esplicitazione della filosofia terapeutica e strategia congiunta ......esplicitazione della...
TRANSCRIPT
Esplicitazione della filosofia terapeutica e strategia
congiunta per l’invito all’allargamento ai familiari significativi
2.1 EPISTEMOLOGIA, PARADIGMI E MODELLI
PSICOTERAPEUTICI
Nell’indagine clinica e nella terapia si usano costantemente modelli per
pensare e agire meglio in funzione della soluzione dei problemi posti.
Rappresentano delle ipotesi parziali che debbono essere verificate nei fatti
e, allo stesso tempo, essere corrette in rapporto a questi. Il pericolo dei
modelli è dimenticarsi che sono sempre semplificazioni di una realtà più
complessa e come tale in permanente modificazione dialettica. Un modello
concretizza un paradigma, è una metafora di quello stesso paradigma per
una lettura della realtà. La metodologia terapeutica è strategia e disegna il
progetto del trattamento. La tattica è che cosa fare per realizzarlo e in che
momento, e la tecnica è come farlo. Le prime due sono scienza e le ultime
due sono arte.
Ci sono diversi approcci terapeutici per gli stessi problemi presentati e tutti
sono efficaci, dipendendo da alcuni fattori.
a) Ci deve essere una coerenza epistemologica e la convinzione
(dimostrata dall’esperienza) dell'efficacia del metodo impiegato.
b) Si devono applicare un insieme di tecniche variegate e versatili dirette
allo stesso obiettivo.
c) Ci deve essere una Filosofia Terapeutica come substratum delle tecniche
impiegate.
d) Bisogna avere capacità di tolleranza alla sofferenza psicologica ed
emozionale.
e) Occorre chiarezza nell'esplicitazione della strategia terapeutica e
coerenza tra quello che si pensa e quello che si dice, e tra quello che si dice
e quello che si fa.
Per questa coerenza occorre, oltre all’esperienza acquisita, la maturità
personale del terapeuta, per cui è anche utile una certa maturità
anagrafica. Intorno ai 40 anni, è un’età dove iniziano a convergere tutti
questi fattori.
f) E finalmente avere un atteggiamento ottimista verso la possibilità di
cambiamento e l’ottenimento di un miglioramento e/o superamento dei
problemi patiti.
2.3 FILOSOFIA TERAPEUTICA
Un modello, per essere efficace, deve rendere conto di determinate
condizioni:
a) Deve esporre una teoria comprensibile del disagio individuale e delle
strade percorribili per un suo superamento.
b) Deve applicare un metodo d’intervento che sia allo stesso tempo
diagnostico e terapeutico
c) Deve applicare un insieme di tecniche terapeutiche
d) Deve possedere una filosofia terapeutica, ossia esplicitare una teoria del
cambiamento applicata a obiettivi terapeutici, etici e possibili.
Studiando i processi terapeutici di soggetti giovani adulti (e anche meno
giovani) si potrebbe dire che il 70 - 80% dei contenuti delle sedute
individuali gira intorno a problemi riguardanti la difficile differenziazione
dalla Famiglia di Origine e il conseguente difficile inserimento nella
società in un progetto esistenziale soddisfacente.
Seguendo la linea di autori come Bowen (1978) che per primo insistette
sull’importanza della differenziazione dell’individuo dalla sua famiglia di
origine, facendo ritornare i suoi pazienti a casa dei parenti per parlare loro
da una “ I position”, per cercare di detriangolarsi emotivamente da loro,
rimanendo però nel campo psicologico della stessa famiglia. E anche
quella di Boszormenyi –Nagy, che insisteva sui meriti e demeriti
accumulati nella storia multigenerazionale degli individui e delle loro
“lealtà familiari”; e anche quella di Framo, che invitava i membri delle
Famiglie di origine ad assistere a sedute che facilitavano il processo
terapeutico: “
D’altra parte, sono convinto che un’unica seduta fatta con un adulto e i
suoi genitori, fratelli e sorelle, possa a volte avere effetti più vantaggiosi di
quanti si osservano dopo un ciclo completo di psicoterapia” Framo (1996).
L’essere umano adulto si dibatte permanentemente in un asse che oscilla
tra due grandi bisogni: il bisogno di appartenenza a un sistema familiare
che ci ha dato la vita e il nome e con cui abbiamo accumulato migliaia e
migliaia d’interazioni, e il bisogno di differenziazione, spinta spontanea
che ci porta a esplorare il mondo e disegnare un progetto esistenziale
autonomo per inserirci creativamente nella cultura circostante e,
eventualmente, riciclarci con la nostra discendenza in un meccanismo
transgenerazionale di sopravvivenza dei valori positivi ereditati.
In questo asse più o meno tormentato, più o meno facilitato dalle famiglie
di origine e dalla società in cui viviamo, si inscrivono le disfunzionalità
più frequenti che portano un cliente in terapia.
È per agevolare questo processo di differenziazione che da anni convoco
sistematicamente i familiari significativi in seduta, chiedendo il loro
contributo e cercando di metterli a favore di un processo terapeutico, non
contro.
Ribadiamo che uno dei miti più pervasivi della psicoterapia è quello di
pensare che un soggetto anagraficamente adulto debba destreggiarsi in
quel difficile periodo senza ricorrere all’aiuto della famiglia di origine,
soprattutto se non è un soggetto psicotico, con una chiara dipendenza
emozionale e fattiva dai suoi familiari.
Questo pregiudizio è una delle cause di parecchie impasse terapeutiche e
drop-out, mettendosi il terapeuta, consapevolmente o inconsapevolmente,
in un “braccio di ferro” micidiale con le famiglie di origine, con
conseguente perdita di tempo, energia e - soprattutto - con
l’impoverimento qualitativo di una psicoterapia.
Convocare le famiglie di origine, chiedere il loro contributo, chiarire i
malintesi e, quando possibile, favorire un incontro emozionale intenso che
aiuti la differenziazione, può essere il modo più veloce per aiutare un
individuo a disegnare un progetto esistenziale percorribile per
l’inserimento creativo nella società e non contro una famiglia, vissuta
come ostile e poco collaborativa.
I pregiudizi dei terapeuti nascono, secondo me, da un’inadeguata
comprensione delle dinamiche familiari che formano parte della vita
relazionale di un individuo, ed anche dalle difficoltà non risolte con le
proprie famiglie dei terapeuti.
I terapeuti che ascoltano i lamenti dei loro pazienti senza prendere in
considerazione la loro ambivalenza sono come coloro (amici o parenti) che
ascoltano i membri di una coppia separatamente, senza vederli in
interazione.
Tutti alla fine diranno: se il tuo partner è così inaffidabile e disattento, che
ti maltratta e non ti vuole bene, separati, sarà la cosa migliore per te!
Vedendoli in interazione capiranno che la relazione è quella che conta,
circolarmente, nella spiegazione delle loro sofferenze (e piaceri) e che mai
una lettura individuale potrà spiegare la complessità del loro legame.
Quanti terapeuti sentono che hanno dato il loro sangue per alcuni pazienti,
che dopo una vita di lamenti e discorsi intorno alla malvagità o follia dei
loro parenti significativi, per un evento fortuito che modifica la loro
interazione familiare (una malattia improvvisa o morte di un genitore, un
incontro emozionale chiarificatore, un’improvvisa conferma delle loro
capacità, ecc.) fanno un voltagabbana incomprensibile nella loro terapia, o
un drop-out che lascia sgomenti i terapeuti, che non hanno
sufficientemente considerato le lealtà familiari o hanno creduto nel
parziale transfert idealizzato dei loro pazienti, senza capire la loro insita
ambivalenza.
Noi terapeuti siamo sempre più deboli di un sistema familiare, e solo la
consapevolezza di questa nostra debolezza ci può dare la forza
d’intervenire in modo, a volte intrepido, nelle dinamiche familiari,
favorendo un incontro chiarificatore che possa servire da spinta alla
realizzazione personale autonoma, fuori dal contesto familiare.
Il sentimento di appartenenza, che non si esaurisce mai, ma che viene
riciclato con i nostri figli in un legame biologico, fortemente endogamico
come il vincolo di filiazione, che ci unisce sia ai nostri avi che ai nostri
figli, cambia col tempo, ma non si perde mai.
