(CAPMAS), il numero delle emigrazioni dall’Egitto si aggirava intorno alle 70.000 unità6.

Ad incrementare il numero degli emigranti fu anche il diffondersi, a partire dagli anni ’50,

del nazionalismo Egiziano, di cui era espressione lo slogan «L'Egitto per gli Egiziani», che

costrinse un considerevole numero di Greci, Italiani e Maltesi ad emigrare7.

La seconda fase, definita dalla dottrina come un periodo di “espansione”, iniziò nel 1974 e

perdurò fino al 19848. L'intervenuto aumento del prezzo del petrolio comportò per i Paesi

arabi ambiziosi programmi di sviluppo che aumentarono le richieste di lavoro straniero. In

questo scenario internazionale l’Egitto colse l’occasione di alleggerire il mercato del lavoro

nazionale rendendo ancora più semplice la procedura per emigrare nei Paesi stranieri. Nel

1981 si diede luogo al Ministero per l'emigrazione con il compito di supportare la

migrazione egiziana e disegnare una strategia unitaria per l'emigrazione9. La strategia

consisteva nell'incoraggiare l'emigrazione e nello stesso tempo incentivare gli investimenti

in Egitto.

In questa fase venne varata anche l’importante legge n. 111 del 1983 che, oltre a ribadire

l’importante principio del diritto all’emigrazione temporanea e permanente, stabilì

5

La guerra del 1967, definita anche “guerra dei sei giorni”, fu un conflitto sorto tra Israele, da una parte, ed Egitto, Siria e Giordania, dall’altra, che si concluse con una rapida vittoria israeliana. All’esito della guerra Israele riuscì a strappare la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza all'Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania e le alture del Golan alla Siria.

6

Cfr. AA. VV., Immigration Worldwide, cit.

7

Cfr. M. Campanini, Storia dell'Egitto contemporaneo. Dalla rinascita ottocentesca a Mubarak, Bologna, Il Mulino, 2005. In tal senso si richiamano i dati forniti dalla “Central Agency for Public Mobilization and Statistic” (CAPMAS) secondo cui nel 1976 il numero degli emigranti si aggirava intorno ad 1.400.000 unità.

8

Cfr. A. Zohry, Immigration to Egypt, cit, 33 ss.

9

Cfr. Decreto presidenziale No. 574 del 1981 istitutivo del Ministero dell’Emigrazione.

3

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numerose misure per mantenere e rinforzare i legami con gli egiziani all’estero10.

La terza fase, cosiddetta di «contrazione», si ebbe dal 1984 al 1987, e vide una notevole

diminuizione del numero delle emigrazioni. I fattori causali che determinarono tale

scenario furono molteplici. In particolare le tensioni presenti nell’area del Golfo Persico

comportarono una vera e propria restrizione nel mercato petrolifero, la diminuizione di

offerte di lavoro nel settore edilizio e il diffondersi di politiche nazionaliste fecero sì che ai

lavoratori stranieri dei Paesi Arabi si sostituissero lavoratori nazionali11.

La quarta fase, dal 1988 al 1992, definita come «fase di ritorno», fu caratterizzata dalla

stagnazione nel numero degli emigranti egiziani con un significativo flusso di ritorno

dall'area del Golfo in Egitto12. L’inizio della prima Guerra del Golfo determinò una vera e

propria diminuizione del numero dei contratti ai nuovi emigranti dall'Egitto13. Considerando

il 1988 come anno base il numero dei contratti si dimezzò nel 1989. Inoltre, l’inasprirsi

della Guerra costrinse tutti i migranti Egiziani in Iraq e Kuwait a ritornare in Egitto.

Nella quinta fase, dal 1992 al 2003, i flussi migratori tornarono allo stadio precedente

all'inizio della Guerra14. In quel periodo si costituì anche il Ministero del Lavoro e

dell’Immigrazione con lo scopo di vincolare la politica emigratoria con lo sviluppo socio

10

La legge 111 del 1983 definisce come migranti permanenti coloro che sono rimasti all’estero per almeno 10 anni o hanno ottenuto un permesso di residenza permanente o hanno ottenuto la nazionalità. Sono invece migranti temporanei coloro che non essendo studenti o espatriati lavorino all’estero per più di un anno e tornino in Egitto per massimo 30 giorni durante l’anno. La legge contiene anche numerosi principi che costituiscono ancora oggi l’architrave della politica dell’emigrazione egiziana. All’art. 2 si prevede, in particolare, l’istituzione di consoli onorari, associazioni, club e unioni di Egiziani all’estero; all’art. 3 si chiarisce che il compito del Ministero dell’emigrazione è quello di “pianificare, organizzare, implementare e dare seguito a delle politiche emigratorie miranti a rinforzare i legami fra gli Egiziani all’estero e la madre patria, e (miranti) a contribuire allo sviluppo socio-economico della Nazione e all’interesse nazionale del paese”; all’art. 4 è disciplinato il cosiddetto “Comitato Supremo per l’emigrazione” costituito da responsabili di più Ministeri e svolge una funzione di raccordo con gli egiziani all’estero. Per approfondimenti cfr. AA.VV., Stati africani e migrazioni, La sfida dell’institution building, in www.cespri.it, XXXIX, 2008.

11

Cfr. M. Campanini, Storia del Medio Oriente contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2013; A. Zohry, Immigration to Egypt, cit., 33 ss.

12

Cfr. A. Zohry, op cit., 33 ss.

13

Per una trattazione più analitica cfr. M. Campanini, Storia del Medio Oriente, cit.

14

4

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economico15

Negli anni più recenti l’emigrazione egiziana verso i Paesi Arabi è prevalentemente di

carattere temporaneo a fronte di una emigrazione permanente verso l’Europa e l’America.

Le ragioni di tale distinzione non si basano su dati statistici relativi alla durata del

soggiorno, ma riflettono, invece, una diversa politica seguita dai Paesi di destinazione.

L’affermarsi di una legislazione rivolta all’integrazione sul versante europeo ha inciso in

modo rilevante verso una emigrazione di carattere permanente16. Tuttavia anche i più

recenti fatti della cosiddetta “primavera araba” hanno inciso sul fenomeno dell’emigrazione

determinando un massiccio ritorno di egiziani provenienti dai Paesi arabi17.

3. Seppur di dimensioni inferiori, l’immigrazione in Egitto è tutt’oggi esistente con un

aumento registrato nell’ultimo decennio. Nel 1996 la presenza straniera in Egitto era

inferiore all’1 per cento, con circa 116.000 stranieri nel Paese fino a raggiungere nel 2006

la cifra di 262.500 stranieri18.

Gli immigrati in Egitto provengono principalmente dai Paesi arabi anche se si contano

parecchie centinaia di europei e americani che lavorano in progetti sponsorizzati da

governi stranieri, agenzie internazionali e organizzazioni umanitarie19. Prendendo in

In base alle rilevazioni ufficiali del CAPMAS nel 2000 il numero degli emigranti egiziani era all’incirca di 2,7 milioni di persone. La prevalenza delle migrazioni temporanee era rivolta ai Paesi Arabi mentre le migrazioni permanenti erano dirette verso l’Europa e l’America del Nord.

15

Cfr. AA.VV., Stati africani e migrazioni, cit.

16

Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Emigrazione egiziano nell’anno 2009 il 74 per cento degli emigrati si dirige verso il mondo arabo (verso la Libia e l’Arabia saudita una cifra pari rispettivamente a 2 e 1,3 milioni di egiziani, seguiti da Giordania e Kuwait con, rispettivamente, 250 mila e 190 mila egiziani). La restante percentuale si dirige in modo paritario verso l’America e l’Europa.

17

Cfr. M. Scaramella, Egitto – Rapporto Paese, www.reteirva.it. Secondo i dati forniti dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni dalla Libia sarebbero rientrati circa 155 mila egiziani.

18

.Cfr. AA.VV., Gli immigrati egiziani in Italia e in Veneto, in www.bancadati.italialavoro.it

19

5

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considerazione anche questi soggetti l’ammontare della presenza straniera in Egitto

eccede probabilmente il numero degli emigranti egiziani20. L’afflusso di soggetti stranieri in

Egitto ha contribuito e contribuisce tutt’ora ad incrementare la forza lavoro del Paese21.

Per fare ingresso nel Paese è necessario un passaporto valido e un visto di ingresso.

Maggiori requisiti sono richiesti per i cittadini di alcuni Paesi stranieri che devono fare

rapporto alle Autorità egiziane entro una settimana dall’arrivo22. La legislazione egiziana

prevede, tuttavia, altre due modalità di ingresso nel Paese attraverso un permesso

riconosciuto dal Dipartimento Immigrazione o dal Ministero dell’Interno. Al di là di queste

fattispecie che sono eccezionali chi tenta di entrare in Egitto senza documenti rischia di

essere processato e imprigionato. Il Ministro dell’Interno ha, inoltre, la possibilità di esiliare

chi rappresenti un pericolo per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, la salute pubblica

e l’economia o se costituisca un onere per lo Stato23. Ciò non può avvenire, tuttavia, per

coloro che hanno uno speciale permesso di soggiorno. Si tratta dei rifugiati il cui

riconoscimento è imputato non al governo egiziano bensì all'opera dell'Alto Commissariato

delle Nazioni Unite per i rifugiati (cosiddetto UNHCR) che opera in collaborazione con il

Ministero degli Affari Esteri24. Le guerre e la massiva violazione dei diritti umani in Africa e

Secondo la legislazione egiziana in materia di lavoro in ogni stabilimento il numero degli stranieri altamente specializzati presso ogni stabilimento non può superare il 25 per cento mentre per i lavoratori non specializzati o semispecializzati non può eccedere il 10 per cento del totale.

20

Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Emigrazione nel 2002 i permessi concessi e rinnovati a stranieri ammontavano ad un totale di 17.897. La percentuale era così determinata: 49,6 per cento Paesi Arabi, 26,3 per cento Europa, 14 per cento Asia, 7,9 per cento America ed Australia, 0,8 per cento Africa e 1,3 per cento altre Nazioni.

21

Il mercato del lavoro è attualmente regolato dalla legge n. 137 del 1981 anche se vi sono altri disegni di legge che sin dal 2009 sono stati esaminati dal Parlamento eletto. Cfr. AA. VV., Immigration Worldwide, cit.; Steven Heydemann, Networks of privilege in the Middle East : the politics of economic reform revisited, VIII, Basingstoke and New York, Palgrave MacMillan, 2004

22

Cfr. A. Zohry, Immigration to Egypt, cit., 33 ss.

23

Cfr. AA. VV., Immigration Worldwide, cit.; Steven Heydemann, Networks of privilege in the Middle East, cit.

24

6

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nel Medio Oriente è stata la principale causa dei rifugiati. Il Cairo è la città nella quale sono

stanziati il numero più grande di rifugiati25. Questi ultimi provengono da vari Paesi ma la

percentuale maggiore è costituita da sudanesi, palestinesi, ed iracheni26.

Nel 1951 l'Egitto fu, con la Turchia, l'unico Stato non occidentale ad aver firmato la

Convenzione sui rifugiati. In questo modo l'Alto Commissariato stabilì il suo ufficio in Egitto

nel 1954. Al momento della ratifica della Convenzione, tuttavia, l'Egitto inserì una riserva

considerando inapplicabili alcuni articoli sullo stato personale dell'individuo come ad

esempio il trattamento dei rifugiati rispetto ai cittadini e l'accesso alle cure sanitarie ma gli

articoli non applicati e che avrebbero avuto grande impatto sul sistema egiziano erano gli

articoli 22 sulla educazione primaria e l'art. 24 sull'occupazione27. Per questi motivi i

rifugiati in Egitto non hanno possibilità di ottenere una piena integrazione. Il diritto di asilo

per i rifugiati politici venne riconosciuto successivamente anche nell’articolo 53 della

Costituzione egiziana del 197128. Questo articolo statuiva l'obbligo per l’Egitto di garantire

il diritto di asilo per far fronte alle persecuzioni degli stranieri, per la difesa dei diritti umani,

per la pace e la giustizia. Ulteriore norma di particolare rilievo era l’art. 151 che stabilì la

forza di legge per i trattati internazionali ratificati dall’Egitto29. Negli anni successivi l’Egitto

Anche l'ufficio del Presidente era in grado di garantire il diritto di asilo ai rifugiati politici ma poco è conosciuto circa le procedure per ottenere l'asilo. Esso sembrava riservato solo a persone di alto profilo come lo Shah dell'Iran, Jafar Nimeri del Sudan o la moglie dell'ultimo re della Libia. Gli altri rifugiati che intendano ottenuto un permesso di soggiorno sono costretti a rivolgersi ad altro ufficio che fa capo al Ministro degli interni. Cfr. A. Zohry, Immigration to Egypt, cit., 33 ss; AA. VV., Immigration Worldwide, cit.; G. Jaeger, On the History of the International Protection of refugees, in International Review of the Red Cross, 83, 2001.

25

Cfr. A. Grahl Madsen, The Status of Refugees in International Law, Leiden, 1966.

26

La popolazione Sudanese è quella più diffusa e secondo i dati forniti nel 2003 e si aggirava intorno ad una cifra che va dai 3 ai 5 milioni. Cfr. R. Grindell, A study: Refugees’ Experiences of detention in Egypt, American University, 2003

27

Cfr. A. Zohry, Immigration to Egypt, cit., 33 ss.; cfr. M. Azzam, Egypt’s Military Council and the Transition to Democracy, in Chatham House Briefing Paper, V, 2012.

28

Cfr. R.A. Hinnebusch, Egyptian Politics under Sadat. The post-populist development of an authoritarian- modernizing state , Boulder, Lynne Rienner Pub., 1985; AA. VV., Immigration Worldwide, cit.

29

7

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ratificò, infatti, numerose Carte internazionali: nel 1980 la Convenzione dell'OUA sullo

specifico problema dei rifugiati, nel 1981 il protocollo sullo status di rifugiato del 1967 e nel

1984 la Carta Africana sui diritti umani che contribuì a definire meglio il concetto di diritto

all'asilo. La Dichiarazione Araba del 1992 costrinse, inoltre, gli Stati Arabi a costruire un

concetto comune di rifugiato e di richiedente asilo attraverso il richiamo alle previsioni delle

Nazioni Unite sugli strumenti di protezione dei diritti umani e divieto di refoulement.

L'Egitto è anche un Paese firmatario della Convenzione sui diritti del Bambino del 1990

che statuisce il diritto dei bambini ad avere un libero accesso all'educazione e al supporto

psicologico dopo la guerra. Tuttavia non è consentita nelle scuole pubbliche egiziane né la

primaria né la secondaria educazione per la maggior parte dei rifugiati. Se questi ultimi

sono interessati ad una educazione universitaria possono ottenerla solo a proprie spese30.

Nonostante le previsioni costituzionali sui rifugiati e la ratifica di numerosi trattati

internazionali, il mantenimento delle restrizioni sulla Convenzione dei rifugiati del 1951,

l'assenza di una legge nazionale e la politica non scritta di non integrazione del governo

egiziano contribuiscono, pertanto, ancora oggi ad aumentare i disagi dei rifugiati in

Egitto31.

Il governo ha attribuito all'Alto Commissariato delle Nazioni Unite la responsabilità per la

determinazione dello status di rifugiato ma i maggiori problemi nascono dall'assenza della

possibilità di rivedere in sede giurisdizionale l'esclusione di tale riconoscimento32.

Sin dal 1997 ci sono stati più di sessantamila richiedenti asilo ma solo diciottomila sono

state le domande accolte. Oltre trentaduemila domande sono state rigettate e chi non ha

Cfr. Article 151 Constitution of the Arab Republic of Egypt 1971. The President of Republic shall conclude treaties and communicate them to the People’s Assembly, accompanied with a suitable clarification. They shall have the force of law upon being concluded, ratified and published according to established procedure.

30

Cfr. A. Zohry, Immigration to Egypt, cit., 33 ss; AA. VV., Immigration Worldwide, cit.

31

Cfr. R. Pfimai Mutwira, Asylum-seeking traum: a Journey without a destination, Xlibris Corp, 2012. L'Autore evidenzia che sebbene l'Egitto abbia firmato sia la Convenzione sui rifugiati e il Protocollo del 1967 i richiedenti asilo e i rifugiati continuano a subire arresti e deportazioni. Dal 2007 centinaia di richiedenti asilo e rifugiati e migranti del sud del Sahara hanno rischiato la loro vita attraversando i confini dell'Egitto verso Israele. Arrivano al confine essendo presi di mira dai cecchini egiziani e anche chi riesce a sopravvivere spesso va incontro al respingimento da parte delle autorità israeliane.

32

Cfr. G. Jaeger, On the History, cit.

8

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fatto ritorno nel Paese di origine vive continuamente sotto la costante minaccia della

detenzione e della deportazione.

Occorre, però, evidenziare l'evoluzione che ha avuto per i richiedenti asilo l'inserimento

della «yellow card» nel 2002. Prima di tale data, infatti, i richiedenti asilo ottenevano solo

un foglio che mostrava la data del colloquio e il numero di passaporto. Esso tuttavia non

era stampato dall'UNHCR e non offriva altre informazioni anche se si reputava che

venisse consegnato con l'autorizzazione dell'Alto commissariato33. In questo modo le forze

dell'ordine non riconoscevano la validità di questa carta e molti richiedenti asilo dovevano

aspettare più di un anno per una decisione sul loro caso continuando a subire un serio

rischio di deportazione o detenzione.

Dal 2002 i nuovi richiedenti asilo ottengono, come detto, una «carta gialla» valida per sei

mesi ma rinnovabile tre volte che tuttavia non garantisce una piena tutela. Solo quando

avviene il riconoscimento dello status di rifugiato da parte dell'UHNCR è possibile ottenere

una «carta blu» che consente ai richiedenti asilo di risiedere in Egitto. Anche la rimozione

della dicitura «work prohibited», presente in passato nei vari documenti di ingresso, è

sicuramente un passo decisivo per una maggiore tutela dei richiedenti asilo34.

Attualmente, però, la situazione economica dei rifugiati in Egitto permane critica35 perché,

a fronte di problemi economici ed un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 20

per cento, i rifugiati spesso sono vittima di razzismo e xenofobia.36 Tuttavia i problemi

economici e sociali presenti in Egitto e, in particolare, al Cairo non sono dovuti alla

presenza di rifugiati perché essi ricevono fondi dall’estero e spesso ricoprono un lavoro

non voluto dagli egiziani. Inoltre essi ricevono un’assistenza molto limitata da parte

33

Cfr. A. Zohry, The Place of Egypt in the regional migration system as a receiving country, in Revue Europèenne des Migrations Internationales, XIX, 3, 2003.

34

Cfr. A. Zohry, Immigration to Egypt, cit., 33 ss.

35

Cfr. AA. VV., Immigration Worldwide, cit.

36

Cfr. A. Zohry, Immigration to Egypt, cit., 33 ss.

9

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dell’UNHCR e dalle Organizzazioni non governative e, per questo motivo, la presenza dei

rifugiati spesso non costituisce un fattore negativo per l’economia. Essi infatti, a differenza

della classi più povere, alimentano il settore privato degli affitti e se intendono frequentare

gli studi sono costretti a pagare i rispettivi contributi37.

L’assistenza, che, come detto, è piuttosto limitata, viene riconosciuta da parte dell’Alto

commissariato delle Nazioni Unite e delle Organizzazioni non governative principalmente

nelle città del Cairo e di Alessandria38.39. L’assistenza, di cui sono beneficiari qualche

centinaia di persone, ricomprende sostentamento, attività sanitaria e ausilio nella ricerca di

un lavoro nell’ambito domestico. L’Alto Commissariato contribuisce economicamente

assegnando ad un numero limitato di rifugiati proventi economici con l’ausilio della

Caritas40.

Sebbene il numero dei rifugiati continui ad aumentare, gli stanziamenti economici tendono

sempre di più a diminuire41. In questo modo, seppur venga mantenuta la protezione per gli

anziani , gli infermi e i bambini, alcune categorie come gli uomini senza famiglia, gli

immigrati della Sierra Leone e della Liberia rischiano di perdere la necessaria protezione.

Anche dopo la Primavera araba la situazione per i rifugiati non è cambiata e, così come ha

denunciato l’Alto Commissariato, sicuramente è andata incontro ad un aggravamento,

37

Cfr. A. Zohry, The Place of Egypt, cit.

38

Cfr. C. Sbailò, C. Sbailò, Principi sciaraitici e organizzazione dello spazio pubblico nel mondo islamico. Il caso egiziano, Padova, Cedam, 2012, 255 ss. L’Autore evidenzia che «benchè le ONG in Egitto siano molto numerose (15.000, secondo stime reperibili su internet), la loro influenza è minima, perché il controllo governativo è molto pervasivo. Uno specifico dipartimento nel Ministero degli Affari sociali è sottoposto alla supervisione. A tutte viene riservato il medesimo trattamento, indipendentemente dalla natura e dalla funzione».

39

Cfr. AA. VV., Immigration Worldwide, cit.

40

Cfr. UNHCR, Handbook on Procedures and Criteria for Determining Refugee Status under the 1951 Convention and the 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, in www.uhncr.it, 1992.

41

Dal 1997 al 2002 i fondi stanziati sono passati da $2,928,129 a $1,677,088. Per maggiori dettagli cfr. AA. VV., Immigration Worldwide, cit.

10

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anche a causa di numerosi cittadini libici ammassati al confine egiziano42.

L’Alto Commissariato è stato costretto, infatti, ad installare un presidio presso Salloum,

una piccola città ai confini egiziani con la Libia, per poter far fronte ad un considerevole

numero di richiedenti asilo che a causa delle restrizioni del Governo egiziano sono stati

confinati in quella ristretta area43.

4. In questa situazione di crisi economica e sociale si è innestata una nuova fase

connotata dalle manifestazioni di protesta di Piazza Tahrir del 25 gennaio 2011.

Il periodo che ne è scaturito, fin dai primi giorni della Primavera Araba, è stato definito

dalla dottrina come «una fase di transizione» perché volta a conseguire un equilibro tra gli

attori della vita pubblica dell’Egitto.

La doppia vittoria elettorale conseguita dai Fratelli Musulmani, a seguito dello scioglimento

della Camera per effetto di interventi giudiziari, non fu sufficiente a garantire un vero e

proprio percorso costituzionale. La nuova Assemblea Costituente di predominanza

islamica riuscì a varare la Costituzione sottoposta a referendum tra il 15 e il 22 dicembre

2012 e approvata con il 63,8 per cento dei votanti.

Il testo Costituzionale poggiava, tuttavia, su alcuni vizi formali e sostanziali come i

numerosi rinvii alla legislazione ordinaria in materia di libertà civili. Nonostante ciò, la

nuova Costituzione presentava taluni profili di particolare rilevanza come il rafforzamento

dell’identità arabo islamica, la ricostruzione su base coranica delle libertà fondamentali, il

superamento della “Costituzione di emergenza” voluta da Mubarack, il diniego

dell’accesso alla vita pubblica degli esponenti del passato regime. Continuava ad essere

presente il «tradizionale richiamo ai principi sciaraitici quale fonte principale del diritto» 44

che consentiva, in tal modo, una «riaffermazione del principio ordinatore islamico» volto a

42

Cfr. A. Zohry, The Place of Egypt, cit.

43

Cfr. R. Shuman Centre for Advanced Studies, The Arab Spring and Migration in Egypt: one year on: Impacts, Perceptions and Attitudes, CMRS, 2012.

44

Nella Costituzione permanente del 1971 di Sadat era già presente il richiamo ai principi sciaraitici collocati al vertice delle fonti normative, prima in posizione “preminente”e poi “principale” con la riforma del 1980. In quel caso il processo di islamizzazione delle fonti del sistema fu funzionale al processo di “denasserizzazione” dello spazio pubblico volto a spostare l’asse della politica estera del Paese verso gli Stati Uniti.

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ricostruire la nozione di interesse pubblico in chiave comunitaristica e non

individualistica45.

Tale Carta ha avuto, però, vita breve perché ne è seguita una fase di scontri politici e

anche fisici dovuti sia ad una inesperienza dei Fratelli Musulmani dal punto di vista

amministrativo sia all’aggravarsi della crisi economica46.

Numerosi sono stati i fattori che hanno prodotto questa situazione di malcontento verso la

classe politica. Nonostante i Fratelli Musulmani abbiano dimostrato di sapere usare le

regole del mercato, dall’altra, hanno dato luogo ad una politica improntata al centralismo

amministrativo puntando al rafforzamento dei poteri governativi. Anche le scelte del

Presidente Morsi hanno inciso in questa direzione, attraverso la nomina di Governatori

delle Province sulla base del criterio della fedeltà e dell’affidabilità «piuttosto che quello

dell’efficienza, della professionalità e della credibilità nei confronti degli amministrati»47.

In questo contesto politico e sociale sia la classe militare che i Salafiti hanno avuto la

possibilità di alimentare il dissenso consentendo in tal modo, alla fine dell’aprile 2013, la

nascita di un movimento per la destituzione di Morsi che raggiunse circa 20 milioni di

adesioni nella metà di giugno.

A seguito dell’esito negativo dell’ultimatum dato al Presidente per raggiungere un accordo

si è proceduto alla sua deposizione ed arresto dando avvio, l’otto luglio 2013, all’ennesimo

Proclama costituzionale48 che ha portato alla più recente approvazione della Carta

45

Cfr. M. Azzam, Egypt’s Military Council, cit.; cfr. C. Sbailò, “Primavera araba”, “risveglio islamico”, “deriva autoritaria”. Mutamenti costituzionali nel nord africa a tre anni dall’inizio delle rivolte, in Quad. Cost., I, 2014. L’Autore richiama in particolare la condizione della donna e la libertà religiosa come esempio di libertà ricostruite in chiave comunitaristica e non individualistica. Ruolo fondamentale rispetto al passato è riconosciuto anche ad al-Azhar nel riconoscere la coerenza sciaraitica della legislazione. Cfr. C. Sbailò, Diritto pubblico dell’Islam mediterraneo. Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Padova, Cedam, 2014, in corso di pubblicazione.

46

Per una trattazione più approfondita cfr. I. Harb, The Egyptian Military in Politics: Disengagement or Accommodation?, in Middle East Journal, 2, 2003, 269-290; C. Simon-Belli, L’Egitto tra Maghreb e Machrek, Milano, Franco Angeli, 2001; M. Campanini, Storia dell’Egitto contemporaneo, cit.

47

Un episodio particolarmente contestato fu la richiesta di dimissioni, senza consultazioni con le altre forze politiche, del gen. Tantawi, capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate e Ministro della Difesa, a seguito di alcuni gravi attentati alla penisola del Sinai. Cfr. C. Sbailò, Elezioni presidenziali in Egitto: quando le Corti vogliono guidare le Transizioni , in Quad. Cost., III, 2012; R. Schulze, Il mondo islamico nel XX secolo. Politica e società civile, Milano, Feltrinelli, 2004.

48

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costituzionale del 14 e 15 gennaio 2014 con la partecipazione del 38 per cento degli aventi

diritto al voto e una maggioranza schiacciante del 98 per cento a favore dell’entrata in

vigore della nuova Costituzione49. Quest’ultima si presenta come un testo complesso che

racchiude in sé «tre diverse Costituzioni»50. Da una parte vi è la Costituzione d’emergenza

volta a consentire all’Elite militare di governare il periodo di transizione, dall’altra vi è

quella che rappresenta il patto costituzionale tra l’elite militare, l’alta magistratura e le forze

politico-sociali non islamiste. Infine vi è una terza Costituzione che è espressione della

spinta in chiave universalistica e umanitaria51.

In questo nuovo testo costituzionale è possibile verificare alcune significativi segni di

discontinuità con la Costituzione del 2012. All’obiettivo perseguito dai Fratelli Musulmani di

realizzare l’islamizzazione della società “viene contrapposto una restaurazione della

“statalizzazione dell’Islam”52. Si persegue, inoltre, un progetto di semplificazione dei

rapporti tra Esecutivo e Legislativo con il venir meno della Seconda Camera e un

potenziamento del rapporto dialettico tra i poteri. Si ha inoltre un rafforzamento dei poteri

presidenziali con la possibilità di adottare decisioni anche quando il Parlamento non sia

operante. Infine si realizza lo sgretolamento della ricostruzione in chiave comunitaria dei

Il proclama costituzionale intervenuto nel 2013 non è, questa volta, opera delle Forze armate , come avvenne, invece, a seguito della deposizione di Mubarack ma è effettuato dal Presidente ad interim della Corte Costituzionale.

49

Cfr. C. Sbailò, “Primavera araba”, cit.

50

Per una trattazione più ampia cfr. M. Oliviero, Il Costituzionalismo dei Paesi Arabi. Le Costituzioni del Maghreb, Milano, Giuffrè, 2003; R. Schulze, Il mondo islamico nel XX secolo , cit.

51

Cfr. M. Azzam, Egypt’s Military Council, cit.; C. Sbailò, Stabilizzazioni formali e dinamiche costituzionali in Tunisia e in Egitto, in Quaderni Costituzionali, II, 2014, 443-446. L’Autore chiarisce che la nuova Costituzione determina una frattura con il vecchio sistema comunitaristico dei diritti politici e sociali ricollocando al centro del sistema il rapporto individuo/Stato. In questo modo si amplia il numero dei diritti dell’individuo ma si riduce la protezione della persona con una maggiore vulnerabilità rispetto al potere statale.

52

I principi sciaraitici restano la principale fonte della legislazione e continua a permanere il riferimento alla scuola di Al-Azhar anche se ciò che viene eliminata è “l’implementazione nelle fonti sciaraitiche, di cui all’art. 2, della giurisprudenza e delle tradizioni sunnite (art. 219 della Cost. 2012)”. Si ha in questo modo il ripristino del controllo esclusivo da parte della Corte Costituzionale sulla sciaraiticità delle leggi. Per approfondimenti cfr. C. Sbailò, “Primavera araba”, cit.

13

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diritti economici, sociali e civili per raggiungere una visione individualistica basata sul

rapporto individuo/Stato.

Sulla base del combinato disposto degli artt. 226 e 230, in merito ai tempi necessari per

procedere, rispettivamente, alla modifica della Costituzione e alle elezioni parlamentari e

presidenziali, si è ottenuta l’immodificabilità della Costituzione per il primo anno di vita.

Inoltre, un ruolo di particolare importanza è riservato alle Forze armate attraverso

l’inserimento dell’art. 234 che prevede la nomina del Ministro della Difesa su approvazione

del Consiglio Superiore delle Forze Armate e l’art. 152 che nega al Presidente la

possibilità di dichiarare guerra o di inviare le forze armate fuori dal territorio nazionale se

non dopo essersi consultato con il Consiglio Superiore delle Forze Armate ed aver

ottenuto l’approvazione del Gabinetto e del Consiglio Nazionale di Difesa. Ulteriore

tassello è quello che prevede la possibilità per la Corte costituzionale di sostituire

l’Assemblea legislativa nel caso di Parlamento sciolto. Attraverso tutti questi interventi si è

intesa realizzare l’esclusione del terzo protagonista della vita pubblica egiziana, i Fratelli

Musulmani, assegnando ai Militari e agli alti giudici un ruolo preponderante nella direzione

dello Stato53.

Solo dopo aver delineato i recenti sviluppi del quadro costituzionale dell’Egitto è possibile

far cenno alle novità in materia di politica migratoria inserite nelle Carte Fondamentali.

E’ nell’art. 62 del nuovo testo costituzionale che viene disciplinata, in particolare, la libertà

di movimento, residenza ed emigrazione come diritto che deve essere garantito senza

limitazione54.

Nessun Cittadino può essere espulso dal territorio dello Stato o ne può essere impedito il

ritorno.

Nel confronto con le precedenti Costituzioni è possibile riscontrare talune differenze:

mentre la Costituzione del 2012 disciplinava la libertà di movimento all’art. 42 nell’ambito

della parte II dedicata ai «diritti e libertà», l’attuale testo disciplina il medesimo diritto all’art.

62 nell’ambito della parte terza dedicata ai diritti, libertà e doveri.

53

Cfr. C. Sbailò, Stabilizzazioni formali, cit.

54

Cfr. art. 62 della Costituzione: “Freedom of movement, residence and emigration shall be guaranteed. No citizen may be expelled from the State territory or prevented from returning thereto. No citizen may be prevented from leaving the State territory, placed under house arrest or prevented from residing in a certain place except by a reasoned judicial order for a specified period of time and in the cases as defined by the Law.”.

14

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E’ nel confronto con la Costituzione del 1971che si riscontra, però, una differente

sensibilità verso la materia dell’immigrazione55.

Mentre nella Carta del 197156, all’art. 52, il legislatore costituente si limitava ad affermare il

diritto all’immigrazione ed emigrazione rimettendo alla legge il compito di disciplinarne i

criteri, al contrario, nella Costituzione del 2014 si ha una tutela più avanzata57. All’art. 62

della nuova Costituzione si disciplina, in modo più ampio, sia la libertà di emigrazione che

quella di movimento e residenza. Si chiarisce, inoltre, che nessun cittadino può essere

posto agli arresti o subire una limitazione nel diritto di risiedere in un determinato luogo se

non per tassative fattispecie disciplinate dalla legge, per un periodo limitato, e a seguito di

ordine del giudice.

Occorre anche richiamare l’art. 91 che disciplina il diritto di asilo. In base a tale norma lo

Stato egiziano si impegna a garantire il diritto di asilo a tutti coloro che subiscano

persecuzioni per aver difeso i diritti umani, la pace o la giustizia. E’ anche vietata

l’estradizione per motivi politici. Tutto ciò costituirà, laddove pienamente applicato, un

tassello importante per una politica dell’immigrazione, ed, in particolare, per il diritto di

55

Per una trattazione più analitica cfr. C. Sbailò, Principi sciaraitici, cit.. L’Autore chiarisce che “in base alla Costituzione del 1971 l’Egitto è una Repubblica democratica, dove la sovranità emana dal popolo, ed è parte del «mondo arabo». Sulla carta, si tratta di un sistema multipartitico, dove vige una forma di governo semipresidenziale. Viene, dunque, delineato un sistema di checks and balances tra i poteri dello Stato, in base al quale il legislativo controlla l'esecutivo, cui spetta la guida della politica nazionale e la difesa della sovranità, mentre la magistratura è indipendente da entrambi. Libertà e pluralismo sono garantiti, salvo che per le organizzazioni fondate su religione, razza o sesso”.

56

Questo testo è stato definito «Costituzione Permanente» proprio per distinguerlo dagli altri testi che erano oggetto di continue abrogazioni. Dall’11 settembre 1971, giorno in cui fu approvata dal 99,9 per cento degli elettori la Carta del 1971 è restata in vigore fino alla rivoluzione del 2011. Il testo è espressione di un “processo di de-nasserizzazione”, insieme ad una politica di modernizzazione. Si avviò, infatti, un vero e proprio “smantellamento del socialismo nasseriano” che portò ad una lenta ma inesorabile politica di “occidentalizzazione” del Paese. Nel far ciò Sadat ebbe il consenso sia della Corte Costituzionale sia dell’Islam popolare che era molto radicato nella società e «s’era opposto con forza al nazional-statalismo nasseriano». Come chiarisce C. Sbailò in Principi sciaraitici, cit., Sadat impresse una doppia svolta alla politica egiziana, all'esterno come all'interno. La sua politica estera fu apertamente filo-occidentale mediante la ricerca del sostegno degli Stati Uniti. In tal senso si pose l'espulsione del personale militare sovietico nel 1972 e la pace con Israele nel 1973. Sul piano interno forte fu l'impegno per la de-nasserizzazione dell'Egitto, nel campo economico e sociale e, per certi aspetti, anche in quello politico, se si guarda agli equilibri interni alla politica egiziana. Per approfondimenti cfr. M. Azzam, Egypt’s Military Council , cit.; M. Campanini, Storia dell'Egitto contemporaneo, cit.

57

Cfr. J.P. O’Kane, Islam in the New Egyptian Constitution, in Middle East Journal, XXVI, 2, 1972, 137-148; C. Sbailò, Principi sciaraitici, cit. L’Autore evidenzia che nella Costituzione del 1971 nonostante il riconoscimento di numerosi diritti individuali «l'effettiva garanzia dei diritti fondamentali è stata, peraltro, gravemente compromessa, prima dalla legislazione di emergenza di rango ordinario, e poi dalla stessa deroga all'habeas corpus nonché da una serie di limitazioni ai diritti politici, inseriti nella Costituzione».

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asilo espressione della libertà dell’individuo piuttosto che di esigenze di ordine pubblico58.

Alla luce del percorso seguito nel presente lavoro è possibile constatare che l’evoluzione

dei flussi migratori ha visto l’Egitto da “Paese di emigrazioni” trasformarsi anche in un

“Paese di immigrazione” evidenziando, in tal modo, una sorta di globalizzazione delle

migrazioni. Queste ultime non possono considerarsi, infatti, solo un fenomeno nazionale

da controllare e regolamentare ma devono essere integrate in politiche di sviluppo e

crescita economica. Solo attraverso un innalzamento dello standard di tutela dei diritti

umani i flussi migratori potranno trasformarsi in una vera e propria risorsa in grado di

determinare una migliore integrazione lavorativa e maggiori ricadute in termini di sviluppo

anche per i Paesi di origine.

** Dottore di ricerca in Politica e “Diritto comparati nella Regione euro-mediterranea”. Università Kore di Enna

58

Cfr. art. 91 Cost. 2014: «The State may grant political asylum to any foreigner persecuted for defending the interests of people, human rights, peace or justice. Extradition of political refugees is prohibited. All of the foregoing shall be according to the Law. No citizen may be deported from or prevented from returning to the country. No citizen shall be prevented from leaving the country, nor placed under house arrest, except by a causal judicial warrant, and for a definite period».

