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www.laRecherche.it E un giorno misterioso il grande libro si rivelò Saggio di Pietro Citati Corriere della Sera di mercoledì 25 maggio 1983

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E un giorno misterioso il grande libro si rivelò

Saggio di Pietro Citati

Corriere della Sera di mercoledì 25 maggio 1983

E un giorno misterioso il grande libro si rivelò Saggio di Pietro Citati - Corriere della Sera di mercoledì 25 maggio 1983

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Nei primi mesi del 1908, Proust si lamentava perché Parigi ''era diventata brumosa come Londra ''. Non poteva sopportare quelle grandi nebbie, che imbevevano persino i suoi fogli di carta, dove scriveva rapidamente delle pagine geniali ed informi di un libro ancora sconosciuto. Non si muoveva più da letto, come ''tante Leonie'' : preda di spaventose crisi d'asma, che lo assalivano per quarantotto ore di seguito, simili agli assalti - forse non lontani -, dell'agonia. Scrivere una lettera gli dava l'emicrania o l'insonnia. Non poteva far più nulla- né alzarsi, né uscire, né vedere amici, né parlare, né mangiare, né respirare, né dormire. Mese dopo mese, il tempo cresceva sotto di lui, gli anni si accumulavano gli uni su gli altri come cenere di carbone, e lui, quasi vecchio, si trovava in piedi su una torre mobile così alta che quasi toccava il cielo e di momento in momento stava per cadere. Quando sarebbe precipitato da quell'altezza vertiginosa? Quando sarebbe balzato fuori, incontrando il padre e la madre? La sua vita si era fatta silenziosa. E, in quel silenzio funereo, avvertiva sempre più acutamente i suoi singhiozzi di bambino - i tremendi, dolcissimi singhiozzi infantili, che già una volta aveva rappresentato, e che forse contenevano il segreto della sua vita. Aveva creduto di possedere una vocazione poetica - non perché fosse orgoglioso e ambizioso, ma perché la sentiva abitare le profondità del suo corpo, come ci abita una malattia. Sapeva che, dentro di lui, esistevano delle belle cose indistinte, simili al ricordo di un'aria che ci incanta senza che possiamo ritrovarne il contorno, canticchiarla, e nemmeno dire se ha delle pause o delle rapide successioni di note. Era ossessionato dal ricordo di questa verità sconosciuta. Ma pensava che non sarebbe mai riuscito ad esprimere quella musica confusa, notarla, riprodurla, cantarla ; e nessuno avrebbe ascoltato l'aria che l'aveva inseguito per tutta la vita ''col suo ritmo inafferrabile e delizioso''. Il suo talento si indeboliva, la memoria diventava incerta; e i fantasmi del passato gli tendevano le loro braccia tenere e impotenti , come le ombre che Enea incontra agli inferi. Non sapeva di essere giunto alla svolta decisiva della sua esistenza. Proprio in quel cielo brumoso, in quelle crisi d'asma, in quella malattia si nascondeva l'energia tenacissima, che gli avrebbe permesso di avvicinarsi al suo libro. Intanto, si stava preparando. Non più viaggi, non più visite, non più cene, non più incontri con amici, presto nemmeno più letture:con una volontà ferrea, mascherata dalle più gentili e ipocrite scuse, costruiva lo spazio vuoto, che l'opera avrebbe dovuto colmare. Malgrado queste difese, qualche volta la vita batteva ancora alle altissime mura della sua casa. Helleu gli regalò un quadro (''c'è tutto, tutto il cielo, tutti gli alberi, tutta la terra, tutta l'acqua, tutta l'ombra, tutta la luce...''); e questo gesto scatenò tempeste nella sua anima. Sentiva con forza dolorosa qualsiasi piccolo piacere gli venisse fatto, qualsiasi gesto affettuoso si posasse sopra il suo capo; in quell'istante si sentiva amato; e avvertiva che l'amore che riceviamo è