Avremo sempre bisogno di essere in relazione con i nostri genitori e
fratelli, fino all’ultimo giorno della loro o della nostra vita, solo che ci si
dovrà adeguare al momento del ciclo vitale della famiglia e degli individui
che la compongono.
Portare dentro di noi l’odio per un genitore con cui non abbiamo potuto
chiarire la nostra relazione, farà sì che odieremo per sempre una parte di
noi stessi o, peggio ancora, vedremo dei nemici dappertutto, nei nostri
partner o nei nostri figli, in un illusorio tentativo di sollevarci da questa
sofferenza.
Mentre i genitori sono in vita, e non importa a quale età, un incontro
terapeutico che possa affrontare i nodi irrisolti e possa eventualmente
scioglierli, può cambiare una vita.
Ho visto delle situazioni trascinate per anni senza risoluzione, che tramite
un adeguato chiarimento, e quando possibile ascoltando la richiesta sincera
di perdono di un genitore anziano, che riconosce i suoi torti, possono
cambiare completamente i vissuti di un paziente (vedere il paragrafo “Il
perdono nelle situazioni traumatiche”).
Ho lavorato con molti pazienti che dopo un taglio emotivo (cut-off di
Bowen) dall’adolescenza e per forse 20 – 25 anni, cercavano di farcela da
soli anche tramite uno o più trattamenti individuali incompleti, per poi
approdare a una richiesta di aiuto.
Li ho visti molte volte cambiare completamente dopo un approccio
familiare che abbia chiarito i malintesi e permesso di capire situazioni
apparentemente incomprensibili.
Molte volte questi tagli emotivi si producono attraverso una scelta per
opposizione di un partner non accettato dalla famiglia di origine, cosa che
rende più difficile la comprensione di quell’allontanamento parziale,
giacché un’eventuale separazione da costui può essere vissuta come un
fallimento, o l’ avvicinarsi alla famiglia di origine come una capitolazione
delle genuine proteste di una volta.
Chiarito questo, nella misura del possibile, può agevolare un incontro
positivo che non potrà purtroppo recuperare gli anni persi nella creazione
di un vero Sé (Winnicott), ma che solo attraverso questo recupero della
dimensione familiare potrà essere integrato adeguatamente.
Questi due miti, correlati tra di loro, (il paziente che essendo
anagraficamente adulto deve prescindere dall’apporto familiare, e
allontanare fisicamente ed emozionalmente i pazienti dalle loro famiglie di
origine per aiutarli a differenziarsi) sono i più pervasivi delle terapie
individuali, sia psicodinamiche che cognitive e individuali sistemiche.
Riuscire a porre in atto le condizioni di un incontro emozionale che possa
ricreare le condizioni di un nutrimento affettivo e di una conferma di se
stessi, aiuta i pazienti a trovare la spinta spontanea per la realizzazione dei
loro progetti autonomi, e l’aiuto terapeutico sarà più facile dopo questo
percorso.
I nostri genitori, oltre che darci la vita e l’amore necessario per la nostra
crescita, devono darci la conferma di noi stessi (riconoscere l’autonomia e
il disegno del progetto esistenziale in libertà, le nostre valenze come
persone originali e non solo prodotto dei desideri o del modellamento della
famiglia di origine, ecc.).
Solo che quanto appartiene a noi ce l’hanno loro, e non sempre ce lo
vogliono dare, per paura di perderci. Se ti siedi a tavola e ti sazi, la cosa
più frequente che potrebbe succedere è alzarti e andartene per la tua strada.
La reticenza emozionale e il “non dare soddisfazione” possono essere
strategie frustranti che hanno come senso trattenere i figli per non sentire il
vuoto esistenziale o l’adeguamento del rapporto, con minore dipendenza.
Chiarire queste dinamiche e favorire l’incontro emozionale - come
vedremo più avanti - possono essere la base di partenza per una ricerca
spontanea del proprio progetto esistenziale (a meno che si pensi a una tara
genetica o ad una mancanza di enzimi o neurotrasmettitori cerebrali che lo
impediscano).
Come si vede, il “ritornare per ripartire meglio” è una strategia
assolutamente paradossale e molto più effettiva per assicurare la
differenziazione che farà sì che molti sintomi non abbiano più ragion
d’essere.
Attacchi di panico, frustrazioni sentimentali reiterate, depressioni
ingiustificate, abbandono di carriere, ecc., non sono a volte che tentativi
magici di fermare il tempo, o andare a ritroso per cercare di elaborare lo
“svincolo” mancato.
Questa chiave di lettura dei problemi individuali presuppone la fase del
processo terapeutico in cui l’invito all’allargamento alle sedute con i
familiari significativi diventa indispensabile per passare poi a una fase
diversa, più centrata stavolta verso l’incontro con se stessi e il disegno di
un progetto esistenziale autonomo, rispetto al quale il terapeuta sarà più un
facilitatore che non un mediatore come nella fase precedente.
2.4 I CORMORANI E LA REPROGRESSIONE BIOLOGICA
Juan Rof Carballo, psicosomatologo spagnolo, nel suo più bel libro Ordito
affettivo e malattia (1961), enfatizza la capacità plastica dell’organismo di
reagire alla malattia o al trauma facendo regredire i tessuti a fasi meno
differenziate di sviluppo per ritrovare una capacità rigenerativa.
“Se i sistemi biologici non fossero capaci di regredire a una fase primaria
dello sviluppo, cioè a una fase embrionale della loro struttura, meno
differenziata, l’organismo perderebbe uno dei suoi più importanti
meccanismi di sicurezza” (pag. 40).
E aggiunge: “Se a un dato momento subentra una situazione che
l’individuo non è capace di tollerare, la struttura umana crolla e cade in
depressione o nevrosi. Allora, se l’ordito della personalità umana fosse
definitivo, il problema non avrebbe soluzione. Gli uomini sarebbero
inclusi dentro quel tipo umano sclerosato, pieni di anchilosi spirituali,
rigido e inerte, che tante volte troviamo nella vita, esercitando intorno a
loro un’influenza nefasta, tante volte mascherata di falsa morale.
Ma la natura, anche nella sfera psichica, ha disposto le sue strutture in
forma che possano rifarsi.
Il gran mistero della physis ippocratrica forse radica in questa disposizione
della vita a ricreare di nuovo quello che è stato distrutto dal trauma o dalla
malattia. La personalità dell’uomo, come la sua biologia, conserva
plasticità, cioè è capace anche di rifarsi, riformarsi fino alla sua
profondità” (pag. 41). Descrive poi le ricerche di Kortland (1955), zoologo
di Amsterdam, con i cormorani, uccelli marini che prima di spiccare il
volo fanno una regressione a fasi precedenti dello sviluppo.
Il cormorano, come l’uomo, aspira ad essere indipendente, a maturare
come soggetto autonomo. Questo riesce a farlo dopo cinque tappe, cinque
“salti”. All’inizio di ogni salto, il cormorano regredisce a modi di agire più
infantili, cioè, meno organizzati di condotta, per poi progredire, cioè
diventare più indipendente e autonomo.
Kortland parla di manifestazioni reprogressive: “Ci sono occasioni in cui il
cormorano rimane qualche tempo senza territorio, come un vagabondo; c’è
tuttora una quarta crisi, anche con assenza dalla colonia per qualche
giorno, finché torna e gode dell’alimentazione dei suoi genitori. Dopo due
o tre giorni, già maturo, scompare per non essere più visto fino alla
prossima primavera. Questa ultima fase gli ha procurato piena
indipendenza e, libero, vola, senza fare caso ai cinguettii di chiamata dei
genitori, verso le coste della Tunisia, Francia o Spagna”.
È commovente la similitudine di questa descrizione con i racconti di molti
genitori, disperati di fronte a comportamenti erratici e incomprensibili dei
loro figli, accusati tante volte di crudeltà o indifferenza, quando in realtà
tentano, a volte in modo disperato, di trovare il loro cammino.