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Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti: la sentenza n. 170 del 2014 sul c.d. “divorzio imposto”

di Giuditta Brunelli (*)

(già pubblicato su Articolo29) 1. Una pronuncia contraddittoria – 2. Come tutelare effettivamente i diritti costituzionali dei soggetti coinvolti – 3. Una motivazione deludente – 4. Contro la frammentazione delle tipologie familiari 1. Ciò che colpisce nella sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 2014, sul c.d. “divorzio imposto”, è il contrasto tra il dispositivo di accoglimento (sia pur additivo di principio) e una motivazione che nulla innova rispetto alle ambiguità della precedente pronuncia n. 138 del 2010, confermandone i principali passaggi argomentativi, peraltro riproposti con tono più sbrigativo, meno approfondito e decisamente conservatore. Su questi aspetti tornerò tra breve. Ma il primo punto su cui vorrei soffermarmi è proprio quello della necessità di risolvere questa contraddizione tra parte motiva e parte decisoria della sentenza, dalla quale potrebbe derivare una situazione di pericolosa indeterminatezza per la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti. 2. Siamo di fronte, come dicevo, ad un dispositivo di accoglimento, che non può non determinare un modificazione dell’ordinamento. Certo, si tratta di un’additiva di principio, che – in quanto tale – non formula una regola immediatamente applicabile (plurime essendo le soluzioni normative ipotizzabili, e dunque affidate alla discrezionalità del legislatore), ma, appunto, un principio, che vincola il legislatore nel compito di dettare la disciplina necessaria e affida «ai giudici comuni, caso per caso, quando è possibile, quello di reperire nell’ordinamento la regola del caso concreto, in attesa di un intervento legislativo puntuale» [G.Zagrebelsky-V.Marceno’, Giustizia costituzionale, Bologna, il Mulino, 2012, 403]. Si tratta, com’è noto, di uno strumento decisorio elaborato dal giudice delle leggi per evitare vuoti di tutela nell’ambito dei diritti fondamentali (soprattutto dei diritti sociali), e che la Corte utilizza proprio quando intende incidere sul sistema normativo; se così non fosse, si limiterebbe (come avrebbe potuto fare in questo caso) a pronunciare una inammissibilità con monito al legislatore, che, com’è noto, si muove invece sul piano della semplice persuasività. E’ pertanto necessario individuare una soluzione transitoria che riconosca la forza giuridica intrinsecamente connessa alla dichiarazione di illegittimità costituzionale: e, in questo senso, la soluzione proposta da Barbara Pezzini [A prima lettura (la sent. 170/2014 sul divorzio imposto), 15 giugno 2014, in www.articolo29.it], secondo cui gli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982 potranno produrre gli effetti propri dello scioglimento soltanto quando entrerà in vigore una disciplina legislativa che consenta la conversione del matrimonio in una convivenza registrata, mi sembra ragionevole, rispettosa delle diverse competenze costituzionali e, soprattutto, idonea a tutelare le posizioni soggettive dei coniugi (le quali, come nota giustamente Pezzini, subiscono comunque un deterioramento, derivante dalla dimensione di precarietà giuridica in cui vengono a trovarsi). Solo in questo modo diventa possibile dare un significato ad una sentenza che apparirebbe altrimenti di difficile interpretazione, ed è necessario farlo anche al di là delle

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stesse parole della Corte, che, nell’invitare il legislatore ad intervenire con la massima sollecitudine per porre rimedio all’ “attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti (…) coinvolti”, appare altrimenti orientata. Quel che conta, infatti, è la natura del dispositivo, insieme al principio, ribadito con nettezza dallo stesso giudice costituzionale nella pronuncia, anch’essa recentissima, sulla fecondazione eterologa (sentenza n. 162 del 2014), secondo cui la violazione di una libertà fondamentale «non può mai essere giustificata con l’eventuale inerzia del legislatore ordinario. Una volta accertato che una norma primaria si pone in contrasto con parametri costituzionali, questa Corte non può (…) sottrarsi al proprio potere-dovere di porvi rimedio e deve dichiarare l’illegittimità, essendo poi “compito del legislatore introdurre apposite disposizioni” (sentenza n. 278 del 2013), allo scopo di eliminare le eventuali lacune che non possano essere colmate mediante gli ordinari strumenti interpretativi dai giudici ed anche dalla pubblica amministrazione, qualora ciò sia ammissibile». Parole inequivocabili. 3. Detto questo, non vi è dubbio che si tratti di una sentenza assai deludente, per una serie di motivi. In primo luogo, per l’insistenza sul modello eterosessuale di matrimonio accolto dal nostro ordinamento, anzi sul carattere essenziale dell’eterosessualità presupposto dall’art. 29 Cost. nel rinviare implicitamente alla definizione dell’istituto contenuta nel codice civile del 1942. Intendiamoci: nulla di nuovo, nella sostanza, rispetto alla pronuncia n. 138 del 2010. Vi è semplicemente la riproposizione dell’interpretazione originalista e tradizionalista della disposizione costituzionale, che tuttavia non postula affatto la necessità di una sua revisione per introdurre il matrimonio same-sex [come ho cercato di argomentare altrove: G. Brunelli, Le unioni omosessuali nella sentenza n. 138/2010: un riconoscimento senza garanzia?, in Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza n. 138 del 2010: quali prospettive?, a cura di B. Pezzini e A.Lorenzetti, Napoli, Jovene, 2011, 144 ss. e 152 ss.]. Del resto, la stessa decisione del 2010 ha precisato che la Costituzione non ha inteso in alcun modo «cristallizzare» una nozione immutabile di matrimonio (basti pensare al carattere dell’indissolubilità, eliminato con la legge n. 898 del 1970). A ragionare diversamente, si commetterebbe un grave errore giuridico, dal momento che «in tutte le sedi giurisdizionali (e quindi non solo in quella costituzionale) occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa» (sentenza n. 1 del 2013). E, tuttavia, la perseveranza nel ribadire una siffatta lettura dell’art. 29 Cost., che addirittura lo esclude dai parametri costituzionali di riferimento per la valutazione della fattispecie all’attenzione della Corte, rischia di consolidare le correnti più conservatrici della cultura giuridica e – soprattutto - di rafforzare gli orientamenti politici più ostili al cambiamento. Ma molti altri sono gli aspetti insoddisfacenti della motivazione, che mi limito ad indicare in modo sintetico. a) L’irrilevanza in cui è confinato l’art. 3, comma 1, Cost., che corrisponde all’esclusione del profilo discriminatorio della normativa impugnata, valutata infatti soltanto attraverso il criterio, indubbiamente più blando, della ragionevolezza, intesa come coerenza dell’ordinamento nel disciplinare fattispecie tra loro non assimilabili. Esattamente come accaduto nella decisione n. 138, anche in questo caso la Corte non utilizza il canone dell’eguaglianza nel senso forte di divieto di discriminazione, come vero e proprio “diritto all’eguaglianza soggettiva”, che si manifesta nella giurisprudenza costituzionale ove entri in gioco il nucleo qualificante del principio, cioè quei profili che hanno a che fare con la libertà e la dignità della persona [R.Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, Giuffrè, 1992, 42 ss.]. Qui, al contrario, ci si ferma alla ragionevolezza, limitandosi ad osservare (senza adeguato approfondimento) che “la diversità della peculiare fattispecie di scioglimento a causa di mutamento del sesso

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di uno dei due coniugi rispetto alle altre cause di scioglimento del matrimonio ne giustifica la differente disciplina”. b) Anche oggi, come nel 2010, la Corte non parte dalla considerazione della realtà sociale e dalla domanda di riconoscimento (rectius: di estensione) di un diritto che da essa proviene, ma dalla definizione di un istituto giuridico (il matrimonio come delineato nel codice civile) che non sarebbe possibile “snaturare” nei suoi caratteri costitutivi essenziali, tra i quali rientra l’eterosessualità. In questo senso va inteso il riferimento all’ interesse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio, che andrebbe bilanciato con «l’interesse della coppia, attraversata da una vicenda di rettificazione di sesso, a che l’esercizio della libertà di scelta compiuta dall’un coniuge con il consenso dell’altro, relativamente ad un tal significativo aspetto della identità personale, non sia eccessivamente penalizzato con il sacrificio integrale della dimensione giuridica del precedente rapporto, che essa vorrebbe, viceversa, mantenere in vita (…)». La normativa impugnata presenta profili di incostituzionalità proprio in quanto risolve un tale contrasto di interessi in termini di tutela esclusiva di quello statuale alla non modificazione dei caratteri fondamentali dell’istituto del matrimonio, senza bilanciarlo adeguatamente con gli interessi della coppia «non più eterosessuale». Ora, è vero che anche nella giurisprudenza di Strasburgo si parla di «State’s interest to maintain the traditional institution of marriage intact» (Corte Edu, quarta sezione, H. c. Finlandia, 13 novembre 2012), ma non sembra che le due nozioni possano essere meccanicamente sovrapponibili. Un conto, infatti, è il giudizio affidato ad una Corte sovranazionale, che deve per sua stessa natura mantenere uno sguardo “esterno” sugli ordinamenti degli Stati membri, come dimostra la stessa dottrina (pur non priva di ambiguità) del “margine di apprezzamento”; altra cosa è il controllo di costituzionalità della legge, nel cui ambito, laddove opera per bilanciamenti, la Corte costituzionale non può esimersi da una precisa e appropriata definizione degli interessi in gioco. L’apodittico riferimento ad un interesse dello Stato a conservare inalterati i caratteri tradizionali di un istituto giuridico di tale rilievo sembra in questo caso evocare una sorta di etica di Stato, impermeabile alle inevitabili evoluzioni di una società pluralista. La domanda a cui sarebbe invece necessario rispondere (e alla quale la Corte, ancora una volta, non risponde), riguarda l’esistenza e la conseguente definizione di un interesse costituzionale concorrente che giustifichi il persistente divieto di matrimoni same-sex. Interesse che dovrebbe radicarsi in altre posizioni soggettive costituzionali a rischio di compromissione (ma quali?), e non certo in una pretesa di conservazione dello Stato. c) Impressiona, infine, la sottovalutazione della giurisprudenza della Corte Edu, richiamata soltanto per l’affermazione secondo cui, in assenza di un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unioni omosessuali, si riconosce agli Stati medesimi un margine di apprezzamento in materia, restando affidate alla discrezionalità del legislatore nazionale le eventuali forme di tutela giuridica per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso - circostanza che rende non pertinente il riferimento agli artt. 8 (sul rispetto della vita familiare) e 12 (sul diritto di sposarsi e di formare una famiglia) della Cedu, invocati come norme interposte ai sensi della violazione degli artt. 10, comma 1, e 117, comma 1, Cost. Qui davvero la Corte costituzionale decide di ignorare che il paradigma eterosessuale del matrimonio ha cominciato a sgretolarsi nel sistema Cedu, al quale anche l’Italia appartiene, a partire dalla sentenza Schalk e Kopf c. Austria del 24 giugno 2010, secondo la quale l’art. 12 Cedu, reinterpretato alla luce dell’art. 9 della Carta di Nizza-Strasburgo, si riferisce anche al matrimonio omosessuale. Oggi, dunque, la nozione di matrimonio accolta nel sistema della Convenzione europea contiene in sé il same-sex marriage, riconosciuto in numerosi Stati membri del Consiglio d’Europa. E, com’è noto, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale, le norme della Cedu, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo,

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integrano, come norme interposte, il parametro espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., entrando così a far parte del materiale normativo cui deve conformarsi la legislazione ordinaria, in base al principio secondo cui «la tutela dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (Corte cost., sentenze n. 264 del 2012 e n. 170 del 2013). Date queste premesse, quando la stessa Corte costituzionale, in alcune pronunce, enuncia il diritto fondamentale al matrimonio, fondandolo – oltre che sugli artt. 2 e 29 Cost. e sull’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 – sull’art. 12 della Cedu (da ultimo, sentenza n. 245 del 2011), non può ignorare l’attuale interpretazione di tale disposizione nella giurisprudenza di Strasburgo. E, dunque, l’ingresso nel nostro ordinamento di una nozione di matrimonio che non esclude dal suo orizzonte la dimensione omosessuale (significativa, sotto questo aspetto, la sentenza n. 4184 della Corte di cassazione, sez. I civile, del 15 marzo 2012). Ma nulla di tutto questo sembra rilevare nella decisione n. 170 del 2014. 4. Una decisione che, peraltro, avrebbe potuto prendere una strada diversa, se solo la Corte costituzionale avesse fatto leva su un altro aspetto della motivazione: quello relativo alla peculiarità della situazione regolata dalle disposizioni oggetto del giudizio. Sono numerosi i passaggi argomentativi che sottolineano questo profilo: si parla di situazione fattuale «innegabilmente infrequente», di «peculiare fattispecie» non «semplicisticamente equiparabile ad una unione di soggetti dello stesso sesso». Perché allora non impostare il ragionamento nei termini di regola-eccezione, consentendo – solo per questa specifica e peculiare ipotesi – di proseguire lo status matrimoniale (attraverso una sentenza manipolativa che sostituisse il divorzio automatico con un divorzio a domanda)? Se è vero, infatti, che ci troviamo di fronte ad un caso del tutto singolare, caratterizzato dall’esistenza, sul piano giuridico, di «un pregresso vissuto, nel cui contesto quella coppia ha maturato reciproci diritti e doveri, anche di rilievo costituzionale», perché non considerare questo caso una possibile eccezione alla regola dell’eterosessualità del matrimonio? Forse per il timore che ciò possa costituire comunque un primo passo verso una più ampia messa in discussione di quella regola? E questo ipotetico timore può davvero giustificare l’applicazione di disposizioni normative che privano i coniugi dello stato di «massima protezione giuridica» assicurato dal matrimonio (per precipitarli oggi in una condizione «di assoluta indeterminatezza», e domani, forse, per relegarli in un’ «altra forma di convivenza registrata», comunque diversa dall’istituto matrimoniale)? E arriviamo ad un’ultima osservazione. Il criterio utilizzato dalla Corte, quello del controllo di ragionevolezza delle differenziazioni operate dal legislatore, conduce in questo contesto ad una inevitabile frammentazione delle tipologie familiari, all’adozione, cioè, di misure legislative peculiari per ciascuno dei gruppi sociali considerati. Lo ha sottolineato molto bene Antonio Ruggeri, osservando che «accanto alla famiglia in senso stretto (o strettissimo), quella definita nell’art. 29 Cost., nella interpretazione datane dalla Corte, avremo delle unioni “parafamiliari”, composte da soggetti (omosessuali o eterosessuali che siano) che non abbiano avuto un “pregresso vissuto” familiare, quale quello caratterizzante i soggetti protagonisti della odierna vicenda, e, ancora distinta da tali unioni, una speciale (o specialissima) formazione sociale che potremmo chiamare “quasi familiare” (o “familiare” minus quam perfecta), risultante dai soggetti stessi» [A. Ruggeri, Questioni di diritto di famiglia e tecniche decisorie nei giudizi di costituzionalità (a proposito della originale condizione dei soggetti transessuali e dei loro ex coniugi, secondo Corte cost. n. 170 del 2014) (13.06. 2014), in www.giurcost.org, 5]. Una prospettiva, a mio avviso, da evitare, perchè rischia di produrre inaccettabili diseguaglianze; un’idea di società che nulla ha che fare con la modernità e i suoi valori di liberazione dell’individuo, e

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che incarna piuttosto una post-modernità regressiva e discriminatoria, di cui si avvertono ormai molti segnali. (*) Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico Università di Ferrara

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Conflitto intersoggettivo su atto meramente esecutivo ed impugnazione in via principale della relativa base legale

di Davide Monego *

(in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2014)

1. Con la sent. n. 71 del 2014 la Corte costituzionale affronta alcuni profili di ordine processuale relativi ai conflitti di attribuzione fra enti, con esiti non del tutto condivisibili. La vicenda che ha occasionato il ricorso concerne la violazione (da parte di alcuni comuni siciliani) della disciplina statale sul patto di stabilità interno relativo all’anno 2011, ovvero delle norme che ne impongono il rispetto da parte degli enti locali (oltre che da parte delle Regioni, aspetto che peraltro rimane estraneo all’oggetto del conflitto), sanzionando eventuali sforamenti, al pari di quelle che, in funzione strumentale alle prime, impongono altresì a Comuni e Province di inviare al Ministero dell’economia e finanze una certificazione del saldo finanziario, secondo un prospetto anch’esso definito a livello centrale, ancora una volta sanzionando le eventuali trasgressioni. Il decreto dirigenziale 26 luglio 2012 accerta che alcuni Comuni collocati nel territorio siciliano erano incorsi nelle infrazioni sopra ricordate1 e provvede ad applicare le relative sanzioni, costruite secondo il meccanismo della riduzione dei trasferimenti erariali in misure anch’esse predeterminate dalla normativa primaria nazionale2. La Regione Sicilia contesta la spettanza allo Stato del potere di adottare le relative prescrizioni, adducendo la lesione dell’art. 76 Cost., in quanto l’atto amministrativo sarebbe attuativo di un decreto legislativo illegittimo perché adottato, circa le norme che rilevano a fondamento dell’atto impugnato, in contrasto con la legge di delega; nonché quella dell’art. 43 dello Statuto, insieme al combinato degli artt. 119 Cost. e 10 legge cost. n. 3 del 2001, i quali riserverebbero alle norme di attuazione – e dunque ad un accordo fra Stato e Regione – la regolamentazione della materia, escludendo pertanto interventi unilaterali dello Stato, a danno dell’autonomia finanziaria locale.

Per meglio comprendere il senso della contestazione, specialmente in relazione all’art. 76 Cost., che è precetto sulla produzione normativa e non sulla funzione amministrativa, bisogna ricordare che il conflitto è stato proposto nelle more di una controversia in via principale avente ad oggetto numerose disposizioni del decreto legislativo n. 149 del 2011, incluso l’art. 7, il quale offre la base normativa, almeno in parte, al decreto dirigenziale in discorso. Le ricorrenti in quella sede lamentavano che, in contrasto con la legge di delega (n. 42 del 2009), l’art. 7 avesse disposto la propria

1 Trattasi del decreto del Capo del Dipartimento per gli affari interni e territoriali 26 luglio 2012, suddiviso in tre articoli, due dei quali contestati dalla ricorrente: l’art. 1 (Sanzione per i comuni non rispettosi del patto) e l’art. 3 (Sanzione per mancato invio della certificazione da parte dei comuni ovvero per invio di certificazione non conforme). La disciplina statale che fornisce fondamento al provvedimento censurato è rappresentata, quanto all’art. 1 del decreto, dall’art. 7 del d.lgs. n. 149 del 2011 (Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni, a norma degli articoli 2, 17 e 26 della legge 5 maggio 2009 n. 42), nonché, in relazione all’art. 3 del medesimo decreto, dall’art. 1, comma 110, della l. n. 220 del 2010 (legge di stabilità 2011).

2 Per lo sforamento del patto, è stabilita una riduzione dei trasferimenti erariali corrispondente alla differenza fra il risultato registrato e quello programmato e comunque non superiore al 3 per cento delle entrate correnti registrate nella certificazione al rendiconto di bilancio dell’anno 2010, o, in mancanza, guardando all’ultima certificazione effettivamente inviata. Per l’ipotesi della certificazione mancante o irregolare, è prevista una riduzione dei trasferimenti pari al 3 per cento delle entrate correnti registrate nella certificazione al rendiconto di bilancio dell’anno 2010, o, in mancanza, guardando anche in questo caso all’ultima certificazione effettivamente inviata dall’ente.

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immediata efficacia anche nei riguardi delle autonomie speciali: censura in effetti accolta dalla sent. n. 219 del 2013, che lo annulla “nella parte in cui si applica alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome”3. Il conflitto di attribuzioni sorge dunque sulla base ed in relazione alla precedente impugnativa di legittimità, non ancora definita al momento della sua instaurazione, ma ormai conclusa al momento della sua decisione. Il ricorso siciliano ipotizza quindi un’invalidità derivata del decreto dirigenziale, in conseguenza a quella del decreto legislativo che ne sta a fondamento, successivamente riconosciuta dalla decisione n. 2194.

La Corte adotta una pronuncia in rito concludendo nel senso dell’inammissibilità, ragionando in questi termini. Il conflitto intersoggettivo non è proponibile contro “atti meramente esecutivi di competenze conferite e definite dalla legge” posto che, a ritenere il contrario, verrebbe vanificato il termine perentorio previsto per contestare la legge medesima in via principale, ed il conflitto altro non sarebbe allora che un mezzo per conseguire una sorta di impropria rimessione in termini5.

Il decreto dirigenziale è atto meramente consequenziale, dato che si limita a dare concreta attuazione a norme primarie statali, che ne predeterminano in modo necessario il contenuto: da un lato l’art. 1, comma 110 della legge n. 220 del 2010 (obbligo a carico dei Comuni di inviare la certificazione sul saldo finanziario), dall’altro l’art. 7 d.lgs. n. 149 del 2011 (conseguenze sanzionatorie per lo scostamento dal patto di stabilità interno). Il primo non è mai stato contestato in via principale, ragion per cui l’inammissibilità scatta de plano, per così dire. Quanto al secondo, la situazione è solo apparentemente diversa, a detta della Corte, poiché, pur essendo stato medio tempore annullato (sent. n. 219 del 2013), ciò non è conseguito ad un’iniziativa della Regione Sicilia6 – questo il punto rilevante – e

3 Vedi il capo n. 7 del dispositivo della decisione n. 219 del 2013. Essa accoglie, quanto all’art. 7 citato nel testo, una serie di ricorsi in via principale, previa loro riunione, presentati dalla Regione Trentino Alto Adige e dalle Province autonome di Trento e Bolzano. La sentenza appena ricordata applica, senza nemmeno dilungarsi sul punto, la regola che ammette i ricorsi contro leggi statali lesive di norme costituzionali non attinenti al riparto di competenze, qualora la violazione “ridondi” in un pregiudizio delle attribuzioni regionali (cfr., M. CECCHETTI, La “ridondanza” fra mitologia e realtà. Vizi deducibili e legittimazione delle Regioni a difendere le proprie attribuzioni costituzionali contro atti legislativi dello Stato, in AA.VV., I ricorsi in via principale, Milano 2011, 279 ss.). Nella fattispecie si trattava di un eccesso di delega, riguardante una disciplina interferente con quella statutaria (e di attuazione) in tema di finanza locale, inclusi i profili attinenti al rispetto del patto di stabilità. Come si vede dal dispositivo citato nel testo, la Corte estende l’annullamento anche alle altre Regioni speciali, che non avevano presentato alcuna impugnazione sul punto, inclusa la Sicilia, che interessa in quanto ricorrente in sede di conflitto. Il presupposto implicito è quindi che il profilo del pregiudizio, o comunque dell’interferenza, con l’autonomia finanziaria regionale, da parte della disposizione direttamente lesiva dell’art. 76 Cost., operi anche in relazione allo statuto di autonomia della Sicilia e delle altre Regioni speciali rimaste estranee al giudizio.

4 Diversamente, la Corte ne avrebbe dichiarato l’inammissibilità per inconferenza del parametro, in relazione all’art. 76 Cost., che ovviamente non opera verso atti amministrativi.

5 Anche se in questa sede viene in considerazione il rapporto intercorrente fra la disciplina legislativa di base ed il provvedimento amministrativo che la concretizza, lo stesso ragionamento – con relativa inammissibilità – opera qualora la relazione di derivazione riguardi due atti amministrativi, il primo dei quali non tempestivamente contestato, questa volta nell’ambito di un giudizio per conflitto, come noto soggetto anch’esso al termine di decadenza di sessanta giorni (art. 39 comma 2, l. n. 87 del 1953). L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sui conflitti aventi ad oggetto atti meramente esecutivi è riassunta da P. VERONESI, “Atti consequenziali, confermativi, riproduttivi, esplicativi, esecutivi” di leggi o di altri provvedimenti non impugnati e conflitti di attribuzione , in Giur. cost. 2013, 2197 ss.; vedi anche A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2014, 312.

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quindi “non vale a sanare un vizio originario di inammissibilità del ricorso“7. Il tutto anche se la stessa Corte riconosce come la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 7 sia destinata ad operare anche verso la ricorrente, data la comunanza (rispetto alle altre autonomie speciali) del parametro impiegato; circostanza che tuttavia, lungi dal produrre conseguenze nell’ambito del conflitto, potrà semmai essere valorizzata in sede di giustizia comune.

Questa la scansione della motivazione, che si fonda quindi sulla natura puramente esecutiva dell’atto amministrativo impugnato, il quale, ripetendo i propri contenuti dalla previa norma di legge, risulta privo di autonoma capacità lesiva delle attribuzioni regionali; non può quindi essere oggetto di un conflitto, se non qualora il ricorrente abbia previamente contestato in via principale il relativo fondamento giuridico, ovvero la legislazione statale attuata, il che non è avvenuto. Almeno, questo è ciò che si dovrebbe concludere ragionando a contrario, anche se, come si vedrà fra breve, nemmeno questa conclusione è certa, trovando talora smentita nella recente giurisprudenza costituzionale8.

2. Per superare tale preclusione processuale, la prospettiva più radicale, che, se fondata, esenterebbe dall’indagine stessa sulla natura (esecutiva o meno) dell’atto oggetto di conflitto, fa capo alla tesi che nega l’esistenza stessa di provvedimenti che siano puramente esecutivi, come tali non impugnabili. Anche se ormai pare recessiva, tale posizione ha comunque trovato riscontro, seppure non senza eccezioni, nella risalente giurisprudenza9. A sostegno si è affermato che ogni atto di esercizio del potere pubblico, per quanto confermativo o attuativo di altro, ha comunque una propria individualità: gli “atti amministrativi …. per se stessi singolarmente considerati, costituiscono manifestazioni concrete ed autonome del potere che lo Stato o le Regioni, a seconda dei casi, assumono di loro spettanza, in base alla Costituzione o agli Statuti speciali. Di guisa che la proposizione del ricorso in relazione a ciascun provvedimento è legittimata, indipendentemente dal fatto che non sia stato impugnato un precedente provvedimento di contenuto sostanzialmente identico”, per citare una decisione del 195910, cui potrebbero

6 La Sicilia aveva infatti agito anch’essa contro il d.lgs. n. 149, ma al fine di censurarne altre disposizioni, fra cui l’art. 13, il quale prevedeva un particolare meccanismo per calibrare l’efficacia del decreto legislativo nei confronti delle Regioni speciali, su cui converrà tornare più avanti.

7 Così la sent. n. 71, al par. n. 4 del Diritto.

8 Va infine segnalata un’altra circostanza piuttosto singolare, ovvero il fatto che la Sicilia avesse invocato l’art. 76 Cost. anche a riguardo dell’art. 3 del decreto dirigenziale, il quale, come già detto, non si fonda per nulla sul decreto legislativo n. 149, ma su di una legge ordinaria: la Corte avrebbe quindi potuto pronunciare l’inammissibilità del ricorso, limitatamente a questo profilo, per inconferenza del parametro. Ha invece preferito utilizzare allo scopo un argomento – la natura puramente esecutiva dell’atto – ugualmente spendibile nei confronti dell’intera impugnazione.

9 Sul punto si veda P. VERONESI, “Atti consequenziali cit., 2198 s., F. DIMORA, Atti esecutivi e conflitto di attribuzione, in Giur. cost. 1981, I, 485 ss., e Il conflitto di attribuzione tra Stato e Regione nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost. 1975, 646 ss.

10 Corte cost., sent. n. 58 del 1959, cui si può aggiungere l’affermazione – di cui a Corte cost., sent. n. 56 del 1969 – secondo cui “la tendenza della giurisprudenza costituzionale è nel senso di non conferire alla mancata impugnativa dell'atto normativo posto a fondamento del provvedimento oggetto di un conflitto di attribuzione efficacia preclusiva della proposizione di quest'ultimo”.

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essere aggiunte altre pronunce volte a negare l’acquiescenza nel giudizio per conflitto, qualora essa si fosse tradotta nella mancata impugnazione di atti presupposto11.

Le ragioni sottostanti, anche se non sempre esplicitate, fanno capo a considerazioni di carattere formale, nel senso di concepire come nuovo ogni atto di esercizio di una funzione pubblica, indipendentemente dal suo contenuto, pur confermativo, esecutivo, attuativo di altro: argomento questo che ancor più varrebbe qualora si mettano a confronto la funzione legislativa con quella amministrativa, differenti quanto a forma, regime giuridico e rispettive finalità12. Oppure si è cercato di far leva sull’indisponibilità delle competenze costituzionali, che non potrebbero essere messe a rischio dalla semplice inerzia dei soggetti che ne sono titolari, lasciando integri atti esecutivi, a loro volta invalidi, per il solo fatto che non sia stato tempestivamente contestato l’atto che li giustifica, o comunque ne rappresenta l’antecedente logico-giuridico13. Si è anche richiamato il carattere istantaneo di ogni atto lesivo di competenze costituzionali, in base all’assunto secondo cui solo a condizione di costruire come permanente la lesione arrecata dall’atto presupposto si potrebbe giustificare l’inammissibilità del ricorso contro quello consequenziale, anche in tal caso al prezzo di lasciare in vita atti lesivi delle altrui attribuzioni14. A fronte di un provvedimento puramente esecutivo di legge non censurata in termini, si è poi invocato il potere della Corte, quale giudice a quo, di rinviare dinanzi a se stessa le questioni di costituzionalità concernenti le norme primarie poste a base del medesimo, qualora oggetto di conflitto15, ammettendosi quindi la possibilità di impugnare anche atti meramente esecutivi – posto che se il giudizio per conflitto non fosse ritualmente instaurato, una questione da esso proveniente sarebbe per certo irrilevante –, ma garantendosi parimenti la possibilità di definire i confini fra le competenze in gioco, non solo in relazione al provvedimento amministrativo, ma anche in relazione alla (e partendo dalla) legge che in sé le possa in ipotesi invadere o menomare. In questa logica non sarebbe nemmeno

11 Così ad esempio, Corte cost., sent. n. 278 del 1991 (par. n. 2.2 del Diritto), ma anche, a dimostrazione di persistenti oscillazioni sul punto, le ben più recenti decisioni nn. 95 del 2003 (par. n. 2 del Diritto) e 39 del 2003 (par. n. 2 del Diritto).

12 In dottrina si è talora rilevato come il rapporto fra legge ed atto amministrativo difficilmente può essere concepito in termini di stretta esecuzione, come invece è più facile fare all’interno di una sequenza procedimentale in senso stretto, coinvolgente solo atti amministrativi. Così R. CHIEPPA, Postilla. Se anche la Corte trascura gli effetti delle sentenze di illegittimità e la propria competenza sui conflitti, in Giur. cost. 2005, 3835, ed anche T. GALLOZZI, Il rapporto tra la pronuncia di incostituzionalità in via principale e l’ammissibilità del conflitto conseguente, ivi, 3830.

13 Corte cost., sentt. nn. 171 del 1971 e 3 del 1964.

14 C. ESPOSITO, Conflitto regionale e competenza, in Giur. cost. 1958, 467 ss., sostiene che sia inesatto concepire la lesione di competenza “come fatto permanente e non consumato nell’atto in cui si provvede in contrasto con l’altrui competenza” e che tale idea contrasti altresì con l’art. 39 l. n. 87 del 1953, “secondo cui il conflitto di attribuzione regionale risulta elevato contro atti lesivi della competenza e non contro una permanente situazione di invalidità creata ed originata da un atto”.

15 Come accaduto con l’ord. n. 22 del 1960 e la sent. n. 73 del 1960, nonché con l’ord. n. 57 del 1961 e la sent. n. 67 del 1962, nonché, più di recente, nei casi decisi dalle sentenze nn. 281 del 2001 e 59 del 2000.

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pertinente il richiamo ai limiti temporali previsti per i giudizi in via di azione, posto che la Corte opererebbe quale giudice di rinvio, non risultando soggetta a termini, al pari di ogni giudice comune16.

Piuttosto che soffermare l’attenzione sui singoli argomenti esposti, è più utile evidenziare quello che, stando alla prevalente dottrina ed alla più diffusa giurisprudenza costituzionale17, rappresenta il principale ostacolo al loro accoglimento, ovvero l’incompatibilità con la struttura dei giudizi in via principale sulle leggi e sui conflitti intersoggettivi, accomunati, come è ampiamente noto, da termini di decadenza che condizionano la proponibilità dell’azione. Guardando al sindacato di costituzionalità in via principale, che rileva in prima battuta, visto che nel caso di specie il problema è quello dell’uso strumentale del conflitto in luogo dell’impugnativa sulla legge, la presenza di limiti temporali è una costante che attraversa l’evoluzione delle fonti sul processo. Infatti, la riforma costituzionale del 2001, pur avendo inciso in modo significativo sulla complessiva disciplina dei ricorsi in via diretta, ha conservato la regola che ne circoscrive la proponibilità all’interno di determinati periodi, benché diversamente costruiti rispetto al passato. L’azione statale, in origine a carattere preventivo, ora necessariamente successiva alla pubblicazione della legge, è sempre stata assoggettata a termini decadenziali, ed altrettanto dicasi per l’ormai scomparso rinvio al Consiglio regionale; dall’altro lato, il tempo utile per le impugnative regionali si è soltanto allungato. E’ quindi rilevabile, dal 1948 ad oggi, un’esigenza di certezza nella definizione delle sfere di competenza di Stato e Regioni, alla cui garanzia sono preposti i ricordati termini, per di più relativamente contenuti. La tempestiva contestazione della legge non è dunque solo una facoltà, bensì anche un onere, che finirebbe per essere svilito se fosse ammessa l’instaurazione di un conflitto su atto meramente confermativo. L’annullamento del provvedimento strettamente attuativo finirebbe appunto per sterilizzare la relativa base legale, la quale rimarrebbe in vigore, per quanto invalida, risultando peraltro concretamente inapplicabile, una volta annullati tutti gli atti adottati sul suo fondamento18. Attribuire rilievo alla novità formale dell’atto, a prescindere quindi dalla sua relazione con la disciplina che sta a monte, finisce dunque per concretizzare una situazione antitetica a quella che l’apposizione di termini perentori mira a realizzare.

E se è vero che l’iniziale apertura della giurisprudenza costituzionale può essere letta come accentuazione dell’anima oggettiva del conflitto fra enti, a garanzia della legalità costituzionale, in quanto volto a restaurare comunque l’ordine delle competenze19, è anche vero che tale ricostruzione contrasta con la disciplina positiva sia dei conflitti di

16 G. VOLPE, Atti esecutivi e incidente di costituzionalità nei conflitti di attribuzione fra enti, in questa Rivista 1979, 896 ss., afferma che, avendo l’inoppugnabilità dell’atto, conseguente alla scadenza dei termini per impugnarlo, carattere relativo, non è precluso al medesimo soggetto, pur decaduto dall’azione in via diretta, sollevare l’eccezione in via incidentale, anche in sede di conflitto su atto di mera esecuzione, ed altrettanto dicasi per il rinvio d’ufficio.

17 Sul punto si vedano P. VERONESI, “Atti consequenziali cit., 2200 ss., e F. DIMORA, Atti esecutivi cit., 485 s., nonché Corte cost., sent. nn. 144 del 2013, 369 del 2010, che si diffonde sul punto, affrontando, per superarli, alcuni degli argomenti ricordati nel testo a favore dell’ammissibilità, esplicitamente riconoscendo il loro impiego in precedenti sentenze; 149 del 2009, 375 del 2008.

18 A meno che non abbia luogo, in seno al giudizio per conflitto, un’autorimessione della questione di costituzionalità sulla legge che l’atto impugnato vale ad applicare, come è accaduto soprattutto nel passato, secondo una prassi che sembra aver ceduto il passo al più recente – e rigoroso – atteggiamento della Corte.

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attribuzione che dei giudizi di legittimità in via di azione, concepiti ormai alla stregua di controversie a parti contrapposte, volte ad assicurare protezione ai rispettivi specifici interessi e, solo in via mediata, al principio di rigidità20.

In questo contesto, quel che semmai può stupire è il diverso orientamento seguito qualora, anziché venire in gioco il rapporto fra una fonte primaria ed un atto amministrativo attuativo, si assista al susseguirsi di disposizioni legislative meramente riproduttive di altre, non tempestivamente impugnate in via principale. In tal caso i termini perentori sono relazionati a ciascun atto legislativo, per definizione autonomamente impugnabile, nonostante la censura potesse essere avanzata verso la fonte preesistente21. Anche al sindacato in via di azione sulle leggi si riconosce ormai una natura quanto meno prevalentemente soggettiva: anch’esso non a caso è assoggettato a termini di decadenza e tuttavia la soluzione in punto ammissibilità è esattamente rovesciata. Il presupposto è che ogni legge, in opposto a quanto bisogna pensare per gli atti non legislativi, sia per definizione innovativa dell’ordine giuridico. Ai fini del problema in esame il punto non è ragionare di un’ipotetica identità fra atti e funzioni, ma è quanto meno dubbio che la diversità fra legislazione ed amministrazione rilevi al punto da giustificare una lettura delle regole sulle modalità di instaurazione dei giudizi sugli atti di esercizio dell’una e dell’altra – formalmente uguali quanto al problema dei termini di decadenza – in modo diverso, tanto da consentire in un caso ciò che nell’altro viene invece (ormai) escluso22.

3. Comunque sia, sentenze come quella in esame sembrano rappresentare l’attuale approdo della giurisprudenza sui requisiti di proponibilità dei conflitti su atti esecutivi, non più per definizione ammissibili ma nemmeno per definizione inammissibili. E’ infatti principio frequentemente ribadito che a far la differenza non è il carattere esecutivo-attuativo di un atto, ciò che fra l’altro rischierebbe, vigente il principio di legalità, di escludere ogni conflitto qualora non sia stata a sua volta censurata la relativa base normativa: a fungere da criterio selettivo è l’autonoma lesività dell’atto, che in sé deve arrecare, almeno in tesi, un pregiudizio concreto ed attuale alla competenza del ricorrente, anziché reiterarne una già provocata dalla legge che ne sta a fondamento. In altre parole, l’atto per essere correttamente contestato, deve presentare un qualche elemento di novità rispetto a quello presupposto, il problema spostandosi quindi sull’identificazione dei canoni che ne consentono tale qualificazione. Problema che, abbandonati i connotati meramente

19 Per la tesi che il conflitto fra enti sia essenzialmente volto alla “difesa obiettiva del riparto di competenze”, cfr. A. MANGIA, L’accesso nei conflitti intersoggettivi, in AA.VV., Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale, a cura di A. ANZON, P. CARETTI, S. GRASSI, Torino 1999, 301.

20 G. ZAGREBELSKY, V. MARCENO’, La giustizia costituzionale, Torino 2012, 320 ss., pur ribadendo la connotazione ambigua del giudizio sulle leggi in via di azione, ammettono che la giurisprudenza costituzionale sembra ormai orientata a ricostruirlo in chiave soggettiva, per lo meno in prevalenza. In questo senso cfr. C. PADULA, L’asimmetria nel giudizio in via principale, Padova 2005, 363 ss. Fra i connotati che sorreggono tale ricostruzione rientrano, come noto, il carattere facoltativo dell’impugnazione, la possibilità delle parti di porre fine al giudizio mediante rinuncia, l’interesse a ricorrere. Analogamente, circa il giudizio per conflitto come processo disponibile dalle parti cfr. degli stessi Autori, Giustizia cit., 469. In questi termini vedi anche P. VERONESI, “Atti consequenziali cit., 2204, riferendosi sia al giudizio in via principale che a quello sui conflitti.

21 Corte cost., n. 9 del 2010, in cui si ragiona di novazione della fonte. Circa l’inapplicabilità, a fronte di leggi riproduttive, confermative, consequenziali di altre non impugnate, dell’istituto dell’acquiescenza, in quanto ogni provvedimento legislativo ha vita autonoma, cfr. E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, Torino, 2003, 183.

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formali, come pare ragionevole fare (e la Corte ha fatto), non può che fondarsi sui contenuti il che, oltre a rendere talora opinabili le conclusioni adottate di caso in caso, porta a ravvisare la “novità” qualora la legge consenta apprezzamenti discrezionali all’autorità amministrativa, si tratti anche solo di discrezionalità tecnica o interpretativa23. E’ noto infatti che il principio di legalità è suscettibile di diverse “gradazioni”, diverso potendo essere il nesso fra legge e atto amministrativo, tra i due estremi del provvedimento strettamente vincolato e quello connotato da ampia discrezionalità24. Solo se sussiste un margine di scelta, consentito dalla fonte primaria, potrà ravvisarsi autonomia con conseguente interesse al ricorso25: e solo se la novità rileva circa il vizio lamentato, in mancanza di che ogni variazione, anche la più lontana dal problema di competenza sollevato dal ricorrente, varrebbe al fine di superare il vaglio di ammissibilità26.

Se si applicano questi criteri al caso di specie, è difficile negare che il decreto oggetto di conflitto vada annoverato fra gli atti meramente esecutivi. Circa il rapporto intercorrente fra gli articoli 1 e 3 del medesimo decreto e le disposizioni che ne

22 In tal senso si veda C. MEZZANOTTE, Leggi regionali di interpretazione autentica e controlli statali, in Giur. cost. 1975, II, 1988, nota n. 4, che si sofferma in particolare sul confronto fra legge ripetitiva di altra non tempestivamente impugnata e regolamento analogamente confermativo di precedente regolamento, comparando cioè due atti ugualmente normativi, nonostante ciò oggetto di diverso trattamento processuale, secondo quanto si è detto nel testo. Il ben diverso modo di operare delle preclusioni processuali a seconda che ad essere coinvolte siano leggi, o atti amministrativi (anche normativi), solo per i secondi essendo a rischio l’ammissibilità del conflitto che li coinvolge, è segnalato da F. DIMORA, Atti esecutivi cit., 485 s., la quale sottolinea la tendenza della Corte a ravvisare la novità di qualunque atto legislativo (confermativo, ripetitivo ecc..), soprattutto in ragione di “elementi in senso lato formali”, anche se il fenomeno può essere spiegato costruendo il giudizio in via di azione quale mezzo di tutela dell’interesse alla legalità costituzionale, che trascende quello dei soggetti che ne sono parte. La conclusione accennata nel testo dovrebbe forse essere differente qualora sia passato un significativo periodo di tempo fra i due atti normativi, poiché è probabile che in qualche modo sia mutato il contesto in cui sono inseriti, ciò che, oltre a imporre talora di costruire diversamente la norma derivante dal testo sopravvenuto, può in ogni caso far pensare ad una scelta politico legislativa complessivamente nuova.

23 Sul punto vedi F. DIMORA, Atti esecutivi cit., 489 ss., A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, Milano 2008, 362 s., nonché S. GRASSI, Conflitti costituzionali, in Dig. Disc. Pubbl., III, Torino 1989, par. 6.

24 In tal caso meglio parlare di provvedimento integrativo piuttosto che esecutivo della legge. Cfr. sul punto G. MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA., Diritto amministrativo, a cura di L. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA, II, Bologna 2001, 1245 ss.

25 Si pensi ai casi in cui l’atto oggetto di conflitto dispone la propria applicazione alle autonomie speciali, mentre la legge che ne giustifica l’adozione è suscettibile di diversa interpretazione, o comunque lascia in dubbio la questione (Corte cost., sent. n. 163 del 1995), oppure a quello inverso in cui l’atto impugnato esclude le Province autonome da un finanziamento statale che invece, guardando alla legge retrostante, sembrava spettare loro (Corte cost., sent. n. 419 del 2001). Per un altro caso di atto lesivo in via autonoma, in quanto frutto di discrezionalità interpretativa, vedi Corte cost., sent. n. 334 del 2006.

26 Da questo punto di vista lascia perplessi che allo scopo sia stato talora ritenuto sufficiente che l’atto esecutivo si limitasse a fornire “ulteriori precisazioni”, quanto alle modalità di trasmissione di alcune informazioni chieste alle Regioni, quando il conflitto poneva invece in dubbio la spettanza del potere, quali ne fossero le modalità di esercizio (Corte cost., sent. n. 359 del 1985 su cui si sofferma F. SORRENTINO, La giurisprudenza della Corte costituzionale nei conflitti fra Stato e Regioni, in questa Rivista 1986, 971, nota n. 8).

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costituiscono la base legale, sopra citate, si riscontra infatti una corrispondenza quasi letterale. In altri termini, il decreto appare quale atto dovuto, a contenuto strettamente vincolato alla previa norma di legge, che realizza nel caso concreto, una volta accertati i relativi presupposti, ovvero l’inadempimento degli enti locali ai precetti primari sul patto di stabilità. Persino l’ammontare delle sanzioni è fissato dalla legge, non sussistendo alcun margine di scelta: nessuna discrezionalità circa l’an, il quando ed il contenuto dell’atto.

Un tanto è sufficiente per dichiarare inammissibile una parte dell’impugnazione, quella concernente le sanzioni per mancato o ritardato invio della prevista certificazione, dal momento che l’art. 3 del decreto si fonda su norma effettivamente mai censurata, situazione quest’ultima non rimediabile nemmeno attraverso l’eventuale autorimessione da parte della Corte, anch’essa da escludere in presenza di un conflitto non validamente instaurato, perché strumentale ad eludere una decadenza ormai maturata27. Sin qui opera l’”adagio” giurisprudenziale, che pare ormai consolidato, circa la sorte del conflitto su atto meramente consequenziale.

Altrettanto non può tuttavia dirsi per l’altra componente del provvedimento dirigenziale in questione, ovvero l’art. 1, riguardante le sanzioni per lo scostamento dal patto di stabilità, fondato invece su norma annullata in via principale, con effetto limitato alle autonomie speciali, Sicilia inclusa. Al momento di decidere il conflitto era stata infatti pubblicata la sent. n. 219 del 2013, della quale si poteva ipotizzare che la Corte tenesse conto, avendo inciso sull’art. 7 del decreto legislativo n. 149, cioè sulla base legale di parte dell’atto. Come ricordato, la decisione procede in senso opposto, “inchiodando” la ricorrente alla sua “colpa” originaria, consistente nel non aver tempestivamente impugnato la suddetta disposizione: il vizio non è sanabile, dice il Giudice delle leggi, nemmeno a seguito di una dichiarazione di incostituzionalità comunque intervenuta.

Per questa parte, la sentenza n. 71 pone un problema ulteriore a quello sin qui considerato, ovvero quello degli effetti dell’annullamento di una norma di legge nel conflitto in cui ad essere contestato sia un atto ad essa meramente consequenziale: se cioè tale annullamento sia destinato ad influire sul suo esito, ed eventualmente a che condizioni, o se al contrario quest’ultimo rimanga impermeabile al primo.

Guardando alla prassi, accanto alla posizione assunta dalla Corte nella decisione in commento, ve ne sono altre, talora indici di un atteggiamento ancor più selettivo, a volte improntate invece a maggiore “disponibilità”, se così si vuol dire, verso la decisione dei conflitti nel merito. Stando alla sent. n. 71, un provvedimento meramente consequenziale è suscettibile di essere impugnato mediante conflitto intersoggettivo, a condizione che il medesimo ricorrente abbia precedentemente agito in via di azione contro la legge presupposto: con la conseguenza che, qualora la questione di costituzionalità sia accolta – e la lesione di competenza sia stata quindi accertata – l’atto derivato ne seguirebbe la sorte.

Ben più radicale appare invece la soluzione fatta propria dalla sent. n. 386 del 2005, in cui la Corte ha affermato a chiare lettere che, una volta incasellato l’oggetto del conflitto nella categoria dei provvedimenti puramente attuativi di legge, il ricorso, in quanto non riguardante una lesione originaria ed attuale della sfera di competenza, non può essere deciso nel merito, quand’anche la legge sia stata nel frattempo annullata in via principale, ad iniziativa del medesimo soggetto che ha sollevato il conflitto28. Benché, dunque, sussistesse in quel caso proprio il presupposto la cui mancanza è ora evidenziata per argomentare l’inammissibilità. Nella logica della sent. n. 386 ciò che conta è che l’atto sia

27 Circa la chiusura sul punto della giurisprudenza costituzionale cfr. Corte cost., sentt. nn. 144 del 2013, nonché, risalendo nel tempo, le decisioni nn. 140 del 1970 e 206 del 1975. P. VERONESI, “Atti consequenziali cit., 2202, ravvisa proprio nella sent. n. 140 la cesura fra la precedente prassi della Corte, ben più favorevole all’ammissibilità, e quello che, pur non senza qualche incrinatura, diverrà l’orientamento prevalente.