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qualcosa di infinito, che non potremo mai ricambiare, per quanto grande sia la nostra gratitudine. Un altro avrebbe accettato con gioia quel flusso; lui non poteva: si sentiva in colpa, come se chi è oggetto d'amore fosse un reietto; e, per annullare la colpa e cancellare il debito, si sforzava di coprire l'amico con una quantità di regali e d'attenzioni - vascelli olandesi, paraventi, specchi, stupendi mazzi di fiori- escogitati dalla sua prodiga fantasia orientale e dalle cure della devota madame Catusse. Così si illudeva di essere alla pari con la vita. Il regalo aveva anche un'altra funzione. Emigrato dalla bottega dell'antiquario o dal negozio del fiorista, sarebbe stato il suo messaggero nella casa amica: lui stesso, diventato un oggetto, un ospite muto, un grande occhio che raccoglieva i colori dell'appartamento nella fedeltà silenziosa delle sue pupille. Quando una lettera gli portava notizie tristi, capiva le sofferenze degli amici: faceva suoi tutti i dolori reali e tutti quelli che l'accesa fantasia immaginava, prolungandoli nel proprio cuore; e leniva le ferite con una delicatezza da suora. Se un amico si ammalava o si feriva lasciava Cabourg in taxi e si precipitava a Parigi a soccorrerlo: salvo fermarsi a Versailles, dove un piacere più oscuro o soltanto il desiderio dell'opera lo incatenava con un incanto più forte. Tutte le morti- persino quelle di chi non conosceva- non facevano che ripetere le sue morti: come se quegli eventi dovessero ripetersi indefinitivamente per lui. Adesso che si era rinchiuso, aveva bisogno di non essere ferito da nulla : non poteva sopportare che la realtà gli fosse ostile; gli amici, che teneva lontano, dovevano proteggerlo da lontano con una rete di affetti e di attenzioni. Non aveva mai amato così i pochi che gli erano rimasti: amava i loro corpi, le loro mani, le loro braccia, le loro caviglie ferite: ''come il cristiano che mangia il pane e beve il vino e canta venite adoremus'' scriveva empiamente '' dirò accanto a voi le litanie delle vostre caviglie e le lodi dei vostri polsi ''. Quanto a Reynaldo Hahn, l'affetto per lui sfiorava il delitto

''Se sapessi che ha assassinato qualcuno, nasconderei il suo cadavere nella mia stanza, per far credere di essere io il colpevole''. Qualche volta, la vita gli offriva ancora qualcosa di nuovo; gli portava addirittura l'amore- o almeno la sua forma. Nel marzo 1908, chiese a madame Fould se la '' graziosa '' mademoiselle Oriane de Goyon era un'amica di sua figlia; il mese dopo, domandò a un amico se la conosceva e poi se, per caso, tra le fotografie di casa Albufera, ci fosse una fotografia di Oriane de Goyon. Cosa lo attraeva talmente in questa ragazza ventenne che non aveva mai visto? L'immenso desiderio, che suscitava nel suo cuore il profumo delle jeunes filles, cristallizzò intorno al nome di lei? Nel giugno, diventando più ardito, si fece invitare a un ballo, dove Oriane de Goyon sarebbe apparsa: ma nessuno lo presentò ''senza dubbio, non sarò mai più invitato al ballo e non la rivredò mai ''. Pochi giorni dopo, Proust incontrò finalmente quel nome, quel profumo, l'emozione fu così grande, che fu lì lì per cadere a terra, mentre il presentatore ubriaco urlava delle

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facezie (''che ne dici di queste guancettine ? Le pizzicheresti volentieri eh? E queste melette, le sgranocchieresti ?). Ma l'amore, che la fantasia aveva creato nella pura solitudine, non resse alla rivelazione della realtà: Oriane era meno bella di quanto avesse immaginato, ''più civetta che amabile'' e con una voce un po’ irritante; e del resto come poteva non deluderlo quel volto, quella voce e la stessa possibilità di parlarle? Chiese ancora a qualcuno dove lei avrebbe passato l'estate; e poi Oriane scomparve dalle sue lettere per riaffiorare-mescolata con mille altre voci, nomi, volti e profumi - tra le pagine della recherche. Nelle estati di Cabourg, lo prese un desiderio di giovinezza. Amava le anime che dovevano ancora maturare