Rof Carballo paragona questo concetto di Kortland della reprogressione
alle vicissitudini della psicoterapia analitica, quando il paziente entra in
regressione per tornare a fasi più primitive della vita umana, per poi sotto
la tutela dell’analista, dare vita ad un’integrazione della persona umana più
salda e armoniosa. Più resistente alle diverse circostanze della vita.
Michael Balint (1983) parla di questo fenomeno nel suo libro “La
regressione”, dicendo che è importante accompagnare la regressione del
paziente fino ad un nuovo inizio. “Il nuovo inizio significa: a) ritornare a
qualcosa di primitivo, ad un punto precedente l’inizio dello sviluppo
difettoso che potrebbe essere descritto come regressione; e, b) nel
contempo scoprire una modalità nuova, più adeguata, che equivale a un
progresso. Ho chiamato il sommarsi di questi due fenomeni fondamentali
regredire per progredire” (pag. 260).
Rof Carballo continua, dicendo: “Si dimentica spesso che probabilmente
ogni progressione, cioè ogni passo a una struttura più integrata, complessa
e autonoma richiede per arrivare a buon fine una regressione previa.
Reculer pour mieux sauter è un precetto che ha un’evidente realtà
biologica come ha comprovato Kortland con i cormorani”.
E finisce con una frase profonda e piena di suggerimenti: “Acaso la
funciòn biològica de la emociòn sea la de mantener al hombre en
sempiterna posibilidad de immadurez, es decir, de reprogresiòn…” “Forse
la funzione biologica dell’emozione è quella di mantenere l’uomo in
permanente possibilità d’immaturità, cioè di reprogressione…”, pag. 42).
Questa metafora della reprogressione possiamo applicarla molto bene a
situazioni della vita dei giovani adulti che, non sentendosi sufficientemente
forti per spingersi in un progetto autonomo, si deprimono o cambiano
professione inspiegabilmente, per regredire in un modo incomprensibile ai
loro parenti.
Manuel, studente brillante, era cresciuto nella sua famiglia di origine con
una prematura autonomia, forgiando un carattere autosufficiente,
arrangiandosi sempre da solo senza chiedere aiuto, finché una volta
laureato con i massimi voti, decide di abbandonare la sua carriera,
rifiutando un sistema lavorativo e sociale che non appagava i suoi bisogni
di libertà.
Entrando in depressione, cerca un terapeuta individuale che lo possa
aiutare. Il suo terapeuta convoca i genitori in seduta, prima separatamente
e, poi, insieme con Manuel.
Nella seduta con la madre, giovane e bella signora, questa racconta come
Manuel, già da piccolo (il primo di tre fratelli) organizzava la sua vita e i
suoi giochi senza chiedere mai aiuto, nascondendo una personalità
ipersensibile sotto una corazza di autosufficienza.
Lo invita ad avere pazienza e cercare un lavoro dipendente per fare
un’esperienza necessaria per la sua formazione.
Nell’incontro col padre, affermato professionista che aveva sempre dato a
Manuel un modello d’identificazione, costui racconta che nella sua storia,
una volta affermato nella sua professione, abbandona inspiegabilmente
questa posizione di successo, e attraversa un periodo di smarrimento che
gli permette di ricontattarsi col padre, dopo anni di allontanamento
emozionale per discrepanze familiari.
Questo nonno di Manuel, aiutò molto il figlio e gli permise una nuova
scelta professionale, più autonoma e soddisfacente, avvicinandosi molto al
figlio e godendo , fino alla morte del nonno, di una relazione
emozionalmente più soddisfacente per entrambi. Il padre di Manuel offrì al
figlio aiuto economico per permettergli un anno di ricerca più libera di una
strada più soddisfacente.
Manuel, che per anni era stato razionale e autosufficiente, durante
l’incontro pianse come un bambino spaesato di fronte a quello che vedeva
come un fallimento. L’approccio affettuoso e comprensivo di questi
genitori e dei suoi fratelli, più l’esperienza dello zaino, (sarà spiegata più
avanti), permisero a Manuel di ripartire più rinfrancato verso una nuova
scelta di lavoro, questa volta più appagante.
L’incontro casuale con una ragazza conosciuta con un gruppo di amici
fece nascere un rapporto sentimentale positivo, e Manuel ripartì verso il
suo progetto esistenziale, questa volta più “umanizzato” dall’esperienza
avuta.
Durante il percorso terapeutico, quando si incontrano situazioni poco
chiare , la “reprogressione biologica” ci può spiegare come, stranamente,
un paziente che sta migliorando sorprendentemente peggiora, con la
conseguente sfiducia nella terapia e con sorpresa del paziente, della sua
famiglia di origine e, a volte, anche del terapeuta.
Paradossalmente, questo peggioramento è un miglioramento, giacché il
paziente, grazie anche alla sua terapia ha adesso la forza di affrontare temi
o situazioni lasciate in disparte per mancanza di forza nell’affrontarle.
Questo ritornare indietro per ripartire meglio lo ritroviamo in molte
situazioni familiari, coinvolge figure significative e rappresenta (come il
caso di Manuel) il bisogno di ridefinire la relazione con le sue figure
genitoriali di riferimento: “congedarsi” da loro e da tappe pregresse della
vita e ripartire, aiutato dal consenso familiare e dal nutrimento affettivo
ricevuto per un avanzamento a fasi o tappe della vita mai raggiunte prima.
Questo prendere forze per affrontare sviluppi qualitativi nuovi , non si può
e non si deve intendere come peggioramento, bensì come oscillazione
necessaria del processo terapeutico che non avviene mai in linea retta
ascendente, bensì a zig zag (fig.1).
figura 1
Il down del punto B (50%), è comunque indice di un miglioramento
acquisito riguardo all’up del punto A (30%) e così via, punto down C
(80%), ecc. Molte volte i pazienti che tendono a dimenticare lo stato di
sofferenza dell’inizio della psicoterapia si scoraggiano di fronte a nuove
difficoltà che li mette in ansia, e credono - o dicono - che non ci sono stati
progressi. Un semplice chiarimento o la visione di questo diagramma gli
permette di capire meglio il loro percorso terapeutico e superare momenti
di sconcerto. Momenti evolutivi del ciclo vitale degli individui in terapia,
per esempio un matrimonio o la nascita di un figlio, o il conseguimento di
un successo professionale, possono essere preceduti da un momento di
retrocessione, di dubbi, di perplessità, per poi attingere a quelle mete in un
movimento reprogressivo. La ridefinizione che il terapeuta può dare di
questi momenti può essere fondamentale per prevenire lo scoraggiamento
o, a volte, il drop - out che può avvenire inspiegabilmente.
2.5 LA CENTRALITÀ DEL PAZIENTE COME PROTAGONISTA
DEL CAMBIAMENTO
Il primo obiettivo delle prime sedute con il solo paziente è quello di
verificare le risorse del paziente, per essere ragionevolmente certi che
possa essere protagonista di un cambiamento di se stesso.
Perché pensiamo che con la tipologia di pazienti di cui qui ci occupiamo
non è indicato o efficace convocare da subito familiari significativi? Non
per i vecchi miti, tipo quello secondo il quale nella fase di “svincolo” dalla
famiglia di origine dobbiamo aiutarlo a distaccarsi fisicamente o
emotivamente da loro, o perché non accetta la presenza dei familiari
(Boscolo-Bertrando, 1996). La motivazione fondamentale è quella che la
richiesta di una psicoterapia per se stesso è solitamente - nei casi più
favorevoli della cosiddetta autentica motivazione - l'esito di un lungo
percorso di sofferenza, e di riflessione su quella sofferenza. Ci saranno
stati tentativi di uscirne attraverso cambiamenti di vita, uso di farmaci,
separazioni, viaggi, nuove passioni, cambi di lavoro e così via. Ad un certo
punto la persona sente di non farcela da sola: ha bisogno di aiuto e intuisce
una sua propria importante responsabilità nel contribuire al permanere del
malessere. Nello stesso tempo è capace di reagire al pessimismo, al
disfattismo: è nata in lui una speranza. Sono tre passi fondamentali:
arrivare a chiedere aiuto, accettare di essere responsabili della propria vita,
far crescere dentro di sé una speranza. Spesso questi passi hanno richiesto
un lunghissimo percorso per vincere la negazione del problema,
l'onnipotenza di voler farcela da soli, il vittimismo di attribuire ad "altro da
sé" la responsabilità del disagio, per uscire dal senso di impotenza (i
quattro stadi che precedono l'accesso ad una psicoterapia, Selvini 2007).