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affetto da un vizio proprio, e sia dunque immediatamente lesivo delle altrui attribuzioni, non il fatto che la disciplina legislativa sia stata o meno censurata (dallo stesso ricorrente o da altro soggetto). Nell’impostazione della sent. n. 71, invece, la natura dell’atto conta solo in relazione al comportamento che il ricorrente ha tenuto sulla legge presupposta.

Infine, sono reperibili decisioni in cui la soluzione del conflitto è dipesa proprio dall’annullamento della norma base, talora del tutto a prescindere da chi avesse agito in via principale29, puntando quindi sulla portata generale della dichiarazione di incostituzionalità, e sul nesso tra la norma caducata e l’atto amministrativo, piuttosto che sul come la questione sia giunta dinanzi alla Corte30.

Se si vuole individuare un denominatore comune, esso consta nell’imperativo di agire immediatamente contro la legge in ipotesi pregiudizievole, mentre nettamente differenziate sono le ricadute che ne derivano sull’atto a valle: a seconda che si ritenga che l’accoglimento sia efficace, senza ulteriori condizioni, oppure che lo sia, ma solo qualora ottenuto su ricorso dello stesso soggetto che ha agito in sede di conflitto; o, infine, che non ne abbia alcuno, anche se si riscontra identità fra i soggetti coinvolti nei due diversi giudizi in via diretta. Tre distinte soluzioni, quindi, su cui sarebbe utile intervenisse una parola chiarificatrice da parte della Corte, quanto meno per orientare i futuri comportamenti di Stato e Regioni.

28 Essa ha dichiarato inammissibile un conflitto sollevato dalla Regione Friuli Venezia Giulia contro il decreto ministeriale di nomina del presidente dell’Autorità portuale di Trieste, adottato in forza di una disciplina statale a sua volta impugnata in via principale – dalla medesima Regione – ed annullata dalla Corte con la sent. n. 378 dello stesso anno. Sussisteva quindi identità fra la ricorrente in via principale e la ricorrente in sede di conflitto. Nello stesso senso può essere forse ricordata la più risalente decisione n. 245 del 1985, in cui l’inammissibilità concerne un conflitto relativo ad un decreto ministeriale privo di “apporto novativo o comunque modificativo” rispetto a quanto già disposto da una legge tempestivamente fatta oggetto, ad iniziativa dello stesso ricorrente, di un giudizio in via principale, concluso con una decisione di rigetto. Non è tuttavia del tutto certa la ratio dell’arresto in rito: se cioè risieda, come nel caso di cui alla sent. n. 386, nella natura dell’atto, o piuttosto nella circostanza che la questione sulla legge fosse stata rigettata. L’affermazione secondo la quale si esclude che “si risollevi la medesima questione già proposta nei confronti della disciplina di base” (par. n. 2 del Diritto) potrebbe infatti essere intesa come valida in assoluto, cioè a prescindere dall’esito del controllo di costituzionalità, oppure come legata al solo rigetto della questione, deciso nel caso di specie, come se si dicesse che, esclusa la lesione di competenza ad opera della legge, il conflitto su atto conseguente non ha ragion d’essere: inducendo così a pensare che altra, e opposta, sarebbe stata la conclusione in presenza di un accoglimento.

29 Si pensi alla sent. n. 43 del 1992, che ha accolto il ricorso per conflitto sulla base di quanto stabilito dalla precedente sent. n. 386 del 1991, che annulla la legge fondativa dell’atto, contestata dalle Province autonome di Trento e Bolzano, non invece dalla Toscana, che aveva invece impugnato i provvedimenti di nomina di due amministratori di Unità sanitarie locali, adottati dal commissario del governo in attuazione della prima.

30 Sembrano riconducibili alla logica della sent. n. 71 quelle decisioni (cfr., per limitarci a pronunce recenti, Corte cost., sentt. nn. 144 del 2013 e 369 del 2010) che, nel sancire l’inammissibilità dei ricorsi per conflitto, si sono limitate a giustificarla, secondo formule peraltro già sperimentate, sulla base della mancata contestazione tempestiva dell’atto presupposto, ad opera, si può supporre, del ricorrente. In teoria, nulla esclude che la Corte si sia riferita, più largamente, alla circostanza che l’impugnazione in via diretta fosse assente, puramente e semplicemente, il che consentirebbe di pensare che, se viceversa vi fosse stata, anche da parte di un soggetto diverso, le conclusioni sarebbero cambiate: ciò che allora avvicinerebbe tali casi a quello deciso con la ricordata sent. n. 43 del 1992. Ai fini della loro soluzione non era necessario approfondire, in assenza di qualsivoglia censura di legittimità, ma si può comunque ipotizzare che, data la vicinanza temporale alla decisione in commento, l’impostazione sia la medesima.

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4. A prescindere dalle oscillazioni della giurisprudenza, lo snodo delle decisioni di inammissibilità in questione ruota intorno alla necessità di scongiurare comportamenti elusivi dei termini ad impugnare, tenendo ferme le decadenze eventualmente maturate, anche a costo di consolidare così un certo riparto legislativo delle competenze, quand’anche incostituzionale, salva (e sino a che non si manifesti) l’eventualità di un controllo in via incidentale, muovendo da un giudizio comune31. Se è così, è coerente alle premesse ammettere il conflitto qualora il ricorrente abbia instaurato il giudizio in via principale nei sessanta giorni previsti, come risulta confermato dalle decisioni che hanno riunito e deciso congiuntamente ricorsi in via diretta sulle leggi e per conflitto, connessi per profili soggettivi ed oggettivi32. E come è confermato dalla sent. n. 71, che blocca il ricorso proprio a causa dell’inerzia processuale della Regione Sicilia verso il decreto legislativo n. 149.

Resta invece aperto il problema se questo requisito dell’identità soggettiva dei ricorrenti in via principale e per conflitto, sia una condizione realmente imprescindibile.

Prima di affrontare il quesito, vale la pena osservare che il caso di specie poteva forse essere inquadrato diversamente, anche a tener fermo il ragionamento della Corte. Le affermazioni circa l’inerzia della Regione Sicilia andrebbero forse meglio calibrate alla luce della prospettazione sostanziale della questione decisa dalla sent. n. 219 del 2013. Non c’è dubbio che la ricorrente in conflitto non avesse impugnato l’art. 7 del decreto legislativo n. 149, come la Corte rileva in entrambe le decisioni, ma non va dimenticato che la stessa Sicilia aveva contestato il principio cui l’art. 7 comunque si ricollega, ovvero l’immediata efficacia del decreto legislativo per le autonomie speciali. Lo aveva fatto contestando una diversa disposizione, l’art. 13, il quale prevedeva una sorta di meccanismo a due fasi relativamente all’applicabilità della normativa statale nelle Regioni speciali: la prima (esclusa dall’accoglimento) rimessa ad una decisione congiunta Stato-Regioni, fallita la quale – “seconda fase” – scattava l’immediata applicazione, dichiarata

31 Il potere-dovere dei giudici comuni di sollevare questioni di costituzionalità in via incidentale è un ulteriore argomento, emerso nella giurisprudenza più recente, per decretare l’inammissibilità dei conflitti su atti non autonomamente lesivi (così Corte cost. sentt. nn. 149 del 2009 e 386 del 2005). Anche in questo caso si assiste ad un erroneo utilizzo del conflitto intersoggettivo, che avrebbe – se ammesso – l’effetto di alterare il funzionamento delle distinte competenze affidate alla Corte costituzionale. Difficile dire, invece, se, così ragionando, la Corte intenda, più o meno velatamente, invitare il ricorrente a rivolgersi alla giustizia comune, nella prospettiva (maggiormente diffusa, cfr. nota n. 44) che i giudici amministrativi abbiano giurisdizione anche qualora l’atto sia censurato per incompetenza costituzionale, e la controversia intercorra fra gli stessi soggetti legittimati al conflitto. Decaduti dall’azione diretta contra la legge, lo Stato o la Regione, maturata la scelta di agire in conseguenza di un atto amministrativo pregiudizievole, dovrebbero rivolgersi all’unica via ancora percorribile: il processo amministrativo, nel corso del quale poi potrebbe eventualmente essere sollevata la questione di costituzionalità sulla legge applicata. Sul rapporto con la giustizia amministrativa si tornerà fra breve.

32 Si vedano ad es. le decisioni nn. 59 del 2000 e 959 del 1988, entrambe di rigetto, sia della questione di legittimità che, per conseguenza, del conflitto. Benché il problema del carattere meramente consequenziale dell’atto non sia affrontato esplicitamente, pare possibile ricostruire il rapporto con la legge in questi termini. Così nella sent. n. 59, in cui la Regione ricorrente lamentava l’incostituzionalità della disciplina statale che attribuiva al Governo la nomina del presidente della Biennale di Venezia, impugnando altresì in sede di conflitto, per illegittimità derivata, il decreto ministeriale che provvedeva a tale nomina; nella sent. 959, in analogo ordine di idee, veniva in considerazione la compatibilità con l’autonomia regionale, da un lato della legislazione statale (censurata in via principale) sulla misura dell’aggio da retrocedere alla società costituita per la gestione delle esattorie delle imposte dirette, dall’altro delle determinazioni dell’amministrazione finanziaria applicative, oggetto invece di conflitto. Per un caso di accoglimento della questione in via principale e di correlato accoglimento del conflitto vedi Corte cost., sent. n. 244 del 1992 in combinato con la precedente sent. n. 483 del 1991.

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incostituzionale ex art. 76 Cost33. L’art. 7 derogava a questo meccanismo solo nel senso di omettere la prima fase, risultando direttamente operativo anche nei territori “speciali”. Ne risulta che nella sostanza la censura siciliana, che pure sarebbe stato preferibile comprendesse anche l’art. 7, che comunque è una disposizione a sé stante, poneva il problema dei limiti degli effetti del decreto n. 149, sicché l’argomentazione circa il difetto di impugnazione, con le radicali conseguenze che ne sono state tratte a proposito del provvedimento attuativo, sembra eccessivamente “punitiva”, quand’anche se ne condividesse il principio inspiratore; e in ogni caso alquanto legata a considerazioni di ordine formale, al prezzo di mantenere operativo un provvedimento amministrativo sfavorevole, fra l’altro ormai difficilmente contestabile davanti alla giustizia ordinaria (come si vedrà fra breve).

Al di là del caso, tuttavia, la regola sull’ammissibilità dei conflitti fra enti che si desume dalla sent. n. 71 lascia perplessi, perché sembra risentire di una concezione eccessivamente soggettiva della difesa delle attribuzioni legislative, quasi che la decisione di accoglimento in un giudizio in via principale operi solo inter partes. Come noto non è così, una Regione potendo rimanere inerte e beneficiare tuttavia di una sentenza di accoglimento, purché adottata in ottemperanza a regole costituzionali di competenza ad essa comuni. Quando gli effetti sono viceversa limitati al soggetto ricorrente, ciò dipende dalla differente posizione delle singole Regioni a fronte della legge statale, e non da limiti intrinseci alla portata della decisione34. Altrimenti detto, la sfera di competenza, per quanto rimessa alla cura del soggetto che ne è titolare, non rappresenta un bene assegnato in esclusiva, potendo essere difesa – di riflesso, se si vuole – da altro ente in analoga posizione: in ciò potendosi ravvisare la soddisfazione di un’istanza di tutela ordinamentale che si affianca a quella, pur prioritaria, attinente invece alle posizioni soggettivate in capo ai soggetti direttamente confliggenti.

Difficile allora pensare che il mancato avvio del controllo di costituzionalità in via diretta, da parte di chi abbia sollevato il conflitto su atto meramente esecutivo, concretizzi una preclusione processuale, qualora comunque l’impugnativa ci sia stata e l’annullamento pure. Non pare possa porsi un problema di certezza del diritto, una volta che sia venuto a mancare quel “consolidamento” della legge (e del riparto competenziale da essa rappresentato) che, proprio a fini di stabilità e certezza, si vuole salvaguardare inibendo l’uso strumentale del conflitto fra enti. In queste ipotesi, l’effetto di annullamento

33 L’art. 13, rinviando, per le modalità di applicazione del decreto delegato nelle Regioni speciali e Province autonome, alle procedure di cui all’art. 27 l. n. 42 del 2009, prevedeva infatti l’adozione delle necessarie norme di attuazione statutaria, disponendo per l’immediata efficacia qualora queste ultime non fossero state adottate entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del medesimo decreto.

34 Del che offre ottimo esempio la sent. n. 219 del 2013 che annulla l’art. 7 solo relativamente alle Regioni speciali, come già ricordato. Ovviamente, quando le regole di competenza contenute nei vari statuti speciali sono differenti, ben può accadere che una decisione della Corte riguardi un ambito ancora più circoscritto. Si vedano sul problema le osservazioni di F. DIMORA, Limitazione degli effetti di annullamento di atto statale alla sola regione ricorrente, questa Rivista 1992, 529 ss., nonché, in relazione ai conflitti fra enti, F. BERTOLINI, Osservazioni in tema di conflitti di attribuzione accolti “nei confronti” della Regione ricorrente, in Giur. cost. 1999, 1489 ss. Le decisione n. 219 offre peraltro anche un esempio in senso opposto, dato che estende esplicitamente la portata della dichiarazione di incostituzionalità oltre il novero delle ricorrenti, coinvolgendo anche la Regione Sicilia. In senso favorevole all’estensione degli effetti dell’annullamento, questa volta relativamente ad un atto generale oggetto di conflitto intersoggettivo, si veda C. PADULA, Conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, giudicato costituzionale e vincolo nei confronti dell’attività amministrativa e dei giudizi amministrativi e ordinari, in AA.VV., Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sui conflitti di attribuzione e sull’ammissibilità del referendum abrogativo , a cura di R. PINARDI, Torino 2007, 125 ss., secondo cui “la dimensione dell’annullamento deve corrispondere alla dimensione del vizio”.

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dovrebbe ripercuotersi su ogni rapporto aperto35, come dovrebbe ritenersi quello oggetto di conflitto, così da assicurare – mediante l'annullamento dell'atto meramente attuativo – l’effettivo ed immediato ripristino della sfera di competenza lesa, il che non può dirsi qualora il provvedimento, ormai privo di base legale, rimanga in vita, secondo quello che rappresenta l’esito della decisione di inammissibilità in commento.

Il decreto dirigenziale – per tornare al caso – se pur non reca un lesione originaria, la perpetua, in quanto la specifica in relazione ad una determinata fattispecie, secondo l’usuale passaggio dal generale al particolare36. Una cosa è riconoscere che la legge non solo possa, ma debba, essere impugnata in via principale, a prescindere dalla sua applicazione concreta, bastando la sua esistenza e potenziale applicabilità, altra è negare che, una volta rimessa in discussione e dichiarata incostituzionale, sia precluso al soggetto pregiudicato (non in prima battuta, ma anche) dal concreto atto amministrativo, di ottenerne la rimozione nell’ambito di un giudizio per conflitto, che può qualificarsi tardivo non in rapporto al suo specifico oggetto, ma solo in relazione alla legge che ne rappresenta l’antecedente logico-giuridico. La sopravvivenza di un atto invalido ma efficace è in sé pregiudizievole, senza contare che l’orientamento di chiusura determina una situazione inversa – ma ugualmente problematica – a quella che si vuole prevenire. Invece di lasciare in vita la legge lesiva, annullando l’atto strettamente applicativo, ciò che avverrebbe se si ammettesse il conflitto in assenza di tempestiva censura della legge, si lascerebbe in vita l’atto una volta annullata la legge: un risultato insoddisfacente vista l’unitarietà del problema di competenza affrontato.

5. Nella prospettiva della pronuncia n. 71, questo problema si risolve, ma ad opera dei giudici comuni, cui la Corte rinvia nella parte finale della motivazione. Soluzione questa cui può prima di tutto obiettarsi che non sembra congeniale all’esistenza di una giurisdizione speciale, a garanzia delle regole costituzionali sulle attribuzioni di Stato e Regioni, frazionare la decisione sulle singole controversie in due fasi, solo la prima delle quali destinata a svolgersi presso la sua sede naturale (il giudizio di costituzionalità in via principale), mentre quella a valle, circa l’atto applicativo, viene rimandata alla giurisdizione amministrativa di annullamento37.

Senza contare che l’intervento dei giudici amministrativi non appare di certo assicurato nel caso di specie, dal momento che sono ormai chiusi i termini entro cui agire. Non potendo nemmeno farsi affidamento, per ottenere l’eliminazione dell’atto, sull’annullamento d’ufficio in via di autotutela, in quanto di natura discrezionale (quand’anche ne sussistessero i presupposti)38, l’effetto concreto della sentenza è appunto quello di perpetuare l’efficacia di un atto che essa stessa riconosce privo di fondamento

35 Secondo la nota regola (desumibile dal combinato degli artt. 136 Cost. e 30 l. n. 87 del 1953) per cui la portata delle sentenze di accoglimento si estende sIn dove la norma caducata sia ancora suscettibile di applicazione, quindi sui soli rapporti aperti, o pendenti che dir si voglia, senza ulteriori distinzioni a seconda della tipologia del giudizio interessato (salvo che si tratti della materia penale, oggetto peraltro di distinta considerazione da parte dello stesso art. 30, comma 4, l. n. 87).

36 Sembra quindi che, in tali casi, dei due requisiti funzionali all’ammissibilità del ricorso, cioè il carattere originario ed attuale del pregiudizio, che radica l’interesse ad agire, quello che radicalmente difetta è il primo, mentre, quanto all’attualità, essa, per così dire, permane sino a che non verrà meno il provvedimento lesivo.

37 Sottolineano questo aspetto R. CHIEPPA, Postilla cit., 3835, e T. GALLOZZI, Il rapporto cit., 3833 s.

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giuridico39; e che, senza far troppa pressione sulle regole processuali, ben avrebbe potuto annullare direttamente, meglio tutelando la posizione costituzionale della ricorrente, soddisfacendo ad un tempo esigenze di certezza del diritto40, oltre che di economia processuale, anch’esse da non trascurare.

Se in effetti si radicasse l’insegnamento che si ricava dalla sent. n. 71 – e ancor più se ciò accadesse con quello, ancora più restrittivo, di cui alla sent. n. 386 del 2005, prima ricordata –, ovvero la necessità di adire le vie giudiziarie ordinarie qualora lo Stato o le Regioni intendano reagire contro provvedimenti meramente esecutivi, non censurabili in sede di conflitto, perché il ricorrente non ha previamente agito in via di azione (benché altro legittimato abbia a ciò provveduto), oppure anche qualora l’avesse fatto41, si verrebbe probabilmente a generalizzare un problema di sovrapposizione fra le due giurisdizioni, di certo non nuovo ma che meglio sarebbe contenere, sia in chiave di economia processuale, sia alla luce delle difficoltà di coordinamento fra i due giudizi42. Data la soggettività delle valutazioni43 circa la qualificazione di un atto come meramente esecutivo o viceversa come (attuativo ma) innovativo, in quanto connotato da margini di discrezionalità, c’è da pensare che, per sicurezza, i soggetti interessati finirebbero molto spesso per seguire la via del “doppio binario”, rendendo per conseguenza fisiologico – o comunque più frequente di quanto sia oggi – il concreto concorso delle due istanze giudiziarie44.

Seppur senza poter approfondire la questione, va detto che un modo per superare la necessità (anzi, la stessa possibilità) di impugnare l’atto, consiste nel ritenerlo affetto da nullità, rilevabile da qualunque interessato, in conseguenza della dichiarazione di

38 Sul tema cfr. N. PIGNATELLI, Legalità costituzionale e autotutela amministrativa, in www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/pignatelli_autotutela_amministrativa.htm, il quale si occupa del tema dell'autotutela di annullamento a seguito della dichiarazione di illegittimità della legge posta a base dell'atto amministrativo, concludendo nel senso della natura discrezionale dell'intervento in via generale, salvo eccezione qualora la PA, dopo la sentenza della Corte, ponga in essere nuovi atti amministrativi collegati o connessi a quello su cui si riflette l'invalidità derivata. Eccezione basata sul fatto che altrimenti verrebbe leso l'art. 30 l. n. 87 del 1953, circa l'obbligo, anche per l'amministrazione, di non dare ulteriore applicazione a norme ormai annullate.

39 Fondamento giuridico rappresentato da una norma che dunque, benché annullata in generale, conserva la propria efficacia attraverso il provvedimento concreto e relativamente al caso da esso interessato.

40 Come è peculiare ad ogni decisione della Corte che delimiti le reciproche sfere di competenza, per quanto “in concreto”, come ormai si ritiene avvenga secondo la tesi maggiormente diffusa sull’oggetto di tali pronunce (A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti cit., 319), che si tende a ravvisare appunto nella competenza quale è stata esercitata attraverso l’atto in specie impugnato, piuttosto che non in quella astrattamente intesa.

41 Nella prospettiva della sent. n. 386, infatti, nemmeno l’accoglimento della censura sulla legge, avanzata dal soggetto che ha sollevato il conflitto, fa la differenza.

42 Difficoltà da tempo evidenziate dalla dottrina. Si veda G. ZAGREBELSKY, V. MARCENO’, La giustizia cit., 478 ss., e V. ANGIOLINI, Nuovi sbocchi o nuovi problemi nel rapporto fra conflitto di attribuzioni e giudicato amministrativo , in questa Rivista 1985, 188 ss.

43 Su cui insiste F. DIMORA, Atti esecutivi cit., 492.

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incostituzionalità della norma che attribuisce il potere di adottarlo45: in un ordine di idee che, nella sostanza, estende al rapporto fra legge ed atto amministrativo applicativo la tesi dell’invalidità derivata ad effetto caducante, elaborata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato con riguardo ad atti – legati da uno stretto nesso di presupposizione – facenti parte della stessa serie procedimentale: rimanenti dunque all’interno del “circuito amministrativo” in senso stretto46. La giurisprudenza amministrativa ha infatti tenuto ben distinte le due vicende, ragionando di annullabilità dell’atto, qualora ne sia successivamente dichiarata incostituzionale la base legale47, circoscrivendo invece al più ristretto ambito dei rapporti fra atti amministrativi, strettamente concatenati gli uni agli altri, l’operare del vizio di nullità48.

Stando così le cose, fare affidamento, da parte dello Stato o delle Regioni, sulla nullità del provvedimento meramente esecutivo, appare quanto meno rischioso. D’altronde, anche la posizione della giustizia costituzionale non sembra confortare questa tesi, come appare proprio guardando alla decisione n. 71, in cui l’invito a far valere la sentenza di annullamento in altra sede, cioè davanti ai giudici comuni (si suppone amministrativi), sembra implicare il semplice rinvio ai giudizi di annullamento per violazione di legge, essendo piuttosto difficile pensare che, con la sintetica frase di

44 Si parte ovviamente dalla premessa più diffusa (G. ZAGREBELSKY, V. MARCENO’, La giustizia cit., 478 ss.), secondo cui sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in parallelo a quella della Corte costituzionale, essendo la prima, condizionata com’è dalla prospettazione di vizi di legittimità dell’atto, non necessariamente coincidenti con la sua incompetenza costituzionale, più comprensiva della seconda. Se invece tornassero in auge alcuni risalenti precedenti, in cui veniva affermato il difetto di giurisdizione amministrativa a favore della Corte (cfr. C.d.S., sent. n. 660 del 1984, annotata da V. ANGIOLINI, Nuovi sbocchi cit., 188 ss.), il problema cambierebbe, ed anzi si acuirebbe, poiché lo Stato o la Regione, interessati ad ottenere la rimozione dell’atto amministrativo lesivo, non saprebbero a chi rivolgersi, qualora la Consulta qualifichi il provvedimento oggetto di conflitto come meramente consequenziale, con relativa inammissibilità. Un tanto in aperta violazione dei principi costituzionali sulla tutela giurisdizionale verso gli atti amministrativi, la qual cosa induce a credere che, se mai si inverasse simile situazione, la Corte stessa muterebbe il proprio orientamento.

45 La tesi è sviluppata in C. PADULA, Gli effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale sugli atti amministrativi applicativi della legge annullata, in AA.VV. Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite del potere, IV, Napoli, 2009, 1493 ss., cui si rinvia per la compiuta esposizione delle varie posizioni emerse in materia.

46 Richiama la tesi dell’invalidità derivata ad effetto caducante, anziché meramente viziante, relativamente alle conseguenze della dichiarazione di incostituzionalità della norma di legge sul provvedimento strettamente esecutivo, T. GALLOZZI, Il rapporto cit., 3833, per ipotizzare una chiave di lettura della decisione di inammissibilità n. 386 del 2005, sopra citata, nel senso che la Corte avrebbe forse dato per acquisita la caducazione automatica dei decreti in quella sede impugnati. Soluzione che, oltre ad essere criticata dall’Autrice, per ragioni di certezza giuridica, che richiederebbero una pronuncia esplicita sulla competenza, in sede di conflitto, con annullamento dell’atto viziato, sconta il rischio di attribuire alla Corte una posizione che, in quanto non esplicitata nella motivazione, appare del tutto ipotetica. In generale, sul tema delle conseguenze da riconnettere all’annullamento di un atto presupposto, fra (semplice) illegittimità e nullità, si veda B. G. MATTARELLA, Il provvedimento, in Trattato di diritto amministrativo (a cura di S. CASSESE), Tomo I, Milano 2000, 739 ss., il quale ricorda come la regola generale sia quella dell’annullabilità, mentre l’inefficacia rappresenta un’eccezione dovuta al tipo di connessione sussistente fra i due elementi, e consistente nella circostanza che l’atto annullato sia l’unico presupposto di quello meramente consequenziale. Per la formulazione giurisprudenziale della tesi dell’effetto caducante, si veda C.d.S., Adunanza plenaria, sent. n. 4 del 1970.

47 Così C.d.S., Adunanza plenaria, sent. n. 8 del 1963, commentata in senso critico da C. PADULA, Gli effetti cit., 1495 ss.

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chiusura della pronuncia in esame, la Corte abbia inteso prendere partito, implicitamente per di più, su questioni controverse quali sono quelle appena menzionate49.

Volendo tirare ora le somme quanto al caso concreto da cui si è partiti, va detto che, ragionando diversamente da come ha fatto, la Corte, rinviando alla propria precedente pronuncia di annullamento (sent. n. 219 del 2013), avrebbe potuto superare lo scoglio dell’inammissibilità, decidendo il merito del conflitto, annullando, in via per così dire consequenziale, il decreto impugnato, ma solo parzialmente, dato che, secondo l’ordine di idee sin qui seguito, sarebbe risultato difficile disconoscere il potere esercitato dallo Stato mediante l’art. 3 del decreto dirigenziale, in quanto fondato – a differenza dell’art. 1 – su norma di legge mai contestata.

Norma che assolve ad una funzione strumentale rispetto all’altra (art. 7 d.lgs. n. 149), poiché serve a far sì che lo Stato disponga della documentazione necessaria ad accertare eventuali scostamenti dai limiti fissati nel patto di stabilità, ragion per cui potrebbe risultare dubbio che, annullato l’art. 7, essa conservi un ambito applicativo. Per conseguenza, in occasione del giudizio in via principale concluso con la sent. n. 219, la Corte avrebbe potuto probabilmente eliminarla in via consequenziale, a fini di certezza del diritto. Non avendo tuttavia provveduto in tale direzione, la disposizione rimane in vigore quale base normativa del decreto in parte qua. Ci si può allora chiedere se, qualora la Corte avesse accolto il ricorso, annullando parzialmente l’atto, non risultasse più che opportuno un tempestivo intervento di annullamento in autotutela, relativamente alla parte residua, cioè, appunto, all’art. 3, posta l’inutilizzabilità in questo contesto della decisione in via consequenziale, di cui all’art. 27 della legge n. 87 del 1953.

* Ricercatore confermato – Università di Trieste

48 B. G. MATTARELLA, Il provvedimento cit., 740, afferma che “l’efficacia viziante (e non caducante) è la regola ..nel caso di annullamento di atto normativo”: se anche il riferimento implicito fosse al rapporto fra un regolamento ed il provvedimento che lo esegue in senso stretto, pare che altrettanto – e a maggior ragione – debba valere nel caso in cui al posto del regolamento ci sia invece una fonte primaria. In senso adesivo circa la limitazione della nullità alle sole serie procedimentali amministrative, si è espresso R. CHIEPPA, Postilla cit., 3835. In senso contrario, cfr. invece C. PADULA, Gli effetti cit., 1507.

49 Fra l’altro, a rigore, se così fosse, la decisione avrebbe dovuto essere di inammissibilità per carenza dell’oggetto, non sussistendo alcunché da annullare, anche se una decisione di accoglimento avrebbe forse potuto giustificarsi per ragioni di certezza (in tal senso, seppur con riguardo al tema dell’impugnazione, in sede di conflitto, di atto contrastante con precedente giudicato di annullamento, anch’esso pronunciato a seguito di conflitto, cfr. C. PADULA, Conflitto cit., 108).

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La Corte conferma che le ragioni del coordinamento finanziario possono fungere da legittima misura dell’autonomia locale

di Fulvio Cortese *

(in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2014)

1. È da diverso tempo che il giudice costituzionale è impegnato ad occuparsi della vasta e variegata tipologia della legislazione della crisi1, nella quale uno dei profili senz’altro più qualificanti è la pronunciata attenzione per la riorganizzazione (rectius, razionalizzazione) di strutture, compiti e servizi dell’amministrazione territoriale2. In proposito, uno dei fronti più caldi degli ultimi anni di riforme è quello relativo alla contrazione delle spese della politica locale e all’individuazione, in quest’ultimo contesto, di livelli – o dimensioni – operativi capaci di ottimizzare le prestazioni da rendersi ai cittadini ottenendo una contestuale riduzione dei costi necessari a produrle3.Il tormentato dibattito sul perdurante ruolo o sull’abolizione delle Province, con connessa redistribuzione delle pertinenti funzioni, è ben noto e si inscrive proprio in questa cornice4. Allo stesso modo, a formare parte integrante della decisa azione di government che il “centro” ha intrapreso nei confronti delle articolazioni della funzione pubblica della “periferia”, si è posta anche la definizione delle funzioni fondamentali dei Comuni e la determinazione della sede più adatta per il loro migliore, e più economico, esercizio, in particolare mediante la previsione di forme obbligate di associazione tra quegli enti locali.

1 La terminologia (talvolta accostata all’espressione “legislazione emergenziale”) è ormai molto diffusa, in contesti anche assai diversi: v., ad esempio, su temi correlati a quelli qui esaminati, A. CANDIDO, L’impatto della crisi sulle autonomie: prospettive “de iure condito” e “de iure condendo”, in Federalismi.it, n. 9/2014; A. GENTILINI, Regioni ed enti locali nella “legislazione della crisi”: uno sguardo di sintesi, in Studi e interventi Issirfa, febbraio 2013: http://www.issirfa.cnr.it/download/ALESSANDRO%20GENTILINI_WEB.pdfF; F. LOSURDO, Coordinamento della finanza pubblica e tutela della salute nella “legislazione della crisi” (nota a Corte cost., sent. n. 104 del 2013) , in Osservatorio AIC, ottobre 2013: http://www.osservatorioaic.it/coordinamento-della-finanza-pubblica-e-tutela-della-salute-nella-legislazione-della-crisi-nota-a-corte-cost-sent-n-104-del-2013.html; S. MANGIAMELI, Le Regioni italiane tra crisi globale e neocentralismo, Milano, 2013, in part. 39 ss.; N. VICECONTE, Legislazione sulla crisi e consigli regionali: riduzione dei costi della politica o della democrazia?, in Le Istituzioni del federalismo, 2013, 29 ss.2 V. sul punto C. TUBERTINI, La razionalizzazione del sistema locale in Italia: verso quale modello?, in Le Istituzioni del federalismo, 2012, 695 ss. Per una ricostruzione delle diverse e intricate “tappe” dei molteplici interventi legislativi che si sono succeduti, sia consentito rinviare anche a F. CORTESE, La evolución reciente del régimen local italiano: las reformas motivadas por la crisis económica, in Anuario de Derecho Municipal n. 6/2012, Madrid, 2013, 207 ss.3 Cfr. G. PIPERATA, I poteri locali: da sistema autonomo a modello razionale e sostenibile?, ibid., 2012, 503 ss., nonché G. MARCHETTI, Il sistema di governo regionale integrato. Alla ricerca di un equilibrio tra esigenze di riordino territoriale, ra-zionalizzazione della spesa pubblica e garanzia dei diritti, Milano, Giuffrè, 2012, 289 ss.4 Il dibattito è molto noto ed è lungi dall’essersi esaurito. Come è risaputo, alla Camera dei Deputati si sono affacciati, in tempi recenti, diversi disegni di legge costituzionale. L’abolizione delle Province, da ultimo, è ora prevista nel disegno di legge costituzionale di iniziativa governativa (AS 1429), approvato in Senato l’8 agosto 2014. Giova ricordare, in ogni caso, che, dal d.l. 201/2011 in poi, le Province sono state oggetto di un profondo processo (e tormentato) di riordino, che è continuato fino alle ultime previsioni di cui alla “legge Delrio”, n. 56/2014 (di cui si dirà subito infra, nel testo).

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Proprio su questi due punti si è soffermata la sentenza in esame, analizzando alcune delle disposizioni statali riconducibili al d.l. n. 95/20125, e quindi all’intervento normativo che maxime ha cercato di forzare le resistenze territoriali in materia e che, soprattutto, ha anticipato l’approccio poi assecondato anche nella recente (e formalmente già vigente) “legge Delrio” (n. 56/2014)6. Questa, anzi, a quanto è dato sapere dalla motivazione, è stata considerata incidentalmente anche in alcune delle argomentazioni delle Regioni ricorrenti, come «progetto di legge in itinere» da richiamare per evidenziarne la continuità con le disposizioni statali contestate e per evidenziare i dubbi che ne avrebbero connotato i lavori preparatori7. La sussistenza di un tale nesso di continuità, del resto, è testimoniata da un punto di vista obiettivo e assorbente: nella legge n. 56 cit. buona parte delle scelte di metodo e di contenuto anticipate del d.l. 95 cit. non ha conosciuto smentite. Sicché l’interesse per i ragionamenti svolti dalla Corte è doppiamente giustificato: per l’intrinseca importanza delle osservazioni formulate circa la portata di specifiche materie poste nella competenza legislativa esclusiva o concorrente; per le ricadute concrete, di materiale e pratica legittimazione, di metodi e contenuti che il circuito normativo nazionale ha voluto consolidare in seno alla ulteriore e più vicina riforma cui sono consegnati, almeno in teoria, vistosi processi di ri-allocazione di funzioni amministrative e di responsabilità politiche.I metodi e i contenuti di cui le Regioni avevano lamentato il contrasto con il quadro costituzionale delle garanzie prescritte a favore della loro autonomia è presto detto:- da un lato, il d.l. n. 95 cit. aveva effettuato un’ampia definizione delle funzioni fondamentali dei Comuni8, attivando sì la potestà esclusiva di cui alla lett. p del

5 Recante, nella formulazione seguita con la legge di conv. n. 135/2012, «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario».6 «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni». Un primo commento sistematico alla legge è in corso di pubblicazione: A. STERPA (a cura di), Il nuovo governo dell’aera vasta. Commento alla legge 7 aprile 2014, n. 56, Jovene, 2014. Si noti, ad ogni modo, che anche la “legge Delrio” è stata presto oggetto di ulteriori modifiche: cfr. il d.l. n. 90/2014, conv. in legge n. 114/2014.7 Cfr. punto 4.2. della motivazione (Ritenuto in fatto). In verità, per ovvie ragioni cronologiche, viene menzionato il disegno di legge AC 1542 (presentato alla Camera il 20 agosto 2013), che è il “padre”, se così si può dire, della vicenda da cui verrà prodotto, sempre da parte del Governo, il successivo disegno di legge AC 1542 B (presentato alla Camera dopo il deposito della sentenza in commento, ossia il 27 marzo 2014). 8 Cfr. l’art. 19, comma 1, lett. a, che modificava il comma 27 dell’art. 14 del d.l. n. 78/2010 (conv. in legge n. 122/2010) in questi termini: «Ferme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione, sono funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: a) organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione; h) edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia municipale e polizia amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in

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comma 2 dell’art. 117 Cost., ma veicolandone, secondo le ricorrenti, un’interpretazione eccessivamente lata, capace di svuotare, in punto gestionale, le competenze concorrenti e residuali pure costituzionalmente previste nei vari settori amministrativi riconducibili alle materie di spettanza regionale;- dall’altro lato, il d.l., oltre a stabilire la composizione degli organi di governo dei Comuni fino a 1.000 abitanti9, per le ricorrenti finiva anche per aggravare lo svuotamento delle loro competenze, prescrivendo altresì che per tutti i Comuni fino a 5.000 abitanti le funzioni fondamentali definite come sopra avrebbero dovuto essere obbligatoriamente esercitate in forma associata, e dettando a tale scopo una disciplina analitica, vuoi per rendere possibile il ricorso effettivo a unioni di Comuni di cui si già si determinavano con precisione dimensioni e struttura, vuoi per consentire l’alternativa stipulazione di convenzioni ad hoc10.Il giudice costituzionale ha affrontato partitamente i due aspetti, muovendo dalla questione dell’interpretazione su quali siano le «funzioni fondamentali» ex art. 117, comma 2, lett. p, Cost., ed affrontando poi il tema delle gestioni associate alla luce (ben più sfavillante, si potrebbe dire) di un altro parametro di riferimento, il «coordinamento della finanza pubblica», che rientra nell’elencazione di cui al comma 3 dell’art. 117 Cost. e i cui «principi fondamentali» sono sottratti all’influenza dei legislatori territoriali11. Un tale parametro era stato invocato anche dalla difesa erariale12 e integra, simultaneamente, un diverso spazio per la potestà esclusiva statale e un compresente fattore di abilitazione e di stimolo per la politica di uniformazione nazionale dell’architettura delle funzioni locali.

2. Circa le funzioni fondamentali, la Corte segue una tecnica già sperimentata in altre occasioni13, già segnalata e criticata14, passibile, in un certo qual senso, di essere annoverata tra i prezzi sistemici di una disciplina costituzionale che fondi la ripartizione delle aree di potestà legislativa statale e regionale sulla base di indicazioni materiali non seguite da una condivisa ricostruzione (innanzitutto politica) dei confini di quelle aree.

materia di servizi elettorali, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale; l-bis) i servizi in materia statistica».9 Cfr. sempre l’art. 19, comma 1, lett. c.10 Ibidem, lett. b, d, e; ma v. anche commi 3 e 4. Sull’impianto organizzativo così introdotto v. G. CARULLO, Obbligo di esercizio “associato” delle funzioni e modelli di cooperazione a livello comunale, in Foro amm.-CDS, 2013, 2879 ss.11 La tassonomia è più ampia e comprende altre connotazioni del lessico finanziario: «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario».12 Cfr. punto 7. della motivazione (Ritenuto in fatto).13 V., ad esempio, Corte cost., 13 gennaio 2004, n. 9, in Giur. cost., 2004, 185, con nota di F.S. MARINI, La “tutela” e la “valorizzazione” dei beni culturali come “materie-attività” nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale. Ma v. anche la nota di S. FOÀ, Il restauro è espressione della tutela dei beni culturali: la disciplina normativa è solo statale, in Foro amm.-CDS, 2004, 361 ss., e di G. SERVELLO, La qualifica di restauratore fra tutela e valorizzazione dei beni culturali, in Nuove leggi civ. comment., n.1-2/2004, 41 ss. Cfr. poi anche Corte cost., 2 luglio 2009, n. 200, in questa Rivista, 2010, 511 ss., con nota di F. CORTESE, L’istruzione tra norme generali e principi fondamentali: ossia, la Corte costituzionale tra contraddizioni formali e conferme sostanziali. Ma v. anche la nota di A. POGGI, Dalla Corte un importante (anche se non decisivo) monito di arretramento delle “politiche governative” sull’istruzione. Note a prima lettura della sentenza n. 200 del 2009, in Federalismi.it., n.15/2009.14 V., precisamente, F. CORVAJA, La potestà concorrente, tra conferme e novità, in questa Rivista, 2011, in part. 287 ss.; nonché F. CORTESE, L’istruzione tra norme generali e principi fondamentali, cit., passim.

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La Corte, cioè, non si avventura nell’approfondimento di tecniche interpretative di tipo sistematico o topografico, così tanto enfatizzate, invece, nelle difese regionali. Non cerca di capire se le funzioni fondamentali possano davvero arrivare a coincidere con quelle proprie o meno15, ovvero se possano dirsi fondamentali solo quelle che, se preso sul serio, potrebbe segnalare, in senso restrittivo, l’accostamento testuale con ciò che, alla stessa lett. p del comma 2 dell’art. 117 Cost., lo Stato può comunque definire nella pienezza della sua potestà, ossia con la legislazione elettorale e gli organi di governo16. La Corte segue un’altra strada. Si tratta del riferimento all’auto-qualificazione, e quindi di un’operazione che, teoricamente, espone sempre il fianco alle critiche di tutti coloro che ne segnalino il conflitto logico con l’idea stessa di una Costituzione scritta, rigida e garantita. Eppure, è anche un’operazione che trova il suo più valente difensore nell’ordinamento in sé e per sé considerato, come complesso di fattori precettivi, di esperienze, di tradizioni e di soggetti che, soprattutto quando si tratta di diritto scritto, affermano unilateralmente la prevalenza di determinati significati, in un discorso in cui le fonti, inferiori, che per un termine esprimono “B” possono, se precedenti, influenzare anche la lettura delle fonti, superiori, che in quel termine confidano tout court e che, però, può essere inteso come “A”, come “C” e (anche, fatalmente) come “B”. E ciò accade tanto più in quelle ipotesi in cui la fonte che esprime “B” si candida ufficialmente a dare la versione migliore del termine in questione.Uscendo dalla descrizione astratta del fenomeno, e venendo alla declinazione puntuale che qui interessa, la Corte – “doppiando” alcuni precedenti e conformi avvisi17 – ha affermato che le funzioni fondamentali di cui all’art. 117, comma 2, lett. p, quelle che rientrano dunque nella potestà esclusiva statale, sono proprio quelle che il legislatore statale ha già fissato nelle disposizioni contestate18.