''Le anime calorose e profonde; sempre vibranti e vivificate dai quattro venti dello spirito'', che gli ricordavano la sua giovinezza. A Cabourg lo circondava una piccola brigata di giovani amici, di cui conserviamo i nomi. Conversando con loro, cercava di allontanare da sè la fama di appartenere alla ''razza maledetta'' di Sodoma; quali fossero i suoi pensieri, recitava una parte tra, il fratello maggiore e il padre, che cercava di introdurli nelle regioni dello spirito. Poi, in una lettera del novembre 1909 a Georges de Lauris, troviamo la confessione inaspettata: ''far dividere la mia vita spaventosa a una ragazza giovanissima e deliziosa, anche se lei non se ne spaventa, non sarebbe un delitto?'' Non sappiamo chi fosse la ''ragazza deliziosa''. Il fascino delle jeunes filles l'aveva portato fino alle soglie del matrimonio: ebbe il miraggio di condurre la vita che la madre aveva desiderato per lui; e poi si ritrasse dietro le imposte chiuse nella sua casa persuaso che non c'era salvezza. L'ultimo miraggio era il danaro. Aveva investito il proprio capitale in azioni amministrategli dalla banca Warburg. Leggeva con passione le ''rubriche finanziarie'' dei giornali: seguiva l'ascesa e la calata dei titoli con un vanto ingenuo, pretendeva di intendersi di cose pratiche, mentre i suoi ''poveri genitori'' non avevano avuto nessuna fiducia in lui; e scriveva delle lunghissime lettere ad un amico, funzionario della banca, in cui chiedeva consigli, avanzava proposte, proponeva vendite ed acquisti, guidava l'inquieto fronte mobile delle sue azioni come il più esperto dei generali finanziari. Da un lato , il suo desiderio era quello di ''rentier'' borghese; possedere delle azioni solide, che gli assicurassero un buon reddito a fine anno. Ma, dall'altra, era dominato da un desiderio assai più fantastico: tutto quello che vi è di sordido, di losco, di avventuroso, di truffaldino nella realtà degli affari lo attraeva irresistibilmente, come aveva attratto Balzac; e sperava che immergendosi nei colorati regni della truffa avrebbe guadagnato montagne d'oro. Così proponeva al suo amico di comprare i titoli più improbabili, che qualcuno, sempre molto importante, oscuro e misterioso, gli aveva consigliato; titoli delle miniere d'oro di Australia o delle ferrovie del Tanganica, la banca spagnola del Pio della Plata, le United Railways di l'Avana, Tram Light & Power di