In tutti i casi in cui una richiesta di psicoterapia individuale è il frutto di
questo fondamentale percorso (che a volte è in sé un importante fattore di
miglioramento prima ancora che la terapia abbia inizio) sarebbe davvero
sbagliato umiliare simili progressi con un'immediata convocazione
allargata che, implicitamente, comunica una svalutazione di quel percorso,
rischiando di dare potenti impliciti errati messaggi del tipo “Non basta
l'aiuto del terapeuta. Se i tuoi familiari non cambiano non ti tirerai mai
fuori dai guai”. Il paziente può aver fatto un passo importante contro la sua
onnipotenza e il suo disfattismo (un movimento integrativo rispetto a tale
classica polarizzazione), e la convocazione allargata immediata rischia di
spingerlo di nuovo verso una polarizzazione patogena drammatica: vuoi
verso il vittimismo (è tutto colpa loro) vuoi verso l'impotenza (non
cambieranno mai, non ce la farò mai).
Le prime quattro, cinque sedute, con un paziente richiedente, servono
proprio a verificare e consolidare quel percorso che ha portato il paziente
in terapia individuale: è capace davvero di accettare, pensare ed elaborare
le sue responsabilità (Yalom 1989) nel malessere? La sua speranza di
cambiamento può essere sostenuta e valorizzata? Il paziente può godere
della condivisione, si sente meglio nel non essere più solo a cercare
risposte e soluzioni? Se le risposte a queste tre domande sono positive,
ecco che una buona alleanza terapeutica è possibile, e questo ci darà una
buona prognosi di fondo per il successo di quella terapia individuale.
Tuttavia, le ormai lunghissime storiche esperienze di psicoterapie
individuali sistemiche, psicoanalitiche, cognitive, ecc., basate su questi
ottimi punti di partenza, ci dimostrano che il rischio di fallimento resta
comunque elevato, e i tempi delle terapie, purtroppo, troppo lunghi per le
reali possibilità di molti pazienti.
Brevità ed efficacia sono dimensioni tra loro fortemente connesse: un
progetto troppo lungo è spesso impraticabile, quindi l'efficacia potenziale
viene perduta.
Storicamente, la psicoanalisi ha puntato tutti i fattori terapeutici sulla
relazione tra analista e paziente, sostenendo che l'analista non dovesse
avere alcun contatto con i familiari del paziente, perché questo avrebbe
inquinato o distorto la relazione transferale. Questa tecnica si è dimostrata
abitualmente impraticabile con i pazienti più gravi, ed ha costretto ad
allungare enormemente il tempo della terapia e il numero delle sedute
settimanali. La nostra esperienza dimostra che, al contrario, il
coinvolgimento dei familiari di un paziente richiedente, se fatto nel modo e
nel momento giusto, può abbreviare la lunghezza della terapia e
migliorarne l’efficacia.
Le Ragioni Fondamentali degli Allargamenti
Attraverso gli allargamenti l’efficacia delle terapie migliora per due motivi
fondamentali. Nella terapia individuale senza allargamenti il terapeuta può
avere bisogno di tempi molto lunghi affinché il paziente “viva” nel
rapporto con lui i diversi aspetti della sua personalità;
contemporaneamente, il terapeuta non può non credere alla descrizione dei
familiari che il paziente gli porta. Il terapeuta sarà così inevitabilmente
“contagiato” dalle distorsioni della realtà del paziente (Selvini 1993) e gli
servirà anche qui un intenso lavoro sul suo proprio controtransfert per
poter far capire al paziente le sue responsabilità nell’indurre negli altri
atteggiamenti negativi nei suoi confronti.
La convocazione dei familiari significativi, fatta sulla base di una buona
alleanza terapeutica, combatte con grande efficacia questo fattore di
allungamento e distorsione delle psicoterapie individuali basate su una
sorta di “autismo a due”. La paziente che nelle sedute individuali mostra
solo i suoi tratti di depressione, fragilità, incapacità, sudditanza ai
familiari, vista con loro tira fuori una faccia ben diversa della sua
personalità, magari aggredendoli per futili motivi, divenendo prepotente,
cercando di dominarli con assurde pretese.
Una simile seduta apre al terapeuta individuale un nuovo e fondamentale
campo di lavoro.
L’altra essenziale potenzialità dell'allargamento è quella di confrontare la
descrizione dei familiari data dal paziente con l’osservazione diretta del
terapeuta (ed eventualmente della sua équipe). Ad esempio, quel padre che
ci era stato descritto come un paziente psicotico cronico aggressivo e
maltrattante, lo vediamo come un anziano malato, confuso, impotente e
depresso. Cosa può spiegare allora che la nostra paziente abbia ancora
dentro di sé una simile rabbia esplosiva contro di lui?
Questo suo sentimento non trova alcun fondamento nel comportamento
presente di quel poveretto pieno di farmaci. Cosa impedisce alla sua rabbia
di placarsi? Cosa paralizza un fisiologico movimento empatico verso un
padre così malridotto? Un simile confronto apre nuovi territori alla terapia
individuale, territori che sarebbero stati inaccessibili se, per anni, avessimo
continuato a pensare con lei e come lei, all’attuale necessità di difendersi
da un pazzo pericoloso, senza ipotizzare che la rabbia nasconda l’anelito
ad un incontro emotivo positivo.
Ma perché la classica tecnica psicoanalitica, cioè la fobia delle sedute
congiunte, ha avuto tanto successo e continua ad averlo?
Perché le convocazioni allargate richiedono una mirata direttività della
conduzione, a cui la maggior parte degli psicoterapeuti individuali non
sono per niente addestrati. La seduta allargata non può essere basata solo
sull’ascolto, almeno nella stragrande maggioranza dei casi.
Per definizione, il terapeuta familiare sa che non può permettere che la
famiglia interagisca in seduta così come funziona attualmente e
abitualmente. Questo problema si pone di meno e in modo diverso nel
setting individuale. I setting individuali, nei loro diversi modelli, sono
proprio strutturati per essere “in se stessi” un'esperienza emotiva e
cognitiva nuova.
Ma nel setting allargato le cose cambiano, le stesse tecniche non possono
funzionare: dobbiamo tutelare il nostro paziente dal rischio di essere
aggredito, squalificato, umiliato, ignorato; e, insieme, dobbiamo tutelare
anche i familiari che abbiamo invitato rispetto ai medesimi rischi. Per
definizione, la seduta non può essere una brutta e inutile esperienza, la
ripetizione di vecchie dolorose dinamiche. Dev’essere un’esperienza
nuova, e questo costringe il terapeuta ad una conduzione diretta o guidata
che gli consenta di controllare e programmare l’esperienza di quella
seduta.
Nella terapia familiare la posizione del terapeuta è di “parzialità
multilaterale” (Boszormenyi-Nagy) Cioè il terapeuta dev’essere “alleato di
tutti e complice di nessuno”, invece con questo modello la centralità del
paziente e l’alleanza con lui occorre che sia salda e fuori da ogni
discussione. I familiari vengono ad aiutarlo, e se in futuro uno di loro
richiedesse una nuova seduta per sé, il terapeuta potrà concederla solo con
la presenza del suo paziente, come “coterapeuta”, cioè dovrà coadiuvarlo
nell’aiutare il suo congiunto sofferente, dando affetto e comprensione, da
figlio adulto a padre o madre, e non più come paziente. In questo modo
s’impedisce un’eventuale manipolazione del familiare che potrebbe
chiedere una seduta da solo per parlare di cose oscure o misconosciute dal
nostro paziente. Nel caso fosse necessaria una psicoterapia per un
familiare, il terapeuta dovrà indirizzarlo a un altro collega e mai farla
personalmente, perché questo potrebbe essere vissuto dal paziente come un
tradimento.