15 Per la Corte (che riprende testualmente un suo precedente: sent. n. 43/2004, in Giur. it., 2005, 2 ss.), «sarà sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle funzioni, in conformità alla generale attribuzione costituzionale ai Comuni o in deroga ad essa per esigenze di “esercizio unitario”, a livello sovracomunale, delle funzioni medesime» (v. al punto 4.1.2. della motivazione, Considerato in diritto),.16 La Regione Puglia, infatti, aveva evidenziato quanto segue (nel “riassunto” svolto dalla Corte: v. punto 6 della motivazione, Ritenuto in fatto): «dette “funzioni fondamentali” dovrebbero in non altro consistere che nella potestà statutaria, nella potestà regolamentare e nella potestà amministrativa “a carattere ‘ordinamentale’ concernente le funzioni essenziali che attengono alla vita stessa e al governo degli enti locali territoriali ivi espressamente contemplati”. Con esclusione, quindi, delle funzioni “amministrativo-gestionali” in senso proprio, e, a maggior ragione, di “alcune di quelle individuate dalla norma legislativa qui censurata”. In tal senso deporrebbe una serie di convergenti argomenti. In primo luogo, quello “topografico” e cioè l’aver l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. inserito le “funzioni fondamentali” nell’ambito dello stesso testo normativo che contempla gli “organi di governo” e la “legislazione elettorale”. In secondo luogo, il rilievo che assumono i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, primo comma, Cost. nell’allocazione (sia da parte della legge statale, che della legge regionale) delle funzioni amministrative, sicché, essendo “la ratio della attribuzione allo Stato di una competenza legislativa (…) da rintracciare in una esigenza unitaria di livello nazionale, risulterebbe del tutto incomprensibile individuare una tale esigenza unitaria nell’ipotesi in cui tra le funzioni fondamentali menzionate alla lettera p) dell’art. 117, secondo comma, Cost., fossero annoverabili anche funzioni amministrative consistenti nella concreta cura di interessi”».17 Cfr. soprattutto Corte cost., 7 giugno 2012, n. 148, e 3 luglio 2013, n. 220, in Giur. cost., rispettivamente, 2012 (2006 ss.) e 2013 (3157).18 V. al punto 4.1.3. della motivazione (Considerato in diritto): «allo Stato spetta l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni tra quelle che vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale, cui, però, anche storicamente, non sono estranee le funzioni che attengono ai servizi pubblici locali; sicché l’elencazione di cui alla norma denunciata non si discosta da siffatto criterio elettivo».

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Va notato, anche alla luce di quanto velocemente riassunto circa il modus procedendi del rinvio all’auto-qualificazione, che, per preparare simile conclusione, la motivazione ripercorre: a) l’esperienza recente dei molteplici tentativi di fissare una definizione positiva di queste funzioni, evidenziandone la proiezione sistematica e la ricercata quadratura di un ordine che, almeno nelle originarie intenzioni, avrebbe dovuto essere funzionale (paradossalmente) al rafforzamento della responsabilità politica delle autonomie territoriali19 e alla diretta attuazione del disposto costituzionale20; b) la storia delle funzioni materialmente svolte dagli enti locali, in questo caso nominandola in modo generico21, ma comunque rafforzativo dell’impressione che la vocazione estensiva nell’individuazione di ciò che amministrativamente può essere realmente fatto dagli enti locali possa soltanto preservare le fondamenta di quelle autonomie22.Il senso dell’argomentazione, in definitiva, è facilmente afferrabile: l’ordinamento si è già espresso, e la Costituzione assegna allo Stato il compito di rendere afferrabili tutte le potenzialità di quell’espressione, poiché la finalità non è altro che lo stabilimento diretto di ciò che la Costituzione vuole sia attuato per la tutela delle ragioni di autonomia che gli enti locali devono saper esercitare in modo efficace ed efficiente.L’unico caveat che la Corte omette è il consueto ammonimento che il ricorso all’auto-qualificazione porta con sé: se la voce che si è espressa per prima – e che, peraltro, appartiene all’apparato che è tutore degli interessi dell’intera collettività repubblicana – è sicuramente una voce da prendere in considerazione, non è detto che questa possa farsi eccessivamente “grossa”. Pertanto, la possibilità di definire le funzioni fondamentali da parte dello Stato, anche seguendo le direttrici della predetta vocazione estensiva, non può spingersi oltre la ragionevolezza e la proporzionalità23.

19 La Corte prende in esame sia la specifica delega di cui alla legge n. 131/2003 (all’art. 2), sia il tentativo definitorio cercato dal legislatore nel contesto della riforma sul “federalismo fiscale” (cfr. legge n. 42/2009, art. 21, comma 3; d.lgs. n. 216/2010, art. 3; d.l. n. 78/2010, art. 14, comma 27: che è la disposizione modificata dalle disposizioni del d.l. n. 95 cit., su cui si concentra lo scrutinio della Corte). Per una ricostruzione analitica degli interventi normativi in argomento v. anche A. D’ATENA, Diritto regionale, Torino, 2013 (2ª ed.), 86, nt. 31.20 La Corte, nel riprendere la già cit. sent. n. 220/2013, sostiene esplicitamente che il carattere direttamente e volutamente attuativo del testo costituzionale, così come rinvenibile nel tenore della disposizione analizzata e nella ratio del provvedimento che la racchiude, dimostrerebbe la stessa costituzionalità della legislazione in parola: le funzioni fondamentali, infatti, indicano «le componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali» (v. al punto 4.1.2. della motivazione, Considerato in diritto; corsivi aggiunti).21 Cfr. l’estratto riprodotto supra a nt. 18. 22 Il profilo traspare in questo passo, nel quale la Corte ricorda quali fossero i principi della delega di cui all’art. 2 della legge n. 131/2003 cit., dimostrando di attribuire, come si è detto, altissimo valore al disegno enunciato dal legislatore statale: «Tra i principi e criteri direttivi della delega, oltre al rispetto delle competenze legislative e costituzionali ai sensi degli artt. 114, 117 e 118 Cost., era annoverata (comma 4, lettera b) l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane “in modo da prevedere, anche al fine della tenuta e della coesione dell’ordinamento della Repubblica, per ciascun livello di governo locale, la titolarità di funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento, tenuto conto, in via prioritaria, per Comuni e Province, delle funzioni storicamente svolte” (v. punto 4.1.1. della motivazione, Considerato in diritto; corsivi aggiunti).23 La Corte era stata chiara, sul punto, nella sent. n. 200/2009.

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3. Anche con riferimento al problema delle gestioni associate, la Corte rigetta le tesi regionali, un po’ facendo leva sulla connotazione, come si è visto, estensiva delle funzioni fondamentali, e in gran parte ascrivendo la relativa disciplina ai principi fondamentali che lo Stato (solo) può dettare nella materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica. Il punto merita attenzione; non tanto, per la verità, in relazione alla problematica sussunzione in “principi” ciò che è anche in “dettaglio” (la Corte si è comportata così anche in altre occasioni24). Ciò che rende opportuna un’osservazione è il ricorso alla materia del coordinamento finanziario, che è concetto ormai degno di rilievo sia per i caratteri, per l’appunto, strettamente competenziali della definizione di una certa nozione, sia per le virtù che quella nozione porta con sé, specialmente nel riferimento alla parola “coordinamento”. Questa evoca automaticamente dibattiti, trasformazioni istituzionali e potenzialità dispositive davvero notevoli25, che, nel quadro dei rapporti tra Stato e autonomie territoriali (anche regionali), hanno sempre avuto modo di manifestarsi in una direzione ben precisa26, confermata in modo originale, ma prevedibile, anche nella presente pronuncia.Preliminarmente, occorre comunque sottolineare un dato non trascurabile: ciò che contestano le Regioni non ha a che fare con tutta la sostanza della disciplina statale. Che le gestioni associate – e la correlata possibilità di costruire, per singole funzioni o per singoli servizi (anzi, specialmente per i servizi) dimensioni intercomunali diverse da quelle coincidenti con i confini delle altre autonomie costituzionalmente enumerate – costituiscano uno snodo essenziale per la piena valorizzazione del principio autonomista (nella sua destinazione collettiva, di strumento, cioè, per la cittadinanza e per l’implementazione dei diritti individuali e sociali) non è una novità27. In tale specifica valenza, simile acquisizione veniva percepita già nel dibattito precedente alla grande riforma di cui alla legge n. 142/199028; ma così è stato anche nelle fasi successive dell’evoluzione dei servizi pubblici, in primo luogo sin dalla “legge Galli” (n. 36/1994), in tutta l’articolata vicenda della definizione degli ambiti territoriali ottimali e delle strutture chiamate a governarli e a risponderne di fronte ai cittadini-utenti di alcuni servizi (su tutti, quello idrico)29; ed è quasi evidente che il tema è anche sotteso all’opzione, fatta propria dalla riforma costituzionale del 2001, di sostituire, quanto all’allocazione delle funzioni amministrative, il principio del parallelismo con un principio di sussidiarietà verticale (ex art. 118, comma 1, Cost.), la cui mobilità ben si presta a soluzioni assai flessibili, anche in forza del doveroso rispetto dei criteri concorrenti della

24 Ibidem.25 Per una recente analisi delle innumerevoli riflessioni che nel tempo sono state prodotte in argomento si permetta il rinvio a F. CORTESE, Il coordinamento amministrativo. Dinamiche e interpretazioni, Milano, 2012.26 Ibidem, in part. 71 ss.27 Cfr., in materia, il recente studio di P. FORTE, Aggregazioni pubbliche locali. Forme associative nel governo e nell’amministrazione tra autonomia politica, territorialità e governance, Milano, 2011.28 La questione è traguardata con acutezza, ad esempio, nel quaderno del Formez, edito nel 1984, e dedicato ai Modelli associativi intercomunali per la gestione dei servizi (Napoli).29 V., segnatamente, l’art. 8 della legge n. 36 cit., nella sua originaria formulazione (oggi non più in vigore).

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differenziazione e dell’adeguatezza, e della loro combinazione con l’istanza che l’esercizio della funzione sia sempre unitario.Le stesse Regioni, poi, avevano già condiviso politiche di ri-allocazione efficiente delle funzioni degli enti locali, immaginando proprio possibilità evolutive simili a quelle percorse con decisione dal legislatore statale anche con il d.l. n. 9530. Il motivo del contendere, dunque, è il trasferimento vero l’alto della potestà di stabilire tali soluzioni.Ma se questo è il motivo, l’esito della controversia non deve stupire. Come si è avuto modo di approfondire in altra sede31, la combinazione in un un’unica materia delle esigenze concettuali della nozione di “coordinamento” e di quella che qui si può indicare come una sub-materia, quella della “finanza pubblica” – e che, in verità, pur essendo formalmente posta in connessione con il coordinamento, è la vera domina che ne giustifica e potenzia le esigenze – può facilmente condurre all’affermazione, anche criptica (come nel caso in questione), di un principio: esiste, in capo allo Stato, una superiore funzione organizzatrice32, che mercé la provenienza nazionale della dotazione economica necessaria e delle politiche che ne determinano l’effettivo e contingente ammontare, abilita lo Stato medesimo, in applicazione del principio di legalità ex art. 97, comma 2, Cost.33, a disciplinare forme e modelli di utilizzo sostenibile dell’anzidetta dotazione34.Si tratta, forse, di un esito inevitabile? In quanto prevedibile35, forse si tratta proprio di un esito altamente inevitabile, tanto più che esso perfeziona tutta la sua verosimiglianza in un quadro costituzionale nel quale la tendenza a riferirsi al meccanismo dell’auto-qualificazione, così come ricordato anche in precedenza, già premia l’iniziativa del soggetto che risulta titolare di questa essenziale e primaria funzione di coordinamento. La quale, a sua volta, ha gli stessi limiti, naturalmente, delle affermazioni auto-qualificanti, vale a dire: non può invadere il cuore delle prerogative che sono costituzionalmente imputabili alle autonomie territoriali, sempre che questo cuore non sia già stato definito, con proporzionalità e ragionevolezza, dallo stesso legislatore statale36.

30 Cfr., ad esempio, la l.r. Veneto, 18/2012.31 F. CORTESE, Il coordinamento amministrativo, cit., 71 ss., in part. 80 ss. 32 Con terminologia che richiama il celebre e fondamentale contributo di M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice, Milano, 1966.33 Che peraltro, a decorrere dall’esercizio finanziario 2014, è “sovrastato”, anche topograficamente, dal principio per cui «Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico» (art. 97, comma 1, Cost.). Il comma in questione è stato introdotto, come è noto, in uno con la previsione costituzionale del cd. “pareggio di bilancio” (per opera della l. cost. n. 1/2012): per un approfondimento in tema v. F. GUELLA, La copertura finanziaria delle leggi di spesa nel contesto della costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio, EPLO, Athens, 2013. La Corte non ha mancato, naturalmente, di dare enfasi al richiamo di questo nuovo comma: v., ad esempio, Corte cost., 6 marzo 2014, n. 39, in www.cortecostituzionale.it. 34 V. anche, e già, F.G. SCOCA, I modelli organizzativi, in L. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, I, Bologna, 2005 (4ª ed.), 298, nonché M. MAZZAMUTO, La riduzione della sfera pubblica, Torino, 2000, 77 ss.35 F. CORTESE, Il coordinamento amministrativo, cit., 81.36 Il punto è evidenziato anche dalla Corte: «il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali. Vincoli che possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscano un “limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di

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Nel caso di specie, si può esemplificare il punto in modo assai facile. Per la Corte, non si tratta di individuare la nozione costituzionale di funzioni fondamentali per poi capire quale sia il soggetto al quale spetti definire chi e come si deve associare obbligatoriamente per garantirne il buon esercizio. Si tratta, invece, di constatare che le esigenze economicamente variabili di chi coordina i fattori di spesa possono portare ad una definizione molto ampia delle funzioni fondamentali e dei modi del loro esercizio, purché questa definizione non travolga le più esplicite garanzie costituzionali delle autonomie. È chiaro che questo schema argomentativo arriva molto vicino a ribaltare il rapporto che la riforma del 2001 avrebbe voluto affermare37, ossia la priorità delle autonomie nella cornice dell’adeguata e ragionevole potestà statale, nella relazione tra un soggetto che può (nuovamente) tutto (o quasi), salve eccezioni.L’inversione materiale del rapporto tra una regola (in questo caso, di sistema) e la sua eccezione è testimoniata in modo molto chiaro dalla fisionomia con cui si atteggia la questione del coordinamento finanziario allorché sono coinvolte autonomie speciali. Anche simile questione, naturalmente, è assai ampia e intricata. Ma un esempio valga per tutti. Nella sentenza qui annotata, la Corte rigetta le tesi della Regione Sardegna, poiché il pericolo lamentato da quella ricorrente non sussisterebbe: avendo quella Regione potestà primaria in materia di ordinamento degli enti locali38, e sussistendo, nella disciplina statale, un’espressa clausola di salvaguardia39. Non è accaduta, però, la stessa cosa in successive pronunce, nelle quali il giudice costituzionale ha riaffermato la primazia delle esigenze del coordinamento finanziario40. Certo, si trattava di misure concernenti non tanto gli enti locali, quanto altri enti pubblici rientranti nell’orbita delle istituzioni territoriali; sicché la differenza potrebbe sembrare determinante. In realtà, però, anche in quel caso, la Corte ha reso eccezionale ciò che, nei rapporti tra Stato e autonomia speciale, doveva costituire la regola, non potendosi, cioè, in quell’ipotesi, invocare da parte dello Stato un’unilaterale misura di coordinamento finanziario41. Ancora una volta, la tecnica per rendere eccezionale la regola si è tradotta

allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa”; e siano rispettosi del canone generale della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato».37 V. G. RIVOSECCHI, Il coordinamento della finanza pubblica: dall’attuazione del Titolo V alla deroga al riparto costituzionale delle competenze?, in Studi e interventi Issirfa , settembre 2013: http://www.issirfa.cnr.it/7334,908.html. Tra le sentenze della Corte che pare opportuno rammentare per il richiamo del coordinamento della finanza pubblica in questa prospettiva v. le nn. 128/2011, 139/2012 e 218/2013, in Giur. cost., rispettivamente, 2011 (1727 ss.), 2012 (1891 ss.) e 2013 (3012 ss.).38 Cfr. art. 3, comma 1, lett. b, del relativo Statuto (l. cost. n. 3/1948).39 La Corte richiama, a tale scopo, l’art. 24-bis del d.l. n. 95: «Fermo restando il contributo delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano all’azione di risanamento così come determinata dagli articoli 15 e 16, comma 3, le disposizioni del presente decreto si applicano alle predette regioni e province autonome secondo le procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, anche con riferimento agli enti locali delle autonomie speciali che esercitano le funzioni in materia di finanza locale, agli enti ed organismi strumentali dei predetti enti territoriali e agli altri enti o organismi ad ordinamento regionale o provinciale». Un simile approccio era stato seguito anche nelle sentt. nn. 236/2013, 225/2013, 215/2013 (reperibili in Giur. cost., 2013, rispettivamente, 4294 ss., 3320 ss., 2993 ss.).40 Cfr. Corte cost., 15 maggio 2014, n. 127, in www.cortecostituzionale.it.41 Secondo la ricorrente (che nel caso era, tra gli altri, la Provincia Autonoma di Trento, con la Regione TAA), lo Stato non poteva violare un principio di “negozialità” che era già stato stabilito di comune accordo e che si trova espresso nell’art. 79 del lo Statuto di autonomia (d.p.r. n. 670/1972).

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nell’interpretazione restrittiva della formulazione della regola, a favore di una ri-espansione di un regime che poteva dirsi generale solo senza l’approvazione di quella regola e del principio, del tutto diverso, che essa porta con sé42.

* Università di Trento

42 La Corte, infatti, ha interpretato le disposizioni relative al principio di cui alla nt. precedente come riferite al «solo patto di stabilità interno» (cfr. punto 4. della motivazione, Considerato in diritto).

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Lo “slittamento dei seggi” all’esame della Corte costituzionale

di Giovanni Tarli Barbieri *

(in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2014)

1. Nella sentenza in commento (41/2014) la Corte costituzionale si pronuncia, nell’ambito di un giudizio per conflitto di attribuzione tra enti, su un ricorso nel quale la Regione Friuli-Venezia Giulia per la dichiarazione che non spetterebbe allo Stato (e per esso all’Ufficio elettorale centrale nazionale costituito presso la Corte di cassazione per la verifica e la proclamazione dei risultati delle elezioni per la Camera dei deputati del 2013) di assegnare complessivamente alla circoscrizione Friuli-Venezia Giulia 12 seggi, anziché i 13 seggi ad essa spettanti sulla base del d.P.R. 22 dicembre 2012 (Assegnazione alle circoscrizioni elettorali del territorio nazionale e alle ripartizioni della circoscrizione Estero del numero dei seggi spettanti per l’elezione della Camera dei deputati), assunto in stretta applicazione di quanto previsto dall’art. 56 della Costituzione.Poiché però l’Ufficio elettorale centrale nazionale avrebbe dato applicazione a quanto previsto dall’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R. 361/1957 (come modificato dall’art. 1 della l. 270/2005), la ricorrente chiede l’annullamento del verbale di assegnazione dei seggi, previa declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione per violazione dell’art. 56, comma 4, Cost., in quanto quest’ultimo imporrebbe un criterio di ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni attraverso un rigido rapporto di proporzionalità con la popolazione delle stesse e rivestirebbe carattere assoluto, in quanto espressione del principio democratico, della sovranità popolare e della parità di trattamento tra i cittadini.La Corte costituzionale dichiara inammissibile il ricorso, si potrebbe dire “su tutta la linea”, ovvero innanzitutto perché, ai fini della legittimazione ad agire, non è sufficiente la mera rappresentanza territoriale; questa infatti può essere un elemento concorrente ma non sostitutivo della necessità del riferimento ad una lesione di una sfera di competenza costituzionalmente spettante alla Regione, che in materia di elezioni della Camera dei deputati, certamente non sussiste1; in secondo luogo, richiamandosi a propri precedenti, la Corte ha buon gioco di ricordare che «in sede di conflitto di attribuzione non (è) possibile impugnare atti amministrativi al solo scopo di far valere pretese violazioni della Costituzione da parte della legge che è a fondamento dei poteri svolti con gli atti impugnati» (sent. 472 del 1995)2.

1 Considerato in diritto, n. 2.2. Si ricordi, sul punto, l’art. 117, comma 2, lett. f), Cost., che assegna

allo Stato una competenza legislativa esclusiva in materia, tra l’altro, di «organi dello Stato e relative leggi elettorali».

2 Considerato in diritto, n. 2.3.

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Non ci si soffermerà approfonditamente in questa sede sui profili di ammissibilità della pronuncia in oggetto, salvo evidenziare che essi sembrano ribadire una giurisprudenza costituzionale consolidata. Sulla questione dell’interesse ad agire, la dottrina ha evidenziato che nella prassi il conflitto tra enti ed il giudizio in via principale hanno assunto «una coloritura decisamente similare, nel senso che entrambi sono volti essenzialmente a garantire la tutela delle reciproche sfere di competenza»3, come si evince anche dall’art. 39 della l. 87/1953 che qualifica il giudizio della Corte innanzitutto come giudizio sulla competenza (per tutte, Corte cost., sentt. 472/1995; 27/1996; 422/1998; 380/2007)4. In questo senso, se è vero che in talune pronunce la Corte ha riconosciuto alle Regioni, in forza dell’art. 5 Cost. e dei «principi fondamentali contenuti nelle disposizioni iniziali della Costituzione», un «ruolo di rappresentanza generale degli interessi della collettività regionale e di prospettazione istituzionale delle esigenze e, persino, delle aspettative che promanano da tale sfera comunitaria» (sent. 829/1988)5, è altresì vero, come ricorda la sentenza in oggetto, che in esse «la pretesa della Regione si fondava anche sulla dedotta violazione di altre norme costituzionali e non solo sulla mera esponenzialità degli interessi della propria comunità»6. Ma soprattutto la giurisprudenza più recente sembra non assecondare più tale interpretazione estensiva dell’interesse ad agire delle Regioni anche perché essa «cambierebbe radicalmente la funzione stessa del conflitto intersoggettivo. Esso non avrebbe più lo scopo di ripristinare l’ordine costituzionale delle competenze, ma diverrebbe il canale processuale attraverso il quale la Regione guadagnerebbe legittimazione processuale per promuovere l’azione di annullamento degli atti amministrativi che essa, per decisione politica, ritenesse lesivi degli interessi della comunità»7.

3 E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, Torino 2013, 215. Sul punto, cfr.

anche, in particolare, G.L. CONTI, L’interesse al processo nella giustizia costituzionale, Torino 2000; C. PADULA, La Corte costituzionale e l’interesse a ricorrere nei conflitti tra Stato e regioni, in questa Rivista 2000, 444 ss.; ID., La problematica legittimazione delle Regioni ad agire a tutela della propria posizione di enti “esponenziali”, in questa Rivista 2003, 676 ss.

4 Sul punto, cfr., in particolare, P. BIANCHI, Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, in R.

ROMBOLI (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1993-1995), Torino 1996, 310 ss.

5 Considerato in diritto, n. 2.2. Su tale pronuncia, G. PASTORI, Sistema autonomistico e finalità

generali della Regione, in questa Rivista 1989, 1534 ss.

6 Considerato in diritto, n. 2.3.

7 R. BIN, La Corte si oppone all’uso politico del conflitto di attribuzioni , in questa Rivista 1998,

1511.

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Anche per quanto riguarda il secondo requisito, la Corte ha buon gioco nel richiamarsi ai propri numerosi precedenti che escludono l’ammissibilità di un conflitto laddove la dedotta lesione sia in realtà riferibile alla legge di cui l’atto impugnato sia meramente esecutivo. In questi casi, infatti, l’ammissibilità del conflitto determinerebbe una sostanziale elusione dei termini per il ricorso contro la legge (da ultimo, sent. 144/2013).Sul punto, la natura vincolata del verbale dell’Ufficio elettorale centrale nazionale non sembra discutibile, consistendo in una mera applicazione matematica dell’art. 83, comma 1, n. 8, del d.P.R. 361/19578.D’altra parte, è esclusa anche l’eventualità di un’autorimessione perché, come specificato da una giurisprudenza ormai risalente, questa ipotesi «presuppone che si sia instaurato un giudizio per conflitto di attribuzione avente un suo oggetto autonomo, e cioè un giudizio in cui si lamenti una lesione della sfera di attribuzioni della Regione, riconducibile ad un atto impugnato che sia in sé suscettibile di produrre tale lesione»9.Peraltro, in generale, l’eventualità di un’autorimessione appare problematica (e quindi svista con sostanziale sfavore nella giurisprudenza costituzionale10), perché in essa si annida «il fantasma dell’officialità dell’azione e della rottura del principio dispositivo», rischiando, ancora una volta, «di mettere in crisi il principio della decadenza dell’azione, una volta decorso inutilmente il termine per l’impugnazione della legge».

2. La sent. n. 41 del 2014 appare assai interessante perché per la prima volta nella sua storia la Corte costituzionale si trova ad affrontare la problematica dello “slittamento dei seggi”; si tratta di una questione di grande attualità, si potrebbe dire “trasversale” alla maggior parte dei sistemi elettorali vigenti nel nostro Paese nei quali la ripartizione dei seggi avviene a più livelli (centrale e quindi circoscrizionale, ovvero circoscrizionale, in prima battuta, poi centrale, con successiva “restituzione” alle circoscrizioni).Il fenomeno dello “slittamento” si verifica quando il sistema di ripartizione dei seggi non impedisce (ma, si potrebbe dire, presuppone) che nelle circoscrizioni possa risultare eletto un numero di seggi diverso (e quindi superiore o inferiore) rispetto a quello ad esse spettanti in base alla popolazione residente, visto che la

8 Manca quindi in questo caso un minimo di discrezionalità ritenuto indispensabile ai fini

dell’ammissibilità del conflitto: per tutti, F. DIMORA, Considerazioni a margine di un conflitto relativo ad atto fondato su una precedente legge non impugnata, in questa Rivista 1996, 1155 ss.

9 Considerato in diritto, n. 2.4. E tale posizione è affermata «anche se dalla pronuncia su

quest’ultima può discendere come conseguenza la pronuncia sulla prima, ché anzi qualora difettasse un’autonomia tra le due questioni non si capirebbe come l’una possa ritenersi rilevante (“pregiudiziale”) per la definizione dell’altra»: E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, cit., 215.

10 Per tutti, L. MANNELLI, Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, in R. ROMBOLI (a cura di),

Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1996-1998), Torino 1999, 333 ss.

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garanzia dell’attribuzione integrale di un tale numero di seggi, come si dirà, può essere garantito «solo nei casi in cui venga fissata normativamente l’adozione di un metodo di attribuzione dei mandati che predisponga l’autosufficienza nell’ambito delle singole circoscrizioni»11.Si tratta quindi di una tematica delicata, riguardando al fondo la problematica della rilevanza nella legislazione elettorale della c.d. “rappresentanza territoriale” in nome della quale si è sviluppato un contenzioso che ha investito l’assegnazione dei seggi tanto nelle elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia del 2009 (e probabilmente in quelle del 201412) quanto in quelle della Camera del 2013 (cui ha riguardo la sentenza in commento). È poi noto, come si dirà più oltre (n. 5) che l’assegnazione dei seggi alle circoscrizione costituisce uno dei punti più complessi e controversi della riforma del sistema elettorale della Camera c.d. italicum (A.S. n. 1385) mentre, a livello regionale, questa problematica è risultata una delle più rilevanti in sede di elaborazione delle diverse leggi elettorali, trovando soluzioni assai diversificate.Al fondo tutte queste vicende, ed anche alla sentenza in commento, è probabilmente la crisi e la ridefinizione dei meccanismi della rappresentanza politica, che sta facendo emergere dimensioni nuove e diverse, non certo prive, però, come si dirà, di aspetti problematici.

3. Per inquadrare il fenomeno dello “slittamento” dei seggi è da osservare, in premessa, che per ragioni matematiche nessun sistema elettorale può riuscire a garantire simultaneamente tre obiettivi: a) assegnazione nazionale (o comunque centrale) dei seggi; b) assegnazione alle circoscrizioni dell’esatto numero di seggi ad esse spettanti; c) rispetto nell’assegnazione dei seggi in questione dell’andamento del voto nella circoscrizione.Si è parlato a questo proposito di «quadratura del circolo»13 a proposito dell’impossibilità «di assicurare per tutte le circoscrizioni ed in tutti i casi la perfetta concordanza tra seggi assegnati e seggi spettanti alle circoscrizioni stesse, e la impossibilità di ottenere che i partiti in ogni singola circoscrizione abbiano una rappresentanza proporzionale ai voti ottenuti in quella circoscrizione»14.Come è stato osservato, la quota di questi seggi dipende da una serie di variabili, quali: a) il numero di seggi spettanti dalla Regione; b) il numero di circoscrizioni

11 S. FURLANI, Procedimenti elettorali e rappresentanza territoriale, in Nuovi studi pol. 1985, 4, 51.

12 È infatti stato presentato un ricorso da parte di un candidato della lista “Nuovo centro destra-Udc”

avente ad oggetto l’assegnazione di un seggio “conteso” ad un candidato della stessa lista, proclamato eletto in un’altra circoscrizione.

13 G. SCHEPIS, I sistemi elettorali, Empoli 1955, 144 ss.

14 G. SCHEPIS, I sistemi elettorali, cit., 145.

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provinciali; c) la differenza di ampiezza delle (e quindi di seggi spettanti alle) circoscrizioni provinciali; d) la distribuzione dei voti di ogni partito tra le circoscrizioni stesse; e) il tasso di partecipazione al voto; f) il rapporto tra i voti non validi ed i votanti15.Trattandosi di un problema insolubile, il legislatore elettorale è chiamato a scegliere quali esigenze privilegiare, anche «escogitando, sul piano empirico, una delle tante soluzioni intermedie nelle quali il tecnico deve lasciare il posto al politico»16. A queste possibili diverse soluzioni allude la stessa Corte costituzionale (sent. 271/2010) la quale, con riferimento allo “slittamento dei seggi” nelle elezioni europee, ha affermato che «esistono, tuttavia, diversi possibili meccanismi correttivi che, senza modificare la ripartizione proporzionale dei seggi in sede di collegio unico nazionale, riducono l’effetto traslativo lamentato dal rimettente, cioè lo scarto fra seggi conseguiti nelle circoscrizioni in base ai voti validamente espressi e seggi ad esse spettanti in base alla popolazione. Questi meccanismi, peraltro, conseguono tale obiettivo al prezzo di alterare, in maggiore o minore misura, il rapporto proporzionale fra voti conseguiti e seggi attribuiti a ciascuna lista nell’ambito della singola circoscrizione»17.È evidente, però, che tutte le soluzioni debbono essere attentamente inquadrate sul piano costituzionale.Da questo punto di vista, parte della dottrina ha condannato i fenomeni di “slittamento”, sul presupposto che essi costituiscano un «fattore di perturbamento dell’eguaglianza derivante dalla suddivisione del territorio nazionale in collegi» che darebbe luogo ad una «distorsione della proporzione nella rappresentanza delle singole circoscrizioni»18, suscitando quindi «serie motivazioni di illegittimità costituzionale in quanto il numero dei seggi assegnati in base alla popolazione alle circoscrizioni non viene integralmente attribuito alle medesime»19.

15 A. CHIARAMONTE, Il rendimento dei sistemi elettorali regionali: un quadro comparato, in A.

CHIARAMONTE, G. TARLI BARBIERI (a cura di), Riforme istituzionali e rappresentanza politica nelle Regioni italiane, Bologna 2007, 240, cui si rinvia anche per i dati al riguardo.

16 G. SCHEPIS, I sistemi elettorali, cit., 147.

17 Considerato in diritto, n. 5.2.

18 M. LUCIANI, Il voto e la democrazia, Roma 1991, 43.

19 S. FURLANI, L’astensionismo e i suoi effetti sui risultati elettorali, in Nuovi studi politici 1984, 2,

82-83 e, dello stesso, Elezioni. I) Sistemi elettorali, in Enc. giur., XII, Roma 1989, 6. In modo più sfumato, T. MARTINES, Art. 56-58, in Comm. Cost., Bologna-Roma 1984, 98, a proposito della “restituzione” dei seggi parla di una causa «di alterazione della proporzionalità», riconoscendo che «l’adozione di uno stesso quoziente in tutti i collegi, se da un lato varrebbe a favorire una migliore ripartizione proporzionale della rappresentanza tra le liste, altererebbe dall’altro la ripartizione proporzionale tra le regioni».

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Tuttavia, è la stessa sentenza in oggetto che non consente di assecondare del tutto questa posizione, laddove afferma che «i deputati eletti nella circoscrizione regionale non sono rappresentanti della Regione né come ente, né come comunità, ma rappresentano l’intera Nazione (art. 67 Cost.)»20. Infatti, la ripartizione in circoscrizioni, pur essendo promossa dall’esigenza di avvicinare gli elettori agli eleggibili «così da facilitare ai primi la scelta fra questi ultimi e nello stesso tempo da mantenere i contatti fra gli uni e gli altri» «non fa venir meno l’unità del corpo elettorale, costituendo i singoli collegi delle sue articolazioni localizzate nelle varie parti del territorio»21.In definitiva, come è stato esattamente osservato, «i rappresentanti eletti su base territoriale non rinviano ad istanze parziali, ma semplicemente, nel rappresentare politicamente gli uomini e il territorio sul quale vivono, sono “situati” geograficamente»22.Ritorna a questo proposito centrale la problematica «degli effetti che l’introduzione di un certo sistema elettorale potrebbe provocare sull’atteggiarsi parlamentare della rappresentanza politica, cioè sul comportamento degli eletti», proprio partendo dalla «pretesa espressa dall’art. 67 Cost. che i rappresentanti politici siano in via di principio privi di stretti collegamenti con elettori residenti in parti del territorio dello Stato»23.Si può quindi concludere che «proprio l’art. 67 Cost. riconduce ad unità gli atti con cui i diversi collegi elettorali scelgono i singoli parlamentari, facendo delle elezioni un atto di volontà unitario della Nazione nella sua interezza»24.È allora precisamente in questa cornice che «la rappresentanza dei territori e dei loro interessi nelle sedi decisionali nazionali»25 può trovare ingresso nella legislazione elettorale, ancorché con i problemi e i limiti che si sono individuati.

20 Considerato in diritto, n. 2.2. Sul punto cfr. gli autori richiamati nella nt. 95.

21 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova 1991, 441.

22 I. CIOLLI, Il territorio rappresentato. Profili costituzionali, Napoli 2010, 104.

23 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, Milano 1991, 337. È altresì da ricordare il monito di

Carlo Lavagna che vedeva nell’introduzione di un sistema maggioritario il rischio che il Parlamento funzionasse «in maniera esattamente contraria alle finalità perseguite dalla Carta […] vale a dire in contrasto col principio dell’unità nazionale, dell’indifferenziazione geografica delle Assemblee» : Il sistema elettorale nella Costituzione italiana, in Riv. trim. dir. pubbl. 1952, 854.

24 L. CIAURRO, Art. 67, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario della

Costituzione, Torino 2006, 1291.

25 R. BIN, Rappresentanti di cosa? Legge elettorale e territorio, in questa Rivista 2013, 662.

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I fenomeni di “slittamento”, salvo eccezioni, non sono quindi impediti dalle leggi elettorali vigenti in Italia (cfr. infra, nn. 5 ss.), perché essi costituiscono un inconveniente «non eliminabile se non pagando un prezzo in termini di proporzionalità a livello di collegi di primo ordine»26, non hanno assunto un rilievo quantitativo eccessivamente rilevante, e sono configurati come meccanismi di traslazione fondati sulla mera casualità (diversamente, essi apparirebbero dubbi sul piano della legittimità costituzionale in quanto «idonei a favorire (e quindi a sovrarappresentare) alcune circoscrizioni rispetto ad altre»27.

4. A livello statale, lo “slittamento” dei seggi ha caratterizzato la legge elettorale della Camera e del Senato ancora prima della svolta del 1993.Per quanto riguarda la Camera, l’art. 83 del d.P.R. 361/1957 prevedeva che i seggi fossero attribuiti in primo luogo a livello delle 32 circoscrizioni territoriali 28; quindi i seggi residui erano assegnati nel Collegio unico nazionale e quindi “ribaltati” di nuovo nelle circoscrizioni seguendo la graduatoria decrescente dei voti residuati espressi in percentuale del relativo quoziente circoscrizionale (a tal fine si provvedeva a moltiplicare per cento il numero dei voti residuati e si divide il prodotto per il quoziente circoscrizionale: comma 4). Si trattava di un meccanismo di “traslazione” che, come si è accennato nel paragrafo precedente, non favoriva “programmaticamente” alcune circoscrizioni (in particolare le più grandi) in danno di altre, fondandosi su «fattori accidentali dipendenti dal gioco probabilistico dei resti e che agisce indipendentemente dalla misura del quoziente»29.Il sistema elettorale del Senato era connotato da una articolazione dei territori regionali in collegi uninominali con ripartizione dei seggi sostanzialmente di tipo

26 A. RUSSO, Collegi elettorali ed eguaglianza del voto, Milano 1998, 30.

27 A. RUSSO, Collegi elettorali, cit., 31.

28 È interessante ricordare che a tale scopo era utilizzata la c.d. formula “Imperiali” (ovvero il

metodo del quoziente corretto “+2”) che ha tra le sue finalità quella di favorire una maggiore allocazione dei seggi nelle circoscrizioni.

29 G. SCHEPIS, I sistemi elettorali, cit., p. 175.

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proporzionale che era articolato in modo tale che in un collegio avrebbero potuto essere eletti più di un candidato o, al contrario, nessun candidato: l’art. 19 della l. 29/1948 prevedeva infatti che, qualora nessun candidato avesse ottenuto almeno il 65% dei voti validi espressi nel collegio (ipotesi che si verificava solo sporadicamente), i seggi venissero assegnati a livello regionale con il metodo “d’Hondt” e quindi assegnati ai candidati di ciascun gruppo secondo la graduatoria determinata dalla loro cifra relativa individuale.La riforma elettorale del 1993 mutò il sistema di assegnazione dei seggi nella quota proporzionale della Camera. L’art. 5 della l. 277/1993 prevedeva infatti che i seggi venissero assegnati in prima battuta a livello nazionale e quindi assegnati alle 26 circoscrizioni territoriale con un meccanismo di calcolo diverso da quello desumibile dal testo originario del d.P.R. 361/1957 ma comunque tale da non impedire fenomeni di “slittamento” dei seggi30. Diversamente, per quanto riguarda il Senato, i seggi della quota proporzionale erano assegnati ai candidati “migliori perdenti” nei collegi uninominali e quindi, in un certo senso si aggiungevano a quelli riservati ai candidati che avessero ottenuto il maggior numero di voti.Da ultimo, la l. 270/2005, ridefinendo i criteri di attribuzione dei seggi, ha apportato innovazioni anche in ordine alla distribuzione degli stessi a livello circoscrizionale. In particolare, se le modifiche introdotte alla legge elettorale del Senato escludono l’eventualità di slittamenti (i seggi sono attribuiti direttamente ed esclusivamente a livello regionale), per quanto riguarda la Camera il nuovo e complesso sistema di “ribaltamento” dei seggi dal livello nazionale a quello circoscrizionale, finalizzato a far sì che a ciascuna lista sia attribuito sul totale delle circoscrizioni un numero di seggi pari a quello spettante in prima battuta a livello nazionale. In caso contrario, è previsto un meccanismo per ridurre i seggi delle coalizioni o delle liste “eccedentarie” e, correlativamente, aumentare quelli delle coalizioni o liste “deficitarie”. I seggi eccedentari sono detratti alle coalizioni (o alle singole liste) nelle circoscrizioni nelle quali esse li hanno ottenuti con le parti decimali dei quozienti di attribuzione, secondo il loro ordine crescente. Un meccanismo simile è previsto tra le liste all’interno delle coalizioni. Correlativamente, nelle stesse circoscrizioni sono aumentati i seggi delle coalizioni “deficitarie” 31.

30 A tal fine si procedeva in primo luogo alla assegnazione dei seggi in ogni circoscrizione

attribuendo a ciascuna lista tanti seggi quanti quozienti circoscrizionali interi essa abbia conseguito in quella circoscrizione. Il quoziente circoscrizionale era dato dalla divisione tra la somma delle cifre elettorali circoscrizionali conseguite nella circoscrizione dalle liste ammesse al riparto proporzionale dei seggi e il numero di seggi da assegnare nella circoscrizione in ragione proporzionale. Gli eventuali seggi residui erano attribuiti alle liste seguendo la graduatoria decrescente delle parti decimali del quoziente ottenuto da ciascuna lista sino alla attribuzione di tutti i seggi spettanti alla circoscrizione. A tal fine le operazioni di calcolo procedevano a partire dalla circoscrizione di minore dimensione demografica. Al termine di tali operazioni, i seggi che eventualmente fossero ancora da assegnare ad una lista erano attribuiti alla lista stessa nelle circoscrizioni ove essa avesse ottenuto i maggiori resti, utilizzando per primi i resti che non avessero già dato luogo alla attribuzione di seggi.

31

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Questo meccanismo ha ridotto di molto l’eventualità di “slittamenti” senza peraltro escluderli del tutto.In concreto, nelle tre elezioni nelle quali la l. 270/2005 ha trovato applicazione sono soltanto cinque i casi di “slittamento”32. Ed il dato è da rimarcare nella misura in cui nelle sole elezioni del 1983 lo slittamento aveva interessato, in positivo o in negativo, ben 10 circoscrizioni33.Certamente, però, la soluzione individuata dalla l. 270/2005, se ha garantito sicuramente maggiormente un’assegnazione dei seggi più equilibrata tra le circoscrizioni, ha dato luogo ad ulteriori storture ed inconvenienti, nel contesto di

In particolare, l’art. 83, comma 1, n. 8), del d.P.R. 361/1957 (come modificato dall’art. 1 della l. 270/2005) prevede infatti che l’Ufficio centrale nazionale per ciascuna coalizione di liste (così come per le liste singole) ammesse al riparto divida il totale della sua cifra elettorale circoscrizionale per il quoziente elettorale nazionale, ottenendo così l’indice relativo ai seggi da attribuire nella circoscrizione alle liste della coalizione medesima. Quindi, l’Ufficio stesso moltiplica ciascuno degli indici suddetti per il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione e divide il prodotto per la somma di tutti gli indici. La parte intera dei quozienti di attribuzione così ottenuti rappresenta il numero dei seggi da attribuire nella circoscrizione a ciascuna coalizione di liste o lista singola. I seggi che rimangono ancora da attribuire sono rispettivamente assegnati alle coalizioni di liste o singole liste per le quali le parti decimali dei quozienti di attribuzione siano maggiori e, in caso di parità, alle coalizioni di liste o singole liste che abbiano conseguito la maggiore cifra elettorale circoscrizionale; a parità di quest'ultima si procede a sorteggio. Successivamente l'Ufficio accerta se il numero dei seggi assegnati in tutte le circoscrizioni a ciascuna coalizione di liste o singola lista corrisponda al numero dei seggi determinato ad esse spettante. In caso negativo, procede alle seguenti operazioni, iniziando dalla coalizione di liste o singola lista che abbia il maggior numero di seggi eccedenti, e in caso di parità di seggi eccedenti da parte di più coalizioni o singole liste, da quella che abbia ottenuto la maggiore cifra elettorale nazionale, proseguendo poi con le altre coalizioni di liste o liste singole, in ordine decrescente di seggi eccedenti: sottrae i seggi eccedenti alla coalizione di liste o singola lista in quelle circoscrizioni nelle quali essa li ha ottenuti con le parti decimali dei quozienti di attribuzione, secondo il loro ordine crescente e nelle quali inoltre le coalizioni di liste o singole liste, che non abbiano ottenuto il numero di seggi spettanti, abbiano parti decimali dei quozienti non utilizzate. Conseguentemente, assegna i seggi a tali coalizioni di liste o singole liste. Qualora nella medesima circoscrizione due o più coalizioni di liste o singole liste abbiano le parti decimali dei quozienti non utilizzate, il seggio è attribuito alla coalizione di liste o alla singola lista con la più alta parte decimale del quoziente non utilizzata. Nel caso in cui non sia possibile fare riferimento alla medesima circoscrizione ai fini del completamento delle operazioni precedenti, fino a concorrenza dei seggi ancora da cedere, alla coalizione di liste o lista singola eccedentaria vengono sottratti i seggi in quelle circoscrizioni nelle quali li ha ottenuti con le minori parti decimali del quoziente di attribuzione e alla coalizione di liste o lista singola deficitaria sono conseguentemente attribuiti seggi in quelle altre circoscrizioni nelle quali abbiano le maggiori parti decimali del quoziente di attribuzione non utilizzate».