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Rio de Janeiro o di Buenos Aires, le ferrovie da Rosario a Puerto Belgrano, e soprattutto, chissà perché, le forse inesistenti azioni del Puerto di Para. L'amico si affrettava a scrivergli ''stai attento, forse è un affare meraviglioso, ma siccome non lo conosco mi astengo dal giudicarlo'' - ''stai attento, non è precisamente quello che si chiama un investimento da padre di famiglia''. Ma Proust continuava a sognare montagne d'oro. Al principio del 1908 cominciò a scrivere delle pagine, che anticipavano alcuni fra i principali temi della recherche. A partire da questo momento, nelle lettere si rincorrono gli annunci, gli avvertimenti, i gridi di attesa e di allarme: '' vorrei cominciare un lavoro molto lungo''; '' ti dico addio, sto per cominciare un lavoro molto importante''- fino alla frase evangelica e ruskiniana, ansiosamente ripetuta ''lavorate finché avete ancora la luce'', che esprime il suo biblico e drammatico eroismo dell'opera. Ormai il libro incombeva, la sua voce gridava. Che egli si dedicasse soltanto a lui , che la mano cominciasse a coprire di segni la carta, che la volontà allontanasse ogni cosa esterna. Mentre cresceva l'attesa di fronte a quella cosa senza nome e senza forma; e l'ispirazione stava per assalirlo come un fiume che non sapeva di possedere in sé stesso. Gli sembrava di essere una madre . Da un lato , gli pareva che la gravidanza avesse atteso troppo, e che tutto si fosse raffreddato dentro di lui; dall'altro, non sapeva se avrebbe mai visto il figlio che si formava nei suoi fianchi e raccolto le forze necessarie per generarlo. Diceva al suo libro con un triste e dolce sorriso: '' ti vedrò mai?'' Così il lavoro crebbe fino a giungere al parossismo nel 1909 , quando per sessanta ore la luce non si spense nella stanza di boulevard Haussmann. Scrisse a Celine Cottin, la cuoca, un biglietto incantevole: ''vi mando dei vivi complimenti e ringraziamenti per il meraviglioso bœuf à la mode. Vorrei riuscire bene come voi in quello che farò questa notte: vorrei che il mio stile fosse così brillante, così chiaro, così solido come la vostra gelatina- che le mie idee fossero così saporose come le vostre carote e così nutrienti e fresche come la vostra carne''. Aveva appena cominciato a comporre queste pagine quando si interruppe, nel febbraio e nel marzo, per scrivere i pastiches sull'affaire Lemoine. L'ispirazione che negli anni scorsi l'aveva commosso solo per brevi saggi e articoli- lo assalì all'improvviso, con una furia di cui egli stesso rimase stupito, mentre faceva il verso a Balzac e a Flaubert, a Sainte-Beuve e a Renan. Nessuna lettura, nessuna ricerca, nessun calcolo, come avrebbe fatto un faticoso parodista critico. Appena accordò il suo ''metronomo interiore'' a quello dei propri modelli, il suo prodigioso genio mimico lo invase e lo dominò, fino a quando la mano ricadeva spossata sul letto. Aveva sempre posseduto un orecchio finissimo nel cogliere la musica di un testo, l'aria della canzone che in ogni scrittore corre sotto le parole apparenti; era sempre stato un ventriloquo demoniaco, capace di contraffare tutte le voci del mondo. Ora colse i tratti essenziali di ogni maniera stilistica e li condensò, unì in modo insuperabile l'esattezza

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e il grottesco, come se la parodia fosse la chiave privilegiata per cogliere l'essenza della realtà, mentre dal suo letto di malato, avvertibili forse fino nell'appartamento di madame Katz, sgorgavano scoppi di riso, geyser di buonumore, zampilli di gioia - quel riso che nasceva in lui insieme dal candore infantile e dalla perfetta comprensione intellettuale della realtà. Ma, di questo prodigio, fu insieme felice e irritato. Era disceso nel regno dell'altro, dove possiamo trovare la felicità ma anche perderci completamente: continuando così, avrebbe potuto divertirsi a riscrivere tutta la letteratura, fino a terrorizzare coloro che prendevano in mano la penna. Ma che gli importava ora di diventare Flaubert o Saint-Simon ? Continuava a sostare indefinitivamente nel vestibolo dell'opera; quello che gli premeva era di scoprire la sua aria e di cantarla finalmente a piena voce. Poi, al tempo della recherche, si sarebbe lasciato ispirare di nuovo dal suo istinto di ventriloquo parodiando personaggi e scrittori e trasformando il testo, come aveva fatto Goethe nel Faust, in una specie di compendio della letteratura universale. Quando arrivò l'estate era di nuovo fermo. Senza un'architettura o una cornice, il libro non procedeva, mentre era proprio di un'architettura, solida come quella delle chiese medioevali, che il suo spirito aveva bisogno. Andò a Cabourg una sera vide sulla diga un'attrice: Lucy Gerard. Era una sera incantevole, in cui il tramonto non aveva dimenticato che un colore: il rosa. Ora il suo vestito era tutto rosa e da lontano metteva sul cielo arancione il colore complementare del crepuscolo. Sono restato a lungo a guardare questa fine macchia rosa, e sono rientrato, raffreddato, quando l'ho vista confondersi con l'orizzonte all'estremità del quale fuggiva come una vela incantata. Tornato a Parigi, nell'autunno, prese una decisione disperata. Avrebbe rinunciato ancora una volta all'opera, fuggendo lontanissimo dal centro, all'esterno del libro, all'esterno di sé stesso, molto più lontano che ai tempi dei pastiches. Forse immaginò che solo così - fuggendo come era abituato a fare - si sarebbe avvicinato al proprio cuore cominciò a rileggere le causeries du lundi, Chateaubriand et son groupe, i portraits contemporaines e decise di scrivere contro Sainte-Beuve e il suo metodo e un giorno misterioso il grande libro si rivelò Tutti sappiamo che il sistema migliore per distruggere qualcuno è farlo rinascere in noi, succhiandone il sangue e l'anima. Così fece anche Proust, che si identificò nascostamente col proprio avversario. Come Sainte-Beuve aveva bruciato le sue riserve e sprecato i suoi pensieri più preziosi nella fabbricazione di quei razzi che, per dieci anni, lanciò ogni lunedì nel cielo con uno splendore incomparabile, anche lui, per tanti anni, aveva sprecato il suo genio nelle gioie della conversazione e nelle forme minori della letteratura. Cos'è un articolo se non una forma peccaminosa di complicità? È una specie di arco che nasce nel nostro pensiero e finisce nell'ammirazione dei nostri lettori. Ogni lunedì mattina, all'ora in cui, d'inverno, il giorno è ancora livido sopra le tende chiuse, Sainte-Beuve apriva le Constitutionel