Combattere il Rischio di una Separazione Forzata e Distruttiva dalla
Famiglia d’Origine
Un mito, molto diffuso tra terapeuti individuali di ogni orientamento,
sostiene la necessità di allontanarsi fisicamente ed emotivamente da una
famiglia disfunzionale per poter differenziarsi o almeno per preservarsi
psicologicamente. È il cosiddetto “taglio emotivo” o cut - off descritto da
Bowen (1978) nei suoi storici scritti.
“la distanza emotiva sia essa raggiunta con i meccanismi interni che
con la distanza fisica. Il tipo di meccanismo messo in atto per
acquisire la distanza emotiva non è indicativo dell’intensità o del
grado di attaccamento emotivo, ma il risultato, cioè, la persona che se
ne va di casa è emotivamente legata come quella che rimane a casa e
mette in atto meccanismi interni per controllare il suo coinvolgimento.
Naturalmente, chi se ne va imprime un andamento diverso alla sua
vita. Ha bisogno della vicinanza emotiva ma è allergico ad essa. Se ne
va illudendosi di conquistare la sua “indipendenza”. Più netto è il
taglio con i genitori, più è prevedibile che egli ripeta lo stesso modello
nelle relazioni future (pagg. 63 - 64). “La principale manifestazione
del taglio emotivo è un diniego dell’intensità dell’attaccamento
emotivo non risolto con i propri genitori, cioè, la persona si comporta
in modo da fingersi più autonomo di quanto in effetti sia, e raggiunge
la distanza emotiva sia per mezzo di meccanismi interni, sia per mezzo
dell’effettiva distanza fisica” (pag. 64).
Molti terapeuti individuali, incapaci di padroneggiare la complessità del
percorso terapeutico, sottovalutando gravemente l’importanza del bisogno
di positiva appartenenza alla propria famiglia, iper-identificandosi
acriticamente con la parte “anti-famiglia” del loro paziente, mettono in atto
una strategia terapeutica che vorrebbe essere rivolta a sostenere le sue
capacità assertive, ma che a volte scade - anche inconsapevolmente - in
una piatta istigazione contro familiari e partner.
Soprattutto con pazienti di area border, caratterizzati dalla discontinuità o
disorganizzazione tra aspetti idealizzanti e demonizzanti verso i familiari,
una simile strategia è iatrogena perché non favorisce affatto processi
integrativi riequilibrativi: al contrario, sbilancia e polarizza verso la
negatività demonizzante. In questi casi incontrare direttamente i familiari è
la migliore delle supervisioni! (Selvini 2004, pag. 236).
Il Problema delle Indicazioni per questo tipo di intervento
I tre criteri di cui abbiamo parlato - responsabilità, richiesta, speranza -
sono quindi alla base della valutazione sulle indicazioni per questo tipo di
trattamento che mira ad essere breve: dalle venti alle quaranta sedute
nell’arco di circa due anni.
Boscolo e Bertrando (1996, pag. 45) consigliano la psicoterapia sistemica
individuale nei seguenti casi:
1) Adolescenti o giovani adulti che dopo aver seguito una psicoterapia
familiare o di coppia in cui si sono più o meno risolti i conflitti
intrafamiliari, responsabili del disagio individuale o collettivo, sembrano
poter beneficiare di un intervento sulla persona per affrontare le difficoltà
nella vita esterna alla famiglia e i dilemmi relativi alla progettazione del
loro futuro;
2) Adolescenti o adulti che rifiutano dall’inizio un intervento sulla
famiglia;
3) Un coniuge che chiede una psicoterapia di coppia rifiutata fin dalla
prima seduta dall’altro coniuge.
4) Un coniuge separato o divorziato che alla fine della prima seduta di
consulenza richiede una terapia di coppia o di famiglia, ufficialmente per
coinvolgere l’altro coniuge adducendo il problema (vero o falso) dei figli,
ma con lo scopo segreto di negare la separazione.
5) I casi già descritti, in cui i familiari apertamente rifiutano di presenziare
alle sedute, presentando difficoltà insormontabili di tipo economico o
logistico.
Come sottolineato da Sorrentino (2004), l’indicazione di fondo riguarda
quindi pazienti capaci di raccontarsi (buona competenza autobiografica),
adulti con un’autonomia esistenziale, adolescenti richiedenti con genitori
invianti e consenzienti. Negli altri casi (bambini, adolescenti riluttanti o
ambivalenti, adulti con patologie importanti) l’indicazione resta quella
della terapia familiare.n un suo precedente lavoro(Canevaro, 2003) ho
fornito un identikit dei pazienti con i quali ho sperimentato con successo
questo modello d’intervento.
1) Adulti autonomi, di solito fra 30 e 40 anni, senza gravi patologie
psichiche e in grado di badare a se stessi, ma che lamentano reiterati
fallimenti sentimentali, visti come incapacità personale nel portare avanti
un impegno affettivo importante.
2) Giovani adulti in fase di svincolo, senza sintomatologia vistosa, ma con
un atteggiamento fobico verso il coinvolgimento della famiglia, poiché
pensano di farcela da soli.
3) Giovani adulti con un regolare funzionamento autonomo, che lavorano
e vivono da soli con sintomi come bulimia, attacchi di panico, anoressia,
depressioni o sintomatologia ossessiva, che non vogliono coinvolgere le
loro famiglia di origine per paura di rimanervi invischiati.
4) Situazioni in cui l’esistenza di segreti ritenuti impossibili da chiarire
(abuso sessuale o fisico in cui siano coinvolti familiari, infedeltà
matrimoniale, scelte sessuali alternative,…) sono di ostacolo al
coinvolgimento della famiglia e richiedono, quando è possibile, una
lunga preparazione del paziente per sostenere eventualmente il dialogo
con i componenti del sistema affettivo relazionale per lui/lei significativo e
giungere ad una migliore elaborazione.
5) Adulti che sono “scappati ”da casa per grosse problematiche relazionali
o grave disfunzionalità di uno dei genitori o uno dei fratelli, mettendo una
distanza fisica e/o emozionale per impotenza ad aiutare o per paura a
rimanere invischiati, non riuscendo tuttavia a “spiccare il volo”
emozionalmente verso una reale autonomia. In questi casi posporre i
propri bisogni di fronte a quelle problematiche irrisolte, fa sì che il
paziente sviluppi un falso Sé autosufficiente, che può poi crollare di fronte
a richieste emozionalmente intense come un relazione amorosa che si
complica o si interrompe.
Una buona presa in carico individuale può essere utile e fondamentale
anche con pazienti molto più gravi, ad esempio, privi di risorse familiari e
vittime di comportamenti delittuosi (abusi sessuali, maltrattamenti) o con
gravi disturbi della personalità e sintomi psicotici. Tuttavia in questi casi la
filosofia terapeutica sarà totalmente diversa perché la psicoterapia centrata
sul paziente non sarà, come nel modello qui presentato, l’unico intervento,
quanto invece parte di una rete integrata multidisciplinare di interventi
sulla persona, sulla famiglia e sull'ambiente di vita.
Conduzione delle Prime Sedute
Nelle prime sedute il terapeuta costruisce l’alleanza terapeutica con una
serie di tecniche: descrizione del problema, storia della vita personale del
paziente, prime spiegazioni sul funzionamento personale e difensivo,
contratto di una consultazione che coinvolgerà familiari significativi,
raccolta graduale della storia trigenerazionale della famiglia
(genogramma), ipotesi sul significato relazionale del sintomo, eventuali
prescrizioni psicopedagogiche di contenimento del sintomo e di
sperimentazione di modalità comportamentali alternative, sino alla
negoziazione della convocazione dei familiari.
La Riflessione con il Paziente su chi Convochiamo
Dobbiamo discutere con il paziente gli obiettivi globali dell’allargamento
che abbiamo passato in rassegna nelle pagine precedenti:
1) avere più elementi per capire chi è e come funziona nelle sue relazioni
più importanti;
2) avere più dati per capire chi sono i suoi familiari e come funzionano
nella relazione con lui;
3) cercare di capire dove sta la distorsione di qualche aspetto della
percezione di se stesso;
4) cercare di capire dove sta la distorsione della sua percezione di qualche
aspetto dei suoi familiari.