32 In particolare, nelle elezioni del 2006 la circoscrizione Trentino-Alto Adige ha ottenuto un seggio

in più (da 10 a 11), mentre il Molise uno in meno (da 3 a 2); in quelle del 2008 hanno ottenuto un seggio in più le circoscrizioni Piemonte 2 (da 22 a 23) e Veneto 1 (da 29 a 30) mentre hanno “perduto” un seggio le circoscrizioni Trentino-Alto Adige (da 10 a 9) e Sicilia 1 (da 26 a 25); nelle elezioni del 2013 hanno ottenuto un seggio in più la circoscrizione Trentino-Alto Adige (da 11 a 12) e Sardegna (da 17 a 18) mentre hanno conseguito un seggio in meno le circoscrizioni Friuli-Venezia Giulia (da 13 a 12) e Molise (da 3 a 2).

33 S. FURLANI, Procedimenti elettorali, cit., 52.

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un sistema elettorale che prevede la previa attribuzione nazionale dei seggi e, fino alla sent. 1/2014 della Corte costituzionale, un premio di maggioranza34.Queste contraddizioni rimangono e, per certi versi, risultano amplificate nel c.d. italicum, nel quale i seggi sarebbero assegnati prima a livello nazionale poi “ribaltati” prima in circoscrizioni regionali e, da ultimo, in collegi plurinominali. Questo doppio meccanismo di ribaltamento è governato da regole assai complesse, sostanzialmente mutuate dalla l. 270/2005, e tali da minimizzare (pur senza escluderla) l’eventualità di “slittamenti” dei seggi da una circoscrizione all’altra che sarebbero stati potenzialmente più frequenti nel caso di passaggio diretto dal livello nazionale a quello dei collegi plurinominali. In tal modo, però, l’assegnazione dei seggi nei collegi plurinominali risulterà praticamente casuale soprattutto per i partiti medio-piccoli: e ciò spiega perché soprattutto questi ultimi hanno ottenuto la possibilità di candidature plurime, con ciò ripristinando, almeno in parte, uno degli aspetti più deteriori contenuti nella l. 270/2005.Ma tale sostanziale casualità non è irrilevante dal punto di vista degli elettori (soprattutto di quelli dei partiti medio-piccoli) che, nell’esercizio del diritto di voto, non potranno essere in grado di valutare le “potenzialità” di elezione dei candidati nel loro collegio plurinominale. Da questo punto di vista, il sistema risulta addirittura, nell’ottica dell’elettore, non meno opaco rispetto a quanto delineato dalla l. n. 270 del 2005.

5. Paradossale è stato il contenzioso sviluppatosi a proposito dello “slittamento” dei seggi alle elezioni europee. Come è noto, la l. 18/1979 (e successive modificazioni, come si dirà) prevede che i seggi siano assegnati a livello nazionale (con il metodo del quoziente naturale) e quindi “restituiti” alle cinque circoscrizioni elettorali (art. 22, comma 1, n. 3)35.Mentre la Corte costituzionale ha osservato che, essendo molteplici i possibili meccanismi correttivi di tale squilibrio, «non può che spettare al legislatore

34 Così, ad esempio, nelle elezioni del 2006 allorché l’Udeur si è visto attribuire un seggio nella

circoscrizione umbra con 3.101 voti e lo 0,53% dei voti (un risultato assai più modesto di altre circoscrizioni dove la stessa lista non ha ottenuto seggi (si pensi alla circoscrizione Sardegna, nella quale la lista ha ottenuto il 2,27% dei voti). Per ulteriori e non minori storture riferite alle elezioni del 2013, cfr. N. D’AMELIO, La difficile convivenza di due sistemi elettorali, in I. DIAMANTI (a cura di), Un salto nel voto. Ritratto politico dell’Italia di oggi, Roma-Bari 2013, 139.

35 In concreto, si divide la cifra elettorale nazionale di ciascuna lista per il numero dei seggi attribuiti

alla lista stessa (quoziente elettorale di lista). Si attribuiscono, poi, alle liste tanti seggi quante volte il rispettivo quoziente elettorale di lista risulti contenuto nella cifra elettorale circoscrizionale della lista. I seggi che rimangono ancora da attribuire sono assegnati, rispettivamente, nelle circoscrizioni per le quali le ultime divisioni hanno dato maggiori resti e, in caso di parità di resti, a quelle circoscrizioni nelle quali si è ottenuta la maggiore cifra elettorale circoscrizionale (a parità di cifra elettorale circoscrizionale, si procede a sorteggio). Se alla lista in una circoscrizione spettano più seggi di quanti sono i suoi componenti, restano eletti tutti i candidati della lista e si procede ad un nuovo riparto dei seggi nei riguardi di tutte le altre circoscrizioni sulla base di un secondo quoziente ottenuto dividendo il totale dei voti validi attribuiti alla lista nelle circoscrizioni stesse, per il numero dei seggi che sono rimasti da assegnare (art. 22, comma 1, n. 3).

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individuare […] la soluzione più idonea a porre rimedio alla lamentata incongruenza della disciplina censurata» (sent. 271/2010)36, il Consiglio di Stato nel 2011 ha ritenuto che la ripartizione dei seggi debba avvenire valorizzando la c.d. “rappresentanza territoriale”, e quindi minimizzando i fenomeni di “slittamento”37.Secondo tale pronuncia, a seguito delle modifiche all’art. 2 della l. 18/1979 apportate dalla l. 61/1984, si sarebbe determinata l’abrogazione tacita dell’art. 21.1, n. 3, della l. 18/1979 e quindi troverebbero applicazione le parallele disposizioni contenute nella legge elettorale della Camera, in forza del rinvio ad essa operato dall’art. 51 della l. 18/197938.Tale assunto appare quantomai opinabile, nella misura in cui l’art. 2 in questione si limita a prevedere che l’assegnazione dei seggi alle circoscrizione «si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica per il numero dei membri spettante all’Italia e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti» (comma 4), usando una formulazione in tutto identica a quella dell’art. 56, comma 4, e 57, comma 4, Cost., con riferimento alle Camere. A ciò si aggiunga che i lavori preparatori della l. 61/1984, nel riferirsi alla necessità di introdurre un sistema di “restituzione” dei seggi identico a quello previsto allora per le elezioni politiche, non dimostrano affatto la volontà del legislatore di valorizzare la “rappresentanza territoriale”, visto che i sistemi elettorali nazionali allora vigenti, come si è accennato, non escludevano affatto fenomeni di “slittamento”. In questo senso, non vi era (e non vi è) alcuna incompatibilità tra l’art. 2 in questione e il già richiamato art. 21, comma 1, n. 3: quest’ultimo, prevedendo un meccanismo coerente di “riassegnazione” dei seggi alle circoscrizioni, sulla base del rapporto tra cifra elettorale circoscrizionale e quoziente elettorale di lista, non impedisce “slittamenti” che però, calcolati sul totale delle elezioni (1979-2009), sono comunque meno del 6% del totale dei seggi.A ciò si aggiunga che soprattutto nelle elezioni europee la rappresentanza

36 Considerato in diritto, n. 5.2.

37 Cons. Stato, sez. V, 13 maggio 2011, n. 2886. Sul problema dello “slittamento” dei seggi nelle

elezioni europee alla luce di tale pronuncia, cfr., in particolare, C. P INELLI, Eguaglianza del voto e ripartizione dei seggi tra circoscrizioni, in Giur. cost. 2010, 3322 ss.; G.P. FERRI, Nuovi e vecchi problemi del sistema di elezione dei parlamentari europei: l’assegnazione dei seggi attribuiti con i resti e lo «spostamento» dei seggi da una circoscrizione all’altra, ivi, 3326 ss.; M. ESPOSITO, Le circoscrizioni elettorali come elemento costitutivo della configurazione giuridica della rappresentanza politica , ivi 2011, 2576 ss.; C. FUSARO, Quando il Consiglio di Stato irride alla Corte costituzionale ovvero degli sberleffi di Palazzo Spada alla Consulta (e alla ragione), in Quad. cost. 2011, 657 ss.

38 Secondo tale disposizione, «salvo quanto disposto dalla presente legge, per l'elezione dei membri

del Parlamento europeo spettanti all'Italia, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni del testo unico delle leggi per l'elezione della Camera dei deputati, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, e successive modificazioni ».

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territoriale appare regressiva39, fondandosi su cinque “macrocircoscrizioni” che poco realizzano interessi localizzabili e meno che mai «entità omogenee».Per tutte queste ragioni, la sentenza del Consiglio di Stato appare discutibile e di fatto “creativa”40, disattendendo di fatto la sent. 271/2010 nella quale l’inammissibilità della questione di costituzionalità si era fondata sul rispetto della discrezionalità del legislatore, in presenza di più opzioni possibili per garantire la c.d. “rappresentanza territoriale”.In ogni caso, poiché la pronuncia in questione ha dispiegato effetti solo limitati al caso che l’ha originata, in vista delle elezioni europee del 2014 il Ministero dell’interno ha richiesto un parere al Consiglio di Stato, chiedendo se «a seguito di detta pronuncia giurisdizionale e al fine di prevenire ulteriore contenzioso» per l’assegnazione dei seggi si debba far riferimento alla tesi sostenuta nella pronuncia stessa, ovvero alla disciplina di cui all’art. 21.1, n. 3, nella sua attuale formulazione.Come era facile immaginare, il Consiglio di Stato non ha smentito se stesso: il parere infatti si richiama punto per punto allo stesso tessuto argomentativo della sentenza del 2011, cosicché il Ministero dell’interno ha reso noto un’assegnazione dei seggi, richiamandosi alle pronunce in questione41.

6. Anche a livello regionale il dibattito sulla garanzia di un’equa rappresentanza territoriale è di grande attualità, nonostante che nei sistemi elettorali regionali la circoscrizione coincide con la Provincia (salvo sporadiche eccezioni42); e ciò è da rimarcare nel momento in cui la soppressione delle Province da alcuni anni costituisce una proposta ormai ampiamente condivisa.Come è noto, la l. 108/1968, anche a seguito delle modifiche apportate dalla l.

39 C. FUSARO, Quando il Consiglio di Stato, cit., 658.

40 Tale tesi non è condivisa dalla Cassazione (Cass. civ., sez. un., 26 marzo 2012, n. 4769, in

www.cortedicassazione.it) la quale ha invece ritenuto che il Consiglio di Stato «si è contenuto nei limiti di un’attività esclusivamente interpretativa della disciplina dettata dalla legge n. 18 del 1979», e ciò «a prescindere […] dalla giustezza o, invece, dalla erroneità, per mera ipotesi anche macroscopica, delle premesse, del percorso logico-giuridico e dei vari passaggi argomentativi seguiti, nonché dalla decisione di merito adottata nel caso concreto dal Consiglio di Stato».

41 Cons. Stato, sez. I, 5 dicembre 2013, n. 3703, in Foro amm. CDS (II) 2013, 3550 ss.

Sull’assegnazione dei seggi alle elezioni del 2014 , oltre a M. BETZU, Mezzogiorno e seggi europei quattro anni dopo la sentenza della Corte costituzionale 271 del 2010, in www.forumcostituzionale.it (28 agosto 2014), sia consentito un rinvio al mio La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni nelle elezioni europee: ovvero quando il Consiglio di Stato “riscrive” una legge elettorale, ivi (26 giugno 2014).

42 Tra queste la legge elettorale friulana (l.stat. 17/2007) prevede circoscrizioni corrispondenti alle

Province, fatta eccezione per quella di Tolmezzo (art. 21, comma 1) e, da ultimo, la legge elettorale calabrese che, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 della l.r. 8/2014 che prevede l’accorpamento in un’unica circoscrizione delle Province di Catanzaro, Crotone e Vibo Valentia.

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43/1995, prevedeva un meccanismo di ripartizione dei seggi in una prima fase a livello di circoscrizioni provinciali e in un seconda fase a livello regionale per l’assegnazione dei seggi residui (a ciò si aggiungeva la complessa disciplina del premio di maggioranza). Il fenomeno dello “slittamento” dei seggi era presupposto dall’art. 15, comma 11, della l. 108/1968 laddove, con una formula testualmente identica a quella contenuta nella legge elettorale per la Camera (art. 83, commi 5 ss., d.P.R. 361/1957) prevedeva che l’Ufficio centrale regionale attribuisse i seggi non già assegnati nelle Province dividendo la somma dei voti residuati di ogni gruppo di liste per il quoziente elettorale regionale (ottenuto dividendo la somma di tutti i voti residuati per il numero dei seggi ancora da assegnare)43. Dopo l’assegnazione dei seggi a ciascun gruppo di liste i seggi erano attribuiti alle rispettive liste nelle singole circoscrizioni “seguendo la graduatoria decrescente dei voti residuati espressi in percentuale del relativo quoziente circoscrizionale”.È da segnalare che la formula di ripartizione dei seggi nelle circoscrizioni, effettuata con il metodo “Hagenbach-Bischoff” (ovvero dividendo il totale dei voti validi espressi nella circoscrizione per il numero di seggi ad essa assegnati aumentato di una unità) rispondeva anche (ma non solo) allo scopo di favorire l’assegnazione dei seggi in prima battuta nelle circoscrizioni, diminuendo il numero di quelli destinati ad essere distribuiti a livello regionale e quindi riducendo, ma solo in parte, l’impatto dei fenomeni di “slittamento”44.Infatti, la dottrina politologica ha messo in evidenza che nelle tornate 1995-2005 la media dei seggi “slittati” è circa il 7% del totale dei seggi assegnati con metodo proporzionale, con alcune Province che sono risultate sistematicamente premiate (tra queste, Venezia, Bologna, Bari) ed altre altrettanto sistematicamente penalizzate (Massa Carrara, Terni, Rieti, Pescara) fino al punto, in alcuni casi, da non eleggere nessun consigliere45. È però da segnalare che la giurisprudenza amministrativa ha escluso la sussistenza di dubbi di legittimità costituzionale delle disposizioni della l. 108/1968 sopra richiamate, e con argomenti che si richiamano da vicino a quelli fatti propri dalla sentenza in commento, avendo richiamato espressamente il principio secondo cui i consiglieri regionali rappresentano l’intera Regione, senza vincolo di mandato (art. 1, l. 108/1968; art. 4, lett. c, l. 165/2004)46.In forza dell’art. 5 della l. cost. 1/1999 il sistema elettorale di cui alle ll. 108/1968

43 In caso di ulteriori seggi non assegnati, procedendo ad attribuirli ai gruppi con i maggiori resti o, a

parità di resti, ai gruppi con un maggior numero di voti residuati, ovvero, infine, mediante sorteggio.

44 Sul punto, in particolare, N. D’AMELIO, La ripartizione dei seggi tra partiti e territorio nelle

elezioni regionali, in Consiglio regionale del Piemonte, Governi locali e regionali in Europa fra sistemi elettorali e scelte di voto, Torino 2010, 306; cfr., altresì, Cons. Stato, sez. V, 18 gennaio 2006, n. 124, in Foro amm. CDS 2006, 162 ss.

45 A. CHIARAMONTE, Il rendimento, cit.; N. D’AMELIO, La ripartizione dei seggi, cit.

46

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e 43/1995 trova integrale applicazione in quattro Regioni47, anche se il meccanismo di restituzione dei seggi da esse previsto è stato confermato dalla legge elettorale calabrese48, da quella pugliese (l.r. 2/2005)49, da quella veneta (art. 22, comma 6, l.r. 5/2012) e, da ultimo, da quella emiliana (art. 13, comma 1, lett. c, l.r. 2014), nonché, per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale, dalla legge friulana (art. 29, l.stat. 17/2007). Viceversa, alcune delle leggi elettorali regionali, adottate ai sensi dell’art. 122, comma 1, Cost., hanno adottato correttivi più o meno efficaci per garantire un’equilibrata rappresentanza dei territori e, in alcuni casi, per impedire o limitare i fenomeni di “slittamento” dei seggi.Una soluzione decisamente “minimale” è quella fatta propria dalla legge regionale del Lazio (l.r. 2/2005), il cui art. 3, comma 3, prevede che nel listino regionale, a pena di inammissibilità, debbano essere presenti almeno un candidato residente in ciascuna Provincia della Regione (ed almeno un candidato per uno dei due generi)50.Più significativa è la legge elettorale toscana la quale prevede, per temperare gli effetti più negativi dello “slittamento” dei seggi, che ad ogni Provincia spetti almeno un seggio (art. 22, l.r. 25/2004), assegnato alla lista che ha ottenuto più voti in essa. Tale seggio è sottratto alla stessa lista in un’altra Provincia, sulla base della graduatoria dei resti del quoziente di gruppo (viene quindi sottratto l’ultimo dei seggi spettanti; tale scelta è ripresa dall’art. 18 della l.stat.reg.

Cons. Stato, sez. V, 15 febbraio 2002, n. 915, in www.giustizia-amministrativa.it., nella quale si legge, tra l’altro: «Il principio di rappresentatività, come è noto, esprime un concetto che è proprio all’opposto di quello patrocinato dall’appellante. Nella specie, tale principio, per il quale il consigliere regionale rappresenta l’intera regione e non la sola provincia di provenienza è addirittura sancito positivamente nell’art. 1, comma quinto, della legge n. 108 del 1968 (“I consiglieri regionali rappresentano l’intera regione senza vincolo di mandato”)».

47 Si tratta del Piemonte, della Liguria, del Molise e della Basilicata.

48 Il comma 2-quater prevede poi che per la circoscrizione di Catanzaro (denominata “circoscrizione

centro”, risultante dall’accorpamento con le Province di Crotone e di Vibo Valentia) le liste debbano essere composte, a pena di inammissibilità, in modo che vi sia almeno un candidato residente per ciascuna delle Province corrispondenti.

49 Anche nella recente proposta di revisione della legge elettorale pugliese che prevede

un’assegnazione di 23 seggi nelle circoscrizioni provinciali e 27, in tutto o in parte, a titolo di premio di maggioranza è previsto che la prima quota di seggi sia assegnata con lo stesso metodo già delineato dalla l. 108/1968. Anche i seggi attribuiti a titolo di premio di maggioranza sono poi “riassegnati” alle circoscrizioni con le stesse modalità (art. 8, p.d.l. n. 346/A).

50 . Si tratta di una previsione deludente, perché affida solo al listino finalità che più propriamente

dovrebbero essere perseguite a livello di candidature e di elezioni nelle circoscrizioni provinciali. A ciò si aggiunga che il dimezzamento del listino (possibile perché la legge laziale recepisce su questo punto le ll. 108/1968 e 43/1995) potrebbe vanificare di fatto l’intento del legislatore: C. FUSARO, M. RUBECHI, Le nuove leggi elettorali e i nuovi Statuti, in Ist. fed. 2005, 1017-1018.

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Sardegna 1/2013). Più discutibile la recente proposta di modifica di tale legge (p.d.l. n. 348/A) la quale prevede il mantenimento delle circoscrizioni provinciali, salvo lo “spacchettamento” di quella di Firenze in quattro “sub-circoscrizioni” (art. 7). Tale locuzione si impone in quanto la proposta in questione prevede che i seggi siano assegnati a livello centrale e quindi “restituiti” alle circoscrizioni provinciali, ivi compresa quella fiorentina considerata in prima battuta come unitaria; una volta determinati i seggi spettanti alla circoscrizione fiorentina, essi sono poi ulteriormente “ribaltati” nelle “sub-circoscrizioni” (art. 22). Come è facile immaginare, si tratta di un meccanismo affatto neutrale: poiché il meccanismo di traslazione dei seggi dal livello regionale a quello circoscrizionale non è tale da impedire fenomeni di “slittamento” che, anche data la maggiore dimensione della circoscrizione di Firenze, finiscono per favorire quest’ultima, l’assegnazione dei seggi in prima battuta alle Province e quindi alle sub-circoscrizioni fiorentine massimizza le potenzialità del capoluogo regionale che in tal modo probabilmente si gioverà di un numero di seggi nella prassi superiore a quello spettante in base alla popolazione.Una soluzione particolarmente incisiva è fatta propria dalla legge elettorale delle Marche, sostanzialmente trasposta dalle più recenti leggi della Campania (art. 6, commi 6 ss., l.r. 4/2009), della Lombardia (art. 1, commi 31 ss., l.r. 17/2012) e dell’Abruzzo (art. 17, commi 6 ss., l.r. 9/2013)51.La l. r. Marche 27/2004 prevede che i seggi siano assegnati prima a livello regionale e quindi nelle singole Province con un meccanismo tale da impedire in radice matematicamente fenomeni di “slittamento” dei seggi52.Si tratta di un meccanismo complesso, tecnicamente assai ingegnoso e tale da ridimensionare in parte il problema della “quadratura del circolo” cui si è alluso nel n. 3, ma che presenta quantomeno un triplice ordine di inconvenienti: in primo luogo, la garanzia dell’integrità della rappresentanza provinciale, unita, come nel caso della legge marchigiana (e delle altre leggi che si sono ad essa ispirate), al mantenimento del voto di preferenza, rischia di esaltare aspetti anche deteriori del localismo della rappresentanza; in secondo luogo, come si è accennato, tale meccanismo non impedisce fenomeni di alterazione della corrispondenza tra andamento del voto e assegnazione dei seggi nelle diverse Province (evenienza questa che può verificarsi più frequentemente in caso di circoscrizioni fortemente eterogenee per dimensione e per andamento del

51 A queste si aggiunge la recente proposta di legge elettorale ligure (p.d.l. n. 363).

52 Sul quale, in particolare, A. FLORIDIA, Le nuove leggi elettorali regionali: molte occasioni

mancate, alcune novità positive, in questa Rivista 2005, 859.

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voto)53, oltre a premiare in termini di seggi liste che in altre circoscrizioni avevano avuto un risultato comparativamente migliore54.Una tecnica ancora più radicale di valorizzazione della rappresentanza territoriale è data dalla legge elettorale siciliana il quale prevede che 80 seggi su 90 complessivi dell’Assemblea regionale siano attribuiti con un sistema proporzionale tra liste concorrenti a livello provinciale, mentre 10 seggi sono attribuiti a livello regionale, a titolo di premio di maggioranza (art. 1-bis, l.r. 29/1951, inserito dall’art. 2 della l.r. 7/2005)55. Similmente, la legge umbra (l.r. 2/2010) prevede che i 4/5 dei seggi del Consiglio siano attribuiti direttamente nelle due circoscrizioni di Perugia e Terni56.Questa modalità di distribuzione dei seggi appare però impattare decisamente sul funzionamento complessivo del sistema elettorale, dando luogo ad una sorta di soglia di sbarramento implicita che in alcuni casi è decisamente alta (o più alta di quella espressamente fatta propria dalla legge elettorale): così, ad esempio, nel caso della prima applicazione della legge umbra nelle elezioni del 2010 la soglia di sbarramento nella circoscrizione di Perugia è risultata superiore al 4% (nella coalizione di centro-sinistra la formazione più piccola che ha conseguito un seggio è stata quella di “socialisti-riformisti” con il 4,45%, nella coalizione di centro-destra la “Lega nord” con il 4,65%); nella circoscrizione di Terni addirittura quasi del 9% (la lista più piccola che abbia ottenuto seggi è stata il Prc con l’8,95%). In entrambi i casi, tali soglie di accesso appaiono più alte rispetto a quelle previste dalla l. 43/1995 che la l.reg. Umbria formalmente mantiene.Infine, del tutto peculiare e di difficile interpretazione è la soluzione fatta propria dall’art. 2 della l.r. Basilicata 19/2010, secondo il quale «ai fini del riparto dei seggi afferenti alla quota proporzionale relativa alle liste provinciali di cui alla Legge n. 108/68, art. 15, comma 3, i seggi assegnabili per la quota proporzionale rimangono pari a 16 per la circoscrizione di Potenza e 8 per la circoscrizione di Matera»57, anche se tale disposizione appare ormai superata alla luce della

53 Così, nelle elezioni regionali lombarde del 2013, nella circoscrizione di Milano la coalizione di

centro-sinistra ha conseguito il 44,2% e 7 seggi, quella di centro-destra il 36,4% e 14 seggi. Viceversa, tali scostamenti non si sono verificati nelle elezioni del 2010 nelle Marche, probabilmente per la sostanziale omogeneità in termini di popolazione delle circoscrizioni provinciali di quella Regione.

54 Per tutti, N. D’AMELIO, La ripartizione dei seggi, cit., 309.

55 Da ultimo, la recente l. cost. 2/2013, nella prospettiva di riduzione a 70 dei deputati regionali ha

provveduto, nelle more della revisione della l.r. 29/1951, a modificare le aliquote dei seggi spettanti alle circoscrizioni provinciali: 62 seggi alle circoscrizioni provinciali; 7 nel listino regionale; 42 quale soglia di governabilità.

56 Sulla legge umbra, cfr., in particolare, J. ROSI, La legittimità del riparto dei resti su base

provinciale nei sistemi elettorali regionali, in www.federalismi.it, 3 novembre 2010.

57

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riduzione del numero dei consiglieri regionali operata dal d.-l. 138/2011 che ha trovato applicazione, anche in assenza dell’approvazione del nuovo Statuto regionale, nelle elezioni del 2013, in forza di quanto previsto dall’art. 2, comma 3, del d.-l. 174/2012 (convertito, con modificazioni, dalla l. 213/2012).In prospettiva, il problema della rappresentanza dei territori è destinato a risentire in modo determinante della riduzione del numero dei consiglieri, imposta dall’art. 14 del d.-l. 138/2011 (convertito, con modificazioni, dalla l. 148/2011) che nelle Regioni meno popolose potrebbe indurre un processo di modifica delle leggi elettorali vigenti nella direzione di un sistema elettorale fondato su un collegio unico regionale quale unica arena di assegnazione dei seggi. (peraltro, già de iure condito, la riduzione del numero dei consiglieri ha ridotto drasticamente i seggi di non poche circoscrizioni provinciali, come evidenziato dalle elezioni regionali del 201358).

* Università di Firenze

Sulla quale sia consentito un rinvio al mio Ancora una sentenza della Corte costituzionale su una legge elettorale regionale intervenuta prima dello Statuto: la Corte “interpreta” i propri precedenti o li rettifica?, in Giur. cost. 2011, soprattutto 643 ss.

58 Così, nel Lazio alle circoscrizioni di Viterbo e Rieti sono stati attribuiti rispettivamente 2 e 1

seggio (la Provincia di Rieti non ha poi eletto alcun consigliere); in Lombardia alla circoscrizione di Lodi è stato attribuito 1 seggio, a quella di Lodi 2 seggi, a quelle di Cremona, Lecco e Mantova sono stati attribuiti 3 seggi. Tra l’altro, nelle circoscrizioni cui è assegnato un unico consigliere, appare ormai un assurdo la previsione del voto di preferenza.

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La Corte costituzionale torna a pronunciarsi sui costi della politica regionale, ma stavolta neppure la specialità vale a salvare le Regioni

dai “tagli” (a proposito della sentenza n. 23/2014)

di Giuseppe Mobilio

(in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2014)

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte costituzionale torna nuovamente a

giudicare sulla legislazione statale che impone tagli ai “costi” della politica regionale. La pronuncia merita di essere segnalata perché ha ad oggetto misure che, oltre a colpire indirettamente la spesa regionale, incidono pervasivamente sulla fisionomia degli organi politici e degli assetti amministrativi delle Regioni. La posizione assunta dalla Corte appare fortemente indicativa della direzione verso cui si sta muovendo il nostro regionalismo nel più recente periodo.

Il giudizio verte su alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna avverso l’art. 2, commi da 1 a 5, del d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213. Più nello specifico, il comma 1 del citato art. 2, nel testo risultante dalla conversione, dispone che «ai fini del coordinamento della finanza pubblica e per il contenimento della spesa pubblica», a decorrere dal 2013 una quota pari all'80 per cento dei trasferimenti erariali a favore delle Regioni, diversi da quelli destinati al finanziamento del Servizio sanitario nazionale e al trasporto pubblico locale, è erogata a condizione che le Regioni si adeguino ad una serie di prescrizioni, «con le modalità previste dal proprio ordinamento». Tra le misure più significative si ritrovano quelle disposte dall’art. 14 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, concernenti, fra l’altro, la riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori regionali entro il limite massimo stabilito dallo Stato, la riduzione del trattamento economico dei consiglieri e la correlazione con la partecipazione ai lavori del Consiglio, l’istituzione del collegio dei revisori dei conti. L’impugnato art. 2, c. 1, aggiunge numerose altre previsioni, riguardanti, nel complesso, il contenimento e la trasparenza delle spese dei gruppi consiliari, di indennità, emolumenti e assegni di fine mandato dei rappresentanti regionali, nonché la riduzione dei costi del personale e degli apparati amministrativi1. Il comma 2 dello stesso art. 2

1 Dettagliatamente, le prescrizioni rivolte alle Regioni riguardano la riduzione del numero dei

consiglieri e degli assessori regionali entro il massimo stabilito dallo Stato, la riduzione del trattamento economico dei consiglieri e la correlazione con la partecipazione ai lavori del Consiglio, nonché l’istituzione del collegio dei revisori dei conti (lett. a); il contenimento delle indennità di consiglieri e assessori regionali entro «l'importo riconosciuto dalla Regione più virtuosa» individuata dalla Conferenza Stato-Regioni (lett. b); il contenimento, entro analogo importo, dell'assegno di fine mandato dei consiglieri (lett. c); il divieto di cumulo di indennità ed emolumenti derivanti dalle cariche di Presidente della Regione, di Presidente del Consiglio regionale, di assessore o di consigliere (lett. d); la gratuità della partecipazione dei consiglieri ai lavori delle commissioni permanenti e speciali (lett. e); la pubblicità e la trasparenza dello stato patrimoniale dei titolari di cariche pubbliche elettive e di governo (lett. f); l’utilizzazione dei contributi regionali ai gruppi consiliari, il cui ammontare è da contenere entro la metà dell'importo

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aggiunge che, in caso di mancato adeguamento alle richiamate disposizioni del comma l, «i trasferimenti erariali a favore della regione inadempiente sono ridotti per un importo corrispondente alla metà delle somme da essa destinate per l'esercizio 2013 al trattamento economico complessivo spettante ai membri del consiglio regionale e ai membri della giunta regionale». Il successivo comma 3 fissa gli obblighi di informazione che le Regioni devono rispettare nei confronti del Governo, nonché il regime di applicabilità delle citate prescrizioni alle Regioni nelle quali, al momento dell’entrata in vigore del d.l., il Presidente ha presentato le dimissioni ovvero si debbano svolgere le consultazioni elettorali. Aggravando ulteriormente il regime sanzionatorio, il comma 6 qualifica l’inadempimento regionale quale «grave violazione di legge» ex art. 126, c. 1, Cost., ai fini dello scioglimento del Consiglio e la rimozione del Presidente della Regione.

In ragione della natura delle ricorrenti, particolare attenzione va prestata al comma 4, con cui si dispone che le Regioni a Statuto speciale e le Province autonome «provvedono ad adeguare i propri ordinamenti a quanto previsto dal comma 1 compatibilmente con i propri statuti di autonomia e con le relative norme di attuazione».

La sentenza in commento “chiude il cerchio” di una complessa vicenda normativa e giurisprudenziale. Per comprendere appieno la portata di questa pronuncia è necessario richiamare brevemente i passaggi principali di tale vicenda, nella quale Regioni di diritto comune e Regioni ad autonomia differenziata si sono rese protagoniste seguendo differenti percorsi. Basti qui anticipare che, se inizialmente tali percorsi si sono sviluppati seguendo due binari paralleli, con la sentenza n. 23/2014 le loro sorti hanno finito sostanzialmente per ricongiungersi.

2.La vicenda cui ci si riferisce è connotata da un intreccio di richiami e

contrattazioni che coinvolgono, in varia misura, Governo, Regioni, Corte costituzionale e Parlamento, secondo una logica che, per le autonomie regionali, si potrebbe definire “al ribasso”.

riconosciuto sempre dalla "Regione più virtuosa" (lett. g); le spese per il personale dei gruppi (lett. h); una serie di prescrizioni contenute in molteplici atti legislativi, quali la "riduzione dei costi degli apparati amministrativi" (art. 6, d.l. n. 78/2010), limitazioni alle assunzioni di personale pubblico in generale (art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010), la riduzione degli organi collegiali degli enti e organismi strumentali (art. 22, cc. 2-4, d.l. n. 201/2011), limitazioni ai compensi di amministratori e dipendenti di società pubbliche (23-bis, cc. 5-bis e 5-ter, d.l. n. 201/2011), «il trattamento economico annuo onnicomprensivo nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali» (art. 23-ter, d.l. n. 201/2012); la rinegoziazione dei contratti di locazione passiva (art. 3, cc. 4, 5, 6, d.l. n. 95/2012), il rapporto tra numero di dipendenti pubblici e superficie dei locali utilizzati (art. 3, comma 9, d.l. n. 95/2012), lo scioglimento delle società strumentali (art. 4, d.l. n. 95/2012), altre riduzioni delle spese delle pubbliche amministrazioni (art. 5, d.l. n. 95/2012), la riduzione degli oneri finanziari in misura non inferiore al 20 per cento relativi a enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica che esercitano, anche in via strumentale, funzioni fondamentali ex art. 117, c. 2, lett. p), Cost. o funzioni amministrative spettanti ad enti locali ex art. 118 Cost. (art. 9, c. l, d.l. n. 95/2012); un sistema informativo con dati relativi al finanziamento dei gruppi politici (lett. l); il passaggio al sistema previdenziale contributivo per i consiglieri regionali (lett. m); l’esclusione dai vitalizi di chi è stato condannato in via definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione (lett. n).

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Il punto di avvio è costituito proprio dall’adozione del già richiamato art. 14 del d.l. n. 138/2011. Per quanto riguarda le Regioni ordinarie, la versione originaria del decreto-legge delineava un meccanismo premiale che comportava, al raggiungimento di determinati standard, la possibilità di essere definiti “virtuosi” ed ottenere alcuni “sconti” ai fini del concorso agli obiettivi finanziari del patto di stabilità interno ex articolo 20, del d.l. n. 98/20112. Nella sostanza, si riconosceva alle autonomie regionali un margine di scelta che, sebbene nella logica di un “ricatto finanziario”3, profilava conseguenze solamente in ordine agli obiettivi ed ai saldi del patto di stabilità interno. Le modifiche apportate dalla successiva legge n. 183/2011, tuttavia, hanno trasformato tali oneri in un vero e proprio obbligo tout court a carico delle Regioni, slegando il taglio di consiglieri, assessori e relativi trattamenti economici da qualsiasi forma di premialità.

Quanto a Regioni speciali e Province autonome, l’art. 14, c. 2, del d.l. n. 138/2011, stabiliva che il rispetto delle citate condizioni avrebbe genericamente costituito «elemento di riferimento per l'applicazione di misure premiali o sanzionatorie previste dalla normativa vigente», oltre che «condizione» per l'applicazione dell'art. 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42, (sul c.d. federalismo fiscale), ai sensi del quale, fra l’altro, Regioni a Statuto speciale e Province autonome concorrono al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà, all'esercizio dei diritti e doveri da essi derivanti, al patto di stabilità interno, all'assolvimento degli obblighi posti dall'ordinamento eurounitario, solamente «nel rispetto degli statuti speciali» e «secondo criteri e modalità stabiliti da norme di attuazione dei rispettivi statuti, da definire, con le procedure previste dagli statuti medesimi» (comma 1).

Con la nota sentenza n. 198/2012, la Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi sulle citate disposizioni dell’art. 14 del d.l. n. 138/2011 e - per quanto qui di più prossimo interesse - ha operato alcuni importanti distinguo.

Per quanto riguarda le Regioni ad autonomia differenziata, la Corte ha dichiarato incostituzionali le previsioni di cui all’art. 14, c. 2, e, con una motivazione tranchant, ha sottratto quest’ultime ai tagli statali. La Corte è partita dal presupposto che «la disciplina relativa agli organi delle Regioni a statuto speciale e ai loro componenti è contenuta nei rispettivi statuti»; dal momento che tali fonti sono adottate con legge costituzionale, l’adeguamento da parte delle rispettive Regioni ai parametri di cui all’art. 14, c. 1, richiede «la modifica di fonti di rango costituzionale», rispetto alle quali «una legge ordinaria non può imporre limiti e condizioni»4. Tanto basta per dichiarare l’illegittimità del citato c. 2, senza

2 Cfr. G. D’AURIA, La «manovra di agosto». Organizzazione amministrativa e costi della politica ,

in Giorn. dir. amm. 2011, 15.

3 Così A. STERPA, Il decreto-legge n. 138 del 2011: riuscirà la Costituzione a garantire l’autonomia

di Regioni e Comuni?, in federalismi.it, 16/2011, 4.

4 Punto 5 cons. dir., enfasi aggiunta.

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neppure scendere nel dettaglio delle singole misure imposte dal Governo al c. 1, ma utilizzando un tenore argomentativo fondato esclusivamente sul rapporto tra fonti del diritto5. Le Regioni speciali, dunque, dovrebbero essere poste in salvo da qualsiasi forma di «limiti e condizioni» che il Governo, per questa via, voglia imporre loro, oppure voglia semplicemente porre quale «condizione per l'applicazione» dell'art. 27 della legge n. 42/2009 o «riferimento per l'applicazione di misure premiali o sanzionatorie».

Diversa sorte hanno subito le Regioni ordinarie. La Corte, infatti, ha fornito una discutibile qualificazione delle norme impugnate che ne ha confermato la permanenza in vigore a loro carico6. Come è stato criticamente osservato, la Corte giunge a tali risultati senza specifiche argomentazioni circa la riconducibilità della disciplina alla potestà statutaria, senza fare menzione del fatto che il legislatore avesse di mira l’obiettivo di garantire la riduzione della spesa degli apparati pubblici, senza farsi carico espressamente del riferimento alla competenza in materia di coordinamento della finanza pubblica7. All’opposto - secondo quanto qui occorre ricordare - la Corte ha rilevato come lo Stato si sia limitato a fissare una serie di limiti massimi entro cui le Regioni conservano un margine di scelta e facendo salvo l’obbligo di ridurre consiglieri ed assessori regionali nella logica della rappresentanza politica e del principio d’eguaglianza8.

La vicenda era destinata a vivere ulteriori sviluppi, assumendo tratti per certi versi “schizofrenici”9. Di fronte a una serie di scandali che hanno coinvolto

5 Come osserva anche A. DANESI, Una fonte statale può determinare il numero dei consiglieri

regionali? Note a margine di una criticabile sentenza della Corte costituzionale (n. 198/2012), cit., 1023.

6 Punto 6.1 cons. dir.

7 Cfr. G. TARLI BARBIERI, La potestà legislativa regionale in materia elettorale alla luce delle più

recenti novità legislative e giurisprudenziali, cit., 109 ss.; A. DANESI, Una fonte statale può determinare il numero dei consiglieri regionali? Note a margine di una criticabile sentenza della Corte costituzionale (n. 198/2012), cit., 1024.

8 Per una critica a questo specifico passaggio della sentenza cfr., su tutti, G. TARLI BARBIERI, La

potestà legislativa regionale in materia elettorale alla luce delle più recenti novità legislative e giurisprudenziali, cit., 109 ss.; S. MANGIAMELI, La composizione dei Consigli regionali nelle mani del Governo, in Giur. cost., 2012, 2869 ss.; M. OLIVETTI, Il colpo di grazia. L’autonomia statutaria delle Regioni ordinarie dopo la sentenza n. 198/2012, in Giur. it., 2013, 1015 ss.; L. TRUCCO, Materia elettorale e forma di governo regionale tra principi costituzionali e politiche di contenimento della spesa nelle decisioni n. 151 e n. 198 del 212 della Corte costituzionale, cit., 1279 ss.; G. FERRAIUOLO, Il numero dei consiglieri regionali tra statuto, legge regionale e decreto legge. Spunti per qualche riflessione sulle sorti del regionalismo italiano, cit., 5 ss.; A. DANESI, Una fonte statale può determinare il numero dei consiglieri regionali? Note a margine di una criticabile sentenza della Corte costituzionale (n. 198/2012) , in Giur. it., 2013, 1021 ss.;

9 Come riportato in G. FERRAIUOLO, Il numero dei consiglieri regionali tra statuto, legge regionale

e decreto legge. Spunti per qualche riflessione sulle sorti del regionalismo italiano, cit., 15 ss.

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esponenti politici di diverse Regioni10, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha adottato all’unanimità, in data 27 settembre 2012, un comunicato con il quale chiedeva al Governo di intervenire a stabilire «nuovi parametri per Regione relativi a tutti i costi della politica»11. Le richieste assumevano carattere specifico e puntuale, in ordine sia allo strumento normativo da utilizzare - il decreto-legge, per assicurare «un percorso veloce e uniforme» - sia ai contenuti, che variavano dalla «piena attuazione» dell’art. 14 del d.l. n. 138/2011, alla riduzione di emolumenti e spese, alla disciplina dei gruppi e delle commissioni consiliari, sino alla richiesta di fissare «sanzioni per i non adempienti». È paradossale che le stesse Regioni che avevano impugnato l’art. 14 del d.l. n. 138/2011 abbiano di lì a poco invocato l’intervento «tutorio» del Governo12.

A stretto giro, senza farsi troppo attendere, il Governo ha dunque adottato il d.l. n. 174/2012, recante “Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012”, introducendo un complesso di misure votate, fra l’altro, a fronteggiare la crisi finanziaria degli enti locali e ad intervenire sul sistema dei controlli13. Il Governo, forte dell’appoggio espresso dalle Regioni e - a suo dire - con il conforto, sul piano della legittimità, dei principi enunciati nella citata sentenza n. 198/2012, ha introdotto le disposizioni impugnate con la pronuncia in commento e, tramite l’art. 2, rubricato “Riduzione dei costi della politica nelle Regioni”, è intervenuto per fronteggiare «le dimensioni e la vastità dei fenomeni di malcostume riscontrati tra i rappresentanti eletti nei consigli regionali», che, non avendo «carattere episodico o circoscritto ad un'area del Paese [...] sono in grado di minare gli stessi princìpi costituzionali posti alla base dell'istituto democratico della rappresentanza politica regionale»14.