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e pensava che, nello stesso momento, i suoi pensieri nuovi e brillanti penetravano in tante case di Parigi, «con tutti i particolari in piena luce, e ombre amorosamente accarezzate». Anche lui, giovane debuttante, aveva conosciuto la medesima gioia, pubblicando i propri articoli sul Figaro. Quando il cielo era color della brace, migliaia di giornali, umidi di nebbia e di stampa, più nutrienti e saporosi di una brioche calda, moltiplicavano il suo nome per migliaia di case; e se il sole si alzava, si gonfiava, si illuminava, saltando al di sopra dell'orizzonte violaceo, anche le sue parole salivano in ogni spirito e lo tingevano con la vaga iridescenza dei loro colori. Il “Contre Sainte-Beuve” è un libro delizioso, costruito proprio davanti alla recherche come un padiglione rococò, dove ci soffermiamo a prendere il gelato o ad ascoltare la musica di Strauss, prima di intraprendere la visita della cattedrale incompiuta. È una splendida «conversazione scritta», ancora più bella e seducente di quelle di Sainte-Beuve, dove Proust ostentò la propria intelligenza, come se volesse dimostrarci che nessuno era più intelligente di lui. Ci accorgiamo che Proust è qui, davanti a noi, proprio lui, l'uomo di trentotto anni, che viveva al numero 102 di boulevard Haussmann e soffriva d'asma; non l'altro uomo che viveva nelle sue profondità; e con quella foga che solo l'intelligenza febbrilmente eccitata conosce, difende sé stesso, divulga sé stesso, ironizza, schernisce, offende, dimostra, polemizza, gioca, si intenerisce, dice eleganti perfidie. Alcune pagine critiche, su Baudelaire, Flaubert o Balzac, sono prodigiose: egli traduce il cuore di un'esperienza con delle sensazioni naturali, penetra nell'ultimo segreto di uno stile, come nessuno di noi - che pratichiamo «quella brutta cosa che si chiama critica letteraria» - ha mai saputo. Ma il tono è quello del mondano dilettante di letteratura che conversa in un salotto con degli amici non meno squisiti di lui . Gioca con i libri, li ama come si può amare una donna, un vestito , un tramonto, un gioiello infinitamente futile e infinitamente prezioso; e si accalora, diventa acuto, sottile e vivace, per farsi amare dal piccolo pubblico dei suoi amici. Questo sfoggio d'intelligenza ha uno scopo paradossale: dimostrare che l'intelligenza è una qualità inferiore, che «non crea, si accontenta di districare»; così che uccide sè stessa davanti a noi, dimostrando la propria grandezza e la propria miseria. Questa squisita conversazione dilettantesca ci rivela che la letteratura non ha niente a che fare con quella «conversazione scritta» tra persone raffinate e civili con cui Sainte-Beuve amava confonderla; mentre il dilettantismo letterario è il peggiore tra i peccati. «non dimenticare: i libri sono opera della solitudine e ''figli del silenzio''. I figli del silenzio non devono aver nulla in comune con i figli della parola. Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che noi manifestiamo nelle nostre abitudini, nella società e nei nostri vizi». Così, per la prima volta nella sua vita, Proust si giustificava davanti a sè stesso e all'ombra onnipresente della madre. Quel severo io profondo, che fra poco avrebbe gettato