A tutto ciò si possono aggiungere degli obiettivi più specifici, che
solitamente hanno a che fare con un problema di distanza emotiva e
mancanza di senso di appartenenza: la seduta congiunta è particolarmente
utile per quelle persone importanti che sentiamo lontane, rispetto alle quali
c’è pochissima comunicazione. Spesso possono essere dei fratelli o anche
uno dei due genitori, solitamente il padre. Un altro problema specifico può
essere quello che i familiari non conoscono aspetti importanti della vita del
paziente: ad esempio, non sanno della gravità dei suoi sintomi e della sua
sofferenza.
In questo caso può essere più utile una seduta allargata che coinvolga tutti
nella condivisione della nuova dolorosa informazione. Fa parte della
valorizzazione del ruolo attivo del paziente negoziare con lui chi e quando
convocare: ad esempio il padre da solo, se la madre ha sempre ostacolato il
figlio quando provava ad avvicinarsi al padre e se questo spesso si è
sottratto all’incontro.
Nel caso in cui il paziente resti paralizzato dal dubbio è fondamentale che
il terapeuta sia capace di assumersi il rischio della scelta. Un figlio può
essere stato troppo rigidamente collocato in un ruolo protettivo verso uno o
entrambi i genitori: così ha dovuto cavarsela da solo e non se l’è sentita
nemmeno di protestare per quei loro comportamenti che l’hanno fatto
soffrire. Ad esempio, una seduta allargata potrebbe essere utile affinché
una donna adulta possa finalmente comunicare al padre la sua sofferenza
per il drastico, irrispettoso rifiuto del suo primo fidanzato.
Un comportamento che fa male ancora oggi, perché resta vero che quel
padre continua a dare per scontato che sua figlia si comporterà secondo gli
schemi che lui le ha attribuito. In molti casi il tema della eccessiva distanza
emotiva tra il paziente e i suoi familiari significativi si collega ad
un’inversione dei ruoli, attivo o passivo. Il paziente non ha mai condiviso i
suoi sentimenti più turbati per non appesantire o sconvolgere i familiari. In
questi casi la convocazione in se stessa è molto difficile da accettare per il
paziente, perché viene a spezzare le antiche regole: il figlio per la prima
volta chiede per sé invece di dare aiuto, per la prima volta solleva
questioni scabrose e sgradevoli. La seduta deve essere allora ben preparata,
per evitare che anche in quella sede il paziente si ammutolisca e l’incontro
si riduca ad una cerimonia inutile e formale. In realtà, questo rischio non è
molto frequente, perché il fatto stesso della convocazione per una terapia
convoglia un potente ed innovativo messaggio emotivo.
La convocazione allargata in formati diversi appare così sicuramente
indicata per quei tipi di personalità dove le varie forme di inversione dei
ruoli e distacco sono particolarmente presenti e radicate:
simbiotico/dipendenti (inversione dei ruoli, passivo), evitanti (mancanza di
senso di appartenenza), parentificazione (inversione dei ruoli, attivo),
ossessivi (protezione dei genitori attraverso l’obbedienza ed il successo).
In alcune situazioni molto difficili in cui il paziente ha una distanza molto
grande con uno dei genitori (frequentemente il padre) può essere utile una
seduta preparatoria, da solo il terapeuta con i genitori, ovviamente previo
consenso del paziente, tenendolo informato delle vicissitudini .
Raffaella, 45 anni, medico molto intelligente, ma che per tutta la vita è
stata triangolata,1 soprattutto dalla madre nei conflitti col padre, vede
all’inizio quasi con terrore la convocazione dei genitori. La madre è stata
la prima ad essere invitata. Depressa da molti anni, si attiva solo dopo la
separazione dal marito, avvenuta dieci anni prima . Contrariamente
all’immagine “proporzionata” fornita dalla figlia (sofferente, vittima,
sottomessa dal marito, incapace di affrontare la vita da sola, ecc.) entra con
aspetto di sfida e partecipa all’incontro con molto interesse.
Dopo aver effettuato l’esercizio dello zaino, il terapeuta parla con
Raffaella del prossimo incontro col padre, quando viene interrotto dalla
madre che gli dice: “Non penserà per caso di farlo venire qua a quello,
vero?” “Vedremo, signora...”, è la risposta.
Nella seduta seguente,solo con Raffaella, si commenta l’incontro con la
madre Questa volta lei chiede al terapeuta, con un misto di curiosità e di
terrore: “Non mi farà mica prendere dalle mani da lui,vero?”
“Vedremo...”, è la risposta.
Di fronte alla difficoltà della paziente di affrontare l’argomento col padre,
il terapeuta chiede a Raffaella il permesso di incontrare il padre da solo , in
una seduta preparatoria. Lei annuisce, molto sollevata.
Il padre, considerato da tutti onnipotente e padre - padrone, imprenditore
self made-man, racconta al terapeuta la sua versione della vita familiare e
dei problemi che ha con questa figlia, piangendo e dicendo che è il
fallimento della sua vita, e che non capisce perché lei lo aggredisca
1 Termine coniato da Bowen e con il quale si indica una situazione in cui due persone, in una relazione
simmetrica conflittuale, a misura che la tensione diventa insostenibile, coinvolgono una terza persona in posizione di
minor potere.
continuamente.
Il terapeuta gli spiega come Raffaella sia stata sempre manipolata e messa
nel mezzo delle loro beghe, e come i suoi comportamenti siano una difesa
dalla madre e, nel contempo, una richiesta di affetto nei suoi confronti. Lui
riconosce che non ha mai saputo dare affetto, ma che ha sempre pensato ai
suoi figli e che a loro non è mai mancato niente. Una volta compreso il
senso dell’incontro congiuntosi raccomanda di poter riavere l’amore della
figlia.
Durante l’incontro riescono a chiarirsi reciprocamente e, quando si chiede
loro di sedersi vicini, prendendosi le mani, cominciano ad avverarsi le
prime sorprese della seduta. Il padre, tremante e commosso, non riesce a
dare niente in dono alla figlia, giacché non trova in se nessuna
caratteristica valida da darle. Pian piano, il terapeuta riesce a aiutarlo a
definire aspetti positivi della sua persona e l’incontro finisce in un clima
molto più pacato e sereno. Nella seduta seguente, Raffaella rimane
sorpresa di aver trovato un padre sconosciuto, molto più insicuro e
dipendente di quanto lei conoscesse, destandole per la prima volta,
un’ondata di tenerezza verso quello sconosciuto che poco a poco
cominciava a farsi conoscere nella sua vulnerabilità. Incomincia una
relazione di reciproca timidezza , iniziano a parlare da persona a persona,
senza che la relazione genitoriale conflittuale si frapponga tra di loro.
Man mano che questa reciproca conoscenza si avvera, Raffaella sente per
la prima volta in vita sua di poter stare a una certa distanza emozionale
che le permette di capire che la madre, vista da lei sempre debole, è
invece molto più potente di quanto pensasse, e come l’abbia sempre
comandata ricorrendo a continue manipolazioni.
Il padre, a sua volta, avendo messo a nudo le sue carenze affettive, è molto
meno temuto, e così lei riesce ad avere un quadro della situazione molto
diverso e comincia a provare pena per questi genitori, prima tanto temuti e
onnipotenti. Questa presa di distanza e accettazione della fragilità dei
genitori preannuncia la differenziazione emozionale nei loro confronti, e
comincia a produrre una traslazione del baricentro sulla sua persona.
Nasce una nuova fase della terapia, centrata più sulla persona di Raffaella
con un vero Sé nascente, fuori dalle vicissitudini genitoriali.
La Discussione sulle Resistenze dei Pazienti verso gli Allargamenti
Nel paragrafo precedente abbiamo già toccato alcuni dei temi più
frequenti: ribaltare una storia d’inversione dei ruoli con una esplicita
richiesta di aiuto, dare voce a sentimenti da sempre repressi, combattere la
distanza, il formalismo, per una vera condivisione, intimità, vicinanza.