Di rimando, le Regioni reagivano alle ultime novità legislative, assumendo una posizione nuovamente antitetica rispetto a quanto precedentemente espresso. In occasione del rilascio del parere al d.d.l. di conversione, gli stessi provvedimenti invocati venivano nuovamente contestati, tramite diversi rilievi sollevati

10 Cfr. le ricostruzioni di M. CERRUTO, La delegittimazione della classe politica regionale, in Ist.

fed., 2, 2013, 47 ss.

11 Atto 12/133/CR1/C1-C2, consultabile in www.regioni.it.

12 Così R. BIN, Ricchi solo di idee sbagliate: i costi dell'antipolitica, in Le Regioni, 2012, 452.

13 Cfr., più ampiamente, A. BRANCASI, La fine della legislatura nel segno delle nuove regole e

controlli per le autonomie, in Giorn. dir. amm., 2013, 385 ss.

14 Secondo quanto si legge nella relazione illustrativa al d.d.l. di conversione.

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nell’ambito della Conferenza unificata e della Commissione bicamerale per le questioni regionali15. Alle ultime reazioni, tuttavia, facevano seguito anche le necessarie modifiche alla disciplina legislativa regionale e statutaria per adeguarsi ai canoni imposti dal Governo centrale16.

Il susseguirsi di questi accadimenti fa emergere con tutta forza la debolezza dell’attuale sistema politico regionale, il quale, incapace di avviare autonomamente un processo interno di rinnovamento, non ha fatto di meglio che richiedere al Governo l’«eutanasia» della propria autonomia17. Questa situazione di fatto - come si vedrà - non poteva che condizionare il giudizio stesso della Corte costituzionale, tornata a pronunciarsi sul punto.

3. Non stupisce, quindi, che al sostanziale ripristino delle misure e dei “tagli” di

cui al d.l. n. 138/2011, perlopiù aggravati da nuove e pesanti condizioni - come sanzioni capaci di minacciare seriamente un sistema finanziario regionale tuttora ancorato ad una gestione centralistica delle risorse18 -, le Regioni speciali abbiano scelto la via del contenzioso costituzionale. È pur vero che negli ultimi anni il legislatore statale ha tentato di rendere partecipi anche quest’ultime Regioni, al pari di quelle ordinarie, del complesso processo di risanamento economico. Con la sentenza n. 198/2012, tuttavia, la Corte sembrerebbe schierarsi contro questa tendenza del Governo, marcando una distinzione in ragione del differente grado di autonomia costituzionalmente riconosciuta19. La

15 Cfr. il parere contrario della Commissione bicamerale per le questioni regionali, reso in data 24

ottobre 2012, ed ai rilievi contenuti nel parere della Conferenza Unificata del 25 ottobre 2012.

16 L’elenco della normativa regionale adottata è rinvenibile in

www.parlamentiregionali.it/consiglieri_regionali/num_cons.php. Sul finire della XVI legislatura, il Parlamento ha provveduto ad approvare le modifiche statutarie per ridurre il numero dei consiglieri regionali di Friuli-Venezia Giulia (l. cost. 1/2013), Sicilia (l. cost. 2/2013), Sardegna (l. cost. 3/2013).

17 Così G. TARLI BARBIERI, Quali Regioni per quale regionalismo (a proposito di M. Cammelli,

Regioni e regionalismo: la doppia impasse), in Le Regioni, 4, 2012, 819.

18 Cfr. il quadro delineato da B. BALDI, Regioni a statuto speciale e federalismo fiscale: un’analisi

comparata, in Ist. fed., 2013, 252 ss., anche con i dovuti distinguo tra Regioni e Province autonome. Osserva D. CODUTI, Mancata riduzione del numero dei consiglieri regionali e scioglimento sanzionatorio. Un caso di erosione dell’autonomia delle Regioni, in federalismi.it, 14/2013, 10, che «la coerenza di tale meccanismo di riduzione dei trasferimenti erariali sarebbe più sostenibile in un sistema di autonomia finanziaria ex art. 119 Cost. attuato e portato a regime, così che le Regioni fossero in grado di prevedere su quali risorse contare, potendo di conseguenza assumere autonomamente le pertinenti decisioni anche in relazione alla propria organizzazione».

19 Cfr. L. MACCARRONE, Sui costi della politica la Corte costituzionale marca la distinzione tra

regioni ordinarie e regioni speciali. Riflessioni a margine di Corte cost. 20 luglio 2012, n. 198, in

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successiva sentenza n. 23/2014, viceversa, rappresenta un sostanziale revirement in forza del quale anche le Regioni speciali, seppure in via indiretta, vengono sottoposte alle misure statali precedentemente impugnate.

In questa sede non si vuole certo discutere sul merito delle scelte legislative, ovvero sull’opportunità di coinvolgere tutte le Regioni nell’obiettivo del contenimento dei costi della politica20. Ciò su cui si vuol rimarcare l’attenzione sono le “strategie ricattatorie” che gli organi politici statali stanno perseguendo, facendo progressivamente ricorso a strumenti che, dietro una presunta logica di contenimento della spesa, producono conseguenze fortemente svalutative in ordine al regionalismo ed al valore di autonomia incarnato nella Costituzione21. La decisione della Corte in commento contribuisce a rendere ancora più preoccupante questo fenomeno, non fosse altro perché sembrerebbe offrirvi una sponda in termini di copertura costituzionale.

4. Venendo al merito della decisione, si potrebbe sostenere come le ragioni della

specialità valgano a limitare la portata di alcune delle norme impugnate, escludendone l’applicabilità nei confronti delle Regioni ad autonomia differenziata.

Così avviene per quanto riguarda l’eventualità che nei «trasferimenti erariali» che subirebbero una decurtazione, qualora le Regioni non si adeguino ai tagli, siano ricomprese anche le compartecipazioni ai tributi erariali garantite a Friuli-Venezia Giulia e Sardegna dagli artt. 49 e 8 dei rispettivi Statuti. La Corte, sotto questo profilo, ravvisa un’incompatibilità tra gli Statuti speciali e le previsioni impugnate, piegando quest’ultime ad un’interpretazione costituzionalmente conforme tale da escludere che i trasferimenti possano coincidere con dette compartecipazioni, giudicando così infondate le censure22. Ancora, la Corte ribadisce come l’art. 126 Cost. sia applicabile solamente alle Regioni ordinarie,

federalismi.it, 19, 2012, 2.

20 Per una ricostruzione della disciplina, cfr. già A. BRANCASI, La riduzione del costo degli apparati

politici ed amministrativi, in Giorn. dir. amm., 2010, 1188 ss. A livello giornalistico, si segnala l’indagine critica di P. DE ROBERTIS, La casta a statuto speciale. Conti, privilegi e sprechi delle regioni autonome , Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013.

21 A proposito della legislazione in parola, di «forte “compressione” del circuito della rappresentanza

politica regionale, con uno sconvolgimento dell’assetto istituzionale delineato dalla Costituzione», ragiona N. VICECONTE, Legislazione sulla crisi e Consigli regionali: riduzione dei costi della politica o della democrazia?, in Ist. fed., 1, 2013, 30. In una prospettiva più ampia, per alcuni profili delle diverse declinazioni che il valore dell’autonomia assume nell’attuale fase storica del nostro ordinamento, cfr. gli atti del recente Convegno annuale dell’Associazione “Gruppo di Pisa”, tenutosi a Bergamo il 6 e 7 giugno 2014, dedicato a “Il valore delle Autonomie: territorio, potere e democrazia”, reperibili su www.gruppodipisa.it.

22 Punto 6.1 cons. dir.

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poiché, viceversa, «la disciplina dello scioglimento dei Consigli regionali delle autonomie speciali è contenuta nei rispettivi statuti»23.

Rispetto ad altri profili, sebbene la disciplina statutaria avrebbe potuto, in astratto, mettere in salvo le due Regioni dall’applicazione della disciplina impugnata, il concreto assetto delle loro fonti regionali determina l’operatività di tali norme anche per quest’ultime. È quanto avviene per il rinvio che l’art. 2, c. 1, del d.l. n. 174/2012, opera nei confronti delle disposizioni del d.l. n. 138/2011, relativamente al taglio degli assessori regionali, alla determinazione del trattamento economico dei consiglieri e alla percezione di indennità o altri emolumenti comunque denominati (lett. a), oppure alla disciplina delle modalità di pubblicità e trasparenza dello stato patrimoniale dei titolari di cariche elettive e di governo (lett. f), oppure, ancora, alla disciplina dei rimborsi e alle spese dei gruppi politici (lettere g ed h). Per ciascuno di questi ambiti, gli Statuti fanno esplicitamente rinvio per la relativa disciplina o alla legge regionale o a leggi statutarie che, a loro volta, demandano la disciplina a leggi regionali. In ogni caso, la normativa che assume rilievo è contenuta in fonti che non rientrano nell’ambito salvaguardato dalla clausola al comma 4, e dunque la Corte dichiara infondate le relative censure24.

5. Al di là dei profili esaminati, i passaggi della pronuncia che destano maggiore

interesse sono forse quelli in cui la specialità regionale non vale a garantire una soluzione satisfattiva per le ricorrenti. La Corte, infatti, fa salve buona parte delle disposizioni censurate utilizzando argomentazioni che si fondano principalmente su due punti, su cui occorre soffermarsi.

Sotto un primo profilo, a detta delle ricorrenti, la disciplina impugnata sarebbe lesiva dell’autonomia finanziaria di ciascuna Regione, nella specifica prospettiva della dimensione consensualistica con cui dovrebbero gestirsi i rapporti finanziari fra Stato e Regioni speciali. Simile concezione sarebbe oggi rafforzata dalle previsioni del già richiamato art. 27 della legge n. 42/2009. Le Regioni ricorrenti intravedono nei potenziali tagli ai trasferimenti una seria minaccia - seppure ancora virtuale - alle proprie entrate, al di fuori di quanto stabilito, o di quanto si potrebbe stabilire, di comune accordo.

La Corte costituzionale affronta - forse troppo sbrigativamente - questo profilo muovendosi sul piano formale delle fonti. Per respingere le censure, la Corte si limita solamente a sostenere che il citato art. 27 «ha il rango di legge ordinaria, in quanto tale derogabile da atto successivo avente la medesima forza normativa», secondo quanto avvenuto ad opera della normativa impugnata25. Così facendo,

23 Punto 12 cons. dir.

24 Punti 11.2, 11.3 e 11.4 cons. dir.

25 Punto 5.1 cons. dir.

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però, la Corte sembra incorrere in alcune forzature: non solo - come si chiarirà meglio - viene fatto un uso marcatamente “strumentale” delle argomentazioni sulle fonti, ma si finisce con lo svalutare la valenza sistemica del metodo consensuale nei rapporti con le Regioni speciali, introducendo, peraltro, alcuni elementi di contraddittorietà con la propria giurisprudenza precedente.

Per giustificare quanto affermato è necessario premettere come le previsioni di cui all’art. 27, nell’operare un mero rinvio alle fonti statutarie ed attuative, pongono consistenti limiti alla compartecipazione delle Regioni speciali al perseguimento degli obiettivi della riforma avviata con la legge n. 42/200926, tanto da poter dire che non si sia «condotto a compiuta maturazione le potenzialità offerte dal Titolo V»27. Pur nella sua genericità, tuttavia, il citato art. 27 può essere inteso come un passo verso «la rinuncia da parte dello Stato a qualsiasi intento di uniformazione tout court dei regimi speciali, e il superamento da parte degli enti ad autonomia differenziata della concezione isolazionista della specialità quale strumento di impermeabilizzazione dei propri ordinamenti rispetto alle istanze ed esigenze solidaristiche dell’ordinamento»28. L’art. 27, infatti, fissa alcuni canoni procedurali con cui giungere alla modifica degli ordinamenti finanziari delle Regioni speciali, secondo un procedimento che parte dall’intesa tra Governo e Regione, passa dal recepimento di tali accordi nella legge di stabilità, per poi completarsi con l'adozione delle norme di attuazione necessarie a rendere efficaci le rinnovate disposizioni statutarie29.

Nell’impianto così delineato, l’art. 27 non solo pone una serie di problemi nei rapporti tra fonti30, ma, in astratto, sembrerebbero lasciare intendere che le Regioni speciali concorrano al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di

26 Al punto da far ritenere che «non è possibile individuare alcuna strategia complessiva del

processo definito “federalismo fiscale” nei confronti delle autonomie speciali»; così F. PALERMO, Federalismo fiscale e Regioni a statuto speciale. Vecchi nodi vengono al pettine, in Ist. fed., 2012, 20.

27 Così G.C. DE MARTIN, G. RIVOSECCHI, Coordinamento della finanza territoriale e autonomie

speciali alla luce della legge n. 42 del 2009. Commento all’art. 27, in V. NICOTRA, F. PIZZETTI, S. SCOZZESE (a cura di), Il federalismo fiscale, Donzelli, Roma, 2009, 339 ss., anche per una più approfondita indicazione dei punti critici.

28 Cfr. D. IMMORDINO, Con una sentenza sul riparto dei tributi tra Stato e Sicilia la Corte "salva" il

federalismo fiscale, in Le Regioni, 2010, 1369.

29 Cfr., più approfonditamente, E. VIGATO, L’attuazione del federalismo fiscale nelle Regioni

speciali. Il passaggio del testimone di funzioni e responsabilità, in federalismi.it, 11/2011, 4 ss. Intese per l’adeguamento agli obiettivi fissati dal federalismo fiscale sono stati raggiunte, ad oggi, con la Regione Trentino-Alto Adige e con le Province autonome di Trento e di Bolzano (legge finanziaria 2010, n. 1919/2009), con il Friuli Venezia Giulia (legge di stabilità, n. 220/2010, art. 1, commi 149-157) e con la Valle d’Aosta (legge di stabilità, n. 220/2010, art. 1, commi 160-164, e d.lgs. 12/2011).

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solidarietà previsti dalla riforma solamente nella stretta misura degli accordi bilaterali raggiunti, o quantomeno non in contrasto con essi31.

Simile impostazione sembrerebbe confortata dalla precedente giurisprudenza costituzionale, che aveva inquadrato il più volte citato art. 27 come una vera e propria «riserva di competenza alle norme di attuazione degli statuti speciali» per la modifica della disciplina finanziaria degli enti ad autonomia differenziata32, così da configurarsi quale «autentico presidio procedurale della specialità finanziaria di tali enti»33. Conseguentemente, tutte le disposizioni attuative della legge n. 42/2009 si applicano agli enti ad autonomia differenziata «non in via diretta, ma solo se recepite tramite le speciali procedure previste per le norme di attuazione statutaria»34, e si esclude «che le previsioni finalizzate al contenimento della spesa pubblica possano essere ritenute applicabili alle Regioni a statuto speciale al di fuori delle particolari procedure previste dai rispettivi statuti»35.

La Corte, tuttavia, si era spinta oltre, chiarendo espressamente la valenza di salvaguardia della clausola all’art. 27 della legge n. 42/2009 ed imponendosi un certo onere motivazionale nel caso della sua applicazione. Nel raffrontare il regime stabilito dall’art. 27 con quello di una qualsiasi norma adottata successivamente, la Corte sarebbe comunque costretta ad adottare una pronuncia di infondatezza, sia che non vi sia alcun contrasto (e dunque la clausola non operi), sia che si verifichi un contrasto (e quindi la clausola operi escludendo l’applicazione della disciplina alle Regioni speciali)36. In ogni caso, la Corte deve assumersi l’onere di precisare le ragioni dell’infondatezza, così da non costringere i ricorrenti «a riproporre le questioni di legittimità costituzionale

30 Sui quali non si può che rinviare a F. PALERMO, Federalismo fiscale e Regioni a statuto speciale.

Vecchi nodi vengono al pettine, in Ist. fed., 2012, 21 ss.; A. STERPA, Articolo 27, in A. FERRARA, G.M. SALERNO, Il «federalismo fiscale». Commento alla legge n. 42 del 2009, Napoli, Jovene, 2010, 211 ss.

31 Come puntualmente invocato dalla difesa della Regione Friuli-Venezia Giulia (punto 2.4.1 rit.

fat.).

32 Sent. n. 71/2012, punto 2.3 cons. dir.

33 Sent. n. 241/2012, punto 4.2. cons. dir.

34 Sent. n. 178/2012, punto 6.3. cons. dir.; sent. n. 219/2013, punto 7 cons. dir.

35 Sent. n. 193/2012, punto 2.3.2. cons. dir.

36 Cfr. sent. n. 241/2012, punto 4.2. cons. dir.

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sotto forma di conflitti di attribuzione aventi ad oggetto gli atti con i quali lo Stato provvederà ad acquisire dette maggiori entrate»37.

Da parte sua, la prassi nella legislazione statale si è mossa in ben altra direzione rispetto a quanto stabilito dall’art. 27 della legge n. 42/2009. Sebbene, in un primo momento, il principio di bilateralità in parola sia stato rispettato, gli sviluppi successivi - determinati dal protrarsi della crisi economico-finanziaria e dagli scandali che hanno coinvolto i vertici politici di alcune Regioni - hanno indotto il Governo ad abbandonate tale via ed a procedere unilateralmente, come nel caso delle disposizioni impugnate, lasciando ben pochi margini alla concertazione con le Regioni speciali38.

La Corte fa salva la legittimità delle disposizioni in parola con un uso “all’occorrenza” dell’argomentazione sulle fonti, che “scompare” nel momento in cui è necessario confrontarsi in via generale con la specialità regionale - secondo quanto viceversa avvenuto nella sent. n. 198/2012 - ma “riappare” quando è necessario superare il metodo consensuale con tali Regioni39. È difficile, infatti, disconoscere che le misure imposte sostanzino quelle forme di «limiti e condizionamenti» che la Corte aveva stigmatizzato nella sua precedente pronuncia, fosse anche solo per le disposizioni del d.l. n. 138/2011 già impugnate40. Eppure la sentenza in commento abbandona il terreno “sicuro” delle fonti per quanto riguarda la garanzia degli Statuti speciali e vi fa ritorno a proposito del metodo consensuale. Così facendo, La Corte sembra pure eludere quell’onere argomentativo che essa stessa si era imposta quando ritiene necessario giudicare sulle misure statali che potrebbero risultare incompatibili con il particolare regime finanziario valevole per le Regioni speciali. Le conseguenze che ne derivano non sono circoscritte solamente alla coerenza della motivazione, ma si riverberano direttamente - ed in termini negativi - sulla valenza garantista che il grado superiore della fonte statutaria dovrebbe esercitare rispetto all’autonomia degli enti regionali.

37 Ivi, punto 4.3. cons. dir. La medesima linea argomentativa è stata seguita anche in pronunce

successive alla n. 23/2014, come, ad esempio, la sent. n. 44/2014, punto 19 cons. dir.

38 Come precisato più specificatamente da B. BALDI, Regioni a statuto speciale e federalismo

fiscale: un’analisi comparata, cit., 271.

39 Peraltro, nella sentenza n. 198/2012, le censure centrate sul mancato rispetto dell’art. 27 della

legge n. 42/2009 erano rimaste assorbite rispetto a quelle più radicali relative alla violazione dell’art. 116 Cost.

40 Rappresenta un’eccezione la disciplina del numero dei consiglieri: l’art. 2, c. 1, lett. a), nella parte

in cui richiama l’art. 14, c. 1, lett. a), del d.l. n. 138/2011, relativamente al taglio dei consiglieri regionali, crea conflitto diretto con l’art. 13 dello Statuto friulano e l’art. 16 dello Statuto sardo, i quali, rispettivamente, stabiliscono i criteri per la determinazione del numero dei consiglieri in proporzione agli abitanti regionali o ne prevedono un numero fisso. La Corte si limita a ravvisare l’operatività della clausola di salvaguardia all’art. 2, c. 4 e, pertanto, a giudicare infondate le censure (punto 11.1 cons. dir.).

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6. Altro profilo della sentenza in commento su cui è necessario appuntare

l’attenzione riguarda l’ulteriore specificazione offerta all’inquadramento dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, di cui all’art. 117, c. 3, Cost.

Senza voler ricostruire in questa sede le caratteristiche di tale figura, è sufficiente ricordare come sia possibile ravvisare, in generale, l’esistenza del “coordinamento” quando «ci si trova di fronte a una pluralità di attività e di soggetti (o di figure soggettive) di cui l’ordinamento riconosce una qualche autonoma individualità, pur disponendone la armonizzazione ed eventualmente la cospirazione a fini determinarti»41

In termini astratti, dunque, si potrebbe sostenere che gli elementi del coordinamento siano, combinatamente, l’alterità e la non disponibilità di attività e soggetti da parte del coordinatore, e la realizzazione della unità di indirizzo e della ‘cospirazione’ verso fini determinati.

In nome di tale materia lo Stato ha provveduto a disciplinare molteplici ambiti che interessano i rapporti con le autonomie territoriali, fra i quali rientrano, tra l’altro, regole fondamentali del sistema di finanza pubblica nazionale, specifici vincoli e limiti di carattere finanziario, nonché meccanismi di reazione alle disfunzioni della finanza decentrata rispetto alle regole di sistema, ai vincoli ed ai limiti posti a fini di coordinamento42, entro cui dovrebbero rientrare le disposizioni impugnate.

Nel suo cammino giurisprudenziale, la Corte ha progressivamente specificato i limiti cui gli interventi statali devono andare incontro per essere costituzionalmente legittimi43. Un dato oramai pacifico è l’affermazione secondo cui le disposizioni statali devono, in primo luogo, limitarsi a porre obiettivi di riequilibrio della spesa, nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente, ed in secondo luogo non devono prevedere in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi, riconoscendo un margine di autonomia decisionale alle Regioni.

41 V. BACHELET, Coordinamento, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 631, richiamato da A. BRANCASI, Il

coordinamento della finanza pubblica nel federalismo fiscale, cit., 452 ss.

42 Più ampiamente, cfr. G.M. SALERNO, Dopo la norma costituzionale sul pareggio di bilancio:

vincoli e limiti all’autonomia finanziaria delle Regioni, in Quad. cost., 2012, 568 ss.

43 Per una ricostruzione del percorso della giurisprudenza costituzionale in tema di principi

fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, cfr. L. CAVALLINI CADEDDU, Indicazioni giurisprudenziali per il coordinamento dinamico della finanza pubblica, in federalismi.it, 1/2011, spec. 4 ss. ed i riferimenti bibliografici ivi indicati.

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Tali principi fondamentali non vincolano solamente le Regioni ordinarie, ma, in una molteplicità di occasioni, è stato chiarito come anche le Regioni a Statuto speciali, tenuto conto di quanto stabilito nei rispettivi Statuti, devono conformarsi alle disposizioni legislative statali in materia di coordinamento della finanza pubblica, adeguando la propria legislazione e rispettando i conseguenti vincoli alle politiche di bilancio44.

Nei principi di coordinamento della finanza pubblica, inoltre, vengono fatte rientrare anche misure strumentali al perseguimento delle finalità essenziali della funzione, come le norme di carattere sanzionatorio per il mancato rispetto degli obblighi45, gli obblighi inerenti i flussi informativi46, oppure i controlli esterni eventualmente esercitati dalla Corte dei conti47.

La Corte costituzionale ha avuto un ruolo decisivo nel conformare la portata dei poteri statali connessi a questa materia, in un contesto sempre più segnato dalle ragioni della crisi economico-finanziaria. Insieme all’aumento quantitativo delle sentenze in cui compare questo parametro48, si è assistito, seppure in espressa - e, per certi versi, solo apparente - continuità con i primi indirizzi, ad un sostanziale travalicamento di quegli stessi limiti che la Corte aveva precedentemente individuato perché le disposizioni di principio potessero superare il vaglio di legittimità49.

La pronuncia in commento non solo sembra assecondare questa tendenza all’aggiramento dei confini precedentemente imposti alla legislazione statale, ma ne estremizza i tratti, sino a giustificare interventi statali che sostanzialmente

44 Di recente, ex multis, sentenze n. 221/2013, n. 139/2012, n. 30 del 2012.Sempre L. CAVALLINI CADEDDU, Indicazioni giurisprudenziali per il coordinamento dinamico della

finanza pubblica, cit., 12 ss., che individua, tra i principali filoni giurisprudenziali, quelli che esprimono la difesa degli strumenti pattizi statutari per la emanazione di norme di attuazione o delle norme che integrano le norme statutarie finanziarie, oppure, rispetto alle norme di coordinamento dinamico, e quelli che estendono alle Regioni speciali il rispetto dei termini del patto di stabilità interno. Cfr., inoltre, G.M. SALERNO, Coordinamento finanziario, autonomie speciali e coesione nazionale, in federalismi.it, 23/2008.

45 Ess. sentenze n. 148/2012 e n. 155/2011.

46 Ess. sentenze n. 229 e n. 121/2012 e n. 190/2008.

47 Ess. sentenze n. 39/2014, n. 198/2012, n. 57/2010.

48 Cfr. i dati riprodotti e le considerazioni svolte da S. CALZOLAIO, Il cammino delle materie nello

Stato regionale. La definizione delle competenze legislative nell’ordinamento costituzionale, Torino 2012, 278 ss.

49 Cfr., più ampiamente, T. CERRUTI, La Corte costituzionale, arbitro del contenzioso Stato-Regioni,

fra esigenze di contenimento della spesa pubblica e tutela dell’autonomia regionale, in federalismi.it, 20/2013, 29 ss., anche per ampi riferimenti giurisprudenziali.

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invadono le competenze organizzative più intimamente connesse agli organi di governo regionali sotto la minaccia di pesantissime decurtazioni dei trasferimenti erariali.

7. Seguendo lo sviluppo logico-argomentativo della pronuncia, la Corte,

innanzitutto, qualifica le previsioni normative impugnate non come una imposizione puntuale di vincoli di spesa, bensì alla stregua di “oneri” rivolti alle Regioni, tali cioè da approntare «un meccanismo indiretto che lascia alle Regioni la scelta se adeguarsi o meno, prevedendo, in caso negativo, la conseguenza sanzionatoria del taglio dei trasferimenti erariali». Così delineato, il meccanismo in parola «realizza il duplice obiettivo di indurre a tagli qualitativamente determinati e di garantire il contenimento della spesa pubblica secondo la tradizionale logica quantitativa»50. Su tale presupposto la disciplina statale viene fatta rientrare tra i principi di coordinamento della finanza pubblica; tale soluzione ermeneutica, però, non può che destare qualche perplessità.

Per comprendere le intenzioni dell’Esecutivo è indicativo quanto riportato nella relazione illustrativa al d.d.l. di conversione delle norme impugnate, ove si legge che il Governo, con l’aggiunta di parametri «ancora più stringenti ai fini del conseguimento degli obiettivi di risanamento della finanza pubblica, [...] ha individuato nuovi e più incisivi strumenti di politica economica tali da non consentire agli enti regionali di sottrarsi agli obblighi di compartecipazione alle misure di rigore»51. La natura “premiale”, dunque, «appare in realtà ben più vicina alla cogenza, dato l’enorme deterrente che alla stessa si accompagna»52. Una simile forma di diktat statale non sembra assumere i caratteri di “onere”, dovendo piuttosto parlarsi di obbligo imposto alle Regioni, entro cui è difficile pensare che si eserciti un vero e proprio margine di “autonomia regionale”53.

8.

50 Punto 7.1 cons. dir.

51 Cfr. i rilievi svolti da E. ALBANESI, [Art. 2, d.l. n. 174/12] La riduzione dei costi della politica

regionale: «condizione» per i trasferimenti erariali e (ove inattuata) «grave violazione di legge» ex art. 126 Cost., in dirittiregionali.org.

52 Così N. VICECONTE, Legislazione sulla crisi e Consigli regionali: riduzione dei costi della politica

o della democrazia?, in Ist. fed., 1, 2013, 46. Insiste sulla forte menomazione che le disposizioni del d.l. n. 174/2012 recano al principio democratico, che assicura l’espressione del pluralismo politico e la capacità di gestione e di controllo da parte della rappresentanza, S. MANGIAMELI, Le Regioni italiane tra crisi globale e neocentralismo, Giuffrè, Milano, 2013, 189.

53 Di conseguenza - come lamentato dalle ricorrenti - le previsioni statali ledono l’autonomia

finanziaria delle Regioni ed assumono una “gravità” tale che, qualora esse non vi si adeguassero,

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Sulla base di tale presupposto la Corte riconosce che, affinché possano considerarsi legittime, è necessario che le disposizioni statali rispettino i canoni generali della “ragionevolezza” e della “proporzionalità” tra l’intervento normativo e l’obiettivo prefissato, così da non determinare un’irragionevole compressione dell’autonomia finanziaria delle Regioni54.

La Corte, nel caso di specie, supera questo test ricordando che la nozione di principio fondamentale non può essere «cristallizzata» in una formula valida in ogni circostanza, ma «deve tenere conto del contesto, del momento congiunturale in relazione ai quali l’accertamento va compiuto e della peculiarità della materia», e chiarendo che le previsioni sanzionatorie impugnate costituiscono «espressione di tale principio, nonché le conseguenze del mancato adeguamento», essendo legate al principio medesimo da un «evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione»55. Le disposizioni impugnate, dunque, vengono giudicate “in blocco” e fatte rientrare, indiscriminatamente e pressoché nella loro totalità, entro i confini dei principi fondamentali56, in virtù della loro qualificazione alla stregua di “oneri”. Così facendo, la Corte fonda il proprio ragionamento giudicando necessaria e sufficiente l’intima connessione fra misure sostanziali e sanzioni, senza scendere in una valutazione nel dettaglio delle misure sostanziali. Anche questa soluzione, tuttavia, può dare adito ad alcune perplessità, proprio in termini di ragionevolezza e proporzionalità.

renderebbero “impossibile” alle Regioni l’esercizio delle proprie funzioni, non potendo pensare di provvedervi solamente con il venti percento di quello che oggi richiedono. La Corte, tuttavia, giudica inammissibili le censure avanzate in questi termini, limitandosi a rilevare la genericità e l’indeterminatezza dell’oggetto (punto 6.1 cons. dir.).

54 Così, recentemente, le sentenze n. 63 e 205/2013, ove si giudicano proporzionate le previsioni del

d.l. n. 95/2012 che impongono che la totalità delle risorse, risultanti dalla valorizzazione ed alienazione degli immobili di proprietà delle Regioni e degli enti locali trasferiti ai fondi comuni di investimento immobiliare, debba essere destinata alla riduzione del debito dell’ente e, solo in assenza di questo, o, comunque, per la parte eventualmente eccedente, a spese di investimento, rientrando «tra le scelte di politica economica nazionale adottate per far fronte alla contingente emergenza finanziaria» e non fissando «in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento del detto obiettivo» (punto 4 cons. dir.).

Analogamente la sent. n. 236/2013, secondo cui, le disposizioni del d.l. n. 95/2012 impugnate, dopo aver indicativamente previsto la possibilità di una soppressione o di un accorpamento degli «enti, agenzie e organismi comunque denominati», limitano il contenuto inderogabile della disposizione al risultato di una riduzione del 20 per cento dei costi del funzionamento degli enti strumentali degli enti locali; tali disposizioni costituiscono effettivamente espressione di principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica «proprio per la chiara finalità di riduzione della spesa e per la proporzionalità dell’intervento rispetto al fine che il legislatore statale intende perseguire» (punto 3.3. cons. dir.).

55 Punto 8 cons. dir.

56 Ad eccezione dell’istituzione dei Collegi di revisori dei conti in raccordo con la Corte dei conti,

riconducibile all’art. 100 Cost., e dell’istituzione del sistema informativo sul finanziamento delle attività dei gruppi politici, riconducibile all’art. 117, c. 2, lett. r), Cost. (punto 10 cons. dir.).

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In base agli argomenti utilizzati dalla Corte, infatti, il Governo avrebbe potuto, paradossalmente, imporre una qualunque misura invasiva dell’autonomia regionale, purché avente una rilevanza finanziaria indiretta, ritenendo sufficiente la minaccia di una riduzione dei trasferimenti erariali, anche se questa venisse quantificata in una percentuale ancora più elevata e prossima alla totalità. Se il legislatore avesse fissato un obiettivo ben preciso - quale, ad esempio, una riduzione percentuale delle spese regionali o il riferimento agli obiettivi del patto di stabilità interno - la Corte avrebbe avuto un parametro sicuro con cui operare il test suaccennato. In assenza di tale riferimento, tuttavia, la Corte è costretta a fare riferimento solamente al genericissimo obiettivo del «contenimento della spesa pubblica», di cui all’impugnato comma 1. Nel seguire l’impostazione delineata dalla sentenza, dunque, il giudizio di ragionevolezza rimane inesorabilmente destinato a sconfinare nel terreno della discrezionalità ad appannaggio del legislatore, così che la Corte, per non esporsi, è costretta a fare ricorso ad argomenti parzialmente apodittici.

Le cose sarebbero forse andate diversamente se il Giudice delle leggi avesse deciso di affrontare uno scrutinio più approfondito delle misure sostanziali cui viene connessa la “potenziale” riduzione dei trasferimenti. In questo caso, non sembrerebbero mancare appigli utili ad evidenziare i tratti di incoerenza ed incongruenza tra misure sostanziali e sanzioni. Innanzitutto, le disposizioni statali presentano un elevato grado di eterogeneità, variando - come visto - dal trattamento economico del personale politico in senso stretto, alla organizzazione amministrativa degli organi di vertice della Regione, alla razionalizzazione del patrimonio pubblico, alla liquidazione delle società pubbliche, eccetera. Alcune di tali previsioni presentano un significato finanziario non facilmente individuabile, come nel caso delle norme sulla esclusione dal vitalizio di chi sia stato condannato per determinati reati. Il meccanismo sanzionatorio, inoltre, dovrebbe operare illogicamente in misura “fissa”, in quanto il “taglio” ai trasferimenti scatterebbe, nella sua interezza, a prescindere dal numero di “condizioni” statali rispettate dalla singola Regione57.

9. Spingendo oltre il ragionamento sin qui svolto, occorre osservare che, se

quelli imposti dal Governo non possono essere verosimilmente qualificati come “oneri” ma assumono la valenza di veri e propri obblighi, ne conseguirebbe che ad essere valutati alla stregua dei canoni relativi ai principi di coordinamento della finanza pubblica dovrebbero essere non i tagli ai trasferimenti, bensì le misure imposte alle Regioni a pena di sanzione. Diventa inevitabile, dunque, affrontare quel giudizio che la Corte non ha deciso di compiere nella sentenza n. 198/2012, ove ha preferito risolvere la questione nella prospettiva della rappresentanza politica e dell’uguaglianza.

A questo proposito, come già accennato, l’unica vera condizione che la Corte ha sempre posto al legislatore statale nel limitare le spese delle autonomie

57 Secondo quanto eccepito dalle ricorrenti; v. punto 2.4.2. rit. fat.

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territoriali è quella di non precludere a Regioni ed Enti locali qualsiasi decisione in ordine alle modalità con cui realizzare tale riduzione58. Interrogandosi sul grado di dettaglio e sul margine di autonomia lasciato alle Regioni dalle norme impugnate, pare dubbio che il Governo abbia rispettato tale assunto. Al di là della considerazione che i vincoli posti dal Governo assumono una valenza nei fatti stringente, poiché nella maggior parte dei casi, al momento del giudizio, le Regioni superavano il tetto massimo fissato dal Governo a proposito della composizione di Consigli e Giunte regionali59 e diverse delle misure imposte sono livellate sul parametro della Regione “più virtuosa”, il Governo avrebbe potuto lasciare alle Regioni una maggiore scelta nell’individuare modalità diverse per ridurre le spese di funzionamento degli organi regionali, senza costringere autoritativamente ad intervenire sui singoli profili individuati dall’alto60. Nella sostanza, gli interventi normativi del Governo incidono molto più sui profili organizzativi ed istituzionali degli enti regionali che su quelli di natura strettamente finanziaria61, con conseguenze di portata generale sull’intero sistema delle autonomie62.

La Corte, inoltre, non sembra aver prestato molta attenzione neppure all’altra caratteristica astrattamente richiesta agli atti di coordinamento, ovvero il nesso di coerenza che le relative misure devono presentare con i risultati perseguiti dal soggetto coordinatore; requisito questo che dovrebbe consentire uno scrutinio di legittimità «non limitato al grado di dettaglio ed analiticità delle disposizioni quanto riferito anche al loro intrinseco contenuto»63. Come già accennato, non

58 Secondo quanto osservato anche da A. BRANCASI, Il coordinamento della finanza pubblica nel

federalismo fiscale, cit., 473.

59 Così L. MACCARRONE, Sui costi della politica la Corte costituzionale marca la distinzione tra

regioni ordinarie e regioni speciali. Riflessioni a margine di Corte cost. 20 luglio 2012, n. 198 , cit., 6. Come rilevato da G. FERRAIUOLO, Il numero dei consiglieri regionali tra statuto, legge regionale e decreto legge. Spunti per qualche riflessione sulle sorti del regionalismo italiano, in federalismi.it, 8/2013, spec. 7 ss., all’indomani dell’adozione del d.l. n. 138/2011, la composizione degli organi di nessuna Regione, tranne la Lombardia rientrava nei canoni numerici imposti dalla norma.

60 Così anche G. TARLI BARBIERI, La potestà legislativa regionale in materia elettorale alla luce

delle più recenti novità legislative e giurisprudenziali, in Le Regioni, 1, 2013, 108.

61 Cfr. G. FERRAIUOLO, Il numero dei consiglieri regionali tra statuto, legge regionale e decreto

legge. Spunti per qualche riflessione sulle sorti del regionalismo italiano, in federalismi.it, 8/2013, 5.

62 Tornano utili, allora, alcune considerazioni espresse nei confronti della sentenza n. 198/2012,

secondo cui essa parrebbe assecondare quel processo di “provincializzazione” delle Regioni in atto ed incidere addirittura sulla stessa forma di stato regionale disarticolandola; così S. MANGIAMELI, La composizione dei Consigli regionali nelle mani del Governo, cit., 2871 ss.

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solo alcune delle misure imposte alla autonomie non sono in grado di fornire alcun apporto all’obiettivo del risanamento della finanza pubblica, ma rimane sempre possibile destinare ad altre spese le risorse in tal modo risparmiate64. Il rischio che si paventa, dunque, è quello di imporre tagli alla spesa attraverso misure che non garantiscono il raggiungimento degli obiettivi di contenimento prefissati, ma che, in compenso, potrebbero mettere a rischio il funzionamento delle istituzioni regionali65.

10.In conclusione, la sentenza in commento segna, quale punto fermo, la

sostanziale sottoposizione di tutte le Regioni alle misure stabilite dal Governo per la riduzione dei costi dalla politica, a partire da quanto stabilito dal d.l. n. 138/2011 e successivamente implementato con il d.l. n. 174/2012. La Corte si è pronunciata a più riprese e, se in un primo momento, ha fatto salve le misure che si rivolgono direttamente alle sole Regioni ordinarie, in un secondo momento ha giudicato legittime le sanzioni che ricadono sulle Regioni speciali, facendo salve, in via indiretta, le medesime previsioni sostanziali anche nei loro confronti66. La specialità, dunque, non è valsa a sottrarre quest’ultime Regioni alla scure che, oltre ad abbattersi sui costi della politica, colpisce sensibilmente anche i profili organizzativi strettamente legati all’autonomia degli organi politici e di governo.

Occorre osservare, inoltre, come sia indicativo che per ciascuno dei passaggi della sentenza sopra analizzati, ovvero la deroga al procedimento consensuale e la qualificazione in termini di principi di coordinamento della finanza pubblica, la Corte faccia appello alle ragioni della crisi economico-finanziaria e dei vincoli di bilancio derivanti dal nuovo contesto eurounitario e costituzionale67. Si tratta di un

Secondo una tendenza - come osserva A. BRANCASI, Il coordinamento della finanza pubblica nel federalismo fiscale, cit., 474 - generalmente rilevabile nell’impostazione più volte adottata dalla Corte.

64 Come, viceversa, dovrebbe avvenire per garantire effettivamente tale obiettivo, secondo quanto

mette in guardia A. BRANCASI, Il coordinamento della finanza pubblica nel federalismo fiscale, cit., 474 s.

65 Di rendere inabili le istituzioni e, in particolare, i Consigli, «a svolgere la loro funzione

democratica, politica e costituzionale» parla S. MANGIAMELI, La composizione dei Consigli regionali nelle mani del Governo, cit., 2875. Si consideri che le censure rivolte all’art. 2, c. 1, lett. i), ove si richiamano numerosi articoli di legge, sono state dichiarate inammissibili per genericità (punto 9 cons. dir.)

66 Salvo contrasti diretti con la lettera degli Statuti, come nel caso del numero dei consiglieri

regionali.

67 «Deve, allora, ritenersi che, specie in un contesto di grave crisi economica, quale quello in cui si è

trovato ad operare il legislatore, esso possa discostarsi dal modello consensualistico nella determinazione delle modalità del concorso delle autonomie speciali alle manovre di finanza pubblica» (punto 5.1 cons. dir., enfasi aggiunta); «Il comma 1 censurato, introdotto nel notorio quadro di necessario rispetto dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’appartenenza all’Unione europea e dell’equilibrio di bilancio, prevede...» (punto 8 cons. dir.).

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rafforzamento del percorso logico-argomentativo teso forse a giustificare in termini più persuasivi la legittimità di misure sulle quali si registra un diffuso consenso nella società. Nonostante ciò, la necessità di intervenire sui costi della politica e delle amministrazioni delle Regioni - anche speciali - e le ragioni della crisi non possono far soprassedere sulle garanzie giuridiche legate al grado di autonomia costituzionalmente riconosciuto e, ultimamente, alla coerenza degli indirizzi giurisprudenziali ad esso connesse68.

È stato autorevolmente sostenuto che nel complesso sistema regionale, tanto la produzione normativa statale che regionale devono concorrere «a comporre un quadro unitario dal quale la Corte può e deve, se necessario, “distillare” quei principi generali che assicurano la permanenza della concordia discors di un sistema fortemente differenziato»69. Alla luce delle pronunce richiamate, pare si possa affermare che la Corte, nel più recente periodo, intenda questa concordia discors di mortatiana memoria in termini piuttosto sbilanciati a vantaggio dello Stato centrale. Guardando al caso qui ricostruito, è lecito pensare che alla base di questo squilibrio influisca anche una diffusa insofferenza nei confronti della specialità regionale - o di una certa specialità regionale -, della cui attualità oramai molti dubitano e di cui ciclicamente si torna a discutere70. Tuttavia, questo specifico profilo, come i molti altri che rappresentano il portato di una crisi - da intendere in senso propriamente etimologico - che il sistema delle autonomie sta complessivamente attraversando, possono essere affrontati proficuamente solamente in virtù di un disegno politico complessivo, che guardi all’autonomia come un valore e non come un problema da risolvere.

68 Scrive significativamente G. FALCON, La crisi e l'ordinamento costituzionale, in Le Regioni, 1-

2/2012, 12, come «la crisi non travolge la Costituzione, ma di certo conduce a conformare il significato di molte delle sue disposizioni in modo diverso da quanto prima si riteneva, e da quanto altrimenti sarebbe accaduto. E i percorsi così formati non sono facilmente reversibili [...]. Il diritto si accumula per precedenti, i quali non possono essere semplicemente dimenticati, ma condizionano le decisioni future».