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sulla carta, non era l'io quotidiano, incantevole e futile, che la madre e gli amici avevano conosciuto. In realtà, questo io profondo egli lo conosceva benissimo: aveva sempre vissuto in lui, ispirando le sue pagine più belle. Era l'io della analogia - l'analogia, questa qualità suprema, che l'uomo ha sempre conosciuto, ma che nei tempi moderni si è come estesa e approfondita e inabissata, perché in essa si sono rifugiate le esperienze che una volta illuminavano le menti dei mistici… Come ogni uomo dell'analogia, Proust, ''moriva istantaneamente nel particolare e si rimetteva immediatamente a fluttuare e a vivere nel generale''; simile a quei grani, che interrompono di germogliare in un'atmosfera troppo secca, ma che un po’ di umidità e di calore basta a risuscitare. Negli ultimi mesi, l'analogia l'aveva visitato sempre più di frequente, come volesse dimostrargli di abbandonarsi completamente a lei, e ora ne raccolse i sussulti in poche pagine densissime. Il pane tostato, imbevuto nella tazza di te, simile al biscotto che gli offriva il nonno, aveva fatto irrompere nella sua memoria odori di gerani, di aranci, una sensazione di straordinaria luce e felicità - tutte le ore felici trascorse nell'infanzia in campagna: le pietre ineguali di un cortile di Parigi avevano risvegliato nel ricordo le pietre ineguali e lisce del battistero di San Marco, e il fiotto di luce e le ombre di Venezia. Febbrilmente abbozzò di nuovo una teoria della memoria. Le ore del passato che si rifugiano negli oggetti materiali, come le anime dei morti nelle leggende celtiche: il caso che le risuscita: l'estasi immobilmente e morbidamente passiva, che allora ci invade; la possibilità che noi abbiamo di cogliere un attimo di vita pura conservata pura - e il suo spessore e il suo volume. Così lo colse un sogno: comporre un libro con frasi ed episodi tratti soltanto dalla sostanza trasparente dei minuti in cui siamo fuori dalla realtà e dal tempo; scrivere un libro soltanto con «gocce di luce» ,analogie o, come avrebbe detto più tardi , «madeleines». Ma come fare, si chiese? Le «gocce di luce» vivono nell'inaccessibile; e lui avrebbe dovuto fare attraversare loro le regioni intermediarie dell'intelligenza, senza lasciarle uccidere da essa, rendendole chiare (così chiede l'intelligenza per farle passare), ma ancora piene di brividi. Mentre si avvicinava al cuore del “Contre

Sainte-Beuve”, tentò questo sforzo decisivo. Una luce pallida palpitava sul davanzale, in una mattina non lontana in cui sua madre era ancora viva: la luce del sole cresceva d'intensità, come la nota di musica sulla quale finisce un'ouverture, e poco dopo il davanzale era dipinto tutto intero e come per sempre da quell'oro sostenuto, composto dagli splendori invariabili di un giorno d'estate. Quel raggio richiamava alla sua memoria gli altri della sua vita: i raggi di sole dell'infanzia, quando doveva andare ai Champs-Elysées; i raggi sulla piazza di Illiers, il raggio che scendeva sull'angelo d'oro del campanile di San Marco a Venezia, splendendo in chiazze di fiamma e portando sulle sue ali abbaglianti «una promessa di bellezza e di gioia più grandi di quella che non portò mai ai cuori cristiani,