Tali obiettivi possono poi essere specificatamente mirati rispetto a singole
persone. Ad esempio, un fratello o sorella iperresponsabilizzato/a è spesso
seguito da un altro polarizzato nell’opposta direzione, verso una posizione
esistenziale più egocentrica, edonistica, trasgressiva. La seduta allargata
può allora essere finalizzata alla riflessione sui vantaggi e gli svantaggi di
tale polarizzazione, per poterla contrastare, magari attraverso una più equa
suddivisione del sostegno ai genitori che stanno invecchiando. Come
abbiamo visto, in altri casi un figlio può essere stato “proprietà privata”
della madre, per cui rimettere in gioco il padre diventa l’obiettivo
dell’allargamento.
L'allargamento sarà fatto solo quando il paziente sarà almeno parzialmente
convinto della sua utilità. Alcuni pazienti possono trovare l’allargamento
impossibile e inaccettabile. Può essere il caso di pazienti con importanti
tratti schizoidi o paranoici i quali, già estremamente in difficoltà rispetto
alle possibilità di stabilizzare una fiducia di base nel terapeuta, vivranno
l’allargamento come destinato a rivoltarsi contro di loro: sono terrorizzati
dall’idea che il terapeuta passerà dalla parte dei familiari.
L'allargamento dovrà essere ben meditato e preparato, anche con pazienti
con importanti discontinuità della personalità (area borderline) dove è forte
il rischio di movimenti impulsivi ed aggressivi, sia dei familiari verso il
paziente, che del paziente verso i familiari. In questi casi l’allargamento
inizierà con quei familiari vissuti come più alleati, non certo con quelli
storicamente considerati nemici (vedi tutto il dibattito sulle
controindicazioni alle sedute familiari, Selvini 2004 pp. 228-229 e
Cuccuru 2006). Una frequente perplessità, sempre nell’area già citata della
parentificazione/inversione dei ruoli, s’incontra con figli laureati e di
elevata cultura, i cui genitori hanno invece una cultura elementare. Il figlio
può temere l'umiliazione del genitore, per cui il terapeuta deve ben
spiegare che condurrà la seduta per aiutare il genitore a valorizzare al
massimo il suo contributo affettivo ed emotivo, lasciando da parte ogni
sofisticazione intellettuale.
Stefano, 31 anni. Giovane e brillante, laureato in legge, si trova bersagliato
dalla sua ex fidanzata e dalla sua famiglia di origine per aver rotto il
fidanzamento. Figlio unico, vede i suoi genitori, entrambi operai,
contrastarlo molto per l’accaduto, giacché non riescono a capire questo
loro figlio e la scelta di annullare un impegno con una brava ragazza e la
sua famiglia di origine. Risponde così al questionario: “Aver vissuto
questo momento è stato importantissimo perché il mio disagio era proprio
collegato alla mancanza di comprensione del mio disagio ai loro occhi.
Non ero mai riuscito a parlare veramente con loro, a farmi capire, distanze
culturali, vite diverse”.
Arrivati a questo punto del consulto, in genere tra la quarta e la quinta
seduta, avviene il primo contatto con un familiare significativo.
Nella ricerca condotta sugli 82 casi trattati dal 2001 al 2006, questo
avviene nel 50% dei pazienti.
Per alcuni di loro, che conoscendo il metodo si aspettavano l’invito, la
convocazione è stata sorprendentemente veloce, e accettata abitualmente
più per la fiducia acquisita nel terapeuta che per la propria volontà. Le
ansie nei pazienti, molto frequenti, sono state molto ben studiate da Framo,
quando convoca la famiglia di origine durante una psicoterapia di coppia.
A pagina 77 del suo libro, riproduce alcune delle frequenti frasi che i
pazienti manifestano, dopo aver avuto l’incontro con la famiglia di origine
come:
“È stata la cosa più difficile che abbia mai fatto, ma la più utile”
“In uno strano modo mi sento liberato, libero”
“Ho avuto paura di mio padre tutta la vita: adesso non solo non mi
spaventa più, ma sento simpatia per lui”
“Mi ha sorpreso che papà abbia parlato tanto”.
L’ atto di convocare in assenza i familiari, come nella sedia vuota (vedere
Boscolo e Bertrando) o fare una scultura o farsi descrivere le famiglie di
origine non potrà mai rimpiazzare un incontro plurimo e sarà sempre una
lettura individuale di un fenomeno sistemico.
La presenza diretta in seduta dei familiari,
a) provoca un effetto Rashomon2 con le differenti versioni di uno stesso
fatto, arricchendo la complessità e relativizzando le posizioni individuali.
b) favorisce la comprensione di fatti oscuri della storia familiare e
personale
c) svela segreti insospettati o mistificati attraverso la versione interessata
di alcuno dei familiari
d) favorisce la definizione della relazione all’interno delle famiglie e con i
nostri clienti
2 Si ricordi il bellissimo film di Akira Kurosawa in cui lo stesso fatto è descritto da quattro persone che,
avendolo vissuto in maniera diversa, ne danno differenti versioni complementari.
e) migliora la qualità dell’incontro emozionale in seduta o quanto meno
sancisce l’impossibilità di farlo, avendo comunque tentato, cosa che può
rappresentare una nuova base di partenza (vedere paragrafo 8, “Incontro
frustrante e liberatorio”)
f) favorisce il perdono e la riconciliazione, col conseguente sollievo da
tormenti interiori e permette l’impiego più autonomo e creativo delle
energie nello sviluppo del proprio sé.
Nonostante ciò, la convocazione è sempre piena di dubbi e di ansie.
“Crolleranno i miei familiari se io espongo veramente cosa penso?”
“A papà che ha già avuto un infarto gli prenderà un colpo in seduta?”
Io rispondo: “Se ha avuto un infarto è perché non ha mai potuto liberare il
suo cuore da angosce.
Lasciatelo parlare liberamente.” In trent’anni che faccio questi incontri non
si è verificato mai (per adesso) un evento di questo tipo. Per di più mi
dicono:
”Mio padre è molto più sciolto e comunicativo. L’incontro gli ha fatto
bene!”.
“E se dopo l’incontro la famiglia si frammenta?” “Come faranno con tutte
le ansie e angosce che si sveglieranno?”
Risposta. I sistemi familiari sono organizzazioni molto forti che si
ricompongono facilmente dopo uno scossone. Siamo noi, individui,
pazienti o terapeuti, molto più fragili, ma da questa debolezza può nascere
la forza di scuotersi per sollecitare e favorire un cambiamento.
La particolare posizione che il paziente designato acquisisce all’interno
della sua propria famiglia di origine cercando di capire e proteggere o
scuotere gli altri, molte volte senza risultato, mi ha indotto a chiamarlo il
“terapeuta fallito della sua famiglia di origine”.
Nonostante egli capisca per sensibilità, o per essere stato confidente di
alcuni dei suoi familiari significativi, meglio chi soffre e perché
costituendo una spia insostituibile
L’alleanza terapeutica è molto importante per permettere al terapeuta di
sostituire il paziente nella sua funzione salvifica, permettendogli/le di
riacquisire il suo ruolo normale all’interno della famiglia di origine.
Elisa, giovane psicopedagogista, è l’unica nella sua famiglia di origine che
solleva i problemi, contrastando la rigidità e incomunicabilità che esiste al
suo interno Considerata la pecora nera della famiglia, si sorprende quando
le dico che converrebbe chiamare in seduta per primo sua madre e non i
suoi genitori insieme, per spezzare il muro di omertà che abitualmente
creano i genitori se li vedessimo insieme. All’inizio dell’incontro, la
signora, molto composta ed educata, cerca di farmi capire quanto sia
difficile questa figlia.
Quando le ridefinisco il comportamento della figlia come un tentativo di
aiutarla ad uscire da un ruolo sacrificale dentro la famiglia e occuparsi più
di se stessa, si sorprende. La ringrazia e le dice che in realtà lei (la madre)
ha tentato sempre di spronarla ad essere autonoma, avere una professione,
lavorare e realizzarsi, cosa che lei non ha potuto fare. I sensi di colpa
iniziali della signora, vengono ridefiniti come responsabilità non esaudita
nei suoi confronti. “I sensi di colpa non servono a niente. Sono in realtà
l’altra faccia della medaglia delle responsabilità. Lei come figlia, come
moglie e come madre, è stata ineccepibile, ma la sua responsabilità come
donna non è stata sufficientemente espletata. Si deve ancora qualcosa a sé
stessa ed Elisa la sta aiutando a capirlo. Sarebbe conveniente che questa
nuova relazione tra figlia adulta e madre si arricchisca di qualche uscita
per svago e divertimento, parlando di più tra di voi.”