69 Così G. SILVESTRI, Le Regioni speciali tra limiti di modello e limiti di sistema, in Le Regioni,

2004, 1123.

70 L’attualità di un dibattito che carsicamente si ripropone è testimoniata anche dalla recente

indagine conoscitiva, avviata dalla Commissione bicamerale per le questioni regionali all’inizio della XVII Legislatura, dedicata alle “questioni connesse al regionalismo ad autonomia differenziata”, ancora non conclusa.

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AUTONOMIE SPECIALI E RIPARTO DELLE COMPETENZE: QUANDO LA CASISTICA PREVALE SULLA SISTEMATICA

di Cesare Mainardis

(in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2014)

1. Esiste oggi una dottrina delle autonomie regionali e provinciali speciali? è la domanda che si poneva tempo fa, in questa Rivista, Sergio Bartole evidenziando l’opportunità – o forse la necessità, a distanza allora di nove anni dall’entrata in vigore della riforma del Titolo V – che la Corte costituzionale elaborasse criteri interpretativi sufficientemente consolidati nell’applicazione della cd. clausola di favore; e lo facesse valorizzando, come baluardo dell’autonomia, le competenze per materia riconosciute dagli Statuti speciali1. La risposta, come sottolineato da chi ha studiato a fondo la giurisprudenza costituzionale, è decisamente negativa2: le pronunce della Corte, per oltre un decennio, hanno assunto un “carattere obiettivamente frammentario e in parte ondivago”; gli esiti dei processi argomentativi denunciano una “estrema volatilità” sia nella comparazione tra competenze statali e regionali, sia nella ricostruzione dei limiti alle attribuzioni delle autonomie speciali; manca, in definitiva, un inquadramento sistematico della specialità regionale alla luce del Titolo V riformato3.L’osservazione, peraltro, non vale solamente con riferimento all’interpretazione e all’applicazione della clausola di maggior favore; ma vale anche per le ipotesi nelle quali la Corte non si preoccupa di valutare direttamente le forme più o meno ampie di autonomia derivanti dall’applicazione del Titolo V riformato, ma procede ad una perimetrazione delle competenze regionali sussumendo – o meno - una determinata disciplina in una materia di competenza statale. Ed è questo il caso che prendiamo in esame, mettendo a confronto due pronunce della Corte adottate a distanza di pochi mesi l’una dall’altra (la n. 114 e la n. 298/2013): le riflessioni, come si vedrà, toccano un ambito materiale dell’ordinamento senz’altro circoscritto, ma le conclusioni raggiunte si allineano perfettamente a quelle di chi ha esaminato nel suo complesso la giurisprudenza costituzionale relativa alle autonomie speciali.

2. La materia del contendere riguardava, in entrambi i casi, l’estensione della disciplina legislativa statale nel settore della produzione di energia da fonti rinnovabili: e, per una migliore comprensione della vicenda, è opportuno partire da una ricostruzione della giurisprudenza costituzionale in questa materia. Le numerose pronunce intervenute hanno delineato un quadro del riparto di competenze statali e regionali che, con riferimento in particolare alle autonomie speciali, può essere così riassunto: a) la normativa internazionale4 e quella comunitaria5, debitamente attuate nell’ordinamento

1 S. BARTOLE, Esiste oggi una dottrina delle autonomie regionali e provinciali e speciali, in questa Rivista, 2010, 863 ss.2 Cfr. le ricostruzioni della giurisprudenza costituzionale proposte da I. RUGGIU, Le “nuove” materie spettanti alle Regioni speciali in virtù dell’art. 10, legge costituzionale 3/2001 e S. PARISI, La potestà primaria alla deriva? Spunti ricostruttivi per ripensare un luogo comune in questa Rivista, 2011, rispettivamente 775 e ss. e 821 ss.3 Così P. GIANGASPERO, Le Regioni speciali dieci anni dopo la riforma del Titolo V, in questa Rivista, 2011, 765 ss.4 Protocollo di Kyoto, in primis, e norme di esecuzione (L. 1.6.2002, n. 120).5 DIRETTIVA CEE 27 settembre 2001, n. 2001/77/CE, Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità; e DIRETTIVA CEE 23 aprile 2009, n. 2009/28/CE, DIRETTIVA DEL PARLAMENTO

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interno6 “manifestano un favor per le fonti energetiche rinnovabili” (C. cost. 85/2012) il cui sviluppo rappresenta un “obiettivo altamente prioritario” in ambito sovranazionale e, di conseguenza, nazionale (C. cost. 224/2012); b) in particolare, l’art. 12 del D.l.vo n. 387/2003, destinato alla disciplina del procedimento autorizzativo alla realizzazione e gestione degli impianti, esprime dei principi che costituiscono un punto di equilibrio tra i molteplici interessi confliggenti (priorità per le fonti rinnovabili; efficiente approvvigionamento dei diversi ambiti territoriali; conseguente concentrazione e speditezza del procedimento amministrativo autorizzativo; tutela dell’ambiente; salvaguardia del paesaggio: ad es., C. cost. 342/2008; 166 e 282/2009; 119 e 124/2010); c) detti principi, peraltro, costituiscono “principi fondamentali” della materia della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, espressione della potestà legislativa concorrente ai sensi dell’art. 117 comma 3 Cost. (ex plurimis, C. cost. 282/2009; 124/2010; 192/2011; 224/2012); d) in quanto tali si impongono pure alle Regioni a Statuto speciale, titolari anch’esse di una competenza concorrente nella materia dell’energia in forza della clausola di cui all’art. 10 della L. cost. n. 3/2001 (ad es., C. cost. 383/2005; 165/2011; 199/2014)7 e) infine, nel bilanciamento degli interessi contrapposti le autonomie speciali possono esercitare le proprie (eventuali) competenze primarie in materia di tutela del paesaggio, ma contemperandole con i principi espressi dall’art. 12 cit. (ad es., C. cost. 168/2010; 224/2012)8. Un quadro, dunque, che appare sufficientemente consolidato alla luce di numerosi precedenti. Così però non è: e veniamo, appunto, ai due casi in esame. Nella pronuncia n. 298/2013 la Corte costituzionale annulla svariate disposizioni di legge della Regione Friuli Venezia Giulia poiché in contrasto con i principi fondamentali enunciati dalla legislazione statale in materia di fonti rinnovabili e di infrastrutture lineari energetiche9. Ebbene, ai fini

EUROPEO E DEL CONSIGLIO sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CEE.6 Soprattutto cfr. il D.l.vo 29.12.2003 n. 387, Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità e il D.l.vo 3.3.2011, n. 28, Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE; nonché il D.m. 10.9.2010, Linee guida per il procedimento di cui all'articolo 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 per l'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di impianti di produzione di elettricità da fonti rinnovabili nonché linee guida tecniche per gli impianti stessi.7 In particolare: con riferimento al Friuli Venezia Giulia, ad es. C. cost. 8/2004; 1/2008, 298/2013; per la Valle d’Aosta, ad es. C. cost. 168/2010; per la Sardegna, ad es. C. cost. 199/2014; per la Provincia di Bolzano, C. cost. 114/2013. 8 Infine, con analoghi argomenti si è affermata l’applicabilità nei confronti delle autonomie speciali anche delle Linee Guida di cui al D.M. 10.9.2010 (C. cost. 168/2010; 224/2012), quantomeno a livello di principi e norme generali contenute nel predetto decreto (C. cost. n. 224/2012 punto n. 4.5 del Considerato in diritto, a chiarimento della precedente C. cost. 275/2011).9 Il punto va chiarito: i) lo Stato ha impugnato svariate disposizioni della L. reg. FVG n. 19/2012 denunciandone l’incostituzionalità sia se riferite agli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, sia se riferite alle infrastrutture lineari energetiche; ii) con attento scrutinio, la Corte ha in realtà circoscritto le diverse censure a seconda che lo Stato abbia lamentato la violazione, come normativa interposta, della legislazione in materia di energie rinnovabili (art. 12 del D.l.vo n. 387/2003 e s.m.) o di infrastrutture energetiche (soprattutto, l’art. 1 – sexies del D.l. n. 239/2001); iii) quanto alla norma di cui si parla nel testo (l’art. 14 comma 9 della L. reg. impugnata, che escludeva l’effetto di variante al provvedimento autorizzativo) la Corte, per le ragioni anzidette, ne dichiara l’incostituzionalità solamente con riferimento alle infrastrutture energetiche lineari. Ciò precisato, si osserva in primo luogo che la mancata dichiarazione di incostituzionalità con riferimento agli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili nasce solamente, come sottolineato, per la poco accorta indicazione del parametro violato da parte del ricorrente: il contenuto della normativa interposta è, infatti, analogo per le due tipologie di opere assegnando al rilascio dell’autorizzazione l’effetto di variante urbanistica (cfr- l’art. 2 comma 2 lett. b) dell’art. 1 – sexies cit. e l’art. 12 comma 3 cit.: sicché analoga conclusione avrebbe raggiunto la Corte per gli

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del nostro discorso è interessante notare come la difesa regionale abbia eccepito che alcune delle disposizioni impugnate si sarebbero dovute ricondurre alla potestà primaria in materia di urbanistica10, e scrutinate anche alla luce di siffatta competenza: e ciò, in particolare, per quelle norme che escludevano l’effetto di variante urbanistica al rilascio dell’autorizzazione unica, rendendosi necessario l’assenso del Consiglio comunale interessato. L’eccezione viene però disattesa in modo netto e sbrigativo dalla Corte: a venire in gioco è esclusivamente la materia concorrente della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, con conseguente annullamento delle norme regionali lesive della cornice normativa dettata dallo Stato11. Si potrebbe osservare invero che la posizione del giudice costituzionale, seppure asserita e non motivata, rifletta una linea di continuità con la propria giurisprudenza: in materia di fonti rinnovabili, infatti, non assume “alcun rilievo – per la costante giurisprudenza di questa Corte – la competenza regionale in materia urbanistica ed edilizia ”, dal momento che l’unico interesse potenzialmente confliggente che le Regioni speciali possono far valere è quello relativo alla “tutela del territorio, nella dimensione paesaggistica, storico-culturale, di biodiversità, di particolari produzioni agroalimentari”12. La posizione, molto netta e reiterata nella giurisprudenza costituzionale, trova tuttavia smentita nella seconda sentenza qui commentata (la n. 114/2013). Ad essere impugnate, in quella circostanza, erano disposizioni legislative della Provincia autonoma di Bolzano in materia di impianti idroelettrici: disposizioni che, in difformità dai principi contenuti nell’art. 12 del D.l.vo n. 387/2003, imponevano per il rilascio delle concessioni di cd. piccola derivazione il titolo di disponibilità delle aree interessate alla realizzazione dell’impianto; e riconoscevano la qualificazione di “pubblica utilità” solo per le opere relative alle cd. grandi derivazioni. La Corte costituzionale, in questo caso, giudica infondata la questione proposta basando la propria decisione su un primo passaggio argomentativo che, ai nostri fini, è decisamente interessante: si legge infatti nella motivazione che l’obbligo di una acquisizione bonaria dell’area interessata, con esclusione di una procedura ablativa per le cd. piccole derivazioni riflette una “scelta politica legittimamente esercitata nel quadro, come esattamente puntualizzato dalla Provincia, della sua competenza legislativa primaria in tema di espropriazione per pubblica utilità per tutte le materie di competenza provinciale”13.Ed eccoci al punto. Mi pare difficilmente contestabile che, nell’uno e nell’altro caso, le disposizioni legislative regionali per un verso interferissero con la materia della produzione di energia da fonti rinnovabili; per l’altro, fossero ragionevolmente riconducibili anche ad ambiti di competenza primaria regionale (l’espropriazione per pubblica utilità, nel caso della Provincia di Bolzano: come afferma d’altra parte la stessa Corte di fronte ad una norma che esclude il procedimento ablativo disposto invece dalla legge dello Stato; l’urbanistica, nel caso del Friuli Venezia Giulia: laddove si pretende di escludere l’effetto di variante urbanistica al provvedimento autorizzativo alla realizzazione dell’impianto). Ora, non si intende qui contestare la correttezza o meno delle decisioni assunte dalla Corte nei due casi, che per quanto può valere mi convincono nel caso della sentenza n. 298/2013 e

impianti da fonti rinnovabili, se investita della questione con completezza). In secondo luogo ed in ogni caso, ai fini del ragionamento condotto nel testo va evidenziato come la decisione della Corte di escludere ogni riconduzione delle disposizioni regionali impugnate alla materia dell’urbanistica assuma carattere pregiudiziale – e portata generale – rispetto allo scrutinio compiuto successivamente sule singole disposizioni. 10 Ai sensi dell’art. 4 comma 2 n. 12 dello Statuto speciale.11 Cfr. il punto n. 2 del Considerato in diritto della sent. 298/2013.12 Il passaggio è tratto dalla recente C. cost. 199/2014, che riassume la pregressa giurisprudenza sul punto.13 Ai sensi dell’art. 8 n. 22 dello Statuto speciale, mentre la competenza in materia di piccole derivazioni a scopo idroelettrico è sancita dall’art. 9 n. 9 dello Statuto medesimo.

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non mi persuadono affatto nel caso della sentenza n. 114/201314; l’obiettivo piuttosto è quello di evidenziare (quella che a me pare) una scarsa coerenza negli argomenti impiegati anche alla luce della complessiva giurisprudenza in materia. Ebbene: sulla base di quali parametri normativi e/o di criteri interpretativi regge l’assunto, più volte ribadito nella giurisprudenza costituzionale in materia di fonti rinnovabili, per cui l’unico interesse confliggente che le autonomie speciali possono far valere è quello relativo alla tutela del paesaggio? i due casi esaminati non dimostrano che, in realtà, la disciplina della produzione di energia da fonti rinnovabili tocca numerosi profili oggetto di diverse competenze primarie delle autonomie speciali? nel caso della sentenza n. 114/2013 è invero la stessa Corte a riconoscerlo: ma allora, perché la materia dell’espropriazione per pubblica utilità legittima un’incursione legislativa della Provincia di Bolzano, mentre la materia dell’urbanistica non viene nemmeno presa in considerazione come fondamento di una disposizione di legge friulana? In definitiva e in generale: quale è la regola di giudizio nel caso di interferenza tra principi fondamentali statali in una materia concorrente e competenze primarie di una autonomia speciale? La risposta dovrebbe essere la seguente: dipende, ovviamente, dalla riconduzione della disciplina impugnata all’una o all’altra materia secondo il criterio della prevalenza; oppure dall’ascrivere la normativa censurata ad una submateria capace di determinare in esclusiva la competenza. Ma se tali operazioni ermeneutiche avvengono a loro volta senza parametri di giudizio predeterminati e sufficientemente stabili, e di conseguenza in assenza di motivazioni persuasive15 il risultato è quello di cui si diceva in apertura di questa nota: la casistica finisce inevitabilmente con il prevalere sulla sistematica; la razionalizzazione degli indirizzi giurisprudenziale appare una fatica di Sisifo, di fronte a pronunce che si contraddicono a distanza di poco tempo; l’aspirazione ad un inquadramento sufficientemente stabile della specialità regionale ne esce inevitabilmente frustrata.

3. Tali conclusioni sono senz’altro sconfortanti in termini di certezza del diritto e di razionale gestione dell’ordinamento nel suo complesso: e tuttavia, è vero che sarebbe “ingeneroso” ascriverle esclusivamente alla responsabilità del giudice costituzionale16. La Corte, con riferimento alle autonomie speciali, si è trovata a fronteggiare un quadro di

14 L’effetto di variante urbanistica riconosciuto al provvedimento autorizzativo sia per le infrastrutture energetiche che per gli impianti da fonti rinnovabili costituisce un principio fondamentale nella legislazione di settore, che esprime la volontà del legislatore nazionale di superare la logica del cd. N.I.M.B.Y. svincolando la realizzazione di opere pubbliche dall’interposizione dei veti locali (mentre gli Enti locali interessati possono farsi comunque portatori degli interessi del territorio, ma in sede di Conferenza di servizi): da ciò la decisione convincente sull’incostituzionalità dell’art. 14 comma 9 della L. reg. FVG n. 19/2012. Nel caso invece risolto dalla sent. 114/2013 non convincono le affermazioni della Corte volte a respingere le censure alla disposizioni impugnata: riconosciuta in primo luogo la riconduzione delle norme provinciali alla competenza primaria in materia di espropriazioni, il giudice costituzionale deduce ulteriormente: i) che l’art. 12 del D.l.vo n. 387/2003 non acquisirebbe “valenza ostativa ad opzioni di acquisibilità per via negoziale della disponibilità delle aree su cui deve insistere l’impianto”: laddove può osservarsi come il ricorso ad una procedura ablativa qualifichi obiettivamente la posizione del proponente e ben difficilmente può contestarsi che ciò costituisca un principio della materia (come peraltro mi pare riconosca, seppure implicitamente, la stessa Corte nella successiva sent. n. 298/2013, punto n. 8 del Considerato in diritto); ii) che il comma 4 – bis dell’art. 12 cit. riferito agli impianti a biomassa e fotovoltaici stabilisce che è il proponente a dover dimostrare prima del rilascio dell’autorizzazione la “disponibilità” del suolo: laddove però tale disposizione non costituisce ragionevole termine di paragone per la semplice ragione che la realizzazione di una delle predette tipologie di impianti, per le sue caratteristiche, comporta l’acquisizione della disponibilità di un unico fondo (o di pochi fondi limitrofi), mentre un impianto idroelettrico è costituito da più componenti (opere di presa, canale di adduzione ecc.) che sovente insistono su decine di fondi, sicché costringere il proponente all’accordo diretto con i singoli proprietari significa, di fatto, rendere irrealizzabili buona parte dei progetti. 15 F. BENELLI – R. BIN, Prevalenza e "rimaterializzazione delle materie": scacco matto alle Regioni, in questa Rivista, 2009, 1185 ss.16 Ancora P. GIANGASPERO, op. cit., 770.

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obiettiva difficoltà, in ragione di una serie concorrente di elementi imposti o derivati dalla riforma costituzionale del 2001: una clausola interpretativa – quella di maggior favore – formulata in modo indeterminato e pertanto di difficile applicazione; competenze normative diverse tra Regioni ordinarie e speciali, e quindi di problematica comparazione; una differenziazione in ordine ai limiti che incontra la competenza legislativa delle Regioni ordinarie e speciali; una serie di nuove materie, ex art. 117 Cost., da leggersi in combinato disposto – per così dire – con le materie indicate dagli Statuti speciali, con un’operazione ermeneutica priva di solidi ancoraggi; la mancata riforma degli Statuti medesimi, che ha trasformato un regime dichiaratamente transitorio in uno stabile riparto di competenze; in aggiunta, come per le Regioni ordinarie, la carenza di una sede di confronto politico, a monte del procedimento legislativo, tra centro e autonomie territoriali: con la conseguenza, a valle, di un elevato tasso di contenzioso (perfino aumentato rispetto al passato); infine, il livello del predetto contenzioso sovente orientato su microquestioni di legislazione speciale che costringono la Corte costituzionale a misurarsi con la logica di ordinamenti settoriali. Una serie di coordinate che hanno inevitabilmente condizionato l’operato del giudice costituzionale, i cui esiti ben difficilmente avrebbero potuto rivelarsi soddisfacenti: e ciò non tanto in termini di maggiore tutela delle ragioni unitarie o di quelle dell’autonomia (profili peraltro variamente commentabili, anche perché sovente assai vicini al merito delle scelte legislative17), quanto piuttosto in termini di stabilità degli indirizzi giurisprudenziali, di persuasività delle motivazioni, di prevedibilità delle decisioni18. Certo, a ciò contribuisce anche una evidente refrattarietà della giurisprudenza costituzionale italiana (a differenza, ad esempio, di quella tedesca) ad assumere test e protocolli di giudizio e a trasformarli in passaggi “obbligati” nella costruzione della motivazione: accorgimenti che sarebbe ingenuo credere annullino i margini di incertezza dei procedimenti ermeneutici e valutativi, ma che favoriscono senz’altro l’autocontrollo e l’eterocontrollo delle decisioni giudiziali. Difficile dire poi se il quadro sia destinato a migliorare alla luce della riforma costituzionale in corso di approvazione alle Camere. Il nuovo ruolo del Senato riformato potrebbe contribuire a diminuire il tasso di conflittualità tra centro e autonomie territoriali; ma, per quanto riguarda Regioni e Province speciali, si rinvia ancora una volta l’applicazione delle disposizioni sul nuovo Titolo V all’adeguamento degli Statuti: evenienza che, dal 2001 ad oggi, non si è posta per ragioni politiche evidenti (la paura delle autonomie speciali di vedere rimesse in discussione le proprie prerogative), che promettono di rimanere del tutto immutate anche in futuro. Il rischio pertanto, è quello di “perpetuare”, almeno in parte, l’attuale situazione di incertezza nei rapporti tra Stato e autonomie speciali: con una Corte costituzionale costretta al difficilissimo ruolo di arbitro pressoché indiscusso delle competenze, in assenza però – ad oggi - di una vera e propria dottrina delle autonomie regionali e provinciali speciali.19

17 Poiché a cavallo tra materie ed interessi, come rileva V. ONIDA, Il giudice costituzionale e i conflitti tra legislatori locali e centrali, in questa Rivista 2007, 11 ss.18 Cfr. l’esito della ricostruzione di I. RUGGIU e S. PARISI, op. cit.19 Se con dottrine, appunto, si intende con S. BARTOLE, op. ult. cit. “una ricostruzione interpretativa della normativa interessante un dato istituto, che offre indicazioni sull’applicazione di quella normativa nel quadro dell’ordinamento complessivo”.

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S.A.S vs France. Strasburgo conferma il divieto francese al burqa con l’argomento del “vivere insieme”*

di Ilenia Ruggiu **(12 settembre 2014)

Con la sentenza S.A.S vs France, del 1° luglio 2014 la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha stabilito che la legge francese dell’11 ottobre 2010 contenente il divieto di indossare qualunque capo di abbigliamento che copra il volto non viola la Convenzione.

La Corte riconosce che il divieto intacca sia il diritto alla vita privata, protetto dall’art. 8 della Cedu, che la libertà religiosa, protetta dall’art. 9, ma ritiene che “ la Francia ha un ampio margine di apprezzamento” (par. 155) in quanto la restrizione imposta rientra in quelle “misure necessarie in una società democratica… per la protezione dei diritti e della libertà altrui”, che entrambi gli articoli autorizzano. In concreto, coprire il volto viola – secondo la Corte – il “diritto altrui ad abitare uno spazio di socializzazione che facilita il vivere insieme” (par. 122). La legge francese, inoltre, è legittima in quanto soddisfa i requisiti di proporzionalità cui il margine di apprezzamento è sottoposto, prevedendo una sanzione amministrativa di lieve entità (150 euro) e un divieto limitato al volto e non ad un qualsiasi abbigliamento religiosamente connotato o tradizionale, quale il semplice velo, il chador o la jilaba, che risultano in generale ammessi nello spazio pubblico (salve le restrizioni per i luoghi di lavoro statali).

La sentenza è particolarmente significativa nell’ambito di una visione neo-retorica del diritto, a là Perelman, che vede il ragionamento giuridico incentrato sulla efficacia persuasiva degli argomenti, poiché introduce un argomento del tutto “nuovo” rispetto a quelli finora sostenuti nel dibattito giuridico sul burqa e poiché rappresenta un efficace spaccato della faticosa, controversa elaborazione occidentale di tale pratica.

Com’è noto, ad oggi, l’argomento della sicurezza, quello dell’uguaglianza di genere, quello della neutralità dello spazio pubblico e quello della dignità della persona hanno sorretto la proibizione del burqa. Richiamati dalla stessa Francia a difesa della propria legge, essi vengono tutti confutati dalla Corte, a favore, appunto, del nuovo argomento del vivere insieme.

Il primo grande “caduto” nel ragionamento della Corte è l’argomento patriarcale o dell’oppressione di genere, sostenuto dalla Francia con il fatto che per gli uomini non esiste un’equivalente pratica vestuaria volta a coprire il volto e che il burqa è in sé simbolo di una inferiorità della donna. La Corte rigetta tale argomento facendo proprie le posizioni della dottrina, che da tempo rivendica l’importanza di non mettere sotto tutela paternalistica le donne (ex plurimis S. Mancini, Patriarchy as the exclusive domain of the other: The veil controversy, false projection and cultural racism, in International Journal of Constitutional Law [ICON] vol. 10, n. 2, 2012, 411-428), richiamando la loro capacità di agency, e afferma che “uno Stato membro non può invocare la parità di genere per proibire una pratica che è difesa dalle stesse donne, inclusa la ricorrente” (par. 119).

Il secondo argomento espressamente confutato dalla Corte è quello della violazione della dignità della persona. La Corte si fa antropologo e, adottando le lenti culturali della minoranza musulmana, richiama il fatto che il burqa appartiene ad un codice di abbigliamento che non può essere valutato con la sola percezione occidentale: “ la Corte è consapevole che il vestito in questione è percepito come un qualcosa di strano da molti che lo osservano. Tuttavia va notato che esso è l’espressione di un’identità culturale che contribuisce al pluralismo che è inerente ad ogni democrazia. A tal proposito va notata la

* Scritto sottoposto a referee.

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variabilità delle nozioni di virtù e decenza con cui si regola il coprire e lo scoprire il corpo (par. 120)”. Un vero e proprio relativismo culturale – che verrà poi abbandonato di fronte all’effetto totalmente straniante del burqa sui francesi – è adottato qui dalla Corte portandola a dire che, appunto, non sussiste alcuna violazione della dignità umana.

Il terzo grande “caduto” della sentenza è l’argomento della sicurezza. Sia gli art. 8 e 9 della Cedu permettono restrizioni per proteggere “l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale o per la prevenzione di crimini”, ma la Grande Camera sostiene che i rischi a tali beni giuridici vanno contestualizzati e valutati in concreto: “visto l’impatto che ha sui diritti delle donne che desiderano indossare un velo che copre il volto per ragioni religiose, un divieto totale di coprire il volto in tutti gli spazi pubblici può essere ritenuto proporzionato soltanto in un contesto dove sussiste un rischio generalizzato dalla sicurezza pubblica” (par. 139). Secondo la Corte, tale rischio nella Francia attuale non sussiste, quindi il divieto basato su tale motivo sarebbe proporzionato soltanto se parziale, ad esempio limitato agli aeroporti o alle foto sui documenti.

Il quarto argomento che la Grande Camera non ritiene persuasivo, infine, è quello della laicità e della neutralità religiosa degli spazi pubblici. La Corte non si diffonde, ma rimanda al caso Ahmet Arslan and Others in cui aveva affermato che la difesa della neutralità degli spazi pubblici poteva riguardare soltanto divieti parziali, ad esempio riservati ai dipendenti pubblici, e non generalizzati poiché in questo caso si violerebbe la libertà religiosa (par. 151).

Di fronte a tale “cimitero” di argomenti, la Corte elabora una nuova strategia persuasiva e introduce il nuovo diritto a vivre ensamble, a sua volta dedotto, già dalla difesa francese, dal principio costituzionale di fraternitè. Tuttavia tale strategia non pare convincente: per ragioni che ruotano principalmente sul modo in cui la Corte costruisce il rapporto principio/regola (R. Bin, Diritti e argomenti, Giuffrè, 1992, cap. I).

Come ogni principio costituzionale, quello di fraternitè può essere propulsore di un numero indefinito di regole che lo dettagliano e lo integrano. La Corte vi ricava una regola molto decisa e costruita come un vero e proprio “diritto a vivere insieme” e, con il margine di apprezzamento, autorizza la Francia a ricavare dal principio ulteriori regole: quella di vedere in faccia qualsiasi potenziale interlocutore che si muove nello spazio pubblico e, di converso, l’obbligo per tutti i consociati di mostrare il volto. Tale tecnica di estrapolazione di regole da principi richiama in qualche modo la Lautsi: anche in quel caso l’Italia si difendeva sostenendo una propria pratica culturale (l’esposizione del crocifisso nelle aule) utilizzando i principi costituzionali di laicità, uguaglianza etc. e sostenendo che la regola del crocifisso in classe li inverasse, dilatando oltremisura il rapporto principio/regola. Come nella Lautsi, anche qui l’operazione di inveramento del principio di fraternità in regole quali il mostrare il volto è piuttosto discutibile nel merito.

Non a caso nella dissenting opinion i due giudici di minoranza negano l’esistenza della regola consistente nel nuovo “diritto a vivere insieme” individuato dalla Corte, contrapponendogli il “diritto ad essere un outsider”, a vivere nascostamente, a rifiutare l’interazione sociale.

Che sia piuttosto forzato desumere dal principio di fraternità la regola di mostrare il volto si può desumere anche dal fatto che altri comportamenti della sfera sociale occidentale, pienamente tollerati, implicano il coprirsi il volto. Sono sempre i giudici dissenzienti a trovare degli “equivalenti culturali”: “non si può concludere che l’interazione umana è impossibile se il volto non è mostrato. Ciò è dimostrato da esempi perfettamente radicati nella cultura europea come sciare, andare in moto con il casco, indossare costumi a carnevale” e indossare “gli occhiali da sole”, nonché il fatto che nelle contemporanee società (il riferimento è ai social network) “le persone possono socializzare senza doversi necessariamente guardare negli occhi” (dis. op. B.9). Tali esempi rivelano, di converso,

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l’assenza di qualsiasi operazione di traduzione culturale da parte della maggioranza della Corte, assenza che lascia la Francia nel suo status quo culturale, oltre che giuridico.

Altrove (I. Ruggiu, Il giudice antropologo, Franco Angeli, 2012) avevo suggerito che per favorire l’isonomia processuale, il confronto delle ragioni nell’ambito di un conflitto multiculturale anche la maggioranza potesse far presenti, in chiave relazionale, le sue preoccupazioni, i suoi valori di fondo. A tal fine avevo suggerito che una domanda in un ipotetico test culturale con cui valutare l’ammissibilità di una pratica includesse per il giudice il chiedersi: “Che impatto ha l’altrui pratica sulla cultura ospite?”, “quanto il suo riconoscimento rischia di violare valori essenziali per la maggioranza?”. Sembra che la Corte si sia posta tale domanda, riconoscendo l’importanza per la società francese del volto scoperto, come “requisito minimo”, irrinunciabile della vita sociale. Tuttavia, questa valutazione è affidata, tramite il margine di apprezzamento, alla maggioranza francese in modo del tutto solipsistico. Non a caso i giudici dissenzienti richiamano l’esistenza di un consenso europeo a favore del burqa, provato dal fatto che ben “45 stati sui 47 componenti il Consiglio d’Europa non abbiano avvertito l’esigenza di legiferare”, Belgio e Francia rappresentando l’eccezione. Eppure, principi costituzionali simili a quello di fraternità sussistono in tutte le altre Costituzioni degli Stati membri, che pure non vietano il burqa. Un’altra prova che il processo di estrazione di regole da principi è stato portato troppo avanti.

In conclusione, la sentenza segna un importante momento di chiarezza concettuale sugli argomenti ad oggi usati in occidente contro il burqa e riflette come le confutazioni ad essi apportate abbiano avuto un impatto. Il nuovo argomento introdotto come unico nuovo possibile motivo al divieto, sarà, in futuro, ulteriormente confutabile, magari svelando che esso è sorretto non dal principio di fraternità, bensì, a me pare, proprio dal suo contrario: la paura del fratello, o meglio della sorella, soprattutto se straniera e se veste, perché di vestire alla fin fine si tratta, in modo diverso da noi. Questa paura, particolarmente forte nel contesto francese, la Corte ha voluto proteggere anziché decostruire, con gli strumenti dell’antropologia, o ignorare, con gli strumenti costituzionali. A dispetto dello straniamento che il burqa può produrre, non andrebbe dimenticato che la libertà del vestire dovrebbe essere, invero, parte dell’abbiccì dei diritti costituzionali.

** Università di Cagliari

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U.S.A.: Brown 60 anni dopo. Il difficile cammino dell’integrazione razziale

di Antonio D'Aloia(12 settembre 2014)

1. Sessant’anni fa, il 17 maggio 1954, la Corte Suprema USA pubblicava una di quelle sentenze che hanno fatto la storia della giurisprudenza costituzionale americana, e più in generale del cammino delle libertà e dei diritti civili.Nel decidere sul caso Brown v. Board of Education of Topeka, la Corte Suprema dichiarò incostituzionale, perché contrario all’Equal Protection Clause del XIV Emendamento, il sistema di segregazione razziale nella scuola pubblica, un sistema basato sull’ipocrita formula del ‘separate but equal’, avvalorata sempre dalla Corte Suprema –come “racially neutral”- nel settore dei trasporti pubblici nel caso Plessy v. Ferguson del 1896, con affermazioni che lette oggi appaiono davvero inaccettabili, come quando la Corte scrive che “la legge non può sradicare gli istinti razziali né abolire le distinzioni fondate sulle differenze psichiche”, o ancora che la segregazione crea uno stigma di inferiorità non “per nessuna ragione che si trovi nell’atto stesso, ma solo perché la razza colored sceglie di sovrapporvi una tale costruzione” (mentre profetica del messaggio di Brown sarà già allora la dissenting opinion di Justice Harlan). In Brown la Corte contesta direttamente e in modo assoluto il criterio della segregazione razziale (ormai ‘imbarazzante’ per il Paese che aveva combattuto la II Guerra mondiale in nome della libertà, e che doveva confrontarsi con il ‘nemico’ sovietico e la sua capacità di conquistare diplomaticamente partners soprattutto tra i Paesi in via di sviluppo: per questa tesi, secondo cui Brown fu appoggiata per motivi opportunistici anche dall’establishment bianco, v. un bellissimo articolo degli anni ’60 di Derrick A. Bell Jr.), e lo esclude certamente dall’ambito scolastico (“in the field of public education, the doctrine of ‘separate but equal’ has non place. Separate educational facilities are inherently unequal”), come fatto in sé discriminatorio, che priva i bambini di un minority group di un diritto (quello all’equal educational opportunities) che “must be made available to all on equal terms”, proprio perché la scuola ha come dovere intrinseco quello di sviluppare lo spirito civico e di favorire l’integrazione sociale; e questo a prescindere dalla eventuale (ma in realtà era solo una finzione) equivalenza dei servizi disponibili nelle scuole per i Negri e nelle scuole per i bianchi (“… even though the physical facilities and other tangible factors of white and Negro schools may be equal”).

2. Fu una sentenza densa di implicazioni interpretative anche più generali, ulteriori rispetto al tema ‘razziale’. Molto significativo, ad esempio, è il passaggio sull’interpretazione evolutiva del XIV emendamento (criticato da Alexander Bickel nel suo celebre libro The least dangerous branch, e da altri studiosi americani). La Corte parla di ‘inconclusive nature of the Amendment’s history”, sostenendo apertamente che la norma costituzionale deve essere letta alla luce dei cambiamenti sociali e culturali: “ in approaching this problem, we cannot turn the clock back to 1868, when the Amendment was adepte, or even to 1896, when Plessy v. Ferguson was written. We must consider public education in the light of its full development and its present plce in American life throughout the Nation…”.Come pure insolito è il ricorso della Corte Suprema (almeno per quel tempo) ad argomenti tratti da altre scienze sociali (argomenti essenzialmente psicologici, antropologici e sociologici) per rimarcare gli effetti negativi e incostituzionali degli istituti oggetto del giudizio su aspirazioni, autostima, obiettivi di emancipazione delle persone di colore: si

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legge nella opinion (redatta dal Chief Justice Warren) che “Segregation of White and colored children in public school has a detrimental effect upon the colored children. […] A sense of inferiority affects the motivation of a child to learn. Segregation with the sanction of law, therefore, has a tendency to [retard] the educational and mental development of negro children and to deprive them of some of the benefits they would receive in a racially integrated school system”.

3. Al di là di questi profili per così dire ‘generali’, Brown è considerata una delle pietre miliari della storia costituzionale e giuridica americana in tema di integrazione razziale. Un vero e proprio ‘atto rivoluzionario’ (così Kurland in un celebre saggio su Egalitarism and the Warren Court del 1970), secondo molti studiosi americani, che riaccende e mette ‘in action’ le potenzialità tradite o semplicemente accantonate del XIV emendamento e del Civil War Act.Il razzismo e l’eredità della schiavitù (come ‘peculiar institution’, secondo Kendall e Zanetti, 2005)sulla società americana e sul diritto americano (si pensi alle numerose “Jim Crow laws” o al ‘precedente’ Dred Scott v. Sandford del 1857, in cui la Corte Suprema sancì il principio secondo cui i Neri non possono essere considerati ‘cittadini di uno Stato degli Stati Uniti” e conseguentemente non avevano titolo per proporre azione davanti ad un Giudice Federale, e in un obiter dictum giunse a collegare la condizione degli schiavi alla nozione di proprietà privata; pochi anni prima, una Corte di merito nel caso Bailey v. Poindexter’s Ex’r, sentenziava che “… the slave is not a person, but a thing. The investiture of a chattel with civil righs or legal capacity is indeed a legal solecism and absurdity … implies a palpable contradiction in terms”) non potevano però essere di colpo cancellati solo da una sentenza. Il quadro restò per molti anni ancora frammentato e incerto: basti pensare che solo nel 1967 la Corte Suprema cancellò il divieto dei matrimoni interrazziali (caso Loving v. Virginia), e che altre decisioni (tra il 1954 e il 1956), a partire dalla cd. “Brown v. Board II del 1955, in cui la Corte stabilì che la desegregazione fosse attuata “with all deliberate speed”, furono necessarie per rimuovere la doctrine della segregazione da altri settori della vita pubblica e sociale: parchi pubblici, impianti sportivi, spiagge pubbliche, trasporti municipali.Celebre, per rimanere su quest’ultimo esempio, il caso Browder v. Gayle, che ebbe origine dall’atto di resistenza passiva di Rose Parks, che nel dicembre del 1955, nella città di Montgomery (Alabama), mentre stava ritornando a casa su un autobus municipale, si rifiutò di alzarsi da un posto nel settore riservato ai bianchi, e per questo venne addirittura arrestata ed incarcerata per condotta impropria e per aver violato i regolamenti locali. Una District Court dell’Alabama, con una sentenza poi confermata dalla stessa Corte Suprema USA, dichiarò che “the enforced segregation of black and white passengers on motor buses operating in City of Montgomery violates the Constitution and laws of the United States”, perché priva le persone di colore dell’equal protection ai sensi del Fourteenth Amendment.I diritti hanno bisogno di qualcuno che ad un certo punto lotti per la loro affermazione (come mette bene in evidenza il titolo di un libro di Tommaso Frosini). Per Alan Dershovitz, i diritti nascono dalle ingiustizie, e dal rifiuto o contestazione del sopruso da parte di Autorità pubbliche o di altri soggetti.

4. Insomma, tornando a Brown, quella sentenza fu un punto di svolta nonostante (o forse proprio per) i suoi limiti e le difficoltà che incontrò nella applicazione del principio della desegregation.Le ‘resistenze’ alla decisione della Corte, gli ostacoli alla sua piena ed effettiva implementazione, se da un lato misero a nudo la debolezza di un approccio che restava formalmente ancorato ad una logica ‘individualista’ e ‘colorblindness’ del principio di

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eguaglianza, dall’altro furono la prova che la discriminazione razziale doveva essere combattuta con politiche e misure più incisive, a carattere ‘promozionale’, capaci di correggere e ri-orientare sia le strutture giuridiche che quelle economico-sociali.La battaglia dell’integrazione si arricchisce di strumenti più forti, che puntano a cambiare la società e non semplicemente a riparare i torti e le violazioni specificamente accertati. Correlativamente, l’antidiscriminatory principle assume una versione ‘sostanziale’ e collettiva: la necessità di realizzare l’eguaglianza razziale non riguarda i singoli soggetti che di volta in volta portano in giudizio casi di discriminazione, ma appunto la popolazione di colore, l’intero gruppo di minoranza, e al tempo stesso l’obbligo di riparare la discriminazione non si scarica solo su chi ha commesso un comportamento discriminatorio, ma sull’intera società.Le tappe di questa trasformazione possono essere qui solo richiamate: il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act l’anno successivo [su quest’ultimo, v. da ultimo il caso Shelby County, Alabama, v. Holder, deciso dalla U.S. Supreme Court con una sentenza (5/4, del 25/6/2013) che ha giudicato incostituzionale § 5 del VRA nella parte in cui sottoponeva gli eventuali cambiamenti della legislazione elettorale solo di alcuni Stati (le cd. ‘covered jurisdictions’) ad una speciale approvazione da parte del Governo federale: per la Corte, 50 anni dopo le cose sono cambiate, non ci sono più quelle condizioni di racial discrimination in voting that had infected the electoral process (grazie anche a questa norma), e perciò una misura straordinaria come questa, che ‘authorizes federal intrusion into sensitive areas of state and local policymaking, e ’‘despite our historic tradition that all the States enjoy equal sovereignty’, non si giustifica più]; i nuovi desegregation cases degli anni ’60, in cui la Corte passa dal divieto di segregazione all’obbligo di favorire l’integrazione scolastica, da un lato eliminando criteri di iscrizione formalmente neutrali ma sostanzialmente segregazionisti (come quelli legati alla prossimità residenziale degli studenti all’Istituto scolastico), dall’altro consentendo ai distretti scolastici di promuovere politiche volte ad avere un numero minimo di studenti di colore in ogni scuola (casi Green del 1968 e Swann del 1971); l’emergere e il consolidamento della teoria del disparate impact, secondo cui perché sia riscontrabile una discriminazione razziale non è necessario che le procedure e i comportamenti esaminati siano intenzionalmente rivolti allo scopo di discriminare, ma è sufficiente che il risultato sia oggettivamente discriminatorio, e cioè che sul piano fattuale si siano prodotti effetti sproporzionati rispetto alla consistenza dei gruppi razziali (caso Griggs del 1971); infine la strategia delle “affirmative actions”, vale a dire misure di vantaggio dirette ad ottenere per gli appartenenti alla minoranza di colore risultati ‘positivi’, utilità, preferenze (nell’accesso alle università, nell’assegnazione degli appalti pubblici, nei concorsi, e così via) [sul punto, sia consentito rinviare al mio Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, Padova, 2002, pagg. 147-220; cfr. anche D. Strazzari, Discriminazione razziale e diritto, Padova, 2008, pagg. 123-211].Sessant’anni dopo, gli Stati Uniti sono un Paese profondamente diverso da quello che ha gestito (e valorizzato), con le difficoltà che abbiamo visto, l’impatto della sentenza Brown. Il cammino dell’integrazione razziale è stato faticoso, ma intenso sul piano dei risultati, riuscendo persino, almeno secondo la ricostruzione che ha prevalso in tempi più recenti nella stessa giurisprudenza della Corte Suprema, a rendere non più necessari se non proprio ‘eccessivi’ alcuni dei suoi strumenti principali.Le affirmative actions di fatto sono state quasi completamente abbandonate. A partire dal noto caso Adarand del 1995, la Corte Suprema ha cambiato la sua valutazione delle misure preferenziali per la minoranza di colore, riproponendo una lettura dell’eguaglianza molto schiacciata sulla parità di trattamento (in una configurazione ancora ‘colorblindness’) a scapito dei significati ‘promozionali’ e ‘sostanziali’ del principio.