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quando venne ad annunciare la gloria di Dio nel cielo e la pace sulla terra agli uomini di buona volontà». Quale promessa avrebbe potuto essere più intensa? Quale resurrezione del passato avrebbe potuto essere più felice?. Pochi mesi prima aveva annotato su un taccuino alcuni sogni in cui gli era apparsa la madre: sospirava, si girava, gemeva, lo pregava di non farla rioperare («non vale la pena di prolungarmi la vita»), abitava non sapeva dove, custodita da una persona ignota; oppure la sentiva indifferente alla propria esistenza e lui si chiedeva:«capirebbe il mio libro?» Sperava di rivederla in un altro mondo – perché tra le leggi dell'analogia c'è anche questa: che il cielo è lo specchio della terra, e vi abitano le stesse persone che incontriamo sulle nostre strade. Così ora rievocò la madre con una dolcezza e uno strazio inesauribili: quella dolcezza che sgorga dalla fontana incessante dell'amore, il quale «zampilla verso la vita eterna», come dice Giovanni .la rievocò in tutti gli atteggiamenti: con la parola inceppata, la voce alterata dall'afasia, il volto già ricoperto dall'ombra livida della morte, mentre sorridendo scherzava ancora con lui; o quando provava timidamente un'aria del coro di Esther, come una delle giovani di Saint-Cyr «e le belle linee del suo volto ebreo, tutto impresso di dolcezza cristiana e di coraggio giansenista» la facevano sembrare Esther stessa: o, quando, con un'aria di distrazione e di indifferenza, posava una copia del Figaro accanto al letto di lui, o nella propria stanza, seduta davanti alla toilette, con un grande accappatoio bianco e i bei capelli neri sparsi sulle spalle, o alla finestra dell'albergo di Venezia, lo scialle sulla balaustra, il cappello di paglia sul capo , il binocolo per avvicinare il figlio a sé con gli sguardi. Voleva erigerle un monumento d'amore? Placare la sua ombra addolorata ed offesa? O cercava soltanto di rispondere alla domanda del sogno :«capirebbe il mio libro ?». Certo, la madre abita questo padiglione che è il “Contre Sainte-Beuve”, perché soltanto attraverso la sua mediazione soltanto conversando con lei Proust poteva penetrare nella recherche. Con il suo sorriso, lei protegge il grande rogo dell'intelligenza; e difende l'ingresso del figlio nel regno delle verità metafisiche.

Poi il libro si estese. Il colloquio con la madre sui libri si allargò ai lettori dei libri: i lettori di Balzac, che portavano già i nomi di conte e di marchese di Guermantes, di madame di Villeparisis, di Gilberte Swann, e che cercavano di possedere una loro esistenza a metà strada tra la realtà e l'opera d'arte. Come lo possediamo oggi , il “Contre Sainte-Beuve” non è un romanzo né un saggio: ma una mescolanza di autobiografia, di romanzo, di saggio critico, di fantasia capricciosa, un'opera ispirata dal genio della divagazione, dove un filo nascosto viene perso e ritrovato continuamente, via via che una nuova associazione di idee attraversava la mente di Proust. Come nelle conversazioni di Coleridge ,che partivano dal nulla per abbracciare tutto il mondo, una vegetazione lussureggiante fiorisce sopra un tronco lievissimo. Prima dell'estate 1909, un giorno che vorremmo ansiosamente

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conoscere, molto più del giorno in cui si svolse la battaglia di Waterloo o della Marna - c'era la nebbia quel giorno? Il campanello del tram si smorzava nell'aria come un tamburo? O si fluidificava e cantava come un violino? O forava col trapano di un piffero il vetro azzurro di un tempo freddo e assolato? - Ci fu un nuovo arresto, e il balzo definitivo. Sfogliando i suoi quaderni, Proust si accorse che lì stavano già nascoste le chiavi di volta del grande libro, al quale l'anno prima aveva girato disperatamente le spalle. L'episodio del pane tostato (presto della «madeleine») intinto nella tazza di te poteva offrire la rivelazione iniziale dell'opera: quello delle pietre ineguali del battistero di san Marco, la rivelazione definitiva; e le pagine sui sonni che nel “Contre Sainte-Beuve” lo introducevano alla mattinata con la madre, avrebbero fornito l'ouverture delle giornate di Combray e del bacio serale. Anche in questo la recherche è un'opera unica. Mentre nel “Meister”, o in “Delitto e castigo” o in “Anna Karenina” o nell'“Uomo senza qualità”, l'illuminazione architettonica giunge tardi, quando tante parti del libro sono state composte, nella recherche la massa foltissima del racconto nasce da questa illuminazione Non potremo raccontare le fasi dello sviluppo, fino a quando non verrà pubblicata la recherche del 1909, della quale conosciamo solo due grossi frammenti. Ma una cosa mi sembra certa. Mentre nel “Contre Sainte-Beuve” Proust sognò un libro fatto di «gocce di luce», di irradiazioni eterne, di «madeleines» ora comprese che la «madeleine» doveva garantirgli soprattutto una robusta struttura. L'estasi davanti all'analogia non poteva essere soltanto passiva: mentre gli si rivela la luce, lo spirito creatore dell'uomo agisce, scarta gli ostacoli, fa il vuoto intorno a sé, per disporsi ad accoglierla. Come negli esempi supremi di estasi mistica, passività ed attività si sciolgono in un movimento solo.