Così fecero e, attraverso queste uscite settimanali, madre e figlia
cominciarono ad avere un dialogo fluido che cambiò completamente la
relazione con mutuo soddisfacimento.
Lasciando a me il ruolo di terapeuta, Elisa recuperò il suo ruolo di figlia
attenta nei confronti della madre, riuscendo ad avere un dialogo mai avuto
prima.
Poter vedere i familiari con altri occhi, e viceversa, è un risultato molto
frequente di questi incontri.
2.6 PROBLEMI TECNICI DELL’INVITO
LA SCELTA DELLA PRIMA CONVOCAZIONE E DELLE
SUCCESSIVE
STRATEGIA CONDIVISA. CHI E QUANDO INVITARE.
La prima cosa da discutere insieme ai nostri clienti è la strategia della
convocazione.
Abbiamo già anticipato diverse risposte a questo quesito. In sintesi si può
dire che, soprattutto nelle situazioni di intensa triangolazione e
conflittualità (genitori separati e/o in conflitto, aspre rivalità con i fratelli)
si procederà con un invito alla volta, iniziando dal familiare meno
conflittuale. Oppure cominceremo con i fratelli per sviluppare una rete di
alleanza destinata ad aiutare i genitori in difficoltà. Come abbiamo già
detto, in altri casi si privilegerà il familiare con il quale si ritiene più utile
l'accorciamento della distanza emotiva. La convocazione allargata a tutta
la famiglia di origine biologica (genitori e fratelli) può essere utilizzata per
affermarne l’esistenza in tutte quelle situazioni in cui tale identità
collettiva (coesione e senso di appartenenza) sia piuttosto labile o quando
ci siano problematiche di sofferenza molto definite individualmente nel
paziente richiedente: depressioni, sintomatologia più vistosa come deliri o
lutti patologici, o dopo una rottura sentimentale importante o per una
separazione, tossicodipendenza, ecc.; ed anche per eventi importanti come
un matrimonio, in cui occorre congedarsi dalla famiglia per affrontare una
nuova tappa esistenziale. Un altro criterio può essere quello di invitare
familiari che potrebbero essere in possesso di interessanti informazioni
non condivise. Con pazienti caratterizzati da spiccati tratti di protettività e
accondiscendenza (area dipendente - simbiotica, vedi Selvini 2007) è
presente il rischio che, in fase avanzata della terapia, tengano nascosto al
terapeuta il perdurare di importanti difficoltà, perché non vogliono
procurargli una delusione. In questo caso un allargamento a familiari o
partner rappresenta una verifica molto importante dell’effettiva efficacia
dell’intervento, e può consentire la svolta di un trattamento che vive un
momento di stallo dopo un’iniziale fase di eccellenti progressi. Il criterio
fondamentale è quello di mettere a confronto le diverse percezioni, sia
delle caratteristiche del paziente che degli elementi chiave della storia
familiare. Il familiare non viene mai invitato come paziente, ma sempre
come testimone privilegiato chiamato ad aiutare il terapeuta con
l’esprimere il suo punto di vista, sia sui limiti che sulle risorse del
paziente, indicando quale potrebbe essere una strada che lo aiuti a vivere
meglio. Talvolta mettere a confronto i diversi punti di vista consente un
liberatorio chiarimento di antichi malintesi e fraintendimenti. Come già
dicevamo, l’osservazione del terapeuta non potrà solitamente basarsi su
una posizione di semplice ascolto. Con il suo paziente il terapeuta avrà
preparato in precedenza delle domande chiave, che l’uno o l’altro
rivolgeranno ai familiari coinvolti.
Con pazienti di area border nevrotica, caratterizzati da intensi vissuti
vittimistici nei confronti dei familiari, un percorso che li aiuti a capire i
drammi trigenerazionali dei loro genitori può sciogliere la mitologia
negativa costruita su di loro, può consentire ai genitori stessi di chiedere
scusa per le sofferenze involontariamente provocate, e può aprire la strada
ad un autentico processo di perdono e riconciliazione.
Si chiederà sempre come hanno accolto l’invito a venire e come è stato
trasmesso (se è stato detto singolarmente, se è stato comunicato attraverso
un membro più legato, solitamente la madre, ecc.). Sono informazioni
importanti che permettono di avere una traccia di come scorre
l’informazione dentro il sistema familiare. In un incontro con la famiglia
d’origine, la madre di un paziente membro di una coppia, convocata
insieme alla sorella, cominciò a parlare decisamente. La interruppi dopo
alcuni minuti per chiederle se era vedova, giacché nel suo racconto non
menzionava mai il marito. Mi rispose: “No, assolutamente. Solo che non
gli ho detto niente di questo incontro perché lui è sempre fuori dalle nostre
cose…non si interessa mai…”
Così il terapeuta chiarisce bene il perché dell’invito: “Tizia o Caio si sono
rivolti a me in cerca di aiuto per i loro problemi e siccome considero la
famiglia molto importante nella vita di un individuo, vorrei chiedervi
collaborazione e informazione per meglio aiutarli/e. Vi chiedo di parlare
col cuore in mano riguardo ai problemi che ci sono, al perché di questi
problemi e alle soluzioni che proponete. Aiutatemi ad aiutarlo/a”. Questa
sincera richiesta di aiuto da parte del terapeuta è molto importante per
mettere la famiglia a favore del processo terapeutico e non contro. L’arte
del terapeuta consiste nel convogliare queste forze a favore di un
intervento che molte volte, per misconoscimento, viene etichettato come
inutile. Di solito i padri, premettono cheon credono in queste terapie, per
amore del figlio sono disposti a offrire l’aiuto. Il più delle volte, e senza
bisogno di nessun chiarimento, interagiscono, ed è frequente che queste
stesse persone all’inizio riluttanti, ringrazino alla fine dell’incontro e si
raccomandino per il loro congiunto. La convocazione di tutta la famiglia
di origine può permettere la comprensione più approfondita del problema,
sia per la famiglia di origine che per il terapeuta. La delimitazione delle
responsabilità, e il passaggio da una paralisi per l’angoscia o per i sensi di
colpa a una partecipazione attiva, mette in moto delle forze riparatrici che
di solito ogni famiglia ha. Da quell’incontro possono scattare suggerimenti
o indicazioni utili per la famiglia di origine riguardo al contributo che può
dare per una migliore risoluzione del problema. Esempio. Il bisogno di
Veronica di congedarsi dalla sua famiglia di origine, in occasione di un
prossimo matrimonio, permise a tutti i fratelli e ai genitori di dire la loro e
augurarle una buona esperienza. La madre, che abitualmente intratteneva
una relazione esclusiva con Veronica (escludendo il padre), dovette dar
corso a un lungo discorso con il padre, abitualmente silenzioso, riguardo
all’affetto che sempre provò verso sua figlia e come gli sarebbe piaciuto
continuare in contatto con gli sposi. L’abbraccio tenero che Veronica ebbe
col padre e poi con ognuno degli altri componenti, creò un’atmosfera
molto commovente che rappresentò per lei un vero rituale di congedo e di
passaggio verso una nuova tappa della sua vita. Quando ci sono
triangolazioni in atto, conviene chiamare separatamente i genitori, o
quando questi rappresentano un problema per le continue liti, è meglio
iniziare con i fratelli per sviluppare una rete di alleanze destinate ad aiutare
meglio i parenti compromessi. Quando c’è un divorzio emozionale dei
genitori, conviene fare incontri separati rivolti a consolidare un rapporto
personale positivo con ognuno dei genitori e definire nel contempo come
“missione impossibile” i tentativi terapeutici del nostro cliente, cercando di
rimetterli insieme. Quando i giovani pazienti tentano disperatamente di
aiutare i genitori, e si mettono in mezzo nelle loro liti, gli faccio notare che
questo comportamento altruista e positivo inconsapevolmente evita
l’incontro fra i genitori, che potrebbe essere chiarificatore e risolutivo.