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Nella nuova versione dell’equal protection, sostenuta soprattutto da Justice Scalia, la configurazione di una ‘razza creditrice’ e di una ‘razza debitrice’ in ragione di passate condizioni di discriminazione è “alien to the Constitution’s focus upon the individual”; allo stato attuale le misure di favore basate sulla razza “can only esacerbate rather than reduce racial prejudice, it will delay the time when race will become a truly irrelevant, or at least insignificant, factor”. Anche per Justice Thomas (concurring opinion in Adarand), “so-called benign discrimination teaches many that because of chronic and apparently immutable handicaps, minorities cannot compete with them without their patronizing indulgence. Inevitably, such programs engender attitudes of superiority or, alternatively, provoke resentment among those who believe that they have been wronged by the government’s use of race”.La conseguenza ‘processuale’ di queste opinioni è che tutte le classificazioni razziali basate sulla razza sono (almeno) intrinsecamente sospette. In altre parole, su di esse pende una presunzione di incostituzionalità, rappresentata dallo standard di giudizio dello ‘strict scrutiny’: ormai, i margini per una loro adozione, come hanno dimostrato i successivi casi Gratz v. Bollinger e Grutter v. Bollinger del 2003, sono davvero molto risicati; e quest’anno la Corte Suprema USA (nel caso Schuette v. Coalition to Defend Affirmative Action, in qualche modo collegato ai due del 2003) ha ritenuto che una norma costituzionale statale (approvata attraverso un referendum popolare) che vieta ogni discriminazione (anche ‘benign purpose’) basata sulla razza o sul sesso nelle procedure di ammissione ai corsi universitari non viola il XIV emendamento e la clausola dell’Equal Protection.Anche se l’opinione di maggioranza tiene a precisare che “this case is not about how the debate about racial preferences should be resolved”, ma riguarda invece “who may resolve it”, è chiaro che si è trattato di una definitiva conferma del nuovo trend interpretativo in materia di affirmative actions. Non a caso, la dissenting opinion di Justice Sotomayor va alla sostanza del problema (con dati e cifre che evidenziano il forte decremento della presenza di studenti black nelle più importanti università americane a seguito della crisi del modello delle affirmative acitons), rivendicando anche orgogliosamente che lei stessa è in fondo “the perfect affirmative action baby”, e che senza la possibilità di avvalersi di una misura di questo tipo “it would have been highly questionable if I would have been accepted”. E lo stesso Presidente Obama, attraverso il suo Portavoce, ha fatto sapere che lui continua a credere che, nel contesto dell’ammissione ai corsi universitari, “considering race, along with other factors, can be appropriate in certain circumstances”.La lettura ‘formale’ dell’equal protection clause si riversa anche sulle politiche di reapportionment dei distretti elettorali motivate da ragioni di promozione della partecipazione e della rappresentanza della minoranza di colore.Nei casi Shaw v. Reno, Miller v. Johnson, Shaw v. Hunt (adottate tra il 1993 e il 1996, invero con maggioranze estremamente frammentate), la Corte Suprema censura sia il carattere ‘bizzarro’ e irregolare del risultato del piano di ritaglio territoriale del distretto elettorale, sia, più in generale, il fatto in sé di aver creato una circoscrizione elettorale solo per fini ‘razziali’ non importa se ‘positivi’ e non direttamente ‘discriminatori’: «a reapportionment plan that includes in one district individuals who belong to the same race, …, bears an unconfortable resemblance to political apartheid». Soprattutto, viene rilanciata l’idea secondo cui ogni distinzione tra individui “mina alla base” il XIV emendamento, perché «The fourteenth amendment’s central mandate is racial neutrality in governmental decisionmaking»; rimediare ad una passata discriminazione può essere un compelling interest sufficiente a passare indenne lo strict scrutiny solo quando la discriminazione passata è specificamente “identified”.

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5. A parte la sorte del modello delle affirmative actions, che paradossalmente, mentre entravano in crisi nel loro Paese di origine, diventavano una key policy nel diritto europeo per contrastare le discriminazioni basate sul sesso (si veda ora l’art. 21 della Carta dei diritti Fondamentali dell’UE e le note sentenze della Corte Europea di Giustizia sui casi Marschall, Badeck, Abrahamsson), non c’è dubbio che la questione razziale e le politiche di contrasto alla discriminazione nei confronti della minoranza coloured negli Stati Uniti abbiano avuto uno sviluppo di straordinaria importanza e siano pervenute a risultati indubbiamente molto positivi, se li confrontiamo non solo alla ferita della schiavitù, ma allo stesso contesto in cui la Corte Suprema adottava la decisione del caso Brown.Ma soprattutto, questa storia ha trovato un suo nuovo punto di approdo simbolico nell’elezione del primo Presidente di colore.Brown e Obama allora, per fare una sintesi, potrebbero essere l’inizio e la fine di un racconto positivo.Tuttavia, il caso Ferguson (e la tragica morte di Michael Brown: ancora quel nome, sembra davvero una involontaria ironia della storia) e le tensioni razziali che scoppiano puntuali ad ogni occasione, dimostrano che la lotta per un’America davvero ‘integrata’ attorno al mandato costituzionale dell’equal protection clause non è ancora finita. Si può sostenere, come molti fanno, che i preferential treatments o le ‘quote’ in favore dei Neri non sono le misure più adatte o condivise o che presentano troppi aspetti controversi (anche se, come nota acutamente D. Kennedy, “quei bianchi che sono svantaggiati nella nostra società [per via di una aff. action], soffrono non per via della loro razza, ma nonostante la loro razza. […] L’azione affermativa non istituisce un regime di gerarchia razzializzata nel quale tutti i bianchi, in quanto tali, sono privati di dati benefici economici, sociali, o politici. Non rovescia la gerarchia: al contrario, essa livella il privilegio razziale”), ma è altrettanto certo che la discriminazione nei confronti della minoranza di colore è ancora una ‘unfortunate reality’ in molti settori della vita economica e sociale: una realtà che ha bisogno di essere affrontata e combattuta, e probabilmente la logica della Costituzione ‘colorblind’ resta inadeguata “a trattare la Nazione d’oggi, così razzialmente stratificata, culturalmente diversa, ed economicamente divisa” (come si espresse N. Gotanda, in un saggio del 1991 [trad. it. nel 2005], 67).Analogamente, anche sul versante politico-elettorale, se è vero che la ‘coverage formula’ (ora dichiarata incostituzionale dalla decisione Shelby) ha consentito di raggiungere risultati di sostanziale parificazione della partecipazione elettorale tra bianchi e neri, e le pratiche discriminatorie più dirette sembrano ormai un ricordo del passato, lo è altrettanto il fatto che ancora negli ultimi anni continuano ad essere sperimentate in vari Stati ‘second-generation barriers’, forme di gerrymandering o di racial redrawing dei distretti con finalità segregazioniste, o altre misure simili, che però ora non hanno più l’ostacolo del §5 del VRA (in termini, v. la dissenting opinion in Shelby dei Justices Ginsburg, Breyer, Sotomayor, Kagan)).Insomma, la lotta per la parità è tuttora in corso. In questa battaglia il diritto può e deve fare ancora la sua parte, e il campo dell’istruzione rimane ancora (anche per le aporie e le insufficienze della nozione di merito, su cui v. ancora D. Kennedy, 1990), come in Brown e nelle prime sperimentazioni delle affirmative actions, quello decisivo.

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TOWN OF GREECE VS GALLOWAY ET AL. – LA CORTE SUPREMA DEGLI STATIUNITI RITORNA SULLA COSTITUZIONALITA’ DELLA PREGHIERA NELLE

ASSEMBLEE PUBBLICHE*

di Daniele Mercadante**(7 settembre 2014)

La Corte Suprema degli Stati Uniti ritorna sulla questione, politicamente ed eticamentedelicata nonché assai dibattuta, della preghiera nei luoghi pubblici, e lo fa con unadecisione del 5 maggio 2014 (Town of Greece vs Galloway et al.) che sottoscrive in pienoe quasi senza riserve la legittimità della presenza attiva del cerimoniale religioso neldisbrigo degli affari di governo. Il caso sottoposto a giudizio, peraltro, per i suoi tratti diambiguità, fornisce alla corte uno spunto di partenza non molto adatto ad aprire la stradaad un rigoroso argomentare sui principi fondamentali implicati, inficiando in tal modo lalimpidezza del ragionamento della maggioranza, maggioranza che, peraltro, incorre in unaserie di aporie, le quali inducono a ritenere che la decisione non si presti a costituire unsolido fondamento per la giurisprudenza a venire, e che essa verrà, con tutta probabilità,rimessa in discussione al fine di distillare delle linee guida maggiormente limpide.

Nel 1999 il consiglio municipale di Greece (cittadina intorno ai centomila abitanti, nellostato di New York) deliberò di invitare quei ministri di culto del luogo che si fosserodichiarati disponibili all’incombenza ad aprire con una preghiera la propria seduta mensile.A causa di superficialità organizzative (non vi sono evidenze di intenti discriminatori), finoal 2007 tutti indistintamente i ministri officianti appartennero a confessioni cristiane,nonostante a Greece risieda una discreta comunità ebraica (intorno al tre per cento dellapopolazione) e abbiano sede un tempio buddista ed uno baha’i. Nel 2007 due residenti diGreece, le Sig.re Galloway e Stephens, accusarono il consiglio di violare il primoemendamento alla costituzione federale, trasformando la preghiera, a causa del suocarattere esclusivamente cristiano e del suo tenore ‘settario’ (sui caratteri e sull’importanzadell’ideologia del cosiddetto ‘non settarismo’ nella cultura giuridica degli Stati Uniti cisoffermeremo infra), in un non consentito atto di promozione di una ‘religione ufficiale’ delmunicipio. Ne seguì una disputa di fronte alle corti federali, che non ravvisarono taleviolazione in primo grado, sancendola invece in sede di appello.

Con un voto di cinque contro quattro, la Corte Suprema ha stabilito che la praticaintrodotta dalla città di Greece è del tutto lecita e conforme alla giurisprudenza sulla libertàreligiosa. L’opinione di maggioranza si basa essenzialmente su quattro considerazioni.

La prima attiene alla cosiddetta ‘interpretazione originaria’ (original understanding) delprimo emendamento alla costituzione federale: a parere della corte, il fatto che la primaCamera dei Rappresentanti degli Stati Uniti abbia nominato un cappellano ufficiale,incaricato proprio di recitare una preghiera in apertura di ciascuna seduta dell’organolegislativo, e questo a pochi giorni di distanza dall’approvazione del primo emendamentoalla costituzione federale, dimostra che il costituente non poteva considerare i due

* Scritto sottoposto a referee.

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comportamenti come contraddittori e incompatibili. Nel sostenere questa argomentazione,la corte richiama la propria decisione nel caso Marsh vs Chambers (1983), attraverso laquale si stabiliva la compatibilità con il primo emendamento dell’apertura con unapreghiera delle sedute dell’assemblea legislativa dello stato del Nebraska, pratica,peraltro, ancora diffusa presso un elevato numero di parlamenti statali, nonché mantenutadal Senato e dalla Camera dei Rappresentanti federali, ove attualmente si alternano, alloscopo, esponenti delle religioni più diverse. Il consiglio municipale di Greece, secondo talelinea di ragionamento, non dovrebbe godere di una libertà minore rispetto a taliassemblee, a patto che la preghiera non assuma toni proselitistici, ovvero di apertapromozione o denigrazione di fedi o credenze (come specificato in Marsh vs Chambers).

La seconda argomentazione della maggioranza si basa sull’irrilevanza del carattere‘settario’ (ovvero, facente riferimento a dogmi e dottrine peculiari di una data federeligiosa) della preghiera promossa dal consiglio municipale di Greece. A questo propositosi ricorda che, come reazione all’arrivo, nella prima metà del 1800, delle prime numerosecomunità di immigrati cattolici dal Vecchio Continente (in particolare, irlandesi e tedeschi),l’élite protestante statunitense cercò di preservare la propria egemonia promuovendo,nell’istruzione pubblica e, in genere, negli spazi istituzionali, un discorso civico-religiosoimperniato su un accordo dottrinario elementare tra le maggiori confessioni riformate,ritenuto in ipotesi idoneo a veicolare valori, soprattutto morali, condivisibili da ‘tutti’. Lacorrente intenta alla promozione, anche in àmbito legale, di questo noyeau durrelativamente desacralizzato della dottrina cristiana, destinato ad impregnare della koinèdominante i non protestanti e i non cristiani sbarcati nel paese (v. Noah Feldman, Dividedby God, 2006), venne definita ‘non settarismo’ (non-sectarianism), e, una volta integrateanche comunità non protestanti nel mainstream culturale statunitense, la sua ideologiadivenne la base di una sorta di sentimento religioso secolarizzato semi-ufficiale del paese,consistente in un generico appello alla divinità, agli attributi positivi ad essa associati edalle virtù civiche ispirate dalla sua venerazione, vagamente cristiano ma con aspirazioniecumeniche, asseritamente tollerabile da tutti in quanto non volto ad inculcare dogmi difede e accettabile, secondo i suoi fautori, da chiunque si considerasse genericamentedeista. Ora, le Sig.re Galloway e Stephens invocano a sostegno delle proprie censureproprio il carattere settario delle preghiere recitate a Greece (sovente portatrici diriferimenti a dogmi e dottrine peculiari alle varie confessioni cristiane). In risposta a questoargomento la corte, sconfessando come mero obiter dictum il ragionamento esposto nelproprio precedente County of Allegheny vs ACLU (1989), dichiara che il carattere settariodella preghiera non è più da considerarsi un parametro della sua legittimità nello spaziopubblico e che, anzi, ‘sorvegliare’ il carattere non settario della preghiera significherebbeporre in essere un meccanismo di autorizzazioni e censure che minerebbe la libertàreligiosa più di quanto essa non verrebbe protetta dal non settarismo medesimo.

Il terzo argomento si basa sul postulato secondo cui la preghiera, in un contesto comequello del consiglio municipale di Greece, sia da intendersi come una pratica aggregativaneutrale, perdendo così, paradossalmente, il proprio carattere religioso e divenendo unasorta di orazione civile, di perorazione di virtù morali. Secondo la corte, questo tipo dipreghiera è intesa a richiamare i consiglieri alla serietà e alla solennità del proprio incarico,

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a facilitare uno spirito di cooperazione scevro da istinti troppo meschini e partigiani,nonché a riconoscere il valore delle opere caritatevoli realizzate dai ministri di culto nelcontesto della vita cittadina. Dunque, ravvisare in questa preghiera, pur intessuta dirichiami alle peculiari dottrine delle varie confessioni cristiane, un atto religioso, significa, inuna certa misura, travisarne il reale significato.

L’ultimo argomento consiste, infine, in un appello all’importanza preminente che ilriferimento alla trascendenza ha rivestito nella storia degli Stati Uniti, nonché a quella cheesso riveste, per gran parte del suo popolo, ancora oggi, tanto che negarla costituirebbe ildisconoscimento di un elemento fondamentale dello spirito e delle tradizioni della nazione.

Quanto alle reazioni della minoranza della corte (vi sono due opinioni dissenzienti, una,sottoscritta da tutti e quattro i giudici soccombenti, redatta dal giudice Kagan, ed una,piuttosto breve, del solo giudice Breyer, che si limita ad esporre una parte delleargomentazioni fatte proprie anche da Kagan), esse non mettono in discussione la liceitàdella pratica della preghiera in un consiglio municipale, ma le modalità della suaorganizzazione nel caso di specie.

Il giudice Breyer lamenta come la maggioranza non abbia censurato le modalità assaimaldestre di organizzazione della preghiera da parte della città di Greece (mancatocensimento delle chiese della città se non tramite la rapida consultazione di un elencotelefonico non ufficiale, ciò che ha condotto ad ignorare i ministri non cristiani, pur presentinella località; mancata sollecitazione del pubblico e dei cittadini in genere al fine di reperireministri di culto o altri soggetti disposti a condurre la preghiera; mancata sollecitazione deiministri di culto partecipanti a tenere nel debito conto il carattere pluralista dell’uditorio cheassiste alle sedute del consiglio municipale e la natura ‘civica’ dell’orazione, ciò che haapparentemente consentito ad uno di questi ministri di qualificare dal ‘pulpito municipale’come “ignoranti” le due ricorrenti, come reazione ad una loro precedente contestazione delcarattere settario della preghiera). Se queste condizioni fossero state rispettate, il giudiceBreyer avrebbe acconsentito alla pratica.

Quanto all’opinione dissenziente del giudice Kagan, molto più articolata, essa ripetel’argomentazione di Breyer, ponendo però al centro del ragionamento un differente punto,considerato irrilevante dalla maggioranza: il carattere di istanza incaricata di provvederedirettamente in materia di richieste dei cittadini nei confronti dell’amministrazione rivestitodal consiglio municipale, carattere estraneo alle assemblee legislative, cui la precedentegiurisprudenza si riferiva. Kagan riconosce la validità della ratio decidendi della sentenzaMarsh vs Chambers (una preghiera non proselitistica, non denigratoria e non apologeticapuò aprire legittimamente i lavori di un’assemblea legislativa), ma tiene a rimarcare lacircostanza, dirimente per la minoranza, che il consiglio municipale è fondamentalmentediverso da un parlamento (statale o federale) in ciò: mentre la preghiera ‘parlamentare’ èdiretta ai soli legislatori, i quali poi adotteranno provvedimenti generali e astratti senzainteragire con alcun pubblico, la preghiera ‘municipale’ si rivolge ad una sala consiliare incui (in virtù del tradizionale ‘repubblicanesimo civico’ americano) siedono a pari titolo, econ facoltà di intervento e petizione, sia rappresentanti istituzionali eletti che comunicittadini, cittadini che, negli Stati Uniti, si recano in consiglio per richiedere l’adozione

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(talvolta seduta stante) di provvedimenti (concessioni, permessi, licenze), altamenteindividualizzati e di elevato interesse personale. Dunque, obbligare chi non aderisce allapreghiera a ‘distinguersi’ dal contesto (lasciando momentaneamente la sala del consiglio,ovvero non eseguendo i gesti raccomandati dall’officiante) significa esercitare unapressione indebita su un soggetto che deve inevitabilmente scegliere tra il conformarsi alcomportamento di coloro i quali, entro pochi minuti, decideranno sull’adozione diprovvedimenti che lo riguardano personalmente ed individualmente, ovvero dissociarsiplatealmente dalle loro pratiche religiose, senza possibilità, a causa delle ridottedimensioni della sala del consiglio e dell’esiguo numero di partecipanti alle sedute (unadozzina, in media), di celare il proprio dissenso in materia religiosa. Secondo l’opinione delgiudice Kagan, partendo pur sempre dal presupposto che gli Stati Uniti sono una “nazionereligiosa”, e dunque che la legittimità in sé della preghiera pubblica non è in discussione,la preghiera ‘municipale’ può essere conformata al primo emendamento, oltrechéadottando le precauzioni suggerite dal giudice Breyer, in due modi: o prescrivendone dinuovo il carattere non settario, ovvero ammettendone il settarismo, ma garantendo allora,attraverso delle procedure rigorose e degli sforzi seri e dimostrabili, l’alternanza sul ‘pulpitopubblico’ di tutti i predicatori del luogo (nella rispettiva veste ‘settaria’), così da rendereevidente la dissociazione del pubblico potere da discorsi religiosi ‘in senso forte’, che sieliderebbero, per la loro incompatibilità, l’uno con l’altro.

Quanto alle considerazioni che l’estensore di questi appunti si sente di aggiungere, sianoconsentite tre brevi notazioni. In primo luogo (e al di là di ogni considerazione sul sel’opposizione settarismo/non settarismo sia il quadro dogmatico più idoneo all’interno delquale dirimere questioni di tale natura), il superamento del non settarismo da parte dellamaggioranza della corte sembra più apparente che sostanziale, e lascia intatti i problemiche il non settarismo sollevava. La giustificazione dell’apparente abbandono del nonsettarismo risiede nella considerazione che ‘sorvegliare’ il rispetto di questo canone daparte dei ministri di culto invitati dalle assemblee legislative equivarrebbe ad operare uninammissibile sindacato contenutistico del messaggio religioso. D’altra parte, la sentenza,in più punti, descrive con accuratezza il contenuto della preghiera ‘ammissibile’ (essa deveessere “solenne e rispettosa nei toni”, “riflettere ideali condivisi e finalità comuni”, nonesibire una “tendenza prolungata nel tempo” alla “denigrazione dei non credenti e delleminoranze”, e non deve includere “minacce di dannazione” o “prediche per laconversione”). Sembra che il non settarismo abbia semplicemente mutato pelle,abbracciando anche persuasioni non cristiane, ma conservando il suo carattere diambigua, incompleta inclusività, tale da permettere alla maggioranza di censurare,escludendole dallo spazio pubblico, quelle manifestazioni di religiosità che non si adeguinoa ciò che essa ritiene essere il riflesso del vivere il proprio rapporto con la trascendenza inmaniera ‘rispettosa’ e ‘condivisibile’.

Secondariamente, non appare del tutto convincente l’utilizzo contemporaneodell’argomento secondo il quale la preghiera pubblica (nella sua nuova veste post-non-settaria) non sarebbe un atto propriamente religioso, bensì una sorta di meditazionefilosofica, morale e civile, come tale accettabile da parte di tutti (ancora, si trattadell’inconsapevole o, per lo meno, mascherata riproposizione dell’argomento non settario

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nella sua essenza originaria), e dell’argomento per cui essa rappresenterebbe l’omaggiodovuto a una tradizione di affidamento ad una dimensione non immanente che hamodellato e continua a modellare lo spirito degli Stati Uniti, offrendo speranza a gran partedegli statunitensi. In merito a ciò, si è spinti a ritenere che sovrapporre argomentazionicosì disomogenee e contraddittorie non aumenti la persuasività della tesi che essesarebbero chiamate congiuntamente a rafforzare. I giudici Alito e Scalia hanno lachiarezza di sostenere, nella loro opinione concorrente, che sarebbe stato meglio limitarsiad affermare che la preghiera è un atto che, se non scopertamente minaccioso odiscriminatorio, non può offendere alcuno, neppure nello spazio pubblico, e dunquenessuna obiezione ad essa merita udienza. Sostenere che la preghiera, anche ‘settaria’,sia un atto caratterizzato da connotati simultaneamente religiosi e non religiosi, e cheproprio per ciascuno di questi suoi attributi, singolarmente e alternativamente apprezzatisecondo le obiezioni ad essa mosse, essa debba venire accolta nell’àmbito dell’eserciziodi pubbliche funzioni, significa mascherare in maniera non particolarmente elaborata unacontraddizione argomentativa piuttosto evidente.

Infine, dal punto di vista dell’osservatore dell’assai più laicizzato Vecchio Continente, destauna certa sorpresa la circostanza che la corte (maggioranza e minoranza incluse) non sisoffermi neppure per un istante a considerare la posizione di chi non si sentisse coartatotanto dal carattere ‘settario’ o esclusivamente cristiano (o, in ipotesi, di qualunque altrapersuasione) della preghiera recitata in uno spazio pubblico, quanto dal fatto stesso che sioperi un accostamento dell’attività religiosa all’esercizio delle funzioni pubbliche. Mentre leottanta pagine della decisione e delle opinioni concorrenti e dissenzienti sezionano conminuziosità le possibili obiezioni alla preghiera pubblica dal punto di vista del dissidentereligioso, nessuna attenzione viene prestata alla sensibilità dell’ateo e dell’agnostico, cosìcome di colui che, pur impregnato di religiosità, si senta contrario alla commistione delledimensioni religiosa e civile. Anche queste persone, a parere di chi scrive, albergano in sédelle opinioni e delle sensibilità concernenti la preghiera negli spazi pubblici, opinioni chericevono protezione dal primo emendamento alla costituzione, e bene avrebbe fatto lacorte a soffermarvisi, seppure en passant.

Come anticipato in apertura, Town of Greece vs Galloway appare come una decisioneargomentata in maniera poco felice, frutto di una vicenda giudiziaria che, per la suaidiosincraticità poco esemplare, non avrebbe forse neppure meritato (alla luce dell’estremorigore nella scelta delle petizioni cui i giudici di Washington accordano udienza) una ribaltacosì luminosa come quella offerta dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. L’effetto di tuttoquesto si concreta in una sentenza che, lo si ribadisce, non pare destinata a divenire unsolido precedente nell’altrimenti combattuta e feconda arena del diritto giurisprudenzialeamericano in materia di libertà religiosa.

** Dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali nell’Università di Pisa – LM University of Cambridge – LLM Columbia University

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Ancora a questo siamo

Carlo Fusaro*

(11 settembre 2014)

Mi scrive in questi giorni un allievo, valido dottore di ricerca con importanti pubblicazioni, inclusa una monografia pubblicata da primaria casa editrice (e senza contributi...):

«Professore,approfitto per aggiornarla sui miei tentativi di ottenere un incarico di insegnamento: comeprevedibile le mie domande a 9 (nove) bandi per le università di A e B1 sono finite in unbagno di sangue (attendo ancora l'esito per due, ma non nutro più [e lo credo! NdR]alcuna speranza).

Ho fatto richiesta di accesso agli atti e, salvo un caso, tutti i vincitori sono senza ildottorato di ricerca e senza pubblicazioni serie (per lo più avvocati e dipendenti pubblici,addirittura in un caso ha vinto un funzionario con la laurea in filosofia!), a fronte dell'art.23, comma 2, della legge Gelmini che afferma espressamente che il phd costituisce titolodi preferenza nel conferimento degli incarichi.

Nei prossimi giorni incontro un avvocato amministrativista per valutare se ci sono ipresupposti per ricorrere al TAR.»

Questa, dunque, è tuttora l'Italia. E questa è l'accademia. Poi si ciancia di cervelli in fugada trattenere o di regole concorsuali da cambiare.

* Università di Firenze, Dipartimento Scienze giuridiche, [email protected] So ovviamente quali sono. Non mancherò di segnalarlo privatamente ai colleghi chevolessero essere più compiutamente informati. In ogni caso: siamo nel Nord del paese(tanto per evitare equivoci antimeridionalisti). Per la precisione. Nell'università A, il mioallievo (dottore di ricerca in diritto pubblico IUS09 - per chiarire), aveva fatto tre domande:Legislazione urbanistica (IUS10: è stato scelto un avvocato senza dottorato); Dirittoambientale (IUS10: altro avvocato, senza dottorato); Legislazione urbanistica e dei beniculturali (IUS 10: sempre a un avvocato, sempre senza dottorato). In questa università A ibandi precisano (!) che il titolo preferenziale del dottorato, quello espressamente previstodalla Legge Gelmini (art. 23, comma 2), vale solo "a parità di valutazione" (sic). Con il cheanche un ordinario di diritto amministrativo rischierebbe di arrivare dietro l'insigneavvocato o funzionario regionale preferito!Nell'università B, gli incarichi per i quali aveva fatto domanda, erano: diritto amministrativo(IUS 10: assegnato a un avvocato con dottorato... in diritto penale); istituzioni di dirittopubblico (IUS09: assegnato a... un docente delle scuole superiori senza dottorato); nozionidi diritto pubblico (IUS09: ad altro avvocato senza dottorato); legislazione dell'integrazionescolastica (IUS09: assegnato a un funzionario regionale, niente dottorato e laurea infilosofia!). Dulcis in fundo: la università B in nessun caso ha fatto graduatoria. Viva l'Italia.

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Giuseppe Di Gaspare, Teoria e critica della globalizzazione finanziaria, dinamiche del potere

finanziario e crisi sistemiche, pag 487, Cedam Padova, 2012.

Lo spiazzamento degli economisti nel rilevare la crisi montante ha dato la stura, dopo il 2007, ad

una deriva irrazionalista, incentrata sul paradigma dell’incertezza. Eventi catastrofici che si

ripetono con monotona ricorsività nella storia della finanza, imprevedibili nel loro manifestarsi

come gli sciami sismici e, altrettanto sconvolgenti e naturali, come gli tsunami. Un’illuminante

serie di truismi collaterali accompagnava spesso questi giudizi. La crisi frutto dell’avidità e della

ingenuità umana, apparentemente ben ripartite tra speculatori e consumatori. Comportamenti

irrazionali dettati da spiriti animali insopprimibili.

La conclusione ovvia, anche se non esplicitata, di molti di questi discorsi era che fosse inutile

insistere più di tanto per cercare l’origine della crisi.

Ero, viceversa, convinto che dietro la crisi ci fossero cause identificabili e che bisognasse indagare

più a fondo. Anche la crisi finanziaria, per quanto complessa, è vicenda umana e per farvi

fronte non possiamo rinunciare ad usare la ragione e a ricercare una spiegazione causale piuttosto

che casuale.

Come ex funzionario della Consob ero incline a pensare che prevenire le crisi fosse essenzialmente

un problema di regole. Regole che prima c’erano e che erano state soppiantate da altre,

confezionate ad arte per la reificazione del “meta mercato finanziario”.

Diveniva,così, sempre più consistente il dubbio che fosse stata la patologia della speculazione

finanziaria a generare la fisiologia dell’incertezza dei mercati monetari e finanziari, dalla quale la

speculazione trae alimento e che, per questa ragione, la patologia rimanesse occultata dietro

l’apparentemente caotica fenomenologia della crisi.

Al centro di questo libro finivano così gli espedienti giuridici ed i meccanismi istituzionali che

tracciano i percorsi ove debordano le turbolenze valutarie e finanziarie, grazie anche alla sponda

di una politica imbelle quando non complice.

Ci si è inoltrati dunque su di una pista diversa da quella deresponsabilizzante della congenita

incertezza dei mercati. Nel ripercorrerla, le spiegazioni macro e micro economiche, gli aspetti

monetari e finanziari, il loro impatto sull’economia reale e l’ approccio politologico, più che

contrapposti, venivano ad essere chiariti in una visione d’insieme in cui, gli uni e gli altri,

acquistano senso nella reciproca interconnessione.

Spero che la trattazione renda evidenti gli stratagemmi e gli illusionismi messi in atto dai - e nei

- mercati finanziari e la loro capacità di manipolazione/ creazione irrealistica della realtà. Nel

“reality globalizzante” il diritto ha svolto il compito di oscuro forgiatore di simboli, entità e

strumentazioni per l’ arbitraggio e il signoraggio finanziario. Nella ricerca si è man mano

evidenziato come.

Nello sforzo di mettere a fuoco il disvelamento delle forze che hanno generato la crisi, ho

ricostruito modalità, dinamiche e trasformazioni di quello che ho chiamato il “meccanismo

dollaro-centrico” a partire dal suo innesco dopo l’abbandono di Bretton Woods nel 1971.

La retrodatazione ha fatto riemergere, al di sotto della stratificazione fenomenica degli eventi, le

strutture portanti del cambiamento e le concatenazioni dinamiche che precipitano nell’attuale

equilibrio catastrofico dell’ economia globale finanziarizzata.

La genesi storica riscoperta mostra inaspettate prospettive e radicali inversioni di senso nei nessi

di causalità uniformemente accreditati dalla storia economica ed istituzionale. La liberalizzazione

dei movimenti speculativi dei capitali non è stato l’ultimo incastro, inevitabile e un po’ turbolento,

di un processo comunque progressivo di liberalizzazione degli scambi, ma appare invece la causa

scatenante della apertura dei mercati dei beni e dei servizi. Anzi, il confuso passaggio dal GATT

al WTO negli anni ’90 si spiega solo in ragione e per effetto della liberalizzazione dei movimenti

dei capitali.

Da questo approccio, meno idilliaco e provvidenziale, alla globalizzazione, consegue una

concezione delle recessioni economiche, delle guerre valutarie nonché delle crisi geopolitiche

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militari che ci circondano come rischi endemici indotti dalla globalizzazione finanziaria e dalla

conservazione dell’egemonia dollarocentrica cui essa si collega. Criticità dunque che si

ripropongono spinte dal motore finanziario della globalizzazione ed i cui effetti sono accentuati

anche dalla parziale desovranizzazione degli stati nazionali e per quello che ci riguarda più da

vicnio dalla complessa incompleta e fragile architettura delle nuove forme di collaborazione

internazionale come l’UE.

Nel libro il rapporto tra globalizzazione finanziaria ed economica risulta perciò invertito rispetto

alla comune narratizzazione. Una rottura di continuità con il periodo precedente dell’”economia

mondo”, per l’innesco delle dinamiche globalizzanti scatenate dall’ “emancipazione” della

finanza speculativa dall’economia reale. Il ribaltamento è rimasto occultato dietro l’ apparente

continuità della centralità della moneta statunitense che trasmette al sistema monetario

internazionale, in modo endogeno al suo funzionamento, l’ instabilità e volatilità da cui originano le

crisi. Il “ meccanismo dollaro centrico” nel libro è smontato nelle sue componenti strutturali a

partire dal nesso tra “keynesianismo finanziario” e new economy nel calcolo del PIL e nel suo

versante interno di aggressiva apertura e liberalizzazione dei mercati. Nel XXI secolo il

meccanismo perde colpi e si finanziarizza ulteriormente con un ulteriore slittamento del

baricentro dollarocentrico nel mercato finanziario globalizzato che si mette in sicurezza

esternalizzando il rischio dopo la bolla dei derivati nell’economia reale.

Gli ultimi capitoli riguardano l’ unione europea, l’eurozona e l’ Italia con un taglio propositivo in

una logica politica di riposizionamento strategico e di coesione comunitaria. Sono discusse

possibili politiche di contenimento della speculazione finanziaria - se la conosci non ti uccide - e

di messa in sicurezza del vecchio continente anche dalle crisi geopolitiche indotte dalla traballante

egemonia dollarocentrica.

Mi azzarderei a dire, concludendo, di aver abbozzato una pista di ricostruzione teorica su base

storica dotata di senso esplicativo delle dinamiche globalizzanti, intercorse dall’abbandono della

convertibilità del dollaro ad oggi, con qualche spunto finale per un approccio politico alla crisi in

atto nell’eurozona. Una ricostruzione di lungo periodo dunque complessa e articolata - di cui la

struttura del libro dà immediatamente conto - ma inevitabile per chi ritiene che la comprensione

della storicità ininterrotta del presente sia essenziale per riflettere sul come affrancarsi dal

dominio dei mercati finanziari sull’economia reale e dunque sulle nostre vite, in una prospettiva

meno angusta di quella in cui il quotidiano, reiterato bombardamento mediatico degli indici e

degli spread costringe e restringe la nostra visione d’insieme.

Lo scritto si rivolge dunque ad un pubblico avvertito, con le mie stesse preoccupazioni,

sconcertato ma non piegato dagli arroganti sillogismi degli analisti finanziari che vorrebbe

capire meglio come si è originata la crisi e come stia evolvendo, per cercare di circoscriverla e

contrastarla più efficacemente.

. Nello scrivere, ho ricercato la semplicità concettuale fino al punto in cui questa è perseguibile

senza cadere nella banalizzazione. Per rendere scorrevole il discorso, ho inserito direttamente nel

testo le note essenziali. Richiami favolistici e metafore soccorrono, qua e là, per accedere ai

paradossi che in queste vicende non scarseggiano.

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LUIGI FRANCO*, La delegazione legislativa e i tempi dell’ordinamento, Napoli, E.S.I., 2014, pp. VIII- 193.

La monografia indaga il rapporto tra principio e dettaglio nella produzione legislativa primaria, individuando nel tempo la struttura fondamentale lungo la quale si articolano i rapporti tra principio e dettaglio. Del resto, la stessa formulazione letterale dell’art. 76 Cost. sembra spingere in questa direzione, indicando nel «tempo limitato» l’elemento strutturale ed indefettibile affinché possa validamente darsi il rapporto di delegazione tra Parlamento e Governo.

Lo studio del «tempo limitato», proprio della delega legislativa, si occupa pertanto della differente temporalità che caratterizza i princìpi, posti nella legge di delega, dal dettaglio, dato con il decreto legislativo. A partire da questa premessa il lavoro fa emergere la diacronia del principio: sulla base della distinzione tra efficacia e applicabilità dei princìpi, viene distinto il tempo del principio, la cui efficacia risulta indipendente dalla sua applicabilità mediante il dettaglio, dal tempo del dettaglio, che è condizionato dal principio e, pur essendo destinato ad inverare il principio, può essere abrogato o modificato indipendentemente dall’incisione del principio. Il tempo del principio, dunque, assume una dimensione virtuale e diacronica, che conforma la relazione con il dettaglio. Il tempo pone e condiziona la relazione tra i due termini del rapporto (il principio e il dettaglio); in tal modo lo spirare del termine temporale, che ab origine limita e legittima il transitorio potere legislativo dell’Esecutivo, non si riflette sui princìpi della delega, i quali contribuiscono a conformare il settore materiale cui si riferiscono.

Per altro verso, lo studio si occupa dell’affermazione secondo cui, almeno nei primi decenni della vita dell’ordinamento repubblicano, il potere legislativo delegato è stato per lo più considerato di carattere eccezionale o derogatorio rispetto alla normale produzione legislativa. Di qui la domanda se il tempo della delegazione sia il tempo dell’eccezione. Per alcuni aspetti questa sembra la posizione della Corte costituzionale, dalla sentenza n. 3 del 1957 sino alla 171 del 2007. Tuttavia il lavoro, anche alla luce della dottrina, cerca di mostrare come lo strumento della delega legislativa sembri anche caratterizzato da una intrinseca elasticità, che lo ha trasformato nello strumento della politipica normalità della produzione legislativa delegata: si va dalle grandi riforme economico-sociali dei primi decenni del secondo dopo guerra alle deleghe degli anni Novanta, sino a giungere alle deleghe connesse alla «manutenzione del libro delle leggi» e alla semplificazione dello stock normativo vigente. A seconda del modo in cui la delega viene concepita ci si trova al cospetto di differenziate dimensioni temporali: si passa dal progetto di trasformazione, proiettato nel tempo a venire, alla signoria del tempo presente, che si realizza allorché le leggi di delega vengono approvate con lo strumento ‘motorizzato’ delle leggi di conversione (su cui è recentemente intervenuta la Corte costituzionale).

Il «tempo limitato» dell’art. 76 Cost., dunque, si coniuga con le molteplici dimensioni temporali di cui l’ordinamento ha fatto esperienza nel proprio divenire. Per questo il lavoro si interroga non solo sul tempo, ontologicamente limitato, del rapporto di delegazione, ma anche sulle differenziate dimensioni temporali che la delegazione legislativa porta con sé. In tal modo la delegazione è posta direttamente in rapporto con i tempi dell’ordinamento o – se si vuole – con il differenziato divenire storico dell’ordinamento.

La questione si fa particolarmente complessa allorché la monografia si occupa del tema della decretazione integrativa e correttiva. La vicenda dei decreti integrativi e correttivi pone il problema se il «tempo limitato» della delega debba essere ricondotto alla tesi dell’istantaneità, secondo la quale il potere legislativo delegato si consumerebbe uno actu, ovvero se – sino allo scadere dei termini temporali – possa darsi anche un esercizio non solo frazionato ma anche ripetuto della delega. In tal modo vengono in rilievo altre differenziate dimensioni temporali del tempo della delega. La Corte costituzionale ha

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ammesso la possibilità dell’esercizio ripetuto e dell’esercizio frazionato della del potere legislativo delegato. Per tale via lo studio giunge ad affrontare il tema di un decreto integrativo e correttivo di interpretazione autentica, che pare ribaltare la relazione temporale tra principio e dettaglio, tra la diacronica dimensione del tempo del principio e quella del dettaglio del decreto. La relazione temporale non appare più linearmente determinata, ma si fa estremamente complessa: non ci si trova più davanti ad un dettaglio che invera il principio, ma ad una sorta di retroattività del decreto legislativo di interpretazione autentica, la quale tuttavia sembra, sia pur debolmente, confermare la diacronica dimensione temporale dei princìpi.

Sulla base dei risultati raggiunti in dottrina, la monografia affronta anche la questione, sorta negli anni più recenti, del decisivo mutamento della dialettica Governo-Parlamento. In forza di questo mutamento il Governo si è sempre più spesso stato presentato come ‘signore delle fonti’. Al di là della valutazione del fenomeno – che potrebbe revocare in dubbio la forma di Governo parlamentare, divenendo schmittiana cartina di tornasole della realtà costituzionale e sintomo dell’evoluzione della Costituzione –, il lavoro cerca di mostrare che si tratta di una trasformazione che coincide con un cambiamento della stessa dimensione temporale della delegazione: non perché non sia più previsto il «tempo limitato», ma perché la dimensione temporale della delega pare priva di respiro, risultando schiacciata su di un orizzonte temporale presente, sul quale incombono pressioni, esterne al circuito rappresentativo e alla relazione Parlamento-Governo, di difficile decifrazione.

Per altro verso, con il venir meno dell’assiologia del progetto, al programma – paradigmaticamente indirizzato al futuro – si è affiancata la manutenzione del libro delle leggi. Sotto questo profilo il lavoro cerca di mostrare come alla dimensione del futuro, che caratterizza l’operare del principio, si sia sostituita la centralità del presente (e delle sue urgenze), come nel caso delle menzionate deleghe disposte nella legge di conversione di un decreto legge. Le urgenze e le incertezze dell’epoca della globalizzazione paiono aver così trasformato il progetto ed il programma nell’agenda, nelle cose da farsi nell’immediato futuro, al di fuori di un disegno complessivo condiviso e discusso nella società e nel Parlamento.

In questo contesto viene anche affrontato il caso della carente formulazione dei princìpi, in relazione al quale la Corte costituzionale ha fornito una lettura minimale della delega. Ma in tal modo il Giudice delle leggi è sembrato consentire al legislatore delegato una ridotta capacità novativa: con la conseguenza che la delega in senso minimale sembra obbedire prevalentemente ad esigenze di riordino e di certezza del diritto, ritagliando al tempo stesso una dimensione temporale di carattere retrospettivo, anziché proiettata a delineare l’orizzonte di senso del tempo futuro.

Riflettere sul «tempo limitato» della delegazione legislativa significa, dunque, tornare su di uno snodo cruciale. Sul piano del sistema delle fonti, si rende esplicito un resto di gerarchia nella relazione tra Parlamento e legislatore delegato, sicché si potrebbe concludere che il principio dipende dal dettaglio, il quale però è reso possibile dalla diacronica dimensione temporale del principio. In questa dialettica relazione il «tempo limitato» dell’art. 76 Cost. si connette alla diacronia dei princìpi, la quale – in un momento segnato dalle incombenti urgenze del presente – potrebbe essere ancora in grado di delineare un orizzonte di senso per il tempo a venire e di preservare una dimensione pluralistica, coessenziale ad un ordinamento originariamente democratico.

*Dottore di ricerca in Diritto costituzionale italiano ed europeo, Luigi Franco ha pubblicato la monografia Autonomia della famiglia e identità personale. Tra sovranità interna e sussidiarietà performativa europea, Napoli, E.S.I., 2012.

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