Il libro gli crebbe vorticosamente fra le mani; e ad agosto, quando lo propose ad un editore, comprendeva già cinquecento pagine, che dovevano concludersi «in una lunga conversazione su Sainte-Beuve e l'estetica». Pensava di pubblicarlo nel gennaio o febbraio 1910. Il 15 agosto era al Grand Hotel di Cabourg; dapprima in una camera coi muri coperti di macchie e piena di umidità, che bagnava perfino i fogli delle sue lettere: poi in una stanzetta al quarto piano, vicina a un cortiletto, dove era tributario della superba stanza da bagno del domestico; infine in una stanza troppo nuova, vicino a degli americani. Scriveva fino all'alba inoltrata, e faceva la prima apparizione al ristorante alle nove e mezza di sera. Stava sempre rinchiuso; raggiungeva il casinò attraverso un passaggio interno, non gli importava più vedere il mare - scorgere, come una volta, le colline schiumanti, che ora venivano verso terra danzando, ora svelavano le loro prime ondulazioni dopo una pianura sabbiosa, in una lontana trasparenza vaporosa e bluastra come i ghiacciai dei quadri dei pittori italiani. Sapeva che il testo senza nome non era suo: tutta la storia della letteratura

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l'aveva creato, tutta la sensibilità degli uomini l'aveva foggiato; figlio di tutti gli uomini di genio che all'improvviso, in quella mattina di nebbia o di vetro azzurro, si erano risvegliati in lui. Avrebbe avuto bisogno di tanti artisti per portarlo a termine: un romanziere, un pittore, un musicista, un profumiere, un decoratore, uno scultore, un attore, un poeta, e persino un critico letterario, e forse sarebbe rimasto soltanto un immane fallimento.

Tornato a Parigi, il libro continuò ad espandersi, come una piovra velocissima e gigantesca. Nel novembre pensava che avrebbe compreso tre volumi; e fece leggere le prime duecento pagine - la futura Combray - a Reynaldo Hahn e a Georges de Lauris. I due amici furono entusiasti. Come una di quelle scogliere di corallo del mar indiano a cui Ruskin aveva assomigliato Venezia, un intero mondo si affacciò per loro sulle distese brumose dell'inverno: la lanterna magica, Swann, il bacio della sera, tante Leonie, la chiesa logorata dai mantelli e dalle dita dei contadini, la «dame en rose», la serva che assomigliava alla Carità di Giotto, Bergotte e la Berna e Legrandin e monsieur de Charlus (che si chiamava ancora monsieur de Guercy) e i due «cotés» e tutti quei ricordi e quelle immagini che stavano nascosti nella tazza di te, come i pezzi di carta giapponesi che, appena tuffati nell'acqua, divengono fiori e case e personaggi..

Lui si illudeva che avrebbe finito presto: qualche mese, forse un anno di reclusione. Quella reclusione gli pesava; e andava col pensiero al momento in cui, consegnato il libro, ultimato il dovere che lo incatenava, avrebbe ripreso a vivere, rivedendo i suoi amici, i loro cari visi, le loro care voci e si sarebbe sfamato di loro «in interminabili visite e mute contemplazioni». Che cosa avrebbe fatto, dopo? Jeunes filles, i piaceri che si era negato? Viaggi? Non immaginava che non ci sarebbe stato nessun dopo. L'opera sarebbe rimasta una cattedrale incompiuta: un grandioso fallimento, come tutti i libri degli uomini moderni, perché «nel nostro mondo imperfetto i capolavori dell'arte non sono che i relitti del naufragio delle grandi intelligenze».